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Appunti leopardiani (8) 2, 2014 http://www.appuntileopardiani.cce.ufsc.br NUMERO TEMATICO ISSN: 2179-6106 Appunti leopardiani DIREZIONE Andréia Guerini - Universidade Federal de Santa Catarina Cosetta Veronese - Universität Basel CONDIREZIONE Fabiana Cacciapuoti - Biblioteca Nazionale di Napoli COMITATO SCIENTIFICO Guido Baldassarri; Novella Bellucci; Roberto Bertoni; Alfredo Bosi; Anna Dolfi; Marco Lucchesi; Laura Melosi; Franco Musarra; Sebastian Neumeister; Luciano Parisi; Lucia Strappini; Emanuela Tandello; Maria Antonietta Terzoli; JeanCharles Vegliante; Pamela Williams CONSIGLIO EDITORIALE Alessandra Aloisi; Francesca Andreotti; Sandra Bagno; Stefano Biancu; Fabio Camilletti; Emanuela Cervato; Walter Carlos Costa; Paola Cori; Floriana Di Ruzza; Luca La Pietra; Loretta Marcon; Rita Marnoto; Wander Melo Miranda; Tânia Mara Moysés; Fabio Pierangeli; Karine Simoni; Lucia Wataghin REDAZIONE Roberto Lauro (direttore) Cristina Coriasso; Uta Degner; Bert de Waart; Anna Palma; Gerry Slowey WEBDESIGNER Avelar Fortunato Appunti leopardiani (8) 2, 2014 NUMERO TEMATICO INDICE EDITORIALE Etica animalista ed ecologica in Giacomo Leopardi - COSETTA VERONESE p. 5 SAGGI Frammenti di un discorso animale - ANTONIO PRETE p. 7 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi - ANDREA PAOLELLA p. 35 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura - COSETTA VERONESE p. 54 O materialismo de Leopardi e o mundo animal - PAMELA WILLIAMS, traduzione di ANDRÉIA GUERINI e DAVI GONÇALVES p. 76 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings - DAVID GIBBONS p. 96 RECENSIONI Andrea Campana (a cura di), Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati (1847-1899), Firenze, Olschki, 2011, pp. 315. - NOVELLA PRIMO p. 119 Mario Andrea Rigoni, Il materialismo romantico di Leopardi, Napoli, La Scuola di Pitagora Editrice, 2013, pp. 101. - FRANCESCO DE MARTINO p. 124 Fabrizio Patriarca, Leopardi e la invenzione della moda, Roma, Alfredo Gaffi, 2008, pp. 205. - ANDRÉIA GUERINI e ANA LUIZA BADO p. 131 INTERVISTE Vera Horn - ANDRÉIA GUERINI, ANDRÉIA RICONI e DANIELA CAMPOS p. 137 POESIE O infindo - TERESA BRETAL MARTÍNEZ p. 142 TRADUZIONI Das Unendliche - Übersetzt von SILVIO BIANCHI p. 147 PUBBLICAZIONI Libri afferenti a Leopardi usciti e/o riediti nel 2014 p. 149 Editoriale Etica animalista ed ecologica in Giacomo Leopardi Le poesie L’Uccello, A favore del Gatto, e del Cane, le traduzioni dal francese Epitaffio ad una cagnolina e Dialogo tra il passeggero e la tortora, insieme con la Dissertazione sopra l’anima delle bestie sono le testimianze giovanili di un interesse per gli animali e per il loro mondo che Giacomo Leopardi approfondì durante il resto della sua breve vita. La protesta antiantropocentrica inizialmente abbozzata nel Dialogo tra due beste e nel Dialogo di un cavallo e un bue, successivamente cantata dal pastore errante, e infine esasperata nella feroce caricatura dei Paralipomeni, fa di Leopardi, nel canone della letteratura italiana moderna, il primo prepotente interprete dell’altro, inteso come creatura non-umana, e del suo dolore. Nella drammatica pagina zibaldoniana del giardino sofferente, infatti, la voce del non-umano esprime uno dei suoi lamenti più strazianti. L’interesse di Leopardi per il non-umano si affina dopo la rinuncia alla metafisica e l’intensificarsi delle riflessioni su quella che egli battezza la «materia pensante». La sua preoccupazione per le possibilità e le capacità di sentire della materia, dell’esistente, anche di quello che, se non fosse per il timore di cadere nell’anacronismo, potremmo chiamare «ecosistema», si intreccia alla riflessione sulla differenza tra conoscere e sentire, ragione e sentimento, poesia e filosofia. Di conseguenza è anche una riflessione indissolubilmente legata al suo pensiero sul linguaggio e sui suoi mezzi, sui limiti dell’articolabilità del pensare umano e del dicibile, sulla voce e sul punto di vista dell’altro. Con questo numero ci proponiamo di continuare il discorso sull’etica e sulla morale iniziato con il numero unico del 2013 di Appunti leopardiani, mettendo a fuoco l’etica animalista e ambientalista in Leopardi. Cosetta Veronese Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 5 Saggi SAGGI Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 6 Saggi Frammenti di un discorso animale Antonio Prete Università degli Studi di Siena antonioprete2@alice.it 1. Una premessa1 La condizione animale – energia dei sensi e solitudine, pensiero e gesti, sensazioni e memoria, affezione e attesa, dolore e protezione, gioia e comunanza – è un paese sconfinato. Un’esplorazione delle sue regioni non è che agli inizi. Talvolta non è neppure avviata, questa esplorazione. Le stesse scienze che hanno, per statuto, l’universo animale come oggetto della ricerca, a causa della separazione tra discipline, si avventurano in una sola direzione, spesso trascurando le domande che provengono da saperi contigui o diversi. All’origine di questo arresto sulla soglia della conoscenza c’è, credo, un atto di negazione. Che consiste nel non riconoscere la comune appartenenza, di animali e uomini, alla stessa materia, allo stesso respiro. E non riconoscere che questa materia, questo respiro, sono comuni a tutto quel che possiamo vedere e immaginare, sono comuni alle piante, ai mari, ai fiumi, ai corpi celesti. È la rimozione, o anche solo attenuazione, di questa appartenenza che genera gerarchie, distanze, offuscamenti d’orizzonte, sotto la specie di una cartografia ordinata delle specie e più in generale del visibile. Ma animali e uomini condividono la stessa storia della terra, la stessa aria, spesso gli stessi climi, la stessa avventura del bios, la stessa partecipazione a una zoé che è relazione di vivente con il vivente. Condividono talvolta lo stesso abitare, e hanno in comune, in molti casi, organismo, modi del sentire e del patire, persino modi del desiderare. E tuttavia la storia della rappresentazione animale, nella genealogia di molti saperi, è l’implacabile assidua costruzione di una differenza. Differenza tra la coscienza dell’uomo e l’istinto animale. Differenza tra il sapere e l’assenza di sapere, tra un sentire che muove verso il linguaggio e un’oscura percezione chiusa in una fisicità elementare, priva di consapevolezza, priva di espressione. Su questa amara separazione si è edificata la civiltà, la quale ha trasformato il fare dell’origine – la pietra che prolunga il corpo, la scheggia che uccide la preda – in una tecnica che è matrice di ulteriori separazioni. Da Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 7 Frammenti di un discorso animale qui il dominio della specie umana, la storia di una costante e ragionata sopraffazione sul mondo animale, la riduzione dell’essere animale a schiavitù. Dopo la nascita della tecnica, la supremazia dell’uomo ha trovato i suoi fondamenti nella lingua. Ma anche in tutte le forme di organizzazione del potere, le quali hanno costruito, epoca dopo epoca, la stretta alleanza della civiltà con la centralità dell’uomo. Quanto al sacro, elemento anch’esso costitutivo della forme di una civiltà, la sua sanzione – il suo stesso fondamento – nasce dal dominio dell’uomo: il sacrificio animale non è solo strumento di purificazione corporale e spirituale, ma definisce il rinnovato legame con Dio. Attraverso il sacrificio, che è sacrificio dell’animale, l’uomo può ricevere quel gesto e quello sguardo che sono detti dalla parola ebraica hesed (tradotta poi nel greco eleos nella Bibbia dei Settanta e nella Vulgata da Girolamo come misericordia). La storia della civiltà, delle civiltà, è il cammino sanguinoso di questa riduzione del corpo animale a corpo privo di sapere, di sentire, e del dolore animale a una necessità appartenente all’ordine delle cose, all’ordine della civiltà, ai suoi rituali e costumi. Proprio dall’osservazione di come nella scrittura di Leopardi questa differenza è messa in questione, sottoposta a interrogazione incessante, cominciai, molti anni fa, a sporgermi sul mondo animale cercando un altro sguardo, un altro ascolto. Se il capitolo La traccia animale chiudeva il saggio Il pensiero poetante (1980), apriva di fatto – me ne sarei accorto di lì a poco – un’interrogazione sull’animale e sull’animalità che non mi avrebbe più abbandonato. È anche questo un effetto proprio della critica, quando essa tenti di dislocarsi fuori dall’ordinato recinto disciplinare e si ponga dinanzi al testo in stato di ascolto e dunque secondo una disposizione esegetica, cioè intrattenendo un dialogo con i testi. In quel dialogo è implicata l’esperienza di vita di colui che legge e interpreta. La scrittura è, come diceva Isidoro di Siviglia, linea vitae. Anche l’interpretazione, in quanto scrittura, lo è. Mi è accaduto, dunque, di sostare più volte e in forme anche diverse – saggio, narrazione, poesia – sulle domande che vengono da quel mondo ricchissimo di figure e di esperienze che diciamo mondo animale (fino al recente Compassione, saggio la cui origine si deve a una iniziale riflessione sul dolore animale). Ora, invece di tentare la ripresa, e l’eventuale approfondimento, di qualcuno di quei passaggi, rischiando la ripetizione o la sintesi o la parafrasi del già scritto, mi sembra più opportuno affidare a questa rivista i frammenti che costituivano, nel libro Prosodia della natura, la sezione intitolata Lo sguardo animale. Questo perché il libro, Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 8 Antonio Prete uscito nel 1992 nella bella collana Impronte della Feltrinelli, da molto tempo è esaurito e non è stato più ristampato. La sezione era la sesta e ultima del libro: l’intenzione era di ripercorrere, e solo per frammenti lo si poteva fare (da qui il sottotitolo Frammenti di una fisica poetica), le forme e i modi della rappresentazione della natura nella poesia. Le sei parti potevano corrispondere, secondo l’antica tradizione di un vero e proprio genere, detto Exameron, ai sei giorni della creazione, ma anche, allo stesso tempo, ai sei libri del De rerum natura. Insomma nella rappresentazione poetica della natura via via la dimensione per dir così creaturale, di prossimità ai viventi, si accompagnava e talvolta sovrapponeva con quella fisica, lucreziana. 2. Lo sguardo animale (frammenti da: Antonio Prete, Prosodia della natura. Frammenti di una Fisica poetica, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 139-71). Tutti gli animali della creazione, convocati, sfilano dinanzi ad Adamo per ricevere un nome: il passo biblico della nominazione (Genesi, 2,19-20) e il primo liber animalium, splendente di miniature viventi, il primo dizionario di storia naturale, lussureggiante e sterminato. Non si tratta di un nome in absentia: il vivente, condotto dinanzi ad Adamo, è contrassegnato, nell’istante in cui si mostra, da un nome che è manifestazione di un’essenza, sua proprietà: corpo che accede alla lingua, lingua che nasce come immagine di un corpo. Il primo atto linguistico è la pronuncia di un nome animale. Alla tradizionale esegesi, che legge nell’impositio nominum la sanzione di una signoria, perché non opporre lidea che il primo costituirsi del tu passa attraverso la presenza animale, attraverso la reciprocità di uno sguardo che, nel silenzio dell'origine, si affida alla confidenza di un nome? Nel cuore della moderna Allegoria che Baudelaire inaugura c‘è, a dire l'esilio, un cigno. Il cigno che un mattino, nella Parigi che distrugge i vecchi sobborghi, trascina le sue ali sul selciato asciutto, presso un ruscello disseccato, il becco nella polvere. La materia del ricordo – il ricordo del poeta o di Andromaca, della negra morente nella metropoli o dei marinai dimenticati su un’isola – è una lontananza irreversibile ed eloquente. Ogni esilio è esilio dall’azzurro: per questo il cigno, come già l'albatro, è una figura Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 9 Frammenti di un discorso animale dell’angelologia gnostica di Baudelaire. Ma è proprio questa lontananza dall’azzurro che costringe allo stile «ridicolo e sublime» dell’esiliato. Nessuno più di Baudelaire ha sofferto la goffaggine del sublime. Nel bestiario dantesco, che conosce la metamorfosi, l’ibridazione fantastica, il grottesco, e dà corpo e movimento alle similitudini e al paesaggio stesso, gli alati hanno una posizione di privilegio: trattengono, più di altri animali, lo sguardo del poeta, la sua attenzione al costume e al linguaggio. Storni, gru, colombe, pole, falconi – senza dire del pellicano, dell’aquila, della fenice – abitano i versi della Commedia come un loro poetico nido. Il poeta stesso, quando Virgilio sta per abbandonarlo, dice: «al volo mi sentia crescer le penne» (Purg., XXVII, 123). Anche senza dar credito a chi vorrebbe scritto nel nome dell’Alighieri un destino di affinità con gli alati (aliger), il volo non solo è sostanza di metafore, ma si curva verso l'affollato e splendente turbinio degli angeli, verso le loro veloci fiamme e intelligenze. Nella profana angelologia che è la rappresentazione degli uccelli, il poeta rende prossima la lingua dei pennuti, legge nei suoi silenzi. Come accade nel sesto cielo: Quale allodetta che ‘n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l'ultima dolcezza che la sazia [...] (Par. XX, 73-75) Il richiamo alla fonte virgiliana, che descrive il grido dei corvi «lieti per non so quale dolcezza» («nescio qua praeter solitum dulcedine laeti») o il raffronto con la «lauzeta» di Bernart de Ventadorn, con la sua «doussor», non servono a spiegare questo inatteso passaggio nel cuore melodioso della lodoletta, che al canto fa seguire il sapore e la pienezza di una percezione. Il silenzio come «letizia»: non ci riporta, questa felicità silenziosa e leggera, a quel cantico creaturale – metamorfosi del volo degli uccelli in um solco di pensieri che è il leopardiano Elogio degli uccelli? Tra lo sguardo del lupo e lo sguardo dell’uomo corre, negli antichi Bestiari, una sfida. «La natura del lupo è tale per cui, quando un uomo lo vede prima che esso veda l'uomo, il lupo perde tutta la sua forza e il suo ardimento; ma se il lupo vede l’uomo per primo, Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 10 Antonio Prete questi perde la voce, tanto che non può dire una parola», leggiamo ne Les Bestiaires d’amours di Richard de Fournival (e la sfida, secondo il consueto procedimento delle somiglianze, è riportata all’incontro amoroso tra l’uomo e la donna, ai tempi, e contrattempi, della rispondenza e del diniego). Giochi della temporalità, e dello scarto: l’uomo vi scommette la voce e la lingua, il lupo la forza e l’ardimento (toute sa force et son hardement). Ciascuno rischia quel che ha di più proprio, quel che afferma la differenza nel regno animale. Questa battaglia tutta consegnata alla tempestività di uno sguardo ci dice di una natura nella quale vedere è potere. Il vedere dell’uomo, preda dello sguardo del lupo, è contemplazione che non si fa linguaggio. E, privato della sua forza, il vedere del lupo è contemplazione che non si fa azione. La precedenza dello sguardo è una ferita nei sensi dell’altro. L'exemplum, rimbalzando nella fenomenologia dell'amore, ne disegna gli interni romanzeschi, i movimenti della seduzione e del potere. Sospendono il canto, e si dispongono all’ascolto: le rondini tacciono mentre Francesco predica, poi, più oltre, una «quasi infinita moltitudine d’uccelli», dagli alberi e da terra, dimostra non solo «grandissimo diletto», ma anche «attenzione e famigliarità» nell’ascoltare la predica del santo. L'ascolto, da attitudine propria dell’uomo, diventa condizione provvisoria, e miracolosa, degli uccelli: quest’oltre lingua è l'inteso delle creature, l'unità di senso che le fa somiglianti, nell’appartenenza comune, nella comune caducità. Eppure, anche il nuovo orfismo, che Francesco salva dall'estetica della fascinazione e dalla malia del canto, è una parata di segni per inscenare la rottura, nel linguaggio, dell’ordine creaturale: non sopportare la separazione, il non-intendimento, l’estraneità, è il primo passo per una decifrazione del naturale. Anche il simbolico, così, si mostra; gli uccelli si disperdono, dopo la predica, secondo il segno della croce fatto da Francesco, volando in quattro schiere verso i quattro punti cardinali. La natura torna a significare, proprio laddove si sono sfidate le sue leggi: gli uccelli accoglieranno con «grandissima festa e allegrezza» Francesco e i suoi seguaci quando giungeranno sul monte della Verna, il loro canto significherà «hic manebimus optime». Una danza del senso – in semplicità e letizia – sull'abisso dell’enigma. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 11 Frammenti di un discorso animale Nei medievali Bestiari la somiglianza è la soglia del passaggio dalle proprietates degli animali alla virtù di Cristo, dall’exemplum all’imitazione. Ma in questi libri delle rassomiglianze la reductio ad hominem della rappresentazione animale lascia un residuo: l'universo abitato da mirabili e mostruose creature è più imprevedibile, variopinto, sorprendente di quello umano, e la similitudine verso cui la categoria della somiglianza si piega si fa esile e superflua. L'immaginazione è la diafana forma che appare nello specchio della natura: il senso della creazione sembra coincidere con essa. Elogio degli uccelli. È Amelio, lo spensierato, che nell’operetta leopardiana tesse l'elogio delle «creature vocali e musiche». Solo sul confine del pensiero, nella profondità della spensieratezza, s’intravvede la linea della «leggerezza» e della «letizia». Gli uccelli dicono la «felicità delle cose», hanno una relazione con l'infinito, posseggono, oltre la vista dall’alto, l’«imaginativa». Come gli angeli. Come i fanciulli. Corteggiando questa creaturalità armoniosa l'Elogio dice di una splendida distanza dall’umano, ma insieme racconta dell'umano la sua morta felicità, i suoi sensi perduti, o negati. Trattato dell’impossibile volo. Il riso, di cui Amelio vuole scrivere, se è suggerito dall’analogia con il canto degli uccelli, e però riportato nel lampeggiamento di un’interruzione: il riso come «intermissione, per dir cosi, della vita», dunque dello stato infelice. L'analogia tra il canto degli uccelli e il riso dell'uomo ha un polo nell’ombra: dalla parte dell'uomo, nella sua lingua e nel suo pensiero, I’assenza del volo si declina come impossibilità di dire l'infinito. Questa è la vera distanza dagli angeli-uccelli. La lingua degli uccelli, nella poesia di Pascoli, è contigua alla lingua della poesia: può transitare senza balzi in essa, farsi da suono senso, disporsi un nido nel dizionario campestre degli uomini, e da Ii fare affiorare voci appassite e risvegliare sensi divenuti frusti. Non si tratta solo di una lingua accolta fraternamente nella casa del senso – il «si» del passero dal cipresso, il «finch... finché nel cielo volai» del fringuello cieco, il «c’è c’è, lode a Dio» dell’allodola, il «non c'è più» dell’assiuolo, il «c’è ció che ci vuole» delle rondini, l’«io lo vedo» del merlo, I’ «addio addio dio dio dio» dell’usignolo, il «sicceccé» del saltimpalo, il «vita da re» del galletto ecc.; si tratta di una lingua dimenticata da ritrovare, una lingua che risente di molte lingue, di transiti e cieli lontani, una «lingua di gitane», come quella delle rondini, una lingua «che più non si sa». E da Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 12 Antonio Prete questo luogo che si può ascoltare il tac tac della capinera, o il tin tin dei pettirossi o il rererere dei cardellini senza più scorgervi il desiderio del senso e neppure la nostalgia del puro suono. È soltanto il ritmo che rende familiare al poeta questa lingua «de lonh»? Sui modi tenuti dalla poesia nel disporsi dinanzi alla voce animale. L'ascolto come mimesis: nel frammento 39 Alcmane dice di inventare il canto traducendo in linguaggio (γλωσσαµέναν) la voce delle pernici. L'ascolto come apertura di un movimento verso il senso: la Ode to Nightgale di Keats (o il non molto dissimile usignolo leopardiano: «tue varie note / Dolor non forma»). L'ascolto come esperienza musicale: sospensione tra fonesi e dizione, tra cadenza e allusione. Come dice Wallace Stevens in Thirteen Ways of Looking at a Blackbird (Tredici maniere di guardare un merlo): I do not know which to prefer, The beauty of inflections Or the beauty of innuendoes, The blackbird whistling Or just after. Non so se preferire, Bellezza di cadenze O d’allusioni, Il sibilo del merlo O quel che segue. La presenza animale, nei racconti di Kafka, rende più intensiva e per certi versi più esplicita quella scomposizione del campo visivo, e del campo logico, che già avviene con i personaggi umani. Non c'è opposizione tra il punto di vista animale e quello umano, ma un trascorrere dall’uno all’altro con una progressiva consunzione del senso: prende così forma un campo d’esistenza virtuale dove il possibile e l’impossibile si scambiano le parti. Il ragionare, analitico e trasognato insieme, del cane (Indagini di un cane) fa cadere il sipario protettivo dell’ordine delle cose e allora gli ascetici esperimenti canini sul cibo e la meditazione sul potere e l’ebbrezza della musica dischiudono un mondo di purificata apparenza, di forme e gesti sospesi nel vuoto. Quando lo scimpanzé autore della Relazione ad un’Accademia narra di come trovò la Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 13 Frammenti di un discorso animale «via d’uscita» verso il mondo degli uomini e dello spettacolo, scompone i rapporti – di desiderio e d’illusione – che quel mondo ha nei confronti della libertà e di altre umane credenze. Quando il topo analizza le forme della seduzione che il canto e i gesti della cantante Giuseppina esercitano sul popolo dei topi, o quando nel deserto, durante la sosta nell’oasi, gli sciacalli dagli occhi d‘oro si confidano con lo straniero, accerchiandolo e parlandogli dei loro inattuati progetti, l'animalità non si chiude nell’apologo né si piega verso l’allegoria. Anche dove la fonte rabbinica e chassidica è scoperta, lo sfondamento del senso sottrae la narrazione a ogni futura ricomposizione ermeneutica. Lo scacco dell’interpretazione è il primo effetto di questo spaesamento del senso. Il gatto abita, sovranamente, la poesia. Dai tre testi di Les Fleurs du mal a lui dedicati osserva con enigmatico sussiego il paesaggio della letteratura, vendicandosi dell'arcigna malevolenza con cui lo aveva trattato Buffon nell’Histoire naturelle. In tutte e tre le poesie, la materia cui Baudelaire ricorre per descrivere gli occhi del gatto è la pietra, la luce della pietra: l'agata nel poème XXXIV, l'opale nel LI, la sabbia nel LXVI. Il che impreziosisce, appunto, quell’analogia con la donna che nel primo testo è pronunciata e negli altri taciuta: attribuire allo sguardo «profondo e freddo della donna e del gatto il riverbero della pietra preziosa è un omaggio alla tradizione trobadorica e petrarchesca, ma spostare negli occhi del gatto gli elementi della figurazione del femminile è dislocare il sublime, i suoi statuti, fuori dal giardino della poesia d'amore, nella bellezza del corpo animale. E lo charme infernal, lo charme del naturel. In questo altro regno si possono ritrovare quegli elementi che la poesia d'amore ha reso opachi e astratti: il rapporto tra la voce animale e la musica, la relazione tra la sapienza e l’amore, la mistica dello sguardo (leurs prunelles mystiques), il corpo profumato. Il gatto rinnova il pensiero dell’eros. L’individuazione, in un cane, del carattere, del linguaggio, delle variabili – di forma e di senso – che il nome proprio designa, è un procedimento che ha il tempo di un’amicizia, o di un amore. Il dispiegarsi della conoscenza, che sottrae l'individuo all’indeterminatezza della specie, segue il movimento, e il diagramma, dell'affezione. Se, in questo cammino, I’antropomorfismo è un limite, e anche una condizione perché Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 14 Antonio Prete appaia la singolarità di un modo d'essere, e nel colore degli occhi si apprenda a scorgere le venature della malinconia e della gioia, nel modo d'incedere, di correre, di fiutare, di balzare, di scrutare l’aperto, si leggano gradi diversi di fierezza o di abbandono, di decisione o di esitazione, nei gesti di sottomissione o d'invito al gioco, nei silenzi popolati di ombre, si veda il proprio, l'irripetibile, lo stile. Questa approssimazione all’identità animale attraverso la consuetudine è analoga al movimento verso il nome proprio che avviene nella narrazione: l'inveramento del nome, e dell’identità di un personaggio, coincide col tempo del narrare. (Ma l'inveramento, in un vivente, ha la mobilità dell’inatteso e la verità di una comprensione mai conclusa). Sirene, sfingi, chimere come figure del linguaggio; la seduzione del canto, che sovrasta la lingua, perfezione e limite in cui il senso si frange e la lingua stessa si può perdere senza potersi più raccontare; l'enigma, cioè la soglia estrema del dire, confine del decifrabile oltre il quale la lingua intravvede la morte del senso; infine la contaminazione, la metamorfosi, l’ibridazione instabile e sfuggente che dispongono la lingua, in ogni istante, verso l‘interpretazione. L'elemento animale e l’elemento femminile che, secondo le innumerevoli variazioni mitografiche, compongono le tre figure, designerebbero, in questa analogia, il naturale – la sua fascinazione, impenetrabilità, differenza – di cui la lingua è il suono. Davvero labile la separazione tra natura e arte, quando s’intende per natura l'universo dei comportamenti animali e per arte un sapere proprio dell’uomo. Cosi si oppone all’istinto della specie la sapienza tecnica, all’inconsapevolezza delle azioni il giudizio, alla spontaneità irriflessa la ragione. È la storia dell'autorappresentazione dell’uomo, lo stile del suo dominio. Contro questa storia prende posizione Montaigne in quella parte degli Essais, dedicata all’Apologia di Raymond Sebond, che riprende la biblioteca antica sugli animali, da Aristotele a Plutarco a Lucrezio. Egli scrive: «Abbiamo sufficienti occasioni di constatare come gli animali, nella maggior parte delle loro opere, riescano meglio di noi e come la nostra arte si rivela fragile nell’imitarli. Eppure quanto alle nostre opere, peraltro più grossolane, riconosciamo che sono le facoltà a essere messe in gioco e che l'anima vi si applica con tutte le forze: perché non pensiamo che lo stesso accada per gli animali? Perché attribuiamo a non so quale inclinazione naturale e Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 15 Frammenti di un discorso animale istintiva quelle opere che superano tutto quel che noi possiamo per natura e per arte? ». La leopardiana «scala degli esseri» (Zib., 2896-2903, 6 luglio 1823) scompiglia le carte dei naturalisti che disputano su che cosa si debba intendere per «più elevato» nell’ordine delle specie naturali. Quella leopardiana è una «doppia scala, ovvero una scala parte ascendente e parte descendente»: risalendo dagli esseri «affatto o più di tutti gli altri inorganizzati», pone nella sommità gli individui che «tengono il mezzo della organizzazione, della sensibilità e conformabilità», e per questo possono partecipare di una «propria particolare e relativa felicità». Discendendo poi, da questi, giti «giù per gli esseri più organizzati sensibili e conformabili», si giunge, ultimo gradino, all’uomo, che è il «più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri», ma proprio per questo, la soglia estrema dell’imperfezione. Perché l'infelicità gli è connaturale. Lo sguardo animale: uno specchio in cui si riflettono l'intimo e l’aperto, l’illimitato e l’intatto. L’Ottava Elegia di Rilke è appunto l'élegos, cioè il canto naturale, di questo sguardo, della luce che è trattenuta nei suoi silenzi, dell’abolizione del tempo che è materia dei suoi lampi. Il volto dell’animale è tutto raccolto nel suo sguardo: uno sguardo intento a trattenere, con la semplicità del vento e della pietra, tutto ció che è oltre il tempo, oltre il limite. La pedagogia di quello sguardo, per l’uomo, passaggio a un altro respiro: un respiro che è prossimo allo stormire di un albero, o al suono di una nuvola, o al discorrere di un fiume con le sue rive. L’Aperto si rivela all’uomo in quanto riflesso dallo sguardo animale. Ma nello stesso tempo in cui ci dispiega la promessa dell’illimitato, lo sguardo animale percorre, nelle nostre fibre, i sentieri in cui il tempo s'è fatto scansione del passato e del futuro, il Tutto s’è frantumato separando l'essere e l’apparire, la quiete e il movimento, il qui e l'altrove. In questa separazione abbiamo allevato il senso della morte, questo crinale che unisce la coscienza e il destino. Cosi il nostro sguardo riflette non l'Aperto, ma il Mondo. Anche nell’animale c’è un’ombra di questa ferita: anch’egli, nascendo, ha abbandonato il grembo, l'appartenenza, la terra. Nelle creature alate il primo volo dice l'angoscia di questa separazione. Nel confronto tra l'animale e l’uomo Rilke va oltre la scomposizione dell'ordine antropocentrico, limite già estremo cui Montaigne e Leopardi sono giunti: egli fa dell’animale il testimone di quell’infinito che per il poeta è «indicibile», ma nello Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 16 Antonio Prete stesso tempo vede la fraternità dell'animale e dell’uomo nel dolore di una separazione dall'origine. Creazione e gnosi, dunque. Ma anche ripresa e commento – all’altezza dell’epoca – del Cantico delle creature. L'unicorno, bianco e leggero, che dorme sul grembo della fanciulla, bianca e leggera. Chi dei due è il sogno dell'altro? I bestiari che popolano la poesia non hanno più relazione col regno animale: si muovono nella foresta della lingua, hanno corpi che nessun museo di storia naturale può esporre. Non appartengono neppure al dizionario degli animali fantastici, il quale a buon diritto è rivendicato dalle mitologie e dalle tradizioni popolari. Gli animali della poesia non possono abbandonare la selva dei versi. Una creazione nella creazione ha raddoppiato prodigiosamente l'esistenza animale. Come custodi della selva ci sono le tre fiere dantesche: solo in compagnia di Virgilio, cioè dell'amore per la lingua, si può procedere oltre. Sulla bellezza animale. Se sulla bellezza delle piante Darwin si attiene a una ragione di necessita biologica – il richiamo degli insetti, o degli uccelli, o dei quadrupedi -, per la bellezza degli animali è disposto ad ammettere che costoro siano stati resi belli semplicemente per bellezza, ma aggiunge che tale bellezza è solo il risultato della selezione sessuale (l’azione, diremmo, del tempo del desiderio, immemoriale, indeterminabile, che è passato per miriadi di viventi). Come il «senso della bellezza» si sia formato nell’uomo e negli altri viventi «è una questione nient’affatto chiara». Il senso della bellezza di cui dice Darwin è quello «umano» esteso agli animali: «un gusto pressocché uguale per i bei colori e per i suoni musicali si manifesta in gran parte del regno animale». L'universalità di questo senso della bellezza aveva già messo in discussione Leopardi, il quale, in una delle prime pagine dello Zibaldone (49), dice «inverisimile» la favola del pavone vergognoso delle sue zampe, perché non ci può esser parte naturale e comune in verun genere d’animale, che a quello stesso genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non paia bella: giacché la bellezza è convenienza, e questa è idea ingenita nella natura. È l'avvio della leopardiana histoire des animaux, al riparo dalla gnomica dei bestiari, dall’etologia edificante e dal Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 17 Frammenti di un discorso animale naturalismo provvidenzialista, attenta a disgregare il punto d’osservazione dell’uomo. L'idea del «bello assoluto» sarà ritenuta, poi, responsabile della «stolta opinione» secondo la quale la natura negli animali «sia stata più larga di bellezza a maschi che alle femmine» (Zib., 4119, 15 settembre 1824). Nel solstizio d'inverno il mare, per sette giorni, si fa calmo. Sono i giorni dell’alcione, i cui nati proprio allora lasciano il nido e remigano, la prima volta, sulle acque. Trovo la notizia in Basilio, e poi in Montaigne, l'uno e l’altro colpiti forse da questo saluto del mare che si fa d’improvviso navigabile, da questa congiunzione tra nascita e quiete, tra vita e accoglimento della vita. Il confine tra il volo di un falco e il sapere delle altitudini ch'è proprio della sua famiglia, tra il grido di una rondine e la voce della sua specie, tra il ronzio di una vespa e il sapere dello sciame cui essa appartiene («Che cosa è mai quello ch’esse sanno - / la scienza dell'universo, il canto?, domanda Mario Luzi in Frasi e incisi di un canto salutare). Qui la visibilità è figura del nascondimento, il vivente è forma individuata della physis. E su questo confine che sapere della natura e lingua della poesia si incontrano. Il pathos da prima attrice della formica regina: tornando dal volo nuziale, mentre attorno i maschi sono morenti, si strappa le ali, poi va alla ricerca del nuovo nido dove deporre le uova e rigurgitare le spore dei funghi portati dal vecchio formicaio. Cancellare ogni traccia dell’ebbrezza, dimenticare l’azzurro: é questo il senso del gesto? L'ape bottinatrice, tornando all’alveare, comunica con la danza alle altre api la direzione, la distanza e la natura del fiore che ha visitato e che invita a visitare. Gli entomologi hanno descritto le figure di questa danza. Si tratta di coreogrammiche, per indicare la direzione, istituiscono come punti trigonometrici il fiore, l’alveare, il sole. Il tempo delle evoluzioni di danza indica la distanza. La natura del ronzio, per una correlazione tra frequenza degli impulsi e concentrazione zuccherina del cibo, e inoltre il profumo di cui il corpo impregnato, danno notizia del fiore. Questa unità di senso e danza dice di ció che è assente. Una definizione dell'arte. La simbolica delle api può sopportare anche questo? Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 18 Antonio Prete L'animale come relazione tra un corpo e il suo elemento. Il balzo o il volo o il nuoto come figure di una necessità. Un corpo animale, nella sua essenza, si definisce anche per quel che dall’esterno lo limita ed esalta. Che cosa di più «naturale» del dialogo di un corpo con l’elemento nel quale esso respira? Questo dialogo è il modello per ogni definizione di ritmo. Ecco, nel dialogo della trota col fiume, i versi di un poeta che scruta il vorticare della vita nella sua elementarietà, cioè nel teatro degli elementi naturali, e lì cerca le modulazioni – di senso e di canto – della propria lingua: Così l'abbaglia a volte mala porta in sé il fiume, le apre ogni barriera di vortice e di gorgo, l'avvolge col suo manto di frenesia e potenza, la spinge alla sua sorte... (M. Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti) Insetti alati che cercano la luce sono chiamati, in alcuni dialetti, angelelli. Non il volo del falco, ma un volo prossimo, domestico, effimero, designa l’invisibile. La luce consuma questi insetti, come consuma gli angeli effimeri della tradizione rabbinica. Corvidi che ad ali chiuse s’abbandonano al vento, scendendo a picchiata, poi d’improvviso spalancano le ali e risalgono, virano, ridiscendono obliqui. Un aquilone che pare fermo nel cielo. Il vento come lingua del gioco. La crisalide come spazio-tempo della metamorfosi: il passaggio alla luce e un volo, il primo volo della farfalla che di colpo risarcisce, sospesa sul fiore, l‘oscurità della larva. Le considerazioni al margine riguardano il rapporto tra il lungo silenzio dell’attesa e il breve tempo dell’ebbrezza: quante edificanti allegorie della vita spirituale si sono cercate nel mondo animale! «Così per li gran savi si confessa / che la fenice more e poi rinasce» (Inf, XXIV, 106- Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 19 Frammenti di un discorso animale 107). È la sapienza lo scrigno che custodisce il fantastico. La conoscenza di quel che non c'è – il sapere dell’invisibile – e, per gli antichi, il segno della sapienza. Quanto alla Fenice, i riflessi delle allegorie impolverano le sue «aurate» e «purpuree penne». Emblema di ogni alchimia, il suo passaggio nel fuoco della distruzione, prima della rinascita, illude che nella cenere si nasconda, ancora, la speranza. Ciò che accomuna l'arte della divinazione alla scienza è il volo degli uccelli. La prima interpreta il solco che non lascia traccia nell’aria, la seconda legge il rapporto tra forma e movimento nell’istante in cui il solco è tracciato. «Quando l'uccello discende per qualunque obliquità», scrive Leonardo, «esso appropinqua li omeri delle ali inverso le sue spalle e le punte delle ali restrigne inverso la coda, la qual coda ancora lei si restrigne in sé medesima; e così facendo esso trova manco somma d'aria che resista al suo discenso». Un appunto per l’aeromobile. Buffon criticava la «teologia degli insetti», che leggeva il mondo animale come documento della sapienza ordinatrice e provvidenziale. Anche l’estetica e la teoria politica hanno cercato nell’ordine degli insetti analogie con i propri statuti. Si tratta soltanto di letture proiettive oppure d'uno stupore che, per difendersi da sconfinamenti e abbagli, si trattiene nel recinto dei saperi? Operosità delle api nel grande alveare della poesia. Due luoghi, tra tanti: dove la poesia apprende dalla mistica il passaggio verso la visione, e dove la poesia pensa la metamorfosi come la sua essenza. Dante e Rilke. Sulla «candida rosa» dei beati si posano e volano gli angeli sí come schiera d’ape che sinfiora una fiata e una si ritorna la dove suo laboro s’insapora [...] (Par., XXXI, 7-9) Ma la «moltitudine volante» non annega le figure, anzi ne avvicina l’abbagliante singolarità, esponendo corpiluce di ineguagliato fulgore: Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 20 Antonio Prete Le facce tutte avean di fiamma viva e l’ali d’oro, e l'altro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva. (Par., XXXI, 13-15) L'acconsentimento alla Terra, al suo dolore e alla sua provvisorietà, passa per Rilke attraverso una metamorfosi del visibile nell’invisibile: l'essenza della terra può rinascere «invisibilmente» in noi. «Siamo le api dell'invisibile» – scrive il poeta da Muzot il 13 novembre del 1925 – Nous butinons éperdument le miel du visible, pour l'accumuler dans la grande ruche d'or de l’invisible. La Chioccetta per l’aia azzurra va col suo pigolio di stelle. Cosmografia contadina, dipintura domestica delle Pleiadi, metamorfosi del luccichio in un suono. Un «alfabeto degli astri» rustico e prossimo. E, ancora, la sagoma del nido disegnata sulla volta celeste. cosí per entro loro schiera bruna s’ammusa luna con l'altra formica, forse a splar lor via e lor fortuna. (Purg., XXVI, 34-36) Nella terzina dantesca – che Montaigne cita narrando della comunicazione animale (Essais, II, 12) – i due verbi ravvicinano, della schiera, il singolo, e lo vestono di un linguaggio sensitivo e intellettivo, di un movimento del corpo e della mente: in questo vedere silenzioso e prospettico, il cammino è trasvalutato in destino, sicché la similitudine, chiudendosi sulla via e la fortuna, sospinge le formiche (ele anime penitenti) in una sorta di metafisica del futuro. I presagi di questo oltre, i segni di una direzione, sono leggibili nella vicinanza dei corpi, nell’attenzione non priva di ansia che raggruppa i viventi e trasforma il loro movimento in una metafora, o in un esempio, dell'universale peregrinare. Con la caduta originaria gli animali hanno perduto la lingua. Ma nei loro silenzi dorme il ricordo di quella prima lingua, lingua purissima, prossima al Verbo, nella quale l’essenza delle cose era immediatamente nome e il nome conoscenza. La lingua Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 21 Frammenti di un discorso animale dell’uomo, invece, sostituendosi, dopo la caduta, alla lingua edenica, ha cancellato di questa ogni traccia, disperso ogni risonanza. E questo oblio che separa irreparabilmente la lingua dell’uomo dal silenzio animale. Così andava fantasticando un teologo. La lingua dell'uomo non è che un particolare stadio della lingua animale. L'alfabeto ci permette discrivere degli animali privi di alfabeto, ma questa nostra proprietà è pagata con l'incomprensione della lingua animale, con la distanza da essa. Solo un’esperienza analoga a quella mistica può sgretolare, o almeno attenuare, l’attitudine antropocentrica di chi dice della natura. Poiché si tratta di scalzare gli statuti stessi di questo dire. Come per il mistico è il silenzio della contemplazione a portarlo sulle soglie della visione, così per il naturalista è il silenzio dell’osservazione che lo può portare sulle soglie della conoscenza. Di animali cosmogonici dicono i racconti rabbinici: anche il gallo silvestre appartiene a queste escursioni festose e meditative della kabbala. Il leopardiano Cantico del gallo silvestre muove dai versetti che nel Targum si leggono su questo animale della creazione. L'operetta ha la stessa materia di alcuni racconti di Kafka, le stesse fonti. La finzione dell’apocrifo – il manoscritto intitolato Scir detarnegol bara letzafra – e la meditazione sulla morte dell’uomo e delI’universo sono in perfetto equilibrio: la leggerezza dello stile può sopportare la più grave delle materie, come la narrazione fantastica può ospitare, senza raggelare, la verità. «Il favo è composto di fiori, mentre la cera è tratta dalla resina che stilla dagli alberi, il miele invece cade dall’aria, soprattutto al sorgere delle costellazioni e alla comparsa dell'arcobaleno; in generale non si ha miele prima del sorgere delle Pleiadi». In questo passaggio dell’aristotelica Historia animalium gli errori degli antichi mostrano la loro radice, che è quella di voler raccogliere in un solo cerchio la natura e i viventi. Anche le api hanno le loro costellazioni. E l’arcobaleno per loro è un invito a lasciare l’alveare. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 22 Antonio Prete La struttura dell’alveare, la tela del ragno, la spirale della conchiglia hanno insegnato all’uomo il senso della forma, lo hanno sollecitato verso architetture d’azzardo: o è, questa relazione didattica, la superficie di una rispondenza che affonda in quella regione dove, per tutti i viventi, il Bios e già forma, il movimento geometria, l'esistenza disegno? L'essenza dell’estetica sarebbe allora in questa profondità della forma, che coincide con il respiro. Il nibbio, la tarantola, il rospo, il pidocchio, l’istrice, la civetta, il gufo, il rinoceronte e il lunghissimo corteo d'altri animali che accompagna Maldoror: um’eloquenza prestata alla crudeltà perché partecipi, anch’essa, all’inno per la creazione. Così questo sublime lacerato, blasfemo, abietto, ha chiesto soccorso alla pazienza animale per sopravvivere contro il silenzio della disperazione. Alcuni animali sfondano, con il loro nome e con la loro forma, il muro del tempo: guidano, come i fossili loro coetanei, esperienze, minime e labili, d’inabissamento in quel vapore che chiamiamo origine. In compagnia del celacanto, dell’ornitorinco, del nautilo, della più familiare tartaruga, possiamo essere colpiti dall’insostenibile vertigine di un tempo immemoriale, di una riva sulla quale non c'è alcun annuncio dell’uomo. Delicata come um merletto, danza e vita per lei coincidono. Poiché vive poche ore, non ha potuto entrare nell’arca di Noé, se non in forma di ninfa. Quando l’effimera dispiega le sue quattro ali è per attraversare l’intensità del tempo. Nello stesso giorno vola sulla vita e sulla morte. Un eros splendente, che ha luogo soltanto nel non-luogo dell’azzurro. Il volo nuziale della regina è l’evento unico che s’oppone al ritmo ordinato della vita d’alveare. Nel romanzo sociale delle api la fecondazione è un rito di morte. Il ventaglio simbolico che la vita dell’alveare ha suggerito a entomolgi e poeti (e a peti entomologi) ha per sigillo la congiunzione di amore e morte, celebrata nel volo dell’ape-regina: forma estrema e paradigma tragico del simbolo. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 23 Frammenti di un discorso animale Gli uccelli stendono le ali in forma di croce per pregare, come il loto schiude le foglie in atteggiamento anch’egli di preghiera, quando il Sole è alto: il sentimento della natura ricorre al pensiero religioso perchè questo non pensa la natura ma la vive come proprio fondamento e propria ragione. C’è nei costumi dei pesci una bellezza estranea, una grazia distante, che con la nostra lingua pieghiamo verso un’artificiosa comprensività, quase volessimo abolire quell’elemento dell’acqua che ci fa lontani e diversi. Così il racconto degli amori tra i pesci, che abbia per paesaggio la profondità dell’oceano o la domestica trasparenza di un acquario, attinge subito all’elemento della spettacolarità, e diviene una variante, abissale o familiare, del sublime. L’invenzione poetica e l’affabulazione etologica appartengono ai due estremi di questo sublime: della bellezza della natura è nominata la distanza dall’uomo, ma, insieme, si afferma che di quella bellezza l’unica lettura possibile è umana. Quando leggiamo degli amori dei pesci, del confine sottile tra la lotta e la danza, tra l’agressione e l’abbraccio, la nostra attitudine di spettatori si fa attenta: il teatro della natura, dacché è allestito con gli attrezzi della nostra lingua, con il guardaroba dei nostri sentimenti, ci trova disposti alla meraviglia. Il vetro che ci separa dall’acquario della vita animale protegge l’ingenuità delle nostre esclamazioni. Negli animali che talvolta parlano per mimesi vocale dell’uomo – la gazza, il pappagallo, il merlo – la parola appare come una scheggia estranea, una sgraziata lacerazione del silenzio, anche se è nel silenzio che questa parola s’è formata, come un oggetto sonoro che deve essere riconsegnato all’uomo, al suo parlare privo di musica e di silenzi. La notte ti Natale parla ‘n grecu ogne animale. É una credenza salentina, da me più volte udita nell’infanzia. Il greco – lingua dell’Apocalisse – come luogo della prossimità tra l’uomo e l’animale? Oppure: l’acesso alla lingua – alla lingua dei testi sacri, che per una cultura bizantina è il greco – come segno di un’appartenenza degli animali al piano della redenzione? O ancora: è la nascita, che il Natale significa, sempre, e per tutti, nascita al linguaggio? Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 24 Antonio Prete Alcuni poeti hanno riconsegnato il verso degli uccelli al mondo della pura armonia, armonia affine alla lingua degli angeli e per questo incomprensibile all’uomo. Altri poeti hanno voluto tradurre quella lingua nei propri versi, mostrando come la poesia sia il solo luogo dove la lingua degli ucceli si fa da suono senso. L’impossibilità del senso e la donazione di senso sono due modi classici dell’ars poetica. L’etologia invece cerca un senso laddove appare un limite, e, nello stesso tempo, evita di sovraporre il senso dell’uomo. È, per questo, prossima alla narrazione, non alla poesia. Lo dimostrano le pagine di Lorenz sulle sue taccole: della loro lingua, come dei loro costumi, egli coglie il senso «possibile». Solo anni di osservazione amorosa possono restituire il senso di un suono animale. Allora l’esperienza scientifica è già racconto. Una farfalla giavanese, la Kallima inacus, per difendersi, si poggia ad ali congiunte su uno stelo, facendosi foglia tra le foglie: indistinguibile, ha della foglia non solo la forma e il colore, ma anche le macchie e i forellini provocati dagli altri inseti. La perfezione del mimetismo è un mezzo per la sopravvivenza della specie. Se, da questa finzione vegetale, le foglie apprendessero, a loro volta, il volo della farfalla, per sottrarsi al morso degli insetti? Osservare la salamandra, immobile sul muro di luce, un istante prima che si trasmuti in allegoria. Un cervo, in una macchia di ginestre già sfiorite, che si stende al di là di una breve radura: i vapori della sera che stanno per salire lo rinchiudono dietro lo steccato dell’irreale. Ma é ancora lì, che appare scompare tra i cespugli, come fosse nella rete del silenzio che scende sull’altipiano. Una voce e un passo possono di colpo trasformarlo nell’imagine della lontananza. Nella figurazione del movimento, o dell’impossibile sguardo. Sono pochissime le situazioni in cui la vicinanza dell’altro ha il carattere – visibile, figurato, corporeo – di una parusia. Di una presenza che porta con sé l’inatteso e l’indecifrato. Accade che dormendo il cane sovrapponga talvolta al forte respiro alcuni suoni che Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 25 Frammenti di un discorso animale paiano come rivoltati all’interno del corpo, ingorgati, lontani, e muova le zampe con sussulti brevi e come opachi: la labilità del confine tra il sonno e la veglia, tra le immagini dei sogni e il loro riflesso corporeo, segnala una forte sovranità dell’apparenza. La linea che per noi divide la vita del sogno della vita è forse una rimozione dell’apparenza, del suo patto col vanire, nel quale nasciamo e respiriamo. Il movimento che, nel Richiamo della foresta di Jack London, porta il cane Buck dalla quiete della villa nella crudeltà dell’avventura, nelle stazioni della sofferenza e, infine, nella libertà selvatica dei propri simili, non è solo l’allegorica ed epica modulazione delle curve dell’esistenza, ma è la progressiva autonomia animale dallo sguardo dell’uomo, il farsi identità e lingua di un essere che, con il suo patire e resistere, ribalta il punto di vista umano e s’approssima a quella sostanza naturale – pensiero, dolore, gesti – che è al di qua della stessa divisione delle specie. Se nel racconto di Thomas Mann dedicato al cane l’animale introduce un mutamento nell’osservazione umana della natura intesa come paesaggio e apparenza, nel racconto di Jack London è modificata l’osservazione della natura intesa come storia e destino. Il tempo in cui un fiore si apre e il tempo dell’evoluzione della specie sono due misure impercettibili. I fossili ci possono raccontare alcune stazioni della nostra evoluzione, ma il tempo racchiuso nell’espressione «dalla scimmia all’uomo» è un tempo vuoto, un tempo il cui fondamento è sepolto nella sabbia del tempo. Su questo, ecco l’ironia di Queneau, nella Petite cosmogonie: Le singe sans effort le singe devint homme/ lequel un peu plus tard désagrégea l’atome («La scimmia senza sforzo diventò/ l’uomo, che un po’ più tardi disgregò/ l’atomo... »). Una zoologia morale – dizionario dei vizi e delle virtù – abita i testi di antichi esegeti, di naturalisti, di poeti. Mosaici, miniature, affreschi raccontano attraverso gli animali come riconoscere il bene e come fuggire il male. Un’esemplarità accanita, una gnomica ossessiva. I bestiari, la favola, l’arte religiosa hanno chiesto agli animali di posare per un ritratto morale. Gli stessi nomi della virtù hanno talvolta origine animale. Basilio ricorda che in greco la riconoscenza è chiamata, dalla cicogna, άντιπελάργωσις. Non è stata solo la prossimità all’uomo a suggerire l’uso analogico o allegorico dell’animale. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 26 Antonio Prete Nello specchio della natura (Speculum naturale, per dirla con un vecchio titolo) lo sguardo animale rinvia all’uomo l’incomprensibile intreccio di necessità e innocenza, di essenzialità e purezza. Allora ocorre appannare lo specchio con i fantasmi – buoni o perversi – dell’agire umano. Il lupo, in queste difese all’uomo, ha avuto la peggio. Proverbi e narrazioni, travisando la sua natura, lo hanno ingannato. L’unicornio – il monocerus delle Storie Naturali di Plinio – si muove con balzi leggeri in una foresta di simboli. Ma i significati che dal Fisiologo in poi la tradizione e l’esegesi gli attribuiscono – figura di Cristo, delle due nature umana e divina congiunte, dell’incarnazione, o, nella versione bizantina, figura della croce, cioè dell’orientale albero della vita cristianamente reinterpretato – sono vini anch’essi dal profumo della fanciulla che è condotta nella foresta per catturare l’indomito animale. È questo profumo che, come quello della pantera, penetra nelle biblioteche medievali portando l’interpretazione sui confini della fantasticheria, l’erudizione negli abissi dolci del desiderio. La fanciulla dissipa i simboli e abita, da quel momento, la foresta dei sogni impalpabili e profondi. La madre cerca per i pascoli le orme del suo vitello, sacrificato sull’altare degli dèi, e scruta ogni luogo, e ogni tanto si ferma empiendo dei suoi lamenti la selva, e poi va e riviene dalla stalla, trafitta di nostalgia per il figlio perduto («desiderio perfixa iuvenci»). Nessuno meglio di Lucrezio ha descritto la violenza del sacro. Il tremito di Ifigenia denunciava nel sacrificio l’insensata caricatura delle nozze. Nell’episodio della giovenca l’angoscia è una traffitura dell’appartenenza, dell’identità, un’improvvisa dissipazione del proprio e del noto («quiddam proprium notumque»). Una perdita che rende opaco e privo di vita il paesaggio stesso, un dolore che dilata il non senso su tutta la natura: Nec tenerae salices atque herbae rore vigentes, fluminaque illa queunt summis labentia ripis oblectare animum subitamque avertere curam; nec vitulorum aliae species per pabula laeta derivare queunt animum curaque levare. Non i teneri salici, né l’erba che rugiada ravviva, né i fiumi che scorrono tra alte rive Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 27 Frammenti di un discorso animale possono dar conforto e dalla pena improvvisa distrarre, né il veder gli altri vitelli al pascolo lieto può distoglier l’animo, dall’affanno allontanarlo. (De rerum natura, II, 360-365) L’animalità non come termine di paragone – en bas – dell’umano, ma come differenza che contamina la lingua degli uomini, piegandola verso i fondamenti naturali del desiderio o della libertà. Alcuni racconti hanno dato forma, visibilità, ritmo, a questa contaminazione. Nella Pietra lunare di Tommaso Landolfi il rapporto con l’animalità, che muove dal femminile, non è discesa, ma sconfinamento fantastico verso una relazione profonda, magica, tra il corpo e la natura: Gurù, la ragazza capramannara e lunare, regina della notte, rende visibile il paesaggio, udibili le voci, riconoscibile il tempo passato. La sua differenza è, appunto, lunare, nasconde e rivela insieme le cose, scompone il tempo, fa della bellezza un patto con l’oscuro e l’impossibile. Nell’Iguana di Anna Maria Ortese il movimento è opposto: dall’animalità verso l’umano, ma l’ascesa è, anche qui, scomposizione della lingua, del tempo, delle convenzioni degli uomini. Se in Gurù è il selvatico l’anima della magia, qui è il domestico, l’affabile, il quotidiano. Non il paesaggio notturno, la pioggia, il cavernoso, il conciliabolo di briganti-fantasmi, ma la camera, il luminoso, la conversazione. Non l’eros, ma il sogno. Sulla metamorfosi. Quale principio o impulso presiede al racconto della metamorfosi dell’uomo in animale? Forse l’idea che la contiguità tra le specie animali è molto fragile, al punto che il principio dell’evoluzione si possa di colpo annullare, o sconvolgere. Oppure il fantasma biologico di una degradazione – sempre in agguato – all’interno dell’ordine naturale. In ogni caso è in atto l’ossessione dell’assolutamente altro, che da incubo diventa fantasticheria e narrazione. La metamorfosi animale può essere punitiva, secondo un’immagine antropocentrica, oppure rafforzativa, secondo quella rappresentazione magica della natura che è dominante nell’universo della fiaba. Ma nei grandi racconti della metamorfosi non è la punizione né l’eccesso di potere a muovere la narrazione. E piuttosto l’angoscia di una differenza inattesa, di una discrasia irreversibile: un linguaggio che vive in un corpo non proprio, una coscienza che continua ad abitare Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 28 Antonio Prete laddove non dovrebbe. Così accade per Gregor Samsa in Kafka. Così accade nella Cronaca della luna sul monte del giapponese Nakajima Atsushi, variazione molto bella di un antico racconto cinese. Qui il poeta Li Zheng, mutato in tigre per non aver saputo coltivare senza superbia e insieme senza timidezza il suo talento di poeta, incontra ai margini del bosco il vecchio amico Yuan Can col suo seguito e gli detta dei versi, perché sente che tra poco il linguaggio del poeta sarà inghiottito del tutto da quello della tigre. Un impalpabile filo unisce il racconto di Atsushi a quei versi di Keats dove il poeta dice d’aver appreso la lingua della poesia dal grido della tigre (the tiger yell). La metamorfosi è ribaltata: la lingua della tigre (e del leone: the lyons roaring, aggiunge Keats) si trasforma nella lingua della poesia. Il mito di Orfeo incombe su questi passaggi: il suono della natura è la culla, e la meta, di ogni lingua. Irripetibilità del volto animale: nel passaggio al nome è la lingua che prende cura di questa irripetibilità. Dare un nome oltre che alle specie e ai tipi e alle classi, anche al singolo, è salvare quella riconoscibilità che tra gli animali è il primo movimento verso l’altro: «non meno degli uomini tra loro si riconoscono», dice Lucrezio («nec minus atque homines se nota cluere»; De rerum natura III, 351). Sui confini malcerti – e maldifesi, nonostante i cerberi e le idre e i minotauri – del regno animale, le incursioni di esseri fantastici, siano chimere o draghi, marticore o unicorni, ricorda che la conoscenza è arida se non è visitata dall’inconoscibile, e la creazione è triste se non è dichiarata inconclusa da tutti gli esseri increati. Gli angeli non hanno la stessa funzione nel «regno dello spirito»? Su un prato, su cui si apre un sentiero che ha attraversato lunghe gallerie di abeti, un gruppo di cavalli immobili nel sole del mattino. Il manto fulvo e le criniere bianche contro lo smeraldo dell’altipiano. Due di loro, sdraiati su un fianco, dormono. In lontananza il profilo riconoscibile dello Sciliar. Dev’esserci una corrispondenza tra le forme delle foglie che ondeggiano nel prato, i corpi di mitologica bellezza dei cavalli, le linee dei monti che delimitano il paesaggio. Quale sia questa corrispondenza non è dato sapere. «Forse essa è scritta nei solchi che gli uccelli ora disegnano, sopra il prato, in Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 29 Frammenti di un discorso animale quest’aria di settembre», suggerisce una voce. La pantera, il più bell’animale, secondo il Libellus de natura animalium («quo aliud animal non est pulchrius»), ben sazia dorme per tre giorni, poi si leva e il suo ruggito ha un profumo che supera ogni fragranza. Morte e resurrezione di Cristo vi sono raffigurate. E soprattutto nel suo profumo è adombrato quell‘«odor Christi» che attrae e redime i lontani e i distratti. Nel ventaglio dell’allegorismo cristiano la pantera balza, con Dante, fuori dal recinto della prima significazione, per dire la lingua, il suo insistente e introvabile profumo. Nella nuova foresta il suo profumato ruggito non annuncia nessuna redenzione: ma i poeti sono disposti a perdersi nella sua ricerca. Nessun parco faunistico recinge gli animali fantastici. Se sono a loro agio nelle fiabe e nelle leggende, amano anche nascondersi, apocrifi della scienza, nei trattati degli antichi naturalisti. Citando come fonte Ctesia di Cnido, così Aristotele, nel libro secondo dell’Historia animalium descrive la belva dell’India dalla triplice fila di denti, detta marticora: «...per dimensioni, pelo e piedi essa è simile al leone, ma la faccia e le orecchie hanno aspetto umano, gli occhi sono azzurri, il corpo ha colore vermiglio, la coda è simile a quella dello scorpione terrestre, ed è provvista di un aculeo e di spine che possono esser lanciate come frecce; emette suoni simili a un tempo a quelli del flauto e della tromba, corre non meno veloce dei cervi, è feroce e antropofaga». Anche se il brano può essere una tarda interpolazione, la marticora ride dell’inganno: sintesi del regno animale, multicolore, musicale, sorveglia, dalle pagine di un austero trattato, il confine tra la scienza e la fantasia. Il lupo di Gubbio si fa mansueto quando Francesco gli rivolge la parola. La creaturalità ha fondamento nell’unità del linguaggio, nel riconoscimento che una sola lingua rende prossimi uomini piante animali. La capacità d’intendere di frate Lupo è analoga a quella dei cittadini di Gubbio ai quali Francesco predica la mansuetudine, mentre l’animale è disteso ai suoi piedi, ancora attento alle sue parole. Il lupo, dopo la partenza di Francesco, resta a Gubbio per testimoniare la possibilità di questa lingua. Di una lingua che va oltre la barriera della convenzione semantica e fonda la sua sintassi nell’armonìa Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 30 Antonio Prete creaturale. Nella predica agli uccelli, la capacità d’ascolto degli alati, che rinunciano per un poco al loro canto, si specchia nell’attitudine della lingua di Francesco a rivolgersi in una direzione in cui il senso è immediatamente trasformato in puro suono, e questo suono è il senso pieno di una lingua comune a tutta la natura. Per civiltà e crudeltà, per pregiudizi e ossessioni, per ragioni di scienza o di gioco, gli uomini hanno trasformato la storia animale in un interminabile racconto del dolore. Il sacrificio di novemila fiere per l’inaugurazione del Colosseo o le stragi di gatti ad Anversa e a Parigi sono pagine secondarie dinanzi all’esercizio quotidiano della violenza. Quanti gesti di creaturale fraternità saranno necessari per avviare una riparazione! La guerra, abisso del tragico, e anche l’abisso della differenza tra l’uomo egli altri animali. Per Leopardi cade, con la guerra, ogni analogia tra la specie umana e «qualsivoglia altra specie conosciuta, sia animale o inanimata, sia d’animali insocievoli o de’ più socievoli dopo l’uomo» (Zib., 3791-3792). La ratio politica, per la quale la guerra è, sempre, possibile, si dispiega come astrazione dal vivente e dalsingolo. In questa astrazione è l’essenza stessa della politica, la radice della sua violenza. La distruzione degli individui, e della natura, in cui consiste la guerra, è la barbarie che la civiltà, di volta in volta, chiama diritto o necessità, strategia o atto di giustizia. In quest’ordine di pensieri si svolge la leopardiana riflessione sulla guerra, e sulla differenza tra l’uomo e l’animale di cui essa è sintomo: «...che proporzione, anzi che simiglianza può aver l’uccisione d’uno o di quattro o dieci animali fatta da’ loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d’individui umani fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, ‘niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d’alcun di loro, ma comune (laddove niuno animale combatte mai per altro che per sé solo; al più, ma di rado, co’ suoi simili, per li figli, che son come cosa, anzi parte di lui), e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finché non l’hanno tutta estirpata ec. ec.?» (Zib., 3792-3793). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 31 Frammenti di un discorso animale Gli animali fantastici e gli animali delle specie estinte da milioni d’anni abitano la stessa terra: gli uni e gli altri sono possibili in un’esistenza della quale ci appartiene soltanto la favola. In quell’esistenza essi vivono insieme. Il liocorno, abbandonando la foresta, può giungere sulla riva di un mare abitato dalle alghe azzurre dell’era precambriana. La fenice si fa cenere e rinasce tra lo stupore dei dinosauri dell’era mesozoica. Una sirena nuota tra i colori dei tetracoralli e dei biozoi, nei silenzi abissali dell’era paleozoica. Quel che è stato vivente ha la stessa parvenza, e necessità, dell’impossibile, dell’assolutamente fantastico. Affiorando dall’onda immemoriale delle ere geologiche, i fossili dicono di una metamorfosi in cui la materia non ha piegato l’immagine, di una forma che ha vinto sulla pietrificazione pietrificandosi. Questa traccia sopravvivente – corpo animale o forma vegetale – è il disegno di una vita. Linea vitae, cioè scrittura. Dall’infanzia, due immagini che niente ha sbiadito. Dopo la vendemmia, dall’alto di un carro straboccante di grappoli d’uva, lo sguardo posato per ore sul collo di un cavallo sauro, paziente dietro altri carri, nel sole di settembre. Arrivarono sulla riva, prima di sera, lo scalpiccio quieto, non avevano finimenti né redini, entrarono in acqua allontanandosi nella striscia di fuoco. L’unicorno si nutre non d’avena, ma soltanto del suo poter essere. Messaggero silenzioso di tutto ciò che, inesistente, il desiderio alleva, egli muove, in un mattino di rugiada, verso la fanciulla. Perché costei per amore ha fatto ch’egli fosse, leggero e bianco. «E fu nel suo specchio d’argento, in lei» (und war im Silber-Spiegel und in ihr). Il verso di Rilke che chiude il sonetto (Die Sonette an Orpheus, II, IV) fa dello sguardo dell’unicorno lo sguardo stesso della fanciulla: nello specchio l‘immagine dell’unicorno che incede è, nello stesso momento, l'immagine della fanciulla che guarda il suo doppio. L’unicorno è la forma animale del desiderio. Ed è anche il velo d’alabastro in cui il sé e l’altro sono contigui, come lo sono il reale e il fantastico. Quando è lo sguardo animale il punto d’osservazione da cui siamo guardati, i nostri Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 32 Antonio Prete gesti e la nostra immagine cadono in una rete di senso, o di percezione, che non solo ci è estranea, ma, qualora la potessimo a nostra volta almeno guardare, ci turberebbe non poco. Quel punto di vista è come un lampo che trema nel silenzio senza che riesca a illuminare il paesaggio. Ogni comunicazione che possiamo stabilire con l’animale, anche con quello cui siamo legati da consuetudine o da affezione, non ci dice nulla sulla natura delle sensazioni che trattengono in quegli altri occhi la nostra immagine. È una differenza che restituisce all’uomo il limite della sua percezione, la povertà di campo del suo linguaggio e, persino, l’insensatezza, alla lettera, della sua superiorità. Dinanzi a questo sguardo – si può dire con Valéry – «sono costretto a considerarmi come una parola di cui ignoro il senso all’interno di un sistema animale di idee». Al vento del Sud Dio ordinò di raccogliersi in un punto, di condensarsi in un elemento, poi prese un pugno di questo elemento e vi soffiò sopra: così fu creato il cavallo. La leggenda araba è fedele al passo della Genesi (1, 7) che narra della creazione dell’uomo attraverso il soffio (spiraculum vitae). Ma questo soffio sul vento è come un di più d’anima, un raddoppiamento della vita: la pienezza animale del cavallo ha a che fare con una presenza che è forte del suo rapporto con la lontananza, con la rapidità, con l’invisibile. Vento fatto corpo: nessuna meraviglia se Nietzsche volle abbracciarlo. I silenzi che fluttuano nello sguardo animale fanno apparire ridondante e clownesca la proprietà umana di dare nomi di contrassegnare con parole il variopinto ordine dei viventi. Perché su quella proprietà – all’origine semplice modulazione linguistica della physis – è stata innalzata la torre della differenza e del dominio. Il lavoro dei poeti è forse l’esercizio millenario, e strenuo, perché la differença torni a essere solo una proprietà, il supremo sia abolito nel creaturale: per questo la parola, nella poesia, è vento, acqua, cenere, pietra, foglia. Osservare la singolarità del vivente, di ogni cosa vivente, come la pulsazione necessaria di una stessa lingua: se la poesia ha, come le nuvole, uno sguardo, esso e il riflesso dello sguardo animale. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 33 Frammenti di un discorso animale 1 La direzione e redazione di Appunti leopardiani ringraziano Antonio Prete per aver proposto questa ristampa e averla corredata da una premessa. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 34 Saggi «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi Andrea Paolella and.paolella@gmail.com Il repertorio antologico curato da Antonio Prete e Alessandra Aloisi ne Il gallo silvestre e gli altri animali (2010) testimonia la presenza continua dell’essere animale nel corpus leopardiano come oggetto di studio e di riflessione. Con la progressiva maturazione di una posizione antifinalistica e antiantropocentrica il recanatese pone l’esistenza dell’animale sulla stessa linea dell’uomo e del vegetale, in un orizzonte tracciato dalla sofferenza del vivente. 1. Sin dagli scritti puerili si riscontra l’attrazione leopardiana per una delle polemiche filosofiche più caratteristiche dell’epoca moderna: la querelle sur l’âme des bêtes.1 L’argomento affiora per la prima volta nella favola in versi I filosofi, e il cane (1810). Il dodicenne parafrasa un’omonima composizione in prosa contenuta ne Il libro de’ Fanciulli ovvero Idee Generali delle cose, nelle quali devono essere ammaestrati, dove si descrive una scena in cui dei filosofi «questionavano dell’anima delle bestie» (Manzoni 1800: 141): alcuni parteggiavano per Descartes, che «pure macchine le dicea» (ibid.), altri per Lorenzo Magalotti, che le riteneva «spiriti, ma senza ragione» (ibid.), qualcun altro «a spada tratta difendeva il Maupertuis, che tanto loro attribuisce di ragione, fino a dubitare, se siano capaci di eterna vita» (ibid.), ed infine c’era chi riteneva, col «bizzarro Franzese, che Diavoli fossero a quel corpo legati»2 (ibid.). Nel bel mezzo della diatriba, un cane li interruppe ammonendoli: «chiaritevi in prima dell’anima di voi, che ragionevoli siete, poi della vostra disputerete» (ibid.). Leopardi, a differenza dell’originale, pur non nominando mai i singoli filosofi, descrive la querelle della «dotta compagnìa» (VP 357, v. 2)3 come una «sottil filosofìa» (ibid., v. 4), sostenuta con argomentazioni in grado di «intimorire e Socrate, e Platone» (ibid., v. 8). L’argomento di questa favoletta è un’anticipazione scherzosa ed ironica della più austera dissertazione Sopra l’anima delle bestie (1811), dove si ritrovano, studiati e approfonditi, tutti i filosofi menzionati. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 35 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi In quest’opera il tredicenne Leopardi pone ai lati opposti della «tanto decantata questione» le teorie meccanicistiche di Cartesio e quelle di Maupertuis, il quale «si sforza con tutto l’impegno di provare, che l’anime dei bruti sono dotate di ragione, e giunge perfino a dubitare se desse sieno ancora capaci dell’immortalità»4 (DF 675). Tra i due filoni s’inseriscono le soluzioni più moderate, tra cui il sistema di un «sensato Scrittore» che «sembra certamente il più facile a dimostrarsi, e il più concorde con il sentimento comune degli uomini» (ibid.). Secondo Tatiana Crivelli (Leopardi 1995: 81), l’anonimo autore è Vincenzo Tommaso Moniglia (Dissertazione contro i Fatalisti, 1744). La posizione del recanatese, basata innanzitutto sul senso comune, è l’opinione «di mezzo» che non riconduce l’anima dei bruti «al niente coi Cartesiani» e non la pone in un rapporto di assoluta uguaglianza con quella umana, ma «le attribuisce qualche specie di essere spirituale, qualche partecipazione di ragione, di raziocinio, e di esterna manifestazione dei sentimenti interni con voci, o altri segni» (DF 675). Leopardi si rifà esplicitamente a Rousseau. Quest’ultimo si richiamava sia al pensiero di Gassendi e al filone epicureo, per cui l’uomo non differisce dalla bestia «que du plus au moins» (cfr. Gassendi 1973: 271), sia a Montaigne, che a sua volta riprendeva Plutarco (cfr. Montaigne 2008: 283). Alle tesi del ginevrino, il marchigiano affianca alcuni spunti tratti dagli Elementi di Metafisica, ovvero Preservativo contro il Materialismo, contro l’Ateismo e contro il Deismo di Jean Sauri (1777), il quale scriveva: «le bestie hanno un’anima dotata di libertà, ma questa libertà è altrettanto imperfetta, quanto l’intelletto, che la dirige; [...] non possono meritare, nè demeritare, perchè non hanno veruna cognizione della moralità» (Sauri 1777: 316-17. Cfr. Leopardi 1995: 471-72). Il recanatese sostiene anche la posizione di Magalotti, secondo cui l’anima dei bruti è del tutto spirituale (cfr. DF 679). Questa opinione è suggerita anche da alcuni passi della Bibbia (Ecclesiaste, III, 21). Nonostante le difficoltà evidenziate da Alfonso Muzzarelli (Il buon uso della Logica in materia di Religione, 1793), per Leopardi sia la natura sia i versi della Genesi (I, 29-30 e II, 19) provano che gli animali abbiano un’anima e dunque «la sentenza, la quale afferma esser l’anima dei Bruti uno spirito dotato di senso, di libertà, e di un qualche lieve barlume di ragione è certamente più probabile di ogni altra» (DF 679). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 36 Andrea Paolella Nell’esporre le proprie considerazioni Leopardi attinge ad un patrimonio aneddotico accumulato da secoli di esperienze quotidiane: è in questo lavoro che compare per la prima volta quel «cotanto industrioso governo delle api» che sarà ricorrente anche nello Zibaldone (69; 210; 287; 542; 587-89; 3774-75; 3779; 3793-94; 3803) e che testimonia un «qualche barlume di ragione» (DF 676). Come l’elefante trema di fronte un topo, un lupo fugge dinanzi al fuoco o un gatto s’infuria alla vista di un cane, così l’uomo «è soggetto a simili pregiudizj» (ad esempio il timore davanti ad un lampo o all’udir di una cannonata): «se simili puerilità non tolgono la libertà all’uomo molto meno la tolgono nei bruti» (ibid.). Queste parole evidenziano una prospettiva continuista, per cui il divario tra animali e uomini è solo di natura quantitativa. Usufruendo della Fisica de’ Peripatetici, Cartesiani ed Atomisti al paragone della vera Fisica di Aristotele (Stefano Pace, 1718), il recanatese imposta anche una dettagliata analisi del meccanicismo cartesiano, «opinione più celebre e più stravagante, che sia giammai comparsa nel teatro della Fisica naturale» (ibid. Cfr. Leopardi 1995: 430). In questa Dissertazione compaiono infatti l’aquila del Regiomontano, il capo di creta di Alberto Magno e la statua parlante, presenti nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (1824); riproponendo un’argomentazione classica letta negli Elementi di Metafisica (Sauri 1777: 318-19), Leopardi ritiene che, se per l’uomo è stato possibile inventare artefatti così stupefacenti, ciò è ancor più possibile per Dio, il quale potrebbe creare macchine talmente perfette da sembrare vive. Tuttavia è impossibile «che siffatti simulacri abbiano gli stessi affetti, e le stesse passioni, che le bestie sperimentano» (DF 678). Sebbene sia plausibile creare un automa che apparentemente sembri vivere emozioni, tale invenzione non riuscirebbe a provare che l’imitazione (l’automa) sia totalmente uguale al modello imitato (la Natura): di conseguenza «non può dedursi in modo alcuno, che le bestie operino come tali automi» (ibid.). Per giunta anche a livello fisico è assurdo applicare la meccanica cartesiana agli esseri animali, come ha dimostrato Aimé-Henry Paulian (Dictionnaire de Physique, 1781. Cfr. Leopardi 1995: 432). Il marchigiano prende in considerazione anche il celebre argomento cartesiano intorno all’anatomia dei lombrichi. Quando si taglia in più pezzi un vermicello, le parti sembrano assumere vita propria e autonoma; questo fatto sarebbe inspiegabile se Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 37 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi l’anima del lombrico fosse immateriale e indivisibile. Contro una simile obiezione, Leopardi ripropone la tesi occasionalista esposta nell’opera dell’abate francese (Sauri 1777: 317): quando le parti del verme diviso si trovano sufficientemente organizzate, Dio crea all’occorrenza nuove anime per ogni pezzo. Ripercorrendo il classico schema retorico della querelle, demolito l’edificio cartesiano, Leopardi analizza e confuta anche le tesi opposte, quelle di Maupertuis e di un «recente Scrittore sedicente Filosofo»,5 che, «spacciando buon senso, e dottrina sostiene le più false proposizioni, e i dogmi più pericolosi ch’esser vi possano», cioè che le bestie siano esseri razionali (DF 678). In questa sezione si legge quella che forse è la tesi più forte di tutta la Dissertazione: l’asserzione, estrapolata da L’Istoria Santa dell’Antico Testamento. Spiegata in Lezioni morali, istoriche, critiche e cronologiche di Giovanni Granelli (presente nella biblioteca leopardiana nell’edizione veneziana del 1792), per la quale, se gli animali fossero realmente tanto ragionevoli quanto si sostiene, almeno qualcuno doveva riuscir ad insegnar loro una lingua o una filosofia. Questo riferimento alla facoltà linguistica, già ora decisiva, sarà fondamentale anche nello Zibaldone. Tuttavia il giovane, fondando il proprio giudizio su alcuni versi della Genesi (I, 26), non è ancora pronto a lasciare l’antropocentrismo e il finalismo di matrice cristiana. Sarà all’insegna dell’abbandono di questa concezione che avverrà il passaggio dall’infanzia alla maturità. Oltre all’empia teoria del Maupertuis, Leopardi critica anche le tesi dei materialisti, per i quali l’anima dei bruti è semplice materia organica, e in particolare quella di Pietro Chiari, secondo cui essa si costituisce di “minuti sostanziali corpuscoli” (DF 679). La querelle sur l’âme des bêtes si riaffaccia qualche mese più tardi in una dissertazione aggiunta, Sopra le doti dell’anima umana (1812). Qui le prerogative umane – l’immortalità, la spiritualità e la libertà – oscurano la continuità risaltata dal «barlume di ragione» concesso in Sopra l’anima delle bestie. La natura dell’argomento induce il giovane ad evidenziare gli elementi di contrasto che sorgono dal confronto tra l’essere umano e l’animale, risaltando la supremazia concessa all’uomo dalla Bibbia. Inoltre in questa dissertazione viene affrontata per la prima volta anche la questione di una materia pensante, più volte ricorrente nello Zibaldone (cfr. Leopardi 1995: 16). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 38 Andrea Paolella Nello stesso anno Leopardi scrive il Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato «Analisi delle idee a uso della gioventù», in cui ancor più accentuato appare il distacco tra l’animale e l’uomo. In questo dialogo il recanatese usa un’operetta di Mariano Gigli, pubblicata nel 1808, come pretesto per una disputa tra i libertini, nel cui novero inserisce lo stesso autore, colpevole di aver negato la libertà all’essere umano, e i «filosofi immacolati», rigorosi nello «zelo de’ veri cattolici» (SeD 733). La parte conclusiva del lavoro è dedicata all’asserzione per la quale «i bruti sono ragionevoli» (ivi: 739), confutata con un’argomentazione ripresa dagli Elementi di Metafisica di Sauri e già inserita nella dissertazione Sopra l’anima delle bestie: «E dove ci troveremmo mai se le bestie fossero dotate di ragione? La terra tutta diverrebbe un Teatro di devastazione e di orrore» (ibid.). Benché appaia scontata l’identificazione tra l’autore e il vincitore (cioè il personaggio che adotta il punto di vista più ortodosso), non è possibile escludere «una sorta di sdoppiamento inconscio della personalità intellettuale di Giacomo, per cui anche le ragioni del giovane libertino finiscono per avere una loro plausibilità» (Paolini 2000: 280). Suggestiva è anche l’ipotesi di Gaspare Polizzi: «bisogna tener presente che il locatore è un letterato che si rivolge a un giovane e ciò può quindi celare anche una strategia di dissimulazione» (Polizzi 2008: 214). Concludendo, come si è potuto osservare, fu proprio «tramite la lettura dei testi che combattevano le ideologie materialistiche e antiecclesiastiche, che il giovane entrò per la prima volta in contatto con le opinioni dei pensatori moderni» (Leopardi 1995: 6). 2. Lo Zibaldone di pensieri è senza dubbio il luogo dove è più facile scorgere le tappe che segnano la progressiva e costante maturazione della riflessione leopardiana sull’animalità. L’attenzione riposta dal recanatese a questa tematica diventa assolutamente evidente quando si considera il numero di voci che egli stesso ha annotato nell’Indice fiorentino del 1827 e negli indici parziali; a questi elenchi si potrebbero aggiungere altri lemmi che si riscontrano tra gli indici tematici e analitici delle edizioni recenti, come ad esempio «api, bestie, bruti, cani, castori, cavalli, formiche, polipi, scimmie, serpenti, tartaruga, uccelli» (Paolini 2000: 286). Dal confronto tra l’essere umano e l’animale affiorano osservazioni di carattere naturalistico (Zib. 71-72; 4468) e psicologico (Zib. 1378; 1787; 1806; 2031; 3556; Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 39 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi 3796; 4272; 4280; 4419; 4504), emergono appunti sulla sensibilità degli animali per i suoni (Zib. 155-56; 3423) o per i colori vivaci (Zib. 1798), e considerazioni sulla loro società (Zib. 210; 288; 370; 3773). In molte circostanze la presenza del mondo animale serve all’autore per mostrare la relatività di alcuni concetti che abitualmente si ritengono universali, come il bello (Zib. 8; 49; 202; 1409; 4119), il bene (Zib. 2031) o la pulizia (Zib. 1368). Particolarmente approfondito è invece il tema dell’assuefazione di animali e uomini (Zib. 1195-96; 1923-25; 2564), argomento molte volte connesso a quello dell’ammaestramento (Zib. 1630; 1762-64; 1770; 1786; 3974-78). Notevoli sono anche l’analisi del rapporto inversamente proporzionale tra la durata della vita e la qualità dell’esistenza (Zib. 32; 64; 3509-14; 4062-64; 4092; 4272 – tema centrale anche nel Dialogo di un Fisico e di un Metafisico), e le riflessioni sull’amor proprio e sull’odio (Zib. 3796; 4509).6 Infine attraverso l’essere animale Leopardi mette in luce i piaceri eclissati dalla civilizzazione, dalla «spiritualizzazione delle cose, e dell’idea di uomo, e dell’uomo stesso» (Zib. 3911). Alcune pagine che portano alla mente il Canto notturno (vv. 105-116), come Zib. 4180 e 4306, risaltano infatti la cosiddetta «animalità negata» (Prete 20063: 164) dell’essere umano. Nel suo diario, Leopardi approfondisce anche una delle questioni più dirompenti della Dissertazione sopra l’anima delle bestie: il problema del linguaggio degli animali. Tra le voci dell’Indice scoviamo l’elemento principale che differenzia la specie umana dagli altri animali: «Lingua, causa della superiorità dell’uomo sulle bestie. 1102,1». Il passo che Leopardi stesso suggerisce è il seguente: Dal pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause principalissime e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all’uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via di segni, e nominatamente per via della voce, e de’ suoni. Inclinazione materiale e innata nell’uomo, e che tuttavia fu la prima origine del linguaggio. Essendo certo per esperienza che l’uomo, ancorchè privo di linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati. In questa pagina il recanatese sembra replicare all’obiezione del Granelli, citata anni prima nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie: se gli animali sono veramente razionali, perché non hanno mai imparato a parlare? Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 40 Andrea Paolella Coerentemente con la rigorosa visione materialistica maturata nel corso del tempo, il linguaggio diviene il frutto di una determinata organizzazione corporea: senza continuità fisiologica non può sussistere neppure continuità a livello razionale. In altre parole, gli animali non possono apprendere un linguaggio umano per mere questioni biologiche: mancano di quelle caratteristiche dell’apparato fonatorio umano che permettono l’articolazione della voce, senza le quali non può innescarsi, ad un secondo livello, una facoltà intellettiva superiore. Per questo motivo, privi del linguaggio, non possono neppure concepire idee di quantità: «gli animali, non avendo lingua, non sono capaci di concepir quantità determinata ec. se non menoma, e ciò non per difetto di ragione, e insufficienza e scarsezza d’intendimento, ma per la detta necessarissima causa» (Zib. 2588). «L’osservazione di Leopardi è confermata dai moderni studi di psicologia animale, ad es. sulla capacità delle galline di contare fino a tre, quattro» (Paolini 2000: 296). Come già nella Dissertazione, nello Zibaldone non è presente uno stacco qualitativo tra le diverse specie: pur non concedendo, per motivi anatomici, linguaggio e razionalità perfetti agli animali, Leopardi attribuisce loro una qualche forma di ragione. In Zib. 370 si legge esplicitamente che «anche gli animali hanno un uso sufficientissimo di ragione, hanno il principio τοῦ λογισµοῦ, il principio di conoscenza innato in tutti gli esseri viventi, non già nel solo uomo; e non per questo se ne servono come l’uomo, nè sono infelici». Di conseguenza il recanatese conferisce coscienza e moralità agli animali: «quella bestia, che per pigrizia o altro uccide il proprio figlio, pecca contro natura e contro coscienza» (Zib. 1960). Una così forte e sconvolgente affermazione potrebbe esser paragonata, in tutto il corpus leopardiano, forse solo ad alcune stanze dei Paralipomeni della Batracomiomachia, opera incominciata a Firenze e continuata a Napoli, dove non poté esser terminata a causa della morte dell’autore.7 3. Osserva Martellini (1997: 97) che «l’eco della Dissertazione sopra l’anima delle bestie» si udirà sino ai Paralipomeni. Quest’opera satirico-zooepica si propone come continuazione del poema pseudo-omerico Batracomiomachia, tradotta già tre volte dal recanatese con i titoli La guerra dei topi e delle rane (1815), Guerra de’ topi e delle rane (1821-1822), Guerra dei topi e delle rane (1826). