Càscara
Di Elena Ferro
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Info su questo ebook
In un caldo mattino di primavera, mentre osserva dalla finestra i tetti grigi di una Torino bagnata dalla pioggia, Michele, operaio in una grande fabbrica, tiene tra le mani una lettera appena arrivata dall’Argentina. A scriverla è Alice, un tempo maestra a Càscara, il borgo di pescatori in cui è nato, per annunciargli la morte di Justicio, suo buon amico, che per lungo tempo si è guadagnato da vivere a bordo di una splendida barca a vela, Matilda, ormeggiata nel porto di Càscara. Ghermito da un passato che torna a tormentarlo, Michele compie un viaggio della memoria attraverso il quale riannoderà i fili di una storia che si intreccia con quella degli altri protagonisti del romanzo. Pescatori, meretrici, levatrici, ricchi armatori e politici locali, bambini in attesa del proprio destino, emigranti dall'altro lato del mondo come Justicio e donne coraggiose e fragili come Alice. Sono loro a tessere le trame del nostro recente passato italiano, in un Sud Italia sempre meno agganciato allo sviluppo e sempre più legato ai destini di coloro che amando la propria vita ne fanno un esempio e una testimonianza per tutti.
Storie che sfidano le convenzioni per trasformare un paese che non ha ancora fatto i conti con il suo passato in un luogo della speranza e, forse, anche dell’amore.
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Anteprima del libro
Càscara - Elena Ferro
porta.
Prologo
La lettera che arriva dal passato
Il giorno in cui ricevetti la lettera avevo appena finito di fare colazione. Era un caldo venerdì di primavera e il postino aveva bussato alla mia porta con una certa risolutezza. Una volta aperto, aveva infilato una mano nell’uscio consegnandomi la busta con l’intestazione vergata da una mano incerta. L’avevo afferrata senza farci caso. Non aspettavo notizie e tornare alle mie incombenze quotidiane era l’unica cosa che mi interessava.
«Deve aver fatto un lungo viaggio» aveva osservato il postino. Non replicai e salutai con cortesia, chiudendo la porta dietro di me.
Sedetti al tavolo della cucina, affacciato sul vicolo del borgo torinese di periferia in cui abitavo, Borgo Vittoria, e vi gettai sopra la busta di carta con gli angoli piegati come orecchie di elefante. Lo sguardo finì al di là del vetro della finestra, catturato dalle pozzanghere sui tetti dei garage di fronte che riflettevano un cielo grigio carico di presagi di pioggia e in cui una coppia di tortore danzava incerta in cerca di ristoro. Poi l’attenzione tornò sulla superficie di formica verde pisello su cui risaltava bianchissima la busta. Nell’angolo in alto a destra un francobollo, di fattura straniera, con rami frondosi che si sfioravano fino a comporre un’immagine specchiata a mo’ di effige. La scritta poco più in basso mi tolse ogni dubbio: Repubblica Argentina. Voltai la busta in cerca del mittente, con il respiro interrotto e lo sguardo fisso sull’angolo in alto a sinistra. Era lei. Avrei voluto non dover mai leggere il suo nome. Misi la busta in una tasca della giacca, indossai le scarpe buone e mi incamminai senza meta tra le vie della mia città, mentre i pensieri rotolavano nella memoria come valanghe, fermandosi nella piana di un passato che avevo quasi dimenticato. Non so per quanto tempo camminai, doveva essere passata almeno un’ora perché mi ritrovai sulle sponde del Po a osservare muto una canoa che risaliva la corrente. Scesi lungo il fiume. L’odore del legno marcescente delle sue rive spoglie faceva a pugni con la muffa proveniente dalle cantine, abbandonate da anni.
Fu allora che ricordai.
Ero immigrato a Torino in cerca di un orizzonte più vasto ma presto mi ero ritrovato costretto in una gabbia di cemento, con indosso una tuta blu macchiata di grasso e scarpe pesanti come macigni. La fabbrica mi aveva forgiato, nel bene e nel male, e con il primo stipendio ero riuscito a comprarmi un piccolo appartamento in un borgo operaio insieme a tanti come me, che avevano firmato cambiali a vita per finanziare un sogno di riscatto ed emancipazione, una famiglia. Non avevo trovato né l’uno, né l’altra, il primo per disdetta, la seconda per scelta. Mi sentivo libero, come solo la solitudine ti fa sentire.
