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L’obbligazione naturale tra fatto e diritto: premesse per una discussione

Da: «Le obbligazioni naturali tra dogmi antichi e nuovi interrogativi» Palazzo del Bo - Padova 3 dicembre 2021, a cura di Paola Lambrini

almanacco romanistico di padova diretto da Luigi Garofalo LEZIONI 4 Le obbligazioni naturali tra dogmi antichi e nuovi interrogativi Palazzo del Bo - Padova 3 dicembre 2021 a cura di paola lambrini Editoriale Scientifica napoli proprietà letteraria riservata © Editoriale Scientifica srl 2023 via San Biagio dei Librai, 39 Palazzo Marigliano 80138 Napoli www.editorialescientifica.com isbn 979-12-5976-800-1 Indice Sara Longo Il naturale debitum classico e le obligationes naturales giustinianee: un confronto inevitabile 9 Riccardo Fercia La moralizzazione della necessitas nella tradizione europea della definizione imperiale di obligatio 37 Raffaele Volante Obbligazioni naturali e diritto comune. Un problema metodologico per il monismo giuridico 79 Mauro Grondona L’obbligazione naturale tra fatto e diritto: premesse per una discussione 5 109 Mauro Grondona L’OBBLIGAZIONE NATURALE TRA FATTO E DIRITTO: PREMESSE PER UNA DISCUSSIONE I Un’osservazione introduttiva Una riflessione civilistica intorno all’obbligazione naturale, figura come tale a metà strada tra il fatto e il diritto, nel senso che subito chiarisco, può seguire, oggi, varie strade: talune, più consuete, nel solco del tradizionale filone dogmatico, ma naturalmente aperto all’elaborazione giurisprudenziale, volte in sostanza, da un lato, a descrivere il contenuto concettuale dell’obbligazione naturale, nonché, dall’altro, a indicarne gli utilizzi operativi (anche problematici); talaltre, non dirò meno consuete, ma certamente di minore rilevanza strettamente giuridica (quantomeno in senso tradizionale, cioè volendosi prestare attenzione ai meccanismi formali attraverso il quale il diritto opera), volte in particolare a riflettere sul senso, prima ancora che giuridico, etico-politico della categoria dell’obbligazione naturale. Una strada, quest’ultima, che inevitabilmente porta a un’analisi di impronta, se non altro lato sensu, sociologica, per poi trarne alcune possibili conseguenze e ricadute nella prospettiva giuridica, come vedremo in particolare in chiusura, ivi formulandosi una domanda a cavallo tra l’approccio empirico e quello normativo, 109 sì da potersi attribuire all’obbligazione naturale una portata più ampia, e soprattutto più significativa, nella dialettica obbligo etico-sociale/obbligazione, che è poi, appunto, uno dei temi intorno ai quali svolgere una riflessione che guardi al fatto come a un ponte verso la giuridicità (in questa prospettiva, sorgente da una pluralità di indici, di elementi, di fattori, di interessi, di esigenze). Orbene, in questo mio breve intervento, in effetti da intendersi veramente, e minimalisticamente, come una mera indicazione di alcuni punti che potranno poi essere successivamente ripresi, partendo da una succinta analisi di quanto nella Relazione al codice è scritto sul tema dell’obbligazione naturale, appunto nella prospettiva politica, vorrei poi soffermarmi su alcune questioni che il concetto di obbligazione naturale (soprattutto rispetto alla funzione da essa svolta) apre – se non altro al giurista interessato alla dimensione politico-interpretativa del fenomeno giuridico; e lo farò traendo spunto da tre testi: uno remoto1 (e direi assai poco conosciuto, ma tutto da riscoprire, come mi propongo di fare in altra sede); due recentissimi2. 1 t. ascarelli [ma in realtà lo scritto – e infatti finora non incluso nella bibliografia ascarelliana – è firmato asca., donde qualche possibile dubbio sull’attribuzione, a mio avviso da risolvere sicuramente nel senso che Ascarelli ne è l’autore, come dirò meglio nella sede della ripubblicazione di questo contributo], Marxismo e socialismo – Il revisionismo di Baratono, in Critica Sociale, XXXIV, n. 15, 1° agosto 1924, 234 ss. 2 t. greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Bari-Roma, 2021; f. viola, Indipendenza, dipendenza, interdipendenza in una società di singoli, in Debito e promessa. Tra dipendenza e autonomia, a cura di L. Alici e S. Peirosara, Milano, 2023, 23 ss. 110 L’aspetto che li accomuna (ma qui non svolgerò alcuna analisi propriamente filologica, come invece il primo di essi sicuramente richiederebbe: mi riprometto di svolgerla in altra sede) è l’idea di una giuridicità che è tale, da un lato, solo rispetto a una dimensione etica che, facendosi diritto (attraverso un meccanismo che potremmo anche qualificare, grosso modo nella linea di Ascarelli, che vedremo a breve, di dialettica istituzionale, ovvero di stratificazione istituzionale), conforma di sé il contesto sociale; ma, dall’altro lato, la giuridicità è tale, e può essere tale, solo in quanto conformata dal contesto sociale, che in questo senso agisce sulla dimensione giuridica, modificandola e indirizzandola (ed ecco perché il riferimento a un diritto inteso quale meccanismo istituzionale di decantazione stratigrafica). La contraddizione, direi, tanto dal punto di vista empirico-sociologico quanto da quello normativo, e quindi prescrittivo, non c’è; c’è, piuttosto, quella ineliminabile tensione, la quale (anche senza scomodare la secolare elaborazione in tema di dialettica, con le numerosissime declinazioni che essa ha conosciuto e conosce)3 costringe, per usare un linguaggio allusivo forse non del tutto appropriato, a riflettere sul diritto in termini costantemente oppositivi, sempre a metà strada (ma questo punto mediano di conciliazione è sempre provvisorio e come tale va sempre superato, così pervenendosi a una costante mediazione, che esprime un’esigenza di riformulazione e di critica, 3 Nella prospettiva giuridica, qui può bastare il rinvio a c. lincoln, The Dialectical Path of Law, Lanham, 2021. 111 relativamente al contenuto degli interessi in gioco, all’interno di una dialettica, potremmo anche dire, qui seguendo appunto Charles Lincoln, tra realismo giuridico e formalismo giuridico) tra esigenza etica e possibilità tecnica (che è anche una ricerca di un limite e che è anche un costante tentativo di superamento di quel limite). La rilevanza etica dell’esigenza di cambiamento va ovviamente posta in relazione con il senso individuale e sociale del giusto e dell’ingiusto, quindi del diritto, nella prospettiva di quel ‘sentimento del diritto’, da noi reso, se non celebre, certo piuttosto noto, soprattutto grazie alla prolusione gorliana su Tocqueville4, sì che, quanto più forte sarà tale esigenza etica, tanto più il diritto (qui, direi, non solo per ragioni funzionali ma anche strutturali – e sotto questo profilo, forse, le ragioni strutturali sono in effetti quel4 g. gorla, Il sentimento del diritto soggettivo in Alexis De Tocqueville (1946), da ultimo ristampato in Riv. it. sc. giur., XII, 2021, https://www.rivistaitalianaperlescienzegiuridiche.it/node/303. Ma si vedrà allora anche G. Archi, Il sentimento del diritto, in Studi in onore di Antonio Cicu, I, Milano, 1951, 18 ss., disponibile al seguente link: https://www.academia.edu/34169314/Giangualberto_Archi_Il_ sentimento_del_diritto_1951, nonché la brevissima ma puntuale recensione di Tullio Ascarelli, a max rümelin, Rechtsgefühl und Rechtsbewusstein (1925), in f. migliorino, Letture corsare di Tullio Ascarelli. Penalisti e criminologi da Weimar al Terzo Reich, Milano, 2021, 55, il quale Ascarelli scrive al riguardo: «[I]l Rümelin analizza acutamente i vari concetti e i vari termini di sentimento, coscienza, convinzione giuridica, e giustamente pone in rilievo l’importanza decisiva di questi elementi così nella legislazione come nell’interpretazione. Nota infine come mancando disposizioni di legge precise è pur sempre dal sentimento giuridico del giudicante che viene a dipendere la decisione. Il sentimento giuridico deve esser tuttavia superato dalla coscienza giuridica, che non è più un dato individuale, ma sociale». 