La bella Graziana
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La bella Graziana - Anton Giulio Barrili
La bella Graziana
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 2023 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728477243
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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LA BELLA GRAZIANA
I.
"Caro amico,
"Abbiamo l’onore d’invitarti ad una merenda che facciamo sotto la gran quercia. Vieni e ti divertirai. Dopo la merenda si ballerà.
"Per la Commissione
"Ginetto Guglielmi, Rita Berardi .„
Ascanio Marini si era fermato in mezzo agli oleandri, che fiancheggiavano l’ingresso della villa Marianna, per leggere questo curioso invito, che gli era stato consegnato allora allora da un piccolo contadino di Tivoli. Non conosceva i due personaggi che avevano l’onore di scrivergli; si maravigliava un pochino di vedere la firma maschile precedere la femminile; ma sorrideva, argomentando la tenera età degli scriventi dal carattere piuttosto grossetto e male in gamba, che è proprio dei bambini.
— Chi ti ha dato questo biglietto? — domandò al messaggero.
— I signorini di laggiù, — rispose il contadinello, indicando a sinistra.
— Ah, della villa Adele? Capisco, — ripigliò Ascanio Marini, — una festa di fanciulli.
— E ci son tutti, del vieinato, — disse allora il ragazzo.
— Sta bene; — conchiuse Ascanio Marini; — prendi per la tua corsa.
Così dicendo, porse una moneta al messaggero, che sgranò tanto d’occhi, e senz’altra forma di ringraziamento fece la sua giravolta, per ritornarsene a Tivoli. Voglio dire nell’abitato di Tivoli, perchè sul territorio del Senatus Populusque Tiburtinus ci si era per l’appunto, a mezza strada fra la città e il monte Catillo.
L’invito non diceva a che ora si dèsse in tavola. Ma l’invitato capì che non c’era tempo da perdere, poichè erano le tre del pomeriggio, e l’invito parlava di una merenda. Ascanio Marini diede un’occhiata sommaria ai suoi abiti, si ritrovò presentabile, ed uscì dal cancello, muovendo verso la villa Adele, ultima delle sei costruzioni nuove, che sorgevano lungo la costiera, coi rispettivi ingressi sulla strada maestra: la strada, senza fallo, che Orazio Fiacco faceva miilenovecent’anni addietro, per andarsene al suo poderuccio in Sabina.
Giunto ad una insenatura della strada, Ascanio Marini entrò in una piantata di olivi, e di là risalendo si avviò per una macchia di nocciuoli. Evidentemente, egli conosceva il sentiero: quantunque da pochi giorni capitato a Tivoli, ospite di un suo cognato, sapeva benissimo dove fosse la gran quercia. Colà si adunavano a giuocare i bambini delle ville signorili. I bambini, pronti a far lega tra loro, avevano subito collegate le bambinaie, quindi le mamme, e con le mamme alcuni babbi più dediti alla vita di famiglia. I cavalieri della colonia, i damerini, non avevano indugiato a seguire il movimento generale. Un contadino con la fisarmonica, un suonatore girovago con l’organino, avevano presto ritrovato da far bene. E ciò spieghi il "si ballerà„ della lettera d’invito.
Si spiegava meno come avesse potuto riceverla Ascanio Marini, nella cui famiglia non erano fanciulli, i quali avessero potuto dare il suo nome alla "commissione„. Ma chi sa? forse qualche bella mammina…. qualche graziosa sorella maggiore…. Ascanio Marini non pensò molto a queste cose, e andò verso la gran quercia, passando in mezzo a crocchi di villeggianti, seduti al rezzo delle piante. Alcuni erano conoscenti, e gli ricambiarono il saluto, che egli faceva senza fermarsi.
