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L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC Michele Bertolini La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa. Franz Kafka1 Il digiunatore digiuna, il guardiano tace, e gli studenti vegliano. In forma così segreta agiscono, in Kafka, le grandi regole dell’ascesi. Walter Benjamin2 Abstract: The art of fasting: the last short stories of Franz Kafka. With an appendix on Balzac. The essay proposes a reading of one of Kafka’s last short stories, A Hunger Artist, as an interpretive key to understanding some contemporary art practices marked by the poetics of silence, absence, subtraction, exile and isolation. Through an analysis of the reflections on gesture as a pure medium elaborated by Benjamin, Adorno and Agamben, the figure of the faster, like those of the trapeze artist and of the mouse Josephine the songstress, at the center of the Prague writer’s last literary collection, delineate a performative practice that shifts the center of gravity of art from aesthetics to ethics, toward an art of living and everyday behaviour. The art of the faster, in Kafka’s tale, assumes the character of a somatic-spiritual and ascetic technique, capable of suspending subservience to the natural impulse of hunger, loading itself with possible ethical-political meanings and regaining the original meaning of the artistic event. The bulimic collecting and enormous appetite of the protagonist of Balzac’s last great novel, Cousin Pons, represent, on the other hand, the mirror reversal of the ascetic fasting of Kafka’s character and underscore another fundamental character of modernity: the impulse to accumulate signs, objects, and works in front of which is mirrored the silent withdrawal of the faster. Keywords: Franz Kafka, art, gesture, asceticism. 1 2 Kafka, F. (1972), Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via. Benjamin, W. (1995), Franz Kafka. Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 155 MICHELE BERTOLINI Il rapporto costitutivo dell’uomo con il cibo dispiega una rete quasi infinita di rimandi simbolici, antropologici, psicologici, estetici, politici, che l’arte e la letteratura del Novecento e contemporanea non hanno cessato di investigare ed esplorare. Nell’ambito delle arti visive e performative, ad esempio, l’allargamento dei confini e del limite tra arte e vita, la considerazione critica dell’arte come merce da consumare e digerire e la circolazione tra produzione e consumo delle opere hanno dato vita a partire dagli anni Sessanta a una serie di pratiche, performance, azioni e operazioni artistiche in cui il cibo, sia nella sua dimensione materiale che metaforica, è stato direttamente esposto e assorbito all’interno del campo dell’arte. Dalla critica alla società dei consumi e all’istituzione museale fino all’utopia sociale e politica incarnata dalle forme di convivialità e relazioni rappresentate dall’immaginario della tavola e dal banchetto, le arti si sono confrontate con le dimensioni culturali, politiche e antropologiche assunte dal cibo.3 A partire dagli anni Novanta, inoltre, il cibo come fatto sociale e culturale è stato investigato dalle arti soprattutto come medium relazionale, come linguaggio sociale, nella forma del mercato, del bazar, della tavola, in quanto attivatore di modelli provvisori di partecipazione sociale, di microutopie quotidiane basate sulla convivialità, come vettore di incontri effimeri ma significativi tra le persone, per approdare infine nel XXI secolo a fenomeni sociali come il social eating o i flash mob conviviali.4 A titolo esemplificativo, ricordiamo l’environment Eat di Allan Kaprow (1963-64), «ambiente» deputato a innescare grazie alla presenza di portate specifiche di cibo relazioni tra i partecipanti, il ristorante Food aperto dall’artista Gordon Matta-Clark nel 1971, le cene preparate da Daniel Spoerri, l’happening Marabunta realizzato da Narcisa Hirsch, Marie-Louise Aleman e Walther Mejía al Teatro Coliseo di Buenos Aires il 31 ottobre del 1967 (in questa occasione un’enorme scultura ricoperta di frutta, verdura, piatti e portate veniva mangiata e consumata dal pubblico rivelando infine un gigantesco scheletro bianco), l’esposizione, curata da Dan Cameron, Cocido y Crudo al Museo Nacional Centro de Arte Reína Sofia di Madrid (1994-1995), che, invertendo i termini del celebre libro del 1964 di Claude Lévi-Strauss, intendeva ripensare in un’ottica critica e post-coloniale le relazioni culturali tra l’Occidente e le altre culture. 4 Secondo la formula popolare del critico d’arte francese Nicolas Bourriaud l’arte degli anni Novanta è stata dominata dall’estetica relazionale, esemplificata, ad esempio, dalle opere di Rirkrit Tiravanija, che, a partire da Untitled (Pad Thai), organizzata nel 1990 alla Paula Allen Gallery di New York, predispone gli ingredienti per preparare, riscaldare e consumare zuppe cinesi coinvolgendo il pubblico delle esposizioni in forme di socializzazione impreviste. Cfr. Bourriaud, N. (2010), Estetica relazionale. Le «cene urbane» nate a Parigi come Dîner en blanc e riproposte tra il 2012 e il 2015 a Milano dalla gallerista Rossana Ciocca, si propongono come eventi autogestiti in spazi urbani pubblici, originati spesso sui social media al pari dei flash mob, in cui la volontà di socializzazione aperta si accompagna all’intenzione di ridefinire importanti luoghi simbolici delle città. Cfr. Leveghi, E. (2015), Pratiche relazionali del cibo. Mangiare nell’epoca dei social. 3 156 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC In queste pagine, tuttavia, saranno piuttosto l’assenza o il rifiuto del cibo e l’isolamento volontario rispetto alla dimensione sociale del mangiare a essere approfonditi sul piano estetico e filosofico, risalendo ad alcune manifestazioni letterarie decisive delle avanguardie del Novecento. Una dimensione, quella dell’astinenza e del digiuno, in cui la capacità del cibo di funzionare sul piano simbolico come un codice linguistico e comunicativo non viene interrotta ma al contrario viene riproposta in forma negativa e rovesciata. 