L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA.
CON UN’APPENDICE SU BALZAC
L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI
FRANZ KAFKA.
CON UN’APPENDICE SU BALZAC
Michele Bertolini
La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra.
Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa.
Franz Kafka1
Il digiunatore digiuna, il guardiano tace, e gli studenti vegliano.
In forma così segreta agiscono, in Kafka, le grandi regole dell’ascesi.
Walter Benjamin2
Abstract:
The art of fasting: the last short stories of Franz Kafka. With an appendix on
Balzac.
The essay proposes a reading of one of Kafka’s last short stories, A Hunger Artist,
as an interpretive key to understanding some contemporary art practices marked
by the poetics of silence, absence, subtraction, exile and isolation. Through an
analysis of the reflections on gesture as a pure medium elaborated by Benjamin,
Adorno and Agamben, the figure of the faster, like those of the trapeze artist and
of the mouse Josephine the songstress, at the center of the Prague writer’s last
literary collection, delineate a performative practice that shifts the center of gravity
of art from aesthetics to ethics, toward an art of living and everyday behaviour.
The art of the faster, in Kafka’s tale, assumes the character of a somatic-spiritual
and ascetic technique, capable of suspending subservience to the natural impulse
of hunger, loading itself with possible ethical-political meanings and regaining
the original meaning of the artistic event. The bulimic collecting and enormous
appetite of the protagonist of Balzac’s last great novel, Cousin Pons, represent,
on the other hand, the mirror reversal of the ascetic fasting of Kafka’s character
and underscore another fundamental character of modernity: the impulse to
accumulate signs, objects, and works in front of which is mirrored the silent
withdrawal of the faster.
Keywords: Franz Kafka, art, gesture, asceticism.
1
2
Kafka, F. (1972), Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via.
Benjamin, W. (1995), Franz Kafka.
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Il rapporto costitutivo dell’uomo con il cibo dispiega una rete quasi infinita
di rimandi simbolici, antropologici, psicologici, estetici, politici, che l’arte e la
letteratura del Novecento e contemporanea non hanno cessato di investigare ed
esplorare. Nell’ambito delle arti visive e performative, ad esempio, l’allargamento
dei confini e del limite tra arte e vita, la considerazione critica dell’arte come merce
da consumare e digerire e la circolazione tra produzione e consumo delle opere
hanno dato vita a partire dagli anni Sessanta a una serie di pratiche, performance,
azioni e operazioni artistiche in cui il cibo, sia nella sua dimensione materiale che
metaforica, è stato direttamente esposto e assorbito all’interno del campo dell’arte.
Dalla critica alla società dei consumi e all’istituzione museale fino all’utopia
sociale e politica incarnata dalle forme di convivialità e relazioni rappresentate
dall’immaginario della tavola e dal banchetto, le arti si sono confrontate con le
dimensioni culturali, politiche e antropologiche assunte dal cibo.3 A partire dagli
anni Novanta, inoltre, il cibo come fatto sociale e culturale è stato investigato dalle
arti soprattutto come medium relazionale, come linguaggio sociale, nella forma
del mercato, del bazar, della tavola, in quanto attivatore di modelli provvisori di
partecipazione sociale, di microutopie quotidiane basate sulla convivialità, come
vettore di incontri effimeri ma significativi tra le persone, per approdare infine
nel XXI secolo a fenomeni sociali come il social eating o i flash mob conviviali.4
A titolo esemplificativo, ricordiamo l’environment Eat di Allan Kaprow (1963-64),
«ambiente» deputato a innescare grazie alla presenza di portate specifiche di cibo relazioni tra i partecipanti, il ristorante Food aperto dall’artista Gordon Matta-Clark nel
1971, le cene preparate da Daniel Spoerri, l’happening Marabunta realizzato da Narcisa Hirsch, Marie-Louise Aleman e Walther Mejía al Teatro Coliseo di Buenos Aires
il 31 ottobre del 1967 (in questa occasione un’enorme scultura ricoperta di frutta,
verdura, piatti e portate veniva mangiata e consumata dal pubblico rivelando infine un
gigantesco scheletro bianco), l’esposizione, curata da Dan Cameron, Cocido y Crudo
al Museo Nacional Centro de Arte Reína Sofia di Madrid (1994-1995), che, invertendo i termini del celebre libro del 1964 di Claude Lévi-Strauss, intendeva ripensare in
un’ottica critica e post-coloniale le relazioni culturali tra l’Occidente e le altre culture.
4
Secondo la formula popolare del critico d’arte francese Nicolas Bourriaud l’arte
degli anni Novanta è stata dominata dall’estetica relazionale, esemplificata, ad esempio, dalle opere di Rirkrit Tiravanija, che, a partire da Untitled (Pad Thai), organizzata
nel 1990 alla Paula Allen Gallery di New York, predispone gli ingredienti per preparare, riscaldare e consumare zuppe cinesi coinvolgendo il pubblico delle esposizioni in
forme di socializzazione impreviste. Cfr. Bourriaud, N. (2010), Estetica relazionale.
Le «cene urbane» nate a Parigi come Dîner en blanc e riproposte tra il 2012 e il 2015
a Milano dalla gallerista Rossana Ciocca, si propongono come eventi autogestiti in
spazi urbani pubblici, originati spesso sui social media al pari dei flash mob, in cui la
volontà di socializzazione aperta si accompagna all’intenzione di ridefinire importanti
luoghi simbolici delle città. Cfr. Leveghi, E. (2015), Pratiche relazionali del cibo.
Mangiare nell’epoca dei social.
3
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In queste pagine, tuttavia, saranno piuttosto l’assenza o il rifiuto del cibo e
l’isolamento volontario rispetto alla dimensione sociale del mangiare a essere
approfonditi sul piano estetico e filosofico, risalendo ad alcune manifestazioni
letterarie decisive delle avanguardie del Novecento. Una dimensione, quella
dell’astinenza e del digiuno, in cui la capacità del cibo di funzionare sul piano
simbolico come un codice linguistico e comunicativo non viene interrotta ma al
contrario viene riproposta in forma negativa e rovesciata.