112 le prevalenti) avrà essenziale necessità di ricorrere a quegli strumenti tecnici da mettere a frutto proprio per realizzare quella trasformazione o quella modificazione ordinamentale. L’istituto delle obbligazioni naturali si presta assai bene per svolgere un’analisi che muova dai presupposti appena indicati, soprattutto perché l’elasticità delle obbligazioni naturali è, se non del tutto diversa, piuttosto diversa da quella che siamo soliti attribuire alle clausole generali: l’elasticità di queste ultime, infatti, opera pienamente all’interno della dimensione di una giuridicità preesistente, resa appunto flessibile, e in certa misura modificabile, dalla clausola generale, ma restando comunque ancorata alla normatività ordinamentale; del resto, le clausole generali sono fattispecie giuridicamente rilevanti, e come tali appartengono pienamente, appunto, alla dimensione normativa, da cui la diretta efficacia giuridica di esse, anche in chiave rimediale: basti qui pensare alle conseguenze rimedialmente rilevanti riconducibili alla buona fede. Al contrario, l’elasticità di un istituto quale quello delle obbligazioni naturali è diretta a esercitare una pressione sulla giuridicità ordinamentale, operando su di una zona di confine tra il diritto e il non diritto, con lo scopo di introdurre una nuova area di giuridica rilevanza: questo spazio giuridico sarà più o meno ampio, a seconda, da un lato, della prospettiva a partire dalla quale un determinato sistema politico guarda alla dimensione della giuridicità, e, dall’altro, a seconda della dinamicità interna, e quindi della reattività, del sistema sociale. 113 Orbene, alla fine di questa veloce prospettiva trilaterale (Ascarelli/Greco/Viola), emergeranno alcuni elementi sperabilmente interessanti e da approfondire, appunto nel segno del rapporto tra fatto e diritto, o, come pure potrebbe dirsi, tra diritto e non diritto, tenuto conto dell’attuale diffusa forza espansiva di una giuridicità che muove dal fatto, e come tale, e primariamente, dai comportamenti individuali delle persone. Una giuridicità fattuale non è una contraddizione in termini, e non significa un’insanabile opposizione tra giuridicità e fattualità, come invece ancora oggi molti ritengono; né significa un appello a una metodologia tutta protesa all’insegna di un giusanarchismo viatico all’incontrollabilità del giudizio e quindi alla tirannide5; al contrario, significa che il diritto della contemporaneità ha spontaneamente assunto (una spontaneità, naturalmente, misurabile e razionalizzabile, e dunque valutabile appunto razionalmente, tanto sotto il profilo sociologico che antro5 Non è questa la sede opportuna per allargare ulteriormente lo sguardo e per innestare ulteriori collegamenti; ma poiché una delle linee di questo mio intervento è quella di una dinamica giuridica che origina dalle esigenze etiche, una linea che senza dubbio trova nello storicismo integrale di Ascarelli diverse sollecitazioni, andrebbe allora ripresa quell’indagine avente a oggetto non solo il crocianesimo e il gentilianesimo, quali innegabili fattori che hanno fortemente influenzato anche l’ambito giuridico, ma soprattutto il neoidealismo italiano, quale possibile capostipite della via italiana alla giurisdizionalizzazione del diritto. Al riguardo, vanno almeno qui segnalati due remoti, ma estremamente interessanti, anche per la loro veemenza critica, articoli di Giuseppe Rensi. Mi riferisco a: g. rensi, Le colpe della filosofia, in Critica Sociale, XXXIV, n. 13, 1° luglio 1924, 203 ss.; id., Le colpe della filosofia II, XXXIV, n. 15, 1° agosto 1924, 237 ss. 114 pologico – nella logica di un diritto scienza sociale; ma del resto, proprio Ascarelli, in un suo celebre intervento, che più avanti tornerò a richiamare, aveva sottolineato come anche le speranze dell’interprete possano assumere rilevanza trasformativa6, in una chiara prospettiva etico-politica) una portata diffusamente politica, proprio perché sono le azioni delle persone ad avere progressivamente guadagnato uno spazio che al contempo è sia politico che giuridico. Le azioni delle persone hanno così conseguito una forza istituzionale che le rende componenti tanto dinamiche quanto essenziali della contemporaneità giuridica. Il tema delle obbligazioni naturali, pertanto, si presta bene a essere utilizzato come un marcatore di giuridicità, tenuto presente che, a seconda di un ampliamento o di un restringimento del concetto di obbligazione naturale, varia, o comunque si ridisegna, il rapporto tra comportamenti e effetti giuridicamente rilevanti dei comportamenti. Va peraltro ancora osservato che, in ragione del contesto sociale e della generale prospettiva ordinamentale, l’estensione, a certi rapporti, della fattispecie obbligazione naturale incide non solo sulla percezione e sulle caratteristiche della giuridicità, t. ascarelli, Scienza e professione, in Foro it., 1956, IV, 85 ss., qui a 86: «[S]ono tra quanti ritengono vano pretendere ridurre l’opera della dottrina a mera ricostruzione storiografica della legge ovvero a razionalizzazione di questa, ravvisandovi allora solo il dispiegamento di una attività logica, ma invece ritengono costante e inevitabile l’influenza delle valutazioni dell’interprete, riflettendosi nella interpretazione e nello sviluppo dottrinario le convinzioni dell’ambiente, le sue tradizioni, le sue speranze». 6 115 ma sulla stessa collocazione del soggetto all’interno della comunità, in relazione ai propri doveri, i quali, in questo senso, certo trascendono la dimensione strettamente giuridico-civilistica. In particolare, si può qui pensare alle formazioni sociali e tra di esse alla famiglia7, alla luce di quel pluralismo famigliare che, appunto in riferimento all’obbligazione naturale, può rafforzare e espandere la propria rilevanza giuridica (ritornerò più avanti su questo aspetto): l’esigenza etica di assicurare una solidarietà famigliare utilizza lo strumento tecnico dell’obbligazione naturale, che impedisce la ripetizione di quanto prestato in costanza di rapporto. Una rilevanza, quindi, che pare muoversi all’interno, per dir così, di una giuridicità negativa, e contrario, che si connota per produrre determinati effetti o impedirne altri, in uno spazio di giuridicità a scartamento ridotto e variabile, che avvicina il non diritto al diritto, e che, infatti, serve a rafforzare quel sentimento del diritto – cioè quell’esigenza di giuridicità che è anche fiducia nel diritto, e quindi negli spazi della collettività, del vivere aggregato, della relazionalità – cui prima accennavo e che opera da ponte verso una giuridicità sociologicamente orientata. Procediamo allora per gradi e, come anticipato, partiamo da un veloce sguardo alla Relazione al codice civile. 7 Per un’ampia panoramica (di taglio critico-ricostruttivo) della questione, cfr. ora a. spadafora, «Solve et repete» nella trama delle relazioni familiari, in Dir. fam. pers., 2021, 1288 ss. 116 II L’obbligazione naturale nella Relazione al codice civile Nel n. 557 della Relazione è affermato che non spetta al legislatore il compito di distinguere le obbligazioni naturali da tutti quei doveri che parimenti non danno azione e che non consentono la ripetizione di quanto spontaneamente pagato. Il che significa, ai nostri fini, che quei doveri morali e sociali che esistono, o che comunque sono avvertiti come fonte di obbligo, bensì morale ma non giuridico, fanno parte di una categoria (appunto l’obbligazione naturale) che per definizione non può essere tipizzata. Si può anche subito aggiungere che, quando si ragiona di doveri morali e sociali, tra le altre questioni vi è quella (ma mi limito qui a questo cenno) del rapporto tra doverosità sociale, cioè diffusa all’interno della cosiddetta coscienza sociale, e doverosità individuale, cioè doverosità avvertita come tale dalla persona che effettua una determinata prestazione in quanto moralmente, a suo avviso, obbligata. Anche sotto questo profilo la relazione individuale/sociale assume una portata significativa, e ancora una volta in quella prospettiva, già più volte richiamata, di una utilizzazione della flessibilità intrinseca all’obbligazione naturale, appunto in riferimento alla doverosità morale, per estendere, o al limite per restringere, la portata di tale doverosità morale in rapporto a quella (anche) giuridica. In questa linea, è evidente come occorra un lavoro parallelo del giurista, sia sul versante della politica del diritto, sia sul versante della tecnica del diritto. 