Per un lungo tratto, all’ombra della gran quercia, era stato spianato in quell’anno il terreno, e battuto come un’aia. Quel giorno, poi, dalle vette dei rami più sporgenti, la quercia dava frutti insoliti e strani: lampioncini giapponesi di carta, che accennavano molto chiaramente l’intenzione di protrarre la festa, o di ripigliarla a sera inoltrata. Un po’ più su, lungo la sponda dell’aia, era rizzata una gran tavola, sulla quale parecchi tovaglioli distesi l’un dopo l’altro simulavano una grande tovaglia. Gli apparecchi della merenda, o pranzo che volesse poi essere, non erano ancora finiti. Il cristallame si vedeva già a posto; non ancora il vasellame, che era portato colà, ad un pezzo per volta, dai bambini affaccendati, a mano a mano che una elegantissima donna di servizio distribuiva i piatti, con le porzioni già fatte.
Ascanio Marini, che si era avanzato sull’aia, stette un poco a contemplare la scena infantile! poi, avvicinatosi al gaio stuolo, domandò:
— Chi di voi, signorini, è Ginetto Guglielmi? Non oso infatti cercare della signorina Berardi, alla quale non sono ancora stato presentato.
— Ginetto Guglielmi son io; — disse un grazioso diavoletto biondo, mostrando in un sorriso tutti i suoi dentini candidi al nuovo venuto.
— Ah, bene; ed io sono Ascanio Marini, che lei ha invitato…. in nome della commissione.
— Anch’io ho firmato l’invito; — saltò su a dire una bella bambina dai lunghi capelli neri e dai grandi occhi d’indaco.
— Benissimo! È dunque lei la signorina Rita Berardi. I miei omaggi…. ed anche i miei ringraziamenti per il suo gentile invito. Veramente, io non sono un bambino….
— Lo sarai stato; — osservò Ginetto Guglielmi.
— Eh, sì…. molti anni fa; rispose Ascanio Marini.
Intanto, l’osservazione di Ginetto Guglielmi aveva fatto voltare la elegantissima donna di servizio.
— Signor Ginetto,— diss’ella, con accento di amorevole riprensione, — non si dà del tu ai grandi, come voi fate.
— Lasci fare, signora; — rispose Ascanio Marini. — Questi cari fanciulli ci riconducono a belli anni di Roma, quando la lingua del Lazio non conosceva nel dialogo gl’impicci della seconda e della terza persona.
— È vero; — disse l’amorevole correttrice. — Siamo afflitti dal cerimoniale, oggi giorno.
Ascanio Marini aveva rispettosamente recata la mano al cappello, riconoscendo nella elegantissima apparecchiatrice la marchesa di Mezzaterra. Una bellezza, quella donna Graziana! Ed era opinione generale, nel sesso forte, che altra bellezza compagna non ci fosse in Italia, a girarla tutta per lungo e per largo. Quando era escita di conservatorio, quattro anni prima, per andare sposa al marchese di Mezzaterra, un ricco sfondato, laggiù a Bologna, sua città natale, ogni ceto di persone aveva fatte le meraviglie, vedendola: dalle botteghe si affacciavano sugli sporti, per darle ancora un’occhiata; i viandanti, che avevano avuto in sorte d’incontrarla in una strada, prendevano le scorciatoie per rivederla ancora in un’altra. Aveva i capelli neri, lucidi, copiosi: bianca di latte la carnagione, gli occhi grandi, tinti d’azzurro carico; i lineamenti del viso, i contorni della persona, erano di statua greca.
Il Marini la conosceva a mala pena da cinque giorni, e di vista e di nome. Avevano fatto il viaggio da Roma a Tivoli con la medesima corsa di tranvai: ed egli, stando a fumare sul terrazzino, mentre la signora era seduta nell’interno della carrozza, l’aveva sentita nominare per la marchesa di Mezzaterra, ricavando anche, senza volerlo, dai discorsi che si facevano intorno a lui, che la bellissima signora aveva a Tivoli in villeggiatura la sua sorella maggiore, una Caccialupi di Sovara, presso la quale andava a passare pochi giorni soltanto. Infatti, una settimana prima che si riaprisse la caccia, il marchese e la marchesa di Mezzaterra solevano esser già nella loro tenuta di San Firmino, un vero principato, con boschi, macchie, stagni, volpi, cinghiali, anitre selvatiche, beccacce, starne, ed ogni ben di Dio, compresa la febbre, tra Montalto e Grosseto.