1. Un artista senza opera
Un digiunatore, tardo racconto di Kafka, fu pubblicato sulla rivista Die neue
Rundschau nell’ottobre del 1922, per essere poi incluso, insieme ad altri tre
racconti (Primo dolore, Una donnina e Giuseppina la cantante ossia Il popolo
dei topi), nella raccolta omonima Un digiunatore, apparsa poco dopo la morte del
suo autore nell’estate del 1924.5 Il breve, laconico racconto potrebbe assumere
il valore di un’icastica firma o suggello di quell’estetica del silenzio che ha
attraversato la produzione artistica di tante avanguardie del Novecento.6 Più in
generale, i quattro brevi racconti sono stati tra l’altro interpretati, all’interno
dell’insuperabile stratificazione e pluralità interpretativa che ha coinvolto i testi di
Kafka (i quali al tempo stesso sollecitano ed eludono ogni interpretazione), «come
una sola e insolita meditazione su questo fenomeno che è l’arte e il dedicarsi ad
un’arte».7 Un’arte, tuttavia, singolarmente sfuggente, nella misura in cui aderisce
totalmente all’artista, al suo corpo, alla sua vita, risolvendo e cancellando quindi
l’opera (il prodotto della pratica artistica) nell’esercizio della vita stessa. Kafka
non a caso sceglie i suoi quattro personaggi, uomini o animali che siano, tra
coloro che lavorano sul loro stesso corpo, ovvero un digiunatore, un trapezista,
una donnina mossa da un’incomprensibile irritazione verso il narratore esibita in
gesti e pianti da consumata attrice e infine Giuseppina, la topolina cantante. Le
arti performative (come la danza, il mimo, il canto, la recitazione, la performance,
lo sport), cui sembrano dedicarsi le quattro figure kafkiane, godono infatti di un
privilegio, manifestando una differenza qualitativa nel novero delle arti della
rappresentazione, differenza riconosciuta all’interno della stessa tradizione
Cfr. Kafka, F. (1979), Tutti i racconti, a cura di E. Pocar. La raccolta Un digiunatore, comprendente i quattro racconti, occupa le pp. 495-533 dell’edizione Mondadori.
L’ultima raccolta di Kafka è stata recentemente ripubblicata con il titolo Un artista
del digiuno. Quattro storie, che risulta più fedele all’originale tedesco: Ein Hungerkünstler. Il tema della fame e del digiuno attraversa in realtà tutta l’opera di Kafka, a
cominciare da Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi, che si lascia morire
di fame, rifiutando il cibo che gli viene dato dalla famiglia.
6
Cfr. Sontag, S. (1975), L’estetica del silenzio.
7
Cavazzoni, E. (2009), «Ein Schreibkünstler», un artista della scrittura, p. 83.
5
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filosofico-estetica del pensiero occidentale: esse assorbono e inglobano il prodotto
della loro attività nel compiersi della loro azione, nell’effettuarsi del gesto,
costituendo «l’esempio di un’azione umana che sembra sfuggire alla categoria
della finalità» e che si presenta come «un mezzo puro […], un mezzo che, pur
restando tale, si è emancipato dalla relazione con un fine».8
Artisti senza opera, senza tracce visibili da lasciare in eredità agli altri esseri
umani, i protagonisti dell’ultima raccolta letteraria di Kafka, body artists ante
litteram, dissolvono inoltre (nuovo paradosso) l’eccezionalità o l’esemplarità del
loro agire inoperoso nella quotidianità di un gesto che si scopre indistinguibile dal
comune fischiare e dal comune parlare, come avviene con il singolare canto della
topolina Giuseppina; oppure superano addirittura l’intenzionalità del gesto artistico,
come nel caso dell’artista acrobata di Primo dolore e soprattutto dell’artista della
fame di Un digiunatore. Se il primo sceglie di vivere giorno e notte sospeso sul
trapezio senza mai scendere, «in principio soltanto per l’ambizione d’arrivare alla
perfezione» e in seguito «per un’abitudine ormai divenuta tirannica»,9 il secondo
scopre con sconcerto e colpevole vergogna al termine della sua vita di essere
costretto a digiunare da un impulso naturale, da una necessità fisiologica, non
avendo mai trovato in tutta la sua vita alcun cibo che gli piacesse. Non v’è nulla
di più facile, infatti, per il digiunatore dell’arte del digiuno.10
Queste quattro figure estreme introducono, nella ricca fenomenologia dei
personaggi delle opere di Kafka richiamata da Walter Benjamin nel suo celebre
saggio del 1934,11 una nuova tipologia o forse una rielaborazione di motivi
precedenti: accanto al mondo parassitario e sudicio delle figure del potere e dei suoi
sodali, il mondo dei «padri» e dei «funzionari», alla bellezza senza speranza di
salvezza degli «accusati» e dei «figli», all’erotismo lascivo delle «timide ragazze»
Agamben, G. (2017), Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, p.
131 e p. 134.
9
Kafka, F. (1979), Primo dolore, p. 495. Il simulacro di perfezione cui ambisce
l’acrobata del racconto di Kafka, isolato nel «cielo del circo», non appartiene dunque
all’infinita perfettibilità dell’arte, ma risiede, come ricorda Ferruccio Masini, «nell’assolutezza di quell’isolamento che il trapezista è riuscito a creare intorno a sé», una
parvenza di autosufficienza, di «costruita trascendenza», per quanto precaria, che dev’essere continuamente alimentata attraverso l’autoinganno e l’illusione. Cfr. Masini,
F. (1986), La cognizione del dolore, p. 112.
10
Cfr. Kafka, F. (1979), p. 508: «Egli solo sapeva – e nessun iniziato lo sospettava – quanto facile fosse il digiunare. Era la cosa più facile del mondo»; ivi, p. 514:
«e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli
riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno,
nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si
sentì oppresso».
11
Cfr. Benjamin, W. (1995), Franz Kafka, pp. 276-281.
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e delle «donne» (connettori di segmenti erotici, sociali e gerarchici distinti),
all’universo crepuscolare, intermedio e incompiuto dei «messaggeri» e degli
«aiutanti», cui soltanto sembra aprirsi una possibilità di speranza, i personaggi
circensi dell’acrobata e del digiunatore appaiono come «estranei» e «solitari»,
figure devianti in attesa di una diserzione definitiva dal loro stesso ambiente
sociale o di una fuga attraverso l’uomo verso il non-umano e l’animalità.12 Tali
figure sono forse assimilabili agli ostinati e instancabili «studenti» dei romanzi e
dei racconti kafkiani, ancora in attesa di una redenzione, «sagrestani rimasti senza
parrocchia, […] scolari senza scrittura», i cui «studi forse non hanno significato
nulla, ma sono molto vicini a quel nulla che solo rende servibile il qualcosa, e
cioè al tao».13
Seguendo una progressione di consapevole rovesciamento del significato
che l’arte ha assunto nella tradizione culturale dell’Occidente, Kafka sembra
ironicamente alludere a una forma d’arte che non solo rinuncia alla sedimentazione
storica e museificata dell’opera-oggetto, ma anche al suo statuto di originalità ed
eccezionalità paradigmatica, di azione consapevole di un soggetto creatore, per
approdare infine alla sparizione dell’artista stesso, del suo corpo fisico e della sua
identità. Nel suo sforzo di continuo superamento dei limiti e di coerenza ascetica
nel gesto del rifiuto del cibo, il digiunatore non potrà che estinguere se stesso, quasi
scomparire all’interno della grande gabbia ricoperta di paglia con il suo esile e
ormai minuscolo corpo estenuato. I digiunatori fisici e metaforici, a partire dal loro
archetipo kafkiano, sembrano incarnare quindi una cifra fondamentale dell’arte
contemporanea, da intendersi come arte della discrezione e arte della scomparsa,
«certo non un’arte del negare se stessi o del voler morire, ma un’arte dell’andare
sempre “un passo oltre”, di guardare sempre in direzione della propria verità, e
al tempo stesso voler fare scomparire tutto quello che ci definisce effettivamente:
sé, opera o parrocchia».14 Una cifra che si declina, ormai privata nel corso del
Novecento di ogni pathos vitalistico della negazione e del rifiuto, secondo una
triplice forma: come sparizione dell’autore, come scomparsa dell’opera e infine
come evaporazione dell’arte stessa.
