Monografie by Giuseppe Scandurra
Un altro mondo è (altrove) possibile, 2023
Quando, nel 2019, sono arrivato per la prima volta a Salinas di Guaranda, un paese sulle Ande de... more Quando, nel 2019, sono arrivato per la prima volta a Salinas di Guaranda, un paese sulle Ande dell'Ecuador a 3.550 metri di altitudine sul livello del mare, non vi era nemmeno una capanna, ma solo case di cemento. Alla fine degli anni Sessanta, però, quando arrivarono i missionari dell'operazione Mato Grosso, Salinas era un piccolo paese fatto di abitazioni di paglia. La maggioranza dei salineros viveva in zone isolate: non c'erano strade, luce elettrica, telefono, fognature, dispensario medico e tutti i campesinos erano sfruttati da una famiglia di latifondisti. A inizio anni Settanta, un gruppo di volontari italiani accompagnati dai salesiani istituirono una cooperativa che permise di ridistribuire la proprietà della terra a tutti i salineros attraverso piccoli prestiti: nacquero, in questo modo, un'economia comunitaria e diverse micro-imprese che non avevano proprietari se non gli stessi salineros. In che modo il "modello" Salinas che si autodefinisce "comunitario", "alternativo" e "critico" rispetto ai modelli economico-politici oggi dominanti in Occidente ci costringe a riflettere circa determinate problematiche connesse al fare un'"antropologia delle politiche"?
Nel 2014, partecipando a un bando dell’Ateneo di Ferrara – PRIA –, abbiamo ottenuto un finanziame... more Nel 2014, partecipando a un bando dell’Ateneo di Ferrara – PRIA –, abbiamo ottenuto un finanziamento per realizzare un’attività di ricerca transdisciplinare della durata di tre anni. Da subito, come gruppo di ricerca composto da urbanisti, architetti e antropologi urbani, abbiamo voluto inscrivere il nostro lavoro all’interno di ciò che l’Unesco nel 2011 ha chiamato il programma Historic Urban Landscape; ovvero quell’insieme di studi, ricerche-azioni, pratiche di rigenerazione e di conservazione integrata del patrimonio storico capaci di generare uno sviluppo sostenibile rafforzando i fattori di equità sociale. Più nello specifico, la nostra ricerca, all’interno di questo approccio, ha individuato strategie e linee guida per un programma di rigenerazione per una zona “pilota” dell'Avana non inclusa nel perimetro del sito Unesco e non oggetto d’interventi di valorizzazione.
Sono arrivato a Bologna nel 2004 dopo aver concluso un dottorato di ricerca in “Antropologia dell... more Sono arrivato a Bologna nel 2004 dopo aver concluso un dottorato di ricerca in “Antropologia della Contemporaneità” all’Università di Milano-Bicocca. Ho preso la mia prima stanza in atto in città durante la campagna elettorale del sindaco Sergio Coferati. Bologna usciva dalla prima amministrazione comunale di centro- destra dal secondo dopoguerra e l’atmosfera era festosa, come di liberazione, dopo i quattro anni di Giunta del sindaco Giorgio Guazzaloca. La ricerca che avevo condotto per il Dottorato dialogava con il contesto di studi legati all’antropologia urbana (Sobrero, 1992; Signorelli, 1996; Callari Galli, 2007; Barberi, 2010; Cancellieri, Scandurra, 2012) e aveva come oggetto una storica periferia di Roma; più nello speci co le pratiche di vita quotidiana di un gruppo di uomini e donne membri di un Comitato di quartiere (Scandurra, 2007, 2008, 2009, 2012). Oggi potrei sintetizzare la domanda al centro di questo studio con queste parole: esiste ancora, in un mondo che descriviamo sempre più come delocalizzato, una relazione reciprocamente costitutiva tra «antropologia e località?» (Appadurai, 1996). Una questione centrale anche nella campagna elettorale a cui assistetti in quell’anno a Bologna, in una città allora in lotta tra la voglia di essere metropoli e quella di essere un piccolo paese.
Nel 2004 ho iniziato a insegnare Antropologia culturale all’Università di Bo- logna e ho cominciato a fare ricerca «in/sulla» città (Eames, Goode, 1977); non conoscevo Bologna e per deformazione professionale non vedevo altro modo di “sentirmi a casa” se non studiandola, se non facendola oggetto di ricerche etnografiche di media/lunga durata.
Questo libro conclude forse la mia curiosità per questa città. Dopo dieci anni di ricerche ho la sensazione che la voglia di conoscere Bologna – oggi sempre più paese e meno metropoli, come avranno modo di vedere i lettori leggendo i saggi raccolti in questo volume –, e quindi di studiarla, sia terminata. Quella distanza che all’inizio mi permise di poter osservarla, descriverla, interpretarla – una di- stanza che nel far ricerca, dunque familiarizzando con essa, si è sempre più ridotta – oggi ha acquisito un’altra forma. Ho abitato in molte case in questi dieci anni e ho due gli che parlano bolognese perché in questa città sono nati e probabilmente vi cresceranno, ma credo che il mio rapporto con Bologna sia cambiato, forse esaurito; e di conseguenza il mio rapporto di ricerca.
Nonostante la presenza di cittadini di origine straniera in Emilia-Romagna sia recente, è possib... more Nonostante la presenza di cittadini di origine straniera in Emilia-Romagna sia recente, è possibile distinguerne tre fasi principali. La prima risale agli anni Ottanta quando il fenomeno era ancora molto contenuto - al di sotto delle 30.000 unità e dell’ 1% della popolazione residente. I paesi di provenienza erano quasi esclusivamente quelli del Nordafrica e si trattava in particolare di lavoratori maschi adulti. I primi inserimenti consistenti di lavoratori di origine di origine straniera, collocatisi nelle fonderie e nei cantieri edili della provincia di Reggio Emilia, risalgono a circa venti anni fa e hanno riguardato soprattutto cittadini emigrati dall’Egitto.
Why take an interest in a football stadium terrace or curva? First of all, since becoming a mass ... more Why take an interest in a football stadium terrace or curva? First of all, since becoming a mass activity, football has certainly been one of the most represented sports in western literature and cinematography. Not only has it been the topic of a romantic, epic and popular literature style translated in several languages, but also food for thought for philosophers and poets. Football has been and still is a great metaphor used to write on our contemporary society and, at the same time, a popular “topic of conversation” used by pubs’ patrons to while away time during boring afternoons and evenings; whether it is being discussed in a working-class neighbourhood bar or in the living room of a gentrified historical centre house, football has always played the role of a cultural glue between “high” and “low” culture. So what could be more anthropological than transforming a pub discussion or a drawing room philosophical debate into a “scientific” subject matter? This is also the reason why football has been regarded by some ethnologists as a “rite”. Others, mostly sociologists, have realized that in studying it there is the opportunity, perhaps the very last one, to write on the surviving conflicting nature of our Western and European culture, seemingly pacified yet still fraught with bellicose instincts.
In recent years ethnographic research has been published in Italy that could fit in a sub-discipl... more In recent years ethnographic research has been published in Italy that could fit in a sub-discipline that the author of this essay tries to synthesize under the term “Anthropology of urban marginality”. A much debated topic of study outside our country, especially from the sixties onwards, after the early generations of Chicago ethnographers. These are the questions that the author wishes to answer in his written: to which extent is it possible to speak of an anthropology of urban marginality in our country? What have these studies achieved in terms of improvement of policies aimed at “marginal individuals” living in our cities? Who reads this research? Have they changed the way of doing research inside university? In brief, what were the consequences of the application of these studies inside and outside University?
This essay is the outcome of an ethnografic research started in september 2001 as doctoral disser... more This essay is the outcome of an ethnografic research started in september 2001 as doctoral dissertation in Anthropology of Contemporariness at the University Milano Bicocca. Purpose of the essay is to tell a story: the story of the school 725, created by the catholic priest Roberto Sardelli, in the bidonville of the Acquedotto Felice, an experience of education among the shanties in the neighbourhood of the quarter Pigneto. The shanty-towns at the border were of the outskirts a landscape typical of Rome before the Eighties. The experience of the school 725 and of the people living in the bidonvilles of Rome is highly significant not only for the history of this specific quarter but for the history of whole city, Rome, which constructed its own identity and community feeling, to a relevant extent, on the basis of the fight for the housing, as it happened specifically in the Pigneto.
Premessa
Quasi cinque milioni sono gli immigrati che regolarmente o irregolarmente vivono in Ital... more Premessa
Quasi cinque milioni sono gli immigrati che regolarmente o irregolarmente vivono in Italia: alimentano con il loro lavoro, con le tasse che pagano, con i loro figli, con la loro vita insomma, la nostra produttività, sia quella legale che quella illegale; aprono le nostre città ad uno scambio di beni, di usi, di tradizioni che strappa gli abitanti, volenti o nolenti, al loro provincialismo, che le apre al fluire della contemporaneità, alle vicende del mondo.
Il nostro Paese riesce, per quanto riguarda le politiche di integrazione, dopo più di venti anni dall’inizio di questo fenomeno, ad ignorarlo, non aderendo a nessuno dei modelli adottati negli altri paesi europei che lo hanno conosciuto ben prima di noi. Rendiamo difficile l’acquisizione dei diritti di cittadinanza tenendoli vincolati allo ius sanguinis, impedendo così la possibilità di innestare un modello di integrazione in qualche modo analogo a quello cui si ispira la legislazione della Francia; né d’altra parte sviluppiamo l’articolarsi di un multiculturalismo che con sistematicità e competenza metta a contatto e confronto attivo le diverse lingue, le diverse tradizioni, i diversi modelli culturali di cui siamo portatori “noi” e “loro”.
Nella realtà dei vissuti quotidiani e dei rapporti con le istituzioni il modello italiano per la maggioranza degli immigrati è un modello che oscilla tra l’esclusione e il laissez faire. E’ una richiesta di rispetto delle nostre leggi senza concedere il diritto di partecipare, in qualche misura, in qualche modo, alla vita delle istituzioni pubbliche del nostro Paese; né particolare attenzione è dedicata a fare conoscere loro significati e valori delle une e delle altre; è una richiesta di condividere i principi su cui si fonda la nostra vita pubblica senza porre in atto i processi per mezzo dei quali sia possibile, prima o poi, parteciparvi a pieno diritto, acquisendo cioè la cittadinanza del nostro Paese. E si assiste così ai casi, paradossali quanto si voglia ma che sono sempre più frequenti, di giovani individui, figli di cittadini immigrati che sono nati in Italia, hanno frequentato le nostre scuole, spesso sono stati immessi nel mondo della formazione e del lavoro e che al compimento del diciottesimo anno di età, risultano essere “clandestini”.