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 41 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi Leopardi si richiama a Gli animali parlanti (1802) di Giovanni Battista Casti sin dal Discorso sopra la Batracomiomachia (1815), dove il poeta viterbese viene citato in riferimento all’uso di sestine in endecasillabo (TP 399). Il suo nome ritornerà anche nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza (1819), che si aprono proprio con «pieghevolezza dell’ingegno facilità d’imitare, occasione di parlarne sarà la Batrac. imitata dal Casti» (ivi: 1100), e tra gli appunti per il Dialogo di un Cavallo e un bue (1820-21) come fonte per qualche informazione sui mammut (OM 613). Per Leopardi i Paralipomeni sono occasione di realizzare uno spunto annotato molto tempo prima, in Zib. 55: Linguaggio mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa originale e poetica introdotta così in qualche poesia, come, ma poi scioccamente se ne serve, il Sanazzaro dell’Arcadia prosa 9. ad imitazione di quella favola, s’io non erro, circa Esiodo. In questo poemetto, i cui protagonisti sono topi, rane e granchi, il primo e unico personaggio dalle fattezze umane, Dedalo, fa la sua comparsa solo negli ultimi due Canti, VII e VIII. Il suo ritratto «si compie con una vera e propria autobiografia narrata» (Cellerino 1997: 31): come il giovane Leopardi all’interno della biblioteca, anche Dedalo «presso al confine / di pubertà quel nido avendo eletto, / di fisiche e meccaniche dottrine / preso aveva in quegli ozi un gran diletto» (Paralip. 267, VII, 8, vv. 1-4), e finalmente «divenuto esperto / della storia che detta è naturale, / ben già fin dal principio essendo certo / dello stato civil d’ogni animale, / gl’idiomi di molti avea scoperto» (ivi, 9, vv. 1-5).8 Il personaggio leopardiano «appare in un tempo estraneo al mondo con la sua flemma, il culto dei libri e degli idiomi, un desiderio insolito da lungo provato, desiderio curioso quasi capriccio dotto proprio di persona aristocratica» (Russo 1998: 623): Un desiderio di dovere, andando Per tutto l’orbe, a qualche segno esterno, Come il nostro scopriro altri cercando, Degli animali ritrovar l’inferno, Cioè quel loco ove al morir passando Vivesse l’io degli animali eterno. Il qual ch’eterno fosse al par del nostro Dal comun senso gli parea dimostro (Paralip. 267, VII, 11, vv. 1-8). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 42 Andrea Paolella A partire da conoscenze fisiche, linguistiche e sensistiche (il «segno esterno»), Dedalo pretende di attribuire immortalità – qualità spirituale – all’anima degli animali. Nonostante le evidenti analogie autobiografiche, il personaggio umano dei Paralipomeni rimane un elemento satirico e una parodia del senso comune, come si vede dal verso 8 appena citato, e dell’apriorismo ottocentesco, come suggerisce invece il verso 3 della stanza 9 poco prima riportata (cfr. Cellerino 1997: 32-33). Ciononostante, la provocazione maggiore di Leopardi è l’esplicita attribuzione di un «io» agli animali. A livello letterario precedenti si riscontrano in Casti, Magalotti, Bellini e Alfieri; ma solo il recanatese ha caricato di senso filosofico il termino ‘io’ (cfr. ivi: 43-44). Al di sotto della veste satirica, Leopardi «fa dire a Dedalo con corretta consequenzialità» (ivi: 35): Che certo s’estimar materia frale Dalla retta ragion mi si consente L’io del topo, del can, d’altro mortale, Che senta e pensi manifestamente, Perché non possa il nostro esser cotale Non veggo: e se non pensa in ver né sente lI topo o il can, di dubitar concesso M’è del sentire e del pensar mio stesso (Paralip. 267, VII, 13, vv. 1-8). L’unico personaggio umano dell’ultima opera su cui ha lavorato Leopardi sposa una posizione continuista, priva di salti qualitativi e fondata su una graduale differenza – «qual da meno a più la differenza» (ivi, 12, v. 6) – tra uomini ed animali, una posizione in linea di massima già esposta nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie e nello Zibaldone. Tuttavia, a differenza della composizione del 1811, attraverso quella sorta di alter ego che è Dedalo, il recanatese «vuole prendere ironicamente le distanze dalle sue precedenti posizioni, da un “illuminismo cattolico” legato all’ortodossia gesuitica e ormai superato in un conseguente materialismo naturalistico» (Polizzi 2008: 223). Quando, nella stanza 14, la descrizione e il «lungo ragionar» (Paralip. 267, VII, 7, v. 8) di Dedalo vengono interrotti, l’autore stesso prende la parola e s’inserisce con una riflessione intorno ai pregiudizi comuni – «l’uman cervello / ciò che d’aver per fermo ha stabilito / creda talmente che dal creder quello / nol rimova ragion forza o partito» (ivi: 14, vv. 1-4). Due sono infatti le cose che «accoppiare è bello» (ivi: v. 5): la prima, per la quale, nonostante l’ampia diffusione della teoria copernicana, molte Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 43 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi persone e molte correnti sono ancora convinte che l’uomo sia al centro di un universo creato per lui e che gli gira intorno; la seconda, connessa alla prima, per la quale, chi indaga sulla mente umana, «con impudente / dissimulazione e mala fede» (ivi: 16, vv. 56) tralascia il problema dell’intelligenza animale, come se le due questioni non fossero collegate. Se col secondo punto il recanatese rivendica esplicitamente l’importanza di quella querelle sur l’âme des bêtes che a prima vista sembrava questione tanto marginale all’interno del pensiero leopardiano, col primo ribadisce l’assurdità di qualsiasi visione finalistica e antropocentrica fondata sul «fetido orgoglio» (Ginestra, v. 102) di un “animale stolto” come l’uomo (ivi, v. 98-99).9 La “rivoluzione copernicana” e la prospettiva antiantropocentrica assunta da Leopardi saranno i presupposti necessari che apriranno la via alla rivoluzione darwiniana, il cui concetto di “selezione naturale” sembra anticipato – almeno sotto certi aspetti – in una celebre pagina dello Zibaldone: Milioni di semi (animali o vegetabili) si posano, milioni di piante o d’animali nascono in luoghi dove non hanno di che nutrirsi, non posson vivere. Ma questi periscono ignorati; gli altri, e non so se sieno i più, giungono a perfezione, sussistono, e vengono a cognizione nostra. Sicchè quel che vi è di vero si è, che i soli animali ec. che si conservino, si maturino, e che noi conosciamo, sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ec. Ovvero, che gli animali che non capitano, ec. non vivono ec. Questo è il vero, ma questo non vale la pena di esser detto. Or così discorrete del sistema della natura, del mondo ec. ap. a poco secondo le idee di Stratone da Lampsaco (Zib. 4510). Leopardi lega il dispendioso sistema della natura al materialismo stratonico, a cui s’ispira esplicitamente nel Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco. Il suo cammino, iniziato con l’attribuzione di sensibilità e intelligenza anche agli animali, si conclude con l’attribuzione di pensiero a tutta la materia: La materia pensante si considera come un paradosso. […] Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; […]. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani (Zib. 4288). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 44 Andrea Paolella 4. La roboante invettiva dei Paralipomeni contro l’antropocentrismo è il coronamento di un percorso avviato molti anni prima. Uno dei primissimi passi mossi dal recanatese verso tale direzione è registrato nella pagina 19 del suo diario intellettuale, dove, nella celebre critica al Di Breme e al romanticismo, Leopardi parafrasa esplicitamente il frammento di Senofane, raccolto oggi in DK 21 B15,10 per il quale, secondo la lettura del recanatese, «il cavallo per esempio se avesse ragione e immaginativa, attribuirebbe a Dio, (il cavallo sarebbe allora ragionevole, onde nessuno si scandalizzi di quel che dirò) e alle cose inanimate ec. ec. la figura e gli affetti e i pensieri del cavallo, e così gli altri animali». Se da un lato si osserva una posizione relativistica, dall’altro l’argomentazione ha l’aspetto di una reductio ad absurdum (sembrerebbe implicare che, siccome il cavallo e gli altri animali non hanno ragionevolezza ed immaginativa, allora non possono concepire le qualità divine). In questo passo Leopardi constata la necessità per l’uomo di personificare la natura, ma non si spinge a concludere che per cui non vi è motivo di reputare la concezione umana meno assurda di quella degli altri animali (come invece sarà in Zib. 1469). Solo poche pagine oltre, in Zib. 44, l’autore presenta una delle argomentazioni più tradizionali utilizzate per dimostrare l’immortalità dell’anima umana: L’infelicità nostra è una prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso che i bruti e in certo modo tutti gli esseri della natura possono esser felici e sono, noi soli non siamo né possiamo. Ora è cosa evidente che in tutto il nostro globo la cosa più nobile, e che è padrona del resto, anzi quello a cui servizio pare a mille segni incontrastabili che sia fatto non dico il mondo ma certo la terra è l’uomo. È quindi contro le leggi costanti che possiamo notare osservate dalla natura che l’essere principale non possa godere la perfezione del suo essere ch’è la felicità, senza la quale anzi è grave l’istesso essere cioè esistere, mentre i subalterni e senza paragone di minor pregio possono tutto ciò, e lo conseguono. A questa altezza Leopardi è ancora persuaso dal teleologismo antropocentrico di matrice biblico-cristiana, più volte glorificato nelle varie Dissertazioni. Basandosi su nozioni e concetti desunti dalle Sacre Scritture, controbilancia l’infelicità e la noia dell’anima umana col dono della sua immortalità (Zib. 40). Questi passi possono essere annoverati tra le ultime attestazioni di una visione antropocentrica tradizionale nel pensiero del recanatese. Infatti l’abbozzata scenografia Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 45 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi priva di esseri umani in Zib. 55 coincide con l’aperta denuncia di un pregiudizio superbo e altezzoso: Vita tranquilla delle bestie nelle foreste, paesi deserti e sconosciuti ec. dove il corso della loro vita non si compie meno interamente colle sue vicende, operazioni, morte, successione di generazioni ec. perchè nessun uomo ne sia spettatore o disturbatore nè sanno nulla de’ casi del mondo perchè quello che noi crediamo del mondo è solamente degli uomini. Leopardi rievocherà il panorama appena descritto in uno dei progetti del 1819-20, quel «Poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (Dis. Lett. 1110), «che potrebbe richiamare un’opera tradotta nel 1805 e largamente diffusa in Italia in quegli anni: gli Amori delle Piante di Erasmus Darwin» (Polizzi 2008: 215). Le immense, incontaminate ed indefinite foreste, indubbia risorsa economica per la civiltà e il progresso umano, somministrano anche «infinita materia poetica» (Dis. Lett. 1110). Le selve, descritte alla maniera romantica di Chateaubriand, e gli animali che le popolano, sono infatti un modo per richiamare alla mente antichi miti e teriomorfismi, presi in considerazione già nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Attraverso un’indagine sugli «usi vari massime appresso i popoli lontani, selvaggi» (ibid.), questo disegno sarebbe potuto divenire un vero e proprio poema antropologico, nel quale, sulla scia del ragazzo selvaggio dell’Aveyron, «fingervi qualche famiglia umana non mai fatta partecipe del consorzio del mondo» (ibid.). Tuttavia Leopardi ipotizzava anche una seconda soluzione, che è appunto quella emersa in Zib. 55: «far uso di quello che detto ne’ miei Pensieri intorno alla vita degli animali e delle cose indipendente, dall’uomo e da quelli che noi chiamiamo avvenimenti, e che non lo sono se non per la nostra schiatta, e non già pel mondo, che non se n’avvede» (ibid.). L’apocalittico scenario di un mondo senza uomini sarà ridisegnato nel Dialogo tra due bestie p. e. un cavallo e un toro e nel Dialogo di un cavallo e un bue (18201821), ed infine realizzato nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (1824).11 In questi scritti, dopo essersi estinto, l’uomo – «una razza di animali» (OM 610) – sarà deriso dalle altre specie viventi a causa della propria arrogante posizione finalistica e antropocentrica, «conseguenza naturale dell’amor proprio» (Zib. 390). Nel Dialogo tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro l’autore concede agli animali un tipo di razionalità, che, a differenza di quella umana, è concorde con la natura e dunque non è causa Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 46 Andrea Paolella d’infelicità. Nonostante ogni animale creda che il mondo sia stato creato per la propria specie (cfr. Zib. 390 e 822), tale presunzione era – è – «la pazzia degli uomini» (OM 611). Questi abbozzi attestano il precoce antiantropocentrismo di Leopardi, il quale si avvale di numerose fonti antiche, come Plinio e in particolar modo Plutarco (cfr. Melani 1998: 92, n. 64). Del filosofo di Cheronea, ben conosciuto dal marchigiano, il De sollertia animalium (con il nome di Terrestria ne, an aquatilia animalia sint callidiora), ricorre tra le fonti del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (SeD 930), mentre il Bruta animalia ratione uti, sebbene non compaia mai esplicitamente nel corpus leopardiano, è recuperato all’interno della Crestomazia italiana de’ prosatori (1827) con i brani della Circe (1549) di Giovan Battista Gelli (1498-1563). Nell’antologia composta dal recanatese, lo scrittore fiorentino sembra vestire i panni di un materialista assertore della superiorità degli animali, quando in realtà il Gelli, in pieno clima controriformista, intendeva correggere l’originale indirizzo di Plutarco (sostenitore, se non proprio della superiorità degli animali, almeno di una sostanziale parità), riportandolo sui binari dello spiritualismo e dell’antropocentrismo (cfr. Melani 1998: 91-92). 5. Nonostante la critica e il conseguente abbandono di qualsiasi prospettiva antropocentrica, almeno fino al 1821 alla natura è apertamente attribuito un disegno: l’unico scopo che essa vuole conseguire è il proseguimento della vita stessa, indipendentemente dal destino avuto in sorte dal singolo individuo. A partire da questa concezione ancora debolmente provvidenzialistica, Leopardi definisce la natura «madre benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e specie che in esso si contengono, ma non degl’individui» (Zib. 1530). La morte è dunque un elemento indispensabile per la continuazione della vita, per quel «perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo» (OM 536). La caccia, sia ad opera dell’uomo sia degli altri animali (seppur con delle evidenti differenze), assume la fisionomia di un processo voluto dalla natura: È già notato che la morte serve alla vita, e che l’ordine naturale, è un cerchio di distruzione, e riproduzione, e di cangiamenti regolari e costanti quanto al tutto, ma non Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 47 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi quanto alle parti, le quali accidentalmente servono agli stessi fini ora in un modo ora in un altro. Quella quantità di uccelli che muore nella campagna coperta di neve, per mancanza di alimenti, la natura non l’ignora, ma ha i suoi fini in questa medesima distruzione, sebben ella non serva immediatamente a nessuno. Per lo contrario la distruzione degli animali che fanno gli uomini o altri animali alla caccia, serve immediatamente ai cacciatori, ed è un inconveniente accidentale, e una disgrazia per quei poveri animali; ma inconveniente relativo, e voluto dalla natura, che gli ha destinati per cibo ec. ad altri viventi più forti (Zib. 1531). Un poco alla volta questo finalismo vitalistico sarà svuotato da una visione della natura sempre più meccanicistica.12 Se nel Dialogo della Natura e di un Islandese quella «forma smisurata di donna seduta in terra» (OM 533), che personifica la Natura stessa, non ha più alcun interesse per la singola specie,13 già nel Dialogo della Natura e di un’Anima14 la Natura riconosce di esser «sottoposta al fato» (OM 513) e dunque ammette di non avere una propria volontà razionale ed ordinatrice. Un anno dopo circa, in Zib. 4130, richiamandosi esplicitamente al Dialogo della Natura e di un Islandese e al Cantico del gallo silvestre, Leopardi specifica le caratteristiche del “perpetuo circolo di produzione e distruzione”: la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura almen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione. Il recanatese specifica: «E ciò s’intenda di individui e di specie». Nelle Operette del 1824 e nei passi dello Zibaldone appena proposti, si può notare come quell’infelicità, che in Zib. 44 era ancora monopolio umano, sia diventata una sorte che accomuna tutti gli animali. Lo sguardo di Leopardi si estenderà fino a comprendere ogni essere vivente in quel capolavoro della scrittura che è il «giardino di piante, d’erbe, di fiori» (Zib. 4175-77), immagine poeticissima dello «istato di souffrance». Non si può allora che ribadire quanto affermato da Antonio Prete: la trama delle annotazioni leopardiane sembra seguire due movimenti: da una parte seminare di sospetti l’umanistica e teologica dignità dell’uomo signore della natura, dall’altra unificare l’orizzonte dei viventi non nel francescano respiro dei Fioretti, ma nello sguardo che s’interroga sull’enigma dell’infelicità e scruta le tracce d’una terra perduta verso la quale nessun ritorno è possibile (Prete 20063: 171). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 48 Andrea Paolella In questo panorama di sofferenza generale, bisogna tuttavia evidenziare alcune specificità che emergono dal confronto animale/uomo. Sempre durante il soggiorno bolognese del 1826, anno in cui è descritto il «vasto ospedale» di Zib. 4175-77, il recanatese compone Al conte Carlo Pepoli. Ancora una volta, in uno scenario di rassegnata sofferenza, gli animali, pur cercando al pari dell’uomo la felicità, trascorrono un’esistenza meno infelice della nostra: non afflitti dalla noia, per loro è «men gravoso il tempo» (v. 43). Una vita connessa alla natura produce infatti piaceri che l’uomo civilizzato non può più provare: la quiete in cui riescono a vivere gli animali viene avvertita come stato di noia dall’uomo moderno (Zib. 175; 4180; 4306), una riflessione che si riscontra anche nei Pensieri (P 640). Collegati direttamente all’argomento della noia sono i temi dell’incoscienza e dell’eterno presente degli animali. Essi affiorano per la prima volta in modo chiaro nel Bruto minore (1821), dove l’opposizione tra la beata ignoranza animale e la memoria che rende gli uomini infelici è riscontrabile nei versi 91-95. Se sull’incoscienza delle bestie Leopardi si era già soffermato in Zib. 69, pagina che sarà ripresa alla fine dell’estate del 1824 nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (OM 558), il tema dell’eterno presente degli animali emerge anche in un’altra operetta, l’Elogio degli uccelli, composta nell’autunno dello stesso anno. Mentre l’uomo è sottoposto all’incessante divenire del tempo, sia come individuo (che da un’infanzia immaginativa passa ad una maturità più razionale) sia come società (l’essere umano, da «una certa ignoranza come quella degli antichi» (Zib. 168), giunge all’eccessiva speculazione dei moderni), gli uccelli rimangono sempre uguali a se stessi, in una condizione paragonabile alla fanciullezza: L’impianto dell’intera celebrazione della vita che essi conducono e dei predicati che la costituiscono conduce direttamente a identificare quegli animali con una stagione, biologica e mentale, di cui essi non sono che il corrispettivo fisico, immobile ed eterno: la stagione della fanciullezza (Palumbo 2000: 68-69). Questo raffronto, di lucreziana memoria,15 era già stato annotato in Zib. 1725. Amelio, il filosofo neoplatonico protagonista dell’operetta, desidera «per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita» (OM 574). Il suo desiderio coincide col sogno «di muovere indietro le lancette della storia verso una fase arcaica che si colloca, in un luogo indefinito e Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 49 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi impreciso, tra natura e civiltà, una fase di meridiana “ragion poetica”» (D’Intino 2009: 62). Tutte queste tematiche, la noia, l’incoscienza e l’eterno presente degli animali ritorneranno nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. 6. In risposta alla condizione di sofferenza che accomuna e che lega, sebbene in maniera diversa, tutti gli esseri viventi, Leopardi congettura una «grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti» (Zib. 4280). In questa pagina del 1827, che rimanda esplicitamente alla Lettera a un giovane del XX secolo, celebre e controverso progetto del 1825 (Dis. Lett. 1111), il recanatese sembra supporre un futuro allargamento del processo di civilizzazione – e del linguaggio umano – agli altri animali, e in modo particolare alle scimmie. Sebbene non sia questa la sede opportuna per una discussione critica del passo, quella diga, innalzata dalla tradizionale visione antropocentrica, che separare l’uomo dagli altri animali, è stato ormai abbattuta dal riconoscimento leopardiano di una traboccante infelicità. La storia naturale di Leopardi è la ricerca della regione dove le moderne genealogie del sapere (antropologia, storia, biologia, politica) sono sopese e trattenute al di qua della loro costituzione in discipline, e sono trasposte sul registro, frammentario e irrisolto, della critica del moderno. La storia naturale non come dispiegamento lussuoso delle forme del vivente che invoca la classificazione, la comparazione, l’osservazione, offrendo solide rassicurazioni allo sguardo dell’uomo e conforme alla sua “substance spirituelle”, ma come pronunciamento d’una domanda inquietante che può insidiare la razionalità del patto sociale e disvelare la precarietà del soggetto (Prete 20063: 162). Forse il pensiero del pastore «erra dal vero» (Cant. Nott. 164, v. 139), quando invidia la beata sorte della sua greggia, creduta inconsapevole della propria miseria (cfr. ivi: v. 106): «forse in qual forma, in quale / stato che sia, dentro covile o cuna, / è funesto a chi nasce il dì natale» (ivi: vv. 141-143). Leopardi, «mirando all’altrui sorte» (ivi: v. 140), rielabora la differenza tra umano e non-umano a partire da sé, quindi dal punto di vista dell’uomo, per arrivare a ripensare l’uomo stesso in una prospettiva olistica, aperta cioè al confronto con l’alterità. Questa è la premessa al riconoscimento di un soggetto che non può dirsi in alcun modo assoluto e neutrale, ma che fino a quel momento è sempre stato interpretato esclusivamente da un punto di vista antropocentrico. Attraverso la maturazione della riflessione sulle relazioni instaurate tra umano e non-umano e in particolare tra uomo e natura, il recanatese lancia agli uomini un Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 50 Andrea Paolella appello di solidarietà non limitabile alla sola cerchia umana. L’essere umano, primus inter pares perché conscio di una condizione che lo accomuna non solo agli animali ma anche alle piante, deve prendersi cura dell’ambiente circostante, in quanto luogo del vivente e dunque ricovero del sofferente, dominato da una natura incosciente e amorale, incurante della sorte del singolo individuo o della singola specie. 1 Definita come «il tipico problema dell’epoca» (Venturi 1967: 9), la miccia che ne accese il dibattito fu la pubblicazione nel 1648 di un’operetta rimasta sino ad allora inedita e quasi sconosciuta, il Quod animalia bruta ratione utantur melius homine di Gerolamo Rorario, per iniziativa del bibliotecario di Richelieu e di Mazzarino, il libertino Gabriel Naudé (cfr. Gensini 2002-2003: 43-45). Per un approfondimento si veda anche Gensini, S., «Bruti o comunicatori? Modelli della mente e del linguaggio animale fra Cinque e Settecento», in E. Canone (a cura di), Per una storia del concetto di mente (pp. 193221), II, Firenze, Olschki, 2007. Infine Gensini, S. (a cura di), Fusco, M. (a cura di), Animal loquens. Linguaggio e conoscenza degli animali non umani da Aristotele a Chomsky. Roma, Carocci, 2010. 2 Molto probabilmente Guillaume-Hyacinthe Bougeant (1690-1743). La fonte di Leopardi in questo caso è G. Granelli (Leopardi 1995: 385). 3 Tutte le citazioni dei testi leopardiani sono tratte da (Leopardi 2010 B). L’abbreviazione VP indica i Versi puerili, DF le Dissertazioni filosofiche, SeD sta per Saggi e discorsi, mentre TP per Traduzioni poetiche ed infine Dis. Lett. per Disegni letterari. 4 Come si può osservare, Leopardi parafrasa alcune righe della favola I filosofi, e il cane contenute ne Il libro de’ Fanciulli. 5 Dovrebbe essere Mariano Gigli con l’Analisi delle idee ad uso della gioventù, Macerata 1808. 6 Se gli animali giungono al cannibalismo (Zib. 249), solo l’essere umano sviluppa un odio sistemato e calcolato per il proprio simile (Zib. 3791). 7 Si deduce che l’opera fu composta a partire dal 1831, in quanto si accenna alla sconfitta dei fiamminghi contro gli olandesi a Lovanio del 12 agosto 1831 (I, 4) e alla morte di Niebuhr avvenuta il 2 gennaio 1831 (VII, 2). 8 Le citazioni dei Paralipomeni della Batracomiomachia sono tratte da Leopardi 2010 B: 238-76. 9 Le citazioni de La ginestra, o il fiore del deserto sono tratte da (Leopardi 2010 B: 200-08). 10 «ἀλλ’ εἴ τοι χεῖρας ἔχον βόες 〈ἵπποι τ’〉 ἠὲ λέοντες […] ἢ γράψαι χείρεσσι καὶ ἔργα τελεῖν ἅπερ ἄνδρες, ἵπποι µέν θ’ ἵπποισι βόες δέ τε βουσὶν ὁµοίας καί 〈κε〉 θεῶν ἰδέας ἔγραφον καὶ σώµατ’ ἐποίουν τοιαῦθ’ οἷόν περ καὐτοὶ δέµας εἶχον 〈ἕκαστοι〉.» <http://ancientsource.daphnet.org> [17-01-2015]. 11 Tra gli scenari apocalittici possiamo menzionare anche quello descritto ne La ginestra, dove si può osservare l’amara sorte che accomuna tutti gli esseri viventi: il «villanello intento / ai vigneti» (vv. 24041), la serpe (v. 21), il coniglio (v. 23), gli armenti (v. 26), le formiche (v. 205), la capra (v. 227), il pipistrello (283), nonché la stessa ginestra, soccomberanno di fronte alla potenza del «sottorraneo foco» (v. 301) 12 Non è un caso ne La ginestra (1836) la natura sia definita «empia» (v. 148). 13 «E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei» (OM 535). Nei versi de La ginestra Leopardi spiega: «Non ha natura al seme / dell’uomo più stima o cura / che alla formica: e se più rara in quello / che nell’altra è la strage, / non avvien ciò d’altronde / fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde» (v. 231-236). 14 Ancora una volta, nel pieno di una concezione continuista priva di salti qualitativi, all’anima umana è assegnato un grado di perfezionamento più elevato rispetto a quella degli altri animali. È per questo motivo, cioè a causa delle proprie capacità razionali migliori, che l’anima umana è destinata ad aver coscienza della propria sofferenza, a differenza degli altri esseri viventi. 15 Nel V libro del De rerum natura (vv. 1028-33) affiora il della tradizione continuista che vede nell’infante, ancora incapace di parlare, il vero e proprio anello di congiunzione tra l’animale e l’uomo adulto. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 51 «mirando all’altrui sorte». Aspetti dell’animalità in Giacomo Leopardi Bibliografia Cellerino, L., L’io del topo. Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi. Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997. D’Intino, F., L’immagine della voce. Leopardi, Platone e il libro morale. Venezia, Marsilio, 2009. Gassendi, P., «Objectiones quintae eximio viro Renato Cartesio», in C. Adam & P. Tannery (publiées par), Oeuvres de Descartes (pp. 256-346), VII. Paris, Vrin, 1973. Gensini, S., «Linguaggio e anime ‘bestiali’ fra Cinque e Seicento», Studi filosofici (4) 25-26, 2002-2003: 43-68. Gensini, S., «Bruti o comunicatori? Modelli della mente e del linguaggio animale fra Cinque e Settecento», in E. Canone (a cura di), Per una storia del concetto di mente (pp. 193-221), II, Firenze, Olschki, 2007. Gensini, S. (a cura di), Fusco, M. (a cura di), Animal loquens. Linguaggio e conoscenza degli animali non umani da Aristotele a Chomsky. Roma, Carocci, 2010. Leopardi, G., Dissertazioni filosofiche, T. Crivelli (a cura di). 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Mentre nella prima parte del saggio vorrei dimostrare che il biocentrismo percorre la riflessione leopardiana dalla giovinezza alla maturità, nella seconda parte propongo un’analisi del rapporto tra l’alleanza degli esseri intelligenti a cui Leopardi fa appello in Zib. 4279-80 e la sua resa poetica nella Ginestra. Mi sembra infatti che in questi testi la filosofia leopardiana superi l’anti-antropocentrismo per abbracciare intuitivamente alcuni concetti e alcune idee che saranno fatti propri dal pensiero postumano contemporaneo, formulato da Donna Haraway, Karen Barad e Roberto Marchesini. Parte I 1. «Un giovin cuore» nella natura Durante gli anni 1809-1812, la sensibilità per il mondo della natura cresceva in diverse forme nel giovane Leopardi.1 Egli si avvicinava all’universo animale attraverso la tradizione delle favole esopiche, componimenti poetici a carattere teriomorfo e fine moralistico, con allegorie riferibili al mondo umano, cui sarebbe ritornato molti anni più tardi e con una ben diversa maturità filosofica nei Paralipomeni.2 Nella favola I Fringuelli, gli uccelli che finiscono imprigionati nella rete tesa dal cacciatore insegnano che «Talun sotto modesto, e vago aspetto / mortifero veleno asconde in petto» (TT 360).3 Analogamente, il dialogo tra il giglio, che si lamenta perché le api gli preferiscono le rose, e il serpillo, che gli spiega come il suo succo sia Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 54 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura molto meno dolce, ammonisce che «Con aspri modi, e ruvidi / male s’ottien l’intento» (La Rosa, il Giglio, e il Serpillo, Ibid.). Oppure, l’asino che si copre della pelle di leone per far paura agli altri animali, ma finisce per essere incornato da una pecora impara che «Chi vuò far quel che non deve / beffe sol da ognun riceve» (L’Asino, e la Pecora, TT 332). Ma non si tratta solo di favole a intento moralizzante. Ne L’Ucello è celebrato un istinto di libertà affine alla sensibilità del giovane poeta; nella traduzione dal francese Dialogo tra il passeggero e la tortora, il dolore lamentato dalla «tortorella» per la perdita dell’«amica [sua] fedele» è mortale quanto l’arma del cacciatore (TT 288). Siamo già in un momento diverso rispetto al precedente: qui il sentire dell’uomo e quello dell’animale in qualche modo si sovrappongono e si equivalgono. Il giovane Leopardi traduce perfino l’epitaffio ad una cagnolina (TT 386) che si dice uccisa dall’invidiosa Diana perché più bella dei suoi cani. Polizzi, che offre un’estesa e interessante analisi del dolore dell’asino nel poemetto Il Balaamo, compendia osservando che il testo è esemplare di «un’inequivoca partecipazione alla sofferenza del mondo animale» (2008: 213). Un’ulteriore segnale di interesse per questa prospettiva si legge nella favola I Filosofi, e il Cane, che formula scherzosamente un motivo assai serio, subito dopo affrontato scientificamente nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie del 1811.4 Qui il tredicenne Leopardi si allontana significativamente dall’idea cartesiana dell’animale macchina per concordare incondizionatamente con chi riconosce agli animali alcune qualità cognitive: «sembrami di poter concludere con sicurezza, che la sentenza, la quale afferma esser l’anima dei Bruti uno spirito dotato di senso, di libertà, e di un qualche lieve barlume di ragione è certamente più probabile di ogni altra» (TT 679). Colpisce in particolar modo l’attenzione al sentire degli animali, al dolore che fa di mente e corpo una cosa sola, come testimoniano il «duolo» del leone che, salvato da un «Cavaliere», segue la nave che lo porta via «fino a sparire sopraffatto dalle onde», i «pietosi latrati, che un cane prova se si percuota», i «palpiti, i gemiti, le strida di un pulcino rapito dall’adunco artiglio di un nibbio» (TT 677). L’avvicinamento di Leopardi all’alterità non riguarda soltanto il mondo animale, suggerito in questi esempi dalla sua particolare simpatia per gli uccelli, che saranno poi celebrati nell’Elogio delle Operette morali come «le più liete creature del Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 55 Cosetta Veronese mondo» (TT 571) e rappresentati nei Canti dal Passero solitario, alter ego del poeta.5 Con altrettanta attenzione e stupore il giovane Leopardi guarda al paesaggio: fiori e piante. Nell’arco di poco più di un decennio da queste testimonianze l’«ameno poggio / d’alberi ornato» de I Fringuelli e il «giardino fertile / di verdi erbette», profumato dalla rosa purpurea e abbellito dal candore del giglio in La Rosa, il Giglio, e il Serpillo, subiranno una metamorfosi: nella famosa pagina dello Zibaldone scritta a Bologna il 22 aprile 1826 il «giardino di piante, d’erbe, di fiori» confesserà di essere, pur superficialmente ridente, di fatto un luogo di souffrance. 2. Viti, messi, pomi, lucciole Prima di considerare le riflessioni zibaldoniche e la scrittura poetica più matura desidero sottolineare come l’apertura di Leopardi al non-umano trovi voce non solo nella riflessione filosofica dell’adolescenza o nei prestiti da una tradizione letteraria codificata, ma attinga a un’empatia viscerale, istintiva per il mondo senziente. Lo confermano i cosiddetti Ricordi d’infanzia e di adolescenza, la cui stesura immediata, di getto, testimoniata dalla sintassi sincopata, frammentaria e dall’irregolare punteggiatura, avalla ulteriormente, se fosse necessario, la spontaneità dell’ispirazione e della scrittura. Lo fa perché, come nota Antonietta Terzoli (2004: 107), il testo offre «l’emozione singolare […] di un’intimità sorpresa dallo sguardo di un lettore non previsto e non voluto». I Ricordi propongono due volte una similitudine botanica per descrivere il dolore provocato in Leopardi dalla notizia della morte di un giovane. Il primo riferimento, a un certo Benedetto – il cugino del padre, Benedetto Mosca, poco più grande di Giacomo – induce Leopardi a confrontarne la morte con la violenza operata su un vitigno o un campo di grano: «mio dolore in veder morire i giovani come a veder bastonare una vite carica d’uve immature ec. una messe ec. calpestare ec. (in proposito di Benedetto)» (TT 1104). Poco oltre ritorna lo stesso motivo, questa volta in termini più generali: «mi duole veder morire un giovane come segare una messe verde verde o sbattere giù da un albero i pomi bianchi ed acerbi» (TT 1105). Qui l’autore non dà la parola al soggetto non-umano (come avviene invece nel Dialogo tra il passeggere e la tortora), allinea però la compassione per la morte prematura dell’uomo a quella per la violenza inflitta alle piante. Di fatto l’autore trasferisce al soggetto non-umano il suo Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 56 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura sentire, in una posizione che rimane essenzialmente antropocentrata. Analogamente al desiderio di libertà cantato dall’«amabile augelletto» ma condiviso dal poeta nella favola L’Ucello, le spighe e i frutti, percossi, calpestati e tranciati prima del tempo della vendemmia, della mietitura e della maturazione soffrono come un giovane che perde la vita nel fiore degli anni. La riflessione innesca un cortocircuito di ricordi che divengono metafore di devastazione e di precaria sopravvivenza attraverso l’immagine della candela e, quindi, della lucciola. Osserviamo infatti come prosegue il testo dopo ciascuna delle similitudini sopra citate: (nello stesso proposito) allora mi parve la vita umana (in veder troncate tante speranze ec.) come quando essendo fanciullo io era menato a casa di qualcuno per visita ec. che coi ragazzini che v’erano intavolava ec. cominciava ec. e quando i genitori sorgevano e mi chiamavano ec. mi si stringeva il cuore ma bisognava partire lasciando l’opera tal quale né più né meno a mezzo e le sedie ec. sparpagliate e i ragazzini afflitti ec. come se non ci avessi pensato mai così che la nostra esistenza mi parve veram. un nulla, a veder la facilità infinita di morire e i tanti pericoli ec. ec. mi par da dirsi piuttosto caso il nostro continuare a vivere che quegli accidenti che ci fanno morire come una facella messa all’aria inquieta che ondeggia ec. e sul cui lume nessuno farebbe un minimo fondamento ed è un miracolo se non si spegne e ad ogni modo gli è destinato e certo di spegnersi al suo finire (TT 1104). giardino presso alla casa del guardiano, io era malinconichiss. e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. due giovanotti sulla gradinata della chiesa abbandonata ec. erbosa ec. sedevano scherzando sotto al lanternone ec. si sballottavano ec. comparisce la prima lucciola ch’io vedessi in quell’anno ec. uno dei due s’alza gli va addosso ec. io domandava fra me misericordia alla poverella l’esortava ad alzarsi ec. ma la colpì e gittò a terra e tornò all’altro ec. intanto la figlia del cocchiere ec. alzandosi da cena e affacciatasi alla finestra per lavare un piattello nel tornare dice a quei dentro – stanotte piove da vero. Se vedeste che tempo. Nero come un cappello. – e poco dopo sparisce il lume di quella finestra ec. intanto la lucciola era risorta ec. avrei voluto ec. ma quegli se n’accorse tornò – porca buzzarona – un’altra botta la fa cadere già debole com’era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec. e poi ec. finchè la cancella (TT 1105). L’abbondanza di «ec.», cioè di forme dell’eccedenza (cfr. a proposito Cori 2013), suggerisce la pressione emotiva dei ricordi, l’urgenza di registrare gli elementi chiave della storia disseminando il racconto di segnali di omissioni che, a una rilettura, ne avrebbero consentito il completamento e lo sviluppo. Se da un lato la pressione dei ricordi impone un’accelerazione alla scrittura, dall’altro per il lettore si allarga lo spazio interpretativo, aumentando però anche il rischio di errore (Terzoli 2004: 108). Vediamo comunque quello che suggeriscono i due frammenti appena riportati. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 57 Cosetta Veronese Sembrano essere sottesi dalle medesime metafore: la vita come gioco e come luce. Il gioco interrotto è la vita spezzata nel momento più bello: la giovinezza. Il paesaggio in disordine («le sedie ec. sparpagliate») e lo stato di desolazione («i ragazzini afflitti») fanno pensare a un campo di battaglia: Leopardi non a caso ricorda la «facilità infinita di morire», i «tanti pericoli», la casualità del «nostro continuare a vivere» in mezzo a tanti «accidenti». L’immagine, già shakespeariana, della vita come «facella messa all’aria inquieta che ondeggia»,6 su cui nessuno scommetterebbe, ma che miracolosamente mantiene il suo debole fuoco pur «destinato e certo di spegnersi al suo finire» si ripropone nel secondo frammento di testo (che segue poco più oltre di una pagina) incarnandosi nel racconto della lucciola. Questo è quasi una mise-en-abyme del pezzo precedente: la storia di un gioco che si trasforma in guerra, e dove la luce soccombe. Qui il paesaggio serotino è alimentato dalla luce artificiale del «lanternone» che contrasta con il cielo foriero di temporale: «Nero come un cappello». L’unica luce vera e viva sembra essere la lucciola – creatura delicata e fragile contro cui, per gioco, si scaglia uno dei ragazzi. Si nota però una strana coincidenza. Tra il primo attacco alla lucciola e il suo debole, miracoloso risorgere interviene una figura femminile, la figlia del cocchiere, che si affaccia alla finestra per lavare il piatto della cena e si rivolge ai famigliari annunciando l’imminenza del temporale. Lo scomparire della ragazza che rientra in casa è segnalato come lo ‘sparire di una luce’ («sparisce il lume di quella finestra») a cui fa immediatamente seguito il faticoso risollevarsi della lucciola («intanto la lucciola era risorta»). Questa però, attaccata una seconda volta, soccombe, diventa un’effimera «striscia di luce fra la polvere» che in un attimo si cancella. Leopardi crea intuitivamente un parallelismo tra la fragile esistenza della lucciola e quella della figlia del cocchiere, storicamente Teresa Fattorini che, nei Canti, si sdoppierà nelle due figure attigue di Silvia e Nerina (non a caso la lucciola ritorna nelle Ricordanze, v. 14). La «figlia del cocchiere» fa una breve comparsa alla finestra da cui poi, con il suo andarsene, «sparisce il lume». Segue immediatamente la luce, già fievole, della lucciola, che viene subito schiacciata violentemente. Leopardi nutre per la lucciola la stessa compassione che prova per l’uva, il grano e il melo, e per chi muore prima di aver completato la sua crescita. «[I]o domandava fra me misericordia alla poverella» e aggiunge «avrei voluto ec.». L’eccetera tronca il racconto segnalando un’eccedenza del patire, un sentimento di compassione che supera la possibilità Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 58 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura espressiva immediata perché necessita del passaggio emotivo e scrittorio assicurato dalla creazione artistica. L’esperienza registrata nei Ricordi raccoglie infatti frammenti di storia che diventeranno poesia. Benedetto Mosca, l’uva, la messe e le mele immature, la lucciola, come poi Silvia e Nerina e la giovane morta ritratta sul bassorilievo sepolcrale, sono tutte facelle che ondeggiano nell’aria inquieta dove sta per scoppiare il temporale che le farà spegnere. 