117 Ma, tornando a quando si diceva più sopra con riguardo al testo della Relazione, è chiaro che, dal punto di vista della ratio, una distinzione, in realtà, può certamente essere tracciata. E si tratta, in effetti, di una distinzione molto chiara, che fa ancora meglio comprendere l’impossibilità di una tipizzazione (per lo meno legislativa) delle obbligazioni naturali. Esse, infatti, rispondono a una ratio generica, e forse duplice, che guarda, da un lato, alla solidarietà reciproca all’interno dei rapporti intersoggettivi (e qui opera la forza del vincolo, che però non è definibile, tecnicamente, come obbligazione), e, dall’altro, alla sottrazione dei rapporti sociali a una (in ipotesi sempre possibile) pangiuridicizzazione o ipergiuridicizzazione. Ora, è vero che, da questo punto di vista, ci si potrebbe anche aspettare, da un regime autoritario, l’integrale giuridicizzazione dei rapporti sociali, e quindi ci si potrebbe aspettare, o un’area ristrettissima, diciamo pure irrilevante (a partire dall’elemento economico-quantitativo), per le obbligazioni naturali, oppure una disciplina estremamente minuziosa delle obbligazioni naturali, proprio per non affidare alcunché della doverosità non giuridica alla coscienza sociale, ovvero per filtrare la coscienza sociale (per come e per quanto accertata e accertabile) al setaccio della giuridicità ordinamentale. In realtà, non è così, ma ciò non è sorprendente, tenuto conto della prospettiva reazionaria, in senso proprio, del fascismo, soprattutto pensandosi a un tradizionalismo assunto a garanzia della conservazione di costumi, da apprezzare perché fondati sul 118 senso di appartenenza a una comunità, e quindi sul senso dell’onore (anzi, sulla base di queste premesse, il vincolo morale è certamente più forte del vincolo giuridico). Del resto, se spostiamo lo sguardo sul campo dei rapporti pienamente giuridicizzati, come appunto le obbligazioni cosiddette civili, lì, sempre dalla Relazione (n. 558), appare molto chiaro come il legislatore attribuisse una particolare rilevanza al principio di solidarietà (corporativa) quale cemento civile: il principio di correttezza all’interno del rapporto obbligatorio avrebbe appunto dovuto significare l’esigenza e la concreta possibilità di attuazione di quella solidarietà che non restava generico dovere etico-sociale, ma che diveniva strumento giuridico per sanzionare l’essere parte di una comunità improntata a certi valori, e in questo senso una doverosità virtuosa. Il che, allora, porta nuovamente l’attenzione sulla potenziale elasticità delle obbligazioni naturali, che, appunto, non solo possono servire per attenuare, o anche cancellare, la coazione giuridica da un rapporto sociale, ma, all’opposto, possono pure servire per dar vita a una giuridicità parziale, la quale (qui ovviamente pensandosi alla non ripetibilità di quanto prestato) non chiude affatto alla dimensione giuridica, ma la indirizza, per ragioni di etica sociale, e comunque per ragioni riconducibili all’idea morale di comunità, così infatti rafforzando la doverosità sociale di un comportamento, che proprio per questa ragione non ammette rimedio civilistico; il che, di nuovo, può assumere un tratto conservatore, quando non reazionario (nella linea di una assenza di tutela 119 per ragioni riconducibili a una morale sociale imposta autoritariamente, con la conseguenza che le ragioni sociali saranno più forti di quelle individuali), ma può anche assumere un tratto progressivo (nella linea di una relazionalità sociale che sfocia in una reciproca solidarietà, fonte di condotte non legislativamente prescritte ma civicamente avvertite come dovute, a rafforzamento di quella fiducia sociale che dovrebbe connotare le società aperte, in quanto contrapposte alle società autoritarie), sì da rendere socialmente dovuto un certo comportamento, anche in assenza di una disciplina riconducibile al rapporto obbligatorio – e così dovendosi però allora distinguere tra spontaneità giuridica e spontaneità morale (altro tema che qui mi limito a richiamare). Direi allora che il quadro che emerge dalla Relazione, se è senz’altro chiaro rispetto alle intenzioni del legislatore, non impedisce una messa a punto della categoria dell’obbligazione naturale, sì da renderla strumento sufficientemente agile da rafforzare (e non già da indebolire, e non già, addirittura, da confinare nell’irrilevanza giuridica) determinati rapporti interindividuali, così appunto facilitando il passaggio dalla fattualità (ordine individuale delle azioni) alla giuridicità (ordine sociale delle azioni). III L’obbligazione naturale tra ‘economia, etica e diritto’ Tullio Ascarelli, in un articolo, come già osservato, certamente poco noto, se non del tutto scono120 sciuto8, toccando temi apparentemente piuttosto lontani dal diritto, svolge alcune considerazioni che, a ben vedere, hanno poi rappresentato, fino alla fine, il cuore della sua teoria del diritto (profondamente incentrata sul profilo interpretativo), o, se si preferisce, quei frammenti teorici9 che, a maggior ragione se sono effettivamente tali, dovrebbero impegnare, soprattutto, la responsabilità del giurista di oggi, che si muove abitualmente (e principalmente, per ragioni di carattere metodologico) tra il fatto e il diritto, tra ciò che è individuale e ciò che è sociale. Ora, nella parte finale dello scritto10, Ascarelli, richiama all’attenzione del lettore, e alla nostra di giuristi, i seguenti quattro punti: i) l’interesse economico di ogni classe (e noi, oggi, potremmo sicuramente dire di ogni gruppo; ma potremmo anche fare riferimento a interessi diffusi, pur profondamente connotati da un carattere individuale, o al limite singolare – come vedremo meglio più avanti, alla luce di talune considerazioni di Francesco Viola: v. infra, § V –, pert. ascarelli, Marxismo, cit. In un bellissimo e, come sempre, intellettualmente avvincente lavoro su Ascarelli, Italo Birocchi sottolinea che «non sembra che Ascarelli aprisse mai, negli anni Venti o Cinquanta, un gabinetto per elaborare una teoria dell’interpretazione [ivi, in nota 103, viene ricordato che Pietro Costa «ha riconosciuto che sarebbe vano attendersi un trattato sul tema dell’interpretazione in Ascarelli per l’attitudine problematica che caratterizzava la sua riflessione]»: i. birocchi, Tullio Ascarelli al tempo del regime: l’ascesa di un commercialista irregolare (1923-1938), in Riv. soc., IV, 2021, 937 ss., qui a 972. L’osservazione vale, a maggior ragione, se si ragiona, come faccio nel testo, pensando a una teoria generale del diritto di impronta ascarelliana, che appunto manca, ma che ben può essere costruita dai suoi interpreti. 10 t. ascarelli, Marxismo, cit., 236. 