Una società molto strana, quella che si radunava a San Firmino! Tutti uomini, salvo la padrona di casa. Nella colonia dei villeggianti di Tivoli, in cui erano parecchie signore dell’aristocrazia romana, e tutte le altre volevano aver l’aria di appartenerci, si parlava molto di quella padrona di casa, che stava sola, del suo sesso, tra quindici o venti cavalieri per tutta una stagione dell’anno. Non ne parlavano, s’intende, in presenza della sorella di lei. Ma i loro discorsi, quantunque non benevoli troppo, e forse appunto perchè non erano tali, trattenevano poco, anzi non trattenevano affatto i signori uomini della colonia tiburtina, dal ronzare intorno alla marchesa di Mezzaterra e dal cercare di esserle presentati. Le signore non avevano le stesse ragioni per fare la sua conoscenza, o per renderla più intima: salutavano scambiavano poche frasi, e si chiudevano per tutto il resto in quel riserbo di armata neutralità, che tanto somiglia ai prodromi di una dichiarazione di guerra. Di solito, in ogni società costituita, i nuovi venuti hanno poca fortuna. Poi, la marchesa era troppo bella. Il troppo stroppia. Le sue rivali necessarie la guardavano con Cert’occhi, che parevano volerla fare a pezzetti. Quando non era presente, ne parlavano spesso, a frasi rotte, di sapore agrodolce, che volevano dire e non dire, lasciando trapelare da un’ombra di stizza l’intenzione di un severo giudizio. Al Marini, Che non si era mostrato punto desideroso di avvicinar la marchesa, domandavano sorridendo:
— Ebbene, come la trova?
— Bella, senza dubbio.
— O perchè allora non si fa presentare?
— Non ne vedo la necessità.
— Ma il piacere, almeno….
— Il piacere degli uni hon deve essere una noia per gli altri; — rispondeva Ascanio Marini. — Io ho sempre pensato che ad una signora debba riescire parecchio noiosa la smania di tanti che vogliono esserle presentati. L’occasione, per mio avviso, I’occasione soltanto può ravvicinare naturalmente le persone per bène.
Le signore, che avevano conosciuto per occasione il Marini, non potevano dire che egli ragionasse poi tanto male. Restava sempre che dovesse parer nuovo un gentiluomo, il quale non voleva essere presentato alle beìlé signore.
Così, senza la trafila della presentazione, era venuto il momento che Ascanio Marini si ritrovasse davanti alla marchesa di Mezzaterra, e, senza aver fatto nulla per condur le Cose a tal punto, le rivolgesse il discorso. Ginetto Guglielmi e Rita Berardi avevano la Colpa di tutto. Ma le cose potevano restare à quel punto. Ascanio Marini aveva pure stabilita una massima, dicendo di non poter chiedere dicevolmente della signorina Rita Berardi, senza esserle stato presentato. Fedele a quella massima, egli non colse l’occasione che gli era offerta da una frase della marchesa Graziana, per seguitare la conversazione con lei. Andarsene, lì per lì, non poteva; star zitto neànche, rivolse dunque la parola ai bambini.
— Posso aiutare in qualche cosa? — diss’egli a Ginetto Guglielmi.
Ginetto non sapeva che dire; rispose per lui la signora.
— Sì, bravo, faccia qualche cosa. C’è qui la cesta del pane. Metta un panino accanto a tutti quei piatti; anzi, ne metta due. All’età di questi signorini, Si sgrana tanto volentieri!