1. Un artista senza opera Un digiunatore, tardo racconto di Kafka, fu pubblicato sulla rivista Die neue Rundschau nell’ottobre del 1922, per essere poi incluso, insieme ad altri tre racconti (Primo dolore, Una donnina e Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi), nella raccolta omonima Un digiunatore, apparsa poco dopo la morte del suo autore nell’estate del 1924.5 Il breve, laconico racconto potrebbe assumere il valore di un’icastica firma o suggello di quell’estetica del silenzio che ha attraversato la produzione artistica di tante avanguardie del Novecento.6 Più in generale, i quattro brevi racconti sono stati tra l’altro interpretati, all’interno dell’insuperabile stratificazione e pluralità interpretativa che ha coinvolto i testi di Kafka (i quali al tempo stesso sollecitano ed eludono ogni interpretazione), «come una sola e insolita meditazione su questo fenomeno che è l’arte e il dedicarsi ad un’arte».7 Un’arte, tuttavia, singolarmente sfuggente, nella misura in cui aderisce totalmente all’artista, al suo corpo, alla sua vita, risolvendo e cancellando quindi l’opera (il prodotto della pratica artistica) nell’esercizio della vita stessa. Kafka non a caso sceglie i suoi quattro personaggi, uomini o animali che siano, tra coloro che lavorano sul loro stesso corpo, ovvero un digiunatore, un trapezista, una donnina mossa da un’incomprensibile irritazione verso il narratore esibita in gesti e pianti da consumata attrice e infine Giuseppina, la topolina cantante. Le arti performative (come la danza, il mimo, il canto, la recitazione, la performance, lo sport), cui sembrano dedicarsi le quattro figure kafkiane, godono infatti di un privilegio, manifestando una differenza qualitativa nel novero delle arti della rappresentazione, differenza riconosciuta all’interno della stessa tradizione Cfr. Kafka, F. (1979), Tutti i racconti, a cura di E. Pocar. La raccolta Un digiunatore, comprendente i quattro racconti, occupa le pp. 495-533 dell’edizione Mondadori. L’ultima raccolta di Kafka è stata recentemente ripubblicata con il titolo Un artista del digiuno. Quattro storie, che risulta più fedele all’originale tedesco: Ein Hungerkünstler. Il tema della fame e del digiuno attraversa in realtà tutta l’opera di Kafka, a cominciare da Gregor Samsa, il protagonista de La metamorfosi, che si lascia morire di fame, rifiutando il cibo che gli viene dato dalla famiglia. 6 Cfr. Sontag, S. (1975), L’estetica del silenzio. 7 Cavazzoni, E. (2009), «Ein Schreibkünstler», un artista della scrittura, p. 83. 5 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 157 MICHELE BERTOLINI filosofico-estetica del pensiero occidentale: esse assorbono e inglobano il prodotto della loro attività nel compiersi della loro azione, nell’effettuarsi del gesto, costituendo «l’esempio di un’azione umana che sembra sfuggire alla categoria della finalità» e che si presenta come «un mezzo puro […], un mezzo che, pur restando tale, si è emancipato dalla relazione con un fine».8 Artisti senza opera, senza tracce visibili da lasciare in eredità agli altri esseri umani, i protagonisti dell’ultima raccolta letteraria di Kafka, body artists ante litteram, dissolvono inoltre (nuovo paradosso) l’eccezionalità o l’esemplarità del loro agire inoperoso nella quotidianità di un gesto che si scopre indistinguibile dal comune fischiare e dal comune parlare, come avviene con il singolare canto della topolina Giuseppina; oppure superano addirittura l’intenzionalità del gesto artistico, come nel caso dell’artista acrobata di Primo dolore e soprattutto dell’artista della fame di Un digiunatore. Se il primo sceglie di vivere giorno e notte sospeso sul trapezio senza mai scendere, «in principio soltanto per l’ambizione d’arrivare alla perfezione» e in seguito «per un’abitudine ormai divenuta tirannica»,9 il secondo scopre con sconcerto e colpevole vergogna al termine della sua vita di essere costretto a digiunare da un impulso naturale, da una necessità fisiologica, non avendo mai trovato in tutta la sua vita alcun cibo che gli piacesse. Non v’è nulla di più facile, infatti, per il digiunatore dell’arte del digiuno.10 Queste quattro figure estreme introducono, nella ricca fenomenologia dei personaggi delle opere di Kafka richiamata da Walter Benjamin nel suo celebre saggio del 1934,11 una nuova tipologia o forse una rielaborazione di motivi precedenti: accanto al mondo parassitario e sudicio delle figure del potere e dei suoi sodali, il mondo dei «padri» e dei «funzionari», alla bellezza senza speranza di salvezza degli «accusati» e dei «figli», all’erotismo lascivo delle «timide ragazze» Agamben, G. (2017), Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, p. 131 e p. 134. 9 Kafka, F. (1979), Primo dolore, p. 495. Il simulacro di perfezione cui ambisce l’acrobata del racconto di Kafka, isolato nel «cielo del circo», non appartiene dunque all’infinita perfettibilità dell’arte, ma risiede, come ricorda Ferruccio Masini, «nell’assolutezza di quell’isolamento che il trapezista è riuscito a creare intorno a sé», una parvenza di autosufficienza, di «costruita trascendenza», per quanto precaria, che dev’essere continuamente alimentata attraverso l’autoinganno e l’illusione. Cfr. Masini, F. (1986), La cognizione del dolore, p. 112. 10 Cfr. Kafka, F. (1979), p. 508: «Egli solo sapeva – e nessun iniziato lo sospettava – quanto facile fosse il digiunare. Era la cosa più facile del mondo»; ivi, p. 514: «e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso». 11 Cfr. Benjamin, W. (1995), Franz Kafka, pp. 276-281. 8 158 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC e delle «donne» (connettori di segmenti erotici, sociali e gerarchici distinti), all’universo crepuscolare, intermedio e incompiuto dei «messaggeri» e degli «aiutanti», cui soltanto sembra aprirsi una possibilità di speranza, i personaggi circensi dell’acrobata e del digiunatore appaiono come «estranei» e «solitari», figure devianti in attesa di una diserzione definitiva dal loro stesso ambiente sociale o di una fuga attraverso l’uomo verso il non-umano e l’animalità.12 Tali figure sono forse assimilabili agli ostinati e instancabili «studenti» dei romanzi e dei racconti kafkiani, ancora in attesa di una redenzione, «sagrestani rimasti senza parrocchia, […] scolari senza scrittura», i cui «studi forse non hanno significato nulla, ma sono molto vicini a quel nulla che solo rende servibile il qualcosa, e cioè al tao».13 Seguendo una progressione di consapevole rovesciamento del significato che l’arte ha assunto nella tradizione culturale dell’Occidente, Kafka sembra ironicamente alludere a una forma d’arte che non solo rinuncia alla sedimentazione storica e museificata dell’opera-oggetto, ma anche al suo statuto di originalità ed eccezionalità paradigmatica, di azione consapevole di un soggetto creatore, per approdare infine alla sparizione dell’artista stesso, del suo corpo fisico e della sua identità. Nel suo sforzo di continuo superamento dei limiti e di coerenza ascetica nel gesto del rifiuto del cibo, il digiunatore non potrà che