Quarta di copertina: Al centro di questa monografia vi sono gli immaginari di un gruppo di ragazz... more Quarta di copertina: Al centro di questa monografia vi sono gli immaginari di un gruppo di ragazzi di origine straniera, tutti pugili dilettanti di una palestra di boxe della Bolognina, un quartiere della prima periferia bolognese. Entrare in questa palestra nata nel 1950 ha significato fare i conti con 50 anni di pugilato a Bologna, con la storia di uno sport nato nei circoli del Dopolavoro operaio, con la cultura della socialità e del tempo libero in uno dei territori più “popolari” della città. Per questa società pugilistica hanno combattuto, infatti, molti operai che lavoravano nelle numerose fabbriche metalmeccaniche che hanno caratterizzato il territorio della Bolognina. Dall’inizio degli anni Ottanta, con la chiusura delle fabbriche metalmeccaniche e con il contemporaneo arrivo nel quartiere dei primi immigrati - la Bolognina è oggi il territorio dove la loro presenza in città è più significativa -, la palestra ha aperto le porte a pugili di origine non italiana, cambiando i metodi di insegnamento, i tempi di allenamento, la stessa organizzazione sociale. Oggi i giovani pugili che vi allenano sono adolescenti, dai 12 ai 25 anni, che in parte frequentano la scuola, gli istituti tecnici della Bolognina, in parte sono alle prese con le prime esperienze nel mondo del lavoro. Le loro storie sono al centro di questo libro in cui una palestra di boxe è utilizzata come finestra per leggere le trasformazioni che hanno caratterizzato questa prima periferia di Bologna negli ultimi anni.
Oggetto di questo testo è lo spazio pubblico di Piazza Verdi, territorio del centro storico bolog... more Oggetto di questo testo è lo spazio pubblico di Piazza Verdi, territorio del centro storico bolognese spesso rappresentato, in questi ultimi anni, dai media locali e nazionali, come luogo simbolico e fisico del “degrado” che caratterizza il capoluogo emiliano.
A settembre 2007 abbiamo iniziato uno studio su tale territorio. Il gruppo di ricerca è stato composto, nella prima fase di lavoro - settembre 2007/aprile 2008 - da tre ricercatori: la sociologa Elena Rossini, l’antropologo Giuseppe Scandurra e il pedagogista Alessandro Tolomelli. Per quanto riguarda i responsabili scientifici della ricerca hanno ricoperto questi ruoli l’antropologa Matilde Callari Galli e il pedagogista Antonio Genovese per il Dipartimento di Scienze dell’Educazione e il sociologo Maurizio Bergamaschi per il Dipartimento di Sociologia - Università di Bologna.
Obiettivo generale della ricerca è stato, durante questa prima fase di lavoro, riportare l’attenzione su tale contesto indagando i reali motivi per cui si è andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza come luogo simbolo e reale del degrado cittadino. Per far questo abbiamo condotto un’analisi delle problematiche, dei bisogni e delle aspettative messi in evidenza dalla molteplicità degli attori sociali che frequentano Piazza Verdi, le loro pratiche di vita quotidiana, le rispettive modalità di fruizione del luogo, le differenti percezioni e rappresentazioni della piazza prodotte da questi attori sociali. (Rossini, Scandurra, Tolomelli 2009)
Abbiamo inoltre cercato di riportare alla luce la memoria storica del luogo e come questa sia cambiata negli ultimi anni prendendo in analisi momenti significativi - come ad esempio il 1968, 1977 - in cui questo territorio è stato determinante per la produzione di una identità cittadina e Piazza Verdi è divenuto uno dei luoghi simbolo della “bolognesità” e del rapporto tra città e Università .
Piazza Verdi è frequentata da diversi attori sociali in orari diversi e con differenti modalità di utilizzo dello spazio pubblico. Il primo obiettivo specifico che abbiamo perseguito durante la prima fase di lavoro è stato quello di creare una mappa capace di rendere leggibili i diversi usi, percezioni e rappresentazioni del territorio e, allo stesso tempo, produrre una quadro d’insieme relativo a come le diverse istituzioni che operano su questo contesto - Università, Quartiere, Comune, comitati e associazioni del territorio, forze dell’ordine - sono intervenute negli ultimi anni, attraverso differenti progetti, per fare fronte alle problematiche della zona. Tale area, in effetti, è stata recentemente oggetto di interesse da parte delle istituzioni e dei media cittadini e nazionali.
A fronte della molteplici iniziative promosse su Piazza Verdi al fine di risolvere il problema “degrado”, il nostro lavoro piuttosto che produrre soluzioni, si è dato come compito capire cosa si intende oggi, a Bologna, per degrado e perché Piazza Verdi ne sia diventato un luogo-simbolo cittadino quando non nazionale . Per questo abbiamo scelto, da subito, di avvalerci di strumenti di indagine legati alla disciplina antropologica consapevoli che Piazza Verdi rappresenti a tutti gli effetti uno spazio pubblico dove consistente e significativa è la convivenza, alle volte conflittuale, di diversi gruppi sociali che rivendicano il loro diritto a fruire del medesimo spazio pubblico.
A settembre 2009, una volta ottenuti i finanziamenti per proseguire la ricerca abbiamo allargato l’équipe di ricerca coinvolgendo in qualità di ricercatori il giornalista, direttore del mensile bolognese «Piazza Grande», Leonardo Tancredi, e l’antropologa Elisa Castelli, cominciando così la seconda fase di lavoro che abbiamo terminato nell’aprile 2010. In questi altri otto mesi di lavoro ci siamo dati come obiettivo generale quello di approfondire alcuni temi e chiavi di lettura emersi durante la prima fase di ricerca.
Leggendo statistiche e dati demografici risulta evidente come, anche per quanto concerne l’Italia... more Leggendo statistiche e dati demografici risulta evidente come, anche per quanto concerne l’Italia, continua a crescere la quota di popolazione che vive in città. Nel corso del 2007, in tutto il pianeta, questa ha superato la soglia simbolica del 50%. (UN 2008)
Nonostante diverse ricerche sui processi di globalizzazione in atto sottolineano l’accresciuta, quanto asimmetrica mobilità e la compressione spazio-temporale che caratterizza il vivere urbano (Augé 1994), appare estremamente significativo il ruolo giocato dalle nostre città intese come contesti materiali e come forme localizzate delle dinamiche globali e dei processi di ri-territorializzazione (Haesbaert 2001). Queste sono sempre più i centri del potere economico, politico, discorsivo e sociale e, in quanto tali, i luoghi “naturali” di espressione del conflitto sociale. (Brighenti 2010)
La città, anche per questo, è stata al centro di numerose monografie negli ultimi anni. Pubblicazioni - in questo numero della rivista facciamo riferimento soprattutto a quelle nazionali - ad opera di studiosi afferenti a diverse discipline: sociologi, antropologi, geografi, politologi, semiologi, economisti, ma anche, ovviamente, urbanisti, architetti e storici urbani.
Ai lavori della letteratura scientifica vanno poi aggiunti un numero significativo di film, realizzati sempre recentemente e prodotti nel nostro Paese, che hanno come protagonisti specifici contesti urbani. Inoltre, spesso, ieri come oggi, a raccontare meglio di tanti altri le trasformazioni delle nostre città sono grandi romanzieri: opere, tutte, che incidono sempre più sulla costruzione dei nostri “paesaggi urbani immaginari”. (Sandercock e Attili 2010a, 2010 b; Barberi 2010)
Da questa letteratura, più o meno “scientifica”, emerge innanzitutto come la città non sia un mero sfondo dell’agire sociale ma sia piuttosto la forma più complessa dell’interdipendenza umana, ovvero un ambiente costituito da processi specifici e strutturanti (Hannerz 1980; Sassen 1994; Soja 2000). Uno degli obiettivi di questo numero della rivista dedicata agli studi urbani è proprio quella di individuare, analizzare, comprendere qual è la specificità di questi processi raccogliendo contributi degli autori che troviamo più interessanti prodotti negli ultimi dieci anni. Saggi che ci aiutano a comprendere come determinati fenomeni di ri-territorializzazione enfatizzano il locale come spazio di costruzione identitaria. Fenomeni che, pur manifestandosi sotto forme spesso escludenti ci invitano a ricordare quanto gli attori sociali e gli spazi siano in costante interazione reciproca. Contributi, tutti, che riconoscono il nesso fondativo tra città e democrazia (Bagnasco e Le Galès 2003), del fatto cioè che la qualità di una democrazia si distingue anche dal suo atteggiamento verso la città. (Lefebvre 1968; Massey 1995; Isin 2002; Mitchell, 2003)
1. Tracce Urbane
Tre anni fa abbiamo dato vita a un gruppo di lavoro chiamato “Tracce Urbane”. All’origine di questo gruppo ci sono stati numerosi incontri tra un gruppo di ricercatori, con differenti percorsi disciplinari, che più volte, nel corso degli ultimi anni, hanno lavorato insieme al fine di rispondere a questa domanda: come è possibile studiare, rappresentare, progettare insieme la città?
In molti paesi le figure cui le amministrazioni locali e centrali chiedono il supporto tecnico al fine di rispondere praticamente a queste domande sono architetti e ingegneri, alcuni dei quali aggiungono alle proprie qualifiche professionali anche quella di urbanista. Ma cosa può dirci l’urbanistica oggi? Perché, oggi, gli architetti, gli urbanisti denunciano l’attraversamento di una crisi disciplinare? (Cellamare 2008)
A questo va aggiunto che esiste un altro sapere urbano, quello delle scienze sociali, che in Italia non ha mai ottenuto un riconoscimento istituzionale circa la propria competenza a prendere parola sulla città, nonostante la sociologia europea e quella americana siano nate tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, proprio in stretto rapporto con la prima industrializzazione, l’urbanesimo e le trasformazioni delle città in metropoli industriali. Se pensiamo all’antropologia, studiosi come Alberto Sobrero (1992) e Amalia Signorelli (1996), autori dei due manuali di antropologia urbana pubblicati negli anni Novanta, sottolineano, per esempio, una sensibile carenza nella formulazione di un solido fondamento teorico-metodologico capace di motivare la scelta dell’antropologia in direzione della ricerca urbana. Se per ricerche urbane intendiamo teorie e pratiche su come circoscrivere il campo, definire l’oggetto di ricerca, isolarne le caratteristiche, elaborare un metodo specifico di analisi e le forme di rappresentazioni conseguenti, a quanti lavori, nel campo delle scienze sociali, potremmo riconoscere questo contributo? (Semi 2006)
Se pensiamo alle ricerche che hanno concentrato lo sguardo sulle realtà urbane del nostro Paese non possiamo nascondere come appaia necessario violare alcuni “paletti accademici”. Un altro degli obiettivi di Tracce Urbane è dimostrare come, utilizzando la pratica etnografica, molti sguardi disciplinari possono integrarsi; ancora di più siamo convinti di come, proprio partendo dalla specificità urbana, sia possibile costruire un campo di studi transdisciplinari. Infatti il primo volume pubblicato da questo gruppo di ricercatori (Cancellieri e Scandurra, 2012) è nato proprio dall’esigenza di un dialogo interdisciplinare, in particolare di uno sguardo incrociato tra urbanisti e scienziati sociali che metta al centro sia ricerche empiriche che riflessioni teoriche. Un dialogo che parta dall’assunzione riflessiva del rischio di andare oltre i confini delle proprie discipline senza abolirle, ma anzi valorizzandone, attraverso lo scambio, i rispettivi sguardi.