Sarebbe facile quanto rischioso intravedere nella tarda produzione di Kafka
un’anticipazione lucida e per certi tratti quasi profetica di pratiche e atteggiamenti
che hanno investito gli artisti del Novecento nelle forme più radicali di espressione
del confine sospeso e quasi impercepibile tra arte e vita: dal gesto estremo
degli azionisti viennesi alla sparizione della materialità dell’opera nell’arte
Cfr. Adorno, T. W. (2018), Appunti su Kafka, p. 259: «Al pari del suo compatriota
Gustav Mahler, Kafka sta dalla parte dei disertori. Al posto della dignità umana, il
supremo concetto borghese, si ripresenta in lui la salutare rammemorazione della somiglianza con la bestia, che alimenta tutta una serie di suoi racconti».
13
Benjamin, W. (1995), p. 304 e p. 301.
14
Cfr. Zaoui, P. (2015), L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, p. 111.
12
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concettuale (Robert Barry con Telepathic Piece del 1969 cercava di trasmettere
telepaticamente al pubblico un’opera d’arte costituita da pensieri non definibili
sul piano del linguaggio o dell’immagine), da John Cage e fluxus alla poetica
del fallimento di Bas Jan Ader alle performance senza traccia documentaria di
Tino Sehgal.15 Sotto questo aspetto Kafka potrebbe assurgere al ruolo paradossale
del «più lucido, intuitivo e premonitore analista, il teorico più spietatamente
coerente e conseguente delle ragioni contraddittorie, profondamente aporetiche
dell’arte radicale novecentesca […] dal readymade di Duchamp fino ad oggi»,16
come suggerisce Massimo Carboni. Soprattutto, la centralità assunta dal gesto
performativo negli ultimi racconti dello scrittore praghese, un gesto che al tempo
stesso si espone e si mimetizza, si ritaglia su uno sfondo neutro e si neutralizza
azzerandosi nel flusso quotidiano della contingenza, sposta il baricentro
dell’attività artistica dalla sua pura legittimazione estetica verso un territorio
nuovo, etico e politico, dominante nell’arte del ventesimo secolo.17
2. Digiunare: una tecnica somatico-spirituale, un gesto politico
Non deve sfuggire peraltro l’affinità tra il rifiuto del cibo, o l’impossibilità di
nutrirsi, e il silenzio del linguaggio, due gesti che coinvolgono entrambi l’organo
della bocca. Come se la bocca fosse coinvolta in una doppia negazione, rifiutandosi
di svolgere la sua funzione biologica e materiale e il suo ruolo intellettuale e
spirituale: l’ingestione del cibo e la trasmissione del logos. La rinuncia al
nutrimento materiale e il gesto arpocratico del silenzio. Una doppia impossibilità
(quella del cibo e quella della parola) che peraltro investì dolorosamente lo stesso
Kafka, costretto negli ultimi mesi di vita, contemporanei alla stesura dei racconti,
al digiuno e al silenzio dal progredire della malattia, la laringite tubercolare.18
Il rifiuto del cibo e della parola, che accomuna alcuni dei personaggi kafkiani,
potrebbe inoltre essere assimilato al gesto ascetico dell’artista e del lettore e
Sul gesto infrasottile, al limite della sparizione, che unisce e distingue lo spazio
(fisico e mentale) dell’arte dallo spazio quotidiano pubblico e privato si rimanda al bel
libro di Grazioli, E. (2018), Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti.
16
Carboni, M. (2007), La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti,
p. 115. Dello stesso autore si consiglia anche: Carboni, M. (2017), Il genio è senza
opera. Filosofie antiche e arti contemporanee.
17
Come sottolineano Deleuze e Guattari, «nessuno meglio di Kafka ha saputo definire l’arte o l’espressione senza riferirsi minimamente a qualcosa di estetico». Deleuze, G., Guattari, F. (1996), Kafka. Per una letteratura minore, p. 123. Il passaggio
dell’arte dall’estetica all’etica va inteso nel suo senso letterale di un’arte dell’ethos,
del comportamento vivente, di una pratica dell’esistenza.
18
Cfr. Donalisio, F. (2014), Il digiuno necessario. Una nota sul Digiunatore di
Franz Kafka.
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spettatore novecentesco che intendono sottrarsi al volgare consumo culturale di
un’arte ridotta a merce da gustare e digerire.19
L’arte del digiuno, che rivela la sua affinità con le millenarie pratiche ascetiche,
è peraltro un fare che disfa se stesso, assimilabile a un segno che si cancella nel
suo farsi: lungi dal rappresentare una pratica di disprezzo o svalutazione del
corpo, gli asceti come «i martiri non sottovalutano il corpo, anzi lasciano ch’esso
venga innalzato sulla croce»,20 come ci ricorda un aforisma di Kafka riunito da
Max Brod nella raccolta Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la
vera via. La rinuncia al cibo, laddove viene trasfigurata dalla pratica artistica o
dall’ascesi religiosa, assume anche una connotazione politica di sabotaggio e
profanazione del potere,21 da sempre collegato al consumo smodato, eccessivo,
spettacolare del cibo, ritualizzato attraverso sontuosi banchetti e grandi feste fin
dall’antichità. Se «l’atto primordiale del potere» consiste, a partire dalle comunità
di popoli antichi, dalle caste sacerdotali ebraiche e indù studiate dall’antropologia
storica, nel «dominio sul cibo e sulla distribuzione dello stesso […] ai seguaci
invitati»,22 la distruzione e il rifiuto del cibo si affermano come un gesto di fuga
e di sottrazione rispetto alle logiche del potere e come tali sono state spesso
messe in scena dalle arti.23 La rinuncia al cibo, infatti, interrompe e sospende la
circolazione e l’equivalenza tra produzione e consumo (delle merci, dei prodotti,
dei servizi), che si realizza nella sua forma più immediata e irriflessa proprio
In questo senso si comprende l’attenzione riservata da un pensatore come Adorno al linguaggio d’avanguardia e all’intransigenza radicale di artisti come Kafka e
Beckett o, in campo musicale, a Schönberg e Berg, non riducibili ai modelli dominanti
del consumo di massa e dell’industria culturale: cfr. Adorno, T. W. (2018). Il «caso»
Kafka è comunque doppiamente paradossale agli occhi di Adorno, in quanto autore
dotato di una popolarità e di una «falsa fama», che non solo contrasta con l’oblio
auspicato dall’autore stesso sulla sua opera, ma che rischia anche di dissolverne l’enigma, di sciogliere dietro facili formule pseudofilosofiche la dura, ostinata e contraddittoria oscurità: cfr. ivi, pp. 230-234.