estinguere se stesso, quasi scomparire all’interno della grande gabbia ricoperta di paglia con il suo esile e ormai minuscolo corpo estenuato. I digiunatori fisici e metaforici, a partire dal loro archetipo kafkiano, sembrano incarnare quindi una cifra fondamentale dell’arte contemporanea, da intendersi come arte della discrezione e arte della scomparsa, «certo non un’arte del negare se stessi o del voler morire, ma un’arte dell’andare sempre “un passo oltre”, di guardare sempre in direzione della propria verità, e al tempo stesso voler fare scomparire tutto quello che ci definisce effettivamente: sé, opera o parrocchia».14 Una cifra che si declina, ormai privata nel corso del Novecento di ogni pathos vitalistico della negazione e del rifiuto, secondo una triplice forma: come sparizione dell’autore, come scomparsa dell’opera e infine come evaporazione dell’arte stessa. Sarebbe facile quanto rischioso intravedere nella tarda produzione di Kafka un’anticipazione lucida e per certi tratti quasi profetica di pratiche e atteggiamenti che hanno investito gli artisti del Novecento nelle forme più radicali di espressione del confine sospeso e quasi impercepibile tra arte e vita: dal gesto estremo degli azionisti viennesi alla sparizione della materialità dell’opera nell’arte Cfr. Adorno, T. W. (2018), Appunti su Kafka, p. 259: «Al pari del suo compatriota Gustav Mahler, Kafka sta dalla parte dei disertori. Al posto della dignità umana, il supremo concetto borghese, si ripresenta in lui la salutare rammemorazione della somiglianza con la bestia, che alimenta tutta una serie di suoi racconti». 13 Benjamin, W. (1995), p. 304 e p. 301. 14 Cfr. Zaoui, P. (2015), L’arte di scomparire. Vivere con discrezione, p. 111. 12 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 159 MICHELE BERTOLINI concettuale (Robert Barry con Telepathic Piece del 1969 cercava di trasmettere telepaticamente al pubblico un’opera d’arte costituita da pensieri non definibili sul piano del linguaggio o dell’immagine), da John Cage e fluxus alla poetica del fallimento di Bas Jan Ader alle performance senza traccia documentaria di Tino Sehgal.15 Sotto questo aspetto Kafka potrebbe assurgere al ruolo paradossale del «più lucido, intuitivo e premonitore analista, il teorico più spietatamente coerente e conseguente delle ragioni contraddittorie, profondamente aporetiche dell’arte radicale novecentesca […] dal readymade di Duchamp fino ad oggi»,16 come suggerisce Massimo Carboni. Soprattutto, la centralità assunta dal gesto performativo negli ultimi racconti dello scrittore praghese, un gesto che al tempo stesso si espone e si mimetizza, si ritaglia su uno sfondo neutro e si neutralizza azzerandosi nel flusso quotidiano della contingenza, sposta il baricentro dell’attività artistica dalla sua pura legittimazione estetica verso un territorio nuovo, etico e politico, dominante nell’arte del ventesimo secolo.17 2. Digiunare: una tecnica somatico-spirituale, un gesto politico Non deve sfuggire peraltro l’affinità tra il rifiuto del cibo, o l’impossibilità di nutrirsi, e il silenzio del linguaggio, due gesti che coinvolgono entrambi l’organo della bocca. Come se la bocca fosse coinvolta in una doppia negazione, rifiutandosi di svolgere la sua funzione biologica e materiale e il suo ruolo intellettuale e spirituale: l’ingestione del cibo e la trasmissione del logos. La rinuncia al nutrimento materiale e il gesto arpocratico del silenzio. Una doppia impossibilità (quella del cibo e quella della parola) che peraltro investì dolorosamente lo stesso Kafka, costretto negli ultimi mesi di vita, contemporanei alla stesura dei racconti, al digiuno e al silenzio dal progredire della malattia, la laringite tubercolare.18 Il rifiuto del cibo e della parola, che accomuna alcuni dei personaggi kafkiani, potrebbe inoltre essere assimilato al gesto ascetico dell’artista e del lettore e Sul gesto infrasottile, al limite della sparizione, che unisce e distingue lo spazio (fisico e mentale) dell’arte dallo spazio quotidiano pubblico e privato si rimanda al bel libro di Grazioli, E. (2018), Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti. 16 Carboni, M. (2007), La mosca di Dreyer. L’opera della contingenza nelle arti, p. 115. Dello stesso autore si consiglia anche: Carboni, M. (2017), Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee. 17 Come sottolineano Deleuze e Guattari, «nessuno meglio di Kafka ha saputo definire l’arte o l’espressione senza riferirsi minimamente a qualcosa di estetico». Deleuze, G., Guattari, F. (1996), Kafka. Per una letteratura minore, p. 123. Il passaggio dell’arte dall’estetica all’etica va inteso nel suo senso letterale di un’arte dell’ethos, del comportamento vivente, di una pratica dell’esistenza. 18 Cfr. Donalisio, F. (2014), Il digiuno necessario. Una nota sul Digiunatore di Franz Kafka. 15 160 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC spettatore novecentesco che intendono sottrarsi al volgare consumo culturale di un’arte ridotta a merce da gustare e digerire.19 L’arte del digiuno, che rivela la sua affinità con le millenarie pratiche ascetiche, è peraltro un fare che disfa se stesso, assimilabile a un segno che si cancella nel suo farsi: lungi dal rappresentare una pratica di disprezzo o svalutazione del corpo, gli asceti come «i martiri non sottovalutano il corpo, anzi lasciano ch’esso venga innalzato sulla croce»,20 come ci ricorda un aforisma di Kafka riunito da Max Brod nella raccolta Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via. La rinuncia al cibo, laddove viene trasfigurata dalla pratica artistica o dall’ascesi religiosa, assume anche una connotazione politica di sabotaggio e profanazione del potere,21 da sempre collegato al consumo smodato, eccessivo, spettacolare del cibo, ritualizzato attraverso sontuosi banchetti e grandi feste fin dall’antichità. Se «l’atto primordiale del potere» consiste, a partire dalle comunità di popoli antichi, dalle caste sacerdotali ebraiche e indù studiate dall’antropologia storica, nel «dominio sul cibo e sulla distribuzione dello stesso […] ai seguaci invitati»,22 la distruzione e il rifiuto del cibo si affermano come un gesto di fuga e di sottrazione rispetto alle logiche del potere e come tali sono state spesso messe in scena dalle arti.23 La rinuncia al cibo, infatti, interrompe e sospende la circolazione e l’equivalenza tra produzione e consumo (delle merci, dei prodotti, dei servizi), che si realizza nella sua forma più immediata e irriflessa proprio In questo senso si comprende l’attenzione riservata da un pensatore come Adorno al linguaggio d’avanguardia e all’intransigenza radicale di artisti come Kafka e Beckett o, in campo musicale, a Schönberg e Berg, non riducibili ai modelli dominanti del consumo di massa e dell’industria culturale: cfr. Adorno, T. W. (2018). Il «caso» Kafka è comunque doppiamente paradossale agli occhi di Adorno, in quanto autore dotato di una popolarità e di una «falsa fama», che non solo contrasta con l’oblio auspicato dall’autore stesso sulla sua opera, ma che rischia anche di dissolverne l’enigma, di sciogliere dietro facili formule pseudofilosofiche la dura, ostinata e contraddittoria oscurità: cfr. ivi, pp. 230-234. 