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Solitudine di una Regina di Cuori
Solitudine di una Regina di Cuori
Solitudine di una Regina di Cuori
E-book228 pagine3 ore

Solitudine di una Regina di Cuori

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Info su questo ebook

Mentre Roberta si ritrova a passeggiare con la sua ultima nata, un messaggio dal telefonino le giunge dal passato. Implacabile e puntuale, il suo trascorso risale in superficie con tutta la sua violenza. Nel messaggio, Cristiano, suo padre, esplicita il desiderio di un confronto. 
Sparito dalla società da molto tempo, vittima di se stesso e della sua superficialità, da sempre vive il suo ruolo di uomo e di padre in modo altalenante. Anche con Miranda, sua moglie, il rapporto è deficitario, man mano la donna vede sgretolarsi davanti a sé tutti i suoi sogni: una realtà asciutta e cruda si svela ai suoi occhi. Le resta, quindi, la necessità di ricostruire un vissuto che a lungo è stato mortificato dalle continue mancanze e dagli atteggiamenti provocatori di un uomo che ha giocato con il destino, con la propria famiglia e con i propri affetti.

Solitudine di una Regina di Cuori, di Raffaella Francone, è uno splendido romanzo dai toni drammatici, nel quale vengono tratteggiati meravigliosamente tutti i personaggi. Dotati di vitalità e caratterizzazione psicologica, nella loro individualità l’Autrice li amalgama perfettamente tra le righe del costrutto. Raffaella ha saputo descrivere l’amore in tutte le sue sfumature, esponendo dettagliatamente le capacità peculiari e relazionali dei singoli componenti, ma soprattutto ha saputo svelare e mettere in evidenza tutte quelle percezioni, a volte poco manifeste, che costruiscono i rapporti e mettono in relazione l’uno con l’altro.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2024
ISBN9788830695092
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    Anteprima del libro

    Solitudine di una Regina di Cuori - Raffaella Francone

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1.

    Voleva solo un figlio, uno, unico e maschio, ma ora, invece, guardando la piccolina davanti a sé, la terza dopo due maschietti vivaci e dolcissimi, si alimentava di quel sorriso disarmante, si specchiava nei grandi occhi scuri come quelli dei fratelli e non poteva più immaginare la sua vita senza di loro.

    Li amava infinitamente, la loro nascita aveva cambiato completamente la sua esistenza e le sue priorità, la propria sete di autonomia, per cui tanto aveva lottato. Ora dipendeva da quei tre angeli come dall’aria che respirava e sentiva che loro dipendevano da lei, una sensazione che la completava e la saziava pienamente.

    E poi lui, ad incorniciare il delizioso quadretto, con tutto il suo amore e il suo calore avvolgente e protettivo, un amico dell’infanzia, che un giorno, quasi per gioco, era diventato il compagno di una vita.

    Nulla avrebbe dovuto più intimorirla con lui accanto, anche se in realtà Roberta non si spaventava più da parecchio tempo. Le vicissitudini che la vita le aveva riservato le avevano insegnato a non farsi scoraggiare da niente e da nessuno, se c’è la salute, c’è la soluzione diceva sempre; invece, proprio da quando c’era lui, e poi la loro famiglia, una paura costante la terrorizzava: quella di poterli perdere e di venire privata un giorno della felicità e dell’appagamento piacevolmente nauseabondo che sentiva quando stavano tutti insieme.

    Era ancora in maternità, la bimba aveva pochi mesi, ma considerato che Roberta non sapeva stare ferma, aveva deciso di approfittare di questo periodo per scoprire la sua città, che per mancanza di tempo, si rendeva conto, non conoscere molto bene.

    La piccola Mia sembrava apprezzare, cullata dalle lenti vibrazioni del terreno dissestato si lasciava piano piano catturare da dolci veglie alternate a sonni profondi…

    Che pacchia dormire mentre qualcuno ti scorrazza in giro per la città pensò Roberta guardando quel frugoletto dormire dinanzi a lei, nel suo passeggino; poi una vibrazione nell’antiscippo, collaudato sostituto delle ormai superate borse all’ultima moda, improponibili sia per praticità che sicurezza se hai tre figli al seguito, e in quel momento ricordò di quando, ancora piccola, aveva subito uno scippo con la nonna.

