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ERNESTO C. SFERRAZZA PAPA “A MALAPENA IL CIELO RIESCE AD ABBRACCIARLO”. KAFKA, GLI SPAZI SMISURATI E NOIALTRI La bulimica saggistica che si è esercitata su Kafka è riuscita nel difficile compito di mancarne l’ossessione per lo spazio. Che sia misero e angusto come quello dei solai tribunalizi del Processo, che sia quello sconfinato della Cina imperiale, dappertutto i personaggi scontano la loro inadeguatezza rispetto al mondo irrigidito e degradato che Kafka descrive. Nemmeno la casa, dove si consuma l’orrenda vicenda di Gregor, è a sua misura, tant’è che dovrà imparare ad abitarci in forma blattoidea, fallendo senza appello. Kafka teme il piccolo, l’angusto, perché vi si rimane intrappolati, come il bizzarro animale de La tana, come il topolino della Favoletta; è terrorizzato dal grande perché vi ci si perde, non lo si trattiene, non si lascia prendere in immagine (è forse questo un altro tratto pienamente ebraico di Kafka, l’interdizione dell’immagine?). In entrambi i casi, il soggetto deve misurarsi con uno spazio smisurato: troppo piccolo, troppo grande. Ma questa dismisura che investe i rapporti del soggetto con lo spazio inquadra altresì le forme politiche in cui esso agisce, l’orizzonte materiale sia del suo agire sia della sua vis imaginativa, che è probabilmente la facoltà politica logicamente primaria (come agire se prima non si è immaginato l’agire stesso, le sue conseguenze, i suoi effetti?). D’altronde, la filosofia politica sa da tempo che non esiste una spazialità neutra che non sia innervata da categorie politiche, così come non esistono categorie politiche che non debbano fare i conti con la loro spazializzazione: è la grande lezione di Schmitt, che riprenderà Kafka in alcuni appunti negletti del Glossarium, messi di recente sotto la lente di ingrandimento dalla critica di Reinhard Mehring (2022) 1. Ma già Kafka aveva indagato – e che Kafka fosse giurista di formazione rimane un dato imprescindibile per la comprensione della sua opera – il problema, sviluppandolo in una forma che potremmo così 1 MEHRING R., «Kafkanien». Carl Schmitt, Franz Kafka und der moderne Verfassungsstaat. Dekonstruktion und Dämonisierung des Rechts, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 2022. 659 E.C. SFERRAZZA PAPA [DOI: 10.19246/DOCUGEO2281-7549/202303_43] condensare: come vivere politicamente in uno spazio che assomiglia a un buco, a un antro? Non si svilupperanno forse i germi della paranoia? Il soggetto non finirà con l’assumere i tratti del suo rifugio, non vi si rifletterà? “Le sue ferite mi fanno male come fossero inferte a me” (Kafka, 2012, 468), dice lo strano animale de La tana parlando della dimora che faticosamente costruisce e ristruttura senza posa. E al rovescio: come vivere politicamente uno spazio immenso, sconfinato? Come organizzare la coesistenza in un territorio così sterminato che «a malapena il cielo riesce ad abbracciarlo» (Kafka, 2017, p. 349)2? È questo un tema classico della filosofia politica antica (Cambiano, 2016) 3, sia platonica sia aristotelica, affaticata a individuare il kállistos horos, il perimetro ideale per una città megiste (ossia massima), non nel senso dell’ampiezza territoriale ma, appunto, di quella giusta misura che permette una sufficiente unità e concordia della polis (tis hikanè kaì mia). Ed è questo anche uno dei temi di uno dei più densi racconti di Kafka, Durante la costruzione della muraglia cinese, che farà da lievito madre alle opere di Buzzati e Coetzee. Come spesso accade, non vi è trama: Kafka difficilmente racconta storie. La sua opera è tutta volta a spiegare e giustificare ciò che in apparenza è inspiegabile e ingiustificabile. Il suo universo è a tal punto razionale da risultare totalitario, la sragione ricondotta a quella ragione di ordine superiore per la quale il mito di Prometeo interviene solo per spiegare l’inspiegabile montagna sopravvissuta al torturato. In Kafka la domanda fondamentale è sempre “come”, mai “perché”: dato un mondo in cui ci si può svegliare tramutati in insetto, trovare il modo per arrivare in orario a lavoro: le letture metaforiche di Kafka non hanno mai smesso di mancarlo. La ragione strumentale in lui è innalzata a strumento sommo, perché solo grazie ad essa è possibile farcela nonostante tutto, sopravvivere all’orrore, attraversare per quanto possibile il disastro. Saggezza poco nobile e forse sospetta, ma pur sempre collaudata arte di farla franca. I testi di Kafka sono itinerari di furba saggezza pratica, istruzioni per vivere in un mondo invivibile. Ecco che i governanti della Cina imperiale devono ingegnarsi a risolvere un problema non da poco: come coesistere in un mondo a tal KAFKA F., Tutti i racconti, Milano, Mondadori, 2017. CAMBIANO G., Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, RomaBari, Laterza, 2016. 