Ascanio si affrettò ad entrare in funzioni. Prese la cesta del pane e andò verso la tavola, per incominciare la distribuzione che gli era stata assegnata.
— Veramente, — seguitò la signora, Un invitato non dovrebbe essere costretto a fare il cameriere. Che ve ne pare, a voi altri della commissione?
I bambini risposero con le loro belle risate argentine e Coi loro salti di caprette imbizzarrite.
La mensa, finalmente, era all’ordine. I bambini, allegro sciame, si sparsero qua e là con grida festose, chiamando a raccolta i loro invitati. Inutile il dire che a tavola sedettero essi (santo oblìo di ogni prammatica!), e che gl’invitati, signore e signori, dovettero sedersi Sull’erba. Ma quella tavolata d’innocenti offriva un così gaio spettacolo! era così bello vederli impacciati a servirsi da sè, quali tenendo le forchette impugnate a guisa di violoncelli ó di contrabbassi, quali prendendo il cibo colle dita, per non istarsi a seccare coi ferri della civiltà, che poi per troppo tempo avrebbero dovuto avere alle mani. Ben presto si notò un tentativo di confondere le portate; qualche manina luccicante d’intinto si stese verso i trionfi delle frutte, e qualche pesca andò a mescolarsi colle fette d’arrosto. Ci volle tutta l’autorità del maestro di casa, o meglio dell’aio in gonnella, per mantenere un po’ d’ordine. Gli invitati, frattanto, per non far complimenti, accettavano un’ala di pollo, sbocconcellavano una fetta di prosciutto, bevevano un bicchiere di quel vino, che era vietato, o largamente annacquato, ai piccoli commensali. Il ghiaccio era rotto: oramai mangiavano tutti, ne avessero o non ne avessero voglia. E quella era una bella occasione ai signori uomini, per rendersi utili alle dame, in qualità di scalchi e di coppieri. Così la merenda fu per grandi e piccini. Mangiò anche Ascanio Marini, a cui l’uffizio suo di aiutante agli apparecchi di tavola permise, anzi fece obbligo, di servire la marchesa Graziana. Nessuno, per quella volta, gli contese il posto e l’onore. Lo avevano veduto tutto occupato con lei a mettere in ordine ogni cosa: pareva naturalissimo che fosse il suo cavaliere, senza intromissioni, nè aiuto di terzi. Qualcuno anzi osservò argutamente che il cameriere e la cameriera dovevano mangiare ad uno stesso tagliere. La cosa non andò proprio così, perchè non c’erano taglieri; ma avvenne per altro che ad un certo punto Ascanio Marini bevesse nello stesso bicchiere della marchesa Graziana. Impossibile di fare altrimenti, per la confusione allegra della mensa e dell’ora.
II.
La merenda fu per molti un pranzo, quantunque senza minestra: per istare all’uso romano, si può dire che fosse una cena. Si sentiva il caldo del pomeriggio, e qualcheduno aveva pensato a far lavorare la sorbettiera. La trovata era stata accolta con giubilo, e il lavoro era seguito sul principio da una trentina di occhietti furbi, con una certa attenzione curiosa. Ma una sorbettiera di famiglia non poteva essere abbastanza sollecita per tanti commensali: molti dei quali si stancarono presto di aspettare la volta loro, e taluni amarono meglio scorrazzare qua e là, rincorrendosi sotto gli alberi, altri si addormentarono bravamente sull’orlo della tavola. Ascanio Marini ammirò lungamente il sonno di una bella tombolina, dalle guance di rosa e dai ricciolini d’oro, che coi labbruzzi di corallo chiamava i baci della gente, ma che con certe gocce di salsa, rapprese su quei labbruzzi di corallo, chiamava per intanto le mosche. E le cacciava, dormendo, la bella tombolina; le cacciava con le sue manine grassocce, facendo pensare in certo qual modo al biblico: "io dormo, ma veglia il mio cuore„. Dolce bambina! Ascanio si era chinato su lei; sventolava il fazzoletto per cacciare le importune visitatrici dal suo bel visetto vermiglio; l’avrebbe baciata, se non avesse temuto di esserle più importuno delle mosche.