8 9 121 ché servono a rafforzare qualcosa che è, e che vuole rimanere, individuale, anche nel senso di non omologabile ad altri interessi e soprattutto ad altri soggetti); ma torniamo ad Ascarelli (il cui pensiero qui riferisco pressoché alla lettera): l’interesse economico di ogni classe si tramuta, per essa, in ideale di equità e di giustizia, ma, in quanto lotta per un interesse economico, non può non trasformarsi in lotta per un ideale etico; ii) questa è la caratteristica e l’esigenza di ogni lotta politica: superare il proprio egoismo individuale per trascendere la dimensione individuale, di modo che l’impulso economico individuale sia superato, affinché da tale impulso sia tratto un principio politico, come tale destinato a valere nella società; iii) in questo continuo superamento emerge la caratteristica della lotta politica, sempre costretta a oscillare tra i due opposti termini dell’economia e dell’etica, «donde prende le mosse e dove torna a risolversi», e la lotta politica acquista allora un carattere che può definirsi astratto, «della stessa astrattezza della legge cui ogni lotta politica finisce per metter capo, quasi acquetandosi nella fissità del diritto»; iv) ecco che, allora, ogni interesse economico, nel momento in cui è fatto valere, si pone necessariamente come politico e giuridico, «e quindi si trascende»; ecco allora perché la politica, che per definizione attiene alla società e non all’individuo, «o meglio all’individuo in quanto è società, non può non implicare il superamento dell’astratto economicismo». Direi che in questa sintesi massima del pensiero di Ascarelli, il giurista senza dubbio si ritrova in quella che, come appunto sopra anticipato, sarà poi 122 la costante della sua traiettoria giuridica: la centralità dell’interesse individuale con riferimento all’interesse sociale; la relazione indispensabile, sia sotto il profilo economico che etico, tra interesse individuale e interesse sociale; l’altrettanto indispensabile trasformazione in etica di ogni interesse economico, che è poi la strada per consentire all’economia di diventare diritto, passando per l’etica, cioè per l’idea individuale e sociale di giustizia e di equità; giustizia e equità quali fondamenti di una giuridicità intesa come strumento regolatore di rapporti sociali che non possono assumersi, né come statici, né come generali e astratti: la generalità e l’astrattezza del diritto e delle categorie giuridiche, quindi delle fattispecie, sono fondamentali, ma nel senso che la regola generale e astratta esprime, per così dire, il punto di arrivo, in quel determinato momento storico, della dialettica tra interesse economico e eticizzazione (o tensione eticizzante, cioè perseguimento di un interesse anche socialmente rilevante) degli interessi, grazie alla costante tensione tra interessi individuali, che sfociano poi in un interesse sociale da intendersi quale sintesi politica provvisoria, da cui quella costante esigenza di superamento, che Ascarelli insistentemente richiama. In questo senso, allora, la fissità del diritto è tale solo perché, e proprio perché, muove da una dialettica etico-politica che è poi la fonte della dinamica giuridica, fondamentale, in chiave metodologica, per ogni analisi ordinamentale. Ecco, non c’è dubbio che, da questo punto di vista, la fattispecie dell’obbligazione naturale, in quanto categoria concettuale, rappresenti, al contempo 123 (e non contraddittoriamente), sia la fissità giuridica (e forse meglio legislativa, che contiene però, in sé, attraverso la via interpretativa, la possibilità del proprio superamento: in questo senso, è la legge a essere fissa in quanto testo, non il diritto, che attinge al contesto trasformandolo in regola contestualmente orientata), che guarda all’esigenza di una stabilità provvisoria, sia la potenziale flessibilità e mobilità del diritto, che guarda all’esigenza di una costante trasformazione della regola, in funzione sociale11. Ora, la fissità giuridica che rappresenti un approdo concettuale (pur provvisorio: eticamente, e quindi politicamente, e quindi giuridicamente), appunto categoriale – come ha scritto efficacemente Ascarelli in quel contributo già richiamato più sopra e che più avanti riprenderemo alla lettera12 –, non è muta, in sede di interpretazione, perché in sede di interpretazione il contenuto della categoria generale e astratta è individuato dall’interprete, svolgendo egli quella funzione politica di ricognitore e di decantatore degli interessi individuali e sociali in campo, nella prospettiva di quella dinamica giuridica che è la conseguenza della dialettica etico-politica alla base della funzione ordinante svolta dal diritto. Tutto ciò conduce a questo risultato: nel momento in cui la categoria concettuale dell’obbligazione naturale è definita, legislativamente, come prestazione effettuata in esecuzione di doveri morali Ancora i. birocchi, Tullio Ascarelli, cit., 981, richiama quella visione storicistico-dinamica che molto si rifletté sulla concezione ascarelliana della dogmatica. 12 t. ascarelli, Scienza, cit., 87; e v. infra, nota 20. 11 124 o sociali, è evidente che l’aspetto per noi maggiormente interessante verta non tanto sulla regola della non ripetibilità di quanto prestato, né sul concetto di spontaneità della prestazione (anche se è vero che la spontaneità della prestazione, ovvero il significato giuridicamente rilevante della spontaneità, è in relazione con il significato dell’espressione doveri morali e sociali, come appunto dico subito), ma sul concetto di dovere morale e sociale. Espressione che consente una lettura dell’obbligazione naturale nella prospettiva ascarelliana di cui sopra, per cui la dimensione economica dell’interesse, tanto individuale quanto sociale, non resta confinata nell’ambito economico. Altrimenti, essa rappresenterebbe soltanto una rivendicazione non politica, cioè limitata alla salvaguardia di uno specifico e circoscritto interesse, risultando però incapace, come tale, di assumere una portata ultraindividuale, e quindi politica, cioè relativa alla società nel suo complesso. In questa chiave, lo spazio politico-giuridico sarebbe occupato da un’azione politica espressa e attuata soltanto attraverso lo strumento della delega parlamentare, ovvero attraverso mediazioni partitiche, rimanendo invece escluso dalla dimensione politica tutto ciò che non è, o che non è ancora, o che mai sarà, politica partitica, nel senso di politica quale risultante di una lotta partitica. Ma c’è una politica, in senso ampio, che può utilizzare, per manifestarsi e quindi per incidere sul contesto ordinamentale, la strada dell’interesse economico che non rimane un fatto individuale, e non rimane tale attraverso l’eticizzazione di tale interesse. Ecco, allora, che un interesse siffatto (e anche qui siamo all’inter125 no della prospettiva ascarelliana non solo per come emerge dalle pagine qui in particolare richiamate, ma per come è attestata dall’intera sua elaborazione e produzione, soprattutto quella della maturità)13, non rimane confinato sul terreno sociologico, quale semplice indice di esigenza individuale o sociale, ma assume una portata etico-politica e politico-giuridica, aprendo così a una politica del diritto da intendersi nel senso più fecondo e perspicuo dell’espressione: una regola giuridica che affida il proprio svolgimento al lavoro di interpretazione. Se ora restringiamo lo sguardo, ritornando su quel tema già più sopra evocato, e cioè le obbligazioni naturali in ambito famigliare, non c’è dubbio che il governo ermeneutico dell’espressione doveri morali e sociali possa portare a un rafforzamento tanto del senso di collettività (quale luogo del vivere civile, e come tale fonte di regole applicabili uniformemente per assicurare il rispetto di quell’etica civica che solo consente il vivere aggregato, e che ovviamente è destinata a riflettersi all’interno delle varie formazioni sociali), quanto del senso di solidarietà famigliare. Da questo punto di vista, in giurisprudenza e in dottrina vi sono forse eccessive cautele onde evitare che l’applicazione alla cosiddetta famiglia di fatto (quindi in assenza di contrattualizzazione, anche al di fuori del non del tutto soddisfacente contratto di convivenza) dell’obbligazione naturale possa produrre conseguenze ‘eccessive’, cioè in sostanza 13 Per molte indicazioni v. di nuovo i. birocchi, Tullio Ascarelli, cit., passim. 