20 Kafka, F. (1972), Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, p. 796. 21 Assumiamo il termine «profanazione» nel significato elaborato da Giorgio Agamben, che lo intende come quell’operazione, incarnata tra l’altro dall’attività artistica, di disattivazione e sabotaggio del dispositivo politico-filosofico dominante nella cultura dell’Occidente, fondato sull’opposizione assoluta tra i mezzi e i fini dell’azione umana; cfr. Agamben, G. (2005), Profanazioni; Agamben, G. (2017). 22 Masiero, R. (2018), Artisti della fame. Storie di viventi alle prese col cibo, p. 52. 23 Per limitarsi a due celebri esempi cinematografici, questo significato politico e rivoluzionario del digiuno o dello spreco del cibo come forma di contestazione del potere emerge nel mediometraggio La ricotta (1963) di Pier Paolo Pasolini, attraverso la «fame atavica» del protagonista Stracci, o nel film sperimentale Le margheritine (Sedmikrásky, 1966) della regista cecoslovacca Vĕra Chytilová. 19 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 161 MICHELE BERTOLINI nell’alimentazione, in cui il consumo del cibo è sia produzione che costruzione del proprio corpo.24 Al tempo stesso, la pratica ascetica del digiuno messa in atto dagli antichi maestri religiosi indiani e poi dai monaci mendicanti cristiani si connota come una rivolta contro la dittatura della miseria e della fame, in grado di «sottrarre il singolo praticante al blocco della realtà dominante», di mettere in dubbio «il carattere definitivo della condizione postparadisiaca: […] sviluppando la rinuncia al nutrimento ed elevandola a una tecnica somatico-spirituale», gli asceti digiunatori «trasformarono la fame in una libera azione di digiuno. Di una passività avvilente costoro fecero un’azione ascetica. L’esautorazione della fame comportò immediatamente l’emancipazione dalla necessità di lavorare. Chi sceglie la temperanza si stacca dalla vita produttiva e conosce ormai soltanto esercizi».25 In questo lungo passaggio Peter Sloterdijk sottolinea la forte componente politica e rivoluzionaria, oltre che spirituale, di questo gesto volontaristico, che trasforma la passività dell’asservimento al naturale impulso della fame in una vittoria sulla natura, alludendo al tempo stesso a una carenza ben più grande, la fame di Dio o dell’illuminazione. Queste implicazioni etiche e politiche, innervate nell’atto del digiuno, sono reinterpretate e riattivate nel maturo racconto di Kafka, che insegue un gesto tanto silenzioso e umile quanto dirompente e rivoluzionario. 3. Gesto e scena L’azione ossessiva e reiterata del digiunatore è presentata da Kafka come un gesto puro, in grado di unire, secondo le parole illuminanti di Benjamin, «la massima enigmaticità alla massima semplicità come un gesto animale».26 È proprio intorno all’articolazione di senso di questo lemma, così decisivo non solo per l’opera di Kafka ma per tutto il pensiero del Novecento, che dobbiamo soffermarci. Il termine «gesto» va qui interpretato secondo un doppio possibile riferimento teorico, che rimanda alle letture offerte da Walter Benjamin e da Giorgio Agamben, raffinati interpreti dell’opera kafkiana. Sulla scorta del saggio di Benjamin su Kafka, scritto nel 1934 per il decennale della morte del grande scrittore, il gesto dev’essere inteso, in opposizione al carattere strumentale dell’azione diretta a uno scopo, come «un evento, si potrebbe quasi dire un dramma a sé», a cui l’autore «toglie i sostegni tradizionali» per farne «l’oggetto Cfr. Marx, K. (1979), Introduzione a «Per la critica dell’economia politica», p. 178: «Il consumo è immediatamente anche produzione, come nella natura il consumo degli elementi e delle sostanze chimiche è produzione della pianta. Che nell’alimentazione per esempio, che è una forma di consumo, l’uomo produca il proprio corpo, è chiaro». 25 Sloterdijk, P. (2010), Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, pp. 511-512. 26 Benjamin, W. (1995), p. 286. 24 162 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC a riflessioni senza fine».27 L’orizzonte espressivo e non meramente comunicativo del gesto rinvia alla magia del gioco infantile e al potere ricettivo e creativo racchiuso nella corporeità. La tematizzazione del gesto in Kafka svolge un ruolo strategico nella lettura di Benjamin in quanto esso rappresenta prima di tutto un punto opaco, oscuro e impenetrabile che impedisce di leggere le sue «favole dialettiche» secondo un significato univoco, come hanno cercato di fare, secondo Benjamin, rispettivamente l’interpretazione naturale, psicanalitica, e quella soprannaturale, teologica.28 Il gesto è letterale e opaco, rinviando il lettore solo alla sua continua esibizione, citazione e ripetizione, «è il punto oscuro e nebuloso delle parabole»29 kafkiane, che non risolve la poesia nella dottrina, la trasmissione dei segni nella trasparenza della verità, nella misura in cui lavora sul piano del significante. Un’osservazione di Adorno pare rafforzare questa ipotesi interpretativa: come il punto cieco di un sogno, un particolare incomprensibile e impenetrabile per l’analisi del sognatore, in Kafka «i gesti costituiscono un contrappunto alle parole», «le tracce delle esperienze coperte dal significare»,30 non un semplice accompagnamento mimico del linguaggio. I gesti rappresentano un deposito prelinguistico di esperienza, nascosto dal proliferare confuso e polisignificante delle parole, un deposito che non deve essere superato e risolto nella verità del linguaggio. Seguendo la lettura di Benjamin, «tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti, che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove».31 I gesti si dispiegano sullo sfondo di una scena, di un teatro naturale Ivi, pp. 285-286. Cfr. ivi, p. 292: «Ci sono due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka. Una è l’interpretazione naturale, l’altra quella soprannaturale: l’una e l’altra - l’interpretazione psicanalitica come quella teologica - trascurano del pari l’essenziale. La prima è sostenuta da Hellmuth Kaiser; la seconda già da parecchi autori, come H. J. Schoeps, Bernhard Rang, Groethuysen». D’altra parte Adorno, che pure sviluppa le sue note su Kafka a partire dal saggio commemorativo di Benjamin, rileva l’affinità di alcuni temi ricorrenti nell’opera kafkiana con la psicoanalisi di Freud, al di là di riferimenti espliciti e consapevoli da parte dello scrittore praghese: in particolare la concezione della gerarchia e dell’autorità, la dipendenza dell’io da istinti amorfi e la tentazione del parricidio. Due dei possibili rischi di una lettura rigidamente univoca dell’opera letteraria di Kafka sono rappresentati dal riduzionismo biografico e dal contenutismo, due «piste» che a volte si sforzano di rinchiudere la costitutiva ambiguità, enigmaticità e polisemia del testo all’interno di una cornice di senso esplicativa. Cfr. Adorno, T. W. (2018), pp. 236-239. 