— Ama i bambini? — gli domandò d’improvviso una voce.
Si volse, e vide la marchesa Graziana.
— Non so; — rispose egli, sconcertato.
— Come, non sa? Questa, mi permetta, è curiosa. Non sa?
— Eh, signora, è così; — replicò Ascanio, volendo spiegarsi meglio. — Fino ad oggi non ho mai sentito di amarli. Debbo io dirle tutto? Ho sempre creduto di pensarla, rispetto ai bimbi, come il re Erode, di esecrata memoria.
— Che orrore! — gridò la marchesa.
— Vede? io stesso mi son giudicato, dicendo: di esecrata memoria. Ma la verità innanzi tutto. Gli innocenti mi davano noia; effetto, forse, del non averli mai veduti da vicino e studiati. Non oserò più pensare così, d’ora innanzi; amerò, le prometto, i marmocchi.
— Non dica marmocchi! — esclamò la marchesa, aggrottando le ciglia. — Quando li vedo chiamati così in qualche libro, mi vien voglia di battere il libro contro il muro. È una così brutta parola, per così belle creature!
— Povero me, se fossi un libro! — disse Ascanio, chinando la testa. — Ma se ella crede di usare un’altra forma di correzione, faccia pure liberamente. Io mi assoggetto ad ogni pena.
— Si assoggetti a non usar più quella brutta parola; — replicò la marchesa, sorridendo.
Ascanio s’inchinò, mostrando di gradire quel sorriso, che temperava la rigidità del comando.
Frattanto le bambinaie raccoglievano i commensali dormenti, e qualche vera ed autentica persona di servizio si accingeva a sparecchiare.
— Signora, — disse Ascanio, mentre la marchesa Graziana si ritirava da un lato, per lasciar libero il passo, — ho fatto parte ancor io, sebbene casualmente, della commissione ordinatrice. Spero che ciò possa valermi come una mezza presentazione.
— Ella è il dottor Marini? — chiese la signora, mostrandogli, anche nella forma dubitativa della frase, di sapere il suo nome.
— Sì, marchesa; — rispose il giovane.
— Dottore…. — proseguì ella, — in medicina?
— No, signora, in leggi.
— Ah, dunque avvocato?
— Ci corre, signora, ci corre! Per essere avvocato, ci vorrebbero le pratiche; ed io non le ho fatte. Mi contento di una laurea puramente decorativa. La vedova e il pupillo non sono il fatto mio; la cosa giudicata mi lascia freddo; il muro divisorio mi dà noia; il regime delle acque mi secca; il testamento mi contrista; e la cambiale…. mi ha sempre fatto paura.
— Così, a studiar leggi, ella ha perduto il suo tempo?
— Ohimè, sì, come si perde in tante cose!
L’organino aveva incominciato a macinare un po’ di musica.
— Vedo che qui non lo vogliono perdere; — ripigliò la marchesa. — Si comincia presto, a ballare.
— Ma sì, per contentare i bambini…. ed anche un pochettino i grandi; — rispose Ascanio. — Ora, poichè la presentazione, bontà sua, è stata fatta, posso io chiederle l’onore di un giro di valzer?
La marchesa Graziana fece un gesto di ripugnanza.
— Non ballo volentieri; — disse ella.
— Oh, perdoni; — rispose Ascanio, dissimulando in un mezzo inchino il senso ingrato che gli faceva quella notizia imprevista.
La marchesa parve ad un tratto aver mutato proposito.
— Ma non voglio mica parerle sgarbata; — soggiunse. — Per un giro, eccomi qua. Se non altro, avremo dato coraggio a tanti, che pare aspettino il buon esempio…. o il cattivo, secondo come si vede.