126 arricchimenti apparentemente ingiustificati a favore della persona che ha ricevuto l’attribuzione, donde, appunto, l’individuazione di criteri come quello di proporzionalità per distinguere tra prestazioni ripetibili e non ripetibili, nonché per distinguere l’adempimento di un’obbligazione naturale dall’attribuzione donativa. In realtà, si può invece ritenere opportuna la massima applicazione dell’obbligazione naturale, in quest’ambito, e ciò proprio per coprire tutte le attribuzioni effettuate a favore del convivente, appunto tenendo a mente quel criterio economico ed etico richiamato da Ascarelli: tanto l’interesse di chi effettua la prestazione, quanto l’interesse di chi la riceve hanno una duplice rilevanza economica: non solo sotto l’aspetto quantitativo, ma nel senso che entrambi i soggetti assegnano a quella attribuzione (che, altrimenti, o non ci sarebbe, o verrebbe rifiutata) un significato che trova la propria giustificazione all’interno del rapporto famigliare, soprattutto, è ovvio, rispetto al progetto di vita di chi riceve la prestazione, che, almeno in quel momento, sarà condiviso da entrambi (del resto, appunto la condivisione di interessi differenti, o comunque riferibili all’uno ma non all’altro convivente, spiega il perché dell’attribuzione, se non altro sotto il profilo affettivo-solidaristico). La condivisione e anche l’affettività hanno una portata etica (un’etica relazionale): da questo punto di vista, l’entità dell’attribuzione e la durata del rapporto dovrebbe essere del tutto irrilevante, ai fini della giustificazione dell’attribuzione, posto che il fondamento dell’attribuzione è una spontaneità giuridica 127 che diventa però doverosità morale e sociale, alla luce di quel pluralismo famigliare che guarda a ogni famiglia, appunto, come a una formazione sociale, dunque luogo dell’autorealizzazione individuale – ma una realizzazione individuale all’interno di una logica comunitaria (eventuali pretese risarcitorie potranno essere fatte valere in via aquiliana, soprattutto tenendosi presente la notevole espansione dell’area della cosiddetta responsabilità endofamigliare). Ecco, allora, che, di fronte al caso della famiglia di fatto, il riferimento all’obbligazione naturale (soprattutto se depurata da quelle cautele, direi, economicistiche che, da questo punto di vista, portano a un indebolimento della rilevanza dell’interesse economico alla base della convivenza, e così depotenziano tanto l’eticità quanto la politicità non solo di quell’interesse, ma della stessa formazione sociale famigliare) sembra essere fondamentale per assicurare una tutela (che certamente è giuridicamente rilevante, pensandosi all’impossibilità di ripetizione) alla persona che quell’attribuzione abbia ricevuto. Anzi, in questa logica, si potrebbe aggiungere che, in assenza di una disciplina contrattuale (ma ovviamente non mi riferisco al contratto di convivenza), che certamente le parti, in ipotesi, potrebbero preferire (anche in ragione della minuziosità delle previsioni, soprattutto con riguardo al momento della rottura della convivenza, o comunque della crisi), la disciplina delle obbligazioni naturali opererà in funzione suppletiva, in sostanza assicurando che la ‘spontanea doverosità’ dell’attribuzione non possa legittimare successivi mutamenti d’avviso basati soltanto sul venir 128 meno dell’affectio originaria. Qui, del resto, è proprio la solidarietà famigliare che dà ragione dell’esistenza di un dovere morale, che è anche un dovere sociale (appunto perché l’interesse alla base di quella attribuzione non rimane un interesse strettamente individuale, ma assume quel connotato etico esprimibile in termini di doverosità relazionale, da cui la rilevanza politica di esso), cioè esprime la doverosità di un comportamento riconducibile alla solidarietà del vivere in comune, non solo in famiglia, ma anche in società. Peraltro, come si è notato qui sopra, e proprio alla luce della dialettica tra interessi individuali e interessi sociali, nulla vieta che si affermi invece una tendenza, da parte dei conviventi, a dar vita a dettagliate regolamentazioni di fonte contrattuale, proprio per escludere la portata regolativa, di per sé potenzialmente assai ampia, connotante la categoria dell’obbligazione naturale. Ma anche così, l’obbligazione naturale e, più in generale, la sfera della doverosità morale e sociale entrerebbero in relazione, anche a distanza, con la regolamentazione del rapporto di fonte contrattuale, conducendo eventualmente a riassestamenti dialettici tra ciò che è soltanto individuale e ciò che è anche sociale. Direi quindi che, in questo costante gioco, messo bene in evidenza dalla pagina ascarelliana richiamata e utilizzato in funzione normativa, tra interesse individuale e interesse sociale, schiudendosi così lo spazio dell’eticità e della politicità, e ponendo allora l’interesse al centro dell’eticità e della politicità14, 14 Questo, del resto, è uno schietto insegnamento crocia129 la categoria dell’obbligazione naturale applicata alla famiglia di fatto realizza al meglio il carattere prevalente dell’attuale giuridicità, ovvero l’essere sempre a metà strada tra una dimensione ancora fattuale e la dimensione già ordinamentale, guardando all’interesse quale vettore di movimento e di trasformazione, che è poi la misura più autentica della politicità. no, e crociano Ascarelli sempre si è professato: v. infatti il seguente passaggio, che leggo nel bel volume di c. nitsch, La feroce forza delle cose. Etica, politica e diritto nelle ‘Pagine sulla guerra di Benedetto Croce’, Napoli, 2020, 122 s., testo e note 67 s., a proposito della moralità «‘potentissima’ a formare la coscienza degli uomini, a proporre istanze morali che operano nella storia: è così che, nella dinamica interna allo spirito pratico, il primo momento s’innalza al secondo, superando nell’universale gli interessi di parte, e trascendendo le passioni nella più ampia trama della realtà [A mettere d’accordo diritto e morale … “lavora di continuo la coscienza e l’attività morale del genere umano; ed infatti, per molta parte, per grandissima parte, le azioni giuridiche sono, insieme, azioni morali”]. L’esito di tale movimento esige che la moralità assuma nella storia, ‘di necessità’, la forma di diritto, di forza, di utilità, che il secondo momento ridiscenda dunque nel primo, attuandosi, nell’unità e concretezza dello spirito, nella economicità dell’azione [“l’attività giuridica è l’attività dell’individuale; e l’etica, l’attività dell’universale, che tende a far suo mezzo e strumento ogni azione individuale, e a dar forma etica a tutta la vita umana. Riesce a ciò, nel fatto, ma solo in parte; ma, dove non riesce, non per questo l’azione è di necessità antieconomica o antigiuridica: e, anche là dove riesce, l’intenzione morale non può non essersi tradotta in forma individuale, e cioè la forma economica o giuridica persiste come un aspetto dell’etica stessa, della quale è il mezzo o la concretezza”]: “il che per l’appunto si chiama […] progresso morale del genere umano”». 130 IV L’obbligazione naturale di fronte alla ‘legge della fiducia’ Le fuggevoli osservazioni fin qui svolte hanno inteso enfatizzare il ruolo politico dell’obbligazione naturale. Una politicità tutta interna al vivere aggregato e alla dimensione comunitaria, macro- o micro- che sia. Una politicità da ricondursi al senso della vita in comune, e quindi a quei doveri civico-relazionali che operano quali connettori socio-relazionali. Da questo punto di osservazione, allora, l’obbligazione naturale va ricondotta come tale alla dimensione della relazionalità, che senza dubbio rappresenta una categoria istituzionale ben più ampia rispetto a classiche categorie giuridiche, pur assai estese, come quelle dell’obbligazione o del contratto. Non è, infatti, un caso che un recente e agguerrito volume15 di evidente impostazione normativa abbia richiamato l’attenzione sull’intersoggettività e sulla relazionalità del fenomeno giuridico, a partire dalla prospettazione offerta, nel passato, da Alessandro Levi (filosofo del diritto certamente, oggi, assai meno letto di un tempo, ma che Tommaso Greco, a mio giudizio con un eccesso di pessimismo – io, però, non ho, ovviamente, lo sguardo di prospettiva che invece può vantare l’autore –, qualifica «quasi del tutto dimenticato»16: e allora ne è stato benefico il recupero), il quale Levi sottolineava il seguente aspetto: quando agiamo giuridicamente – sintetizza Greco – 15 16 t. greco, La legge, cit. t. greco, La legge, cit., 94. 