Sono arrivato a Bologna nel 2004 dopo aver concluso la ricerca per il Dottorato in “Antropologia ... more Sono arrivato a Bologna nel 2004 dopo aver concluso la ricerca per il Dottorato in “Antropologia della Contemporaneità” all’Università di Milano-Bicocca. Ho preso la mia prima stanza in affitto in città durante la campagna elettorale del sindaco Sergio Cofferati. Bologna usciva dalla prima amministrazione comunale di centro-destra dal Dopoguerra e l’atmosfera era festosa, come di liberazione dopo i quattro anni guidati dal sindaco Giorgio Guazzaloca. La ricerca che avevo condotto per il Dottorato dialogava con il contesto di studi legati all’antropologia urbana (Sobrero 1992; Signorelli 1996; Callari Galli 2007; Barberi 2010; Cancellieri e Scandurra 2012) e aveva come oggetto una periferia di Roma, il Pigneto; in particolare, le pratiche di vita quotidiana di un gruppo di uomini e donne membri di un Comitato di Quartiere. La domanda al centro dello studio poteva essere così sintetizzata: esiste ancora, in un mondo che descriviamo sempre più come delocalizzato, una relazione reciprocamente costitutiva tra antropologia e località? (Appadurai 1996). Una domanda centrale anche nella campagna elettorale a cui assistetti in quell’anno a Bologna, in una città allora in lotta tra la voglia di essere metropoli e quella di essere un piccolo paese.
Nel 2004 ho iniziato a insegnare antropologia culturale all’università di Bologna e ho iniziato a fare ricerca in città - sulla città è più esatto (Eames, Goode 1977). Non conoscevo Bologna e, per deformazione professionale, non vedevo altro modo di ambientarmi se non studiandola, se non facendola oggetto di o ricerche etnografiche di lunga durata. Questo libro conclude forse questa curiosità, la mia curiosità per questa città. Dopo dieci anni di ricerche ho la sensazione di aver preso molto da questo paese con aspirazioni metropolitane, ma anche di aver dato abbastanza. Ho la sensazione che la voglia di conoscerla, e quindi di studiarla, sia terminata. Quella distanza che all’inizio mi permise di poter osservarla, descriverla, interpretarla - una distanza che, nel far ricerca, si riduceva sempre più familiarizzando con essa - oggi ha acquisito un’altra forma. Ho abitato in molte case in questi dieci anni e ho due figli che parlano bolognese perché in questa città sono nati e forse vi cresceranno, ma credo che il mio rapporto con Bologna sia cambiato, forse esaurito - e di conseguenza il mio rapporto di ricerca.
Quando sono arrivato avevo ovviamente delle rappresentazioni su questa città (Fabietti 1999). Nelle classifiche sulla qualità della vita pubblicate su «Il Sole 24 ore» Bologna in quell’anno appariva come prima. Fino al 2004, però, soprattutto durante i tre anni del Dottorato, io conoscevo della città solo il sottopassaggio della stazione centrale, dove ho passato molto tempo ad aspettare i treni che andavano a Roma - dove ho abitato fino al 2004 - e a Milano - dove per l’appunto svolgevo l’attività di Dottorato. In più occasioni, proprio in questo spazio di attesa, più di una volta sono stato oggetto di richieste - sigarette che monetine per lo più - da parte di senza fissa dimora che facevano su e giù tra i binari della stazione. Ogni volta mi sono chiesto che relazione ci fosse tra le statistiche de «Il Sole 24 ore» e la presenza di così numerosi barboni. Questa è stata la mia prima curiosità di ricerca.
Nel settembre 2004 fino al dicembre 2005 ho realizzato così un progetto di ricerca finalizzato a produrre una mappa delle realtà riguardanti l’emarginazione sociale a Bologna - dormitori, politiche di accoglienza, storie di vita di senza fissa dimora etc.-, al fine di capire, oggi, che tipologie di persone sono quelle che vivono per strada considerando il fatto che quasi mai si tratta di una libera scelta. Soprattutto, quali sono i circoli viziosi che non permettono a questi attori sociali, nel contesto cittadino bolognese, di cambiare vita (Scandurra 2005). Sempre dentro il contesto degli studi urbani, concentrando però l’attenzione su specifici processi di esclusione sociale (Bergmaschi, Guidicini e Pieretti 2004; Bonadonna 2001, Barnao 2004, Tosi Cambini 2005; Scandurra 2013), ho iniziato a interessarmi alla formazione di nuove povertà e le pratiche di vita quotidiana agite da persone che vivono in strada e rivendicano una “cultura” di strada, la qual cosa mi ha costretto a interrogarmi sulla relazione tra cultura e cittadinanza. Ho studiato le pratiche di un gruppo di senza fissa dimora ospiti del dormitorio pubblico di Bologna “Massimo Zaccarelli”, ampliando poi lo sguardo a specifici territori periferici del capoluogo emiliano-romagnolo, al fine di capire se è possibile parlare in città di fenomeni di impoverimento collettivo; e ancora, se questi processi colpiscono tutti o in particolare determinati attori sociali che vivono nel territorio.
Allargando il campo della ricerca ho continuato a indagare questi temi ponendo l’attenzione sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di immigrati rom romeni senza casa che vivono nella prima periferia bolognese, a sud della città, iniziando a dialogare, sempre dentro il grande contenitore degli studi urbani, anche con il campo di studi dell’antropologia dell’immigrazione. (Antonelli e Scandurra 2008). Inoltre, rivolgendo lo sguardo alle politiche per l’inclusione sociale ho proseguito questi interessi come membro del gruppo di studio “Nuove povertà” dell’Istituto Fondazione Gramsci-Emilia Romagna (Scandurra 2013) e come capofila dell’unità locale di Ferrara che, all’interno di un progetto Prin 2011, si occuperà nei prossimi anni di studiare le politiche di accoglienza e di inclusione sociale promosse dalla regione Emilia Romagna e in particolar modo dalla Provincia di Ferrara .
Nel gennaio del 2007 ho iniziato, con la collega Fulvia Antonelli, una ricerca sulle palestre di pugilato di un quartiere periferico di Bologna, Bolognina, al fine di capire che funzione sociale hanno queste palestre e che rapporto c’è tra la strada e lo sport pugilistico. La maggior parte degli iscritti in palestra è costituita da ragazzi di origine straniera, il che mi ha dato modo di studiare gli immaginari, le rappresentazioni, le pratiche di vita quotidiana di un gruppo di adolescenti di «seconda generazione» (Antonelli e Scandurra 2010). Tale ricerca mi ha permesso di dialogare anche con due altri campi di studi su cui ho poi continuato a lavorare, ovvero quello legato all’antropologia dello sport (Satta e Scandurra 2013) e quello legato alle seconde generazioni (Callari Galli e Scandurra 2009). Nell’ultimo anno, infatti, insieme al giornalista Leonardo Tancredi, sto lavorando sulle rappresentazioni e le pratiche quotidiane di un gruppo di tifosi che costituiscono la curva del Bologna calcio. Gli ultras della squadra del capoluogo emiliano ci stanno infatti dando modo di utilizzare tale curva calcistica come finestra per leggere al meglio la città di Bologna e come è cambiata negli ultimi anni (Scandurra e Tancredi 2014).
Una volta conclusa la ricerca sulla boxe, ho continuato a condurre studi urbani, attraverso il metodo etnografico, indagando lo spazio pubblico di piazza Verdi a Bologna (Castelli, Scandurra, Tancredi e Tolomelli 2011). L’interesse verso gli spazi pubblici urbani sono continuati quando, La seconda, insieme alla collega sociologa Maria Antonietta Trasforini, ho deciso di iniziare nel febbraio del 2012 una ricerca a Tunisi, al fine di capire il ruolo che la cultura e l’arte stanno svolgendo nel produrre le trasformazioni sociali e politiche che hanno avuto e hanno come teatro la capitale tunisina a partire dalle “Primavere Arabe”. (Scandurra 2013)
Più in generale, la passione per indagare temi e questioni legati agli studi urbani è proseguita dando vita, insieme a un gruppo di colleghi, al gruppo transdisciplinare di studi urbani “Tracce Urbane” (Cancellieri e Scandurra 2012) e dirigendo, con il collega sociologo Alfredo Alietti, il Laboratorio di Studi Urbani del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara che, negli ultimi due anni, ha organizzato numerosi seminari invitando studiosi urbani nazionali e internazionali .
Per questo volume ho pensato di selezionare, all’interno di questi ambiti di studio, quattro saggi che potessero sintetizzare i campi di ricerca sui cui ho lavorato negli ultimi anni, che così posso riassumere.
a) Antropologia Urbana: studio di “comunità urbane”, comunità di quartiere, comitati e associazioni territoriali, nascita di sobborghi e di enclave, trasformazioni delle periferie, processi di gentrificazione, suburbanizzazione, zonizzazione, processi di progettazione partecipata, processi di produzione di “località”; nozione di “spazio pubblico”.
b) Antropologia dell’Esclusione Sociale: formazione di nuove povertà, nozione di “degrado” e di “povertà”, politiche sociali e diritti di cittadinanza, raccolta di storie di vita di “esclusi” dal territorio, “nuove povertà”.
c) Antropologia dell’Immigrazione e Comunicazione Interculturale: politiche dell’accoglienza, nozione di “cultura”, studi multiculturali, politiche migratorie, studi sulle “seconde generazioni”; politiche per l’’inclusione sociale degli immigrati.
d) Antropologia dello Sport: lo sport come attività per costruire identità individuali e collettive e gruppi caratterizzati da intimità culturale, “comunità di pratiche”.
Papers by Giuseppe Scandurra
ARACNE editrice Srl eBooks, 2010
Al centro di questa monografia vi sono gli immaginari di un gruppo di ragazzi di origine stranier... more Al centro di questa monografia vi sono gli immaginari di un gruppo di ragazzi di origine straniera, tutti pugili dilettanti di una palestra di boxe della Bolognina, un quartiere della prima periferia bolognese. Per questa società pugilistica hanno combattuto molti operai che lavoravano nelle numerose fabbriche metalmeccaniche che hanno caratterizzato il territorio della Bolognina. Dall’inizio degli anni Ottanta, con la chiusura delle fabbriche metalmeccaniche e con il contemporaneo arrivo nel quartiere dei primi immigrati, la palestra ha aperto le porte a pugili di origine non italiana. Le loro storie sono al centro di questo libro in cui una palestra di boxe è utilizzata come finestra per leggere le trasformazioni che hanno caratterizzato questa prima periferia di Bologna negli ultimi anni
DADA Rivista di Antropologia post-globale, 2017
Why take an interest in a football stadium terrace or curva? First of all, since it has become a ... more Why take an interest in a football stadium terrace or curva? First of all, since it has become a mass activity, football has certainly been one of the most represented sports in western literature and cinematography. Not only has it been the topic of a romantic, epic and popular literature style translated in several languages, but also food for thought for philosophers and poets. Football has been and still is a great metaphor used to write on our contemporary society and, at the same time, a popular "topic of conversation" used by pubs' patrons to while away time during boring afternoons and evenings; whether it is being discussed in a working-class neighbourhood bar or in the living room of a gentrified historical centre house, football has always played the role of a cultural glue between "high" and "low" culture. So what could be more anthropological than transforming a pub discussion or a drawing room philosophical debate into a "scientif...
Abstract The paper describes the social organization of a boxing gym, Tranvieri, located in Bolog... more Abstract The paper describes the social organization of a boxing gym, Tranvieri, located in Bolognina, a working class neighbourhood in the city of Bologna which has changed rapidly in the last 20 years due to the closing of factories and the arrival of immigrants, especially ...