20
Kafka, F. (1972), Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via,
p. 796.
21
Assumiamo il termine «profanazione» nel significato elaborato da Giorgio Agamben, che lo intende come quell’operazione, incarnata tra l’altro dall’attività artistica,
di disattivazione e sabotaggio del dispositivo politico-filosofico dominante nella cultura dell’Occidente, fondato sull’opposizione assoluta tra i mezzi e i fini dell’azione
umana; cfr. Agamben, G. (2005), Profanazioni; Agamben, G. (2017).
22
Masiero, R. (2018), Artisti della fame. Storie di viventi alle prese col cibo, p. 52.
23
Per limitarsi a due celebri esempi cinematografici, questo significato politico e
rivoluzionario del digiuno o dello spreco del cibo come forma di contestazione del
potere emerge nel mediometraggio La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini, attraverso
la «fame atavica» del protagonista Stracci, o nel film sperimentale Le margheritine
(Sedmikrásky, 1966) della regista cecoslovacca Vĕra Chytilová.
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nell’alimentazione, in cui il consumo del cibo è sia produzione che costruzione
del proprio corpo.24 Al tempo stesso, la pratica ascetica del digiuno messa in atto
dagli antichi maestri religiosi indiani e poi dai monaci mendicanti cristiani si
connota come una rivolta contro la dittatura della miseria e della fame, in grado
di «sottrarre il singolo praticante al blocco della realtà dominante», di mettere in
dubbio «il carattere definitivo della condizione postparadisiaca: […] sviluppando
la rinuncia al nutrimento ed elevandola a una tecnica somatico-spirituale», gli
asceti digiunatori «trasformarono la fame in una libera azione di digiuno. Di una
passività avvilente costoro fecero un’azione ascetica. L’esautorazione della fame
comportò immediatamente l’emancipazione dalla necessità di lavorare. Chi sceglie
la temperanza si stacca dalla vita produttiva e conosce ormai soltanto esercizi».25
In questo lungo passaggio Peter Sloterdijk sottolinea la forte componente politica
e rivoluzionaria, oltre che spirituale, di questo gesto volontaristico, che trasforma
la passività dell’asservimento al naturale impulso della fame in una vittoria sulla
natura, alludendo al tempo stesso a una carenza ben più grande, la fame di Dio o
dell’illuminazione. Queste implicazioni etiche e politiche, innervate nell’atto del
digiuno, sono reinterpretate e riattivate nel maturo racconto di Kafka, che insegue
un gesto tanto silenzioso e umile quanto dirompente e rivoluzionario.
3. Gesto e scena
L’azione ossessiva e reiterata del digiunatore è presentata da Kafka come
un gesto puro, in grado di unire, secondo le parole illuminanti di Benjamin,
«la massima enigmaticità alla massima semplicità come un gesto animale».26
È proprio intorno all’articolazione di senso di questo lemma, così decisivo non
solo per l’opera di Kafka ma per tutto il pensiero del Novecento, che dobbiamo
soffermarci. Il termine «gesto» va qui interpretato secondo un doppio possibile
riferimento teorico, che rimanda alle letture offerte da Walter Benjamin e da
Giorgio Agamben, raffinati interpreti dell’opera kafkiana. Sulla scorta del saggio
di Benjamin su Kafka, scritto nel 1934 per il decennale della morte del grande
scrittore, il gesto dev’essere inteso, in opposizione al carattere strumentale
dell’azione diretta a uno scopo, come «un evento, si potrebbe quasi dire un
dramma a sé», a cui l’autore «toglie i sostegni tradizionali» per farne «l’oggetto
Cfr. Marx, K. (1979), Introduzione a «Per la critica dell’economia politica», p.
178: «Il consumo è immediatamente anche produzione, come nella natura il consumo
degli elementi e delle sostanze chimiche è produzione della pianta. Che nell’alimentazione per esempio, che è una forma di consumo, l’uomo produca il proprio corpo,
è chiaro».
25
Sloterdijk, P. (2010), Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, pp. 511-512.
26
Benjamin, W. (1995), p. 286.
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a riflessioni senza fine».27 L’orizzonte espressivo e non meramente comunicativo
del gesto rinvia alla magia del gioco infantile e al potere ricettivo e creativo
racchiuso nella corporeità.
La tematizzazione del gesto in Kafka svolge un ruolo strategico nella lettura
di Benjamin in quanto esso rappresenta prima di tutto un punto opaco, oscuro e
impenetrabile che impedisce di leggere le sue «favole dialettiche» secondo un
significato univoco, come hanno cercato di fare, secondo Benjamin, rispettivamente
l’interpretazione naturale, psicanalitica, e quella soprannaturale, teologica.28 Il
gesto è letterale e opaco, rinviando il lettore solo alla sua continua esibizione,
citazione e ripetizione, «è il punto oscuro e nebuloso delle parabole»29 kafkiane,
che non risolve la poesia nella dottrina, la trasmissione dei segni nella trasparenza
della verità, nella misura in cui lavora sul piano del significante. Un’osservazione
di Adorno pare rafforzare questa ipotesi interpretativa: come il punto cieco di un
sogno, un particolare incomprensibile e impenetrabile per l’analisi del sognatore,
in Kafka «i gesti costituiscono un contrappunto alle parole», «le tracce delle
esperienze coperte dal significare»,30 non un semplice accompagnamento mimico
del linguaggio. I gesti rappresentano un deposito prelinguistico di esperienza,
nascosto dal proliferare confuso e polisignificante delle parole, un deposito che
non deve essere superato e risolto nella verità del linguaggio.
Seguendo la lettura di Benjamin, «tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice
di gesti, che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore,
ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre
nuove».31 I gesti si dispiegano sullo sfondo di una scena, di un teatro naturale
Ivi, pp. 285-286.