131 ci poniamo su di un piano che non è, né quello economico-individuale, né quello etico-universale, ma è quello intersoggettivo, dunque relazionale; piano, come tale, riconducibile alla dimensione del rapporto giuridico17. La prospettiva relazionale, e appunto intersoggettiva, è, a ben vedere, ciò che consente l’applicazione all’obbligazione naturale di tale modo di guardare alla giuridicità (e la strada sulla quale si muoveva Ascarelli non è distante, anzi è convergente, se andiamo a guardare alla sostanza della relazione giuridica, che, in questo senso, è nomopoietica, perché è il fatto in sé della relazione, cioè la sintesi di interessi a essa sottesi, non solo a esigere, ma a poter produrre, una regola di condotta): l’obbligazione naturale, letta alla luce della categoria della relazione intersoggettiva, è misura del dovere sociale di solidarietà, un dovere individualizzato, a seconda degli interessi in gioco volta a volta coinvolti (qui ritorna in primo piano il rapporto tra una doverosità sociale che va a incidere sulla spontaneità dell’attribuzione, eticizzandola, e una doverosità individuale che nasce connotata in senso etico ed è come tale idonea a estendere il campo della doverosità sociale); ma si tratta (e qui c’è di nuovo convergenza con la prospettiva ascarelliana) di una solidarietà individualizzata, che, come tale, fissa pro tempore una determinata regola moralmente rilevante (che potrà portare alla piena giuridicizzazione di essa)18, e dunque un determinato contenuto rispetto a 17 18 t. greco, La legge, cit. Del resto, sempre t. greco, La legge, cit., 83, osserva: «È 132 quei doveri morali e sociali alla base dell’obbligazione naturale. Tale contenuto, proprio nell’ottica della relazione, è soggetto a tutti quegli aggiustamenti resi necessari dal contesto sociale, che è appunto un contesto relazionale. Come nota Greco, è «a questa capacità di relazione che occorre attenersi se si vuole svincolare la normatività del diritto dall’argomento della sua forza coattiva»19. Ora, al di là della critica (di cui non mi occupo in questa sede) che Greco, in modo serrato, muove a quello che egli, felicemente, chiama ‘paradigma sfiduciario’, tutto appunto incentrato sul versante della coazione, laddove egli difende una concezione del diritto tutta orientata sul versante della fiducia, donde la proposta di un ‘paradigma fiduciario’, il tentativo di svincolare la normatività dalla coattività pare perfettamente centrato, in riferimento al discorso che qui si sta svolgendo intorno al concetto di obbligazione naturale quale fonte di fiducia sociale, a partire da una solidarietà intesa come elemento primario di ogni rapporto tra persone (anche reciprocamente estranee). Orbene, la fattualità espressa dalla relazione tra soggetti è l’elemento intorno al quale costruire una doverosità etico-sociale che rientri a pieno titolo nell’area della normatività, e quindi della giuridicità, ma non della coattività, ovvero della coazione. Ecco che entra in gioco la fattispecie dell’obbligazione stato Lon Fuller … a parlare di una vera e propria ‘morale intrinseca del diritto’ …». 19 t. greco, La legge, cit., 94. 133 naturale. Anche su questo aspetto può essere messa a frutto la distinzione tracciata dall’Ascarelli della maturità, e che anche più sopra ho richiamato, tra regulae iuris e categorie giuridiche20. Di fronte alla categoria giuridica dell’obbligazione naturale, abbiamo anche (tra le altre) la regula iuris della non ripetibilità di quanto prestato, ma è appunto tramite l’elaborazione della categoria giuridica che il diritto si trasforma, e sotto questo profilo la categoria giuridica dell’obbligazione naturale riesce ad assumere quella portata idonea, oggi (appunto un tempo favorevolmente orientato a guardare al diritto come al luogo della fiducia, e quindi a riporre fiducia nel diritto inteso come giuridicità, non solo come apparato sanzionatorio ma soprattutto come meccanismo promozionale della soggettività, proprio nell’ambito di quella prospettiva relazionale valorizzata da Greco), a rafforzare l’idea di una giuridicità flessibile, in ragione del fatto che tale flessibilità riposa sull’impossibilità di predeterminare il contenuto dei doveri morali e sociali. E tale impossibilità Alludo nuovamente a t. ascarelli, Scienza, cit., 85 s.: «Ed è così che ho distinto, nell’ambito di quelli che si sogliono chiamare concetti giuridici, quelle che, con terminologia non certo originale, ho chiamato le regulae iuris – concetti che appunto riassumono una determinata normativa (e si pensi a nullità, annullabilità, ecc.) – e le categorie giuridiche (si pensi a dolo, errore, violenza, ma anche a negozio giuridico, contratto, ecc.), che fanno capo a una costruzione tipologica dalla realtà in funzione normativa; mentre le prime, secondo l’ammonimento che ci viene dal passo di Paolo, sono mute in sede di interpretazione, è attraverso l’elaborazione e il rinnovamento delle seconde che l’interpretazione, e così anche la dottrina, chè alla prima non può contrapporsi, collabora nello sviluppo del diritto». 20 134 (esattamente come la flessibilità del diritto) non è un elemento di debolezza, ma di forza: una forza adattativa, e quindi una forza trasformativa e al contempo giuridicizzante. Sotto questo profilo, del resto, sarebbe opportuna anche una riflessione a proposito della connessione dialettica tra rilevanza giuridica e giuridicizzazione di un rapporto relazionale. Alla prima ipotesi vanno sicuramente ricondotte le obbligazioni naturali, che sono appunto rapporti giuridicamente rilevanti; ma in essi può dirsi mancante la giuridicizzazione in senso proprio, appunto perché quello che si usava chiamare il trattamento giuridico della fattispecie è rimesso solo in parte alla disciplina legislativa, che in questo senso è volutamente incompleta (si potrebbe al limite parlare, pur in senso improprio rispetto al consueto uso di tale locuzione, di lacuna assiologica), affidandosi il riempimento della lacuna alla stessa fattualità del rapporto (cioè alla dimensione dell’interesse, individuale e sociale): una fattualità che porta all’esclusione della ripetibilità, appunto per ragioni morali e sociali, che rendono il rapporto giuridicamente rilevante e anche parzialmente giuridicizzato, dato che non è completamente assorbito in una normatività ordinamentale che, nella prospettiva di Greco, è guardata con un certo sospetto, aprendo essa le porte a quel paradigma sfiduciario, che, come tale, esige sempre la massima giuridicizzazione (l’alternativa è quella di un ordine politico-sociale autoritario, e come tale nemico di ogni pluralismo, la cui etica autoritaria spiega l’assenza di una completa giuridicizzazione dei rapporti sociali), da operarsi legislati135 vamente, dei rapporti personali, proprio in vista del monopolio della giuridicità da parte di un ordinamento che separa il fatto dal diritto. Laddove, l’apertura alla fattualità apre un ampio spazio a una normatività relazionale, che nasce appunto dal rapporto, e quindi dalla relazione stessa, e quindi, ancora, a partire dalle esigenze, individuali e sociali, che possano giustificare un determinato assetto regolativo (come appunto la non ripetibilità di quanto prestato). Osserva infatti Greco che, «quanto più si utilizzano regole stringenti, tanta meno fiducia si immette nel sistema giuridico»21, perché la regola rende «binaria la realtà, semplificandola: si è dentro o si è fuori, sulla base delle caratteristiche inserite nella generalizzazione su cui la regola è costruita»22. Dunque, proprio il fondamento dell’obbligazione naturale nei doveri morali e sociali accentua non solo la dimensione relazionale, e come tale intersoggettiva, del diritto (in questo senso la società e la socialità assumono, potremmo anche dire, pur con qualche cautela – posto che la spontaneità giuridicamente rilevante richiede la mediazione dell’interprete –, spontaneamente, il carattere della normatività), ma proprio quella «dimensione orizzontale fondata sul riconoscimento dell’altro [, che è] l’unica via per includere in esso [scil. nel diritto] le dimensioni della relazionalità, della solidarietà e della fraternità, che una teoria del diritto esclusivamente coattivistica sarà costretta sempre a rincorrere ma non riuscirà mai a 21 22 t. greco, La legge, cit., 119. Ivi (corsivo orig.). 