3. L’essere non unico Significativamente il temporale è manifestazione della stessa natura in cui vivono le creature sofferenti (si pensi a La quiete dopo la tempesta). Per ora tuttavia (siamo nel 1819) è uno di quei tanti «accidenti» che, pur contrari alla benevolenza della natura, non la rendono ciecamente ostile al vivente;7 perché la natura, nella sua totalità, abbraccia quelle che a noi paiono – ma non lo sono – contraddizioni. Non lo sono per il fatto che, mentre noi applichiamo criteri assoluti di giudizio, che sono poi parametri morali, le manifestazioni della natura mostrano di essere informate al principio della relatività, a cui gli assoluti e il dualismo cartesiano risultano estranei. Sarà qui necessario comprimere la progressione e contenere le diramazioni del pensiero leopardiano, per offrire una sintesi di come esso si sviluppi in direzione anti-antropocentrica e predarwiniana. È vero che nella Dissertazione sopra l’anima delle bestie Leopardi polemizzava contro radicalisti come Maupertuis, secondo cui gli animali, razionali al pari dell’uomo, beneficierebbero dell’immoralità, giudicando questo punto di vista «contrario alla retta Filosofia, al parer de’ Sapienti, ed a’ santi Dogmi della Cattolica Religione» (TT 679). Nel frattempo, tuttavia, egli ha percorso un lungo tragitto filosofico, che lo ha portato a riflettere su due importanti elementi: il rapporto che lega lo sviluppo scientifico al pensiero sociale, e la totale decostruzione e ricomposizione epistemologica del rapporto tra uomo e mondo. Lo rivela in un pensiero scritto molto probabilmente a ridosso della fallita fuga da Recanati nell’estate del 1819: Una prova in mille di quanto influiscano i sistemi puram. fisici sugl’intellettuali e metafisici, è quello di Copernico che al pensatore rinnuova interam. l’idea della natura e dell’uomo concepita e naturale per l’antico sistema detto tolemaico, rivela una pluralità di mondi mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocaz. il moto e il destino della terra, ed apre un immenso campo di riflessioni, sopra l’infinità delle creature che secondo tutte le leggi d’analogia debbono abitare gli altri globi in tutto Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 59 Cosetta Veronese analoghi al nostro, e quelli anche che saranno benchè non ci appariscano intorno agli altri soli cioè le stelle, abbassa l’idea dell’uomo, e la sublima, scuopre nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’esser nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato ec. ec. (Zib. 84). Se non per la conclusione, che allude – ma attraverso il segno di omissione «ec. ec» – , a una visione finalistica e ancora religiosa del cosmo, l’universo descritto da Leopardi non differisce da quello presentato, poco più di cinque anni più tardi, in quello che è uno dei suoi testi più oltranzisti da un punto di vista materialistico: il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco. Se da un lato l’abbassamento dell’idea dell’uomo è controbilanciato da una prospettiva ancora antropocentrata, riproposta in Zib. 106-7, secondo la quale la capacità di concepire il nulla o l’infinito, qualcosa di infinitamente superiore a sé, è una misura della grandezza umana, dall’altro Leopardi fa riferimento alle «leggi d’analogia», criterio logico e scientifico di derivazione dell’ignoto dal noto, e pertanto metodo radicalmente immanente.8 Questo metodo, che parte dalla concretezza della realtà, dal sentire delle cose, conduce Leopardi, che a questa altezza considera ancora la storia dell’umanità come un processo di involuzione da uno stato di felicità a uno di infelicità, a ritenere il raffinamento della ragione e del pensiero come l’origine dei mali dell’uomo. L’uomo primitivo, il bambino, e l’incolto credono a ciò cui noi abbiamo rinunciato a credere: affinando la ragione ci siamo allontanati dalla natura e mossi verso un sapere che ci ha privato di felicità. La presunzione umanistica che ha sbandierato la ragione come lo strumento necessario per il completamento dell’uomo, la ‘marcia in più’ dell’antroposfera sulla teriosfera,9 è una posizione che Leopardi rovescia definendo l’uomo «l’infimo ente nell’ordine delle cose terrestri» (Zib. 418). La ragione, che per secoli era stata considerata l’elemento straniante, l’eccezione che permetteva all’uomo di allontanarsi dai bruti per elevarsi al di sopra dell’istinto che li rendeva prigionieri, non è più una componente differenziale (Marchesini 2002). Dice infatti esplicitamente Leopardi in un pensiero del 22 dicembre 1820: è un vero acciecamento il dire che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli bisogna per esistere: l’uomo no: e dedurne ch’egli dunque ha bisogno di ammaestramento, di società ec. insomma ch’egli esce imperfetto dalle mani della natura, e conviene che si perfezioni da se. Anche l’uomo aveva naturalmente tutto il necessario; se ora non sente più d’averlo, viene che l’ha perduto; ha perduto la perfezione volendosi perfezionare, e quindi alterandosi e guastandosi (Zib. 441). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 60 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura Osserva Paolillo che Leopardi ricorre con frequenza al sintagma «gli uomini e gli altri animali» (2000: 281-82). Per Leopardi quindi l’uomo è dentro il sistema della natura; non ne costituisce affatto un’eccezione.10 Rovesciando un’opinione diffusa Leopardi considera la ragione il principio fondante la contiguità e continuità (e non divaricazione) uomo-animale. Lo stesso vale per l’istinto che, viceversa, era tenuto per il motore del comportamento delle bestie (Zib. 439-40). Gli uomini e gli animali dunque sono entrambi dotati di ragione e d’istinto, che Leopardi chiama «amor proprio» («l’amor proprio […] è […] primissimo ed essenziale principio e perno di tutta quanta la macchina naturale», Zib. 1458;11 «[l]’amor proprio […] quella cosa che abbiamo affatto comune coi bruti», Zib. 180).12 Di fatto, nella riflessione antropologica all’interno dello Zibaldone il confronto antroposfera-teriosfera sembra essere continuo, strutturale, insito nel pensiero dell’autore e nella scrittura del testo. Nell’agosto del 1820 dopo aver osservato che la violabilità del proprio simile è comune all’uomo e agli altri animali («anche il leone combatte col leone, e il toro col toro per li suoi diletti e vantaggi»), Leopardi nota che lo stesso è vero per «la facoltà di compatire. […] non è già propria del solo uomo». Lo dimostrano esempi come la carità di un cane verso un altro suo simile, e la protettività degli uccelli nei confronti dei propri piccoli. Poco oltre, riferendosi evidentemente alla teriosfera, Leopardi aggiunge che: «Il rubare l’altrui non ripugna assolutam. alla natura» (Zib. 210). Come in una partita di tennis, però, il pensiero rimbalza nuovamente dagli animali all’uomo: «Costume degli Spartani». Per associazione di idee, Sparta gli fa pensare al mondo antico con le sue leggi e la sua società, diversissime dalle moderne. Nasce così un ulteriore confronto: «La società non è già propria del solo uomo», come dimostrano le formiche e le api. Leopardi vede nell’assuefazione (per esempio, Zib. 1456; 1764; 3974), nell’interesse e nella cura per i propri simili (Zib. 1823-24), ma anche nella corruttibilità (Zib. 1960-61; 3794-98) ulteriori punti di convergenza tra uomini e animali. Ancora una volta però il paragone gioca a discapito dell’uomo: la sua capacità di odio e crudeltà, aumentata con il progredire della civiltà, supera quella di qualsiasi animale, che uccide solo per necessità di sopravvivenza (Zib. 3794). Improvvisamente, in data 9 aprile 1825, Leopardi compie un passo estremo: ci troviamo di fronte a una sovrapposizione, qualcosa che potremmo chiamare un’unificazione identitaria. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 61 Cosetta Veronese 4. Un sentire condiviso Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio p. essi il non essere che l’essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. […]. Gli enti sensibili sono p. natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dello universo. Poichè essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all’ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa loro necessità è un’imperfezione della natura, e dell’ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance [ultimi quattro corsivi nel testo] d’una menoma parte della natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata un’imperfezione. Almeno ella è piccoliss. e quasi un menomo neo nella natura universale nell’ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perchè grande p. valore se minima p. estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all’andamento del mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono p. necessità souffrants [corsivo nel testo], e tanto più sempre, quanto più sensibili. Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà e dignità nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose (Zib. 4133-34). Animali ed esseri sensibili – in altre parole il mondo senziente, di cui fanno parte tutte le creature viventi – sanno di vivere perché sentono, e ciò che sentono è souffrance. Per ogni creatura che vive (umana e non), sentire e soffrire sono dunque una cosa sola. Questa linea di pensiero sgretola la visione complessivamente armoniosa dell’organismo della natura come sistema vivente con cui l’uomo deve entrare in simbiosi caratteristico di certo romanticismo europeo.13 Si crea uno iato violento all’interno dell’organismo della natura, che si spezza in due: da un lato una forza cieca, autocontraddittoria, regolata da processi deterministici inalienabili e inintellegibili agli esseri intelligenti, dall’altro «la materia che sente e pensa» (cfr. nota 8), il mondo senziente (umano, animale o vegetale) i cui processi di nascita e morte costituiscono uno dei meccanismi attraverso cui il sistema si perpetua. L’interrogativo che affligge Leopardi perché, da un punto di vista logico, si giustifica soltanto considerando che il Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 62 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura mondo e l’esistenza costituiscono un assurdo, è la strettoia dolorosa della vita rispetto all’ininterrotto desiderio di piacere che accompagna le creature viventi dalla nascita alla morte («L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità», Zib. 165).14 Un anno più tardi rispetto al pensiero citato in apertura, il 22 aprile del 1826, nella nota pagina sul giardino dolente (Zib. 4175-77), Leopardi, quasi con il microscopio, si avvicina alla vera vita delle piante e dei fiori. Il diffuso «patimento» nel giardino «pur quanto volete ridente» lo trasforma «quasi [in] un vasto ospedale». Se da un lato, senza accorgersene, Leopardi sta descrivendo un processo epigenetico di interazione tra soggetto e ambiente che sarà codificato da Darwin (Marchesini 2002: 93104),15 dall’altro lato è pur vero che in tutte le pagine citate la natura senziente è antropomorifizzata, in quanto sente e soffre come gli umani. Leopardi non è (né potrebbe esserlo) completamente fuori da una visione ancora umanistica, cioè focalizzata sull’uomo che proietta per analogia il suo sentire sugli altri esseri viventi. L’alterità per Leopardi non è l’animale o la pianta, bensì la magnificenza spaventevole e sublime dell’universo, lo stordimento e la vertigine dell’infinita possibilità del male («Chi può conoscere i limiti della possibilità?», Zib. 4174). Leopardi riconosce una proporzione tra la quantità e la qualità delle manifestazioni dell’universo, di cui gli esseri senzienti sono «un menomo neo nella natura universale nell’ordine ed esistenza del gran tutto». Il dolore è un’imperfezione nell’universo solo dalla prospettiva degli esseri senzienti, per i quali la consapevolezza di esistere nasce dal dolore, che pertanto rende il non essere meglio dell’essere. Direi che con questo pensiero, il punto di vista di Leopardi si fa marcatamente biocentrico e si avvicina alla contemporanea preoccupazione per il benessere del pianeta e del mondo non-umano. Non è un caso che Polizzi, il quale ha coniato per Leopardi il termine di «anti-umanesimo critico» (2008: 217), aveva già osservato in uno studio precedente che la sua visione: ci appare oggi molto vicina, nel segno di un superamento possibile del meccanicismo newtoniano in direzione di una ‘scienza della complessità’, che ritiene di poter integrare parametri altamente instabili e variabili quali quelli dei fenomeni naturali più comuni tramite un apparato matematico a carattere statistico, al fine di avvicinare il ‘sistema della natura’ al ‘sistema dell’uomo’ (2003: 69). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 63 Cosetta Veronese Parte II 5. Nuove alleanze Se l’interrogazione ontologica di Leopardi aveva ormai raggiunto la conclusione ferma dell’insignificanza del dolore dell’universo, la ricerca della sue soluzioni incomincia a maturare nella sua riflessione a partire dal 1825. In un elenco di progetti concepiti in quell’anno infatti si legge: «Problemi proposti al 20º secolo. Lettera a un giovane del 20º secolo» (TT 1111). Più tardi, il 13 aprile 1827, a distanza di un anno dal ritratto del giardino in souffrance, Leopardi ritorna su questo progetto letterario. Argomentando dal punto di vista che abbiamo definito biocentrico, cioè dell’unione tra uomini e altre creature viventi, Leopardi scrive nello Zibaldone un pensiero tanto affascinante quanto, per molti aspetti, misterioso: Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti. Può servire p. la Lettera a un giovane del 20° secolo (Zib. 4279-80, corsivo nel testo). Questo pensiero si presta a diverse e conflittuali interpretazioni. «Civilizzazione» è nel pensiero leopardiano un processo di corruzione e allontanamento della natura che può condurre alla guerra (Zib. 4185). Tuttavia è, al tempo stesso, un processo ormai irreversibile, senza possibilità di ritorno. Leopardi stesso, in fondo, si riconosce suo malgrado all’interno di questo processo, e lo fa, come dimostra Claudio Colaiacomo, attraverso una riflessione sul transeunte che lo pone sulla soglia della nostra modernità.16 Se Leopardi è, come aveva avvertito Sainte-Beuve, «un Ancient venu trop tard» (Rigoni 1994: 47-48), si potrebbe anche chiamare, come suggerisce Colaiacomo, ‘il primo dei moderni’, o addirittura, come mi piacerebbe proporre in questa sede, ‘un pioniere dei postumanisti’. L’idea della propagazione spazio-temporale che abbatte o supera qualsiasi soglia («tende naturalmente a propagarsi, […] e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine») affonda nell’idea del continuo fluire del tempo, dello scambio e della perdita che operano i passaggi di civiltà, e le mutazioni della storia. Al di là della Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 64 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura connotazione antropologicamente pessimistica che assume il pensiero sul succedersi delle civiltà (vedi La sera del dì di festa, vv. 30-39, e soprattutto l’ultima strofa della Ginestra, in particolare vv. 289-96) non siamo lontani dall’idea di «intra-relationship», definita dalla fisica Karen Barad (2007). Il termine differisce dal comune «interazione» in quanto sottolinea l’ininterrotto divenire e farsi del soggetto mediante il contatto con l’alterità e l’eteroreferenza, in altre parole il processo di ibridazione e «meticciamento» (il termine è di Marchesini 2002) che si realizza nel vivere e operare dell’uomo nel mondo (con animali, piante, tecnologia), e dunque nella storia. Si noti che la riflessione leopardiana in questo pensiero è ipotetica e aperta («congetture», «futuro», «a lungo andare») anche se muove da un’epistemologia dicotomica e antropocentrica ancora tipica dell’umanesimo («uomini civili» vs «nazioni o barbare o selvagge»; «bruti» e «scimmie» vs «uomini»; «ferocia» vs ‘mansuetudine’). Eppure da questa posizione ancora tradizionale Leopardi si prepara non solo a un incontro imprevedibile e sconosciuto («nuove conquiste»), ma addirittura a una «grande alleanza degli esseri intelligenti» che comprende proprio gli animali, sebbene considerati nella loro specie più evoluta. Leopardi sembra così fare appello a quella che la biologa Donna Harraway (2008) chiama «companionship», un concetto che definisce nel senso letterale di ‘condivisione del pane’ (cum-pani), e che più propriamente allude all’‘amicizia’ e alla ‘compagnia’ tra gli esseri umani e le altre specie. A Leopardi, l’idea della «companionship» con le scimmie non viene da lontano. Già in numerosi pensieri precedenti ne aveva messo in rilievo l’affinità con gli uomini in virtù della facoltà imitativa. Leopardi, che la considera «una delle principali parti dell’ingegno umano» (Zib. 1364) e la riconosce in se stesso, chiama subito dopo in causa proprio le scimmie: «Il più ingegnoso degli animali, e più simile all’uomo, la scimia, è insigne per la sua facoltà e tendenza imitativa. Questa principalmente caratterizza e distingue il suo ingegno da quello delle altre bestie» (Zib. 1365). Nel pensiero sulla Lettera a un giovane del 20° secolo, però, il concetto dell’alleanza con questi particolari animali potrebbe essere venuto a Leopardi per associazione di idee con le riflessioni di un autore a lui molto caro, Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, da lui citato poche pagine prima. Alla fine di una lunga riflessione datata 30 marzo 1827 in cui convergono molti elementi costanti del suo pensiero (la polemica contro la ragione, il confronto tra antichi e moderni, la fugacità della storia, e la natura effimera Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 65 Cosetta Veronese del moderno), Leopardi cita dal Discours de réception à l’Académie française (1753) per polemizzare contro la frettolosità delle pubblicazioni, la cui raffinatezza di stampa e formato è inversamente proporzionale alla qualità di contenuto e stile (Zib. 4268-71). Risulta chiaro in queste pagine che Leopardi sta pensando al futuro (al Ventesimo secolo?): alle sue premesse contemporanee e alle sue possibilità di sviluppo. 6. L’incontro delle specie intelligenti: uomini e scimmie da Buffon a Leopardi Buffon è un autore amato da Leopardi, e che egli ebbe la possibilità di frequentare sin dalla prima giovinezza, essendone stata l’opera maggiore (Histoire naturelle) un dono dello zio Pier Niccolò (Benucci 2002: 166).17 Questo lavoro del conte di Buffon potrebbe offrire il legame nascosto con l’appunto per la Lettera a un giovane del 20° secolo. Esistono infatti significative intersezioni tra il pensiero leopardiano a questa altezza e la riflessione condotta dallo scienziato francese nel primo paragrafo del volume XIV della sua storia naturale, quello dedicato alle scimmie. Qui dopo aver cercato di chiarire le difficoltà terminologiche nella catalogazione di alcune specie animali come «quadrupedi» (non lo sono le scimmie né gli uccelli, ma il termine è impreciso anche per animali che hanno gli arti forcuti come le capre) l’autore si interroga sulle ragioni di questa insufficiente approssimazione del linguaggio umano: Mais par quelle raison ces termes généraux, qui paroissent être le chef-d’œuvre de la pensée, sont-ils si défectueux ? pourquoi ces définitions qui semblent n’être que les purs résultats de la combinaison des êtres, sont-elles si fautives dans l’application ? est-ce erreur nécessaire, défaut de rectitude dans l’esprit humain ? ou plutôt n’est-ce pas simple incapacité, pure impuissance de combiner & même de voir à la fois un grand nombre de choses ? (Buffon XIV, 21-22). Oltre all’incapacità umana di vedere con un colpo d’occhio («à la fois») le relazioni tra le cose (principio fondante la conoscenza, come dice Leopardi alla pagina 1833-39 del suo diario),18 la riflessione di Buffon esprime uno stupore e una meraviglia di fronte alla potenza della natura che, presente nel Leopardi adolescente, evocato nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, sarà ribadito nella Ginestra. Il confronto uomo-natura è impari. Lo spirito umano per quanto attivo e colto non potrà mai marciare di pari passo alla natura: «voyons si l’esprit, quelqu’actif, quelqu’étendu qu’il soit, peut aller de pair & suivre la même marche, sans se perdre lui- Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 66 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura même ou dans l’immensité de l’espace, ou dans les ténèbres du temps, ou dans le nombre infini de la combinaison des êtres» (Buffon XIV, 22). Il pensiero dell’uomo può solo procedere linearmente, evitando qualsiasi sbandamento, altrimenti si perde. Il pensiero umano conosce una sola dimensione: quella della lunghezza. La natura invece abbraccia a ogni passo tutte le dimensioni possibili: la Nature au contraire ne fait pas un seul pas qui ne soit en tout sens ; en marchant en avant, elle s’étend à côté & s’élève au-dessus ; elle parcourt et remplit à la fois les trois dimensions ; & tandis que l’homme n’atteint qu’un point, elle arrive au solide, en embrasse le volume & pénètre la masse dans toutes leurs parties (Buffon XVI, 22-23). I nostri sensi toccano la superficie delle cose; incapaci di penetrare la materia la sfiorano soltanto. Eppure uno solo rimane il principio che informa e unisce tra loro le creature viventi nella loro multiforme varietà. La legge dell’analogia (già precedentemente chiamata in causa da Leopardi stesso), rivela una linea di continuità che unisce i molluschi all’uomo. Vale la pena citare il passo per esteso: [l’homme] a reconnu tous les dehors de la Nature, & ne pouvant en pénétrer l’intérieur par les sens, il l’a deviné par comparaison & jugé par analogie ; il a trouvé qu’il existoit dans la matière une force générale, [...] que la Nature emploie comme son agent universel ; [...] que cette force ou plutôt son action s’étendoit à des distances immenses, en décroissant comme les espaces augmentent ; [...] qu’un moule une fois formé doit, par ces mêmes loix d’affinité, en produire d’autres tout semblables, […]. Combinant ensuite ces caractères communs, ces attributs égaux de la Nature vivante & végétante, il a reconnu qu’il existoit & dans l’une & dans l’autre, un fonds inépuisable & toujours réversible de substance organique & vivante ; [...] substance permanente à jamais dans son état de vie, comme l’autre dans son état de mort ; substance universellement répandue, qui, passant des végétaux aux animaux par la voie de la nutrition, retournant des animaux aux végétaux par celle de la putréfaction, circule incessamment pour animer les êtres : [...] & réfléchissant sur la manière [...] il a reconnu que chaque être vivant est un moule auquel s’assimilent les substances dont il se nourrit ; [...] Il a reconnu que l’homme, le quadrupède, le cétacée, l’oiseau, le reptile, l’insecte, l’arbre, la plante, l’herbe, se nourrissent, se développent & se reproduisent par cette même loi ; [...] prenant son corps pour le module physique de tous les êtres vivans, [...] il a vu que la forme de tout ce qui respire est à peu près la même ; qu’en disséquant le singe, on pouvoit donner l’anatomie de l’homme ; qu’en prenant un autre animal, on trouvoit toujours le même fond d’organisation, les mêmes sens, les mêmes viscères, les mêmes os, la même chair, le même mouvement dans les fluides, le même jeu, la même action dans les solides ; il a trouvé dans tous, un cœur, des veines & des artères ; dans tous, les mêmes organes de circulation, de respiration, de digestion, de nutrition, d’excrétion ; dans tous, une charpente solide, composée des mêmes pièces à peu près assemblées de la même manière ; & ce plan toujours le même, toujours suivi de l’homme au singe, du singe aux quadrupèdes, des quadrupèdes aux cétacées, aux oiseaux, aux poissons, aux reptiles ; ce plan, dis-je, bien saisi par l’esprit humain, est un exemplaire fidelle de la Nature vivante, [...] : & lorsqu’on veut l’étendre & passer de ce qui vit à ce qui végète, on voit ce plan qui d’abord n’avoit varié que par nuances, se déformer par degrés des reptiles aux insectes, des insectes aux vers, des vers aux zoophytes, des zoophytes aux plantes ; & quoiqu’altéré dans toutes ses parties extérieures, conserver néanmoins le Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 67 Cosetta Veronese même fond, le même caractère dont les traits principaux sont la nutrition, le développement & la reproduction ; traits généraux & communs à toute substance organisée, traits éternels & divins que le temps, loin d’effacer ou de détruire, ne fait que renouveler et rendre plus évidens (Buffon XIV, 25-29). Diversi punti di convergenza tra l’esposizione di Buffon e le idee leopardiane emergono da questi riferimenti. Innanzitutto, lo stupore di fronte alla natura nel senso greco di taumazein, la meraviglia, quasi pietrificante, dell’ignoto e dell’incomprensibile, della presenza di una forza creatrice e distruttrice, prepotente e incommensurabile, davanti alla quale ogni logica e ogni razionalismo perdono di significato. In secondo luogo la continuità filogenetica tra gli animali e l’uomo che ritorna in tanti pensieri dello Zibaldone, sebbene Leopardi eluda l’idea di coscienza come soglia della differenza uomo-animale, e si affranchi radicalmente dalla prospettiva umanistica di Buffon. Il naturalista francese ha un modello di umanità che affonda le sue radici nell’uomo vitruviano di Leonardo – bianco, eterosessuale e perfettamente proporzionato – e della conseguente indiscussa superiorità dell’uomo sul resto delle creature viventi (cfr. anche Braidotti 2013: 13-54). Impossibile dunque per lui, come invece non lo è per Leopardi, concepire, idealizzare o sognare una «companionship» tra gli uomini e le scimmie. Infatti, a proposito delle somiglianze (fisiche) e differenze (cognitive) tra l’uomo e le scimmie Buffon osserva che, se si pone attenzione solamente all’aspetto, l’orangutango potrebbe parere la prima scimmia o l’ultimo degli uomini, dato che, ad eccezione dell’anima, nessuna delle nostre caratteristiche gli manca (Buffon XIV, 30). In una pagina che all’orecchio contemporaneo suona come una sfida ai principi basilari della correttezza politica e un’infrazione alla sensibilità anti-specista, Buffon scrive: c’est à côté de l’homme sauvage, de l’homme auquel l’éducation n’a rien transmis, qu’il faut le placer [l’orang-outang] pour les juger l’un & l’autre ; [...] la tête couverte de cheveux hérissés, ou d’une laine crépue ; la face voilée par une longue barbe, surmontée de deux croissans de poils encore plus grossiers, qui par leur largeur & leur saillie raccourcissent le front, & lui font perdre son caractère auguste, & non-seulement mettent les yeux dans l’ombre, mais les enfoncent & les arrondissent comme ceux des animaux ; les lèvres épaisses & avancées ; le nez aplati ; le regard stupide ou farouche ; les oreilles, le corps & les membres velus ; la peau dure comme un cuir noir ou tanné ; les ongles longs, épais & crochus ; une femelle calleuse en forme de corne sous la plante des pieds ; & pour attributs du sexe, des mamelles longues & molles, la peau du ventre pendante jusque sur les genous ; les enfans se vautrant dans l’ordure & se traînant à quatre ; le père & la mère assis sur leurs talons, tous hideux, tous couverts d’une crasse empestée. Et cette esquisse tirée d’après le sauvage Hottentot, est encore un portrait flatté ; car il y a plus loin de l’homme dans l’état de pure nature à l’Hottentot, que de l’Hottentot à nous : chargez donc encore le tableau si vous voulez comparer le singe à l’homme, ajoutez-y les rapports d’organisation, les convenances de Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 68 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura tempérament, l’appétit véhément des singes mâles pour les femmes, la même conformation dans les parties génitales des deux sexes ; l’écoulement périodique dans les femelles, & les mélanges forcés ou volontaires des Négresses aux singes, dont le produit est rentré dans l’une ou l’autre espèce ; & voyez, supposé qu’elles ne soient pas la même, combien l’intervalle qui les sépare est difficile à saisir. Je l’avoue, si l’on ne devoit juger que par la forme, l’espèce du singe pourroit être prise pour une variété dans l’espèce humaine (Buffon XIV, 30-32). Nel suo appunto per la Lettera a un giovane del 20° secolo Leopardi confronta alcune «nazioni o barbare o selvagge» alle scimmie, delle quali attenua la ferocia e ipotizza la possibilità di un maggior ingegno. Non è certo da escludersi che a questa visione abbiano contribuito le testimonianze raccolte da Buffon anche nel volume successivo della sua Histoire naturelle, dedicato ai primati che abitano nel nuovo mondo. Qui Buffon cita dalla Historia naturalis Brasiliae di Marcgrave19 la testimonianza dell’autore che avrebbe più volte assistito a una sorta di adunanza o assemblea delle scimmie ouarine (Buffon XV, 6) oltre che al racconto di Alexandre Oexmelin di come questi animali cerchino di difendersi e soccorrersi reciprocamente dai loro nemici, l’uomo in prima istanza. Tentando di fuggire ai fucili dei cacciatori saltando da un albero all’altro, alcuni di loro muoiono attaccati ai rami, oppure si riuniscono intorno a un compagno ferito e cercano di portargli soccorso suturando la ferita con foglie. I piccoli avvinghiati alla schiena delle madri alla stessa maniera in cui, non manca di notare l’autore, le madri africane portano i loro bambini, si possono catturare solo uccidendo la madre.20 Leggendo queste pagine, non stupisce che Leopardi consideri le scimmie «esseri intelligenti», «meno feroci» di «molte nazioni o barbare o selvagge»,21 e, data la loro assuefabilità, in grado di stabilire un’alleanza con gli uomini «contro la natura, e contro alle cose non intelligenti». 7. Dopo l’uomo, il fiore Il motivo della «grande alleanza degli esseri intelligenti» e della guerra contro la natura ritorna nella Ginestra, dove si legge anche un richiamo ai tempi primitivi (e quindi barbari e selvaggi) attraverso il ricordo di «quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena» (vv. 147-49). Il confronto tra il pensiero dello Zibaldone e l’ultima poesia dei Canti modifica ulteriormente il concetto leopardiano di civilizzazione già precedentemente discusso, suggerendo che essa corrisponde alla Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 69 Cosetta Veronese forma più elevata di solidarietà sociale, di comunione tra gli esseri intelligenti. Nella Ginestra, tuttavia, scompare qualsiasi riferimento alle specie di bruti e l’appello è indirizzato esclusivamente agli uomini («l’umana compagnia», v. 129; «confederati […] / gli uomini», vv. 130-31; «amici», v. 142; «propri guerrieri», v. 144). L’umanità a cui Leopardi si rivolge però appare tutt’altro che intelligente: «Magnanimo animale / non credo io già, ma stolto, / quel che nato a perir, nutrito in pene, / dice, a goder son fatto» (vv. 98-101). Gli uomini, accecati dalla presunzione, affondano le loro idee di giustizia e pietà in «superbe fole» (v. 154), che ne danno un ritratto non certo più ingegnoso, né meno vile delle scimmie o di altri animali. Eppure quando il poeta-filosofo recanatese scrive La ginestra, alla ricerca di un nuovo modello di esistenza etica, egli scavalca anche gli animali per arrivare al polo estremo della natura senziente: il fiore. È la ginestra infatti a offrire la congettura, cioè il modello ideale, per la realizzazione di una futura civilizzazione. Leopardi ipotizza dunque un’altra «grande alleanza», o piuttosto, un rinnovato e diverso modello di umanità. All’uomo di Leonardo ancora punto di riferimento per Buffon si sostituisse «il fiore del deserto» di Leopardi. L’intra-azione tra le componenti dell’universo finisce con l’abbattere la barriera tra uomo e pianta, finisce addirittura con il trasformare il paesaggio del mondo. La terra desolata del Vesuvio segna, per molti aspetti, la fine della civiltà. Al di là dell’io lirico la cui voce si muove tra la terra, il mare e il cielo fino alle lontane galassie, le uniche presenze viventi sono la lepre e il serpente. Lo stesso «villanello intento / ai vigneti» (vv. 240-41) non sopravviverà a lungo: è destinato a diventare la prossima vittima della forza cieca e distruttrice della natura, incarnata dal vulcano. L’episteme antropomorfo cade e si realizza una nuova possibilità di relazione con il mondo, una nuova forma di conoscenza. Mentre nella pagina dello Zibaldone, anche sulla scorta di Buffon, Leopardi avvicina l’«altro» (la scimmia) all’uomo, nella Ginestra si realizza quell’inversione del processo che, come osserva Marchesini (2014), rende il soggetto estraneo a sé. Il soggetto non vede o non guarda l’altro in quanto mera alterità ma riconosce in esso una nuova, propria, possibile, dimensione esistenziale. L’altro, il fiore, svolge una funzione epifanica, nel senso che rivela al soggetto umano, all’io poetico una nuova possibilità di essere. L’altro diventa ospite del soggetto-umano permettendogli di accrescere la conoscenza di sé. La coscienza che ancora, per una Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 70 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura figura come Buffon, costituiva la soglia della differenza uomo-animale, ovvero un «invalicabile Rubicone» (le parole sono di Francesco Remotti cit. in Marchesini 2014: xxxi), si dissolve come elemento di differenza e discontinuità. L’alterità ci permette di esperire una presenza che ridefinisce tutte le coordinate del passato e consente di proiettarsi in un diverso futuro (Marchesini 2014: xxi). Se il paesaggio vesuviano annunzia la fine di una civiltà, quella umana, la rinascita, molto diversa, è promessa dal fiore. Una rinascita lenta, perché la sua vita è breve, una rinascita matura e dolorosa perché consapevole della propria fragilità e dell’altrui («d’afflitte fortune ognor compagna», v. 16). La promessa di una civiltà più umana, nel senso di sensibile e compassionevole, viene paradossalmente dal nonumano. Leopardi sceglie così per la sua Lettera a un giovane del 20º secolo, l’interprete più lontano dall’uomo – non la scimmia, ma la ginestra, catalizzatrice di una nuova idea del mondo e che parla una lingua, come dice Michael Serres (1990: 161), che non è la lingua che noi intendiamo, ma comunque risponde al nostro sentire. 1 Per una visione globale dell’argomento si rinvia all’ormai classico lavoro di Antonio Prete, «La traccia animale» (2006: 162-77), nonché all’antologia da lui curata con Alessandra Aloisi (2010). Ulteriori interessanti osservazioni si trovano nel capitolo «Pensieri dell’animalità e materialismo in Leopardi» in Polizzi (2008: 209-26), oltre che in Paolini e Guerracini (2000). 2 Tra i molti contributi a proposito, si veda il recente Williams (2013). 3 I testi di Leopardi (escluso lo Zibaldone) si citano dall’edizione a cura di Lucio Felici e Emanuele Trevi indicata in bibliografia e abbreviata TT seguito dal numero della pagina. Per lo Zibaldone si rinvia invece all’edizione Pacella. 4 Sull’argomenti si vedano anche le note introduttive dell’edizione delle Dissertazioni filosofiche curate da Crivelli (1995: 78-80). 5 Sull’interesse leopardiano per l’ornitologia e sulla sua particolare propensione per gli uccelli si vedano Palumbo (2000) e Polizzi (2008: 220-22). 6 Nell’atto V, scena v di Macbeth, dopo l’annuncio della morte della moglie, il protagonista si lancia in una descrizione drammatica dell’assurdità della vita, e auspica che si spenga come una piccola candela: «To-morrow, and to-morrow, and to-morrow, / Creeps in this petty pace from day to day, / To the last syllable of recorded time; / And all our yesterdays have lighted fools / The way to dusty death. Out, out, brief candle! / Life’s but a walking shadow, a poor player, / That struts and frets his hour upon the stage, / And then is heard no more: it is a tale / Told by an idiot, full of sound and fury, / Signifying nothing» (si cita dall’edizione di Macbeth curata da K. Muir per la collana The Arden Shakespeare, London, Routledge, 1987, pp. 153-54). 7 Il concetto è espresso più estesamente anche nell’agosto del 1821, in Zib. 1530-31. 8 Al principio dell’analogia Leopardi fa implicitamente riferimento nella pagina composta il 18 settembre 1827, sulla «materia pensante». Non a caso il pensiero si conclude con il riconoscimento della superiorità del materialismo sullo spiritualismo: «Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalm. dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalm. il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 71 Cosetta Veronese suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene p. lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo» (Zib. 4288-89). 9 A questo proposito sono illuminanti le osservazioni di Marchesini nel capitolo «Il paradigma dell’incompletezza» (2002: 9-42). 10 Si veda a proposito anche Zib. 2116 dove Leopardi sostiene che mentre i Padri della Chiesa «venivano a porre l’uomo quasi fuori della natura, dove tutto è sì perfetto nel suo genere; io ve lo ripongo, e dico ch’egli n’è fuori solamente perchè ha abbandonato il suo essere primitivo. ec. ec.». 11 Salvo diversa indicazione, tutti i corsivi nelle citazioni sono miei. 12 La centralità di questa idea in Leopardi è confermata dal fatto che lo ripete ben due volte. Al punto 4. dello stesso pensiero leggiamo infatti: «che le illusioni sono anzi affatto naturali, animali, atti dell’uomo e non umani secondo il linguaggio scolastico, ed appartenenti all’istinto, il quale abbiamo comune cogli altri animali, se non fosse affogato dalla ragione» (Zib. 181). 13 Si pensi alle osservazioni fatte da Abrams sulla proiezione del soggetto sull’oggetto osservato, tipico del romanticismo inglese (1960: 47-69), oppure sul significato della metafora dell’organismo in Coleridge (1960: 218-25), oltre che il suo studio successivo sull’argomento (Abrams 1971). 14 Sulla capacità degli animali di concepire l’infinito si veda Zib. 179-81 e, per il desiderio infinito di piacere, Al conte Carlo Pepoli, vv. 37-40: «Così de’ bruti / la progenie infinita, a cui pur solo, / né men vano che a noi, vive nel petto / desio d’esser beati». 15 «Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta» (Zib. 4176). 16 Si veda a proposito Colaiacomo (2013), in particolare il saggio «Post-etica rivoluzionare. La conquista dell’insensibilità nel discorso leopardiano», pp. 83-131. 17 Il titolo originale dell’opera è Histoire naturelle générale et particulière : avec la description du Cabinet du Roy, e uscì in 36 volumi tra il 1749 e il 1788. La biblioteca di casa Leopardi ospitava una traduzione italiana dell’opera, Storia naturale, generale e particolare, pubblicata a Venezia nel 1782. Si cita dall’edizione on-line dell’opera indicata in bibliografia. La trascrizione del testo, leggibile e scaricabile, consente di accedere all’edizione originale digitalizzata su Gallica <http://gallica.bnf.fr/>. 18 L’idea centrale di questo pensiero è che «non si conosce perfettamente una verità se non si conoscono perfettamente tutti i suoi rapporti con tutte le altre verità, e con tutto il sistema delle cose» (Zib. 1838). 19 Georg Marcgrave e Willem Piso, Historia naturalis Brasiliae ... :in qua non tantum plantae et animalia, sed et indigenarum morbi, ingenia et mores describuntur et iconibus supra quingentas illustrantur. Lugdun. Batavorum, Apud Franciscum Hackium; et Amstelodami, Apud Lud. Elzevirium, 1648. 20 Il testo citato da Buffon (XV, 6-11) è: Alexandre Olivier Oexmelin, Histoire des aventuriers flibustiers qui se sont signalés dans les Indes contenant ce qu’ils ont fait de remarquable depuis vingt années avec la vie les moeurs & les coutumes des boucaniers & des habitans de S. Domingue & de la Tortue... Paris, Jaques Le Febvres, 1699, tomo II. Riportiamo dalle pagine 293-96 dell’originale che presenta alcune differenze grafiche e sintattiche rispetto a quanto riportato nell’Histoire naturelle: «Je fus curieux d’aller à cette chasse, & surpris de l’instinct qu’ont ces bêtes de connoître plus particulièrement que les autres animaux ceux qui leur font la guerre, & de chercher les moyens, quand ils sont attaquéz, de se secourir & de se défendre. Lorsque nous les approchions, ils se joignoient tous ensemble, se mettoient à crier, à faire un bruit épouvantable, & à nous jetter des branches sèches qu’ils rompoient des arbres : il y en avoit même qui faisoient leur saleté dans leurs pattes, qu’ils nous envoyoient à la tête. J’ai remarqué aussi qu’ils ne s’abandonnent jamais, & qu’ils sautent d’arbres en arbres si subtilement, que cela ébloüit la veuë. Je vis encore qu’ils se jettoient à corps perdu de branche en branche sans jamais tomber à terre : Car avant qu’ils puissent être à bas, ils s’accrochent ou avec les pattes, ou avec la queuë ; ce qui fait que quand on les tire à coups de fusil, à moins qu’on ne les tuë tout-à-fait, on ne les sauroit avoir ; car lors qu’ils sont blessés, & même mortellement, ils demeurent toujours accrochez aux arbres, où ils meurent, & Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 72 Biocentrismo e postumanesimo in Giacomo Leopardi: proposte di lettura ne tombent que par pièces. J’en ay vu de morts depuis plus de quatre jours, qui pendoient encore aux arbres; on en tiroit quinze ou seize pour en avoir trois ou quatre. Mais ce qui me parut plus singulier, c’est qu’au moment que l’un d’eux est blessé, on les voit s’assembler autour de luy, mettre leurs doigts dans la playe, & faire de mesme que s’ils la vouloient sonder. Alors s’ils voyent couler beaucoup de sang, ils la tiennent fermée pendant que d’autres apportent quelques feuilles, qu’ils maschent, & poussent adroitement dans l’ouverture de la playe. Je puis dire avoir vu cela plusieurs fois, & l’avoir vu avec admiration. Les femelles n’ont jamais qu’un petit, qu’elles portent de la mesme manière que les Negresses leurs enfant ; ce petit estant sur le dos de sa mère, luy embrasse le col par-dessus les épaules avec les deux pattes de devant ; & des deux de derrière il la tient par le milieu du corps. Quand la mere luy veut donner à teter, elle le prend dans ses pattes, & luy presente la mamelle comme les femmes. […] On n’a point d’autre moyen pour avoir des petits, que de tuer la mere : comme ils ne l’abandonnent jamais, étant morte ils tombent avec elle, & alors on les peut prendre. S’ils se trouvent embarrassez en quelques lieux, ils s’entr’aident pour passer d’un arbre ou d’un ruisseau à un autre, ou en quelque autre rencontre que ce puisse être». 