    Tornavano da fare la spesa, la nonna teneva lei con una mano e con l’altra la borsa delle vivande, e quasi sotto casa furono avvicinate da un mal intenzionato con una pistola, che lasciava intravedere dalla tasca. Chiese la borsa alla nonna, ma lei per fare la spesa non la portava mai con sé e, nella sua esitazione, il brutto ceffo le strappò la collana dal collo e scappò nella macchina affiancatasi nel frattempo. Sgommarono via, lasciandole attonite ed incredule. In realtà Roberta aveva capito poco di quello che era accaduto, aveva percepito solo la grande preoccupazione della nonna, tutto il resto lo aveva sentito poi raccontare più volte nei giorni a venire. Si ipotizzò anche, che la pistola fosse un giocattolo, in ogni caso loro si spaventarono moltissimo.

    Persa in quel ricordo aveva attraversato il corso, ed ora poteva leggere il messaggio arrivato sul suo cellulare.

    "Ciao, Roberta, parlarti al telefono sarebbe impossibile per come mi sento, il pianto me lo impedirebbe, sarebbe un’interruzione unica. Quando puoi, per favore, mandami il tuo indirizzo e-mail, ti voglio scrivere. Sento il bisogno di farlo".

    Vista annebbiata, suoni ovattati, un pugno fortissimo allo stomaco e poi il cuore, bum bum assordante nelle orecchie, le sue mani tremanti e le gambe molli. Non mi sento bene, devo sedermi pensò.

    Si piegò su se stessa, si sentì implodere violentemente, come riassorbita da un vortice, solo una mano la teneva ancorata al presente, un braccio teso sopra di sé, aggrappato al passeggino, l’altro ad accompagnare una mano al petto, l’aria assente, un colpo di tosse, la sensazione di annegare Voglio respirare… Mia – guardando la figlia, una ventata d’aria – Ok sono salva.

    Mia ignorava cosa avesse vissuto la sua mamma e continuava a dormire placida nel passeggino; questa immagine restituì a Roberta il recupero della vista, di nuovo nitida, e il contatto con la realtà, ma si sentiva ancora spossata, le sembrava di aver vissuto un’esperienza extrasensoriale, o almeno così le aveva sempre immaginate.

    Avvertì il bisogno di sedersi un attimo; poco oltre il corso conosceva dei giardini, dove i suoi bambini giocavano dopo la scuola e dove suo nonno Michelangelo portava lei e sua cugina quando erano bambine. La domenica, dopo il consueto pranzo con gli zii a casa dei nonni, lui prendeva le bambine e le accompagnava prima a prendere il gelato e poi ai giardinetti dietro casa. La passeggiata era lunga perché il nonno spesso si fermava per raccontare alle nipotine qualche aneddoto divertente o le birbonate dei loro padri quando erano bambini.

    Già, l’ironia della sorte l’aveva portata a vivere nella stessa zona, ad un isolato di distanza da dove era cresciuto lui con i suoi genitori e suo fratello. Tutto intorno a lei parlava di Cristiano, della loro infanzia e di quelle domeniche passate con la famiglia di papà.

    Appena entrata nei giardini, decise di sedersi alla prima panchina; il cellulare suonava, era sempre lo stesso suono, ma in quel momento lo avvertiva fastidioso ed insistente.

    «Il cellulare, dov’è? Dove, dove l’ho messo?» si domandò nervosamente, per poi caricare lo stesso tono di estrema dolcezza vedendo i grandi occhi di Mia che la fissavano: «Ciao Mia, amore mio, ti sei svegliata. Ecco, ecco il telefono, è nonna Miranda…Pronto!».

    Miranda era ormai in pensione e approfittava dei periodi di maternità di Roberta per farle delle improvvisate e godersi un po’ i bambini.