136 catturare. Forse proprio il nostro tempo ci può aiutare a riconoscere che questi non sono valori esterni al diritto, ma suoi valori interni, direi addirittura costitutivi»23. Una siffatta proiezione relazionale della giuridicità e della normatività ha poi il vantaggio (e anche da questo punto di vista l’utilizzo dell’obbligazione naturale quale ‘case study’ pare possa avere una significativa rilevanza), da un lato, di connettere la fattualità a un ordine non già delle cose (in termini essenzialistici e quindi antistorici, quantomeno rispetto al campo delle scienze umane e sociali), ma degli interessi socialmente visibili e, io direi, come tali politicamente rilevanti, dunque ponti nella direzione della giuridicità; quindi, connessione a un ordine delle azioni individuali che, come tale, a volte è fattore di stabilizzazione, altre volte di destabilizzazione: ma appunto qui entra in gioco l’elemento ordinamentale, quale meccanismo di ordinamento sociale aperto a quella stessa socialità che è, sia l’oggetto della funzione ordinante, sia il soggetto di quest’ultima, cioè principio ordinante, se non direttamente ordinatore. Dall’altro lato, di connettere la dinamica socio-individuale (quella dinamica che, in riferimento alle obbligazioni naturali, passa per i doveri morali e sociali) alla responsabilità: primariamente individuale, dunque di chi agisce, ma nel presupposto che ogni azione individuale assume una connotazione sociale. Da questo punto di vista, allora, e cioè nella duplice prospettiva della relazionalità/responsabilità, la 23 Ivi, 153. 137 doverosità sociale di una condotta e lo stesso ‘trattamento sociale’ della condotta (che avrà una diversificata rilevanza giuridica, fino all’estremo della irrilevanza giuridica) rafforzano il senso di una regola che, in quanto sociale, è dotata di quella, per dir così, forza empirica che fa fuoriuscire tale regola dalla dimensione del meramente individuale per immetterla in quel flusso di socialità all’ordinamento del quale essa contribuisce e, anzi, la cui efficacia ordinante è esattamente funzione della efficacia sociale della regola. Anche sotto questo profilo, l’obbligazione naturale risulta essere uno strumento non solo esplicativo ma costitutivo di una relazionalità politico-sociale. V Le obbligazioni naturali ‘in una società di singoli’ A questo punto, possiamo forse compiere un passo ulteriore, nel senso di osservare la prospettiva delle obbligazioni naturali alla luce di una recentissima analisi di Francesco Viola, dedicata, direi, prevalentemente a una critica del passaggio dall’individualismo al singolarismo24. Viola si sofferma sull’evoluzione della soggettività umana, tenendo al centro del discorso (che, precisa l’autore, vuol avere un taglio descrittivo e non normativo) la tutela della dignità umana. Nel quadro generale cui ho ricondotto il mio di24 f. viola, Indipendenza, cit. 138 scorso, mi pare che l’aspetto più significativo (al quale Viola rivolge la propria attenzione analitica) stia nel tentativo di differenziare, appunto, l’individualismo dal singolarismo25. Questo passaggio, di primario rilievo antropologico, e dunque politico e giuridico al contempo, può così sintetizzarsi (confido non infedelmente): l’individualismo guarda al soggetto come a un centro propulsore di forze potenzialmente in espansione, e quindi il soggetto è una forza in grado di incidere su ciò che sta al di fuori dell’individuo, nella logica della competizione (sotto questo punto di vista, il libero mercato, in ogni ambito, è l’ideale ubi consistam metodologico di un tale approccio, perché appunto consente a ciascuno di realizzare se stesso guardando a se stesso come a un luogo di forza e non di debolezza). Poi, come del resto ben noto, la gradazione filosofico-politica, ma anche sociologica, di tale forza competitiva può significativamente variare, e basterà pensare all’individualismo tendenzialmente anarchicheggiante di una Ayn Rand, o all’individualismo tendenzialmente moderato di un Hayek, o, ancora, alle diversificate proposte in tema di individualismo sociale, al confine con un individualismo comunitario radicalmente opposto a ogni fuga del sé in direzione anarchica. Il singolarismo guarda invece all’essere umano quale entità unica, e quindi tale da essere protetta e conservata nella sua unicità. Una unicità che assume allora una portata statica, e dunque va ricondotta alla dimensione protettiva dell’ordine giuridico, esisten25 Ivi, 31-47. 139 te in funzione dell’esigenza di proteggere dal conflitto, dallo scontro, dalla competizione, come se ogni singolarità fosse oggettivamente una dimensione da accettare socialmente, e quindi, appunto, da proteggere. Ma io non direi (come invece afferma Viola)26 che il singolo è agli antipodi dell’individuo, perché l’identità di quest’ultimo sta nell’essere simile a tutti gli altri: anche l’individuo lotta per la rivendicazione di una propria singolarità, ottenuta però (almeno adottandosi un approccio in termini di individualismo competitivo, che al limite potrebbe essere altresì qualificato, romanticamente e retoricamente, in termini di individualismo epico ovvero titanico) attraverso l’affermazione del sé e non la ghettizzazione del sé, che, invece, è un possibile esito del singolarismo, non solo paventato da Viola, ma dato come già realizzatosi (e anche su questo punto la discussione potrebbe continuare). Del resto, non è vero che la dimensione della competizione e del conflitto sia assente dall’area antropologica occupata del singolarismo; però, competizione e conflitto sono pensati su base collettiva, di gruppo, appunto perché è il gruppo che protegge una singolarità che spesso non si autorappresenta come unicità, ma come terminale dell’esigenza del riconoscimento dell’altro (a partire dal riconoscimento di se stesso), e non già, naturalmente, in termini di mera tolleranza, ma di piena accettazione sociale. Io sarei al limite portato a dire che il singolari26 Ivi, 35. 140 smo (o questo singolarismo) vuole approdare a un esito individualistico, ma lo fa con una strategia duplice: richiede un intervento statuale, o comunque ordinamentale, in funzione protettiva (e la protezione è invocata a partire da un dato quantitativo: del resto Viola nota come la lotta per il riconoscimento sociale sia il conflitto sociale più importante nel nostro tempo27); l’effetto protettivo è invocato non per ragioni riconducibili a un individualismo isolazionista, che predichi appunto l’unicità del sé, nel senso della sovranità di ciascuno su se stesso (ovviamente a partire dalla sovranità sul proprio corpo, quale base materiale dell’essere umano), ma per ragioni riferibili alla difesa sociale di gruppi e quindi di formazioni sociali: una difesa del gruppo che può richiamare alla mente l’efficacissimo meccanismo della class action, i cui presupposti, come noto, sono (sto naturalmente richiamando la Rule 23(a) delle Federal Rules of Civil Procedure statunitensi): i) impracticability: the class must be so numerous that joinder of all members is impracticable; ii) commonality: there must be questions or law or fact common to the class; iii) typicality: the claims of the representative parties must be typical of the claims of the class; iv) adequacy: the representative parties will fairly and adequately protect the interests of the class. Se, volendo appunto ragionare metaforicamente, pensiamo alla tutela della singolarità nella prospettiva della class action, mi pare evidente che ciò che il gruppo, composto di singolarità, richiede è una tutela che ha ad oggetto l’intero gruppo, in ragione di 27 Ivi, 36. 