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Un pezzetto di vita così
Un pezzetto di vita così
Un pezzetto di vita così
E-book275 pagine3 ore

Un pezzetto di vita così

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Info su questo ebook

In questo libro c’è “un pezzetto di vita così”, titolo del diario di mia madre, dove racconto il mio graduale recupero attraverso una profonda analisi per una nuova nascita nella consapevolezza, continuamente in bilico tra l’orgogliosa affermazione della mia indipendenza e l’inevitabile bisogno di amore.

Il diario di mia madre, trovato in un cassetto del suo comodino, mi ha fatto ripercorrere la difficile strada di bambina e di adolescente. Una strada segnata dalla violenza di mio padre verso mia madre. Una vita vissuta a proteggerla. Un quadro familiare dominato dalla paura e dalla sopraffazione dove io e lei eravamo unite da un legame viscerale e profondo. Fin da bambina ho dovuto camminare in punta di piedi perché il padre-padrone che prima mi accarezzava, tutt’a un tratto mi avrebbe potuto afferrare e portare nella sua tana per ferirmi. Un uomo che, all’interno delle mura domestiche, usava la violenza psicologica e la violenza fisica per raggiungere i propri scopi e sottolineare il suo potere. Un uomo che ho odiato e amato a tal punto da considerarlo la mia guida, finendo così in una trappola mortale.

Cristina Pitrè è nata a Roma. A dodici anni si è trasferita con la sua famiglia a Pesaro, una piccola città sul mare dove ha studiato pianoforte al Conservatorio Gioacchino Rossini e dove ha iniziato a insegnare nelle scuole dell’infanzia. Le sue passioni sono la musica e l’arte, passioni che trasmette ai suoi piccoli alunni. Sposata, è tornata a vivere a Roma. Ha due figlie e sogna una casa con le finestre che si affacciano sul mare.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2022
ISBN9788830664845
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    Anteprima del libro

    Un pezzetto di vita così - Cristina Pitrè

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Un fascio di luce illumina il comodino di legno scuro e una pila di libri.

    Mi siedo sul letto matrimoniale, apro il cassetto e vedo un quaderno con la copertina dura. Sopra c’è una fata colorata e c’è scritto:

    Così piccoli e blu, sparsi nei prati

    si innalzano i miei fiori, i volti delicati.

    Le mie sorelle grandi, là ai ruscelli o

    chiuse nei giardini fanno sorrisi belli.

    Nei giardini, per me spazio non c’è,

    ma anche se piccolo

    Non ti scordar di me.

    Sfoglio le pagine, molte sono state strappate. Non so quando, non so da chi. Leggo in silenzio la scrittura tonda e precisa di mia madre:

    Pesaro, novembre 1975

    Un pezzetto di vita così

    Se a distanza di tanti anni volessi guardare a questa mia vita matrimoniale tutta insieme e volessi provare a giudicarla così, cogliendo la sensazione complessiva, cosa dovrei dire?

    La cosa più viva e più costante in tutti questi anni è stata la fatica di vivere.

    Troncato ogni legame con l’esterno, soffocato ogni interesse, lontana dalla mia città, dai miei genitori, dagli amici, imbrigliata da una rete fittissima di proibizioni, vivevo praticamente sola col pericolo di scatenare anche soltanto con una parola scene paurose di gelosia assolutamente infondate.

    Io assecondavo questa alienazione comportandomi come sapevo che lui voleva mi comportassi, praticamente prigioniera in casa mia, un po’ per paura, un po’ perché mi avevano insegnato così.

    Ma io soffrivo come un cane, mi pareva di soffocare, volevo gridare, rompere tutto, scappare, proprio perché ero cosciente che non era giusto che io vivessi così.