21 In Zib. 3920 Leopardi scriveva: «Ma i selvaggi p. barbarie non lasciano di avere talora anche in costume di abbandonare i figli appena nati, o poco appresso ec. di esporli ec. ec., come anche usavano molti antichi civili, e come pur troppo s’usa anche oggi tra noi in mille casi ec. ec.; e Rousseau espose o tutti o non pochi de’ figli che ricevette dalla sua Teresa Levasseur ec., cose tutte ignote in qualunqu’altra specie di animali, e contro natura se altra mai, e di cui non è capace se non l’uomo ridotto comunque in società, cioè corrotto, e perniciose di lor natura alla specie ec. ec.». Bibliografia Abrams, M. H. The Mirror and the Lamp. London, Oxford University Press, 1960. Abrams, M. H. Natural Supernaturalism, Tradition and Revolution in Romantic Literature. London, Oxford University Press, 1971. 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Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 75 Saggi O materialismo de Leopardi e o mundo animal1 Pamela Williams University of Hull P.A.Williams@hull.ac.uk No dia seguinte ao seu aniversário de doze anos, 30 de Junho de 1810, Leopardi dedicou um poema ao seu pai depois de dois meses de estudo filosófico (Al suo diletto Genitore dopo due mesi di studi folosofici). Suas dissertações filosóficas (Dissertazioni filosohiche) são escritas no ano seguinte, e demonstram seu prodigioso progresso.2 Sua quarta dissertação acerca da alma animal (l’anima delle bestie) foi certamente direcionada àqueles dispostos a evitar uma leitura acanhada, já que a controvérsia acerca do tema durante os séculos XVII e XVIII trouxe um leque espantoso de opiniões com diversas ramificações nas ciências, e efeitos potencialmente devastadores na teologia. Como comenta o próprio Leopardi em sua “celebrada questão”: ‘diversidade de opiniões, variedade de sistemas, multiplicidade de objeções, fúria dos partidos, tudo contribui para dificultar a buscar uma solução’ (DF 81). O completo tratamento dos argumentos em toda a estrutura rigorosa da dissertação é um sintoma dos seus estudos anteriores sobre a lógica, amplitude e profundidade de sua leitura. Sua conclusão parece confiante, mas ela é também cética com relação ao grau de certeza que pode ser atingido em tal questão: ‘Parece-me poder concluir com segurança que a opinião que julga a alma animal como um espírito dotado de um sentimento, de liberdade e de um traço de racionalidade é certamente muito mais provável do que qualquer’ (DF 98).3 Se, por um lado, Descartes e o Cardeal de Polignac (1661-1741) afirmaram que os animais eram autômatos ou máquinas; por outro, Maupertuis (1698-1759) cultivou uma visão de que a alma dos animais seria comparável ou, até mesmo, superior vis-àvis àquela dos homens.4 Leopardi assume o que ele consideraria a posição mediana de Lorenzo Magalotti, a qual ele atribui ao senso comum de que os animais de fato possuem uma alma não corpórea, tendo em vista que existe, para utilizar a terminologia moderna, uma continuidade entre as espécies: já que humanos possuem essa alma não Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 76 O materialismo de Leopardi e o mundo animal corpórea, Leopardi sente dificuldade em acreditar que animais são completamente diferentes nesse quesito.5 Obviamente, se a alma do animal é espiritual, então surge o problema da imortalidade animal – guiado em seus estudos filosóficos pelo padre jesuíta Don Sebastiano Sanchini, o jovem Leaopardi nunca deixou questões teológicas de lado.6 Entretanto, Leopardi está certo de que a ignorância acerca do destino da alma animal não implica na inexistência de tal alma: ‘A ignorância com relação ao destino da alma animal após o término de suas vidas não significa que ela seria de alguma substância distinta do seu próprio corpo’ (DF 93).7 Além disso, ele não parece se preocupar com o fato de que a sua visão acerca da continuidade entre as espécies seja confirmada por Rousseau, descrito em outros lugares como ‘um dos filósofos mais irreligiosos do século passado’: “Todos os animais tem ideias já que eles tem sentidos, até certo ponto eles até combinam tais ideias – e, neste sentido, o homem difere de um animal apenas com relação aos níveis até os quais isso ocorre. Alguns filósofos até sugeriram que existe uma diferença maior entre um homem e outro homem do que existiria entre um homem e um animal”.8 Aqui, as palavras de Rousseau parecem ecoar àquelas de Montaigne em Apologie de Raimond Sebond (1576), um trabalho que teve certa influencia em algumas comparações entre atributos humanos e animais durante os séculos XVII e XVIII.9 Entretanto, o debate vigoroso estabelecido nesses séculos foi despertado pela insistência austera de Descartes de que os animais não apenas teriam um grau mais baixo de razão do que os humanos, mas que, na verdade, eles estavam completamente destituídos dela. O que estava em jogo e tornou o debate tão importante naquele momento foi mais a autoimagem dos humanos e menos os interesses dos animais.10 De fato, a discussão que circundava a questão da alma animal estava entre as mais abrangentes dentro da Europa dos séculos XVII e XVIII. Tal discussão envolvia conceitos como razão, sentimento, liberdade e imortalidade – e visões acerca dessa questão em particular indicava o posicionamento de um sujeito frente a um número imenso de outros pontos fundamentais dentro da filosofia e da ciência. O propósito aqui é examinar aspectos do debate com o intuito de promover uma nova perspectiva sobre o materialismo de Leopardi e sobre o uso do humor em Paralopomeni della Batracomiomachia, o poema satírico no qual ele trabalhou até os últimos dias de sua vida.11 Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 77 Pamela Williams O conceito de Descartes do animal-máquina era um corolário da sua visão dualística acerca do universo: da mesma forma, a alma humana como simples, indivisível e imortal era vista como diferente do mundo material dentro do qual o estudo da física se preocupava com o movimento dos corpos.12 Para Descartes a mente humana – ele falava em mente ao invés de alma – era uma substância espiritual não física a qual o sujeito possuía acesso privilegiado.13 O pensamento abrangia todas as formas de experiência consciente, não apenas de razão conceitual, mas também processos como àqueles desencadeados por sentimentos, percepções e dores.14 O resto da natureza, incluindo animais e corpos de humanos e de animais, era visto como um sistema mecânico, um universo maquinal, mensurável através de equações e de racionalidade lógica e operando de acordo com leis fundamentais.Os oponentes mais formidáveis da atitude cartesiana frente aos animais no século XVII eram os chamados Peripatéticos, os Aristotélicos da época.15 A definição deles de animado e inanimado no mundo natural acarretou numa divisão entre minerais, por um lado, e plantas, animais e humanos do outro. Da maneira que viam, existiam três distintas gradações de vida animal, da alma na escala do ser: uma alma vegetal ou vegetativa, com os poderes de nutrição, crescimento e propagação; uma alma sensitiva ou animal, com esses poderes, mas também provida de sensação, movimento e todos os graus de funções mentais, tais como percepção sensorial e memória, exceto a razão; e uma alma racional, que incluiria os poderes das almas vegetais e sensitivas com a adição da razão, esta última sendo a única prerrogativa dos humanos.16 A ciência natural aristotélica define a alma animal como “forma material substancial”: “forma substancial” porque, como todos os tipos de alma, a alma animal ou sensitiva transformava aquilo que ela animava naquilo que era; e “material” porque não é espiritual, e tampouco mortal, ao contrário a ideia de alma imortal e racional.17 Apesar da definição cuidadosa, havia ainda alguma ambiguidade com relação à alma animal: os Peripatéticos do século XVII tinham a tendência de se referir a ela como uma substância intermediária entre mente e matéria, uma formulação que foi zombada por Voltaire, entre outros, com seu costumeiro engenho: “Os animais mais estúpidos de todos sugeriram que a alma não é nem corpo nem espírito; que belo sistema, este”.18 A oposição à tese de Descartes de que o automatismo animal se configura vigorosamente desde o princípio, como revela o escrutínio de sua correspondência. Foi apenas após a sua morte, quando o seu dualismo – e a sua inclusão Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 78 O materialismo de Leopardi e o mundo animal na fisiologia entre as ciências físicas – estimulou o progresso do estudo científico, que a sua tese recebeu um apoio mais palpável.19 Na Itália, um texto que deu uma explicação mecânica acerca do movimento dos animais, de Giovanni Borelli – que ensinou matemática a Magalotti em Roma – trouxe o embasamento necessário para a escola de psicologia “física”, ou “iatrofísica” como era chamada.20 Teólogos também defendiam o sistema de autômatos animais tendo em vista seu interesse pela confirmação da excepcionalidade da espiritualidade da alma humana, e também em combater o que consideravam ateísmo materialista.21 Como explica Pierre Bayle em Dictionnaire historique et critique (1697): É uma pena que a visão de M. Descartes não se sustenta, uma pena que ela esteja tão distante da verossimilhança; já que ela parece defender a noção de fidelidade verdadeira [...]. Através deste princípio [de que todo pensamento, sentimento, imaginação etc. só podem ser encontrados em substâncias não corpóreas] não existe homem algum que se veja incapaz de se convencer da imortalidade de sua própria alma; cada homem sabe que ele pensa e, consequentemente – seguindo o raciocínio de Descartes – ele não pode acreditar que à medida que ele pensa, ele poderia se tornar distinto do seu próprio corpo.22 O cardeal de Polignac, cartesiano mencionado por Leopardi em Sopra l’anima delle bestie, defendia o automatismo animal em um longo poema latino que esteve no auge da popularidade, o Anti-Lucretius (publicado postumamente em 1747).23 O cardeal conta histórias e mais histórias nas quais a inventividade e engenhosidade dos animais emergem, todas com uma conclusão similar, a de que eles indicam as maravilhas da mecanicidade do mundo e, logo, da criação divina. Sua visão era sempre a de que o comportamento dos animais era crédito não das criaturas em si, mas do próprio criador que os havia concebido em primeiro lugar.24 Histórias sobre máquinas maravilhosas inventadas por humanos também foram utilizadas para demonstrar não só o quão superior era a invenção de Deus como também até que ponto os organismos vivos podem ser compreendidos de acordo com seu funcionamento mecânico. Em Sopra l’anima delle bestie, Leopardi faz referência, entre outras invenções mecânicas à águia de madeira de Regiomontanus que, voando pelo ar indicava ao imperador o caminho para Nuremberg; à cabeça falante terracota feita por Albertus Magnus; e à estátua construída na prisão de Marrocos que foi enviada ao palácio real com uma nota contendo a súplica de seu inventor pela liberdade.25 Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 79 Pamela Williams Os riscos do sistema cartesiano, entretanto – de um ponto de vista teológico – são bastante claros: se os animais são considerados mecânicos, apesar da variedade infinita de suas ações, o mesmo poderia ser dito no que concerne à espécie humana. O argumento de La Mettrie de que as diferenças entre a inteligência humana e animal existiria apenas com relação aos níveis de tal inteligência não é, de forma alguma, revolucionário – Montaigne e Rousseau, entre outros, e como já indicado, tinham dito basicamente a mesma coisa – mas este materialismo radical simbolizava um desenvolvimento novo e significativo. O seu trabalho de título deveras provocativo, diga-se de passagem, L’homme machine, 1748 causou um escândalo devido às suas críticas ferrenhas à religião como revelação. Para La Mettrie a negação da existência de uma alma independente se trata simplesmente do fim lógico do naturalismo universal dentro do qual sua teoria do homem-máquina foi articulada. Seres humanos, como os animais, são máquinas – e isso significa que o corpo opera mecanicamente sem ser guiado por nenhum princípio não corpóreo; isto era, assim como em Descartes, a negação de qualquer interpretação animista ou mística do mundo natural.26 La Mettrie sustentava que as faculdades mentais e as operações da alma permaneciam dependentes de formas orgânicas, produzidas estas por uma force motrice inerente à matéria.27 A sua Histoire naturelle de l’âme, 1745, configura-se numa história acerca do corpo o qual deve ser investigado pelo cientista natural, e não pelo metafísico ou pelo teólogo. Todas as almas, para La Mettrie, pareciam condicionadas pela organização do corpo, e a superioridade dos humanos sobre os outros animais foi explicada por ele como se configurando em razão dos diversos desenvolvimentos mais avançados dos primeiros no que concerne à aspectos tais quais a estrutura cerebral, a organização corporal, ou suas necessidades. Em seu ensaio Sopra l’anima delle bestie, Leopardi argumenta que ‘a ideia dos Materialistas de que a sensação animal pertence simplesmente à matéria orgânica [...] é, por sua própria natureza, absurda já que a sensação não pode, sob hipótese nenhuma, pertencer unicamente à substância corpórea’ (DF 96, ênfase no original). Essa visão, que se baseia na conjectura de que a matéria não sente, viria a se transformar fundamentalmente quando ele não mais acredita na alma imaterial, como acreditava quando tinha doze anos. O sensacionalismo28 de Locke, primeiramente mencionado indiretamente em um fragmento do Zibaldone de 14 de Agosto de 1820 (Zib. 209), não Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 80 O materialismo de Leopardi e o mundo animal rejeitava o dualismo, necessariamente, mas acabou acarretando numa visão radicalmente distinta se comparada com aquela de Descartes acerca da natureza e sensação dos animais. Descartes já havia feito a distinção entre a sensação e a sensação consciente. Os animais, ele aponta, atravessam os movimentos externos que, nos humanos, são sintomas de dor, mas sem passar pela experiência da sensação mental, assim como podem escutar ruídos sem, muitas vezes, saber exatamente o que significam. A psicologia sensacionalista fragmenta a substancia do pensamento cartesiano, permitindo o surgimento de diversos graus de inteligência em diversos outros graus das escalas do ser. Ao distanciar ideias de sensação das ideias de reflexão, Locke foi inicialmente capaz de demarcar o espaço destinado aos homens e aquele dos animais: animais possuiriam ideias sensoriais particulares e um grau de razão, mas careceriam de ideias mais gerais ou de poderes de abstração, e não haveria linguagem para se expressarem. A sensação surgia então como um processo singular operando em homens e animais – e causada por um objeto ou através dos órgãos sensoriais; em outras palavras, não há nenhuma necessidade de que exista um conceito elaborado acerca do que seria coceira ou dor para que a algo doa ou coce. Voltarei posteriormente para a visão de Leopardi de que tanto animais quanto homens têm sentimentos. É suficiente dizer aqui que as explicações filosóficas acerca da alma animal, como expressadas por Locke e por outros filósofos, foram fundamentais para o desenvolvimento de uma atitude mais humanitária com relação aos animais no século XVIII. Leopardi é categórico nos últimos fragmentos do Zibaldone quando discute como a matéria sente – e pensa. Sua visão é, basicamente, de que os fatos falam por conta própria: ‘a matéria pensa e sente; porque você vê as coisas, no mundo, que também pensam e sentem’ (Zib. 4253).29 Pelo menos seis anos antes disso ele se convence de que existe continuidade entre as espécies da mesma maneira que animais e humanos podem ser descritos como organismos mais ou menos complexos. O desenvolvimento em todas as espécies é condicionado pela organização corpórea, e a superioridade dos humanos com relação aos outros animais se dá em função da sua estrutura cerebral e complexidade corporal mais desenvolvidas, o que os torna mais suscetíveis às influências externas do que se pode chamar de aclimatização e aculturação: ‘a suscetibilidade e a capacidade de se habituar às coisas que não são naturais não é algo propriamente exclusivo à espécie humana, mas apenas em maior Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 81 Pamela Williams grau, geralmente falando: já que existirão homens menos capazes de se habituarem ao treinamento do que um macaco’ (Zib. 1630, ênfase no original).30 Ao invés de se referir às funções do corpo e da alma, parece mais apropriado – do ponto de vista de Leopardi – falar sobre capacidades externas e internas, sendo que ambas são funções da organização corpórea.31 O processo de aprendizado remonta a uma imitação que depende de certas circunstâncias, de exercício habitual e de adaptabilidade: O animal mais inteligente dentre todos, e aquele que mais se assemelha ao homem – o macaco – é famoso por sua faculdade e propensão imitativa. Isso é, principalmente, o que caracteriza sua inteligência, e o distingue fundamentalmente de outros espécimes. Amplie este pensamento, mostre a gradação das faculdades orgânicas interiores das várias espécies de animais até que se chegue ao homem, e como tudo não passa de uma faculdade mais ou menos elevada de esperar e de se acostumar. Esta última faculdade deriva, em grande parte – e é ainda mais amplificada – da primeira, e, dependendo do ponto de vista, pode-se dizer que ambas são, na realidade, uma só. (Zib. 1365, ênfase no original).32 O Paralipomeni continua a partir do ponto em que o poema clássico Batrachomyomachia é interrompido. A epopeia clássica, uma paródia da Ilíada,33 termina com a intervenção de uma tropa de caranguejos blindados enviados por Zeus para auxiliar os sapos na guerra de um dia contra os ratos. A continuação de Leopardi abre com os ratos batendo em retirada – os quais, em termos contemporâneos, são liberais italianos com aspirações ao governo constitucional e a reforma social, fugindo dos caranguejos austríacos.34 Como outros fabulistas de animais, Leopardi utiliza as características físicas do mundo animal para elaborar efetivamente sua sátira política reduzindo suas parelhas humanas a algumas características salientes.35 Por exemplo: quando o general caranguejo é questionado a respeito do que deu aos caranguejos o direito de intervir ‘para manter o equilíbrio’ (II. xxx. 8), uma frase que ecoa a estabilidade da teoria do poder colocada em prática pela aliança sagrada com o intuito de legitimar sua política de intervencionismo estrangeiro, ele responde: A camada […] que nos veste, / e a ausência de cérebro ou de cabeça, / nos torna fortes, duráveis e impenetráveis / Como o coral ou o quartzo puro / aclamados por sua resistência em duras costas / Surge a nós as colunas e fundações / Que viria a ser a fonte de estabilidade de todos (II. xxxix. 2–8).36 Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 82 O materialismo de Leopardi e o mundo animal A distinção feita entre animais e seres humanos é também utilizada para gerar o efeito cômico: por exemplo, quando o herói rato, Leccafondi, ministro e diplomata do reino de Topaia, se apressa no intento de negociar com os caranguejos em seu acampamento. Ele o faz trotando sobre suas quatro patas, porque apenas a espécie humana: possui em sua natureza o que é necessário para cavalgar um cavalo / e, logo, como conclusão lógica, / apenas ela pode, em uma carruagem, ser levada (II. iii. 6–8). A sátira é também conduzida de forma efetiva através da articulação de características humanas por parte dos animais. Na realidade, desde o início os animais são bem diferentes daqueles que representam no mundo animal real. No início da oitava, o campo de batalha se vê repleto de ‘rabos’, ‘estacas’, ‘boinas’, e ‘bigodes’, sendo o último item uma referência aos cortes de barba populares entre os liberais contemporâneos de Leopardi.37 O Conde Leccafondi é, até onde se pode saber, um liberal moderado, um “filotopo”:38 suas ideias acerca de arte e literatura são românticas; ele acredita que os jornais informam e educam, e está certo de que o progresso da civilização depende do seu estado econômico; e de que a Providência posicionou o rato como uma criatura privilegiada no centro do universo: então ele elogiou a natureza por mostrar seu poder e glória / aqui na terra ao dar vida ao rato; / cujo trabalho, genialidade e glorioso / estado ele admirou; e então fez a previsão de que / logo se poderia saborear / o seu sublime destino concedido pela natureza (I. xli. 3–8).39 Na visão de Descartes a fundação mais sólida para sua tese acerca da máquina animal, de acordo com sua própria declaração, consiste na ausência da fala entre os animais: “Já que a linguagem é a única indicação segura da cogitação latente em um corpo, e todos os homens fazem dela uso [...], enquanto, por outro lado, nenhum outro animal fala – consequentemente, podemos tomar esta como a verdadeira diferença entre homem e animal”.40 Obviamente, a existência de animais falantes é característica básica das fábulas, mas Leopardi a leva para patamares nunca antes vistos: ele caracteriza Leccafondi, por exemplo, como um linguista por excelência: tendo sido treinado na arte da diplomacia, / como se costuma dizer, ele aprendeu todas as línguas / através do estudo e da prática, / e os dialetos de todas as línguas, da mesma forma / ele era um verdadeiro Mezzofanti, sem sombra de dúvida. (II. xvii. 4–8).41 Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 83 Pamela Williams Argumentos filosóficos acerca da comparação entre animais e humanos ocorrem na narrativa no momento em que Leccafondi encontra Dédalo.42 No exílio, quando a monarquia constitucional de Topaia é substituída por uma monarquia absoluta, com os caranguejos na dianteira, Leccafondi se refugia de uma tempestade com o seu “solitario”, o qual mostra a ele a grande quantidade de livros escritos por autores ratos clássicos que ele possui em sua biblioteca (incluindo Os delírios do grande cheirador de perfumes,| A Armadilha, uma tragédia em vinte atos’ (VII. vi. 3-4), assim como um uma Gramática e um Dicionário ‘da língua dos ratos’ (VII. vii. 2) ).43 Especialista em história natural e conhecedor da linguagem dos ratos assim como daquela utilizada por muitas outras espécies de animais, Dédalo tem todos os motivos para manter seu posicionamento de que existe, sem sombra de dúvidas, continuidade entre as espécies: qualquer um que não queira / fechar seus olhos para a verdade, ou se enganar / a sua consciência deve mentir para si / precisa estar segura de que a diferença entre / a alma inteligente dos animais / e a dos homens se distingue apenas com relação aos seus níveis (VII. xii. 1–6). Essa premissa, através da qual o jovem Leopardi faz referência a Rousseau em Sopra l’anima delle bestie, acarreta em consequências lógicas que são exploradas para que se alcance o efeito cômico máximo em Paralipomeni: humanos e animais são ambos ou mortais ou imortais. As consequências lógicas, denominadas “conséquences horribles”, são colocadas de forma direta e objetiva por Bayle em seu Dictionnaire: Se as suas almas [as almas dos animais] são materiais e mortais, as almas humanas também o são, e [...], se a alma do homem é uma substância espiritual e imortal, também o é a alma animal. As implicações de tal fato são horríveis, independente do lado para o qual se escolhe caminhar; já que, se para evitar a imortalidade da alma animal é preciso acreditar que a alma humana morre junto com o corpo, a doutrina da vida após a morte é problematizada, e a estrutura religiosa é liquefeita. Se, para manter o privilégio da imortalidade da alma, tal privilégio é estendido com o intuito de incluir outros animais, na direção de quais lugares escuros estamos sendo atirados? O que faremos com tantas almas imortais? Haverá céu e inferno para elas, também?44 Dédalo deduz, baseado em seu conhecimento acerca do fato de que animais sentem e pensam, que as suas almas são imortais. Seguindo tal argumentação, ele conclui que existe um lugar para onde essas almas vão após a morte do animal, o que, para ele, não passa de uma questão de simples senso comum.45 Tanto a argumentação quanto a Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 84 O materialismo de Leopardi e o mundo animal conclusão são uma paródia clara da racionalidade humana; ele está convencido de que existe continuidade entre as espécies. Se é verdade que a alma animal é mortal, nada além de “matéria frágil”, então é verdade que a alma humana também não passa disso; e se é errado afirmar que animais também sentem e pensam é necessário que aquele que afirma duvide, da mesma forma, de seus próprios sentimentos e pensamentos. O argumento de Dédalo pode causar certa estranheza, porém este é colocado para causar efeito cômico máximo: Se todas as razões racionais me levassem a acreditar / que o “Eu” do rato não passa de matéria frágil, / ou o do cão ou de qualquer outra criatura mortal, / os quais manifestam claramente a capacidade de sentir e de pensar, / Eu realmente não vejo motivo / para não dizer a mesma coisa sobre nós; e se um rato / ou um cão nem ao menos pensa nem sente / eu não consigo deixar de duvidar que tampouco sou capaz disso. (VII. xiii. 1– 8).46 Sendo conhecedor das ‘misteriosas qualidades’ (VII. x. 6) do mundo animal, Dédalo já vinha sendo inquisitivo acerca da pós-vida animal, tão interessado quanto heróis posteriores como Eneias e Teseu estavam em desvendar tal mistério no âmbito da espécie humana.47 Para Bayle, a noção de um inferno ou paraíso repleto de almas animais seria um reductio ad absurdum. Em termos de narrativa, já que Dédalo acredita ter encontrado o pós-mundo animal, ele se oferece para guiar Leccafondi até lá com o intuito de que ele venha a consultar as almas dos ratos para saber qual o destino de Topaia. Eles descobrem, então, que existem centenas de infernos, cada um deles destinado a uma espécie animal (VII. xliv-xlvii) — até para as almas de insetos e de micróbios (VII. xliv. 7–xlv. 3) – e também obviamente aos humanos.48 A sátira de Leopardi é, aqui, talvez mais amena do que a maioria das sátiras já creditadas – ainda que não seja menos dura ou enfática com relação às figuras humanas que representa. Seus personagens principais não são, por si só, objetos de escárnio. No contexto do poema, as opiniões de Dédalo acerca do mundo e pós-mundo animal são perfeitamente embasadas; e Leccafondi é tratado de maneira solidária como um patriota honesto, disposto a partir para uma missão arriscada pelo bem do seu país.49 É a comparação geral entre o mundo humano e animal que faz o dos humanos parecer tão absurdo: a excepcionalidade humana é tão ridícula quanto a excepcionalidade dos ratos. Acreditar na imortalidade humana é tão lúdico quanto acreditar na imortalidade animal, sendo que a única consequência lógica da continuidade entre as espécies é o Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 85 Pamela Williams materialismo de ambos o mundo animal e humano. O próprio autor intervém diretamente após a exposição das opiniões de Dédalo sobre a alma animal, com o intuito de reforçar com pesar que ainda existem certas crenças que nenhum argumento palpável ou deliberação cuidadosa seriam capazes de alterar. Ele dá dois exemplos da incongruência e cegueira da razão humana (ainda que nenhum se aplique ao caso de Dédalo): o primeiro é o de que, apesar dos homens agora aceitarem a tese de Copérnico, ainda acreditam ser a força humana aquela que rege o funcionamento do planeta: ‘que o homem, em resumo, sem igual, | é senhor e mestre de toda criação’(VII. xv. 3–4,); o segundo, que mostra o quão presas às suas crenças as pessoas tendem a se manter, é o de que todos que tentam compreender o intelecto humano vão sempre deixar de lado a questão da inteligência animal, como se tal questão fosse irrelevante – e nunca incomodará ninguém o fato de que, o que se diz acerca dos homens, quando aplicado aos animais, passa a soar como um contrassenso:50 Além disso, qualquer um que esteja investigando / os mistérios profundos da mente humana, / geralmente deixa de lado ou negligencia inteiramente / a questão dos animais / com descarada desfaçatez e hipocrisia, / como se tal questão fosse completamente irrelevante,/ignorando que qualquer conclusão na qual chegue o eu / pode ser, para o outro, absurda (VII. xvi. 1–8). Um processo concomitante à aceitação da continuidade entre as espécies acabou sendo o desenvolvimento de uma atitude mais humanitária com relação aos animais no século XVIII.51 Os cartesianos eram, e na verdade continuam sendo, acusados de crueldade contra os animais tendo em vista, principalmente, sua convicção teórica acerca da insensibilidade animal. Malebranche, a figura mais significante após Descartes na história das hipóteses do animal-máquina, é geralmente lembrado por ter dito que os animais “comem sem sentir prazer, choram sem sentir dor e crescem sem se ver crescer; eles nada desejam, nada temem e nada sabem”.52 O cartesiano Jacques Rouhalt argumenta a favor da insensibilidade animal tendo como base o fato de que um instrumento, quando tocado, faz mais barulho do que faz um animal quando este grita ou chora – ainda assim, dizer que um instrumento tem sentimentos seria absurdo.53 Maupertuis, evocado por Leopardi em Sopra l’anima delle bestie, estava entre os primeiros escritores que falavam a favor dos “direitos” dos animais no que concerne ao seu sofrimento: “causar a eles [animais] dor sem haver necessidade é não só cruel como também injusto. Talvez este seja o maior exemplo de como os maus costumes e hábitos Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 86 O materialismo de Leopardi e o mundo animal são capazes de (e de fato o fizeram) – para a maioria dos humanos – remover qualquer senso de remorso e culpa no que diz respeito a esse tema”.54 Ainda que Leopardi não tenha efetivamente desenvolvido suas reflexões com relação à atitude humana frente aos animais em maiores detalhes, a sua visão acerca de um mundo de sofrimento pode ser associada com aquelas mais humanitárias de seu período.55 De acordo com ele, neste mundo de sofrimento, aqueles que sofrem são tanto homens quanto animais: ‘Toda a natureza é insensível, com exceção somente dos animais. […] Os seres sensíveis são são, naturalmente souffrants, remontando a um universo que é, essencialmente, souffrante’ (Zib. 4133, ênfase no original). Todos os animais, e aqui ambos animais e homens são evocados, estão intimamente conectados na rede do ser, o que é bastante benéfico para o universo já que sua existência continuada implica no necessário sofrimento daqueles que dele fazem parte. Esses, na realidade, são seres que constituem a menor parte do universo ‘menor parte da natureza [...], ou pelo menos uma das menores e operando como o mais ínfimo detalhe dentro do cosmos no estabelecimento e manutenção de todo o universo’ (Zib. 4133-34). Qualquer um que pense diferente se recusa a ver as coisas como de fato elas são, preferindo aterse à sua aparência quando tais coisas se encontram frente aos olhos do observador: se nós os consideramos [os animais] como a parte principal de tudo o que existe, os seres mais merecedores de nossa consideração [...], este nosso julgamento parece emergir da forma como vemos as coisas [...], como uma forma natural de julgar o mundo para nós [...], mas não uma forma verdadeira [...], nem uma forma que [...] seja coerente com o julgamento e a linha de raciocínio (se é que podemos chamá-la assim) da natureza universal [...], ou com o fato de que a natureza, com exceção desta menor parte dela, carece de sensação, e que os seres sensitivos são necessariamente souffrants (Zib. 4134, ênfase no original). A famosa seção do Zibaldone no jardim do sofrimento desenvolve um argumento similar. Ela inicia com este conhecido trecho: ‘Tudo é ruim. O que quer dizer que tudo o que é, é ruim’ (Zib. 4174), uma expressão que não parece ser mais cética do que necessariamente pessimista. O ponto aqui é discutir a razão pela qual alguém seguiria em seu otimismo simplista e inócuo – ‘tudo é bom’ – quando a visão oposta se mostra muito mais plausível. O jardim do sofrimento é uma metáfora sustentada. Leopardi não está dizendo aqui que as plantas sofrem – ainda que, se o ceticismo que emana das páginas de Zibaldone permeia toda a obra, é bem possível que tal fato esteja implícito (‘se estes seres sentem, ou melhor, pudessem sentir’) (Zib. 4176-77) – mas sim que o Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 87 Pamela Williams mundo é ‘talvez’ distinto daquilo que em geral se imagina.56 Ainda que se possa entrar em um jardim e ver nele nada além do que pura beleza, existem também, certamente, motivos para que se enxergue o contrário: Entrem em um jardim de plantas, grama, flores. Não importa o quanto ele pareça gracioso. Até mesmo nas estações mais propícias. Você não poderá deixar de ver sofrimento, em nenhum lugar para onde olhe. Toda aquela vegetação se encontra em um estado de souffrance, cada parte dela a sua maneira e em diferentes níveis [...]. O espetáculo de vida em abundância no jardim conforta o seu espírito de tal forma que o seu olhar passa a julgar aquele como sendo um ambiente de alegria. Mas, na realidade, essa vida é triste e infeliz, os jardins não passam de um imenso hospital (um lugar bem mais deplorável do que um cemitério) (Zib. 4175-76, ênfase no original). A estrutura moral da sociedade perfeita, idealizada no último poema dos Canti, La ginestra, é fundamentado neste princípio universal de sofrimento. A razão para não ferir outras pessoas se dá em função da preocupação em reduzir a dor que já se sente devido ao funcionamento natural do mundo. Leopardi aceitaria que o conceito de sofrimento é relativo, dependendo da espécie em questão e de qual indivíduo dentro de cada espécie. Entretanto, o próprio princípio universal é estendido tanto para os homens quanto para os animais, porque os fatores que sustentam o princípio são os mesmos no caso de ambos: a vulnerabilidade e precariedade e a sua capacidade de sentir dor. Em um fragmento tardio do Zibaldone, Leopardi idealiza como seria uma aliança entre homens e animais (‘una grande alleanza degli esseri intelligenti’), que se baseia no reconhecimento do interesse em combater um inimigo comum, que seria o processo natural da vida. Para Leopardi, uma civilização futura de animais não será necessariamente uma boa coisa da perspectiva dos animais, afinal, para eles, talvez um estado primitivo fosse melhor do que um estado civilizado. Porém, como ele coloca em La ginestra, a ideia de uma continuidade moral fundada no conhecimento de que a natureza, como fonte de sofrimento, é indiferente acaba por reconquistar sua dignidade. O respeito pelo valor moral de todos os seres que tem a capacidade de sofrer traz dignidade para a parte sofredora – tal ideia com relação aos animais não foi exatamente desenvolvida por ele, mas é uma mensagem para gerações futuras:57 Conjecturas sobre uma civilização futura de animais, e especialmente de certas espécies, como os macacos, são feitas pelos seres humanos em longo prazo, da mesma forma que muitas sociedades civilizadas auxiliaram nações bárbaras ou selvagens – que, pode-se dizer, não são nem menos inteligentes nem menos ferozes que as sociedades de macacos (especialmente no caso de espécies particulares) – a abandonar o primitivismo. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 88 O materialismo de Leopardi e o mundo animal A civilização, em termos gerais, tende naturalmente a se expandir, a caminhar no sentido de novos avanços, não podendo se estagnar ou ser contida por limites préestabelecidos, especialmente tendo em vista que continuará havendo espaço para expandir mais, assim como outras criaturas para serem civilizadas e assimiladas dentro de um corpo social onde os seres inteligentes se associam contra a natureza e, na realidade, contrato tudo que, como ela, venha a carecer de inteligência. Isso pode servir para a “Carta a um jovem do século XX”. (Zib. 4279–80, ênfase no original) Tradução de Andréia Guerini e Davi Gonçalves 1 Este artigo foi originalmente escrito em inglês para o livro organizado por Cosetta Veronese e Pamela Williams intitulado The Atheism of Giacomo Leopardi, Leicester, Troubador Publishing Ltd, 2013, pp. 89-110. 2 Elas estão inseridas em cinco cadernos que foram transcritos por Paolina Leopardi: Dissertazione logica; Dissertazioni metafisiche (1811); Dissertazioni fisiche (1811); Dissertazioni morali (1812); Dissertazioni aggiunte (1812). 3 Leopardi atribui sua visão a um ‘sensato escritor de bom gosto’ (DF 82 não identificado, ) (identificado por Crivelli como o dominicano Vincenzo Moniglia, DF 81), com uma adição própria acerca da liberdade: animais, como seres humanos, são administrados – e não determinados – por suas naturezas, isto é, sem que sejam sempre instigados a agir em conformidade. Eu utilizo a palavra “animais” durante todo o texto empregando o sentido que é tradicionalmente associado a ela: para me direcionar a animais de espécies que não a humana. Mary Midgley, Animals and Why They Matter (Londres: Penguin Books, 1983), nos lembra que humanos “são mais animais do que vegetais, minerais, anjos ou fadas”, e que a forma em que a palavra é geralmente utilizada “às vezes implica em confusões acerca do seu estado efetivo” (p. 7). 4 A visão de Maupertuis é, para Leopardi, absurda: animais não são “racionais” no sentido de que eles poderiam aprender linguagem ou ciência filosófica. ‘“O homem é a mais nobre criatura concebida pelas mãos divinas” (DF 94); qualquer sistema que alega o contrário é fundado em “sofisma, e argumento falso”(DF 95)]. Para as fontes de Leopardi, ver Marco De Poli, L’illuminismo nella formazione del pensiero di Leopardi, Belfagor, 29 (1974), 511–46 (p. 523); Maria Augusta Morelli, Una dissertazione giovanile inedita di Giacomo Leopardi “Sopra l’Anima delle bestie”, Critica storica, 6 (1967), 532-44 (pp. 532-34); DF 78-98. 5 Ver verbetes em ‘Animal Language and Thought’ e ‘Animal Ethics’ em The Rougledge Encyclopedia of Philosophy. ed. de Edward Craig, 10 vol. (Londres: Routledge, 1998), I, pp. 269-76. Filósofos modernos se opõem a uma “excepcionalidade humana” a favor de uma “continuidade entre as espécies”. Defensores dessa ideia de excepcionalidade idealizam a humanidade como detentora de certas capacidades únicas. Aqueles que defendem, por outro lado, a ideia de que existe uma continuidade entre as espécies argumentam que os humanos compartilham de certas capacidades com, pelo menos, alguns outros animais – e que as diferenças no que concerne a tais capacidades seriam graduais e incrementais. 6 Sanchini foi tutor na Casa Leopardi 1807-12 e foi também, pelo menos para Monaldo, responsável por preparar Giacomo para a vocação eclesiástica. Ver a carta de Leopardi para Carlo Pepoli, Bologna 1826, na qual ele fala de si na terceira pessoa: “Ele não tinha professores com exceção de seus primeiros rudimentos, que ele aprendeu com os tutores mantidos na casa a pedido de seu pai. Mas ele fazia também uso da biblioteca repleta de livros de seu pai, um homem de apreço incomensurável pela literatura. Nesta biblioteca ele passou a maior parte da vida, o maior tempo possível e até quando sua saúde, destruída pelos estudos excessivos, permitia; esses estudos começaram a ser feitos por ele sem assistência de professores já aos 10 anos de idade – e continuaram posteriormente sem descanso, configurando-se em sua maior e única ocupação” (Epist. II, 1257) (Shaw, p. 193). 7 De acordo com o jovem Leopardi, o argumento de que os animais são punidos ou recompensados de acordo com seus méritos durante a vida na terra é absurdo; de que eles são aniquilados se opõe a opinião Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 89 Pamela Williams popular (DF 88), porque Deus não destrói nada que ele mesmo criou; de que eles desfrutariam de algum grau de benção, ‘Não parece ser [...] uma proposição que possa ter um grande número de defensores; metempsicose, a noção de que a alma do animal transmigraria para um corpo humano, foi sugerida, ‘mas é, certamente, inaceitável, porque tendo em vista que o número de animais é maior do que o número de seres humanos’, o que aconteceria com todas essas almas animais extra? (DF 93). Ver Peter Harrison, ‘Animal Souls, Metempsychosis, and Theodicy in Seventeenth-Century English Thought’, Journal of the History of Philosophy, 31 (1993), 519-44. 8 ‘Tout animal a des idées puisqu’il a des sens, il combine même ses idées jusqu’à un certain point, & l’homme ne diffère a cet égard de la Bête que du plus au moins: Quelques Philosophes ont même avancé qu’il y a plus de différence de tel homme à tel homme que de tel homme à telle bête’ (Discours sur l’origine et les fondemens de l’inegalité parmi les hommes (Amsterdam: Rey, 1755, p. 31). Rousseau é também descrito como ‘empio’ por um ‘literato’ que representa as visões da velha guarda em diálogo com aquelas da nova, esposadas por um novo pensador livre, em Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato ‘Analisi delle idee ad uso della gioventù’ (PP II, 527-45; p. 532). O autor dá, neste diálogo com o rapaz, alguns detalhes acerca de si – mas não se identifica com ele: neste estágio ele ainda respeita e aceita o dogma religioso e as opiniões que derivam da maior parte dos textos reacionários que ele tem lido, ‘obras do final do século XVIII, que atacavam o iluminismo com eloquência e destreza, em um estilo nada antiquado ou pomposo. Monaldo havia sido nutrido nesta cultura reacionária e iluminada assim como também havia sido Giacomo Leopardi inicialmente, Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, 2nd ed (Pisa: Nistri-Lischi, 1969), p. 184 . Ver DF 5-8; Franco Martina, ‘Leopardi, l’adolescenza filosofica’, Belfagor, 38 (1983), 377-94. 9 Essais de Michel de Montaigne, ed. by Emmanuel Naya, Delphine Reguig-Naya, and Alexandre Tarrête, 3 vols (Paris: Gallimard, 2009), II, pp. 199-200 (Book 2, Chapter 12): ‘existe uma diferença maior entre um homem e outro do que entre um animal e um homem’. Sobre a influência de Montaigne em tal debate, ver Leonora Cohen Rosenfield, From Beast-Machine To Man-Machine: Animal Soul in French Letters from Descartes to La Mettrie, 2nd edn (New York: Octagon Books, 1968), p. 187. 