Seduto su una panchina tirai fuori dalla tasca un avanzo di pane che divisi con le oche ospiti del recinto del parco, mentre la mia infanzia cominciava a scorrere davanti a me dileguandosi mentre cercavo di afferrarla. Un colpo di vento mi destò, mostrandomi un cielo limpido e azzurro, il sole allo zenit: fu allora che seppi che il mio cuore stava per tornare al mio paese natio, Càscara.
Feci un respiro profondo. Infilai la mano nella tasca pulita ed estrassi la busta. Alice Colombo, la mia maestra, la mia amica, di cui ricordavo solo il volto rotondo e la pelle chiara, delicata come la pesca, aveva sentito il bisogno di scrivere. Il ricordo di lei era così nitido che mi pareva di vederla, mentre scorrevo le sue parole, leggendo e rileggendo, per essere certo di averne compreso il messaggio.
Mio caro Michele, confido che tu stia bene. Molto tempo è passato dalla nostra ultima conversazione e mi spiace dovermi palesare così, d’improvviso, tanto più che debbo farlo per darti una notizia terribile… Perdonami sin da ora, ma ho creduto che avessi il diritto di sapere. Justicio è morto. È stato qualche giorno fa, ma solo ora ho avuto la forza di rendermene conto. Il suo ricordo giace nel profondo del suo amato Rio de La Plata, secondo le sue volontà. Prima di lasciarmi mi ha fatto promettere che ti avrei consegnato questa fotografia che vi ritrae entrambi. La teneva sempre accanto a sé, specie negli ultimi tempi. Credo sia giusto l’abbia tu.
Ti abbraccio forte.
Alice
La vecchia foto in bianco e nero pareva scattata il giorno prima. Io e Justicio sulle colline di Càscara, abbigliati come improvvisati manovali e intenti a ultimare quella che sarebbe diventata la loro dimora nuziale. Aveva la solita espressione cupa e malinconica, mentre io sorridevo alla vita, lasciando che il fotografo catturasse lo spazio vuoto tra i miei denti superiori senza provare vergogna.
Socchiusi gli occhi, riuscendo a percepire il calore della sua mano sulla mia spalla. Avevo quasi dodici anni e credevo che la vita stesse appena cominciando.
Un’oca reclamò altro cibo dietro una rete verde prato. Il cuore tremò appena e io mi guardai intorno. Era mezzogiorno e in strada non c’era nemmeno un’anima viva.
Mostrai il palmo della mano vuoto all’oca e mi abbandonai alle lacrime. Era il tempo di tornare con la memoria laggiù, dove tutto era cominciato.
Capitolo 1
Mi chiamo Michele e tra non molto sarà il mio compleanno. Non ho ambizioni, il mio destino, ammesso che io ne abbia uno, deve averlo deciso la cicogna, lasciando che emettessi il primo vagito nel vicolo dietro la marina su cui si le colline bruciate dal sole si affacciano a baciare il mare. Ho imparato a stare ritto sui miei piedi poggiandoli su un pavimento di pietra lavica, freddo e scarno come la mia famiglia, e poi ho imparato a chiamarlo casa. Mia madre dice che sono nato insieme alla grattachecca, perché quello era il tempo in cui Giacomino, per non morire di fame, si era dato al commercio facendo della sua granita di limone fonte di reddito e di grande soddisfazione, non solo per noi bambini. Mi manca il suo carretto trainato dall’asino al cui collo penzolava una campana. Chissà che fine ha fatto. Di fame in paese non è mai morto nessuno.
Di me dicono che sono strano, riservato. Ma la mia non è timidezza, piuttosto imbarazzo, per via di quel difetto congenito che di tanto in tanto mi fa balbettare, come una mitraglietta inceppata. La mia unica colpa è quella di essere nato settimino, il che mi ha procurato un certo fastidio, specie per le continue sottolineature delle comari che invocano la Beata Vergine chiedendo il miracolo di raddrizzare ciò che la natura aveva fatto storto, incompleto. La Santa pure nel fisico si è risparmiata, facendomi esile e mingherlino. Ma non mi dispiace affatto, perché è più facile essere ignorato e poi così mi imbuco dappertutto. Ero sicuro che i settimini fossero destinati a cose grandi, eccelse, doveva solo arrivare il momento giusto. E il mio tempo arrivò, quando partii per il nord.