    Stavo a Roma e la città era tanto bella, il clima dolce e tutto era da vedere; vicino a me abitavano zii, cugini, ma io dovevo stare in casa perché lui dall’ufficio chiamava e io dovevo essere lì. Se scendevo a fare una commissione, prima telefonavo per dirglielo e lui mi chiedeva: «Quanto ci impiegherai?». E dopo mi richiamava e io dovevo essere lì, magari col fiatone, perché se no dovevo rendere conto. Se trovava il telefono occupato voleva sapere chi era e cosa mi avevano detto. E se trillava il telefono e non rispondeva nessuno, oppure sbagliavano numero, lui sospettava che fosse un mio fantomatico amante: perché lui ha sempre sospettato che io avessi miriadi di amanti sparsi dappertutto facendomi vivere avvolta in una nuvola di sospetto e io lo sapevo, lo sentivo e questo mi faceva perdere ogni disinvoltura. Se si verificava una qualunque piccolezza, che sapevo poteva scatenare la gelosia, diventavo rossa senza ragione, dicevo verità che non sembravano più vere e maledicevo tutto.

    Quando ha iniziato a risvegliarsi in me la coscienza che tutto questo era profondamente ingiusto?

    Ricordo che verso sera, quando cominciava a farsi buio, dopo aver fatto mille lavori per dimostrare a me stessa che ero molto impegnata e che quindi non sarei comunque potuta uscire, spegnevo tutte le luci di casa e dalla finestra spiavo nella casa di fronte. Erano quattro in famiglia, o cinque, non ricordo bene, una madre, un padre, dei figli giovani. La madre preparava la cena, apparecchiava, si sedevano tutti insieme e si vedeva che parlavano, scherzavano, ridevano e io li guardavo dal buio e pensavo a casa mia, ai miei genitori, a mio fratello giovane e allegro, inseparabile compagno dei miei svaghi, al mio cane piccolo e devastatore e piangevo, piangevo. Tutte le sere così, per mesi e mesi. Poi sono rimasta incinta.

    Chiaro che io desiderassi ardentemente la maternità, perché vedevo in essa la fine di questa mia solitudine e di tante altre fissazioni. Ma i guai grossi dovevano cominciare proprio allora.

    Verso la fine del secondo mese, minaccia d’aborto. Ero disperata per il dolore che provavo a pensare che tutte le mie attese, le mie speranze naufragavano così, poi avevo paura, una paura tremenda perché non sapevo niente di niente, di quello che mi stava succedendo e di quello che sarebbe potuto succedermi. Pensare che avrebbe potuto essere tanto semplice: nella mia famiglia medici ce ne erano diversi e avevano amici specializzati in tutti i rami della medicina, non solo, ma abitavano proprio lì, vicino a me. Ma la proibizione di rivolgermi a loro era categorica. Trovò lui una dottoressa indicatagli non so da chi, ma da qualcuno che certamente gli ispirava più fiducia dei miei cugini e fu proprio allora che restai ancora più isolata, perché i miei si offesero e finirono col parlare sempre meno con me. Intanto l’emorragia continuava e io prendevo delle gocce di laudano prescritte da quella delinquente, che non facevano altro che addolcire il mal di pancia e allungavano l’aborto in modo che il raschiamento fosse assicurato e con quello il guadagno. Maledetta puttana!

    Lui, a parte una ovvia preoccupazione, era in pace perché era una donna a vedere le mie preziose nudità!

    Mia madre era arrivata a darmi aiuto in casa perché dovevo stare a letto, ferma. Era maggio, fuori dalla finestra era scoppiata una meravigliosa primavera e dentro di me c’era solo paura. Mi svegliarono i dolori cupi, fortissimi al basso ventre e ai reni, sembrava che una mano violenta si fosse insinuata dentro di me e tirasse giù con forza tutto: utero, ovaie, visceri. Dolore, dolore e la strana sensazione di galleggiare: era sangue che veniva giù come un fiume. A tentoni arrivai fino al bagno, tenendo le gambe strette per paura non so neppure io di che e nel tentativo disperato di trattenere il mio bambino; poi il primo blocco enorme di sangue raggrumato e poi un altro ancora e i dolori e la paura. Dio mio, mamma, fate qualcosa!