141 quelle caratteristiche (immaginiamo i molti temi riconducibili alla teoria della differenza) che rendono i vari individui di cui il gruppo si compone singolari rispetto a quelle caratteristiche che vengono assunte a presupposto dell’intervento ordinamentale, fermo restando che, per il singolo, sarebbe, appunto impraticabile, una difesa individuale: non impossibile, ma socialmente subottimale, laddove la richiesta corale di tutela fa esaltare quelle differenze che non reclamano un isolamento sociale, ma, al contrario, una protezione sociale viatico di un riconoscimento finalizzato a una integrazione, per dir così, culturale degli individui appartenenti a quella ‘classe’. Ecco, allora, che, a guardar bene, la fase del singolarismo, o della singolarità, non rimane una parentesi di rottura sociale, o, peggio, di autoesclusione sociale, ma diventa strumento per approdare a quell’individualismo che consente a un soggetto effettivamente tale (non solo rispetto a se stesso ma rispetto agli altri) di conseguire quei risultati – questa volta sì, uti singulus – in termini di normalizzazione relazionale, cioè di piena valorizzazione della propria soggettività e quindi della propria individualità. Al limite, la scelta potrà anche essere quella di un ‘vivere socialmente nascosto’, ma non quale esito imposto da un difetto di duttilità socio-antropologica che porta all’esclusione sociale, ma quale esito spontaneo di una decisione individualmente assunta da parte di un soggetto che tale decisione può ormai liberamente adottare perché, tanto come singolo che come individuo, non solo è socialmente riconoscibile ma è socialmente riconosciuto. 142 Orbene, se, a questo punto, e in via di conclusione, come fin qui fatto, prima, nella prospettiva dell’impostazione socio-individuale di Ascarelli e, poi, nella prospettiva relazionale di Greco, proviamo a pensare all’obbligazione naturale nella prospettiva a cavallo tra l’individualismo e il singolarismo analizzata da Viola, direi che i principali spunti che emergono, se adeguatamente corroborati da un’analisi di taglio empirico-quantitativo, che serva, intanto, a raccogliere tutta la documentazione disponibile, possono essere così individuati: innanzitutto, se, e quanto, il concetto empirico-sociologico di dovere morale e sociale maggiormente diffuso oggi sia in linea con ciò che la giurisprudenza afferma essere il contenuto di tale espressione; secondariamente, quali possano essere i margini di incidenza sull’orientamento giurisprudenziale, assumendosi la giurisprudenza a fattore istituzionale di mediazione tra il fatto e il diritto; in terzo luogo (che, nella prospettiva di quest’analisi, è sicuramente il più significativo, soprattutto per i possibili sviluppi), accertare come etica individuale e etica sociale interagiscano reciprocamente, prefissandosi anche di misurare l’incidenza di ciascuna, all’interno di quel rapporto (che più sopra, pur velocemente, è stato richiamato) tra dovere morale individuale, dovere morale sociale, dovere giuridico, anche nella prospettiva (che naturalmente apre un largo campo di ricerca) delle fonti di obbligazioni diverse dal contratto e dall’illecito, all’interno delle quali, a certe condizioni, possono senza dubbio rientrare quei comportamenti socialmente dovuti, e quindi attesi, idonei a creare affidamento. In questa 143 chiave, si tratta appunto di capire se i doveri morali e sociali ai quali si riferisce l’art. 2034 c.c. possano costituire il ponte verso una giuridicità (e anche una giuridicizzazione) aperta a un pluralismo sociale rispetto al quale è fisiologica una accentuazione dei doveri reciproci, a partire da esigenze e opportunità etico-politiche: doveri civici, e quindi sociali, che, rispetto al contesto pluralistico e rispetto alla necessità di una salda solidarietà relazionale, richiedono di essere espressi attraverso una forma giuridica che non impersona una cieca coazione, ma una plurale relazionalità. Tutto ciò, naturalmente, nell’ottica per cui il dovere morale e sociale è un elemento fattuale che va messo a frutto, non dico per dar vita a una nuova teoria del diritto (che, peraltro, è ormai pienamente a disposizione di chi voglia prestarvi attenzione, come in particolare gli studi di Francesco Viola attestano), ma per conseguire una maggiore, intrinseca organicità (e anche una sua maggiore diffusione, nonché applicazione, da parte dei vari cultori dei cosiddetti diritti positivi) di tale teoria, per dir così, giusfattualistica, che guarda al diritto a partire da tre presupposti (che sono, senza dubbio, e al contempo, assunzioni assiologiche e metodologiche oggi piuttosto diffuse, anche se guardate con una certa diffidenza da parte di molti operatori pratici): i) il diritto assolve alla funzione politica di estendere il raggio degli interessi giuridicamente rilevanti in una continua dialettica tra ciò che è individuale e ciò che è, diventerà, o potrà diventare, sociale; ii) il diritto è un meccanismo tendente all’incremento della fiducia sociale negli 144 effetti benefici derivanti dal carattere relazionale dei rapporti intersoggettivi. Essi sono alla base di ogni regola giuridica, di modo che sia incentivata quella che potremmo anche chiamare produzione individuale del diritto, all’interno dell’attuale contesto caratterizzato da un ‘individualismo rivendicante’, che può anche manifestarsi sub specie di ius singulare, inteso esso nei seguenti termini: far meglio (cioè con maggiore incidenza sociale e quindi con maggiore probabilità di recezione) emergere quelle peculiarità individuali che sono, appunto, elementi di singolarità caratterizzanti quei soggetti dal cui attivismo sociale dipenderà poi l’aggregazione e dunque la richiesta di tutela. Una tutela che in questo senso perde, a mio avviso, quel carattere paternalistico a cui più sopra ho fatto indirettamente cenno, per assumere invece una piena finalità promozionale del soggetto, ovvero dell’essere umano in quanto soggetto sociale e quindi relazionale. Il quale soggetto, se se ne accetta la connotazione (come si è soliti fare) in termini di tutela della dignità individuale, per cui il soggetto stesso è pensato in relazione alla sua dignità, diviene necessariamente la misura sociale della dignità individuale. Il risultato (e anch’esso potrebbe essere scrutinato attraverso un’analisi empirico-quantitativa) è che la dignità è funzione delle preferenze soggettive individuali in rapporto a un determinato contesto sociale sul quale le stesse preferenze individuali operano e che quindi contribuiscono a modificarlo; iii) il diritto è uno strumento ordinante a partire dalle preferenze individuali socialmente espresse e difese, sia in termini di azione individuale sia in termini di azione col145 lettiva (da intendersi essa così in senso strettamente giuridico-processuale come in senso latamente giuridico-politico): l’ordine giuridico delle azioni deriva quindi da una continua dinamica tra interessi, non necessariamente in reciproco contrasto ma tendenti a finalità diverse, a partire dalla portata (individuale e sociale) degli interessi medesimi e in considerazione delle ragioni, tanto individuali quanto sociali, per le quali l’interesse è difeso o contestato. 146