29 Benjamin, W. (1995), p. 294. 30 Adorno, T. W. (2018), pp. 234-235. 31 Benjamin, W. (1995), pp. 284-285. Sui diversi significati del termine «gesto» nell’opera di Walter Benjamin, cfr. Marchesoni, S. (2018), Gesto, pp. 63-66. 27 28 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 163 MICHELE BERTOLINI e universale, dell’articolazione di uno spazio, la cui figura più emblematica è rappresentata dall’ippodromo di Clayton, il teatro di Oklahoma descritto nel romanzo America. Gesto e scena, figura e teatro rappresentano dunque i due poli dialettici intorno ai quali si dispiega la lettura performativa, visivo-scenica e teatrale dell’opera letteraria di Kafka da parte di Benjamin: un teatro – è necessario ricordarlo – che si sottrae alle coordinate del dramma occidentale, alle categorie del tragico e del comico, per avvicinarsi piuttosto al teatro mimico e gestuale cinese.32 Nel caso specifico dell’ultima raccolta di racconti kafkiani, tuttavia, i gesti del digiuno in Un digiunatore, del trapezista in Primo dolore, del canto/fischio in Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi, non si inseriscono all’interno della narrazione soltanto come momenti di interruzione, di cesura e di stasi dialettica dell’azione, ma costituiscono il cuore, il centro, la professione dei personaggi stessi. Quasi raddoppiato e potenziato, il gesto vi compare qui come in una mise en abyme continuamente ripresa, ripetuta e citata da una pagina all’altra. Il gesto si presenta in queste pagine nella sua dimensione più essenziale e spoglia, come una finale meditazione sul senso del fare arte, del suo accadere e della forma di spettacolo sociale che può assumere fino alla sua sparizione. La performance dell’anonimo protagonista del breve racconto è presentata infatti come un’arte, l’arte del digiuno, tale da richiedere rispetto, sacrificio e un continuo sforzo di superamento dei propri limiti da parte dell’artista. Mostrandosi al pubblico all’interno di una gabbia, il digiunatore circoscrive una soglia, resa visibile dalla cornice della rete in cui si è rinchiuso, che separa la folla dei visitatori dal recinto in cui si svolge la sua azione ripetuta. Al tempo stesso, nella seconda parte del racconto, quando la perdita di interesse da parte del pubblico nei confronti dello spettacolo del digiuno spinge l’uomo a separarsi dal suo impresario e a farsi assumere in un grande circo, la gabbia del digiunatore è spostata nelle vicinanze delle gabbie degli animali feroci e delle stalle degli animali, suggerendo una finale sostituzione, più volte replicata nei racconti di Kafka, dell’uomo da parte delle bestie. Il gesto del digiunatore si presenta come il rovesciamento in negativo della voracità piena di vita delle bestie rinchiuse: dopo la sua morte, per fame e consunzione, non a caso, la sua gabbia ormai svuotata sarà occupata da una giovane pantera che non sembra rimpiangere la perduta libertà tanta è la gioia di vita che si esprime nelle sue fauci spalancate. Kafka articola in questo modo un inventario di gesti perduti o dimenticati, un catalogo di attività artistiche sulla via del tramonto: l’interesse per gli acrobati o per i digiunatori sembra ormai appartenere al passato. Questo passaggio permette di cogliere un secondo punto fondamentale dell’analisi di Benjamin: il rapporto che il gesto istituisce con il tempo, con la memoria e con l’oblio. Al pari di autori come Nietzsche o Warburg, Cfr. Benjamin, W. (1995), p. 284. Si vedano anche le osservazioni di T. W. Adorno riguardo all’impossibilità di drammatizzare i testi di Kafka, di ricavarne una riduzione teatrale: cfr. Adorno, T. W. (2018), p. 251. 32 164 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC Kafka si propone di evocare quel repertorio di gesti espressivi che la società occidentale stava perdendo con i progressi inesorabili dello sviluppo tecnologico ed economico del capitalismo.33 Nella ripetizione e citazione del gesto è racchiusa una speranza, una possibilità di redenzione, una via di liberazione: ciò che si lascia «cogliere solo nel gesto, […] il punto oscuro e nebuloso delle parabole»,34 sottraendosi al circolo delle ragioni, delle azioni motivate da un fine, al labirinto senza fine delle spiegazioni e dei discorsi, permette, come agli attori del teatro naturale di Oklahoma, che ripetono e recitano la loro vita precedente, di ritrovare «frammenti della propria esistenza», di recuperare il «gesto perduto».35 Giorgio Agamben, dall’altra parte, reinterpretando le riflessioni di Benjamin, individua la radice della parola gesto (gestus) e del suo senso profondo nel verbo latino gerere, sulla scorta di una proficua suggestione di Marco Terenzio Varrone, che sembra aprire per la riflessione filosofica una terza via al di là del dualismo di matrice aristotelica tra il poiein (facere), ovvero l’attività del fare umano che produce opere (incluse le opere d’arte), e il prattein (agere), ossia l’agire umano che ha il suo fine in se stesso e che trova nell’azione politica una delle sue fondamentali possibilità di realizzazione.36 Al di là del fare (poiesis), in quanto mezzo in vista di un fine, e dell’agire (praxis), in quanto fine senza mezzi, sarebbe l’azione come gesto a rendere inoperose le opere umane, dischiudendole a un loro possibile nuovo uso, nella misura in cui il gesto, interrompendo la falsa alternativa tra fini (senza mezzi) e mezzi (in funzione di un fine), è «l’esibizione di una medialità, il rendere visibile un mezzo come tale, che fa apparire l’esserein-un-medio dell’uomo e, in questo modo, apre per lui la dimensione etica».37 L’esibizione del gesto come «mezzo puro» trova la sua affermazione più caratteristica nella performance del mimo, nella danza, nell’arte dell’attore, che arriva a esibire, a mostrare ciò che non può essere detto. Il comune fischiare della topolina Giuseppina, svelando il fondo inoperoso che rende possibile l’agire umano nella sua produttività, rivela la natura del medium del fischio/canto sottraendolo alla sua impercepita e ovvia presenza abituale. Come scrive Kafka: Resta però il fatto che le sue manifestazioni sono soltanto un fischiare. […] Fosse anche soltanto il nostro fischiare di tutti i giorni, va rilevata anzitutto la particolarità che Cfr. Agamben, G. (1996), Note sul gesto, pp. 48-49. Benjamin, W. (1995), p. 294. 