    Arrivò la dottoressa. Pensavo che, forse, mi avrebbero portata in un ospedale.

    Mi rimisero nel letto. Asciugamani stretti tra le gambe, disperazione dentro: «Adesso aspetta, buona, che sistemiamo tutto». Non mi dissero cosa aspettavamo. I dolori si facevano sempre più forti e sempre più fitti. Mi lamentavo e lei diceva che lo facevo per farmi compatire dal maritino. L’avevo detto io che era una maledetta puttana.

    Sentivo che di là trafficavano, spostavano roba, parlavano e io mi domandavo se si erano scordati di me. Dopo ore che mi sembrarono una vita, mi vennero a prendere. «Adesso bisogna che tu adoperi tutta la tua forza e che tu sia brava, facciamo presto.»

    Forza? Ma di quale forza parlavano? Io mi sentivo morire, avevo perso litri di sangue, battevo i denti, ero terrorizzata, non avevo idea di cosa mi dovessero fare!

    Mi posarono sul tavolo di cucina con le braccia tenute da lui, alte dietro, le gambe poggiate sullo schienale di due sedie, mia madre reggeva una lampada e illuminava dove quella maledetta doveva operare e vedeva venir fuori tutto, anche l’anima mia.

    E quella maledetta cominciò a operare così, senza anestesia, senza controllare se il cuore avrebbe retto; così, come su un animale da macello: grattava con la spatola sulla carne viva strappandomi ogni volta un brandello di vita, strappava un po’ delle mie illusioni, dei miei sogni, delle mie speranze. Maledetti tutti, perché non mi avevate detto che il matrimonio poteva essere anche questo?

    Dieci minuti lo fece durare il raschiamento. Un’eternità! E alla fine buttò dentro un’intera boccetta di tintura di iodio. Nelle mie viscere ci fu il fuoco, il magma bollente dei vulcani, la rabbia di essere nata donna, la paura di morire, la paura di riprendere a vivere.

    Era finita. Volle una cifra enorme e se ne andò. Nonostante tutto non ero morta.

    Rievocando questa storia non mi sono accorta dei giorni che passavano. L’ottobrata dolce e tiepida si è trasformata in un inverno gelido. Il vento forte, signore incontrastato di queste coste, imperversa, gioca con i mucchi di foglie secche e gialle davanti alla rocca. Le grandi foglie dei platani fanno mulinello, volano in alto, planano come strani uccelli scheletriti, si posano di nuovo a terra e lì marciranno, saranno il nutrimento della terra e daranno nuova forza alle radici e si ripeterà l’eterno ciclo del risveglio della natura. Dalla morte la vita e viceversa. Tutto è semplice, coerente, conseguente. Solo noi uomini ci ostiniamo a considerare la morte come qualcosa di estraneo e quindi di traumatizzante. In effetti è davvero semplice: si nasce, si muore e la vita continua nei figli, nei figli dei figli. Sarà questa l’eternità?

    1 - Sono nata

    Sono nata. Hai dovuto navigare numerose volte nel mare del dolore. Il fallimento della maternità ti ha tolto ogni volta le speranze e le illusioni che ti permettevano di continuare a vivere. Ci sono, mamma. Sono arrivata a colmare il grande vuoto che ti opprimeva, a lenire la tua solitudine. Guardami mamma. Guarda i miei occhi grandi e neri. Sono molto bella. Dicono tutti che sembro una bambola di porcellana con le mie guance rosse e carnose. Non sarai più costretta a spiare dalla finestra della cucina immagini di famiglia. Non dovrai più piangere pensando ai tuoi cari ormai lontani. Ora sono entrata nella tua vita e prepotentemente ti porterò nel mio mondo. Trascorrerai notti insonni a cullarmi e a lavare ciripà. Il mio pianto sarà insistente e mi canterai dolci ninne nanne. Io sono qui per asciugare le tue lacrime, per non farti più sentire sola nella tua prigione. Ora siamo in due e ci faremo compagnia. Sarò al tuo fianco e spierò ogni tuo respiro, ogni tuo sguardo. Ascolterò il suono della tua voce come i marinai ascoltavano il canto delle sirene e rimanevano incantati. Mi porterai lungo i viali alberati che costeggiano la nostra casa, dove inizierò a muovere i primi passi accanto a te.