Cfr. ivi, p. 292: «Ci sono due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka. Una
è l’interpretazione naturale, l’altra quella soprannaturale: l’una e l’altra - l’interpretazione psicanalitica come quella teologica - trascurano del pari l’essenziale. La prima è
sostenuta da Hellmuth Kaiser; la seconda già da parecchi autori, come H. J. Schoeps,
Bernhard Rang, Groethuysen». D’altra parte Adorno, che pure sviluppa le sue note
su Kafka a partire dal saggio commemorativo di Benjamin, rileva l’affinità di alcuni
temi ricorrenti nell’opera kafkiana con la psicoanalisi di Freud, al di là di riferimenti
espliciti e consapevoli da parte dello scrittore praghese: in particolare la concezione
della gerarchia e dell’autorità, la dipendenza dell’io da istinti amorfi e la tentazione
del parricidio. Due dei possibili rischi di una lettura rigidamente univoca dell’opera
letteraria di Kafka sono rappresentati dal riduzionismo biografico e dal contenutismo,
due «piste» che a volte si sforzano di rinchiudere la costitutiva ambiguità, enigmaticità e polisemia del testo all’interno di una cornice di senso esplicativa. Cfr. Adorno,
T. W. (2018), pp. 236-239.
29
Benjamin, W. (1995), p. 294.
30
Adorno, T. W. (2018), pp. 234-235.
31
Benjamin, W. (1995), pp. 284-285. Sui diversi significati del termine «gesto»
nell’opera di Walter Benjamin, cfr. Marchesoni, S. (2018), Gesto, pp. 63-66.
27
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e universale, dell’articolazione di uno spazio, la cui figura più emblematica
è rappresentata dall’ippodromo di Clayton, il teatro di Oklahoma descritto nel
romanzo America. Gesto e scena, figura e teatro rappresentano dunque i due
poli dialettici intorno ai quali si dispiega la lettura performativa, visivo-scenica
e teatrale dell’opera letteraria di Kafka da parte di Benjamin: un teatro – è
necessario ricordarlo – che si sottrae alle coordinate del dramma occidentale, alle
categorie del tragico e del comico, per avvicinarsi piuttosto al teatro mimico e
gestuale cinese.32 Nel caso specifico dell’ultima raccolta di racconti kafkiani,
tuttavia, i gesti del digiuno in Un digiunatore, del trapezista in Primo dolore, del
canto/fischio in Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi, non si inseriscono
all’interno della narrazione soltanto come momenti di interruzione, di cesura e di
stasi dialettica dell’azione, ma costituiscono il cuore, il centro, la professione dei
personaggi stessi. Quasi raddoppiato e potenziato, il gesto vi compare qui come in
una mise en abyme continuamente ripresa, ripetuta e citata da una pagina all’altra.
Il gesto si presenta in queste pagine nella sua dimensione più essenziale e spoglia,
come una finale meditazione sul senso del fare arte, del suo accadere e della forma
di spettacolo sociale che può assumere fino alla sua sparizione.
La performance dell’anonimo protagonista del breve racconto è presentata
infatti come un’arte, l’arte del digiuno, tale da richiedere rispetto, sacrificio e un
continuo sforzo di superamento dei propri limiti da parte dell’artista. Mostrandosi
al pubblico all’interno di una gabbia, il digiunatore circoscrive una soglia, resa
visibile dalla cornice della rete in cui si è rinchiuso, che separa la folla dei
visitatori dal recinto in cui si svolge la sua azione ripetuta. Al tempo stesso, nella
seconda parte del racconto, quando la perdita di interesse da parte del pubblico nei
confronti dello spettacolo del digiuno spinge l’uomo a separarsi dal suo impresario
e a farsi assumere in un grande circo, la gabbia del digiunatore è spostata nelle
vicinanze delle gabbie degli animali feroci e delle stalle degli animali, suggerendo
una finale sostituzione, più volte replicata nei racconti di Kafka, dell’uomo da
parte delle bestie. Il gesto del digiunatore si presenta come il rovesciamento in
negativo della voracità piena di vita delle bestie rinchiuse: dopo la sua morte,
per fame e consunzione, non a caso, la sua gabbia ormai svuotata sarà occupata
da una giovane pantera che non sembra rimpiangere la perduta libertà tanta è la
gioia di vita che si esprime nelle sue fauci spalancate. Kafka articola in questo
modo un inventario di gesti perduti o dimenticati, un catalogo di attività artistiche
sulla via del tramonto: l’interesse per gli acrobati o per i digiunatori sembra ormai
appartenere al passato. Questo passaggio permette di cogliere un secondo punto
fondamentale dell’analisi di Benjamin: il rapporto che il gesto istituisce con il
tempo, con la memoria e con l’oblio. Al pari di autori come Nietzsche o Warburg,
Cfr. Benjamin, W. (1995), p. 284. Si vedano anche le osservazioni di T. W. Adorno
riguardo all’impossibilità di drammatizzare i testi di Kafka, di ricavarne una riduzione
teatrale: cfr. Adorno, T. W. (2018), p. 251.
32
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L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA.
CON UN’APPENDICE SU BALZAC
Kafka si propone di evocare quel repertorio di gesti espressivi che la società
occidentale stava perdendo con i progressi inesorabili dello sviluppo tecnologico
ed economico del capitalismo.33 Nella ripetizione e citazione del gesto è racchiusa
una speranza, una possibilità di redenzione, una via di liberazione: ciò che si
lascia «cogliere solo nel gesto, […] il punto oscuro e nebuloso delle parabole»,34
sottraendosi al circolo delle ragioni, delle azioni motivate da un fine, al labirinto
senza fine delle spiegazioni e dei discorsi, permette, come agli attori del teatro
naturale di Oklahoma, che ripetono e recitano la loro vita precedente, di ritrovare
«frammenti della propria esistenza», di recuperare il «gesto perduto».35
Giorgio Agamben, dall’altra parte, reinterpretando le riflessioni di Benjamin,
individua la radice della parola gesto (gestus) e del suo senso profondo nel
verbo latino gerere, sulla scorta di una proficua suggestione di Marco Terenzio
Varrone, che sembra aprire per la riflessione filosofica una terza via al di là del
dualismo di matrice aristotelica tra il poiein (facere), ovvero l’attività del fare
umano che produce opere (incluse le opere d’arte), e il prattein (agere), ossia
l’agire umano che ha il suo fine in se stesso e che trova nell’azione politica una
delle sue fondamentali possibilità di realizzazione.36 Al di là del fare (poiesis), in
quanto mezzo in vista di un fine, e dell’agire (praxis), in quanto fine senza mezzi,
sarebbe l’azione come gesto a rendere inoperose le opere umane, dischiudendole
a un loro possibile nuovo uso, nella misura in cui il gesto, interrompendo la falsa
alternativa tra fini (senza mezzi) e mezzi (in funzione di un fine), è «l’esibizione
di una medialità, il rendere visibile un mezzo come tale, che fa apparire l’esserein-un-medio dell’uomo e, in questo modo, apre per lui la dimensione etica».37
L’esibizione del gesto come «mezzo puro» trova la sua affermazione più
caratteristica nella performance del mimo, nella danza, nell’arte dell’attore, che
arriva a esibire, a mostrare ciò che non può essere detto.