This paper present in short the result of a research focused on Giuseppe Verdi Square (Bologna) a... more This paper present in short the result of a research focused on Giuseppe Verdi Square (Bologna) as public space. The aim of the research was to carry out the different perspectives and interpretation of the square by the different local users. Piazza Verdi, situated in the historic centre of Bologna, is often represented in recent years as a pragmatic place of the "damage" that characterizes the town. In September 2007 the research began, promoted by the Office of Culture & Cor-porate Communication of the University of Bologna in collaboration with the Department of Education and the Department of Sociology, and it’s completed in October 2008. The group of research conducted an analysis of the issues, needs and expectations highlighted by the multiplicity of social actors who use Giuseppe Verdi Square, their practices of daily life, their methods of use of the site, different perceptions and representations of the square produced by these social actors. Besides, it raises ...
Oggetto di questo articolo e la formazione di una rete di intellettuali a Ferrara tra l’inizio de... more Oggetto di questo articolo e la formazione di una rete di intellettuali a Ferrara tra l’inizio degli anni Cinquanta e la fine degli anni Ottanta che hanno prodotto fuori e dentro le Mura cittadine una serie di opere visive – se pensiamo alla pittura, alla fotografia, al cinema, alla videoarte – di scritti – reportage, inchieste sociali, saggi, poesie, racconti, romanzi – di difficile classificazione. Alla base dello sguardo analitico di questa generazione di intellettuali vi era un punto di vista fortemente transdisciplinare laddove le separazioni tra discipline – a cominciare da quella studi scientifici/umanistici – erano meno evidenti, vista anche l’assenza di facolta umanistiche e l’istituzione della prima cattedra di Antropologia a Ferrara solo nel 2008/2009. La domanda al centro di questo articolo e: prima della nascita di una cattedra di antropologia in che modo studiosi dallo sguardo urbano e artisti hanno prodotto pensieri ibridi, frutto di una contaminazione, attraverso un ...
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Monografie by Giuseppe Scandurra
Nel 2004 ho iniziato a insegnare Antropologia culturale all’Università di Bo- logna e ho cominciato a fare ricerca «in/sulla» città (Eames, Goode, 1977); non conoscevo Bologna e per deformazione professionale non vedevo altro modo di “sentirmi a casa” se non studiandola, se non facendola oggetto di ricerche etnografiche di media/lunga durata.
Questo libro conclude forse la mia curiosità per questa città. Dopo dieci anni di ricerche ho la sensazione che la voglia di conoscere Bologna – oggi sempre più paese e meno metropoli, come avranno modo di vedere i lettori leggendo i saggi raccolti in questo volume –, e quindi di studiarla, sia terminata. Quella distanza che all’inizio mi permise di poter osservarla, descriverla, interpretarla – una di- stanza che nel far ricerca, dunque familiarizzando con essa, si è sempre più ridotta – oggi ha acquisito un’altra forma. Ho abitato in molte case in questi dieci anni e ho due gli che parlano bolognese perché in questa città sono nati e probabilmente vi cresceranno, ma credo che il mio rapporto con Bologna sia cambiato, forse esaurito; e di conseguenza il mio rapporto di ricerca.
Quasi cinque milioni sono gli immigrati che regolarmente o irregolarmente vivono in Italia: alimentano con il loro lavoro, con le tasse che pagano, con i loro figli, con la loro vita insomma, la nostra produttività, sia quella legale che quella illegale; aprono le nostre città ad uno scambio di beni, di usi, di tradizioni che strappa gli abitanti, volenti o nolenti, al loro provincialismo, che le apre al fluire della contemporaneità, alle vicende del mondo.
Il nostro Paese riesce, per quanto riguarda le politiche di integrazione, dopo più di venti anni dall’inizio di questo fenomeno, ad ignorarlo, non aderendo a nessuno dei modelli adottati negli altri paesi europei che lo hanno conosciuto ben prima di noi. Rendiamo difficile l’acquisizione dei diritti di cittadinanza tenendoli vincolati allo ius sanguinis, impedendo così la possibilità di innestare un modello di integrazione in qualche modo analogo a quello cui si ispira la legislazione della Francia; né d’altra parte sviluppiamo l’articolarsi di un multiculturalismo che con sistematicità e competenza metta a contatto e confronto attivo le diverse lingue, le diverse tradizioni, i diversi modelli culturali di cui siamo portatori “noi” e “loro”.
Nella realtà dei vissuti quotidiani e dei rapporti con le istituzioni il modello italiano per la maggioranza degli immigrati è un modello che oscilla tra l’esclusione e il laissez faire. E’ una richiesta di rispetto delle nostre leggi senza concedere il diritto di partecipare, in qualche misura, in qualche modo, alla vita delle istituzioni pubbliche del nostro Paese; né particolare attenzione è dedicata a fare conoscere loro significati e valori delle une e delle altre; è una richiesta di condividere i principi su cui si fonda la nostra vita pubblica senza porre in atto i processi per mezzo dei quali sia possibile, prima o poi, parteciparvi a pieno diritto, acquisendo cioè la cittadinanza del nostro Paese. E si assiste così ai casi, paradossali quanto si voglia ma che sono sempre più frequenti, di giovani individui, figli di cittadini immigrati che sono nati in Italia, hanno frequentato le nostre scuole, spesso sono stati immessi nel mondo della formazione e del lavoro e che al compimento del diciottesimo anno di età, risultano essere “clandestini”.
A settembre 2007 abbiamo iniziato uno studio su tale territorio. Il gruppo di ricerca è stato composto, nella prima fase di lavoro - settembre 2007/aprile 2008 - da tre ricercatori: la sociologa Elena Rossini, l’antropologo Giuseppe Scandurra e il pedagogista Alessandro Tolomelli. Per quanto riguarda i responsabili scientifici della ricerca hanno ricoperto questi ruoli l’antropologa Matilde Callari Galli e il pedagogista Antonio Genovese per il Dipartimento di Scienze dell’Educazione e il sociologo Maurizio Bergamaschi per il Dipartimento di Sociologia - Università di Bologna.
Obiettivo generale della ricerca è stato, durante questa prima fase di lavoro, riportare l’attenzione su tale contesto indagando i reali motivi per cui si è andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza come luogo simbolo e reale del degrado cittadino. Per far questo abbiamo condotto un’analisi delle problematiche, dei bisogni e delle aspettative messi in evidenza dalla molteplicità degli attori sociali che frequentano Piazza Verdi, le loro pratiche di vita quotidiana, le rispettive modalità di fruizione del luogo, le differenti percezioni e rappresentazioni della piazza prodotte da questi attori sociali. (Rossini, Scandurra, Tolomelli 2009)
Abbiamo inoltre cercato di riportare alla luce la memoria storica del luogo e come questa sia cambiata negli ultimi anni prendendo in analisi momenti significativi - come ad esempio il 1968, 1977 - in cui questo territorio è stato determinante per la produzione di una identità cittadina e Piazza Verdi è divenuto uno dei luoghi simbolo della “bolognesità” e del rapporto tra città e Università .
Piazza Verdi è frequentata da diversi attori sociali in orari diversi e con differenti modalità di utilizzo dello spazio pubblico. Il primo obiettivo specifico che abbiamo perseguito durante la prima fase di lavoro è stato quello di creare una mappa capace di rendere leggibili i diversi usi, percezioni e rappresentazioni del territorio e, allo stesso tempo, produrre una quadro d’insieme relativo a come le diverse istituzioni che operano su questo contesto - Università, Quartiere, Comune, comitati e associazioni del territorio, forze dell’ordine - sono intervenute negli ultimi anni, attraverso differenti progetti, per fare fronte alle problematiche della zona. Tale area, in effetti, è stata recentemente oggetto di interesse da parte delle istituzioni e dei media cittadini e nazionali.
A fronte della molteplici iniziative promosse su Piazza Verdi al fine di risolvere il problema “degrado”, il nostro lavoro piuttosto che produrre soluzioni, si è dato come compito capire cosa si intende oggi, a Bologna, per degrado e perché Piazza Verdi ne sia diventato un luogo-simbolo cittadino quando non nazionale . Per questo abbiamo scelto, da subito, di avvalerci di strumenti di indagine legati alla disciplina antropologica consapevoli che Piazza Verdi rappresenti a tutti gli effetti uno spazio pubblico dove consistente e significativa è la convivenza, alle volte conflittuale, di diversi gruppi sociali che rivendicano il loro diritto a fruire del medesimo spazio pubblico.
A settembre 2009, una volta ottenuti i finanziamenti per proseguire la ricerca abbiamo allargato l’équipe di ricerca coinvolgendo in qualità di ricercatori il giornalista, direttore del mensile bolognese «Piazza Grande», Leonardo Tancredi, e l’antropologa Elisa Castelli, cominciando così la seconda fase di lavoro che abbiamo terminato nell’aprile 2010. In questi altri otto mesi di lavoro ci siamo dati come obiettivo generale quello di approfondire alcuni temi e chiavi di lettura emersi durante la prima fase di ricerca.
Nonostante diverse ricerche sui processi di globalizzazione in atto sottolineano l’accresciuta, quanto asimmetrica mobilità e la compressione spazio-temporale che caratterizza il vivere urbano (Augé 1994), appare estremamente significativo il ruolo giocato dalle nostre città intese come contesti materiali e come forme localizzate delle dinamiche globali e dei processi di ri-territorializzazione (Haesbaert 2001). Queste sono sempre più i centri del potere economico, politico, discorsivo e sociale e, in quanto tali, i luoghi “naturali” di espressione del conflitto sociale. (Brighenti 2010)
La città, anche per questo, è stata al centro di numerose monografie negli ultimi anni. Pubblicazioni - in questo numero della rivista facciamo riferimento soprattutto a quelle nazionali - ad opera di studiosi afferenti a diverse discipline: sociologi, antropologi, geografi, politologi, semiologi, economisti, ma anche, ovviamente, urbanisti, architetti e storici urbani.
Ai lavori della letteratura scientifica vanno poi aggiunti un numero significativo di film, realizzati sempre recentemente e prodotti nel nostro Paese, che hanno come protagonisti specifici contesti urbani. Inoltre, spesso, ieri come oggi, a raccontare meglio di tanti altri le trasformazioni delle nostre città sono grandi romanzieri: opere, tutte, che incidono sempre più sulla costruzione dei nostri “paesaggi urbani immaginari”. (Sandercock e Attili 2010a, 2010 b; Barberi 2010)
Da questa letteratura, più o meno “scientifica”, emerge innanzitutto come la città non sia un mero sfondo dell’agire sociale ma sia piuttosto la forma più complessa dell’interdipendenza umana, ovvero un ambiente costituito da processi specifici e strutturanti (Hannerz 1980; Sassen 1994; Soja 2000). Uno degli obiettivi di questo numero della rivista dedicata agli studi urbani è proprio quella di individuare, analizzare, comprendere qual è la specificità di questi processi raccogliendo contributi degli autori che troviamo più interessanti prodotti negli ultimi dieci anni. Saggi che ci aiutano a comprendere come determinati fenomeni di ri-territorializzazione enfatizzano il locale come spazio di costruzione identitaria. Fenomeni che, pur manifestandosi sotto forme spesso escludenti ci invitano a ricordare quanto gli attori sociali e gli spazi siano in costante interazione reciproca. Contributi, tutti, che riconoscono il nesso fondativo tra città e democrazia (Bagnasco e Le Galès 2003), del fatto cioè che la qualità di una democrazia si distingue anche dal suo atteggiamento verso la città. (Lefebvre 1968; Massey 1995; Isin 2002; Mitchell, 2003)
1. Tracce Urbane
Tre anni fa abbiamo dato vita a un gruppo di lavoro chiamato “Tracce Urbane”. All’origine di questo gruppo ci sono stati numerosi incontri tra un gruppo di ricercatori, con differenti percorsi disciplinari, che più volte, nel corso degli ultimi anni, hanno lavorato insieme al fine di rispondere a questa domanda: come è possibile studiare, rappresentare, progettare insieme la città?