Le mie giornate sono sempre le stesse: mi alzo presto la mattina, mi affaccio dalla finestra per vedere se la bicicletta di Vito è ancora parcheggiata nel cortile, poi scendo di sotto, senza attendere che mia madre si svegli. All’alba l’aria sulla baia è cristallina e il cielo può virare dal blu di Prussia all’indaco fino a quando, alzatosi oltre l’orizzonte, il sole tinge le nuvole di un caldo arancione. Somigliano ad albicocche mature.
Appena finita la colazione, esco. Il silenzio avvolge ogni cosa. Tacciono le voci nelle case, tace la ferraglia nel retro del cantiere navale, tacciono le cicale nei campi, ancora ubriache di buio. Solo le cime d’ormeggio della marina rompono l’incanto, strattonate dalla risacca.
Devo fare presto o mia madre si accorgerà che lavoro di nascosto per Sasà, il compare di mio padre. Rammendo le reti sue e degli altri pescatori e qualche volta pulisco pure il pesce, prima che lo mettano in vendita. Stamattina sono in ritardo e mi pare di essere osservato. Un tizio che non ho mai visto prima, con lo sguardo severo e la barba lunga e incolta, se ne sta seduto su una bitta, fissando prima me e poi il cielo, come alla ricerca di un punto indefinito nell’universo.
Dev’essere lui lo straniero, l’argentino di cui tutti in paese parlano. Abita qui da qualche tempo, non saprei dire da quanto. È intento al suo lavoro, ma appena mi vede, posa l’ago lungo una spanna sulla bitta e lascia cadere una grossa cima a terra. Il guanto di cuoio che lascia scoperto il dito maggiore mi indica. Mi guarda. Ha gli occhi profondi come il mare. Sento di non riuscire più a respirare.
«Che fate, signore?»
«Una impiombatura. Sai cos’è?»
«Cecerto» rispondo, bluffando.
«Avvicinati allora.»
Ubbidisco, ma mi tremano le gambe. Se perdo ancora del tempo di sicuro Sasà lo dirà a mio padre che mi punirà duramente. Ma sono più curioso che pusillanime e mi avvicino, scivolando giù tra la terra.
«Una impiombatura serve per unire due cime, intrecciando i legnuoli.»
«Le vostre dita si muovono come una danza, signore.»
«Puoi impararla, se vuoi. Un passo alla volta. Ma prima, rimettiti il calzare o ti scotterai i piedi.»
Scrollo la sabbia dalla pianta arrossata e indosso il sandalo che è ruzzolato giù insieme a me. Lo sguardo dello straniero è cambiato. Fissa truce il vecchio paio di pantaloni color cachi che indosso. Sono corti, di tela militare, con la metà di una bandiera a stelle e strisce cucita sul sedere, dono del vecchio Sam, che in paese tutti conoscono come ‘Il liberatore’. I suoi commilitoni l’hanno lasciato a guardia dell’avamposto americano con una scusa e poi se lo sono dimenticato. Non ci sta tanto con la testa e sa dire soltanto qualche parola in italiano. In compenso, beve e sputa tabacco tutto il giorno.
«Cosa ci fai qui a quest’ora?»
«Vevengo a vedere l’alalalba.»
«L’alba, eh? Io dico che sei qui a ciusmeare.»
Sento la vescica riempirsi d’improvviso, potrei addirittura farmela nei pantaloni. Saluto col capo e scappo a casa. Tanti saluti allo straniero.
Mia madre mi attende davanti all’uscio con le braccia conserte e l’aria severa.
A lei non dico nulla del lavoro che svolgo per conto di mio padre. Se venisse a saperlo, si infurierebbe come la bufera d’inverno, e poi se la prenderebbe con lei. Lavoro al rammendo delle reti di Sasà ogni mattina, una fatica che frutta pochi spiccioli, per metterne da parte tanti da poter fuggire da qui dovrei lavorare cent’anni. A lui invece, bastano. Appena torno a casa li consegno a mio padre, di nascosto da mamma, quando si allontana per andare al lavatoio o a spazzare il cortile di pietra di lava che ha fatto diventare lucido come il marmo.
Noi due restiamo da soli per pochi, interminabili minuti. Poi Vito afferra i soldi e se li mette in tasca senza nemmeno contare, senza darmi nulla, che so, per comprarmi le caramelle. Non so che cosa se ne faccia, ma di sicuro non compra da mangiare, è magro come un insetto stecco.
Mamma ha sciolto le braccia e mi guarda di sbieco. Mi tremano le gambe perché non so dire le bugie, non l’ho mai imparato.