Il comune fischiare della topolina Giuseppina, svelando il fondo inoperoso che
rende possibile l’agire umano nella sua produttività, rivela la natura del medium
del fischio/canto sottraendolo alla sua impercepita e ovvia presenza abituale.
Come scrive Kafka:
Resta però il fatto che le sue manifestazioni sono soltanto un fischiare. […] Fosse
anche soltanto il nostro fischiare di tutti i giorni, va rilevata anzitutto la particolarità che
Cfr. Agamben, G. (1996), Note sul gesto, pp. 48-49.
Benjamin, W. (1995), p. 294.
35
Ivi, p. 303.
36
Cfr. Agamben, G. (1996), pp. 45-53. Il riferimento aristotelico alla distinzione tra
fare (facere) e agire (agere), citato da Agamben, si trova in: Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1140b, mentre per l’opera di Varrone si rimanda a: Varrone, De lingua
latina, VI, VIII, 77. Sul gesto si rimanda anche a: Agamben, G. (2017), pp. 100-139.
37
Agamben, G. (1996), p. 52.
33
34
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uno si metta lì solamente a eseguire nient’altro che un’attività consueta. Non si può dire
che schiacciare una noce sia un’arte, e perciò nessuno oserà convocare il pubblico per
divertirlo schiacciando noci. Se però lo fa e riesce nel suo intento, vuol dire che non si
può trattare del puro e semplice schiacciar noci. Oppure sì, si schiacciano noci, ma infine
risulta che non abbiamo prestato attenzione a quest’arte perché ne eravamo perfettamente
padroni ed ora questo nuovo schiacciatore di noci ce ne mostra la vera natura, e per ottenere
l’effetto potrebbe essere persino opportuno che fosse un po’ meno abile a schiacciare noci
di quanto non lo sia la maggior parte di noi.38
4. Dall’etica acrobatica all’ascesi
Un’oscillazione polare attraversa e percorre queste epifanie del gesto artistico:
un movimento di esibizione e ostensione teatrale da una parte, un processo di
mimetizzazione e nascondimento nel flusso della quotidianità dall’altra parte,
un’affermazione e una cancellazione, un mostrarsi e un ritrarsi. La dislocazione
degli spazi in cui operano i personaggi degli ultimi racconti risulta particolarmente
significativa, disegnando quasi una progressione, una discesa nella contingenza: se
il gesto dell’acrobata di Primo dolore tende a sospendersi e isolarsi verticalmente
nel cielo del tendone del circo, in un’astratta e separata trascendenza, Giuseppina
si esibisce su un palcoscenico per essere poi assorbita e dimenticata nel pantheon
degli eroi e degli eletti del popolo dei topi, mentre il digiunatore si mimetizza
orizzontalmente, fino a scomparire, tra la paglia della gabbia in cui vive.
Lo spazio in cui risuona e si dispiega il gesto è definito da un doppio
dispositivo spaziale: il primo dispositivo assume l’aspetto di una costruzione
– essa è anche una costrizione, una griglia, al tempo stesso fisica e mentale –
che imprigiona progressivamente il protagonista invece di liberarlo (il trapezio,
singolo e poi doppio, dell’acrobata di Primo dolore, la gabbia di Un digiunatore,
la tana gigantesca dell’animale de La tana, l’enorme edificio della scienza stessa
nel racconto Il maestro del villaggio)39 e che stabilisce una soglia tra l’habitat del
personaggio e l’esterno; il secondo dispositivo si configura come un teatro, uno
spazio pubblico e sociale che definisce l’orizzonte dello spettacolo offerto allo
sguardo degli altri (il teatro «naturale» di America, il teatro di varietà in Primo
dolore o il circo in Un digiunatore).
Kafka, F. (1979), Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi, pp. 518-519.
Siegfried Kracauer, in una recensione alla raccolta di racconti Durante la costruzione della muraglia cinese, apparsa sulla Frankfurter Zeitung nel settembre del 1931,
ha messo in evidenza il rapporto reciproco tra la paura senza speranza e la raffinatezza
sistematica della costruzione nei racconti di Kafka: «Quanto più sistematicamente [la
costruzione] è stata costruita, tanto meno egli vi può respirare. […] Le misure dettate
dall’angoscia esistenziale minacciano l’esistenza stessa» (cfr. Kracauer, S. (1982), La
massa come ornamento, p. 176).
38
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L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA.
CON UN’APPENDICE SU BALZAC
Una limpida e acuta lettura degli ultimi racconti di Kafka (in particolare
di Primo dolore e di Un digiunatore, preceduti dall’analisi del racconto Una
relazione per un’Accademia del 1917), rubricati sotto la cifra di una morale e di
un’arte acrobatica, di un «esistenzialismo acrobatico», è stata proposta da Peter
Sloterdijk all’interno del volume Devi cambiare la tua vita.40 Il filosofo tedesco
reinterpreta le figure dell’acrobata e del digiunatore di Kafka come versioni despiritualizzate e immanenti dell’ascetismo religioso e metafisico occidentale
dominante per millenni nella nostra cultura, collocando Kafka in una posizione di
continuità e al tempo stesso di scarto rispetto all’etica acrobatica eroica proposta
da Nietzsche nel Prologo di Così parlò Zarathustra. L’acrobata trapezista e il
digiunatore, modelli di inclusione volontaria all’interno di una sfera d’esistenza
separata di infinito perfezionamento della propria arte, si presentano come «una
seria parodia dell’anacoresi, ossia la rottura con il mondo profano basato su
motivazioni religiose»,41 espressioni di quell’anelito a trascendere i propri limiti
e ad ascendere verso una realtà ulteriore, che percorre tanto l’ascesi religiosa
quanto l’esperienza artistica.