In molti paesi le figure cui le amministrazioni locali e centrali chiedono il supporto tecnico al fine di rispondere praticamente a queste domande sono architetti e ingegneri, alcuni dei quali aggiungono alle proprie qualifiche professionali anche quella di urbanista. Ma cosa può dirci l’urbanistica oggi? Perché, oggi, gli architetti, gli urbanisti denunciano l’attraversamento di una crisi disciplinare? (Cellamare 2008)
A questo va aggiunto che esiste un altro sapere urbano, quello delle scienze sociali, che in Italia non ha mai ottenuto un riconoscimento istituzionale circa la propria competenza a prendere parola sulla città, nonostante la sociologia europea e quella americana siano nate tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, proprio in stretto rapporto con la prima industrializzazione, l’urbanesimo e le trasformazioni delle città in metropoli industriali. Se pensiamo all’antropologia, studiosi come Alberto Sobrero (1992) e Amalia Signorelli (1996), autori dei due manuali di antropologia urbana pubblicati negli anni Novanta, sottolineano, per esempio, una sensibile carenza nella formulazione di un solido fondamento teorico-metodologico capace di motivare la scelta dell’antropologia in direzione della ricerca urbana. Se per ricerche urbane intendiamo teorie e pratiche su come circoscrivere il campo, definire l’oggetto di ricerca, isolarne le caratteristiche, elaborare un metodo specifico di analisi e le forme di rappresentazioni conseguenti, a quanti lavori, nel campo delle scienze sociali, potremmo riconoscere questo contributo? (Semi 2006)
Se pensiamo alle ricerche che hanno concentrato lo sguardo sulle realtà urbane del nostro Paese non possiamo nascondere come appaia necessario violare alcuni “paletti accademici”. Un altro degli obiettivi di Tracce Urbane è dimostrare come, utilizzando la pratica etnografica, molti sguardi disciplinari possono integrarsi; ancora di più siamo convinti di come, proprio partendo dalla specificità urbana, sia possibile costruire un campo di studi transdisciplinari. Infatti il primo volume pubblicato da questo gruppo di ricercatori (Cancellieri e Scandurra, 2012) è nato proprio dall’esigenza di un dialogo interdisciplinare, in particolare di uno sguardo incrociato tra urbanisti e scienziati sociali che metta al centro sia ricerche empiriche che riflessioni teoriche. Un dialogo che parta dall’assunzione riflessiva del rischio di andare oltre i confini delle proprie discipline senza abolirle, ma anzi valorizzandone, attraverso lo scambio, i rispettivi sguardi.
Nel 2004 ho iniziato a insegnare antropologia culturale all’università di Bologna e ho iniziato a fare ricerca in città - sulla città è più esatto (Eames, Goode 1977). Non conoscevo Bologna e, per deformazione professionale, non vedevo altro modo di ambientarmi se non studiandola, se non facendola oggetto di o ricerche etnografiche di lunga durata. Questo libro conclude forse questa curiosità, la mia curiosità per questa città. Dopo dieci anni di ricerche ho la sensazione di aver preso molto da questo paese con aspirazioni metropolitane, ma anche di aver dato abbastanza. Ho la sensazione che la voglia di conoscerla, e quindi di studiarla, sia terminata. Quella distanza che all’inizio mi permise di poter osservarla, descriverla, interpretarla - una distanza che, nel far ricerca, si riduceva sempre più familiarizzando con essa - oggi ha acquisito un’altra forma. Ho abitato in molte case in questi dieci anni e ho due figli che parlano bolognese perché in questa città sono nati e forse vi cresceranno, ma credo che il mio rapporto con Bologna sia cambiato, forse esaurito - e di conseguenza il mio rapporto di ricerca.
Quando sono arrivato avevo ovviamente delle rappresentazioni su questa città (Fabietti 1999). Nelle classifiche sulla qualità della vita pubblicate su «Il Sole 24 ore» Bologna in quell’anno appariva come prima. Fino al 2004, però, soprattutto durante i tre anni del Dottorato, io conoscevo della città solo il sottopassaggio della stazione centrale, dove ho passato molto tempo ad aspettare i treni che andavano a Roma - dove ho abitato fino al 2004 - e a Milano - dove per l’appunto svolgevo l’attività di Dottorato. In più occasioni, proprio in questo spazio di attesa, più di una volta sono stato oggetto di richieste - sigarette che monetine per lo più - da parte di senza fissa dimora che facevano su e giù tra i binari della stazione. Ogni volta mi sono chiesto che relazione ci fosse tra le statistiche de «Il Sole 24 ore» e la presenza di così numerosi barboni. Questa è stata la mia prima curiosità di ricerca.
Nel settembre 2004 fino al dicembre 2005 ho realizzato così un progetto di ricerca finalizzato a produrre una mappa delle realtà riguardanti l’emarginazione sociale a Bologna - dormitori, politiche di accoglienza, storie di vita di senza fissa dimora etc.-, al fine di capire, oggi, che tipologie di persone sono quelle che vivono per strada considerando il fatto che quasi mai si tratta di una libera scelta. Soprattutto, quali sono i circoli viziosi che non permettono a questi attori sociali, nel contesto cittadino bolognese, di cambiare vita (Scandurra 2005). Sempre dentro il contesto degli studi urbani, concentrando però l’attenzione su specifici processi di esclusione sociale (Bergmaschi, Guidicini e Pieretti 2004; Bonadonna 2001, Barnao 2004, Tosi Cambini 2005; Scandurra 2013), ho iniziato a interessarmi alla formazione di nuove povertà e le pratiche di vita quotidiana agite da persone che vivono in strada e rivendicano una “cultura” di strada, la qual cosa mi ha costretto a interrogarmi sulla relazione tra cultura e cittadinanza. Ho studiato le pratiche di un gruppo di senza fissa dimora ospiti del dormitorio pubblico di Bologna “Massimo Zaccarelli”, ampliando poi lo sguardo a specifici territori periferici del capoluogo emiliano-romagnolo, al fine di capire se è possibile parlare in città di fenomeni di impoverimento collettivo; e ancora, se questi processi colpiscono tutti o in particolare determinati attori sociali che vivono nel territorio.
Allargando il campo della ricerca ho continuato a indagare questi temi ponendo l’attenzione sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di immigrati rom romeni senza casa che vivono nella prima periferia bolognese, a sud della città, iniziando a dialogare, sempre dentro il grande contenitore degli studi urbani, anche con il campo di studi dell’antropologia dell’immigrazione. (Antonelli e Scandurra 2008). Inoltre, rivolgendo lo sguardo alle politiche per l’inclusione sociale ho proseguito questi interessi come membro del gruppo di studio “Nuove povertà” dell’Istituto Fondazione Gramsci-Emilia Romagna (Scandurra 2013) e come capofila dell’unità locale di Ferrara che, all’interno di un progetto Prin 2011, si occuperà nei prossimi anni di studiare le politiche di accoglienza e di inclusione sociale promosse dalla regione Emilia Romagna e in particolar modo dalla Provincia di Ferrara .
Nel gennaio del 2007 ho iniziato, con la collega Fulvia Antonelli, una ricerca sulle palestre di pugilato di un quartiere periferico di Bologna, Bolognina, al fine di capire che funzione sociale hanno queste palestre e che rapporto c’è tra la strada e lo sport pugilistico. La maggior parte degli iscritti in palestra è costituita da ragazzi di origine straniera, il che mi ha dato modo di studiare gli immaginari, le rappresentazioni, le pratiche di vita quotidiana di un gruppo di adolescenti di «seconda generazione» (Antonelli e Scandurra 2010). Tale ricerca mi ha permesso di dialogare anche con due altri campi di studi su cui ho poi continuato a lavorare, ovvero quello legato all’antropologia dello sport (Satta e Scandurra 2013) e quello legato alle seconde generazioni (Callari Galli e Scandurra 2009). Nell’ultimo anno, infatti, insieme al giornalista Leonardo Tancredi, sto lavorando sulle rappresentazioni e le pratiche quotidiane di un gruppo di tifosi che costituiscono la curva del Bologna calcio. Gli ultras della squadra del capoluogo emiliano ci stanno infatti dando modo di utilizzare tale curva calcistica come finestra per leggere al meglio la città di Bologna e come è cambiata negli ultimi anni (Scandurra e Tancredi 2014).
Una volta conclusa la ricerca sulla boxe, ho continuato a condurre studi urbani, attraverso il metodo etnografico, indagando lo spazio pubblico di piazza Verdi a Bologna (Castelli, Scandurra, Tancredi e Tolomelli 2011). L’interesse verso gli spazi pubblici urbani sono continuati quando, La seconda, insieme alla collega sociologa Maria Antonietta Trasforini, ho deciso di iniziare nel febbraio del 2012 una ricerca a Tunisi, al fine di capire il ruolo che la cultura e l’arte stanno svolgendo nel produrre le trasformazioni sociali e politiche che hanno avuto e hanno come teatro la capitale tunisina a partire dalle “Primavere Arabe”. (Scandurra 2013)
Più in generale, la passione per indagare temi e questioni legati agli studi urbani è proseguita dando vita, insieme a un gruppo di colleghi, al gruppo transdisciplinare di studi urbani “Tracce Urbane” (Cancellieri e Scandurra 2012) e dirigendo, con il collega sociologo Alfredo Alietti, il Laboratorio di Studi Urbani del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara che, negli ultimi due anni, ha organizzato numerosi seminari invitando studiosi urbani nazionali e internazionali .
Per questo volume ho pensato di selezionare, all’interno di questi ambiti di studio, quattro saggi che potessero sintetizzare i campi di ricerca sui cui ho lavorato negli ultimi anni, che così posso riassumere.
a) Antropologia Urbana: studio di “comunità urbane”, comunità di quartiere, comitati e associazioni territoriali, nascita di sobborghi e di enclave, trasformazioni delle periferie, processi di gentrificazione, suburbanizzazione, zonizzazione, processi di progettazione partecipata, processi di produzione di “località”; nozione di “spazio pubblico”.
b) Antropologia dell’Esclusione Sociale: formazione di nuove povertà, nozione di “degrado” e di “povertà”, politiche sociali e diritti di cittadinanza, raccolta di storie di vita di “esclusi” dal territorio, “nuove povertà”.
c) Antropologia dell’Immigrazione e Comunicazione Interculturale: politiche dell’accoglienza, nozione di “cultura”, studi multiculturali, politiche migratorie, studi sulle “seconde generazioni”; politiche per l’’inclusione sociale degli immigrati.
d) Antropologia dello Sport: lo sport come attività per costruire identità individuali e collettive e gruppi caratterizzati da intimità culturale, “comunità di pratiche”.