    Aveva sempre pensato che si sarebbe occupata dei nipotini a tempo pieno, così come aveva fatto sua madre, soprattutto per la devozione che Roberta aveva sempre dimostrato per il lavoro, e poi per la propria riconosciuta passione per i bambini. Dopo la nascita dei gemelli aveva capito che le esigenze della figlia erano cambiate e che le ambizioni professionali avevano lasciato il posto all’aspirazione di diventare un’ottima madre, e di curare personalmente la crescita dei propri figli.

    Inizialmente aveva sofferto questa decisione di Roberta, ma col tempo e la stanchezza di una vita difficile aveva imparato a godersi i suoi affetti e la sua libertà, ora anche lei sembrava serena.

    «Ciao, tesoro, volevo farti una sorpresa, ma non sei a casa… dove sei? Ti posso raggiungere o sei lontana? Ok, arrivo!».

    Quando giunse, Miranda trovò Roberta seduta sulla panchina del parco, stava dando a Mia uno spuntino, lo faceva in modo meccanico, l’occhio era perso in qualche mondo lontano, non era presente. Nel momento in cui la salutò, lei sembrò ridestarsi, ne ebbe, quindi, l’effettiva conferma: la mente di Roberta non era lì.

    «Buongiorno, bellissime fanciulle».

    «Ciao, mamma, come stai?».

    «Io bene e tu? Avevi una voce strana, non ti senti bene?».

    Roberta non rispose, la guardò fissa negli occhi, ma sembrava non avesse neanche sentito la domanda.

    «Roby, tesoro, sei stanca? Mi preoccupi, cos’hai?».

    «Nulla, mamma, sto bene. Mia questa notte non ci ha fatto dormire molto, sono un po’ assonnata… Magari te ne vuoi occupare tu mentre io mi rilasso un secondo, che ne dici?».

    Un sorriso radioso sul volto di Miranda arrivò prima di una conferma scontata: «Ma certo! Non vedevamo l’ora io e la mia principessa di passare del tempo insieme, tutto per noi, vai pure a casa a riposare, noi facciamo un giretto e poi arriviamo».

    Roberta sembrava non aver neanche fatto caso al monologo della madre, e, nel gesto di allontanarsi, fece due passi come per dirigersi verso casa ma poi di scatto si voltò e si rimise a sedere accanto a Miranda.

    «Mamma, mi racconti ancora come vi siete conosciuti tu e papà? Giravate in questa zona vero?».

    La primavera stava arrivando, annunciata da sporadiche e miti brezzoline, fragranze dolciastre dei primi fiori color pastello, mescolate al profumo acerbo dell’erba neonata.

    Miranda non distolse lo sguardo dalla nipotina, intenta a risistemarla dopo la merenda. Quella richiesta inaspettata non l’aveva colta per nulla di sorpresa.

    «Non la sai a memoria questa storia?».

    Roberta periodicamente aveva necessità di sentir parlare del suo passato, delle sue origini e soprattutto di suo padre. Ecco cosa la turbava, quella mattina.

    «Da dove iniziamo, da quando ho presentato tuo padre alla nonna? Un disastro. Te lo avrà raccontato anche lei, immagino, con sfumature molto colorite, come solo lei sa fare» scoppiarono a ridere tutte e due immaginando nonna Teresa infuocarsi al ricordo del genero.

    «No, dall’inizio, da quando giravate per queste vie, da quando eravate dei ragazzini spensierati che si fumavano gli spinelli».

    «Ancora che insisti! Non ce li siamo mai fumati gli spinelli!» e risero ancora.

    «Sì, sì, diciamo che non lo ammetterai mai. Avevi diciotto anni nel Sessantotto; gli anni dell’inquietudine giovanile per eccellenza, ma non la tua, giusto?» argomentò in tono scettico e canzonatorio Roberta.

    Era stato effettivamente un periodo storico turbolento, di contestazioni sociopolitiche, di ribellioni studentesche, dove l’uso delle droghe e della musica era la fuga da una realtà bigotta e monotona. Tutti aggettivi che ancora oggi erano impossibili da accostare a sua madre, figuriamoci all’epoca.