35 Ivi, p. 303. 36 Cfr. Agamben, G. (1996), pp. 45-53. Il riferimento aristotelico alla distinzione tra fare (facere) e agire (agere), citato da Agamben, si trova in: Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1140b, mentre per l’opera di Varrone si rimanda a: Varrone, De lingua latina, VI, VIII, 77. Sul gesto si rimanda anche a: Agamben, G. (2017), pp. 100-139. 37 Agamben, G. (1996), p. 52. 33 34 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 165 MICHELE BERTOLINI uno si metta lì solamente a eseguire nient’altro che un’attività consueta. Non si può dire che schiacciare una noce sia un’arte, e perciò nessuno oserà convocare il pubblico per divertirlo schiacciando noci. Se però lo fa e riesce nel suo intento, vuol dire che non si può trattare del puro e semplice schiacciar noci. Oppure sì, si schiacciano noci, ma infine risulta che non abbiamo prestato attenzione a quest’arte perché ne eravamo perfettamente padroni ed ora questo nuovo schiacciatore di noci ce ne mostra la vera natura, e per ottenere l’effetto potrebbe essere persino opportuno che fosse un po’ meno abile a schiacciare noci di quanto non lo sia la maggior parte di noi.38 4. Dall’etica acrobatica all’ascesi Un’oscillazione polare attraversa e percorre queste epifanie del gesto artistico: un movimento di esibizione e ostensione teatrale da una parte, un processo di mimetizzazione e nascondimento nel flusso della quotidianità dall’altra parte, un’affermazione e una cancellazione, un mostrarsi e un ritrarsi. La dislocazione degli spazi in cui operano i personaggi degli ultimi racconti risulta particolarmente significativa, disegnando quasi una progressione, una discesa nella contingenza: se il gesto dell’acrobata di Primo dolore tende a sospendersi e isolarsi verticalmente nel cielo del tendone del circo, in un’astratta e separata trascendenza, Giuseppina si esibisce su un palcoscenico per essere poi assorbita e dimenticata nel pantheon degli eroi e degli eletti del popolo dei topi, mentre il digiunatore si mimetizza orizzontalmente, fino a scomparire, tra la paglia della gabbia in cui vive. Lo spazio in cui risuona e si dispiega il gesto è definito da un doppio dispositivo spaziale: il primo dispositivo assume l’aspetto di una costruzione – essa è anche una costrizione, una griglia, al tempo stesso fisica e mentale – che imprigiona progressivamente il protagonista invece di liberarlo (il trapezio, singolo e poi doppio, dell’acrobata di Primo dolore, la gabbia di Un digiunatore, la tana gigantesca dell’animale de La tana, l’enorme edificio della scienza stessa nel racconto Il maestro del villaggio)39 e che stabilisce una soglia tra l’habitat del personaggio e l’esterno; il secondo dispositivo si configura come un teatro, uno spazio pubblico e sociale che definisce l’orizzonte dello spettacolo offerto allo sguardo degli altri (il teatro «naturale» di America, il teatro di varietà in Primo dolore o il circo in Un digiunatore). Kafka, F. (1979), Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi, pp. 518-519. Siegfried Kracauer, in una recensione alla raccolta di racconti Durante la costruzione della muraglia cinese, apparsa sulla Frankfurter Zeitung nel settembre del 1931, ha messo in evidenza il rapporto reciproco tra la paura senza speranza e la raffinatezza sistematica della costruzione nei racconti di Kafka: «Quanto più sistematicamente [la costruzione] è stata costruita, tanto meno egli vi può respirare. […] Le misure dettate dall’angoscia esistenziale minacciano l’esistenza stessa» (cfr. Kracauer, S. (1982), La massa come ornamento, p. 176). 38 39 166 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC Una limpida e acuta lettura degli ultimi racconti di Kafka (in particolare di Primo dolore e di Un digiunatore, preceduti dall’analisi del racconto Una relazione per un’Accademia del 1917), rubricati sotto la cifra di una morale e di un’arte acrobatica, di un «esistenzialismo acrobatico», è stata proposta da Peter Sloterdijk all’interno del volume Devi cambiare la tua vita.40 Il filosofo tedesco reinterpreta le figure dell’acrobata e del digiunatore di Kafka come versioni despiritualizzate e immanenti dell’ascetismo religioso e metafisico occidentale dominante per millenni nella nostra cultura, collocando Kafka in una posizione di continuità e al tempo stesso di scarto rispetto all’etica acrobatica eroica proposta da Nietzsche nel Prologo di Così parlò Zarathustra. L’acrobata trapezista e il digiunatore, modelli di inclusione volontaria all’interno di una sfera d’esistenza separata di infinito perfezionamento della propria arte, si presentano come «una seria parodia dell’anacoresi, ossia la rottura con il mondo profano basato su motivazioni religiose»,41 espressioni di quell’anelito a trascendere i propri limiti e ad ascendere verso una realtà ulteriore, che percorre tanto l’ascesi religiosa quanto l’esperienza artistica. Rispetto al modello eroico e agonistico proposto dalle figure dei «discepoli» di Zarathustra, che si affacciano fin dalle prime righe del testo attraverso lo sfortunato funambolo precipitato dalla corda tesa tra le due torri sopra il mercato, Kafka riconduce l’etica acrobatica nietzschiana nell’alveo di una quotidianità umile e discreta, dimessa e paradossale, visivamente rappresentata nel passaggio dalla verticalità delle peripezie dell’acrobata all’orizzontalità della postura del digiunatore. La corda tesa non è più infatti collocata nella parte più alta del tendone del circo, al pari della nietzschiana «corda tesa tra la bestia e il superuomo – una corda sopra un abisso»42 che metaforizza la natura di passaggio e di ponte dell’uomo, ma posta a filo del suolo, rasoterra, come ricorda un aforisma di Kafka: «La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa».43 La corda rasoterra suggerisce che l’esistenza in quanto tale, nella sua ovvia quotidianità, può essere pensata come una prestazione acrobatica per la quale non esistono formule o esercizi preparatori che ci possono assicurare una protezione speciale. La dissoluzione dell’acrobatica eroica nella quotidianità della vita non comporta in Kafka la sparizione dell’etica acrobatica, ma al contrario la sua universale estensione a tutti gli aspetti della vita, come lo è nel Processo l’implicazione di ogni uomo e non solo di Josef K. nella sfera del processo e della legge per il semplice fatto di vivere. Al tempo stesso Kafka si avvicina a Nietzsche su un punto decisivo: recidere alla morale ascetica il suo punto d’arrivo, la sua meta trascendente, come 40 41 42 43 Cfr. Sloterdijk, P. (2010), pp. 75-89. Ivi, p. 83. Nietzsche, F. (2017), Così parlò Zarathustra, p. 14. Kafka, F. (1972), p. 793. Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 167 MICHELE BERTOLINI sembra suggerire, significa esibire l’esercizio e la pratica ascetica nella sua nudità, come un mezzo puro, privato del suo fine. Kafka ci mostra un’ascesi decapitata della sua gloria trascendente: «il digiuno può svelare ciò che resta dell’istanza metafisica quando la sua meta ultraterrena è estinta».44 Il cielo sotto cui si dispiega il gesto dell’asceta è uno sfondo vuoto, «è solo uno sfondo, […] il fondale dipinto di una scena in cornice in una galleria di quadri».45 5. «Non contava più come uomo, era uno stomaco»: Le cousin Pons di Balzac L’itinerario che conduce da Balzac a Kafka può essere interpretato come un viaggio che dalla perdita della purezza e perfezione del gesto umano nel panorama della modernità urbana e industriale, borghese e capitalistica (Balzac), persegue una sua ipotetica riconquista salvifica, sia pur posta sotto il segno negativo della rinuncia (Kafka). Come il digiunatore di Kafka anche Pons è un uomo sulla soglia della sparizione, fisica e sociale: decaduto come artista dopo un esordio promettente come musicista vincitore del Prix de Rome, un «glorioso relitto dell’Impero»46 napoleonico, progressivamente emarginato dai salotti sociali e percepito come un parassita e uno scroccone, egli «aveva naturalmente finito per diventare meno che niente, senza tuttavia essere completamente disprezzato».47 Il mite protagonista del romanzo maturo di Balzac, il vecchio musicista Pons, emarginato e deriso per le sue incomprensibili e anacronistiche manie, assorbe e digerisce cibi e confidenze, seguendo uno sforzo di accumulazione che si rivolge agli oggetti d’arte, alla sua passione di collezionista. Pons rappresenta non solo l’ultima grande creazione letteraria di Balzac, pubblicata in trenta feuilletons tra il marzo e il maggio del 1847 su Le Constitutionnel, ma anche una proiezione autobiografica del suo autore, dell’impulso al collezionismo artistico del grande scrittore francese, in particolare prima del 1848: non un investimento esclusivamente materiale, ma «il coronamento di un sogno antico di ascesa sociale, [...] la collezione di Pons è sostanzialmente la collezione di Balzac».48 Una pulsione collezionistica che sarà condivisa dalla passione per il collezionismo di libri di Walter Benjamin, tra l’altro.49 Figura malinconica e grottesca per la sua estraneità ai valori materiali e alle dinamiche dell’ambiente sociale in cui si trova a vivere, Pons porta inscritto Sloterdijk, P. (2010), p. 88. Benjamin, W. (1995), p. 285. 46 Balzac, H. de (2011), Il cugino Pons, p. 3. 47 Ivi, p. 16. 48 Balzac, H. de ( (2011), Introduzione, p. LVIII. 49 Sulle figure di Pons, Balzac e Benjamin, incarnazioni emblematiche del collezionismo tra Ottocento e Novecento, cfr. Grazioli, E. (2012), La collezione come forma d’arte. 44 45 168 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC nel suo corpo precocemente invecchiato, goffo e brutto, rivestito di abiti fuori moda, nei gesti e comportamenti, nelle parole e negli atteggiamenti, i segni di una dissonanza e disarmonia rispetto ai valori della rapace borghesia parigina, una dissonanza rivelatrice delle contraddizioni sociali e morali della propria epoca. La sua magrezza, indice in realtà di un appetito inesauribile, contrasta con la doppia mania che lo domina: il collezionismo di oggetti d’arte da una parte, la gola e il gusto ossessivo per i buoni pranzi dall’altra parte, compensazione digestiva di una partecipazione al mondo sociale parigino assente. La pulsione collezionistica e la gola, entrambe rubricate sotto la logica del consumo, incarnano una doppia compensazione all’assenza del piacere e della felicità: la prima sostituisce la gloria artistica mancata, la seconda rappresenta un surrogato dell’amore, sessuale e coniugale, negato a Pons dalla sua bruttezza fisica. Pons non aveva mai visto sorridergli una donna. A molti uomini è riservato questo destino fatale. Pons era un mostro nato; suo padre e sua madre l’avevano avuto quando erano già vecchi, e portava le stigmate di questa nascita fuori stagione sul suo colore cadaverico […]. Quest’artista, dotato di un’anima sensibile, sognatrice e delicata, costretto ad accettare il carattere che il viso gli imponeva, non aveva alcuna speranza d’essere amato. Il celibato fu dunque per lui più una necessità che un’inclinazione. La ghiottoneria, il peccato dei monaci virtuosi, gli tese le braccia […]. La buona tavola e il bric-à-brac sostituirono per lui la donna […]. Il saggio Pons, i cui soli godimenti erano concentrati nello stomaco, chiedeva alla buona tavola tutte le sensazioni che essa può dare, e fino ad allora le aveva ottenute tutti i giorni.50 Secondo la tecnica narrativa e la concezione della realtà sociale e umana di Balzac, la deformazione grottesca è inscritta nel rapporto espressivo che si istituisce tra la forma dell’anima (la passione o l’idea dominante) e le sue variazioni e manifestazioni esterne, manifestazioni che inevitabilmente si scontrano con l’orizzonte dell’ambiente sociale: il grottesco, la cui comica bruttezza è segnata dalla malinconia del declino sociale, è la cifra espressiva ed estetica del romanzo balzachiano, in grado di svolgere una precisa funzione euristica, un rivelatore sociale e insieme fisiognomico delle forze invisibili che si muovono al di sotto della superficie visibile della realtà.51 La descrizione in Balzac, attenta alla dimensione fisiognomica e fisiologica, trasforma il corpo in un archivio di segni e produce un incremento semiotico dell’esistenza umana, in un gioco continuo di ripetizioni e di riflessi incrociati che si riverberano sugli ambienti, sugli spazi domestici dei personaggi. L’uomo Balzac, H. de (2011), pp. 17-18. Cfr. Rosen, E. (1982), Le grotesque et l’esthétique du roman balzacien, pp. 139157; Scaiola, A. M. (1988), Dissonanze del grottesco nel Romanticismo francese. 