Papers by Giuseppe Scandurra
Nel 2004 ho iniziato a insegnare Antropologia culturale all’Università di Bo- logna e ho cominciato a fare ricerca «in/sulla» città (Eames, Goode, 1977); non conoscevo Bologna e per deformazione professionale non vedevo altro modo di “sentirmi a casa” se non studiandola, se non facendola oggetto di ricerche etnografiche di media/lunga durata.
Questo libro conclude forse la mia curiosità per questa città. Dopo dieci anni di ricerche ho la sensazione che la voglia di conoscere Bologna – oggi sempre più paese e meno metropoli, come avranno modo di vedere i lettori leggendo i saggi raccolti in questo volume –, e quindi di studiarla, sia terminata. Quella distanza che all’inizio mi permise di poter osservarla, descriverla, interpretarla – una di- stanza che nel far ricerca, dunque familiarizzando con essa, si è sempre più ridotta – oggi ha acquisito un’altra forma. Ho abitato in molte case in questi dieci anni e ho due gli che parlano bolognese perché in questa città sono nati e probabilmente vi cresceranno, ma credo che il mio rapporto con Bologna sia cambiato, forse esaurito; e di conseguenza il mio rapporto di ricerca.
Quasi cinque milioni sono gli immigrati che regolarmente o irregolarmente vivono in Italia: alimentano con il loro lavoro, con le tasse che pagano, con i loro figli, con la loro vita insomma, la nostra produttività, sia quella legale che quella illegale; aprono le nostre città ad uno scambio di beni, di usi, di tradizioni che strappa gli abitanti, volenti o nolenti, al loro provincialismo, che le apre al fluire della contemporaneità, alle vicende del mondo.
Il nostro Paese riesce, per quanto riguarda le politiche di integrazione, dopo più di venti anni dall’inizio di questo fenomeno, ad ignorarlo, non aderendo a nessuno dei modelli adottati negli altri paesi europei che lo hanno conosciuto ben prima di noi. Rendiamo difficile l’acquisizione dei diritti di cittadinanza tenendoli vincolati allo ius sanguinis, impedendo così la possibilità di innestare un modello di integrazione in qualche modo analogo a quello cui si ispira la legislazione della Francia; né d’altra parte sviluppiamo l’articolarsi di un multiculturalismo che con sistematicità e competenza metta a contatto e confronto attivo le diverse lingue, le diverse tradizioni, i diversi modelli culturali di cui siamo portatori “noi” e “loro”.
Nella realtà dei vissuti quotidiani e dei rapporti con le istituzioni il modello italiano per la maggioranza degli immigrati è un modello che oscilla tra l’esclusione e il laissez faire. E’ una richiesta di rispetto delle nostre leggi senza concedere il diritto di partecipare, in qualche misura, in qualche modo, alla vita delle istituzioni pubbliche del nostro Paese; né particolare attenzione è dedicata a fare conoscere loro significati e valori delle une e delle altre; è una richiesta di condividere i principi su cui si fonda la nostra vita pubblica senza porre in atto i processi per mezzo dei quali sia possibile, prima o poi, parteciparvi a pieno diritto, acquisendo cioè la cittadinanza del nostro Paese. E si assiste così ai casi, paradossali quanto si voglia ma che sono sempre più frequenti, di giovani individui, figli di cittadini immigrati che sono nati in Italia, hanno frequentato le nostre scuole, spesso sono stati immessi nel mondo della formazione e del lavoro e che al compimento del diciottesimo anno di età, risultano essere “clandestini”.
A settembre 2007 abbiamo iniziato uno studio su tale territorio. Il gruppo di ricerca è stato composto, nella prima fase di lavoro - settembre 2007/aprile 2008 - da tre ricercatori: la sociologa Elena Rossini, l’antropologo Giuseppe Scandurra e il pedagogista Alessandro Tolomelli. Per quanto riguarda i responsabili scientifici della ricerca hanno ricoperto questi ruoli l’antropologa Matilde Callari Galli e il pedagogista Antonio Genovese per il Dipartimento di Scienze dell’Educazione e il sociologo Maurizio Bergamaschi per il Dipartimento di Sociologia - Università di Bologna.
Obiettivo generale della ricerca è stato, durante questa prima fase di lavoro, riportare l’attenzione su tale contesto indagando i reali motivi per cui si è andata via via producendo una rappresentazione che vede questa piazza come luogo simbolo e reale del degrado cittadino. Per far questo abbiamo condotto un’analisi delle problematiche, dei bisogni e delle aspettative messi in evidenza dalla molteplicità degli attori sociali che frequentano Piazza Verdi, le loro pratiche di vita quotidiana, le rispettive modalità di fruizione del luogo, le differenti percezioni e rappresentazioni della piazza prodotte da questi attori sociali. (Rossini, Scandurra, Tolomelli 2009)
Abbiamo inoltre cercato di riportare alla luce la memoria storica del luogo e come questa sia cambiata negli ultimi anni prendendo in analisi momenti significativi - come ad esempio il 1968, 1977 - in cui questo territorio è stato determinante per la produzione di una identità cittadina e Piazza Verdi è divenuto uno dei luoghi simbolo della “bolognesità” e del rapporto tra città e Università .
Piazza Verdi è frequentata da diversi attori sociali in orari diversi e con differenti modalità di utilizzo dello spazio pubblico. Il primo obiettivo specifico che abbiamo perseguito durante la prima fase di lavoro è stato quello di creare una mappa capace di rendere leggibili i diversi usi, percezioni e rappresentazioni del territorio e, allo stesso tempo, produrre una quadro d’insieme relativo a come le diverse istituzioni che operano su questo contesto - Università, Quartiere, Comune, comitati e associazioni del territorio, forze dell’ordine - sono intervenute negli ultimi anni, attraverso differenti progetti, per fare fronte alle problematiche della zona. Tale area, in effetti, è stata recentemente oggetto di interesse da parte delle istituzioni e dei media cittadini e nazionali.
A fronte della molteplici iniziative promosse su Piazza Verdi al fine di risolvere il problema “degrado”, il nostro lavoro piuttosto che produrre soluzioni, si è dato come compito capire cosa si intende oggi, a Bologna, per degrado e perché Piazza Verdi ne sia diventato un luogo-simbolo cittadino quando non nazionale . Per questo abbiamo scelto, da subito, di avvalerci di strumenti di indagine legati alla disciplina antropologica consapevoli che Piazza Verdi rappresenti a tutti gli effetti uno spazio pubblico dove consistente e significativa è la convivenza, alle volte conflittuale, di diversi gruppi sociali che rivendicano il loro diritto a fruire del medesimo spazio pubblico.
A settembre 2009, una volta ottenuti i finanziamenti per proseguire la ricerca abbiamo allargato l’équipe di ricerca coinvolgendo in qualità di ricercatori il giornalista, direttore del mensile bolognese «Piazza Grande», Leonardo Tancredi, e l’antropologa Elisa Castelli, cominciando così la seconda fase di lavoro che abbiamo terminato nell’aprile 2010. In questi altri otto mesi di lavoro ci siamo dati come obiettivo generale quello di approfondire alcuni temi e chiavi di lettura emersi durante la prima fase di ricerca.
Nonostante diverse ricerche sui processi di globalizzazione in atto sottolineano l’accresciuta, quanto asimmetrica mobilità e la compressione spazio-temporale che caratterizza il vivere urbano (Augé 1994), appare estremamente significativo il ruolo giocato dalle nostre città intese come contesti materiali e come forme localizzate delle dinamiche globali e dei processi di ri-territorializzazione (Haesbaert 2001). Queste sono sempre più i centri del potere economico, politico, discorsivo e sociale e, in quanto tali, i luoghi “naturali” di espressione del conflitto sociale. (Brighenti 2010)
La città, anche per questo, è stata al centro di numerose monografie negli ultimi anni. Pubblicazioni - in questo numero della rivista facciamo riferimento soprattutto a quelle nazionali - ad opera di studiosi afferenti a diverse discipline: sociologi, antropologi, geografi, politologi, semiologi, economisti, ma anche, ovviamente, urbanisti, architetti e storici urbani.
Ai lavori della letteratura scientifica vanno poi aggiunti un numero significativo di film, realizzati sempre recentemente e prodotti nel nostro Paese, che hanno come protagonisti specifici contesti urbani. Inoltre, spesso, ieri come oggi, a raccontare meglio di tanti altri le trasformazioni delle nostre città sono grandi romanzieri: opere, tutte, che incidono sempre più sulla costruzione dei nostri “paesaggi urbani immaginari”. (Sandercock e Attili 2010a, 2010 b; Barberi 2010)
Da questa letteratura, più o meno “scientifica”, emerge innanzitutto come la città non sia un mero sfondo dell’agire sociale ma sia piuttosto la forma più complessa dell’interdipendenza umana, ovvero un ambiente costituito da processi specifici e strutturanti (Hannerz 1980; Sassen 1994; Soja 2000). Uno degli obiettivi di questo numero della rivista dedicata agli studi urbani è proprio quella di individuare, analizzare, comprendere qual è la specificità di questi processi raccogliendo contributi degli autori che troviamo più interessanti prodotti negli ultimi dieci anni. Saggi che ci aiutano a comprendere come determinati fenomeni di ri-territorializzazione enfatizzano il locale come spazio di costruzione identitaria. Fenomeni che, pur manifestandosi sotto forme spesso escludenti ci invitano a ricordare quanto gli attori sociali e gli spazi siano in costante interazione reciproca. Contributi, tutti, che riconoscono il nesso fondativo tra città e democrazia (Bagnasco e Le Galès 2003), del fatto cioè che la qualità di una democrazia si distingue anche dal suo atteggiamento verso la città. (Lefebvre 1968; Massey 1995; Isin 2002; Mitchell, 2003)
1. Tracce Urbane
Tre anni fa abbiamo dato vita a un gruppo di lavoro chiamato “Tracce Urbane”. All’origine di questo gruppo ci sono stati numerosi incontri tra un gruppo di ricercatori, con differenti percorsi disciplinari, che più volte, nel corso degli ultimi anni, hanno lavorato insieme al fine di rispondere a questa domanda: come è possibile studiare, rappresentare, progettare insieme la città?
In molti paesi le figure cui le amministrazioni locali e centrali chiedono il supporto tecnico al fine di rispondere praticamente a queste domande sono architetti e ingegneri, alcuni dei quali aggiungono alle proprie qualifiche professionali anche quella di urbanista. Ma cosa può dirci l’urbanistica oggi? Perché, oggi, gli architetti, gli urbanisti denunciano l’attraversamento di una crisi disciplinare? (Cellamare 2008)
A questo va aggiunto che esiste un altro sapere urbano, quello delle scienze sociali, che in Italia non ha mai ottenuto un riconoscimento istituzionale circa la propria competenza a prendere parola sulla città, nonostante la sociologia europea e quella americana siano nate tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, proprio in stretto rapporto con la prima industrializzazione, l’urbanesimo e le trasformazioni delle città in metropoli industriali. Se pensiamo all’antropologia, studiosi come Alberto Sobrero (1992) e Amalia Signorelli (1996), autori dei due manuali di antropologia urbana pubblicati negli anni Novanta, sottolineano, per esempio, una sensibile carenza nella formulazione di un solido fondamento teorico-metodologico capace di motivare la scelta dell’antropologia in direzione della ricerca urbana. Se per ricerche urbane intendiamo teorie e pratiche su come circoscrivere il campo, definire l’oggetto di ricerca, isolarne le caratteristiche, elaborare un metodo specifico di analisi e le forme di rappresentazioni conseguenti, a quanti lavori, nel campo delle scienze sociali, potremmo riconoscere questo contributo? (Semi 2006)
Se pensiamo alle ricerche che hanno concentrato lo sguardo sulle realtà urbane del nostro Paese non possiamo nascondere come appaia necessario violare alcuni “paletti accademici”. Un altro degli obiettivi di Tracce Urbane è dimostrare come, utilizzando la pratica etnografica, molti sguardi disciplinari possono integrarsi; ancora di più siamo convinti di come, proprio partendo dalla specificità urbana, sia possibile costruire un campo di studi transdisciplinari. Infatti il primo volume pubblicato da questo gruppo di ricercatori (Cancellieri e Scandurra, 2012) è nato proprio dall’esigenza di un dialogo interdisciplinare, in particolare di uno sguardo incrociato tra urbanisti e scienziati sociali che metta al centro sia ricerche empiriche che riflessioni teoriche. Un dialogo che parta dall’assunzione riflessiva del rischio di andare oltre i confini delle proprie discipline senza abolirle, ma anzi valorizzandone, attraverso lo scambio, i rispettivi sguardi.