«Che ci fai in giro a quest’ora, Michelì? Sù, a mamma, che tra poco devi andare a scuola.»
«Sono andato a raccogliere le conchiglie per un compito di scienze e ho incontrato quell’uomo.»
«Che uomo, Michelì?»
«L’argentino, lo straniero. Mi ha parlato.»
«E che ti ha detto, figlio mio?»
«Niente. Non mi ha detto niente.»
«Ti ha parlato e non ti ha detto niente? Quando la finirai di raccontare bugie? Tra poco compisci dodici anni, Michelì, non sei più un bambino. Devi cominciare a comportarti da uomo.»
Mia madre ha una fissazione per l’età adulta che non vede l’ora che io raggiunga, come se crescere potesse risolvere d’incanto tutti i problemi che ho al mondo. Ma io la capisco, poveretta. Ha conosciuto troppo giovane il peso della miseria e ancora non se l’è scrollato di dosso, nonostante la fatica e le lunghe ore strappate al sonno. Qualche volta mi racconta della sua sofferenza e poi ride, senza ragione, mostrando i denti quasi tutti sani e bianchi come il latte, fatta eccezione per quel buco nero che ha sul lato destro del sorriso. Lo mostra senza vergogna, dice che è meglio non tenerselo un dente che fa male. Ma secondo me lo ha perso, per qualche ragione che non conosco.
«Che ne dici, Michelì, lo metto il vestito buono per festeggiare il tuo compleanno?»
«E quando lo metti, se no?»
Ne possiede due, uno per tutti i giorni e uno per le feste o le occasioni speciali. Di solito si tratta di matrimoni o funerali ma una volta all’anno, il giorno del mio compleanno, lo porta con uno scialle candido ricamato a fiori colorati che le incornicia il viso emaciato, appena ravvivato da un vecchio rossetto che usa per colorare le gote.
L’abito per tutti i giorni invece è nero, come i vicoli di notte, liso lungo tutta la lunghezza dell’orlo, un po’ scampanato e con una cintura di stoffa in vita che la fa sembrare ancora più piccola. Così conciata pare una vedova, anche se il marito ce l’ha ancora, purtroppo.
«E papà, tornerà in tempo per il mio compleanno?»
«Torna, torna. Papà torna sempre.»
Sospira, mia madre, e quella risposta mi suona come una minaccia.
Mio padre Vito non lavora più alla fabbrica e non sappiamo dove passi il tempo. In paese si vede di rado e sempre in compagnia di gente diversa. Stranieri, qualcuno di loro ben vestito, che abitano nei paesi qui intorno o forse in città, che è più probabile. Fa coppia fissa con il suo compare, Sasà, un uomo grasso e puzzolente che starci accanto è come avere in tasca un paio di patate marce.
È colpa del suo brutto carattere se l’hanno licenziato dalla fabbrica.
«È pieno come una zolletta di zucchero sotto spirito» hanno detto la sera che ce l’hanno riportato, mezzo svenuto. Dicevano che avesse preso a martellate il suo capo, per una faccenda che riguardava me e la mia gentilezza, l’ha chiamata proprio così mio padre, che lui non le sa dire certe cose, si vergogna. Per fortuna che non l’ha ammazzato, il suo caporeparto, sennò altro che licenziamento, ora sarebbe in galera. E noi finalmente potremmo respirare.
Da quel giorno alla fabbrica non c’è più tornato. Io e mia madre abbiamo cominciato a conoscere la fame, quella nera, come dice mamma, che ti sveglia la notte e ti fa cercare gli ultimi frutti sugli alberi o i pomodori dimenticati nei campi degli altri. Una volta sono uscito da solo, che mamma dormiva, e mentre mi avvicinavo al campo dove Selina coltiva patate, cipolle e fave per la famiglia, ho visto un uomo immobile sotto la finestra illuminata. Mi sono nascosto e ho atteso che se ne andasse, ma se ne stava lì, in silenzio, forse anche lui è ghiotto di uva. Ho afferrato un grappolo e sono scappato via. Mi hanno beccato tante volte, ma quella volta no. Nessuno mi ha mai detto niente. La nostra storia in paese la conoscono tutti, anche se noi non l’abbiamo mai raccontata.
Mia madre si sposta nella camera da letto. Si china senza fatica e solleva il materasso, mostrando le terga mollicce. Sotto le coperte, che usa solo d’inverno, c’è una scatola lucida e colorata.
«Che fai? Vai a lavarti che è ora di andare a scuola, ficcanaso!»