10 Quando Leopardi tinha doze anos ele escreveu o poema I filosofi e Il cane, no qual alguns filósofos debatem acerca da questão da alma animal, sendo que cada um toma um posicionamento distinto. Quando um cachorro entra na sala onde o debate acontece, todos tentam expulsá-lo, e a tranquilidade só é restaurada quando o animal fala e sugere que os filósofos estudem a si mesmos antes de discutir acerca de outros animais. 11 O Paralipomeni foi iniciado em 1831e publicado postumamente em Paris, em 1842. Leopardi traduziu o poema grego Batrachomyomachia [Batalha entre Sapos e Ratos] três vezes em 1815, 1821-22 e 1826. A terceira versão foi publicada na edição bolonhesa de Versi (1826) com seus próprios poemas já que, como ele escreve no prefácio da edição, ela era uma ‘imitação do poema grego e não uma tradução dele’ (‘mais imitação que tradução do grego’, PP I, 202). Antes de iniciar sua primeira tradução, Leopardi escreveu o Discorso sopra la Batracomiomachia, publicado no jornal milanês Spettatore em 1816, que examina tradução prévias e dispensa, no âmbito linguístico e filosófico, a atribuição deste poema clássico a Homero. Leopardi nota a influência de Gli animal parlanti, de Giambattista Casti, publicado em 1802, em sua tradução em ‘Ricordi d’infanzia e di adolescenza’ (PP II, 1187). 12 Para Descartes, o organismo físico dos humanos, como o corpo animal, não possui nenhum princípio de movimento além do calor do coração, que causa a circulação do sangue e dos espíritos animais por dentro do sistema. Os cartesianos alegavam que Deuteronômios 12.23, ‘Somente esforça-te para que não comas o sangue; pois o sangue é vida; pelo que não comerás a vida com a carne’, comprovava a tese de Descartes. Leopardi defende, fazendo referência ao comentário do século XV de Alonso Tostado, que o significado do texto bíblico não é literal, apenas ‘um modo de exprimir-se’ (DF 95). 13 Descartes definia substância como ‘algo que existe de tal forma que torna qualquer outra coisa desnecessária para sua própria existência’ (Principles of Philosophy, I. 51, tradução para o ingês de George MacDonald Ross, www.philosophy.leeds.ac.uk GMR /hmp /texts/modern/descartes /principles/dcprinc.html [acesso em 13 de julho de 2011]). Ele reconhece que sua definição só se aplica a Deus – em um sentido restrito e literal – e conclui que a palavra ‘substância’ não pode ser predicada de forma unívoca com relação a Deus e a outros seres. “Ele então procede no sentido inverso, por assim dizer, da direção em que os escolásticos caminham. Isto porque, se aos últimos a palavra ‘substância’ se aplica primeiro a coisas naturais, aos objetos da experiência e só então em um sentido analógico a Deus, Descartes aplica a palavra primeiramente a Deus e apenas de forma secundária e analógica às criaturas’ Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 90 O materialismo de Leopardi e o mundo animal (Frederick Copleston, A History of Philosophy, 11 vols [1946-86] (Londres: Continuum, 2010), IV, p. 118). 14 “Com a palavra ‘pensamento’, eu me refiro àquilo que ocorre com nossa mente enquanto se encontra consciente, já que existe consciência em todos nós. Logo, neste contexto, o pensamento inclui os sentidos assim como inclui a compreensão, volição e imaginação” (Principles of Philosophy, I. 9). 15 O esforço dos cartesianos em tentar refutar a doutrina dos Peripatéticos acerca da alma animal é, por si só, uma evidência do quão concreto era seu posicionamento. O termo “Peripatéticos”, nome dado aos primeiros seguidores de Aristóteles, era utilizado mais amplamente no século XVII para designar os defensores do status quo teológico, filosófico e científico, que eram geralmente críticos com relação às inovações e novas direções da ciência, religião e filosofia. Leopardi, então, utiliza o termo em Sopra l’anima delle bestie (DF 96). 16 A ‘psique’ grega foi vertida em ‘alma’, às vezes no sentido de um tipo racional ou mais elevado de alma, às vezes para designar o princípio vital (Cohen Rosenfield, Animal Soul, p. 12). Em italiano ‘animo’, ‘anima’ e ‘mente’ tem uma aplicação similar. 17 “No aristotelianismo escolástico o ser humano era retratado como uma unidade, a alma para o corpo como a forma está para a matéria. A alma, além disso, não era reduzida à noção de mente: ela era considerada um princípio da vida biológica, sensitiva e intelectual” (Copleston, IV, p. 120). 18 ‘Les plus grandes bêtes sont ceux qui ont avancé que cette âme n’est ni corps ni esprit. Voilà un beau système’, ver verbete em ‘Bêtes’ no Dictionnaire philosophique (Paris: Garnier, 1967). Em Sopra l’anima delle bestie, Leopardi comenta que a tese dos Peripatéticos é absurda. Fazendo referência a Magalotti ele prefere pensar na alma animal como espiritual, já que a opinião contrária propõe o que seria talvez muito difícil de compreender visto que, me parece, argumentar que a alma animal não é uma substância nem material nem espiritual é o mesmo que afirmar que a alma animal, simplesmente, inexiste (DF 97). Ele ecoa na sagacidade de Voltaire com relação à tese de Maupertuis de que os animais são tão racionais quanto os humanos, ‘a qual certamente ninguém defenderia com exceção daqueles que se assemelham aos seres sobre os quais estão tratando (DF 94). 19 Cohen Rosenfield, em Animal Soul, propõe uma lista de tamanho considerável com fontes defensoras da noção de automatismo animal, incluindo livros direcionados inteiramente ao assunto assim como inúmeras outras obras que fazem referência a este tema com enfoque em detalhes os mais distintos. 20 Ver Giovanni Alfonso Borelli’s De motu animalium [publicado postumamente pela primeira vez em Roma, 1680–81] (The Hague: Gosse, 1743). 21 A distinção profissional pontual, que atualmente separa fisiologistas, filósofos e teólogos, não existia nos séculos XVII e XVIII; algumas explicações científicas eram introduzidas pelo trabalho de teólogos e, da mesma forma, muitas vezes científicas recorriam à argumentos religiosos no desenvolvimento de suas pesquisas. 22 ‘C’est dommage que le sentiment de Mr Des Cartes soit si difficile à soutenir, & si éloigné de la vraisemblance; car il est d’ailleur très-avantageux à la vraie foi […] Par ce principe il n’y a point d’homme qui ne se puisse convaincre de l’immortalité de son ame; chacun sait qu’il pense, et par consequent, s’il raisonne à la Cartésienne, il ne peut douter qu’en tant qu’il pense il ne soit distinct du corps’, Ver verbete em ‘Rorarius’ em Dictionnaire historique et critique, 5th ed, 4 vols (Amsterdam: Brunel et al., 1740), IV, p. 76 and n. C. Rorarius escreveu um texto no qual argumenta que animais são superiores se comparados aos humanos, Quod animalia bruta saepe ratione utantur melius homine (1544). 23 Cohen Rosenfield, Animal Soul, p. 50, nota que, de maneira geral, os poetas costumavam se colocar contra Descartes nesta controvérsia. Em ‘Discours à Madame de la Sablière’, Fables IX. 20, no suplemento ‘Les deux rats, le renard et l’oeuf’, La Fontaine rejeita a noção animal-máquina de Descartes, e se refere à teoria de Pierre Gassendi (1592–1655), que descrevia a alma animal, e a alma humana corpórea e sensitiva, como um amálgama de átomos materiais, cuja delicadeza e insignificância os torna imperceptíveis para o olho nu, e, assim, como átomos responsáveis por compartilhar da natureza do fogo, na medida em que eles aquecem o corpo com seu calor vital. Leopardi se refere à visão de Gassendi em Sopra l’anima delle bestie (DF 96), citando Pietro Chiari, Lettere scelte di varie materie (ver Morelli, p. 542). 24 Em Sopra l’anima delle bestie, Leopardi utiliza tais argumentos para defender que os animais possuem um ‘resquício de razão’, apesar de ele estar ciente de que outros atribuem o comportamento deles simplesmente ao comportamento ou instinto, como Pope em seu Essay on Man, Epistle III. 99–108 (DF 84). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 91 Pamela Williams 25 Em Sopra l’anima delle bestie, Leopardi escreve (DF 86-87) ‘se é possível para os homens fazer autômatos por meios mecânicos, como poderíamos pensar que tal coisa seria impossível para Deus?’ (DF 86-87). Leopardi faz referência à cabeça falante de Albertus Magnus (‘que, de tão loquaz, Tomás de Aquino viria a odiá-la, e a quebrá-la’) e a águia de madeira de Regiomontanus nos autômatos mencionados na Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi (PP II, 30-31). Ver Giovanni Carsaniga, ‘Ai margini della “Palinodia”. Scienza, tecnologia e natura in Leopardi’, Rivista di studi italiani, 16, 2 (1998), 124-59 (pp. 127-28). 26 Ao propor sua teoria, La Mettrie reconhece a influência de Descartes. Descartes pode ter distinguido entre duas substâncias, mas ‘fica claro que tal posicionamento configura-se em nada mais do que uma manobra, um embuste linguístico, para fazer com que os teólogos engolissem o veneno escondido nas entrelinhas de uma analogia que o mundo todo considera impressionante, e que eles, por conta própria, são incapazes de compreender’, Julien Offray de La Mettrie, L’homme machine (Leyden: Elie Luzac, 1748), p. 96 . 27 Como médico, La Mettrie se preocupava com os efeitos do corpo nos estados da mente. De acordo com Frederick, o Grande, quando La Mettrie adoeceu devido a uma febre contraída durante a guerra, sua consciência se tornou muito mais aguda com relação ao quão dependentes eram os efeitos dos estados da mente no corpo (Cohen Rosenfield, Animal Soul, p. 142). Para mais sobre Leopardi e La Mettrie, ver Mario Andrea Rigoni, ‘Illuminismo e negazione (su Leopardi e La Mettrie)’, em Id., Saggi sul pensiero leopardiano (Padova: Cleup, 1982), pp. 57–66. 28 “Sensacionalismo” e “Sensacionalista” devem ser lidos neste texto, quando aparecerem, não como a etimologia comum da palavra sugere em língua portuguesa (por exemplo, como em “mídia sensacionalista”), mas sim como fazendo referência a uma forma de pensamento empírico que limita a experiência como fonte de conhecimento para a sensação ou para as percepções dos sentidos – consequente da noção de mente como “tabula rasa”. Para mais informações acerca disto ver verbete na Enciclopédia Britânica: http://www.britannica.com/EBchecked/topic/534684/sensationalism [N.T.] 29 A sabedoria convencional afirma que ‘a matéria nunca poderá pensar nem sentir de nenhuma maneira’ (Zib. 4252). O jovem Leopardi reitera tal argumentação em Sopra l’anima delle bestie. Neste fragmento do Zibaldone ele argumenta que é apenas porque ninguém sabe como a matéria sente e pensa que tais capacidades são geralmente atribuídas ao espírito, ‘uma palavra sem uma ideia possível’(Zib. 4253). Foi dito que a matéria não pensa nem sente porque, geralmente, a matéria, no mundo, não parece pensar nem sentir – mas isto seria como dizer, sugere Leopardi, que o elástico não é um material porque ele tem propriedades de que a matéria geralmente carece – isto é, o poder de se mover na direção contrária da gravidade: ‘Se eu não conhecesse nenhum corpo elástico, talvez eu diria: a matéria não pode se mover em tal ou tal direção, tendo em vista o poder da gravidade [...]. Mas porque eu conheço corpos elásticos [...] eu posso dizer – e ninguém pode discordar – que a matéria pode fazer isso e aquilo, ela é capaz de gerar estes fenômenos particulares’ (Zib. 4251-52). 30 Ver Zib. 1761: ‘O que é então a nossa superioridade com relação aos outros animais senão uma propensão maior a nos tornarmos habituados e a nos conformarmos, já que em espécies distintas de animais alguns possuem essas qualidades com uma maior ou menor intensidade; alguns, como os macacos, pouco menos que os homens?’ Zib. 1568-69: ‘Essa maior capacidade de conformismo do homem em comparação com qualquer outra criatura conhecida significa que encontramos diferenças muito maiores e numerosas entre indivíduos humanos – e entre os estados sucessivos de um individuo singular – do que em qualquer outra espécie’. 31 Cf. Zib. 4288-89. 32 Ver Zib. 3197: ‘Em muitas ocorrências destes meus pensamentos, eu demonstrei como o homem deve praticamente tudo à circunstância, ao hábito e à prática ’. 33 A palavra grega “paralipomenon” é utilizada para se fazer referência às crônicas do velho testamento, considerado um material omitido do livro dos reis; é a forma genitiva de “paralipomena”, literalmente: “coisas deixadas de fora”. Pode significar também um “suplemento” ou “apêndice”, ou uma reescritura ou interpretação de outro trabalho (todos os significados convergem na adoção carnavalesca que Leopardi faz do termo). No seu Discorso sopra la Batracomiomachia, Leopardi endossa a opinião de Giovanni le Clerc, que considerava o poema grego uma paródia, ‘é evidente que aquele poema é escrito imitando Homero, com seu estilo, zombando de muitas ideias e expressões que Homero havia associada à questões bastante sérias’ (PP I, 414) . Todas as citações de Paralipomeni são retiradas de PP I, 205-310. 34 O Paralipomeni é, parcialmente, uma sátira política inspirada pelo insucesso de movimentos liberais em Nápoles entre 1820 e 1821, e pela situação política da Itália após 1831, mas ‘é importante advertir que Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 92 O materialismo de Leopardi e o mundo animal Leopardi funde liberamente as recordações de diversas experiências históricas: nós não estamos na presença de eventos ou povos particulares, que precisam ser decifrados em cada detalhe, mas a uma fábula na qual os personagens e eventos narrados aludem a alguns aspectos típicos da sociedade contemporânea ou da condição permanente do homem com relação à’ (Paralipomeni della Batracomiomachia, ed. de Eugenio Boldrini (Turin: Loescher, 1970), p. 1). Julgamentos negativos feitos acerca do texto são em parte articulados devido à sua clara veia política, mas isso não exausta as intenções de Leopardi que, como satirista, revoluciona o gênero. Gennaro Savarese, ‘Leopardi e la caricatura’, in Il riso leopardiano, comica satira parodia. Atti del IX Convegno internazionali di studi leopardiani, Recanati, 18-22 settembre 1995 (Florença: Olschki, 1998), pp. 123-38, coloca o poema de Leopardi no contexto de caricaturistas contemporâneos, como Honoré Daumier, Paul Gavarni e J. J. Grandville. Sobre as conexões entre Paralipomeni e a tradição de zombaria dos heróis, ver Gennaro Savarese, ‘Dal falso Omero a Byron: diagramma del Leopardi eroicomico’, em Id., L’eremita osservatore. Saggio sui ‘Paralipomeni’ e altri studi su Leopardi, 2nd edn (Roma: Bulzoni, 1995) pp. 1753. 35 Ver Maya Slater, ‘La Fontaine’s View of Animals in his Fables’, Seventeenth-Century French Studies, 13 (1991), 179–94. 36 Ao traduzir a política desenvolvida por Metternich ao final das guerras napoleônicas, o mundo animal é comparado a uma imensa balança na qual um grande número de potes contendo diversas espécies de animais são colocados. Qualquer coisa que desequilibre a balança resulta na necessidade de que se cortem os pés, rabos ou asas deste ou daquele animal, sendo que esses itens são logo redistribuídos – ou comidos por outro animal, para que o equilíbrio seja reestabelecido (‘Far le bilance ritornare uguali’, II. xxxiv. 8). 37 Cf. Paralipomeni VI. xvii e Palinodia, ll. 257–59. 38 A tradução utilizada em inglês poderia ser ‘mousophile’. O espírito burlesco do Paralipomeni é encapsulado neste notável neologismo, modelado sobre a palavra “filantropo”. 39 Cf. Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo della Terra e della Luna, Copernico, e La Fontaine, ‘Le Lion, le Singe et les deux Anes’, Fables XI. 5. Hoje a palavra “especismo” (speciesism) é, às vezes, utilizada – tendo a palavra sido popularizada por Peter Singer em Animal Liberation: Towards an End to Man’s Inhumanity to Animals (Londres: Paladin, 1977). Diz-se que “especismo” pode ser atrelado à ideia de racismo. Assim como os racistas dão, sem justificativa prática, mais crédito para os interesses dos membros de sua própria “raça”, os “especistas” dão, sem justificativa prática, mais crédito para os interesses dos membros de sua própria “espécie”. O rato demonstra um tipo de “ratocentrismo” (ao contrário de antropocentrismo). Ver Dialogo di un cavallo e un bue, no qual a raça humana é chamada de ‘uma raça de animais’ (PP II, 237). 40 Traduzido do latim para o inglês por Leonora Cohen Rosenfield, em Id., ‘Descartes and Henry More on the Beast-Machine—a Translation of Their Correspondence Pertaining to Animal Automatism’, Annals of Science, 1 (1936), pp. 48-61 (p. 53). 41 O cardeal Giuseppe Caspar Mezzofanti (1774–1849) era um poliglota famoso que nunca tinha viajado para fora da península italiana. Um relato de 1846 descreve que Mezzofanti sabia setenta e oito línguas e dialetos, The Life of Cardinal Mezzofanti (London: Longman, Brown & Co., 1858), p. 461. 42 Uma intervenção autoral comenta que Dédalo tinha habilidades similares àquelas do homem que produziu o labirinto (‘foi pela arte | parecido com o que fez o labirinto’, VII. ii. 1–2), mas que ‘talvez e provavelmente ’ (VII. iii. 5) eles não são a mesma pessoa. ‘Nosso homem’ existiu em tempos muito remotos, apesar de ser consideravelmente difícil dizer de forma assertiva quanto tempo depois viveria o mitológico Dédalo. (‘Mas mais moderno eu não saberei dizer quanto’, VII. iii. 7). Tal erudição dissimulada é típica da voz autoral. Ver VII. Xxii. 1-3 quando Dédalo posteriormente fabricava asas para Leccafondi e para si, elas foram descritas como carentes dos defeitos que existiam naquelas feitas por Ícaro. (‘Daqueles outros não tinham o defeito’, VII. xxii. 1–3). 43 Ele recebe Leccafondi em sua casa e o faz falar acerca de tudo que aconteceu ‘Como Eneias / no Palácio Líbio' de Dido, Rainha de Cartago (VI. xl. 1–2). 44 ‘Si leur ames [des bêtes, sic] sont matérielles & mortelles, les ames des hommes le sont aussi, & […] si l’ame de l’homme est une substance spirituelle et immortelle, l’ame des bêtes l’est aussi. Conséquences horribles, de quelque côté que l’on se tourne; car, si pour éviter l’immortalité de l’ame des bêtes, on suppose que l’ame de l’homme meurt avec le corps, on renverse la doctrine d’une autre vie, & l’on sappe [sic] les fondements de la Religion. Si, pour conserver à notre ame le privilège de l’immortalité, on l’étend sur celle des bêtes, dans quels abîmes se trouvera-t-on? Que ferons-nous de tant d’ames immortelles? Y aura-t-il aussi pour elles un paradis et un enfer?’ (Dictionnaire, IV, p. 80). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 93 Pamela Williams 45 A filosofia do senso comum emerge das ideias dos filósofos escoceses Thomas Reid, Adam Ferguson e Dugald Stewart, e foi adaptada pelos filósofos franceses Victor Cousin e Théodore Simon Jouffroy. Sobre a crítica que Leopardi faz em relação ao senso comum e a sua influência particularmente na cultural napolitana dos anos 1830, ver Liana Cellerino ‘Potenze intellettuali’, em Id., L’io del topo: Pensieri e letture dell’ultimo Leopardi (Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1997), pp. 17-42. 46 Sobre as ramificações da frase ‘L’io del topo’, ver Cellerino, L’io del topo, pp. 43-103. 47 ‘ talvez algum deles / já tenha aprendido, de um rato ou de uma toupeira, tal arte’ (de descer até o inferno) (VII. xx. 5–6). 48 O inferno para as almas humanas é só mais um entre todos os outros: ‘alguns dizem que as almas humanas que se libertaram de seus corpos | são mantidas em um destes infernos’ (VII. l. 5–6) [], o que efetivamente rebaixa a condição humana de sua assumida posição de superioridade (ver Paralipomeni della Batracomiomachia, ed. de Marco Antonio Bazzocchi e Riccardo Bonavita. Roma: Carocci, 2002, p. 222). Os questionamentos de Leccafondi acerca do destino de Topaia são encarados com silêncio e indiferença fria, diferente da cena na Eneida de Virgílio, quando Anquises revela os futuros grandiosos de Roma ao seu filho Eneias. Nesta seção de Paralipomeni, Leopardi mistura uma fantasia agradável com uma visão um tanto quanto desagradável da morte. 49 ‘parece que, no que concerne a Leccafondi, Leopardi se esforça para não torná-lo um personagem sobre o qual seus leitores possam tecer julgamentos claros e diretos, cujas ações eles possam decidir sem hesitar se aprovam ou desaprovam, se o admiram ou não (Bazzocchi e Bonavita, p. 24). Apesar de Leccafondi (literalmente aquele “que lambe as profundezas”) ser um mestre da diplomacia, e um dos significados de ‘fondo’ é ‘fundo’, o seu nome alude às suas pretensões como grande pensador. Como o Conde de Pesafumo (aquele que “pesa o ar”) e Stracciavento (aquele que “peneira o vento”), pode-se dizer, como também Madame de Stäel o faz com relação aos filósofos alemães, que ele versa “com o ar incorpóreo” (De l’Allemagne, Parte 2, Capítulo 2). Sobre a sátira de Leopardi acerca da cultura alemã em Paralipomeni, ver Cellerino, ‘Sistemi, congetture e teorie dell’alemanna gente’, em L’io del topo, pp. 127-38. 50 Dédalo, por outro lado, estima imensamente o mundo dos ratos, e acredita fervorosamente no princípio da continuidade entre as espécies. 51 Esta atitude humanitária desenvolveu com mais afinco pelo menos a questão do que deve ser visto como crueldade na prática humana com os animais, com atenção voltada à indiferença quanto ao seu sofrimento; mas foi só após o século dezenove que de fato leis para proteger (pelo menos) animais domésticos passaram a ser elaboradas. Jeremy Bentham é geralmente lembrado no que diz respeito a isso dentro do contexto britânico: ‘nenhuma figura de maior importância no que concerne aos princípios de ética ocidentais que defendesse de forma tão veemente a inclusão dos interesses dos animais no pensamento ético havia ainda se manifestado quando do aparecimento de Bentham no cenário europeu’ (The Oxford Companion to Philosophy, ed. by Ted Honderich. Oxford: Oxford University Press, 1995, p. 36). John Passmore, ‘The Treatment of Animals’, Journal of the History of Ideas, 36 (1975), 195–218, examina a história das atitudes morais do homem vis-à-vis os outros animais. 52 Nicolas Malebranche, Oeuvres complètes, ed. de Geneviève Rodis-Lewis, 20 vols (Paris: Vrin, 1958– 70), II, p. 394. John Cottingham, ‘A Brute to the Brutes: Descartes’ Treatment of Animals’, Philosophy, 53 (1978), 551–59, defende a tese de Descartes ao contrário daqueles que a consideram “monstruosa”. Ver Peter Harrison, ‘Descartes on Animals’, Philosophical Quarterly, 42 (1992), 219–27. 53 Ver Passmore, p. 204, fazendo referência a Jacques Rohault, Entretiens sur la philosophie. 54 ‘Leur causer [aux bêtes] sans nécessité de la douleur, est une cruauté & une injustice. C’est peut-être l’exemple le plus fort de ce que peuvent sur nous l’habitude & la coutume, que, dans la plupart des homes, elles aient sur cela étouffé tout remords’, ver Lettres philosophiques, VI, ‘Sur l’âme des bêtes’; VII, ‘Du droit sur les bêtes’, Oeuvres de Mr. De Maupertuis, 4 vols (Lyon: Jean- Marie Bruyset, 1756), II, pp. 210–29. 55 Outros temas associados com a atitude de Leopardi frente aos animais foram examinados com mais profundidade, por exemplo: no que diz respeito ao seu estado de alegria sem a aptidão do conhecimento ou pensamento e a sua habilidade de esquecer – ao contrário dos humanos, como colocado em Bruto Minore, ll. 61-66, e Canto notturno, ll. 105–12. Sobre Leopardi e os animais ver Matteo Palumbo, ‘“Elogio degli uccelli”: riso e animali nelle Operette morali’, pp. 57-74, Paolo Paolini, ‘Gli animali nell’opera leopardiana’, pp. 275-411, e Vincenzo Guarracino, ‘ “Forse s’avess’io l’ale...” (spunti di etologia animale in Leopardi)’, pp. 327-30, em Leopardi e lo spettacolo della natura, ed. de Vincenzo Placella (Nápoles: L’Orientale, 2000); Antonio Prete, ‘La traccia animale’, em Id., Il pensiero poetante: Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 94 O materialismo de Leopardi e o mundo animal Saggio su Leopardi, 6th edn (Milan: Feltrinelli, 2006), pp. 162-78; Gaspare Polizzi, ‘Pensiero dell’animalità e materialismo in Leopardi’, em Id., ‘... per le forze eterne della materia’. Natura e scienza in Giacomo Leopardi (Milan: Franco Angeli, 2008), pp. 209-26, Franca Janowski, ‘L’animale infelice: la differenza antropologica nel pensiero di Leopardi’, pp. 541-60, e Alessandro Ottaviani, ‘“Homo duplex” o “uomo a quattro gambe”? La questione delle bestie nel pensiero antropologico di Leopardi’, pp. 57384, em La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi. Atti del XII Convegno internazionale di studi leopardiani, Recanati, 23-26 settembre 2008 (Florence: Olschki, 2010); Il gallo silvestre e altri animali, ed. de Antonio Prete e Alessandra Aloisi (Lecce: Manni, 2010). 56 Em Sopra l’anima delle bestie, Leopardi chama de ‘um argumento persuasivo’ (DF 87) a noção cartesiana de que se os animais possuem alma, também o fazem as plantas. 57 A visão de Leopardi se aproxima do posicionamento igualitário do utilitarismo com seu princípio da minimização da dor de todos os seres pré-dispostos ao sofrimento. Ver Lori Gruen, ‘Animals’, A Companion to Ethics, ed. Peter Singer (Oxford: Blackwell, 1991), pp. 343–53. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 95 Saggi Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings* David Gibbons david.gibbons@alice.it 1. The fragmented presentation of the self which emerges from consideration of Leopardi’s works as a whole suggests that it could lend itself profitably to analysis based on critical approaches which may broadly be defined as ‘post-human’. Leopardi’s constant concern with what Rosi Braidotti (Braidotti 2006: 58) calls the «empirical referents of otherness» – which in his case include the ancients as much as women, natives, animals or ‘earth others’ – has implications for an understanding of the integrity not merely of the writing subject but of humanity in general. Leopardi reaches different conclusions from many of his predecessors and contemporaries regarding the position of «man in the cosmos» (Boyde 1983). But this is not to say that his position versus the non-human and animal world in particular is univocal or stable. At times Leopardi entertains a vision of the universe which points beyond anthropocentrism, in various ways and for different reasons. However, the relationship between humans and other animals as he conceives it remains one of difference as much as of continuity. Despite emphasizing man’s status as merely one of many animals, the coexistence Leopardi envisages entails tireless comparison and contrast. Individual species in this world view are not allowed to exist independently but are constantly competing with each other, and some form of power relationship invariably re-emerges. There are, in other words, limits to Leopardi’s relativism (Williams 2013), as expressed through his understanding of how humanity and the animal world inter-relate. The purpose of this article – without any pretensions to exhaustiveness – is to probe some of the points of tension within this understanding, teasing out implications in Leopardi’s lexical and metaphorical choices in the Operette morali and Zibaldone in particular, with the hope of shedding light on his conception of selfhood. 2. One of the earliest critiques of anthropocentrism in Leopardi’s work is found in his «Dialogo del cavallo e del bue», included as an appendix to the Operette morali but Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 96 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings composed in around 1820-21. In this brief text, the human race is recalled with scant affection following its imagined extinction by the two animals referred to in the title (though the first fragment refers to a bull rather than an ox). In particular the arrogance of human beings is held up for ridicule, notably their conviction «che il mondo fosse fatto per loro» (Poesie e prose II, 239).1 Such unquestioning confidence that the environment which they inhabit was created specifically for them forms the basis on which human claims to centrality appear to rest. The main issue with anthropocentrism is the arrogance that comes from not being able to see beyond the limits of one’s own condition, an arrogance which stems from, and is equivalent to, what might more simply be termed ‘selfishness’. Selfishness is an important theme in Leopardi’s works, in particular the opposition which he institutes between self-love (amor proprio) and selfishness proper (egoismo). The former tends to be used positively, representing the essence of vitality and life itself; the latter more negatively, as the degenerate product of civilization. For the most part the opposition is used in discussion of inter-personal relationships of various kinds, but at one point in the Zibaldone Leopardi extends it to include the animal kingdom as well. There is a degree of inconsistency in his use of these terms, however, for while on one hand self-love is seen as typical of the natural state and selfishness as the unnatural product of experience, on the other, genuine altruism (he says) requires an effort on the part of that same self-love, which is so great that it is beyond the abilities of any animal apart from man, and beyond what man himself can ordinarily achieve (Zib. 3293). Hence it follows, Leopardi goes on to assert in a marginal note added two pages later, that despite their natural state animals are more selfish than human beings.2 Given this, it is hardly surprising that the two animals in the «Dialogo del cavallo e del bue» prove to be just as selfish as the extinct human race was. The horse’s reaction to human arrogance is to replicate precisely the same attitude («Diavolo chi non sa ch’è [il mondo] fatto per li cavalli?»), while the ox’s response is to underline the superior qualities of its own species («La buassaggine è il miglior dono che la natura faccia ad un animale, e chi non è bue non fa fortuna in questo mondo, ecc.»; PP II, 239).3 One other point worth noting in this connection is that the terms with which Leopardi expresses his critique of anthropocentrism in this dialogue are reminiscent of Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 97 David Gibbons those seen in his discussions of pre-Copernican cosmology (Polizzi 2007). For instance, at one point the ox refers to the way in which human beings believed «che il sole e la luna nascessero e tramontassero per loro e fossero fatti per loro» (ibid.). In the same way that the earth is not the centre of the cosmological universe, neither does humanity necessarily occupy such a central position within the animal or natural world that would entitle it to claim hierarchical dominance over the rest of creation. Both universe and world, though, still appear to have centres; hence the doubt arises, even at this stage, that arrogance might not be exclusively a human phenomenon. 3. The analogy between Leopardi’s critiques of anthropocentrism and geocentrism helps locate both within his developing understanding of creation. The similarity of terminology used in either case – «che il mondo fosse fatto per loro», «che il sole e la luna […] fossero fatti per loro» – suggests an ongoing creationist view of the universe, with the key difference compared to the biblical account in Genesis that man’s role is no longer necessarily to «have dominion over the fish of the sea, and over the fowl of the air, and over the cattle, and over all the earth, and over every creeping thing that creepeth upon the earth» (Genesis, 1, 26), but simply to coexist alongside them. A long essay in the Zibaldone on the subject of Genesis which Leopardi wrote during roughly the same period as the «Dialogo del cavallo e del bue» (December 1820; Zib. 393-423 in the first instance) shows that at this stage he had few qualms over referring to God as creator or to mankind in particular as having being created by God.4 Precisely the point of Leopardi’s essay is to show that his thesis of the supremacy of nature is not incompatible with Christian doctrine, while at the same time arguing that man is at his happiest in his natural state. The more human beings apply reason, he says, the further they stray from this original happiness, and the further the human race degenerates as a whole (precisely the context of the «Dialogo del cavallo e del bue», where the corruption of mankind resulted in its extinction). Despite his arguments for compatibility with Genesis, however, Leopardi’s emphasis, linguistically at least, seems to be on the human race’s status as merely one of many animal species: a special case certainly, but no more than one of several (Lollini 2000: 33). Thus the expressions used most regularly tend to stress the ‘otherness’ of the animal species; the fact that what is true of human beings is true of other species ‘as Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 98 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings well’; or the various features or aspects which all species share or have ‘in common’.5 There are differences between them, obviously, but the primary distinction appears to be between those species considered collectively on the one hand and the vegetable or mineral realm on the other. Any being that is capable of self-movement or direction (seipsum movens / dirigens) requires some form of belief, Leopardi argues, to act as its motive force, driving it to take decisions and make rational choices.6 It is this faculty primarily which human beings and animals have in common, and the common denominator is more important in Leopardi’s world view at this stage than the distinctions which separate them, as he makes clear through the example of Buridan’s ass (illustrated with reference to Dante’s Paradiso).7 Leopardi’s approach to the Genesis account shows he was actively looking for alternative mythologies of creation, for different explanations of the place occupied by human beings within the cosmos; a concern which he would develop more fully in the «Storia del genere umano» and «Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco». But if the start of created life is the stage at which human beings and animals have most in common – the stage at which the relationship between them is most democratic, at which anthropocentrism is least prevalent – the opposite end of the life spectrum shows all too clearly the differences which continue to separate them. Leopardi has much to say, for example, about «man’s inhumanity to man», as expressed in death resulting from warfare or murder or, worse still, cannibalism and infanticide. But there is one subject in particular on which he repeatedly draws attention to the irreducible distinction between humanity and the animals, namely suicide. 4. Suicide is mentioned briefly in the «Dialogo del cavallo e del bue», in the list of the phenomena demonstrating how far mankind had removed itself from its natural state.8 Indeed, the idea that suicide is fundamentally unnatural is a regular refrain in Leopardi’s works. Suicide is, he says, «against nature», it is «contrary» and/or «repugnant» to nature, indeed even «forbidden» by nature. It breaks the laws of nature, offends its principles and foundations, and even contradicts its basic order.9 For this reason it constitutes «the most monstruous thing» in nature, the phenomenon most opposed to nature not only that exists but also that can be imagined.10 This in itself, though, is not necessarily to say that suicide is to be condemned on ethical grounds, for modern Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 99 David Gibbons humans, having departed so far from nature in their ordinary existence, and conforming to what is essentially a ‘second’ nature based on reason, now live a life which involves so much boredom and suffering, that to end it by committing suicide would appear entirely ‘natural’ according to this new definition.11 Unlike in the ‘first’ natural state of the ancients, in which men lived happily for thousands of years,12 human beings are now, Leopardi says, increasingly willing to limit the natural duration of their lifespan, preferring instead to deliberately curtail an existence which is already far shorter than those of their ancient counterparts, whether mythological or actual. It is in this context – the unnatural nature of suicide – that comparison between humanity and the rest of the animal world re-emerges. In the dialogue itself such comparison is implicit, in the sense that the «astonishment» that anyone who finds themselves in the natural state must experience when faced with phenomena such as suicide, on this occasion is articulated by an animal. Leopardi, however, makes the point elsewhere more explicitly that no animal in nature other than man takes its own life before its time has come. Suicide, he writes, is not found in any other species, even the most sociable; or rather, no animal apart from man desires the end of its own life, or takes its life voluntarily, for the simple reason that all animals other than man are able face death with equanimity.13 In this respect any continuity between species is of limited relevance, for while human beings are animals they are «rational» rather than «natural» ones, and entirely different («diversissimi») in this respect despite similarities in others (Zib. 1978). For it is precisely human rationality which is the problem; it is reason which makes humans aware of their own unhappiness, without which no creature would want to commit suicide (Zib. 66). Despite the non-hierarchical nature of the relationship posited between humans and the other animal species at the stage of creation, ultimately it seems they cannot coexist without a continuous process of evaluation and comparison taking place as well. Linguistically this is reflected in the high proportion of comparative and superlative structures in the kind of passage discussed here: «più» / «meno», «così […] come», and so forth, but also «peggiore» / «migliore» and «inferiore» / «superiore». The upshot of this comparative process is that not only do human beings prove to be «very different» from other animals in this sense, they are also inferior to them and therefore worse off as well.14 The notion of an entirely relativist cosmos is shown to be an illusion, as Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 100 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings indeed was apparent in the ox’s and horse’s equivalent convictions that the worlds they too inhabited revolved around them. 5. The re-emergence of what we may call power relationships, in which one species is central and the others marginal, also explains the persistence of two other areas of vocabulary in this context: absolutism and certainty. The lexicon of absolutism might seem out of place in a system of thought which purports to be relativist, but in this context it relates to an understanding of the seriousness of modern man’s condition. Once an individual has understood that the condition of existential unhappiness extends to all human beings rather than merely themselves or a minority of others, they receive the strongest possible incentive to end the life that has made them so miserable. Such an understanding is absolute rather than relative,15 and can have devastating consequences. In this respect adult human beings are different from children, certainly, but also from other animal species, in that both categories are aware only of «accidental» unhappinesses; or, as Porfirio puts it in the «Dialogo di Plotino e di Porfirio», their unhappiness has «narrower boundaries» than the unhappiness of adults does.16 The same is true, equally, of the ancients as much as of children and animals. For instance, the ancient Celts described in the pseudo-Ossianic poems were far from having an absolute understanding of the inevitable emptiness of life, Leopardi argues in the Zibaldone (Zib. 484-85). On the occasions when they were driven to commit suicide, it was on account of individual episodes of desperation, rather than the conviction that such episodes were absolutely necessary to human experience in general as opposed to those of individuals. The language of certainty, meanwhile, has to do with the arguments in favour of committing suicide. Indeed, in some cases the certainties form part of the very rhetoric of argumentation, introducing concessions to the fabric of the reasoning. For example, at least three sentences beginning with the word «Certo» recur at close succession in the «Dialogo di Plotino e di Porfirio», in clauses that are all fundamentally concessive, producing an almost anaphoric effect.17 The concession itself is based largely around considerations of quantity; as Leopardi himself writes in the Zibaldone, accidental sufferings might not make up the entirety of a man’s life, but what is certain is that he will experience some of them (Zib. 2553). Not only, but sufferings of this kind Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 101 David Gibbons will certainly be numerous and serious; they will certainly form the majority and not the minority of a man’s experience in this life; and however many individual instances there may or may not be, it is most certain («certissimo») that he will spend all his days without experiencing a single pleasure (Zib. 2553-54). By hedging, qualifying and reinforcing his statements in this fashion, Leopardi departs from the rhetoric of absolutes. But why the need for such certainty? It is largely because of one fundamental uncertainty which haunts Leopardi’s thinking on suicide, namely the doubt introduced by Christianity (as personified by Plato in the «Dialogo di Plotino e di Porfirio») that in ending his life voluntarily before its natural conclusion, man might be making his fate worse for himself rather than better. It is an uncertainty which relates primarily to the future, as opposed to the present; for the present is certain, as Porfirio again says, while the future is not. The uncertainty relates specifically to man’s fate after death, in particular the possibility that eternity, or infinity as Leopardi so often calls it, might involve further suffering and punishment for having defied a divine interdiction, which is why such uncertainty tends to go alongside fear and terror (cf. Zib. 3498-509). This single doubt is the main reason for Leopardi’s need for certainty in this area, and it also explains – incidentally – the importance which concession occupies in his argumentation, for the construction recurs frequently in contexts describing the persistence of superstitions or beliefs despite all rational evidence to the contrary (much of the Saggio sopra gli errori popolari degli antichi is taken up with this very subject; Gibbons 2011: 121-23). Leopardi is seeking to persuade himself first and foremost that even if suicide is unnatural, even if no other animal in nature commits suicide, and even if the religious injunction against it is based only on future speculation rather than present certainty, in humanity’s current predicament and Leopardi’s own circumstances, it still – tragically – makes perfect sense. 