    Camminerò sempre al tuo fianco. Imiterò ogni tua movenza, la tua gestualità, la tua femminilità. Crescendo ti sembrerò ostile, lontana e irraggiungibile. Ti regalerò parole taglienti e ti sentirai tradita e fallita come madre.

    Ma lo dovrò fare. Sarà inevitabile. Solo distruggendoti potrò allontanarmi da te e diventare una donna. La nostra strada sarà fatta di luci e ombre dove ci troveremo confuse e disorientate. Forse ci allontaneremo. Ma non ci perderemo. Le nostre strade si ricongiungeranno. Mi spoglierò della mia corazza e ti lascerò entrare nel mio cuore. Sarai la mia confidente, le tue parole e le tue certezze diventeranno la mia guida e nessuno potrà rinnegarle. Sarò sempre pronta a sostenerle.

    Sarò testimone del tuo dolore e mi scaglierò contro mio padre per fermare le sue mani mentre cercheranno di colpirti.

    Vivrò il tuo dolore, lo farò mio e ascolterò i tuoi lamenti.

    Ci terremo per mano nel vortice delle emozioni che ci risucchieranno. La paura sarà la nostra compagna, la complicità la nostra unica possibilità di fuga per vivere qualche stralcio di vita.

    2 - I Notturni di Chopin

    Le strade erano dissestate, una folta sterpaglia costeggiava un ruscello dove saltavano le rane. Era un quartiere che stava nascendo. Il rumore di un camioncino, guidato da un venditore ambulante, che passava tutte le mattine sotto casa per vendere il pane e la frutta. Il silenzio del pomeriggio veniva interrotto dalle nostre grida di bambini che giocavano nel cortile. Nelle sere d’estate, tra i cespugli del giardino condominiale, si intravedevano le lucciole: una meraviglia di luci simili a quelle degli alberi di Natale. Le vivevo in silenzio e il giardino diventava fiabesco. Spesso i miei giochi venivano accompagnati dalla voce di mia madre, che intonava canzoni dei suoi cantanti preferiti: Mina e De André. La sua voce mi faceva vibrare, delicata e graffiante. Aveva grandi occhi neri incorniciati da lunghe e folte ciglia, labbra carnose e un sorriso che catturava. Bella e perfetta nelle sue movenze e nel suo parlare, un corpo piccolo ma morbido e sinuoso. Quando stavo male si sedeva sul letto accanto a me e trascorreva molto tempo a disegnarmi tutto quello che le chiedevo. Sentivo il suo profumo, il suo respiro e mi lasciavo cullare dalla sua bellezza e dalla sua presenza. Era così bella che l’idea che crescendo l’avrei fatta invecchiare mi faceva sussultare di sensi di colpa. Avrei voluto fermare il tempo. Mia madre avrebbe continuato a darmi il bacio della buonanotte, a sedersi sul bordo del mio letto a raccontarmi la favola di Cenerentola. C’è un ricordo, in particolare, che consideravo un momento magico e che ancora oggi tengo vivo dentro di me: lei seduta davanti al suo pianoforte, lo stesso che l’ha vista bambina, e le sue esili mani che scivolano sulla tastiera. Eseguiva brani di musica classica con un talento non riconosciuto. I notturni di Chopin erano i suoi preferiti e io l’ascoltavo incantata. Fu così che iniziò ad accarezzarmi il sogno di diventare una pianista.