Rispetto al modello eroico e agonistico proposto dalle figure dei «discepoli»
di Zarathustra, che si affacciano fin dalle prime righe del testo attraverso lo
sfortunato funambolo precipitato dalla corda tesa tra le due torri sopra il mercato,
Kafka riconduce l’etica acrobatica nietzschiana nell’alveo di una quotidianità
umile e discreta, dimessa e paradossale, visivamente rappresentata nel passaggio
dalla verticalità delle peripezie dell’acrobata all’orizzontalità della postura del
digiunatore. La corda tesa non è più infatti collocata nella parte più alta del
tendone del circo, al pari della nietzschiana «corda tesa tra la bestia e il superuomo
– una corda sopra un abisso»42 che metaforizza la natura di passaggio e di ponte
dell’uomo, ma posta a filo del suolo, rasoterra, come ricorda un aforisma di Kafka:
«La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta
più per far inciampare che per essere percorsa».43 La corda rasoterra suggerisce
che l’esistenza in quanto tale, nella sua ovvia quotidianità, può essere pensata
come una prestazione acrobatica per la quale non esistono formule o esercizi
preparatori che ci possono assicurare una protezione speciale. La dissoluzione
dell’acrobatica eroica nella quotidianità della vita non comporta in Kafka la
sparizione dell’etica acrobatica, ma al contrario la sua universale estensione a
tutti gli aspetti della vita, come lo è nel Processo l’implicazione di ogni uomo
e non solo di Josef K. nella sfera del processo e della legge per il semplice fatto
di vivere. Al tempo stesso Kafka si avvicina a Nietzsche su un punto decisivo:
recidere alla morale ascetica il suo punto d’arrivo, la sua meta trascendente, come
40
41
42
43
Cfr. Sloterdijk, P. (2010), pp. 75-89.
Ivi, p. 83.
Nietzsche, F. (2017), Così parlò Zarathustra, p. 14.
Kafka, F. (1972), p. 793.
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sembra suggerire, significa esibire l’esercizio e la pratica ascetica nella sua nudità,
come un mezzo puro, privato del suo fine. Kafka ci mostra un’ascesi decapitata
della sua gloria trascendente: «il digiuno può svelare ciò che resta dell’istanza
metafisica quando la sua meta ultraterrena è estinta».44 Il cielo sotto cui si dispiega
il gesto dell’asceta è uno sfondo vuoto, «è solo uno sfondo, […] il fondale dipinto
di una scena in cornice in una galleria di quadri».45
5. «Non contava più come uomo, era uno stomaco»: Le cousin Pons di Balzac
L’itinerario che conduce da Balzac a Kafka può essere interpretato come un
viaggio che dalla perdita della purezza e perfezione del gesto umano nel panorama
della modernità urbana e industriale, borghese e capitalistica (Balzac), persegue
una sua ipotetica riconquista salvifica, sia pur posta sotto il segno negativo della
rinuncia (Kafka). Come il digiunatore di Kafka anche Pons è un uomo sulla
soglia della sparizione, fisica e sociale: decaduto come artista dopo un esordio
promettente come musicista vincitore del Prix de Rome, un «glorioso relitto
dell’Impero»46 napoleonico, progressivamente emarginato dai salotti sociali e
percepito come un parassita e uno scroccone, egli «aveva naturalmente finito per
diventare meno che niente, senza tuttavia essere completamente disprezzato».47
Il mite protagonista del romanzo maturo di Balzac, il vecchio musicista Pons,
emarginato e deriso per le sue incomprensibili e anacronistiche manie, assorbe e
digerisce cibi e confidenze, seguendo uno sforzo di accumulazione che si rivolge
agli oggetti d’arte, alla sua passione di collezionista.
Pons rappresenta non solo l’ultima grande creazione letteraria di Balzac,
pubblicata in trenta feuilletons tra il marzo e il maggio del 1847 su Le
Constitutionnel, ma anche una proiezione autobiografica del suo autore,
dell’impulso al collezionismo artistico del grande scrittore francese, in
particolare prima del 1848: non un investimento esclusivamente materiale, ma
«il coronamento di un sogno antico di ascesa sociale, [...] la collezione di Pons
è sostanzialmente la collezione di Balzac».48 Una pulsione collezionistica che
sarà condivisa dalla passione per il collezionismo di libri di Walter Benjamin, tra
l’altro.49 Figura malinconica e grottesca per la sua estraneità ai valori materiali e
alle dinamiche dell’ambiente sociale in cui si trova a vivere, Pons porta inscritto
Sloterdijk, P. (2010), p. 88.
Benjamin, W. (1995), p. 285.
46
Balzac, H. de (2011), Il cugino Pons, p. 3.
47
Ivi, p. 16.
48
Balzac, H. de ( (2011), Introduzione, p. LVIII.
49
Sulle figure di Pons, Balzac e Benjamin, incarnazioni emblematiche del collezionismo tra Ottocento e Novecento, cfr. Grazioli, E. (2012), La collezione come forma
d’arte.
44
45
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L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA.
CON UN’APPENDICE SU BALZAC
nel suo corpo precocemente invecchiato, goffo e brutto, rivestito di abiti fuori
moda, nei gesti e comportamenti, nelle parole e negli atteggiamenti, i segni di una
dissonanza e disarmonia rispetto ai valori della rapace borghesia parigina, una
dissonanza rivelatrice delle contraddizioni sociali e morali della propria epoca. La
sua magrezza, indice in realtà di un appetito inesauribile, contrasta con la doppia
mania che lo domina: il collezionismo di oggetti d’arte da una parte, la gola e il
gusto ossessivo per i buoni pranzi dall’altra parte, compensazione digestiva di una
partecipazione al mondo sociale parigino assente.
La pulsione collezionistica e la gola, entrambe rubricate sotto la logica del
consumo, incarnano una doppia compensazione all’assenza del piacere e della
felicità: la prima sostituisce la gloria artistica mancata, la seconda rappresenta
un surrogato dell’amore, sessuale e coniugale, negato a Pons dalla sua bruttezza
fisica.
Pons non aveva mai visto sorridergli una donna. A molti uomini è riservato questo
destino fatale. Pons era un mostro nato; suo padre e sua madre l’avevano avuto quando
erano già vecchi, e portava le stigmate di questa nascita fuori stagione sul suo colore
cadaverico […]. Quest’artista, dotato di un’anima sensibile, sognatrice e delicata, costretto
ad accettare il carattere che il viso gli imponeva, non aveva alcuna speranza d’essere
amato. Il celibato fu dunque per lui più una necessità che un’inclinazione. La ghiottoneria,
il peccato dei monaci virtuosi, gli tese le braccia […]. La buona tavola e il bric-à-brac
sostituirono per lui la donna […]. Il saggio Pons, i cui soli godimenti erano concentrati
nello stomaco, chiedeva alla buona tavola tutte le sensazioni che essa può dare, e fino ad
allora le aveva ottenute tutti i giorni.50
Secondo la tecnica narrativa e la concezione della realtà sociale e umana
di Balzac, la deformazione grottesca è inscritta nel rapporto espressivo che si
istituisce tra la forma dell’anima (la passione o l’idea dominante) e le sue variazioni
e manifestazioni esterne, manifestazioni che inevitabilmente si scontrano con
l’orizzonte dell’ambiente sociale: il grottesco, la cui comica bruttezza è segnata
dalla malinconia del declino sociale, è la cifra espressiva ed estetica del romanzo
balzachiano, in grado di svolgere una precisa funzione euristica, un rivelatore
sociale e insieme fisiognomico delle forze invisibili che si muovono al di sotto
della superficie visibile della realtà.51
La descrizione in Balzac, attenta alla dimensione fisiognomica e fisiologica,
trasforma il corpo in un archivio di segni e produce un incremento semiotico
dell’esistenza umana, in un gioco continuo di ripetizioni e di riflessi incrociati
che si riverberano sugli ambienti, sugli spazi domestici dei personaggi. L’uomo
Balzac, H. de (2011), pp. 17-18.