6. In this situation, then, faced with the prospect of suffering being perpetuated through suicide rather than mercifully ended, certainties are vital. Describing the process by which such certainties are arrived at entails a high degree of abstraction, which in turn makes recourse to figurative language inevitable. Some of the metaphors which Leopardi uses to represent the various mental and ethical processes in this connection Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 102 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings are instructive, such as his appeal to proof which is «material», or to certainty which is «physical», both of which imply a fundamentally empirical approach.18 Indeed, the scientific disciplines in general, and the various branches of mathematics in particular, provide a common source of metaphors by which Leopardi expresses the decisionmaking process, even though the limits which these metaphors have in representing the life of the mind soon become apparent. Geometry, for example, is the discipline of choice in the dialogue «Il Parini», where in much the same way as Leopardi fails – despite his own rational arguments – to convince himself that to commit suicide is a reasonable act, the establishment of a scientific and mathematical basis for a newlydiscovered truth proves to be insufficient to dislodge popular opinion. Deeplyentrenched superstitions persist, Leopardi writes, even if the new truths which contradict them are demonstrated «con evidenza e certezza conforme o simile alla geometrica» (PP II, 103-4). One important component of a discipline such as geometry is measurement, which too is a metaphor commonly used in Leopardi’s representation of the decisionmaking process, and which again proves to have serious limits. One problem in this sense, to remain with the issue of suicide, is which scale ought to be used to measure it; as he himself asks: «Misuriamo noi il bene o il male delle nostre azioni dalla natura?» (Zib. 1979). If ‘first’ nature is used to measure the ethics of taking one’s own life, as we have seen, the action can only be judged ‘unnatural’; but humanity’s present circumstances mean that a different scale is more appropriate, namely ‘second’ nature or reason. Another core activity in mathematical disciplines is counting, and this too, used metaphorically, emphasizes the difficulties involved in taking ethical decisions. Leopardi sees counting as being opposed to action, and in this sense typical of modern society, where genuine action tends to be deferred. Rather than do things, he suggests, modern man merely counts them; and it is this equation between counting and basic lack of moral courage which, among other things, underpins Leopardi’s critique of the new discipline of statistics in the «Dialogo di Tristano e di un suo amico».19 It also constitutes a further example of the many ways in which human beings differ from other animal species, for while animals might not have the courage to commit suicide they do at least do things, not just count them (Zib. 1378). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 103 David Gibbons A further stage in the mathematical process also used metaphorically by Leopardi is calculation. The question of whether or not to end one’s life requires a calculation to be made, based on an equation which factors in considerations of quality as well as quantity. In a discussion that is astonishingly relevant to some of today’s debates over the ethical implications of unnaturally prolonging human life, Leopardi on several occasions argues that such an equation must be weighted to take due account of the issue of quality, for otherwise the resulting judgement will prove erroneous, as it will be based on what he calls an «error of calculation».20 Indeed, if the equation is weighted properly, to choose life is the wrong result, for in yet another comparison with the animal world, one area in which human beings really do achieve supremacy over other orders of species is their unhappiness. There is no other animal, Tristano says quoting Homer, which comes close to being as wretched as human beings are.21 The relationship between humans and animals as conceived by Leopardi is therefore not only one of comparison and contrast, but also measurement, quantification and evaluation, and the scales usually prove to be weighted one way or the other. If human beings do hold a position of supremacy, it is in their tendency to defer real action in favour of futile activities such as counting; their ability to be unhappy, to measure and realize the extent of their unhappiness; and their inclination to take their own lives as a result. 7. Between the polar opposites of identity and difference lies a whole spectrum of possibility; and between creation and death, the two stages at which the identity and differences between the human race and other animal species are made manifest, lies the business of life itself. Leopardi attempts to define life on several occasions in his writings, most famously, perhaps, in the metaphor of the journey taken by a lame and infirm man with a heavy burden on his shoulders (Zib. 4162-63), along with its poetic counterpart in the second stanza of the «Canto notturno di un pastore errante dell’Asia». Equally important is the distinction which he draws in the «Dialogo di un fisico e di un metafisico» between «la pura vita», by which he means consciousness («il semplice sentimento dell’esser proprio»), and «quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita», which refers to the intensity of sensory experience («l’efficacia e la copia delle sensazioni»; PP II, 65). The confusion generated by use of the same term to designate Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 104 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings two different experiences leads in turn to the well-known opposition between ‘life’ in the full sense and mere ‘existence’. But however we seek to define it – by analogy and metaphor, or by drawing distinctions – in one way or another life is made up of time. And it is in relation to the passing of time that a more nuanced understanding of how Leopardi sees the relationship between human beings and other animals finally becomes possible. In a discussion occupying five manuscript pages of the Zibaldone (Zib. 3509-14), Leopardi analyses the question of how humans and other animal species with different natural lifespans perceive the passing of time, in terms reminiscent of the vocabulary and metaphors at which we have been looking. His discussion is based again on the concepts of absolutism and relativism, opening with the uncompromising assertion «Niente d’assoluto» (Zib. 3509). The phenomenon with which Leopardi exemplifies his version of relativism is time. Time ought in theory to be one of the most absolute phenomena in nature, he suggests, but is in practice the opposite. What should make time absolute is the fact that it can be sub-divided, measured accurately and counted with the kind of certainty afforded by a scientific discipline such as arithmetic (rather than geometry as in «Il Parini»). Underpinning this notion is a further analogy, between time and matter (cf. Zib. 3510, «e come fosse quasi materia»), both of which are continuous phenomena that may be defined and split up. Time in particular can be divided according to criteria which are more or less arbitrary. A given «porzione di tempo» may be defined on the basis of «lunghezza» or «estensione», and sub-divided into even very small units («parti anche minutissime»), or longer ones such as hours, days, weeks or months, as the case may be. The act of splitting is vital for epistemological reasons – in order to know the phenomenon in its fullness – but at the same time, existentially it is the source of man’s problems. For as Leopardi writes elsewhere in the Zibaldone, while it is true that things are not small in their own right, and must be measured if one wants to understand them, once they have been measured – once their parts are fully known – they start to appear small, and become unsatisfying in a way they were not beforehand (Zib. 246-47). What creates the impression of time passing is not only sub-division but also sequence. In an image reminiscent of the «pietruzze» or «sassolini» described by the metaphysician in his dialogue, where the white stones correspond to the happy days Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 105 David Gibbons experienced and the black stones to the unhappy ones (PP II, 66), in the Zibaldone Leopardi invites his reader, or himself, to imagine having to count thirty or forty stones without being able to name them and number them sequentially. Only a handful could be retained in the mind, and thus counted, in this manner, he says, because the notion of sequence is inherent to the concept of number (Zib. 362). These two aspects taken together, succession and number, combine to create the perception of time passing, allowing it to be quantified, compared with other equivalent timespans, and emotional responses to its passing to be experienced and evaluated. It is the idea of multitude which produces the idea of length of time, Leopardi writes in the same essay (Zib. 3510), in particular with reference to time past. However arbitrary the criteria by which chunks of time might be split, history has determined certain measurements which, through use or convention, have now become as it were absolute. One such unit is the year; and the normal lifespan for a human being, according to the psalmist, is «threescore years and ten» (Psalm 89, 10). By and large Leopardi seems to accept this estimation, referring to it in a discussion of the purpose of governments (Zib. 625-29). In present-day states, he says, people live on average seventy years, while in ancient states (again the first point of comparison) they would have lived only fifty. This difference in life expectancy in turn stimulates reflection on the quality of life, for as he says, «100 anni di esistenza» would be less preferable than «40 o 30 anni di vita» (Zib. 627), a thought which provokes further discussion of measurement techniques, which in matters of life and death ought not to be those of «il secco matematico», but instead «i veri calcoli convenienti al filosofo, che non si contenti di misurar le cose, ma le pesi, e ne stimi il valore» (ibid.). The number forty itself is not accidental but recurs in the «Dialogo di un fisico e di un metafisico», when the latter proposes his own quaestio: «qualche buon antico», the metaphysician says, recounts that in some parts of India and Ethiopia men live no longer than forty years, and that those who reach this age are held to be very old; girls in such nations, moreover, are considerable to be marriageable from the age of seven years onwards (PP II, 64).22 The hearsay of the ancient texts, unlike some of the other «fables» referred to in the dialogue, is confirmed on this occasion by more recent scientific or anthropological findings, by Buffon in particular («sappiamo che, appresso a poco, si verifica»), regarding customs and practices in places such as Guinea, the Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 106 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings Deccan and other tropical regions. Similar considerations are found in the Zibaldone passage on the subjective nature of time (Zib. 3513); although the numerical references change slightly, the forty-year lifespan becoming more generally a reference to nations «che vivono meno», and the age at which young women become marriageable rising from seven to «10 o 12 anni». The ancient world and non-European nations thus act as Leopardi’s first «empirical referents of otherness» (or «esseri posti fuori della nostra sfera», to use his own terminology23), in his attempt to define what he himself, and others like him, should expect of their lives here on earth. To these two categories we might add women, for mention of the young marriageable age of Indian women produces an internal reference to subsequent discussion of how the same period of time might seem to pass more quickly to a woman than it would to a man, on account of their different life expectancies (Zib. 3898-99). But his main counterpoint in unravelling this particular strand of philosophical enquiry is the animal kingdom, as mentioned above, in ways we shall now discuss. 8. Leopardi’s reference to the animal kingdom in the essay on the subjective nature of time passing occurs, once again, in the context of the uncertainty over what happens to human beings after death. This particular discussion focuses on the Christian religion’s claims to break the cycle of suffering caused by desire and its inevitable frustration, through its promise of a better life to come. Such a promise is unable to console those who are unhappy in this life, he says, for ontologically speaking it is alien from human earthly experience. Promises of this kind offer celestial happiness, whereas what human beings desire so incessantly while on earth are the «piccoli beni» continually denied to them (Zib. 3501). Conversely, the threats of eternal punishment made by religion are more effective than its promises of beatitude, because they are based on sensation rather than abstraction (Zib. 3506-9). Because sensation belongs properly to the realm of human existence in this life, it is able to produce an effect on human conduct; while for the same reason promises made by appeal to intellection cannot be effective to the same degree (a point which Leopardi again substantiates with reference to Dante’s Comedy; cf. Zib. 3507). It is in this context – the inability of what is appropriate to one order of being to bring about change in another – that Leopardi makes his opening interjection Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 107 David Gibbons «Niente d’assoluto». Nothing is absolute, because what human beings crave is a form of happiness which is appropriate to themselves as they are now, not as they might be in some more or less hypothetical state in the future. Humans do not desire the happiness which is proper to, once again, the ox (Zib. 3498, footnote a), to plant life or the angels. Where humans and other animal species do resemble each other, though, is the fact that neither desires happiness absolutely «ma nel suo genere» (ibid.); and in fact this statement draws forth further clarification, in another marginal annotation, that when happiness is defined thus the desire for it – human certainly, but also animal – is absolute (Zib. 3509).24 Human desire for happiness generally or absolutely considered is relative; human desire for relative, human happiness, is infinite and absolute. The comparison with the animal kingdom is developed from two perspectives: that of animals which have shorter lifespans than humans do (referred to as brachibiotati); and that of those animals which live longer than their human counterparts (macrobiotati). The individual perspective of both categories will result in their perceiving and experiencing the same unit of time – specifically the examples quoted are the half-hour and the minute – differently from human beings. Those which have shorter lifespans than humans will experience the equivalent set of actions, sensations, passions and events more rapidly, and more intensely, than humans do; hence for them, a half-hour or minute timespan will feel like it is longer, because more things will happen in that same space of time. Conversely, those animals with a longer life expectancy than human beings will have the equivalent set of experiences and so forth over a longer timespan, hence more slowly; they will therefore perceive the same half-hour or minute as though it were shorter than human beings do, because for them less is crammed into the same amount of time. The net result may be similar – the sum and quantity of life, and hence its duration and length, may be roughly equal in effect («appresso a poco altrettanta in effetto», Zib. 3514) in both categories of animals – but the process by which it is arrived at is very different. The entire discussion is remarkably hypothetical in its construction, serving largely to show that phenomena require to be interpreted in ways that are consistent with, and appropriate to, individual genera. While Leopardi is on fairly safe ground with the second, longer-lived category of animals, four of which he is able to cite straight away («l’elefante, il cervo, la cornice, la tartaruga», Zib. 3513), his discussion of the Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 108 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings former category is crowded with hypotheticalities. For example, he moves to reassure himself in a parenthetical aside that such a category of short-lived animals does in fact exist, before selecting as his primary example an animal – in fact an insect, the so-called ephemeron – that might well not.25 For this reason he hedges his bets twice with hypothetical clauses («E s’egli è vero come dicono»; «se questo, dico, è vero»; Zib. 3511); and qualifies the initial premise with the concession that even if it is not true that such animals exist, the same things he is about to say apply equally, albeit in proportion, to those animals which live slightly longer than the possibly hypothetical ones. Mere comparison of the space which Leopardi devotes to the two categories of animal, longlived and short-lived – namely half a sentence in the former case and nearly two manuscript pages in the second – shows where his real interest lies. As is so often the case, it is something Leopardi reads which awakens his interest, causing him to transcribe the quotation in his notebook and discuss it further. On this occasion the quotation is from Antonio Genovesi’s Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale, in particular the twelfth article of the first meditation on the pleasure of existence. A full sentence is quoted by Leopardi, each individual word underlined in the autograph manuscript to indicate its status as a quotation, but in this case it is prefaced by an initial clause of Leopardi’s own, suitably sceptical, and hypothetical as mentioned above («E s’egli è vero come dicono che nel fiume Apanis in Scizia vi abbia degli animaletti»). In fact the original source for this reference is Aristotle’s History of Animals (V, 19), in which the philosopher describes the lifespan of the ephemera at slightly greater length.26 There is no reason why Leopardi could not have read the reference in Aristotle himself, for Theodore Gaza’s translation of the texts which together came to be known as the De Animalibus was among the books in the Palazzo Leopardi library in Recanati.27 But the quotation from Genovesi’s text is verbatim; in the copy of it contained in Monaldo’s library there is still apparently a slip of paper marking the relevant page; and it is not the only work by Genovesi contained in the library either.28 Genovesi’s text as a whole contains much of the same vocabulary to which we have now become accustomed: the opposition between absolute and relative; the inclination towards measurement; the subdivision of time into smaller units (in this case the century is taken as the primary unit or measurement of average life expectancy); and Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 109 David Gibbons metaphors drawn from scientific terminology, in this case again for the most part geometry (for instance, the century being interpreted as a «punto indivisibile» relative to the eternal flow of time which is figured as a «linea», or again, «successione».29 It also contains, obviously, comparison with the animal kingdom, which again in this case is twofold. On the one hand, Genovesi draws a sharp distinction between human and animal life, with a clear preference – unsurprisingly for the former. Animal life, in Genovesi’s view, is mere sensation, whereas what distinguishes human beings from the animals (and what by implication makes them superior to them) is their capacity for intellection.30 It is interesting in this connection that one of the specific intellectual capabilities referred to is «calculation», given Leopardi’s insistence that the acritical desire to extend the duration of human life is based on what he terms an «error» of calculation. More to the point, what is immediately noticeable in Genovesi’s distinction is how far it differs from the one drawn by Leopardi in the «Dialogo di un fisico e di un metafisico» and discussed earlier, between «pure» life and that which, he says, may more properly be called life, namely intensity of sensation. Whereas sensation is typical of the lower forms of existence as far as Genovesi is concerned, greater intensity of sensation for Leopardi would greatly improve the quality of what is supposed to be, but is not, a higher form of existence. In this and many other ways, Genovesi’s meditation functions as a kind of negative intertext for Leopardi.31 The second and most important manifestation of the comparison with the animal kingdom in Genovesi is his reference to Aristotle’s account of the ephemeron. The context in Genovesi is an attempt by him to persuade his interlocutor that their hypothetical lifespan of one century is not merely a point in time when compared to the unending line of infinity; but is in fact quite long when set against the shorter lifespans of certain animals, and in this case insects. As he says, the longest life of certain insects is no more than a month, meaning his interlocutor lives 1,200 times the length of time they do, a concept reiterated by his reference to the limit-case that is the ephemeron, compared to which the interlocutor’s century is more than 70,000 times the insect’s lifespan. Comparison between the two contexts in which Genovesi and Leopardi refer to the ephemeron reveals once again the ideological differences underpinning the two references. For Genovesi’s premise is that life itself is a good thing and that longevity is consequently desirable in its own right. While there is no suggestion in Genovesi that Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 110 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings human life may be prolonged artificially, to be aware of the relative length of human life is an ethically appropriate stance to adopt. For Leopardi, by contrast, the perception as we have seen is that human life is not necessarily good in its own right but quite possibly bad, save in the unlikely event of it also being happy. If life is not happy, the shorter it is the better; and any promises of happiness in the life to come are of no use either, for the reasons already discussed. The radical alterity of the way in which the ephemeron perceives time, and the intensity of its experience, might be of interest and to some degree attractive as far as Leopardi is concerned. But ultimately his conclusion is that even this act of comparison between human and animal or insect life is of limited value, for in one sense the sum and quantity of life, and therefore its duration and length, are largely equal between both shorter- and longer-lived animals (Zib. 3513-14). Comparison between humans and animals may be inevitable, but ultimately does not work either. 9. Leopardi returns to the example of the ephemeron in the «Dialogo di un fisico e di un metafisico». The discussion on this occasion is heavily inspired by Hufeland’s Makrobiotik, a text which Leopardi had been reading in Italian translation as early as 1820 (cf. Zib. 352). The sources, too, seem to have changed in the almost eight months between the time when Leopardi was annotating his notebook (the essay on Zib. 350914 is dated 24 September 1823, while the dialogue was composed on 14-19 May 1824). The themes are the same: scepticism over whether life itself is good, comparison with the ancients and inhabitants of other countries, measurement of lengths of time, desire for intensity rather than longevity of experience, and so forth. But on this occasion the ephemeron reference is set in opposition not to the tortoise or elephant but the fish, which according to Leeuwenhoek (although Leopardi’s source is Buffon, as his annotations to the dialogue make clear) are supposed to be immortal.32 Genovesi is not mentioned in the text on this occasion, though his name does figure in the marginal annotation added to the phrase «alcuni insetti», along with the qualification «veri o mentiti, fantastici, narrati» (PP II, 1307, note 29). In the published version, Genovesi’s apposition («e muoiono», ibid., p. 26) is qualified by a concession («e contuttociò muoiono», PP II, 66); his «carichi di figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni» reduced to «bisavoli e trisavoli». The «animaletti» are now referred to with Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 111 David Gibbons greater precision as «alcuni insetti, chiamati effimeri»,33 and their hypothetical nature reduced to those few words in the marginal annotation, excluded from the published version forever and resurfacing only in the reference to hearsay («dei quali si dice»). Genovesi’s assertion that those insects which are born in the morning and die in the evening are the oldest is inverted and paraphrased («i più vecchi non passano l’età di un giorno»); and most significantly, perhaps, the Neapolitan economist’s statement of relativism («a lor modo») is removed entirely. For this is no statement of relativism on the part of the metaphysician or indeed Leopardi. Rather, it is an expression of confidence that a life such as that of the ephemeron would leave no room for tedium, and for this reason – but only this reason – would be preferable to human existence. The relativism which accompanied Leopardi’s original formulation of the Genovesi quotation in the Zibaldone has become more implicit, reduced to a consequence of the dialogical form itself, as the metaphysician’s question «Che pensi di questo ragionamento?» is met with scepticism on the part of the physician («Penso che non mi persuade»), and an agreement to disagree on the subject. 10. In discussing the ephemeron illustration, Paola Cori suggests that unlike with the figure of the bird in other of Leopardi’s writings, the desire which he expresses is for overlap with the animal world rather than animalization; or more specifically, that «it is possible to detect a sense of resistance towards a total metamorphosis in the Metaphysician’s words» (Cori 2012: 77). Indeed, the discussion of time passing, if anything, reinforces the boundaries between humans and the other animal species. The upshot of this process of measurement, quantification, analysis and evaluation is an entrenched sense of the loneliness of the human condition, which, within the confines of its own genus, is absolute. It may be interesting to look over one’s own garden fence, or it may provoke envy to do so, but ultimately it does not change anything, for the fence cannot be scaled in any case. The confine which this fence represents – the real boundary separating humans from other animals – is the question of happiness. This is why, as Porfirio says, children’s and animals’ understanding of unhappiness has «narrower boundaries» than an adult’s does. Human pleasure may aspire to an entire absence of boundaries, or infinity, as Leopardi writes in Zib. 247; but such absolutes are possible for human beings only within the limits of their own genus. In the same way, Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 112 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings Leopardi may yearn for an understanding of the universe which transcends anthropocentrism, but ultimately his philosophy remains bounded by it. An understanding of the absolute nature of this tragic form of relativism is what creates the desire to commit suicide; but in this case the ineluctable comparison with the animal world makes things worse rather than better. If anything, the one border which does prove to be porous is the line which separates life from death, not in the Christian sense of life continuing after death, but rather, as Leopardi says, of death itself invading physical life, to the extent that there appears to be no distinction between them (Zib. 1007). If the distinction between self and (in this case animal) other is not breached, finally, what is revealed in these discussions of life and death, of time as matter, and of time as a matter of life and death, is a further fracture within the Leopardian self. Selflove, we have seen, involves transcendence of the self to enable it to engage genuinely with others; while the very fact of being human – or for that matter animal – involves the ability to move or direct the self in order to make choices. This itself constitutes a form of violence, for as Leopardi says, life is by its nature a state of violence (Zib. 4074), the ultimate expression of which would be suicide. The tragedy as far as Leopardi is concerned, however, is that not even form of self-transcendence is possible. * Quotations from the Operette morali and Zibaldone (henceforth Zib.) in this article are taken from the «I Meridiani» editions by Rolando Damiani (see Bibliography for details). Quotations from the Bible, meanwhile, have been taken from the King James Version. 1 Henceforth PP. 2 Zib. 3295: «Da queste teorie séguita che le bestie, avendo meno vita dell’uomo, perocchè hanno meno spirito e più del materiale, e di ciò ch’esiste e non vive ec., debbono aver meno amor proprio, e più egoismo; e così è infatti: e che tra loro la specie men viva, come il polipo, la lumaca ec. dev’esser la più egoista: e che scendendo ai vegetabili e quindi per tutta la catena delle creature, si può dir che più scema la vita più cresca l’egoismo, onde l’éssere il più inorganizzato, sia in certo modo il più egoista degli esseri. ec.». On octopuses see Zib. 3925, and on octopuses and snails Zib. 3927 (part of the same entry dated 27 November 1823). For the great chain of being, meanwhile, see Zib. 1923 («catena del genere animale»), 3378 («la catena degli esseri»), and 4133 («gran catena degli esseri»); cf. Pezzano (forthcoming), p. 4. 3 There are various references to both animals in the Zibaldone, including to previous versions of similar fables. One phrase included in the first version of the dialogue («Si avverta di conservare l’impressione che deve produrre il discorrersi dell’uomo come razza già perduta e sparita dal mondo, e come di una rimembranza, dove consiste tutta l’originalità di questo Dialogo, p.[er] non confonderlo coi tanti altri componimenti satirici di questo genere dove si fa discorrere delle cose nostre o da forestieri, selvaggi ec. o da bestie, in somma da esseri posti fuori della nostra sfera»; PP II, 238) shows that Leopardi was sensitive to the need to provide a variation on the theme, as well as suggesting a possible reason why the Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 113 David Gibbons dialogue was never completed. Rather than Pignotti’s Favole (XLII, «Il cavallo e il bue») referred to in Zib. 67, however, the most important source here appears to be Xenophanes, quoted in Clement of Alexandria’s Miscellanies (V, 110) as saying that «if oxen and horses and lions had hands and were able to draw with their hands and do the same things as men, horses would draw the shapes of gods to look like horses and oxen to look like oxen, and each would make the gods’ bodies have the same shape as they themselves had». Leopardi himself quotes precisely this aphorism on Zib. 1469 («come dice Senofane presso Clem. Alessandr., se il cavallo o il bue sapesse dipingere, gli farebbe dipingere e immaginare i suoi Dei in forma e natura di cavalli o di buoi»), and again, as he says there, in his Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (PP II, 416). In one sense, then, Leopardi’s critique of anthropocentrism has at least some of its origins in the critique of anthropomorphism. 4 For God as creator, cf. Zib. 394 («Stimando perfetta l’opera della natura, stimo perfetta quella di Dio; condanno la presunzione dell’uomo di perfezionar egli l’opera del creatore»; for humanity as having been created by God, cf. Zib. 435-36: «Laddove il mio sistema che pone la perfezion vera ed essenziale dell’uomo, nel suo stato primitivo, cioè in quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatam. dalle mani di Dio». 5 ‘Other’ animal species: «gli altri animali» (Zib. 400, 401, 403); «gli altri esseri viventi» (Zib. 418); other species ‘as well’: «anche le bestie» (Zib. 394); «anche gli animali» (Zib. 417); ‘common’: «comune anche agli animali» (Zib. 400); «usata anche dagli animali» (Zib. 402); «come ne hanno gli animali» (Zib. 417). 6 Zib. 437-38: «Le piante e i sassi che non si muovono da se, nè dipendono da se nell’azione e nella vita, non hanno bisogno di credenze, ma l’animale che dipende da se nell’azione e nella vita, ha bisogno di credere, giacchè non c’è altro motivo nè mobile, nè altra forza, (eccetto l’estrinseche) che lo possa determinare, e definirne la scelta». On self-movement as a factor in distinguishing between animal and non-animal species see Boyde 1993, discussing the scholastic translations and commentaries of Aristotle and their influence in particular on the poetry of Dante. According to this view the ability to generate selfchange is specific to those bodies equipped with a soul (anima). The crucial distinction as far as Dante was concerned was between the corpus seipsum movens and the corpus seipsum dirigens, for it was the ability to arrive at a iudicium, to choose what they do with their own bodies and therefore take responsibility for their actions, which made human beings human (ivi, pp. 173-74). This distinction is less significant as far as Leopardi is concerned, because both humans and the other animal species are capable of making choices based on «credenze», which is precisely what plant life is incapable of doing. 7 For Buridan’s ass («quell’asino delle scuole»), cf. Zib. 437, and also (as shown by an internal reference) Zib. 381, quoting Par. 4, 1-6: «Bisogna esser bene stupido per ammetter l’ipotesi di un’ignoranza che lasci l’uomo nell’intera indifferenza, come quell’asino delle scuole, posto tra due cibi distanti e moventi d’un modo, il quale si morria di fame». One last point perhaps worth noting in passing is that as far as Dante was concerned the source of the ass anecdote was not Buridan but Aristotle, specifically De Caelo Book II, 13, 295b32, again in the context of geocentrism. 8 PP II, 238: «perduta da noi per esserci allontanati dalla natura, discorrere con quella maraviglia che dev’essere in chiunque si trovi nello stato naturale, delle nostre passioni, dell’ambizione, del danaro, della guerra, del suicidio, delle stampe, della tirannia, della previdenza, delle scelleraggini, ec. ec.»). 9 «Against nature»: Zib. 1978; 2492; «contrary/repugnant to nature»: Zib. 815; 3792; 3928; «forbidden by nature»: Zib. 2402 («La natura vieta il suicidio»; unlike the animals, of whom Porfirio says in his dialogue that «nessun divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi dai loro mali», PP II, 199); «contrary to natural laws/principles/foundation/order»: Zib. 815, PP II, 200, and in particular Zib. 3883 («P.e. Il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell’esistenza, ai principii, alle basi dell’essere di tutte le cose, anche possibili»). 10 «Monstruous»: PP II, 275; 207 («Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragione l’accomodar l’animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto, di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo»); «imagined»: cf. Zib. 3883 quoted above («anche possibili»), but also Zib. 66 («la cosa più contro natura che si possa immaginare»). 11 Cf. Zib. 2402, where Leopardi states that suicide is contrary to nature but then asks, «Qual natura?». 12 Examples of human longevity among the ancients will be discussed in due course. 13 Even the most sociable: Zib. 3883; desiring death: Zib. 814, PP II, 199; taking own life voluntarily: PP II, 61; facing death with equanimity: PP II, 197. 14 Zib. 814: «La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de’ bruti anche per questa parte»; PP II, 199: «Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori alle bestie» (italics mine in both cases). Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 114 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings 15 Zib. 66: «Non ho mai con più forza sentita la discordanza assoluta degli elementi de’ quali è formata la presente condizione umana forzata a temere per la sua vita». 16 PP II, 199: «perché le infelicità loro hanno più stretti confini che le infelicità dell’uomo:». 17 PP II, 199: «Certo non ha luogo negli altri animali»; ibid., 201: «Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria»; ibid., 202: «Certo che quelle genti salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita» (italics mine). 18 Zib. 107, «una prova materiale»; Zib. 2550, 2553, «fisicamente certo». 19 PP II, 218; on Leopardi’s critique of statistics, see Di Meo 2008, section 6 in particular; and on the ideological background to the discipline in nineteenth-century Italy generally, see Patriarca 1996. 20 Cf. PP II, 205-6 (Porfirio); Zib. 2551. 21 PP II, 214: «chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali» (cf. Homer, Iliad XVII, 44647); see also PP II, 196 (Porfirio): «quella maggioranza che noi, per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; […] dico il principato della infelicità»; and also Zib. 223: «Se la perfezione degli esseri viventi si misura dall’infelicità, va bene». 22 Leopardi cites Pliny and Arrian as his ancient sources regarding the short life expectancy of Indian men (PP II, 226, note (24)); but Ctesias equally was one source for the opposite commonplace regarding their longevity (cf. Horace H. Wilson, Notes on the ‘Indica’ of Ctesias, Oxford, Collingwood, the Ashmolean Society, 1836, p. 19; and for Leopardi quoting Ctesias through the agency of Photius’s commentary as found in the Bibliotheca Graeca, cf. Zib. 4199-200). This latter myth is referred to once more in the «Dialogo di un cavallo e un bue», though the source cited on this occasion is an article in Rasori’s Annali di Scienze e di Lettere di Milano (VIII, 35; cf. PP II, 242), which in turn is a review of William Carey and Joshua Marshman’s English-language translation of the Indian epic poem Ramayana (The Ramayuna of Valmeeki, translated from the original Sungskrit, with explanatory notes, London, Black, Perry & Co., 3 vols, 1808; cf. I, vi, 65, or I, xix, 164 for examples, and the article in the Annali, VIII, 32 and 46-47 for the references). There is every possibility that the classical tradition was in fact based on an overly literal reading of mythological texts such as the Ramayana. 23 PP II, 238 («Dialogo tra due bestie p. e. un cavallo e un toro»); cf. Zib. 492. 24 The two marginal notes, on Zib. 3498 and 3509 respectively, may well have been added simultaneously; both run vertically down the left-hand margin, and the former actually continues onto the next page (Zib. 3499), and contains a cross reference to the latter marginal note («Veggasi la p. 3509. massime in margine.»). 25 Zib. 3511: «(chè egli v’ha effettivamente animali che rispondano a tutte queste differenze di durata, e a cento e mill’altre intermedie)»; cf. later on regarding the existence or otherwise of nations which are longer-lived than the European ones: «le nazioni (se ve n’ha) che vivono ordinariamente più di noi» (Zib. 3513). 26 Aristotle, De natura animalium: De partibus animalium; De generatione animalium, interprete Theodoro Gaza, Octavi Scoti, Venetiis, 1495 (?): «hypanis fluvius apud cimerium bosphorum sub solstitio defert veluti folliculos acinis maiores quibus quadrupedes volucres erumpunt: quod genus animalis in post meridianum usque diei tempus vivit & volat: mox descendete sole ma crescit & languet: deide occidente emoritur vita non ultra unu die peracta. Unde ephemere ide diariu appellatu est». 27 On Theodore Gaza’s translation, see Beullens and Gotthelf 2007 (see p. 470 on the «virtual monopoly which Theodore’s translation of Aristotle’s biological works had from the fifteenth century onwards»; and p. 471 on Theodore’s somewhat original translation practice, whereby he «moved one whole book, excluded another, and within a third rearranged large blocks at several places», in an attempt to «restore the text to the form the philosopher had originally given it»); and on Genovesi as a source for Leopardi generally, see Gensini 1984: 24, note 4, and 46-49; and Pisciotta 1998: 224, note 50. 28 On the slip of paper marking p. 26 of the Meditazioni, see Caesar and D’Intino (eds) 2013: 2288 (ad loc.); while Genovesi’s La logica per i giovanetti also features in the Palazzo Leopardi library catalogue; and his Lezioni di commercio are quoted by Leopardi on Zib. 1423. 29 Absolute versus relative: «Niente è da per se stesso, e assolutamente lungo, o breve. Questi vocaboli sono relativi alle loro misure» (Genovesi 1774: 24). Measurement: «A qual misura hai tu misurata la tua presente vita?»; «Ma tu guardi però tu ad una troppo lunga misura»; «Che ragione hai tu di misurarti coll’eternità?» (ibid.); «Or perchè non ti misuri tu a questa misura?»; «Ma io vo’ richiamarti ad un’altra misura» (p. 25). Geometry: «E’ egli altro, che un punto in una infinita linea?» (p. 24); «ma non è già vero, che questo secolo sia un punto indivisibile»; «tu non vedresti successione ne’ tuoi pensieri, nelle tue Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 115 David Gibbons volontà, nelle tue azioni, ne’ tuoi pensieri, ne’ tuoi dolori […], ne’ tuoi disegni, e in altrettali cose tue» (p. 24). 