Scappo sulle scale con un sorriso stampato sulla bocca. Quello è il luogo in cui ripone le monete che guadagna con i lavori di sartoria. Cuce per le comari ricche del paese e non sto più nella pelle immaginando la ragione per cui le ha tirate fuori dal nascondiglio. Adoro il rumore del metallo scontrarsi con le pareti della scatola di biscotti, pare una danza. Mi piace il suono delle monete. Mi fa sentire amato.
«Se ti compro le seppie, Michelì?»
Me lo chiede mentre si arrampica sul ciglio delle scale. Poi prosegue, senza attendere risposta: «Più tardi vado da Gaetano. Bisogna che domani me le metta da parte.»
Il mio compleanno sarà una giornata speciale, lo sento e sono così emozionato che quando mi metto a letto, fatico a prendere sonno. E ancora mi domando che significhi ciusmeare.
«Sei sveglio, Michelì?» domanda mia madre il giorno dopo, quando secondo lei è ora di alzarsi. La sento mentre si veste al piano di sotto, dietro un paravento che ha recuperato quando la bottega di alta moda del paese ha chiuso. Era stata aperta da una signora perbene che veniva dalla città, tutta fiori e perline. Durante la guerra è rimasta chiusa per mesi, poi ha riaperto e la signora dai capelli rossi come il fuoco non c’era più. Andata nel vento, dicevano.
L’abito le sta davvero bene. Non lo dà a vedere, ma io so che cerca di compiacere mio padre. Lui invece parla a voce alta delle solite cose senza badarci a lei, con un alito di acquavite che sarebbe capace di stendere un cavallo. Stamattina devo essergli venuto in mente, perché mi sta cercando. Mi rannicchio nel mio rifugio segreto in camera da letto, la testa tra le ginocchia e i piedi serrati, cercando di diventare sempre più piccolo. Vito si arrampica sulla scala a fatica e sbatte il muso sulla porta della mia stanza, in ginocchio, il viso tra le mani. Ne approfitto per scivolare lungo la parete e correre in cucina. Pronuncia improperi sconosciuti e scende anche lui da basso, accasciandosi sulla sedia impagliata. Penso di sapere già cosa vuole dirmi, per questo non voglio sentire. A salvarmi è mia madre, che arriva al momento giusto, con il suo bel caffè amaro, buono che l’aroma si sente in tutta la via.
«Devo andare a scuola»
Con quella scusa, sempre buona, corro in cortile a riempire il catino. Mi lavo il viso e indosso gli abiti che avevo giusto ieri, che poi sono quelli del giorno prima e di quello prima ancora. Sull’uscio Vito tenta di afferrarmi per un braccio, ma riesco a divincolarmi e seguo mia madre mentre corre fuori. Cammina veloce, Filomena, un passo via l’altro, lungo la strada del mare dove i profumi si sentono forti e la brezza le solleva i lembi del vestito, leggeri, come il suo passo. Le braccia ossute, troppo bianche per questa stagione, tengono stretta una sacca di tela sdrucita e un borsellino, così piccolo che a malapena può contenere un paio di banconote piegate. Al largo i pescherecci si affacciano sulla baia beccheggiando, colmi di fasci di cime disordinate sulle coperte che marinai dalla pelle bruciata spostano da un lato all’altro della barca per fare spazio alle casse piene di pesce appena pescato. Nell’aria odore di marcio e gasolio, in cielo i gabbiani. Li osservo mentre attendono il momento giusto per beccare gli avanzi gettati in mare o lanciarsi in picchiata a contendersi il pasto migliore. Càscara dorme ancora e i loro garriti fungono da richiamo. Così la gente comincia a uscire dalle case, come formiche dalla terra, e il paese torna alla vita, dopo una notte di miseria, paura e solitudine.
«Siete già in piedi a quest’ora, Filomè?» chiede Selina, la moglie del pescatore, mentre mia madre passa sotto il suo balcone, senza degnarla di uno sguardo.
Non so molto della moglie di Gaetano. Mia madre dice che un tempo era la ragazza più bella del paese, con un solo difetto: la sua vocazione, l’esatto contrario di quella delle suore. Anche mio padre parla di lei, di tanto in tanto, con il suo compare.
«Si è sciupata parecchio, ma ha due tette...»
«Lascia stare, Vito. È come la pagina di un libro letto e riletto» gli risponde il compare puzzolente, il mio datore di lavoro. Poi ride.
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