2 3 660 POLITIKÉ punto sconfinato da impedire l’incontro, così smisurato da far saltare qualsiasi barlume di fiducia tra la popolazione (trasformata in monadi) e i governanti (entità quasi metafisiche, forse morte da secoli nonostante non ne sia giunta notizia)? Come controllare ciò che non è punto controllabile? Come vivere da fratelli in uno spazio che incita all’isolamento coatto? Sono queste le domande cui cerca di far fronte il narratore del racconto Durante la costruzione della muraglia cinese. Ecco l’espediente: l’unità di ciò che è disunito viene artificialmente costruita grazie alla produzione di un nemico su misura, la cui condizione d’esistenza, in un circolo tipicamente kafkiano, è data precisamente dall’esistenza di dispositivi volti alla difesa nei suoi confronti. Il nemico esiste poiché esiste qualcosa che protegge: tanto più protegge, tanto più il nemico minaccia. Ma questa stessa difesa contro un nemico che si scoprirà presto essere immaginario è un’ottima cambiale perché produce, come in un incantesimo, l’unità tanto agognata: la comunità si salda in forme reazionarie contro il nemico inesistente: ogni contadino era un fratello per il quale si costruiva il muro di protezione e per tutta la vita egli era grato con tutto ciò che era e possedeva. Unione! Unione! Spalla a spalla, una danza di popolo, il sangue non più imprigionato nel meschino circolo delle membra, ma scorrente con dolcezza e con perpetuo ricorso attraverso la Cina infinita (Kafka, 2017, p. 344). Soluzione tremenda, eppure funzionale. La comunità impossibile data l’estensione spaziale che necessariamente la disperde si produce a partire dal nemico sapientemente immaginato. L’incommensurabilità è supplita dalla produzione di una immagine, eterna come solo un’immagine sa essere, e che in un processo di complicatio riesce a tenere assieme l’intera Cina Imperiale e a produrre la fiducia di cui l’Impero necessita. Perché l’Impero, lo sa bene il narratore, fatica persino a rendersi riconoscibile, a testimoniare della sua esistenza: “una delle nostre istituzioni più oscure è certamente l’Impero” (Kafka, 2017, 348). La muraglia, pienamente visibile, diventa così l’estetizzazione degli sforzi imperiali di proteggere l’Impero stesso e i suoi abitanti, la teatralizzazione del potere imperiale. Non vi sono altre ragioni per la costruzione della grande Muraglia, se non quella, pur decisiva, di sublimare l’incapacità dell’Impero a esercitare un potere allo stesso tempo efficace e giustificato. Nessuna ragione realmente difensiva dal momento che, nonostante il timore dei Nordvölker, “nessun popolo settentrionale ci può 661 E.C. SFERRAZZA PAPA [DOI: 10.19246/DOCUGEO2281-7549/202303_43] minacciare” (Kafka, 2017, 353). La Muraglia interviene come monito visibile, come memento politico: ricordatevi della Cina che esiste per la vostra difesa. Solo così può essere unita la sconfinatezza, tenuto assieme lo smisurato molteplice. Così interpretato, il racconto di Kafka fornisce un indice d’intellegibilità di determinati processi politici e, soprattutto, del fervore immunitario della nostra epoca. Se è vero che le comunità politiche si organizzano sempre su basi simboliche, è altrettanto vero che la modalità più efficace per serrare i ranghi di una comunità disunita è quello di produrre un nemico alla bisogna, il quale funziona come centro unitario della polis dispersa. I popoli del Nord, lo sa bene il narratore, esistono solamente “nei libri dei vecchi” (Kafka, 2017, 347), sono affare di miti e leggende, racconti buoni per spaventare i bambini quando fanno i cattivi. Ma la loro funzione sociale è quella di produrre una cattiva unità mediante la consustanziale produzione di un nemico comune. In un’epoca come la nostra, segnata da imponenti fenomeni migratori, da continui incontri con l’altro che interrogano direttamente le nostre categorie politiche, facendoci dubitare della loro capacità di organizzare e “ordinare” i fenomeni del mondo globale, la tentazione del nemico si impone come una vera e propria strategia politica. Ma alla perdita di certezze proprie di un’epoca postmetafisica non sembra giustificato rispondere con strumenti regressivi che fanno mortalmente pesare sulla “schiuma della terra” l’insicurezza dell’uomo occidentale rispetto allo sconquasso che le sue categorie e il suo modo di vita inesorabilmente attraversano. In un mondo globale quale quello di noialtri, che appunto nella sua smisuratezza rassomiglia allo spazio sconfinato della Cina imperiale di Kafka, è forte l’invito ad approntare una volta di più quella cesura che separa irrimediabilmente l’amico e il nemico, assegnando sempre a quest’ultimo i caratteri di una minacciosa esistenza animalesca. Il racconto di Kafka ci fa da monito. Saremo in grado di resistere a questa suggestione e ripensare radicalmente, da cima a fondo, la nostra forma di vita comune? Riusciremo a pensare e realizzare una politica che rifiuti il facile espediente dell’inimicizia e assuma su di sé la complessità della nostra epoca? Riusciremo a resistere alla tentazione del nemico? Università di Roma “La Sapienza” ernesto.sferrazzapapa@unito.it 662