Cfr. Rosen, E. (1982), Le grotesque et l’esthétique du roman balzacien, pp. 139157; Scaiola, A. M. (1988), Dissonanze del grottesco nel Romanticismo francese.
50
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sociale è accompagnato dal «testo della sua esistenza»,52 per cui l’immagine dell’Io
si offre come un testo da interpretare e decifrare. Pons, ad esempio, è inseparabile
non solo dai vestiti fuori moda che indossa, dalle sue abitudini alimentari e di vita,
ma anche dalla collezione di oggetti d’arte cui è ossessivamente legato, un vero
prolungamento cosale della sua esistenza: una collezione con la quale intrattiene
un rapporto ambivalente e ambiguo, che finisce per rovesciare l’ingenua visione
idealistica dell’arte come puro prodotto dello spirito.53 Gli oggetti della collezione
sono al tempo stesso trasfigurati nel loro valore simbolico dalla scelta e dall’amore
di Pons e posseduti come feticci da consumare con lo sguardo.
È la stessa ripetizione duplicata dell’interno nell’esterno a suscitare la
deformazione grottesca, un’eco moltiplicata dell’Io dagli effetti comici e
imprevedibili, che marca ad esempio la distanza e l’isolamento di Pons dall’ambiente
sociale che lo circonda. Il grottesco di Pons si manifesta nei dettagli anacronistici,
che rivelano uno scarto temporale rispetto alle esigenze del presente. L’anacronismo
di Pons lo rende equivalente alla moltitudine di oggetti che accumula, secondo un
processo di identificazione ricorrente del collezionista con la propria collezione:
la sua avventura personale, infatti, risulta inseparabile dal rapporto istituito con
la collezione, oggetto-eroe, che al termine del romanzo sarà definita «l’eroina di
questa storia».54
Pons incarna la dimensione contemporanea di un’inclinazione estetica e artistica
ridotta e restituita al meccanismo della riproduzione e ripetizione di gesti minimi,
piuttosto che consegnata alla produzione e alla creazione dell’opera d’arte: egli
è un consumatore dei cibi come dell’arte e un fruitore della stessa musica che
esegue. La logica della ripetizione che attraversa le passioni di Pons è un agente
produttore del grottesco, e testimonia la profetica attenzione di Balzac per la
dimensione «simulacrale» e «spettacolare» del capitalismo borghese. Ridotto a
semplice spettatore di uno spettacolo di cui non riesce a cogliere le manipolazioni
e i meccanismi di funzionamento economico, morale e sociale, Pons è la vittima
designata di un ordine sociale che decide al momento opportuno di espellerlo dalla
rete familiare, non senza averlo privato del suo tesoro nascosto, la collezione di
opere d’arte, di cui intuisce il potenziale valore di mercato.
L’intreccio straniante e bizzarro fra l’alto e il basso, fra il collezionismo e la
gola, rende visibile l’economia del desiderio che possiede Pons e lo restituisce al
circolo economico del consumo da cui sembrava escluso: arte e gusto culinario
sono sottoposti a uno stesso regime di produzione e consumo, di conservazione e
di spesa. Pons, che rispecchia nei modi, nell’atteggiamento e nelle parole la società
che lo disprezza, diventa a sua volta l’immagine iperbolica, caricaturale ed estrema
Balzac, H. de (1992), Trattato della vita elegante, p. 50.
Cfr. Biasi, P. M. (1981), La collection Pons comme figure du problématique, pp.
61-73.
54
Balzac, H. de (2011), pp. 314-315.
52
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CON UN’APPENDICE SU BALZAC
della logica del desiderio della società borghese, che supera «il semplice motivo
del profitto».55 La metafora che meglio racchiude la sua funzione sociale è dunque
quella del «grande stomaco» che silenziosamente e umilmente digerisce tutto:
Del resto Pons era ovunque una specie di fogna delle confidenze domestiche: egli
offriva le migliori garanzie per la sua discrezione ben nota e necessaria […]. La sua parte
di ascoltatore era perciò accompagnata da una costante approvazione; sorrideva su ogni
cosa, non accusava, né difendeva nessuno; per lui avevano ragione tutti. In questo modo non
contava più come uomo: era uno stomaco!56
Sotto questo aspetto Pons, figura apparentemente antitetica al digiunatore di
Kafka per la sua bulimica fame di cibo e di oggetti, incarna una polarità altrettanto
decisiva per la cultura e le arti del Novecento: l’impulso archivistico e memoriale,
che sostituisce la tensione modernista alla creazione pura e al ritorno all’origine,
all’azzeramento e al silenzio, con una sterile e compulsiva accumulazione di segni.
Sintesi
L’arte del digiuno: gli ultimi racconti di Franz Kafka. Con un’appendice su
Balzac.
Il saggio propone la lettura di uno degli ultimi racconti di Kafka, Un digiunatore,
quale chiave interpretativa per comprendere alcune pratiche dell’arte
contemporanea, segnate dalla poetica del silenzio, dell’assenza, della sottrazione,
dell’esilio e dell’isolamento. Attraverso l’analisi della riflessione sul gesto come
mezzo puro elaborata da Benjamin, Adorno e Agamben, la figura del digiunatore,
come quelle dell’acrobata circense e della cantante, la topolina Giuseppina, al
centro dell’ultima raccolta letteraria dello scrittore praghese, disegnano una pratica
performativa che sposta il baricentro dell’arte dall’estetica all’etica, verso un’arte
del comportamento vivente e quotidiano. L’arte del digiunatore, nel racconto di
Kafka, assume il carattere di una tecnica somatico-spirituale e ascetica, in grado di
sospendere l’asservimento al naturale impulso della fame, caricandosi di possibili
valenze etico-politiche e recuperando il senso originario dell’evento artistico. La
bulimia collezionistica e l’enorme appetito del protagonista dell’ultimo grande
romanzo di Balzac, Il cugino Pons, rappresentano, d’altra parte, il rovesciamento
speculare del digiuno ascetico del personaggio di Kafka e sottolineano un altro
carattere fondamentale della modernità: l’impulso all’accumulazione dei segni,
degli oggetti, delle opere di fronte al quale si specchia il silenzioso ritrarsi del
digiunatore.
Parole chiave: Franz Kafka, arte, gesto, ascesi.
55
56
Adorno, T. W. (2012), Lettura di Balzac, p. 68.
Balzac, H. de (2011), p. 41.
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