    La primavera e la location portarono Roberta verso un passato a lei ignoto e affascinante, vissuto e rivissuto nelle narrazioni della madre; raccontato con ironia, a tratti, però, durante l’esposizione, si alternavano nostalgia e una grande sofferenza, ma comunque Miranda assecondava, da sempre, l’esigenza della figlia di sapere, di immaginare e di rievocare quei tempi in cui mamma e papà erano felici, a volte arrabbiati, ma sicuramente insieme.

    Decisa ad appagare la curiosa necessità di sua figlia, come un cantastorie, iniziò a narrare, ma a differenza delle altre volte lo fece in terza persona, probabilmente per prendere le distanze da un passato che le aveva profondamente segnate.

    2.

    «Erano tutti un po’ annoiati, le vacanze erano finite, c’era chi aspettava di tornare al lavoro e chi di tornare ai propri studi.

    Raccontandosi l’estate trascorsa e i progetti futuri, girovagavano indolenti per la città, si facevano confidenze e si prendevano in giro l’uno con l’altro, erano affiatati tra di loro, formavano una bella comitiva.

    Provenivano un po’ da tutte le zone di Torino, alcuni addirittura dalla prima cintura. Avevano scelto come punto di ritrovo un’area strategica, Borgo Vanchiglia, quartiere storico, testimone dell’unione tra i fiumi Po e Dora, facilmente raggiungibile da tutti, circondato dal verde e non troppo distante dal centro città.

    Quel pomeriggio di settembre però, contro l’apatia di fine estate, si spinsero per una merenda Alla Cremeria in zona Crocetta.

    Il locale che ospitava gli avventori era semplice, forse neanche troppo alla moda, ma Giovanni, scopritore di eccellenze, diceva che facevano una panna montata fresca da urlo e poi lì, aveva conosciuto Seba e i suoi amici dandy.

    Ragazzi, sentirete che prelibatezza! Sicuramente lì ci sarà anche Seba con il suo gruppo, ci tengo a presentarvelo, è forte, vi piacerà.

    Sebastiano era lì con gli altri, stavano gustando un affogato al caffè ricoperto di panna montata, quasi a confermare l’ottima pubblicità fatta da Giovanni.

    Gio’, che piacere vederti, vieni, ci siamo tutti, manca solo Cristiano, è in ritardo.

    Naturalmente! aggiunse Giovanni, in perfetta complicità con l’amico e con tutto il gruppo che scoppiò in una sonora risata.

    Gli accompagnatori di Giovanni, timidi spettatori e scopritori di una rivalità dettata della sintonia tra il loro amico e quegli sconosciuti, restarono leggermente in disparte, attendendo un gesto di Giovanni che li introducesse nel nuovo contesto.

    Dopo le prime presentazioni, Giovanni e Seba unirono spavaldi alcuni tavoli, in modo da poter stare seduti tutti insieme, suggerirono ai nuovi arrivati di ordinare anche loro un affogato con panna, la specialità di Nino, il proprietario della cremeria.

    Dopo qualche scambio di idee e battute, più che altro introduttive, l’atmosfera si era già scaldata, i ragazzi ebbero subito una buona intesa e si trovarono a ridere e scherzare come se si conoscessero da tempo.

    Miranda e Anna, della compagnia di Giovanni, dopo aver ordinato si alzarono insieme, come fanno spesso le donne, chiedendo della toilette. In quel momento entrò Cristiano. Un po’ disorientato da tutta quella gente inaspettata, esordì con una battuta per togliersi dall’imbarazzo e per attirare l’attenzione delle due ragazze che si stavano allontanando dal tavolo.

    Ragazze, non disperate, dove state andando? Sono arrivato, è arrivato il più bello del gruppo.

    L’uscita di Cristiano provocò un gran baccano, fischi, sbeffeggi e risate bonarie degli amici; un po’ meno calore dimostrò chi ancora non lo conosceva e che per la prima volta si trovava ad avere a che fare con la sua strafottente ironia.

    Miranda e Anna, un po’ interdette, arrossirono in viso e proseguirono verso

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