Nel 2004 ho iniziato a insegnare antropologia culturale all’università di Bologna e ho iniziato a fare ricerca in città - sulla città è più esatto (Eames, Goode 1977). Non conoscevo Bologna e, per deformazione professionale, non vedevo altro modo di ambientarmi se non studiandola, se non facendola oggetto di o ricerche etnografiche di lunga durata. Questo libro conclude forse questa curiosità, la mia curiosità per questa città. Dopo dieci anni di ricerche ho la sensazione di aver preso molto da questo paese con aspirazioni metropolitane, ma anche di aver dato abbastanza. Ho la sensazione che la voglia di conoscerla, e quindi di studiarla, sia terminata. Quella distanza che all’inizio mi permise di poter osservarla, descriverla, interpretarla - una distanza che, nel far ricerca, si riduceva sempre più familiarizzando con essa - oggi ha acquisito un’altra forma. Ho abitato in molte case in questi dieci anni e ho due figli che parlano bolognese perché in questa città sono nati e forse vi cresceranno, ma credo che il mio rapporto con Bologna sia cambiato, forse esaurito - e di conseguenza il mio rapporto di ricerca.
Quando sono arrivato avevo ovviamente delle rappresentazioni su questa città (Fabietti 1999). Nelle classifiche sulla qualità della vita pubblicate su «Il Sole 24 ore» Bologna in quell’anno appariva come prima. Fino al 2004, però, soprattutto durante i tre anni del Dottorato, io conoscevo della città solo il sottopassaggio della stazione centrale, dove ho passato molto tempo ad aspettare i treni che andavano a Roma - dove ho abitato fino al 2004 - e a Milano - dove per l’appunto svolgevo l’attività di Dottorato. In più occasioni, proprio in questo spazio di attesa, più di una volta sono stato oggetto di richieste - sigarette che monetine per lo più - da parte di senza fissa dimora che facevano su e giù tra i binari della stazione. Ogni volta mi sono chiesto che relazione ci fosse tra le statistiche de «Il Sole 24 ore» e la presenza di così numerosi barboni. Questa è stata la mia prima curiosità di ricerca.
Nel settembre 2004 fino al dicembre 2005 ho realizzato così un progetto di ricerca finalizzato a produrre una mappa delle realtà riguardanti l’emarginazione sociale a Bologna - dormitori, politiche di accoglienza, storie di vita di senza fissa dimora etc.-, al fine di capire, oggi, che tipologie di persone sono quelle che vivono per strada considerando il fatto che quasi mai si tratta di una libera scelta. Soprattutto, quali sono i circoli viziosi che non permettono a questi attori sociali, nel contesto cittadino bolognese, di cambiare vita (Scandurra 2005). Sempre dentro il contesto degli studi urbani, concentrando però l’attenzione su specifici processi di esclusione sociale (Bergmaschi, Guidicini e Pieretti 2004; Bonadonna 2001, Barnao 2004, Tosi Cambini 2005; Scandurra 2013), ho iniziato a interessarmi alla formazione di nuove povertà e le pratiche di vita quotidiana agite da persone che vivono in strada e rivendicano una “cultura” di strada, la qual cosa mi ha costretto a interrogarmi sulla relazione tra cultura e cittadinanza. Ho studiato le pratiche di un gruppo di senza fissa dimora ospiti del dormitorio pubblico di Bologna “Massimo Zaccarelli”, ampliando poi lo sguardo a specifici territori periferici del capoluogo emiliano-romagnolo, al fine di capire se è possibile parlare in città di fenomeni di impoverimento collettivo; e ancora, se questi processi colpiscono tutti o in particolare determinati attori sociali che vivono nel territorio.
Allargando il campo della ricerca ho continuato a indagare questi temi ponendo l’attenzione sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di immigrati rom romeni senza casa che vivono nella prima periferia bolognese, a sud della città, iniziando a dialogare, sempre dentro il grande contenitore degli studi urbani, anche con il campo di studi dell’antropologia dell’immigrazione. (Antonelli e Scandurra 2008). Inoltre, rivolgendo lo sguardo alle politiche per l’inclusione sociale ho proseguito questi interessi come membro del gruppo di studio “Nuove povertà” dell’Istituto Fondazione Gramsci-Emilia Romagna (Scandurra 2013) e come capofila dell’unità locale di Ferrara che, all’interno di un progetto Prin 2011, si occuperà nei prossimi anni di studiare le politiche di accoglienza e di inclusione sociale promosse dalla regione Emilia Romagna e in particolar modo dalla Provincia di Ferrara .
Nel gennaio del 2007 ho iniziato, con la collega Fulvia Antonelli, una ricerca sulle palestre di pugilato di un quartiere periferico di Bologna, Bolognina, al fine di capire che funzione sociale hanno queste palestre e che rapporto c’è tra la strada e lo sport pugilistico. La maggior parte degli iscritti in palestra è costituita da ragazzi di origine straniera, il che mi ha dato modo di studiare gli immaginari, le rappresentazioni, le pratiche di vita quotidiana di un gruppo di adolescenti di «seconda generazione» (Antonelli e Scandurra 2010). Tale ricerca mi ha permesso di dialogare anche con due altri campi di studi su cui ho poi continuato a lavorare, ovvero quello legato all’antropologia dello sport (Satta e Scandurra 2013) e quello legato alle seconde generazioni (Callari Galli e Scandurra 2009). Nell’ultimo anno, infatti, insieme al giornalista Leonardo Tancredi, sto lavorando sulle rappresentazioni e le pratiche quotidiane di un gruppo di tifosi che costituiscono la curva del Bologna calcio. Gli ultras della squadra del capoluogo emiliano ci stanno infatti dando modo di utilizzare tale curva calcistica come finestra per leggere al meglio la città di Bologna e come è cambiata negli ultimi anni (Scandurra e Tancredi 2014).
Una volta conclusa la ricerca sulla boxe, ho continuato a condurre studi urbani, attraverso il metodo etnografico, indagando lo spazio pubblico di piazza Verdi a Bologna (Castelli, Scandurra, Tancredi e Tolomelli 2011). L’interesse verso gli spazi pubblici urbani sono continuati quando, La seconda, insieme alla collega sociologa Maria Antonietta Trasforini, ho deciso di iniziare nel febbraio del 2012 una ricerca a Tunisi, al fine di capire il ruolo che la cultura e l’arte stanno svolgendo nel produrre le trasformazioni sociali e politiche che hanno avuto e hanno come teatro la capitale tunisina a partire dalle “Primavere Arabe”. (Scandurra 2013)
Più in generale, la passione per indagare temi e questioni legati agli studi urbani è proseguita dando vita, insieme a un gruppo di colleghi, al gruppo transdisciplinare di studi urbani “Tracce Urbane” (Cancellieri e Scandurra 2012) e dirigendo, con il collega sociologo Alfredo Alietti, il Laboratorio di Studi Urbani del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara che, negli ultimi due anni, ha organizzato numerosi seminari invitando studiosi urbani nazionali e internazionali .
Per questo volume ho pensato di selezionare, all’interno di questi ambiti di studio, quattro saggi che potessero sintetizzare i campi di ricerca sui cui ho lavorato negli ultimi anni, che così posso riassumere.
a) Antropologia Urbana: studio di “comunità urbane”, comunità di quartiere, comitati e associazioni territoriali, nascita di sobborghi e di enclave, trasformazioni delle periferie, processi di gentrificazione, suburbanizzazione, zonizzazione, processi di progettazione partecipata, processi di produzione di “località”; nozione di “spazio pubblico”.
b) Antropologia dell’Esclusione Sociale: formazione di nuove povertà, nozione di “degrado” e di “povertà”, politiche sociali e diritti di cittadinanza, raccolta di storie di vita di “esclusi” dal territorio, “nuove povertà”.
c) Antropologia dell’Immigrazione e Comunicazione Interculturale: politiche dell’accoglienza, nozione di “cultura”, studi multiculturali, politiche migratorie, studi sulle “seconde generazioni”; politiche per l’’inclusione sociale degli immigrati.
d) Antropologia dello Sport: lo sport come attività per costruire identità individuali e collettive e gruppi caratterizzati da intimità culturale, “comunità di pratiche”.
The present essay deals with the network of intellectuals that was active in Ferrara between the beginning of the Fifties and the end of the Eighties in the fields of visual arts-painting, photography, movies-and writing-reportage, social enquiry, essays, poetry, fiction-and which are rather difficult to classify. These intellectuals had an analytic view marked by a transdisciplinary approach, in an environment where the disciplinary boundaries, starting from the duality Human vs. Scientific studies, were much less sharp than they are today, due to the absence of a Humanities faculty. The first professorship of anthropology in Ferrara was established in 2008-2009. How did scholars and artists produce hybrid and contaminated views of the urban before the introduction of Anthropology? This is the question this article wants to answer. Parole chiave: antropologia; transdisciplinarietà; fiction/no fiction.
words work together?
Le città stanno cambiando anche in funzione dei cambiamenti della società e dell’economia, e ne esprimono una sintesi. La finanziarizzazione dell’economia, l’evoluzione (o l’involuzione) del welfare state, il ruolo centrale del ciclo dello sviluppo insediativo nell’economia e i connessi processi di mercificazione della città, della socialità e della vita quotidiana costituiscono fattori centrali nell’evoluzione urbana.
D’altra parte le città, come d’altronde sempre nella storia dell’uomo, sono i luoghi dell’autorganizzazione, dove la vita collettiva brulica, si organizza, si appropria dei luoghi, produce spazi, culture, significati, all’interno di un campo di azione e di interazione tra soggetti, interessi, poteri diversi. Anche oggi tali territori risultano attraversati da processi di ri-appropriazione che sono anche processi di risignificazione dei luoghi.