50 51 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 169 MICHELE BERTOLINI sociale è accompagnato dal «testo della sua esistenza»,52 per cui l’immagine dell’Io si offre come un testo da interpretare e decifrare. Pons, ad esempio, è inseparabile non solo dai vestiti fuori moda che indossa, dalle sue abitudini alimentari e di vita, ma anche dalla collezione di oggetti d’arte cui è ossessivamente legato, un vero prolungamento cosale della sua esistenza: una collezione con la quale intrattiene un rapporto ambivalente e ambiguo, che finisce per rovesciare l’ingenua visione idealistica dell’arte come puro prodotto dello spirito.53 Gli oggetti della collezione sono al tempo stesso trasfigurati nel loro valore simbolico dalla scelta e dall’amore di Pons e posseduti come feticci da consumare con lo sguardo. È la stessa ripetizione duplicata dell’interno nell’esterno a suscitare la deformazione grottesca, un’eco moltiplicata dell’Io dagli effetti comici e imprevedibili, che marca ad esempio la distanza e l’isolamento di Pons dall’ambiente sociale che lo circonda. Il grottesco di Pons si manifesta nei dettagli anacronistici, che rivelano uno scarto temporale rispetto alle esigenze del presente. L’anacronismo di Pons lo rende equivalente alla moltitudine di oggetti che accumula, secondo un processo di identificazione ricorrente del collezionista con la propria collezione: la sua avventura personale, infatti, risulta inseparabile dal rapporto istituito con la collezione, oggetto-eroe, che al termine del romanzo sarà definita «l’eroina di questa storia».54 Pons incarna la dimensione contemporanea di un’inclinazione estetica e artistica ridotta e restituita al meccanismo della riproduzione e ripetizione di gesti minimi, piuttosto che consegnata alla produzione e alla creazione dell’opera d’arte: egli è un consumatore dei cibi come dell’arte e un fruitore della stessa musica che esegue. La logica della ripetizione che attraversa le passioni di Pons è un agente produttore del grottesco, e testimonia la profetica attenzione di Balzac per la dimensione «simulacrale» e «spettacolare» del capitalismo borghese. Ridotto a semplice spettatore di uno spettacolo di cui non riesce a cogliere le manipolazioni e i meccanismi di funzionamento economico, morale e sociale, Pons è la vittima designata di un ordine sociale che decide al momento opportuno di espellerlo dalla rete familiare, non senza averlo privato del suo tesoro nascosto, la collezione di opere d’arte, di cui intuisce il potenziale valore di mercato. L’intreccio straniante e bizzarro fra l’alto e il basso, fra il collezionismo e la gola, rende visibile l’economia del desiderio che possiede Pons e lo restituisce al circolo economico del consumo da cui sembrava escluso: arte e gusto culinario sono sottoposti a uno stesso regime di produzione e consumo, di conservazione e di spesa. Pons, che rispecchia nei modi, nell’atteggiamento e nelle parole la società che lo disprezza, diventa a sua volta l’immagine iperbolica, caricaturale ed estrema Balzac, H. de (1992), Trattato della vita elegante, p. 50. Cfr. Biasi, P. M. (1981), La collection Pons comme figure du problématique, pp. 61-73. 54 Balzac, H. de (2011), pp. 314-315. 52 53 170 Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 L’ARTE DEL DIGIUNO: GLI ULTIMI RACCONTI DI FRANZ KAFKA. CON UN’APPENDICE SU BALZAC della logica del desiderio della società borghese, che supera «il semplice motivo del profitto».55 La metafora che meglio racchiude la sua funzione sociale è dunque quella del «grande stomaco» che silenziosamente e umilmente digerisce tutto: Del resto Pons era ovunque una specie di fogna delle confidenze domestiche: egli offriva le migliori garanzie per la sua discrezione ben nota e necessaria […]. La sua parte di ascoltatore era perciò accompagnata da una costante approvazione; sorrideva su ogni cosa, non accusava, né difendeva nessuno; per lui avevano ragione tutti. In questo modo non contava più come uomo: era uno stomaco!56 Sotto questo aspetto Pons, figura apparentemente antitetica al digiunatore di Kafka per la sua bulimica fame di cibo e di oggetti, incarna una polarità altrettanto decisiva per la cultura e le arti del Novecento: l’impulso archivistico e memoriale, che sostituisce la tensione modernista alla creazione pura e al ritorno all’origine, all’azzeramento e al silenzio, con una sterile e compulsiva accumulazione di segni. Sintesi L’arte del digiuno: gli ultimi racconti di Franz Kafka. Con un’appendice su Balzac. Il saggio propone la lettura di uno degli ultimi racconti di Kafka, Un digiunatore, quale chiave interpretativa per comprendere alcune pratiche dell’arte contemporanea, segnate dalla poetica del silenzio, dell’assenza, della sottrazione, dell’esilio e dell’isolamento. Attraverso l’analisi della riflessione sul gesto come mezzo puro elaborata da Benjamin, Adorno e Agamben, la figura del digiunatore, come quelle dell’acrobata circense e della cantante, la topolina Giuseppina, al centro dell’ultima raccolta letteraria dello scrittore praghese, disegnano una pratica performativa che sposta il baricentro dell’arte dall’estetica all’etica, verso un’arte del comportamento vivente e quotidiano. L’arte del digiunatore, nel racconto di Kafka, assume il carattere di una tecnica somatico-spirituale e ascetica, in grado di sospendere l’asservimento al naturale impulso della fame, caricandosi di possibili valenze etico-politiche e recuperando il senso originario dell’evento artistico. La bulimia collezionistica e l’enorme appetito del protagonista dell’ultimo grande romanzo di Balzac, Il cugino Pons, rappresentano, d’altra parte, il rovesciamento speculare del digiuno ascetico del personaggio di Kafka e sottolineano un altro carattere fondamentale della modernità: l’impulso all’accumulazione dei segni, degli oggetti, delle opere di fronte al quale si specchia il silenzioso ritrarsi del digiunatore. Parole chiave: Franz Kafka, arte, gesto, ascesi. 55 56 Adorno, T. W. (2012), Lettura di Balzac, p. 68. Balzac, H. de (2011), p. 41. Metapsychologica – Rivista di psicanalisi freudiana, vol. 1 2023 ISSN 2704-6745 • DOI 10.7413/2704-6745014 171 MICHELE BERTOLINI Bibliografia Adorno, T. W. (2012). Note per la letteratura (E. De Angelis, E. Filippini, A. Frioli & G. Manzoni, Trad.). Einaudi. (Originariamente pubblicato nel 1969 e nel 1974) Adorno, T. W. (2018). Prismi. Saggi sulla critica della cultura (A. Burger Cori, M. Bertolini Peruzzi, E. Filippini, C. Mainoldi, G. 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