    Alessandro, mio fratello, un bambino tenerissimo, gli stessi occhi a mandorla di mia madre, intensi, già persi in un rimugino silenzioso. Scuro di carnagione e con i capelli neri, era stato soprannominato da mio padre Chicco: «Quando è nato era talmente scuro che sembrava un chicco di caffè!» mi rivelò papà il giorno in cui chiesi il motivo di questo soprannome. Giocavo spesso con mio fratello. I nostri giochi preferiti erano un trenino elettrico e il fortino con i cow-boy e gli indiani. Li facevamo scontrare in furiose battaglie dove i vincitori si alternavano per non incorrere in conflitti tra di noi. La nostra camera era il nostro rifugio. Dormivamo in due letti a scomparsa di legno scuro e la sera ci facevamo compagnia chiacchierando o leggendo i fumetti di Topolino, tenendo accese le nostre abat-jour. Da bambini giocavamo con i nostri amici nella piazzola adiacente al giardino condominiale. Le partite a tennis, la cattura delle farfalle asfissiate nei barattoli di vetro per poi spillarle sui fogli cartonati ed esporle sulle pareti della nostra camera come trofei, le corse con le biciclette nella ripida discesa erano i giochi che riempivano i nostri pomeriggi. Mio padre, un bel tenebroso. Dicono che somigliasse all’attore Tyrone Power. Capelli castani e ondulati, indossava sempre abiti di colori scuri e la cravatta. Grande compagno di giochi, organizzava con un entusiasmo coinvolgente le feste di compleanno mie e di mio fratello e le gimcane nello stabilimento balneare di Viareggio, dove trascorrevamo buona parte delle vacanze estive. Fotografo eccellente. Le fotografie le faceva con una Canon: il mirino e il corpo metallico rifinito in ferro nero, l’obbiettivo che regolava a mano, l’astuccio di pelle marrone. Le foto erano in bianco e nero, con le immagini ben definite. Io, al suo fianco, ascoltavo i suoi insegnamenti. Ha vissuto le difficoltà della guerra. «Sentivo il sibilo delle bombe che squarciavano l’aria, e poi, un boato lontano. La fame non mi faceva dormire. La sopravvivenza era legata a un filo» mi diceva. Con me rideva, correva, affrontava le onde alte del mare, mi apriva le foreste spinose e mi salvava. Ricordo che studiava, studiava tanto, seduto davanti alla sua scrivania gremita di libri. Sul muro fotografie dei nostri antenati. Accanto a lui, sul divano a fiori, lo guardavo in silenzio per non disturbarlo.

    Ma questa apparente serenità nascondeva un’atmosfera di minaccia e di tensione.

    Il suo aspetto non era cupo e minaccioso e questo lo portava a confondere noi e le persone che lo frequentavano. Era bravissimo a colpevolizzare gli altri capovolgendo le situazioni a proprio vantaggio. Criticava tutto e tutti. Usava il vittimismo e l’autocommiserazione, convinto di essere vittima degli altri e della loro incompetenza. Non comunicava, si esprimeva sempre con fare ironico e senza possibilità di replica. Non formulava le sue richieste in modo chiaro, ma poneva domande indirette e poi dalla risposta traeva le sue conclusioni, tutto da solo. Non dialogava, faceva monologhi. «Non mi interrompere! Fammi finire di parlare! Poi parli tu. Muta!» Se gli parlavi dirigeva lo sguardo dall’altra parte e scuotendo la testa diceva: «No, no, no. Non ci siamo capiti. Adesso te lo rispiego.» In silenzio dovevamo ascoltare altrimenti rischiavamo la sua esplosione: urli, botte, lancio di oggetti. Non si riusciva mai a fargli cambiare opinione, ci potevamo illudere, ma non per molto. Sembrava che al momento fosse d’accordo, ma poi ritornava ai suoi schemi precedenti. L’ironia e il sarcasmo verso noi famigliari venivano confusi con l’umorismo. «Che persona divertente e spiritosa è suo padre!» mi sono spesso sentita dire. Ma il suo vero messaggio si nascondeva nelle sue parole e nel suo tono di voce. Alle nostre parole non è mai stato dato valore. Tutti questi attacchi spesso generavano da parte di mia madre reazioni di aggressività verbale e di conseguenza la violenza

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