La città è il teatro dei grandi fenomeni sociali, ed anche il luogo fondamentale della produzione culturale; ma è anche una realtà tutta da ri-conoscere, da re-interpretare. Non è più quella che conoscevamo, ereditata dalla modernità; è cambiata non solo nella sua forma fisica ma anche nel modo di viverla e nelle relazioni sociali che la costituiscono. La città, anche per questo, è stata al centro di numerose monografie negli ultimi anni. Pubblicazioni ad opera di studiosi afferenti a diverse discipline: sociologi, antropologi, urbanisti, architetti, storici urbani, geografi, politologi, semiologi, economisti, ecc.
si compone di due tipi di esplorazioni: da un lato, una serie di saggi di sintesi che intendono presentare lo stato dell’arte della produzione di conoscenza e indagine sulla città e i territori italiani, dall’altro una serie di studi di caso tratti da ricerche monogra - che. Come di consueto, l’obiettivo principale de lo Squaderno non è tanto quello di una impossibile esaustività contenutistica quanto di fornire spunti per ulteriori percorsi di ricerca e, se possibile, di incrocio e incontro tra studiosi.
of citizenship, the diversification of poverty and the development of
transnational ways of migrating. As a result of the emergence of new
poverties, the methods of impoverishment are characterised by a deep individualisation,
so that it is possible to observe different life situations, forms
of privation that go beyond ordinary economic deprivation. Furthermore,
new methods of migrating and of managing difference within multicultural
configurations have led some scholars to speculate on new paths for claiming
and granting rights. However, human rights discourses tend to reify the
complex and ambivalent social and cultural processes through which rights
are negotiated, realised or denied within specific contexts. In some cases
there is a noticeable gap between the provision and the realisation of rights,
which is often affected by negotiation between individuals and groups. Such
negotiation is influenced in many ways by the representation (symbolic as
well as political) of social and migrant minorities.
ethnographic research on the Zen neighbourhood in Palermo (Fava,
2008), wrote an interesting essay titled Tra iperghetti e banlieues, la nuova
marginalità urbana (Hyperghettoes and banlieues, new urban marginality).
Chicago’s ghettoes, Paris’s banlieues, Barcelona’s Poligono, Amsterdam’s
Probleemstandwij, Moscow’s Hrushebi, Los Angeles’ hoods. All Western cities
have their own words to describe their marginal, cursed neighborhoods
(Fava, 2008a).
At the heart of this essay lies a question that most authors, researchers
in different disciplines, have sought to answer: how did Italian suburbs
change because of the end of a production mode - the ‘world factory’ - and
the arrival of massive migration flows?
si compone di due tipi di esplorazioni: da un lato, una serie di saggi di sintesi che intendono presentare lo stato dell’arte della produzione di conoscenza e indagine sulla città e i territori italiani, dall’altro una serie di studi di caso tratti da ricerche monogra - che. Come di consueto, l’obiettivo principale de lo Squaderno non è tanto quello di una impossibile esaustività contenutistica quanto di fornire spunti per ulteriori percorsi di ricerca e, se possibile, di incrocio e incontro tra studiosi.
La distribuzione territoriale dei cittadini stranieri, del resto, è sempre stata tra i principali oggetti di studio delle scienze sociali, la sociologia e l’antropologia urbana in particolare, e lo è a maggior ragione oggi nel mo- mento in cui, soprattutto a livello mediatico, molti conflitti registrabili negli spazi pubblici urbani vengono rappresentati come “etnici”.
Secondo il sociologo urbano Massimo Ilardi, negli ultimi anni il rapporto tra minoranza e maggioranza si è profondamente modi cato. Tale rapporto ha costituito un’utile chiave di in- terpretazione sociologica nché i valori dei due gruppi si sono di erenziati in base a caratteri ideologici, politici ed economici. Le minoranze, oggi, non hanno più nulla di minoritario o
di subordinato, all’opposto coltivano l’ambizione di esercitare egemonia attraverso un punto di vista di parte che produce immaginari, rappresentazioni e si traduce in pratiche ritenute legittime in quanto rivendicate come “culturali”. Pratiche che rispondono sempre più a una logica politica che trova fondamento nella dialettica amico/nemico (Schmitt 2008). La maggioranza, di conseguenza, non riesce più a produrre strumenti di mediazione e di sintesi.
Per accorgersi di ciò, scrive Ilardi, gli scienziati sociali dovrebbero sullo spazio urbano: è proprio sul territorio, nel senso più sico, che le minoranze possono agire una domanda di maggiore libertà materiale rompendo quel patto tra spazio e politica su cui il moderno aveva edi cato le sue forme politiche. (Ilardi 2009)
relazione sono le pratiche, le rappresentazioni e gli immaginari di un gruppo di adolescenti, ragazzi e
ragazze, figli di genitori stranieri, nati nel nostro Paese, o venuti in Italia in età pre-scolare, ma tutti
senza cittadinanza. Nel 2008 alcuni di questi ragazzi furono oggetto di una ricerca che ho realizzato a
Bologna in una palestra di pugilato frequentata da adolescenti figli di marocchini e tutti residenti nel
capoluogo emiliano. A partire dalle loro parole, dai loro punti di vista, cercherò, in questa relazione, di
raccontare, ponendo l'attenzione sul nostro territorio regionale, cosa significa oggi per loro la parola
"cittadinanza", quali i problemi che vivono quotidianamente, all'interno di un contesto legislativo,
lavorativo, famigliare che si è profondamente modificato negli ultimi anni.
Vorrei provare a rispondere a queste domande attraverso questo saggio, frutto di una ricerca etnogra ca che ho condotto dal dicembre 2001 al dicembre 2004, che ha avuto per oggetto il territorio del Pigneto. Che ruolo ha oggi una località come quella del Pigneto negli schemi dei ussi culturali globali? In un mondo che viene descritto, e non solo dagli antropologi, come sempre più delo- calizzato, che cosa è una «località»? Perché i residenti e in generale gli abitanti di questo territorio preferiscono de nirsi «del Pigneto» piuttosto che romani?
At the heart of this essay lies a question that most authors, researchers in different disciplines, have sought to answer: how did Italian suburbs change because of the end of a production mode - the ‘world factory’ - and the arrival of massive migration flows?
We will try to give an answer to this question through a comparison (Fava, 2012) between two so called ‘marginal’ neighbourhoods (Fava, 2012a): Bolognina in Bologna and Zen in Palermo. We will compare these urban areas in relation to the same global dynamics (social-economical, political- juridical as well as symbolic) that have produced the American hyperghetto and the declining French banlieue (Sotgia, 2012). Through this exercise we shall illustrate the complexity of local responses to macro-social global changes (Bolognina and Zen are two peripheral neighbourhoods of two middle-sized Italian cities). If the transformation of a globalized world traverses national borders, local environments make it possible to grasp in a more particular way the changes of the contemporary city and of Italian
cities in particular.
Entrare alla Tranvieri, palestra nata nel 1950 e da sempre legata al Circolo del Dopolavoro dei tranvieri bolognesi, ha significato, per noi, fare i conti con 50 anni di pugilato a Bologna, con la storia di uno sport nato nei circoli del Dopolavoro operaio, con la cultura della socialità e del tempo libero in uno dei territori più popolari della città. Per questa società pugilistica hanno combattu- to, infatti, molti operai che lavoravano nelle fabbriche metalmeccaniche della Bolognina
Giuseppe Scandurra
1. Il Progetto Carracci
Il Progetto Carracci nasce nel dicembre del 2000 quando, alla chiamata del Comune di Bologna per il fronteggiamento del- l’emergenza freddo, diverse imprese sociali ed enti di volonta- riato rispondono impegnandosi a creare una rete per affrontare, in soli dieci giorni, le urgenti necessità di riparo delle persone senza fissa dimora che, in quel periodo dell’anno, non avreb- bero trovato un posto presso le strutture esistenti in città (Rete Carracci 20051). La Rete, composta da un insieme eterogeneo di associazioni, si aggiudicò la convenzione per la gestione della struttura messa a disposizione dal Comune in via de’ Carrac- ci 69/2. Il Progetto Carracci, nonostante la prospettiva iniziale di durata di soli tre mesi, riesce a proseguire la sua attività ot- tenendo una proroga per altri tre mesi, fino al giugno 2001. Dopo questi primi sei mesi, la Rete si impegna per la realiz- zazione di un servizio di accoglienza a bassa soglia2 abbinato ad una particolare concezione della riduzione del danno. Un intervento composito in cui si dovevano combinare: “L’acco- glienza notturna, la prevenzione dei rischi che minano la tutela della salute, l’orientamento e il sostegno, l’attività dei percorsi di reinserimento in collaborazione con i servizi territoriali, il miglioramento della qualità della vita nel suo complesso” (Rete Carracci 2005). Questo servizio riuscì a resistere per un anno, fino al dicembre 2001. Successivamente, il Progetto Carracci chiese ed ottenne un finanziamento dalla Regione. Grazie a queste sovvenzioni ed alla compartecipazione dell’Ente locale, che continuò a mantenere a disposizione l’edificio in via de’ Carracci, l’esperienza della Rete si prolungò per un ulteriore biennio.
internazionale “Culture e conflitto” tenutosi a Courmayeur
tra il 13 e il 15 dicembre 2002, promosso dal Centro di prevenzione
e difesa sociale, dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione
dell’Università degli Studi di Bologna e dalla
Fondazione Courmayeur, in collaborazione con la Commissione
Nazionale Italiana per l’UNESCO.
al IX Municipio, che comprende il territorio del Mandrione, era integralmente
agricola, solo qualche casale e qualche villa. Gli unici interventi realizzati sul territorio
consistevano nella ferrovia Roma-Frascatri inaugurata nel 1856, con stazione fuori
Porta Maggiore, e nel 1890 lo stabilimento Omnibus e Tramways tra la ferrovia e vicolo
del Pigneto, attualmente deposito dell’Atac (Sotgia 2003)
Proprio a partire da quest’ultima osservazione negli ultimi anni ho concen- trato lo sguardo sulla trasformazione di determinati territori e periferie bolo- gnesi alla luce dell’arrivo di sempre più consistenti flussi immigratori. Ho ini- ziato a chiedermi: come è cambiato il territorio comunale in questi ultimi anni e come chiamare oggi queste periferie soprattutto nella parte nord della città sempre più caratterizzate dalla presenza di ragazzi di origine straniera? Soprat- tutto, quali pratiche di cittadinanza le caratterizzano?
La capitale, se da una parte è stata proposta come presunto modello su scala nazionale per le nuove élites della conoscenza, dall’altra, localisticamente, è divenuta lo scenario di una simbolica riconquista del centro da parte di una periferia reinterpretata come slogan populista. Le dinamiche del mercato immobiliare e la gentrificazione, il disagio abitativo, le pratiche d’insediamento dei migranti e l’emergere di nuove chiusure identitarie, sono tutti fenomeni governati entro un conflitto di retoriche e immaginari che hanno fatto uso del rapporto centro-periferia.
Paesaggi dell’esclusione costituisce l’esito di un percorso di confronto interdisciplinare sulle trasformazioni della capitale che ha coinvolto antropologi, urbanisti, storici ed economisti, insieme a giovani etnografi, impegnati, ciascuno con i propri linguaggi, nell’analisi delle trasformazioni dei territori metropolitani, a partire dall’interazione di attori e interessi con le istituzioni e gli altri poteri consolidati della città. L’obiettivo è quello di costruire un’occasione di dialogo e di confronto per interrogare le dinamiche dello spazio urbano e tentare così di raccogliere la sfida interpretativa della Roma contemporanea.
Da anni, gli incontri reciproci tra le diverse anime della “città della cultura” non solo non vengono più stimolati, piuttosto impediti, e la valorizzazione puramente economica degli spazi rende impossibile la socialità casuale, non programmata