Infatti si era appena alle prime battute; qualche coppia si era formata, ma nessuna voleva esser la prima.
Un applauso dei più chiassosi salutò l’entrata della marchesa Graziana e di Ascanio Marini in figura. Sorrisero ambedue, lanciandosi giocondamente nel mezzo. L’esempio, buono o cattivo che fosse, fu tosto seguito dagli altri. La marchesa fece il giro di valzer che aveva concesso ad Ascanio; ne fece anzi per compiacenza un secondo, trascinando il suo cavaliere, che già accennava a fermarsi; ne fece un terzo per la buona misura: poi si arrestò.
— Va bene così? — diss’ella ad Ascanio.
— Signora…. più che non osassi sperare.
— Ora ballano tutti; possiamo riposar noi; — ripigliò la marchesa.
Ma c’era chi non la pensava in tal modo. Un cavaliere si presentò subito dopo, e un altro, e un altro ancora, a chiedere il solito onore. Con tutti la marchesa Graziana si scusò bellamente. Non ballava volentieri, perchè il ballo le dava il capogiro. Aveva voluto provare ancora una volta, dopo tanto tempo; ma era peggio che mai; bisognava rinunziarci.
I tre cavalieri, l’un dopo l’altro sconfitti, si ritirarono in disordine. Così la marchesa Graziana fu lasciata tranquilla.
— Signora, — le disse Ascanio, poichè il terzo si fu allontanato, — io debbo ringraziarla doppiamente della cortesia che mi ha usata. Ma farò dei gelosi.
— Dio buono! — esclamò la marchesa. — A lei non potevo dire di no, che è stato tanto gentile da aiutarmi nel servizio della tavola. Ma, in verità, il ballo non è fatto per me. Non mi dà il capogiro, come ho detto, per farla breve; non mi stanca nemmeno; mi dà noia…. come a lei il muro divisorio.
E torse, così parlando, le labbra, come se volesse dire: io sono alla fin fine una statua greca; non voglio esser levata dal plinto e brancicata da tutti i devoti che mi hanno bruciato un granellino di incenso.
Seguì una lunga lacuna nel discorso, lacuna fortunatamente colmata da Rita Berardi, che era venuta tra un ballo e l’altro, con Ginetto Guglielmi, suo cavaliere, a baciare; la bella direttrice della festa. Ascanio guardava la scena con certi occhi che parevano dire: e a me niente, che ho prestata l’opera mia alla vostra commissione? Ma anch’egli ebbe presto la parte sua nella riconoscenza dei piccoli commissari. Non altrimenti le api industriose, aliando qua e là, portano ad un fiore qualche particella di un altro, ministre inconsapevoli e gioconde degli arcani disegni della madre natura.
Il pensiero che era venuto ad Ascanio, nel ricevere il bacio dei due innocenti, poteva essersi affacciato anche alla mente di donna Graziana. Egli si sentì un pochino confuso, e cercò di riappiccare il discorso, quasi a sviare con quel piccolo artifizio il pensiero di lei, come il proprio.
— Rimarrà qualche tempo a Tivoli? — le chiese.
— No; — rispose la signora; — partirò doman l’altro.
— Così presto?
— Eh! dovevo restare tre giorni, e ne son passati già cinque. Doman l’altro sarà una settimana.
— E le par molto?
— No, perchè non mi sono annoiata. Ma il mio programma per la stagione è così fitto! Ora debbo ritornare a Roma, per una quantità di preparativi.
— Preparativi di partenza.
— Sì, per la Svizzera. Ma non si farà che passare.
— E poi…. — disse Ascanio, — a San Firmino.
— Per il primo di settembre, sicuramente; — rispose la marchesa.
— Un bel luogo! — esclamò Ascanio. — È poetico, con quella macchia senza fine!
— Lo conosce?
— No, signora; l’ho veduto