30 «Non credere, che il tuo vivere sia così, come quello delle bestie, le quali non vivono, che quanto sentono, cioè che un punto del presente, non essendo la lor vita, che puro senso. La tua vita è pensare, e ragionare, e calcolare» (ibid., p. 25; cf. the start of section 7 here on Leopardi). 31 Cf. Cori 2012: 74: «Genovesi’s work offered several sources of investigation to Leopardi, although the poet reverses his answers to the same philosophical questions». 32 Zib. 4063: «La testuggine, l’elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita»; PP II, 66 for the reference to Leeuwenhoek (and II, 1307 for the reference to Buffon). 33 See also Zib. 4092 («quegl’insetti che non vivono più d’un giorno»), including a reference to the dialogue, dated 21 May 1824 (two days afther the dialogue was completed); and Zib. 4272 («efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per arrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una, di due o di tre ore»), with reference to the Encyclopédie as further evidence of Leopardi’s widening sources. 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Genovesi, A., Meditazioni filosofiche sulla religione, e sulla morale, Bassano, Remondini, 1774. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 116 Matter(s) of Life and Death: Man and ‘Other’ Animals in Leopardi’s Writings Gensini, S., Linguistica leopardiana. Fondamenti teorici e prospettive politicoculturali, Bologna, Il Mulino, 1984. Gibbons, D., «Conceding the Point: Leopardi’s Use of Concession in the Zibaldone», Rivista Internazionale di Studi Leopardiani (7), 2011, 109-28. Lollini, M., «La scrittura dell’inizio: Leopardi e il problema della genesi», Forum Italicum (34) 1, 2000: 30-48. Patriarca, S., Numbers and Nationhood: Writing Statistics in Nineteenth-Century Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. Pezzano, G., «Leopardi tra gli uomini: la materia della natura. Per un’antropologia filosofica leopardiana», Quaderni materialistici (11), 2012: forthcoming. Pisciotta, M. C.,« Il cinese nella linguistica leopardiana», in Filippo Mignini (ed.), Leopardi e l’Oriente. 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Novella Primo novellaprimo@alice.it «Nella mia più tenera infanzia, non sò [sic] come, o da chi, mi venne ispirato desiderio grandissimo di sapere, e vaghezza somma di possedere quantità grande di Libri, non tanto per cavarne profitto Letterario, quanto per farne oggetto di ambizione, e nobile ornamento della famiglia».1 Così Monaldo Leopardi, «collettore di libri», esordiva nel raccontare la storia della formazione della sua Biblioteca recanatese, ammettendo anche gli errori compiuti nell’aver accumulato libri, comprati spesso «alla rinfusa»2 e senza un criterio preciso «per mancanza di cognizioni».3 Nonostante la sua genesi anomala e asistematica, è noto come la Biblioteca di Casa Leopardi, aperta nel 1812 «filiis amicis civibus», assuma un ruolo se non cruciale, di certo rilevante, nella formazione di Giacomo e di altri membri della sua famiglia ed è sempre apparso un imprescindibile punto di partenza per i leopardisti poter soppesare l’entità del patrimonio librario in esso contenuto e conoscere così le edizioni dei testi che Leopardi ebbe la possibilità di consultare all’interno delle mura domestiche. Punto di riferimento obbligato di generazioni di studiosi è stato, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, il Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati (1847-1899), pubblicato nel 1899 tra gli «Atti e Memorie della Reale Deputazione di Storia Patria per le Province delle Marche» in occasione delle celebrazioni per il Primo Centenario leopardiano e circolante in tiratura limitata, prevalentemente nelle biblioteche. Precisamente si tratta della trascrizione a stampa di un manoscritto (attualmente conservato presso l’Archivio di Stato di Roma), redatto da Pierfrancesco Leopardi e da altri suoi collaboratori. È merito di Andrea Campana garantire oggi una maggiore diffusione e una migliore fruibilità di questo utilissimo, anche se per alcuni versi imperfetto, strumento bibliografico offrendoci una nuova edizione del Catalogo apparsa per i tipi Olschki, emendata da alcuni refusi presenti nell’edizione del 1899 ed elencati accuratamente in conclusione del volume stesso. Precisamente si tratta della Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 119 Andrea Campana (a cura di), Catalogo della Biblioteca Leopardi ristampa unicamente del regesto dei circa 8000 lemmi bibliografici, la cui consultazione appare favorita dalla nitidezza dell’impaginazione su due colonne per foglio in cui i libri raccolti nella Biblioteca recanatese appaiono elencati alfabeticamente nel seguente ordine: cognome e nome dell’autore in maiuscoletto, titolo in corsivo, città, data di edizione ed eventuali altre indicazioni relative al numero dei tomi e ai formati dei volumi («in-4», «in-8», «in-f», ecc.). Un ulteriore valore aggiunto è costituito dal denso apparato paratestuale che arricchisce il volume, presentato da Fabio Corvatta, attuale presidente del Centro Nazionale di Studi Leopardiani, prefato da Emilio Pasquini e introdotto da un corposo saggio di Andrea Campana intitolato La libreria di Monaldo e articolato in 8 paragrafi (1. Monaldo Leopardi e i suoi libri, 2. La stratificazione del fondo monaldiano, 3. Una biblioteca sacra, ma non solo, 4. La topografia della biblioteca, 5. Il rapporto di Giacomo col fondo paterno, 6. La questione di C1899, 7. Il manoscritto romano, 8. Nota al testo della presente edizione). Segue poi un’Appendice che contiene alcuni documenti importanti nella storia della ricostruzione del fondo librario, oltre ad un pregevole corredo iconografico contenente schede catalogatorie autografe, lettere e altro materiale relativo all’argomento trattato. Nella sua prefazione, Emilio Pasquini, oltre a restituire l’atmosfera in cui più di un secolo fa maturò il Catalogo, ripercorre il lavoro compiuto da Campana, il quale ha collazionato il testo a stampa con l’originale manoscritto, ora conservato all’Archivio di Stato di Roma e ha insistito sull’importanza della collaborazione dei figli di Monaldo nell’incremento della libreria. Pasquini, inoltre, propone una serie di spunti offerti dalla rilettura integrale del regesto che, analogamente a quanto avviene compulsando strumenti lessicografici simili come vocabolari o concordanze, può portare lo studioso a stupirsi per l’assenza di autori e libri significativi, ma al tempo stesso condurlo verso «le suggestioni di possibili ipotesti e le tentazioni di stabilire raccordi, anche interni agli scaffali di casa Leopardi»,4 possibilmente affiancando la lettura del Catalogo con altre guide importanti come gli Elenchi di letture degli anni 1823-30 stilati dallo stesso Leopardi, alcune pagine dello Zibaldone e le postille bibliografiche disseminate negli scritti del Recanatese, come nelle Annotazioni alle dieci Canzoni stampate nel 1824 a Bologna. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 120 Novella Primo Dal contributo di Andrea Campana trapela chiaramente l’acribia e la scrupolosità con cui lo studioso si è accostato al ripristino del controverso Catalogo. Il saggio offre un rigoroso percorso insieme filologico, documentario e interpretativo intorno alla libreria recanatese, spiegandone le due diramazioni principali: vanto e accumulo per Monaldo, abbrivio di una ricerca profonda per Giacomo. Emerge come «quello monaldiano fu senza ombra di dubbio un fondo assai statico, o, per essere più precisi, molto conservativo, nel senso che difficilmente rilasciava i propri volumi, dopo che gli erano stati annessi»5 e da cui si delinea un interessante profilo del padre di Leopardi, «gelosissimo dei suoi libri» e pertanto ansioso di farseli restituire, dopo averli dato in prestito. La stratificazione del materiale librario, oltre alla fase di acquisti indiscriminati ricordata inizialmente, vede un ulteriore momento favorevole nel periodo napoleonico durante il quale furono confiscati i fondi librari derivanti dalla soppressione delle corporazioni religiose. Altre fasi sono motivate più che da eventi storici dagli studi scolastici dei primi tre figli, dall’aiuto offerto a Monaldo dal canonico Vogel per la redazione degli indici manoscritti della biblioteca e dal periodo di rapporti, soprattutto epistolari, col mondo dell’editoria e, in primis, con Antonio Fortunato Stella, determinante anche per Giacomo. Tante altre furono comunque le forme di acquisizione di nuovi volumi, in alcuni casi ricevuti in regalo come si può leggere nella memoria monaldiana intitolata I donatori dei libri: Il mio diletto e sempre pianto Giacomo arricchì la biblioteca con circa 300 volumi, donatigli dai suoi amici e dagli autori rispettivi. L’altro mio figlio Carlo donò alla biblioteca libri inglesi, che donò a lui il signor Filippo Solari. L’altro figlio Pier Francesco, ereditato il mio genio raccoglitore, ha già messo a quest’ora nella libreria qualche centinaio di libri. La mia buona figlia Paolina mi ha fruttato e mi frutta molte operette che mi vengono in dono da Modena in corrispondenza degli articoli ch’essa sceglie e traduce quotidianamente per quella Gazzetta.6 Il curatore del volume edito dalla Olschki propende inoltre per una scelta inclusiva dei testi pervenuti dopo la morte di Giacomo. Nel suo saggio Campana cerca anche di precisare la portata dei testi d’argomento religioso nella Biblioteca (trenta edizioni della Bibbia, vari scritti dei Padri della Chiesa ecc.), definendola «non propriamente sacra ma ‘a base sacra’» affermando che «su tale base si innestarono in seguito molte altre ramificazioni bibliografiche Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 121 Andrea Campana (a cura di), Catalogo della Biblioteca Leopardi (anche inaspettatamente remote dal tronco principale)».7 Se inoltre è innegabile l’effetto di imprinting che i primi libri letti all’interno dello spazio di Palazzo Leopardi esercitarono su Giacomo Leopardi, Campana insiste comunque nel parlare di «libreria di Monaldo» e a proposito del poeta dei Canti, pur sostenendo l’ipotesi che Giacomo lesse attentamente i libri della Biblioteca paterna, orienta il suo discorso anche verso i fondi librari, innanzitutto quelli recanatesi e marchigiani, che poterono affiancarsi, nelle letture del giovane letterato, all’elenco di volumi contenuti nel Catalogo. Gli ultimi paragrafi del contributo di Campana sono poi dedicati ad alcune importanti questioni filologiche relative al rapporto tra il Catalogo del 1899 e quello presente ancora oggi all’Archivio di Stato di Roma, spiegando nella «nota al testo della presente edizione» i criteri seguiti nella revisione del Catalogo stesso. In particolare, sottolinea Campana: si è qui optato per riportare in circolazione uno strumento, frequentato dagli studiosi di Leopardi per più di un secolo (e lesinato dalle ormai esigue biblioteche che lo posseggono con mille difficoltà), e lasciare a ciascuno la scoperta degli errori e il raffronto con gli originali, mostrando soltanto le principali discontinuità rispetto all’antigrafo manoscritto, perché cambiare anche solo una data rispetto alla copia a stampa del 1899 avrebbe potuto comprometterne il valore testimoniale.8 Il Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati, grazie al certosino lavoro di curatela compiuto, si pone come un testo ‘aperto’ che si offre al lettore e soprattutto allo studioso di Leopardi suggerendo molteplici piste di approfondimento; proponendo – nel saggio introduttivo dello stesso curatore – due portraits, quello di Monaldo e quello del figlio Giacomo, che si delineano netti tra gli altri proprio grazie allo spazio librario del Palazzo recanatese. Monaldo, se non proprio accurato nella costituzione della sua collezione di libri, appare comunque uno studioso erudito («ho aperto un’infinità di libri, ho studiato infinità di cose»)9 e insieme consapevole, come il più celebre figlio, dei limiti culturali di Recanati definita «terra di rilegazione e di cecità» in una lettera a Carlo Antici del 22 luglio 1813. Passione per lo studio e atteggiamento contraddittorio verso l’odiosamata città natale lo avvicinano sempre più al portrait (o – come suggerisce acutamente Campana – allo studiatissimo self-portrait) dello stesso Giacomo,10 geniale poeta «bibliofilo» in grado di associare il diletto della lettura alla cultura enciclopedica, favorita di certo proprio da quella Biblioteca al centro delle pagine del Catalogo recentemente ripubblicato. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 122 Novella Primo 1 Monaldo Leopardi, Della formazione ed accrescimento di questa biblioteca. Commentario, in Andrea Campana, a cura di, Catalogo della Biblioteca Leopardi in Recanati, Firenze, Olschki, 2011, p. 40. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 41. 4 Emilio Pasquini, Prefazione a Campana, Catalogo…, cit., p. 3. 5 A. Campana, La libreria di Monaldo, in Id. (a c. di), Catalogo…, cit., pp. 7-8. 6 Il brano di Monaldo Leopardi è riportato da Campana, La libreria di Monaldo, cit, p. 15. 7 Ivi, p. 21. 8 Ivi, p. 39. 9 Monaldo Leopardi, Autobiografia… in Campana, La libreria di Monaldo, cit., p. 19. 10 Ivi, p. 30. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 123 Recensioni Mario Andrea Rigoni, Il materialismo romantico di Leopardi, Napoli, La Scuola di Pitagora Editrice, 2013, pp. 101. Francesco De Martino demart81@libero.it Questo volumetto è, citando letteralmente quanto scritto nella bandella, “un felice coronamento” de Il pensiero di Leopardi, di cui si è già parlato nel precedente numero di questa rivista. E infatti, il cuore del volumetto sono i primi cinque saggi, che affrontano e approfondiscono due dei tre temi assiali di quell’opera: il materialismo antirazionalistico di matrice romantica (che dà il titolo al volume) ed il problema estetico. La tesi di fondo è quella che già si è osservata parlando del precedente libro: che cioè il pensiero di Leopardi sia lontanissimo dal razionalismo tutto progressivo dell’interpretazione, diventata canonica, di Cesare Luporini, e che invece, ferma restando la caratterizzazione materialistica della Weltanschauung del Recanatese, il “pessimismo materialistico” (come lo chiama Luporini stesso) sia a pieno titolo identificabile con la sensibilità romantica, al punto di fare della Ragione un mito negativo. Il suo nichilismo antirazionalistico si nutre inoltre dell’ammirazione per gli antichi, considerati come superiori in quanto più vicini cronologicamente allo stato di natura e antecedenti alla spiritualizzazione del mondo, resa universale dal Cristianesimo, e in quanto capaci di produrre opere meravigliose con la nonchalance di chi lo fa per hobby, per diletto, essendo normalmente impegnato in attività di altro genere, dalla politica alla guerra. Questa caratteristica degli antichi è esposta proprio nel primo saggio, Poetica e poesia di Leopardi (pp. 9-21), che in pratica riassume e sviluppa soprattutto quanto contenuto nel saggio L’estetizzazione dell’antico, del 1976, presente in apertura dell’altro volume. Partendo infatti dall’affermazione della costante materialistica nel pensiero leopardiano, ne deriva che se tutto è materia, la spiritualizzazione del mondo (iniziata con il peccato originale ma appunto universalizzata dal Cristianesimo) è un processo distruttivo, in quanto ha sostituito la materialità del tutto con falsi miti. Ma non basta: una conseguenza della Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 124 Mario Andrea Rigoni, Il materialismo romantico di Leopardi spiritualizzazione, che è sinonimo di razionalizzazione, è che man mano che si procede nella scoperta del vero, da un lato si commettono errori perché ci si allontana dalla natura, unica realtà e fonte di conoscenza; dall’altro, correggendo gli errori con il metodo negativo che vedremo più avanti, si scopre l’assurdo, che cioè tutto è nulla. La scoperta del vero è la scoperta del nulla, del limite, e del resto anche usando la ragione negativamente, cioè per eliminare gli errori, non si tornerà mai all’incorrotta natura originaria. Ciò è vero soprattutto nel campo poetico, laddove la poesia immaginativa creata con tanta naturalezza (appunto!) dagli antichi in mezzo alle loro mille occupazioni, è ormai irrimediabilmente perduta e l’unico modo per attingere alla natura è la poesia lirica (e la musica strumentale), unico vero strumento di conoscenza rimasto perché incontaminato dalle idee razionali ed espressione del soggettivo. La poesia è quindi conoscenza, come si vedrà meglio poco più avanti, è natura ed è anche consolazione dalla consapevolezza della vacuità del tutto e dunque dalla noia. Ma c’è di più: la lirica utilizza di preferenza il linguaggio del vago e dell’indefinito, da cui dipende il piacere in quanto esso non è legato alle contingenze, anzi ne è staccato a tal punto da consistere nell’oblio, nel cupio dissolvi ben espresso nell’Infinito. Dunque Leopardi confonde finito e indefinito, come si può agevolmente vedere raffrontando i quanto esposto alla p. 18, quindi in questo primo saggio, e 28-29, cioè nel secondo saggio, Gnoseologia come estetica (pp. 23-32): il piacere è dipendente dall’indeterminato (p. 18); ma se il sentire fosse infinito il piacere sarebbe perfetto, e di conseguenza anche la felicità (pp. 28-29, e Zib. 4061); dunque Leopardi confonde l’infinito e l’indeterminato (p. 18). Il secondo saggio riprende la connessione fra sentire e conoscere già vista alle pp. 14-15 de Il pensiero di Leopardi (anche qua senza citare il v. 103 del Canto notturno), precisando che la felicità non è del conoscere inteso comunemente, ma del sentire. Quindi Leopardi da un lato si sbarazza dell’intellettualismo socratico-platonico (e aggiungerei aristotelico), dall’altro identificando conoscenza e sentire, e legando il sentire al piacere, unifica la conoscenza e il godimento estetico sotto il segno della concezione intellettiva (la concezione è la sensazione dell’intelletto, e le sensazioni sono il veicolo del piacere), indipendente dalle nozioni di vero e falso. Quindi il vero sapiente non è lo scienziato, bensì il poeta, l’unico che sente la natura e che non si cura del vero. Ragion per cui Leopardi, come già si vide in Contro l’analisi nel precedente volume, Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 125 Francesco De Martino ritiene che il modo migliore per uccidere la poesia sia l’anatomizzarla, il razionalizzarla, l’analizzarla. Il terzo saggio, Classicismo e nichilismo (pp. 33-39), già dal titolo lega due dei capisaldi dell’interpretazione di Rigoni, precisando che si tratta di due costanti nel pensiero del Recanatese, definito “idolatra dell’antichità” (p. 34). Ancora una volta quindi si insiste sull’ammirazione per gli antichi, questa volta dal punto di vista della vitalità, che, a differenza di quanto accade per l’uomo moderno, non era annullata dall’angoscia esistenziale e nichilistica che egualmente attanagliava l’uomo antico. La causa è ancora una volta il razionalismo, la spiritualizzazione, che ha reso la vita uguale alla morte (ed è il primo significato del nichilismo leopardiano, p. 36; il secondo invece consiste nel negare le verità positive affermate proprio dalla spiritualizzazione), dimodoché il mondo moderno e il mondo antico sono separati da un incolmabile iato. La coscienza della frattura fra i due mondi risalta tanto più quanto la temperie romantica aveva portato la convinzione di poter recuperare in qualche modo l’Ellade perduta, almeno sul piano dialettico e della riflessione. Ma Leopardi, afferma Rigoni, non era un dialettico. Il quarto saggio, Sul nulla e sulla negazione (pp. 41-56), sviluppa il tema del nichilismo, ponendo l’accento su tre aspetti: la smentita della teoria delle Idee; l’infinita possibilità in cui consiste l’universo da un lato e il nulla dall’altro; il metodo negativo, mutuato dagli scritti di Pierre Bayle, su cui si era già soffermato nel saggio Nel solco di Bayle contenuto nel volume Il pensiero di Leopardi. La teoria delle Idee, con la sua grandezza, è responsabile, con la sua scomparsa, del dispiegamento dell’abisso cosmico davanti ai lucidi occhi dello scrittore e al suo materialismo. In una nota zibaldoniana, infatti, Leopardi, dimostra come l’esistenza di un Dio onnipotente sia dipendente dall’esistenza delle Idee, a loro volta indipendenti dal Dio. Eliminate quelle, anche Dio come lo si conosce dalle tradizioni religiose, è eliminato. Resta la Possibilità, l’infinita Possibilità: l’uomo non ha più un tetto né un terreno stabile sotto i piedi, e quindi “tutto è nulla”, come si ripete più volte nello Zibaldone: l’infinito, come abbiamo già visto, non esiste in senso ontologico (e così nemmeno il suo contrario, il nulla), ma coincide con l’indeterminato. Conseguenza è che tutto è caduco perché tutto è insostanziale, e anche il male che ammanta l’universo (e qui viene opportunamente riportata la celebre pagina zibaldoniana che tratta di quello che chiamerei il giardino degli orrori) Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 126 Mario Andrea Rigoni, Il materialismo romantico di Leopardi sembrerebbe essere neutralizzato dall’illimitata possibilità, per cui questo non è il peggiore degli universi possibili. Ma, arguisce Rigoni, bisogna fare attenzione: dire che questo non è il peggiore degli universi possibili altro non significa che non c’è limite al male, e del resto nemmeno al bene, se non fosse che il male e il bene non si equilibrano mai nella visione leopardiana – sappiamo che in Leopardi non c’è dialettica –, ma la bilancia pende sempre dalla parte del male: si veda ad esempio Zib. 4510-4511. In pratica, qui Leopardi si pone in antitesi con il provvidenzialismo di un Manzoni, espresso, ad esempio, nel “sugo di tutta la storia” che è nella chiusa dei Promessi Sposi. La seconda parte di Sul nulla e sulla negazione è tutta incentrata sul metodo razionalistico negativo usato da Leopardi e, come abbiamo visto, risalente già a Pierre Bayle. Vengono in pratica riprese le argomentazioni presenti in Nel solco di Bayle, citazioni incluse, puntualizzando ancora una volta, ed esplicitamente a differenza del saggio precedente, i legami del nichilismo leopardiano (qui evidentemente considerato nella sua seconda accezione) con il classicismo, nel “miraggio dell’antichità” (p. 55) depositaria di una saggezza superiore in quanto, come sappiamo, precedente alla spiritualizzazione. Viene altresì reintrodotto il termine “ultrafilosofia”, quasi come preludio al saggio successivo. Il quinto saggio, Leopardi, Goethe e l’ultrafilosofia (pp. 57-63) è una breve ripresa di temi già eviscerati nei saggi contenuti nel volume precedente e anche in questo: l’ultrafilosofia leopardiana intesa come filosofia distruttrice degli errori conseguenti alla spiritualizzazione del mondo, e quindi distruttrice di se stessa ma con quell’“invano”, presente nella chiusa del Dialogo di Timandro e di Eleandro, che ne preannuncia il fallimento; i debiti nei confronti di Bayle; il metodo negativo. Ma introduce altresì un interessante corollario e una suggestione intertestuale. Il corollario: le fonti della conoscenza per Leopardi sono la natura (e lo sappiamo a partire dal primo saggio) e l’esperienza, per questo può proporre come figure esemplari di sapienza il fanciullo e il selvaggio. La suggestione: la “leggibilità” della natura è già presente in parecchie opere di Goethe, sicuramente ignote a Leopardi, e che testimoniano del senso che entrambi gli scrittori avevano dell’“immanenza sacra e insondabile della natura” (p. 63), oltre che dello Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui entrambi vivevano e di cui entrambi erano partecipi. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 127 Francesco De Martino A completamento di questi cinque saggi teorici, si susseguono due brevi scritti incentrati direttamente sui testi. Il primo, Un immaginario nirvana (pp. 65-77), è una lettura dell’Infinito che può essere una sorta di verifica pratica delle tesi rigoniane. Non ci soffermeremo sulla parte iniziale (che si articola in: introduzione generale e contestualizzazione; lettura dal punto di vista semantico, metrico e fonomorfologico; sintesi del senso letterale) se non per notare la lodevolissima raccomandazione di leggere questa lirica appunto come una lirica, con pause a fine verso per far risaltare gli enjambements e un senso del ritmo che si faccia avvertire, e non invece come prosa: malvezzo, questo, di troppi addetti ai lavori, convinti che solo con una lettura del genere, che rispetti la sintassi e non il metro, si riesca a cogliere l’essenza del testo poetico, da costoro identificato con il contenuto, quasi che la forma metrica e ritmica sia un qualcosa di appiccicaticcio a un testo. Ad essi si potrebbe ribattere con una banale osservazione, cioè che Leopardi,1 essendo anche un elegantissimo prosatore, se avesse voluto scrivere l’Infinito in prosa, l’avrebbe scritto in prosa: ragion per cui la lettura piana delle sue opere in versi è una pessima abitudine da sradicare quanto prima, a cominciare dalla scuola. Ma il nucleo interessante di questa lectura è la seconda parte, laddove Rigoni si sofferma, finalmente, sulla concezione dell’infinito in Leopardi. Orbene, l’infinito per Leopardi non esiste, è una creazione mentale perché tutto è materia e dunque tutto ha un limite. L’infinito è invece, come sappiamo, l’altra faccia dell’indeterminato ed è una di quelle salvifiche illusioni, proprie della sensibilità romantica di cui, come si è visto, Leopardi secondo Rigoni partecipa pienamente. Salvifiche perché sono come una zattera nel mare della disperazione, sono indispensabili alla prosecuzione della vita per non portare alle estreme conseguenze la coscienza che tutto è nulla. Anche per questo Leopardi si pronuncia contro la dissezione scientifica della poesia, come notato più sopra e ribadito da Rigoni nella chiusa della lectura. Il saggio successivo, Attraverso l’epistolario (pp. 79-85), risente molto dell’originaria collocazione giornalistica dei due pezzi di cui si compone – entrambi, infatti, sono stati pubblicati sul Corriere della Sera, nel 1998 e nel 2006 – e si apre con una sintesi della storia editoriale dell’epistolario, per poi passare a una cursoria, come si conviene a un articolo di giornale, indagine incentrata su alcuni aspetti del corpus di lettere di Leopardi. Anzitutto è ricordata la lettera, scoperta nel 1993, del 17 maggio Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 128 Mario Andrea Rigoni, Il materialismo romantico di Leopardi 1833 alla principessa Charlotte Bonaparte, figlia di Giuseppe, lettera in cui Leopardi sembra egli stesso, come per un curioso cortocircuito spaziotemporale, liquidare quella che è la corrente interpretazione del suo pensiero. Scrive infatti Leopardi: «l’état progressif de la société ne me regarde pas du tout»,2 frase in cui è notevole (e infatti è stato notato) l’uso, neanche a farlo apposta, del termine progressif. L’indagine poi si sofferma sul ritratto del Leopardi più privato che emerge dalle lettere più confidenziali: le tematiche toccate da Rigoni sono le malattie, il rapporto ambivalente con il padre, la resistenza al destino, e anche l’uso del turpiloquio (fin dalla prima lettera, scritta a 11 anni). Quello che all’autore preme sottolineare è “la varietà dei toni leopardiani in rapporto sia ai diversi argomenti, sia (…) ai diversi interlocutori” (p. 85), in un epistolario vero, che tocca tutte le dimensioni del vivere dell’uomo. Il saggio successivo, Stendhal, Leopardi e noi (pp. 87-91), apparso nel 2012 proprio su questa rivista, si propone di dimostrare ancora una volta la piena partecipazione del Recanatese al clima romantico, stavolta con il confronto, invero canonico nella critica (come Rigoni del resto riconosce), fra le Memorie del primo amore di Leopardi (1817) e il trattato De l’amour di Stendhal, scritto pochi anni dopo, fra il 1818 e il 1820. Ma il confronto investe anche le liriche del ciclo di Aspasia, in particolare Il pensiero dominante (vv. 100-108) e Aspasia (vv. 33-48), in cui è rintracciata la stessa dinamica del meccanismo psicologico che Stendhal chiama “cristallizzazione”, cioè «l’opera della mente, che da qualunque occasione trae la scoperta di nuove perfezioni dell’oggetto amato».3 Ma le analogie non riguardano solo il tema amoroso: in particolare, l’assenza di società in Italia, denunciata da Leopardi nel 1824 nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, è una tematica presente anche nel trattato stendhaliano, considerata come la causa dell’essere il Bel Paese patria della bellezza e dell’eros.4 Sono segnalate anche delle importanti differenze fra i due scrittori in entrambe le tematiche viste, e in entrambi i casi sono imputabili alla differenza di temperamento: per quanto riguarda l’amore, infatti, se Stendhal costella le sue riflessioni di venature ironiche, Leopardi è terribilmente serio, tutt’al più indulge al «sarcasmo amaro» (p. 90); anche sulle osservazioni di carattere sociale, se il Recanatese è amaramente disilluso dall’Italia a lui contemporanea ma anche dall’Italia in sé, quelle che in Il pensiero di Leopardi Rigoni stesso definiva felicemente l’Italia storica e l’Italia Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 129 Francesco De Martino perenne, il Parigino sospende il giudizio morale, compiacendosi della propria visione tutta estetica del carattere eslege degli Italiani. In conclusione del volumetto, una breve nota, La bambola di Kokoschka e il manichino di Leopardi (pp. 93-96) che prende le mosse da un aneddoto raccontato di sfuggita e con imbarazzo da Carducci su una presunta mania feticista di Leopardi che faceva travestire da donna un ragazzino, parente stretto (figlio?) di Fanny Targioni Tozzetti, la celebre Aspasia da lui amata, in modo tale che potesse ricordargli l’oggetto del suo desiderio. Da questa suggestione Rigoni istituisce un parallelo con un episodio della vita del pittore austriaco Oskar Kokoschka, che si fece costruire una bambola con le fattezze della donna che lo aveva lasciato. A chiudere il libro, sulla bandella in terza di copertina, c’è una lettera di Fruttero e Lucentini a Rigoni, datata 9 settembre 1985, in cui i due scrittori ringraziano l’autore dell’invio del volume Il pensiero di Leopardi e soprattutto della sua non canonica interpretazione, a loro avviso necessaria per eliminare i “fondotinta progressisti” con cui i critici sono soliti “imbellettare la nobile maschera” di Leopardi. 1 E naturalmente non solo Leopardi: si pensi al Manzoni del Cinque maggio, e al fortissimo enjambement fra le prime due stanze, «la terra al nunzio sta // muta», in cui proprio la posizione a fine strofa del verbo sottolinea la reazione attonita del mondo all’annuncio della morte di Napoleone, e quindi è un abuso leggere il verbo e il complemento predicativo senza stacchi. 2 Di questa lettera aveva già accennato Raoul Bruni nella postfazione a Il pensiero di Leopardi, cit., pp. 285-6, citandola più estesamente. In particolare, sembra interessante la frase immediatamente successiva: «Le mien, s’il n’est pas retrograde, est eminemment stationnaire». 3 Stendhal, L’amore, con uno scritto di Stefan Zweig, traduzione di Massimo Bontempelli, introduzione di Pietro Paolo Trompeo, Mondadori, Milano 2000 [1ª ed. 1952], p. 24. 4 Queste osservazioni sono già presenti nel saggio I costumi degli italiani, in Il pensiero di Leopardi, pp. 177-193: il confronto con Stendhal è alle pp. 191-93. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 130 Recensioni Fabrizio Patriarca, Leopardi e la invenzione della moda, Roma, Alfredo Gaffi, 2008, pp. 205. Andréia Guerini/CNPq Universidade Federal de Santa Catarina andreia.guerini@gmail.com Ana Luiza Bado/CNPq Universidade Federal de Santa Catarina analuizabado@gmail.com Moda é um termo recorrente, de uso atual e ainda um assunto muito discutido e analisado em diferentes setores: econômico, social, histórico, antropológico, semiótico, literário, estético, filosófico. É no campo filosófico, mas também literário/estético que gira a tese central do livro de Fabrizio Patriarca, que toma como ponto de partida as reflexões do escritor italiano Giacomo Leopardi, pois segundo o autor desse livro: Fino a Leopardi, la letteratura italiana si è occupata della moda essenzialmente come bersaglio di un discorso satirico. Ma è soltanto con l’autore delle Operette morali e dello Zibaldone che la letteratura inizia davvero a “pensare” la moda, il suo linguaggio, le sue potenzialità (orelha). Patriarca coloca em diálogo as reflexões de Leopardi sobre moda com diferentes autores: Benjamin, Simmel, Flügel, Baudrillard, Barthes, entre outros, porque segundo ele “la riflessione estetica avviata da Leopardi abbonda di soluzioni che torneranno nei massimi teorici della moda del secolo seguente [...]” (idem). O autor divide, então, o livro em oito capítulos, mais um Apêndice em que é reproduzido o “Diálogo da Moda e da Morte”, e apresenta ainda uma ampla e rica bibliografia sobre diferentes abordagens da moda. Em relação especificamente ao “Diálogo da Moda e da Morte”, diz Patriarca em sua Introdução: La invenzione leopardiana – drammatizzare la moda e la morte in un dialogo, cioè adeguarle su di un piano filosofico-morale che vede l’ironica celebrazione dell’una e il Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 131 Fabrizio Patriarca, Leopardi e la invenzione della moda fatale depotenziamento dell’altra – è materia angolare e uno snodo distintivo tra il pensiero antico e quello moderno: la moda elevata a interlocutrice preferenziale, la moda fatta “sorella” della morte appare infatti tutt’altro che divinizzata, mentre i pochi tratti della sua antagonista, .ridotta a bersaglio di uma pericolosa persuasione, obliterano necessariamente quella statura del sacro da cui proviene la sua aura tradizionale (p. 6). Como destaca ainda Patriarca, é com Benjamin, em Passagens, que a “Moda/Morte” leopardiana entra e passa a circular no cenário europeu, pois o filósofo alemão usa como epígrafe em um de seus “Arquivos temáticos”, na letra B, dedicada à “Moda”, um trecho do “Diálogo da Moda e da Morte”, de Giacomo Leopardi, mais especificamente a seguinte frase: “Moda: Senhora Morte! Senhora Morte!” (Benjamin, 2007: p. 101). A hipótese central de Patriarca é que Se Benjamin va dunque ascritto il merito di aver individuato nella moda lo spirito di una società fluida, dinamica e in rapida consumazione, e a Flügel quello di aver previsto com esattezza sbalorditiva la sua evoluzione nel corso del tempo, cioè di aver scoperto le intimissime direzoni di una psicologia del vestire, a Leopardi spetta il ruolo di inauguratore di un pensiero sulla moda espressamente moderno, nella convergenza antiomerica (perché all’interno di un discorso sull’effimero) dei due temi classici del cadavere e della fama (p. 7). Patriarca sublinha ainda que o fato mais original em relação ao “Diálogo da Moda e da Morte” è che Leopardi lo abbia scritto nel momento storico in cui la moda si trova appena all’alba di quel periodo di splendore (i cosiddetti cent ans indicati da Lipovetsky: dalla metà del XIX secolo al 1960 la moda vive ‘son moment héroïque et sublime’) che vedrà stendere la sua signoria al mondo intero (p. 7-8). A ênfase deste livro em relação ao “Diálogo da Moda e da Morte” e menos nas páginas do Zibaldone di pensieri se dá, acreditamos, pela força da concisão e argumentação, ou ainda pela retórica desse diálogo, que ficcionaliza a “Moda”, transformando-a, dentro do conjunto das Operette morali, na grande “interprete della modernita’ (p. 136). O livro esmiúça aspectos do diálogo e os fragmentos do Zibaldone servem de apoio, pois as reflexões sobre o assunto estão diluídas nas muitas páginas que compõe o imenso laboratório poético e filosófico do autor de Recanati e os aspectos ligados à moda se ramificam e se diluem nas amplas reflexões sobre “gosto”, “hábito”, “opinião”, conveniência”, “costume” etc. Ademais, Patriarca justifica a questão informando que do momento em que Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 132 Andréia Guerini e Ana Luiza Bado intraprende la stesura delle Operette morali Leopardi non tornerà più, nello Zibaldone, a scrivere sulla moda intesa nei tre sensi tipici di costume, gusto e abitudini linguistico-letterarie [...] Evidentemente Leopardi ritiene di aver assolto al meglio con le Operette, una trattazione del problema “moda” che a livello diaristico non era affatto prevista [...] (p. 114). Ds oito capítulos que compõem este rico livro, o primeiro, intitulado “‘Rien ne meurt’, il trionfo della moda”, Patriarca evidencia as condições e a “gênese” do pensamento leopardiano para a elaboração/criação do conceito “moda”, especialmente na escrita do “Diálogo da Moda e da Morte” e coloca Leopardi em diálogo com Benjamin e Grandville. Aqui, é ressaltado o fato de Leopardi ter descoberto uma “dimensione ‘mondana’ del pessimismo”, collegata essenzialmente a una concezione della noia che solo l’impatto con gli spazi della grande città poteva finalmente consentirgli [...]” (p. 19). No capítulo II, “La moda come fatto retorico”, o autor analisa os “giuochi” da moda, interligando com aspectos históricos e sociológicos, fazendo Leopardi dialogar com Simmel, Barthes e Grandville. Com o alargamento dos privilégios da Moda, abraçando aqueles que eram exclusivos da Morte, temos, como enfatiza Patriarca, o ponto central do “Diálogo da Moda e da Morte” e o centro da inquietude leopardiana (p. 39). Ademais, é analisada a familiaridade entre a Moda e a Morte, ambas filhas da Caducidade, mas, como a Morte é inimiga capital da memória ela não se recorda desse fato. O Dialogo seguirá, então, com uma retórica, aos moldes platônicos, utilizada pela Moda com a finalidade de convencer a Morte desse parentesco. Patriarca destaca o tom de ironia que percorre o Diálogo, ressaltado pela voz rouca da Moda, causando repugnância. No capítulo III “La natura e il balsamo di Medusa”, Patriarca trata da insignificância e da inutilidade em que a moda transforma objetos em fetiche, bem como cita o “superfetichismo” de caráter global instaurado pela moda. Neste capítulo, a questão do “costume” leopardiano é retomada, mas considerado inferior à opinião no campo da moda. Outra questão importante do capítulo diz respeito à moda, ao corpo e o papel da mulher. Esse aspecto, o da mulher, será um diferencial entre Benjamin e Leopardi, pois no diálogo do escritor de Recanati era um elemento ausente, já para o pensador alemão, a mulher tem um papel essencial nessa relação, uma vez que a moda é uma provocação da morte através da mulher, ou melhor, através do corpo da mulher que Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 133 Fabrizio Patriarca, Leopardi e la invenzione della moda “[...] mima e rovescia l’aspetto del cadavere” (p. 83). Por fim, Patriarca mostra que no diálogo leopardiano a humanidade não tem espaço para falar, o que nos leva a inferir que a moda é o sujeito e a humanidade seu predicado (p. 84). No capítulo IV, “L’indifferenza dei ‘Rimorti’”, Patriarca reflete sobre o caráter capitalista da moda e como essa atua como elemento civilizador de um sistema, pois é graças à moda que a morte tem fama, onde a moda acaba a morte é louvada. Outro ponto entre a Moda e a Morte é o que trata do cadáver, aspecto que liga Leopardi e Benjamin na questão da irmandade entre ambas; o cadáver anuncia a moda além de ser o único objeto sobre o qual esta não pode triunfar, deve-se ter um corpo para o triunfo da moda. Patriarca destaca a substância filosófica do “Diálogo da Moda e da Morte”, elemento utilizado pelo poeta na escritura de seu diálogo, mas que também relacionado com a maneira com que ele via e descobria a moda no mundo. Trata também da estrutura do diálogo, que é praticamente dominado pela Moda, que faz uso de uma retórica “[..] tanto fagocitante quanto leggera [..]” (p. 102). Por fim, Patriarca nos apresenta a questão dos “rimorti”, os mortos, que passam a não mortos e por fim são “rimorti”, que estariam em um estado nem vivo, nem morto, o que seria de fato o sexappeal do inorgânico. No capítulo V, “‘Non omnis moriar’, la filosofia contro la moda”, Patriarca coloca em diálogo as reflexões sobre moda do Zibaldone e das Operette morali. Leopardi escreveu sobre a moda no Zibaldone principalmente entre os anos de 1821 e 1823. Essas reflexões estão relacionadas ao trinômio opinião/costume/gosto, que é “influenciado” pelo “hábito”. Contudo, Patriarca lembra que já no início da escrita do Zibaldone, em agosto de 1817, Leopardi escreve sobre a potência da moda, que será desenvolvida e ganhará força no “Diálogo da Moda e da Morte”. Destaca ainda a que Leopardi usa o gosto para fazer um contraponto com a questão da moda, pois a moda é passageira, e o gosto se mantém entre os povos. Outro aspecto é o relacionado ao fato da filosofia ser dialética e a moda mitológica (p. 120). Por fim, enfatiza que a moda faz parte da tragédia existencial que domina o escritor de Recanati por inteiro. No capítulo VI “Moda, gusto, terminologia leopardiana”, Patriarca discorre sobre as origens de alguns pensamentos leopardianos, desde a ideia de moda como mediadora cultural, passando pelos estudos do domínio da língua francesa sobre outras línguas e, consequentemente, o domínio das modas francesas, nos levando à conclusão Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 134 Andréia Guerini e Ana Luiza Bado de que a moda surge como necessidade de um “princípio material”, até a reflexão de que sem a modernidade a moda não existiria, sendo a modernidade a linha que separa Leopardi do mundo clássico. A questão do “gosto” é, mais uma vez, retomada, já que “Il concetto leopardiano di gusto oscilla infatti tra la fragilità delle opinioni e la transitorietà dei regimi di assuefazione ai diversi modelli” (p. 136). Não sendo possível esquecer que, para o poeta, “assuefazione” é uma propriedade natural dos seres humanos. Outro fato apontado por Patriarca é o da beleza estar relacionada à novidade, sendo que um momento apenas basta para que possamos formar o nosso juízo do belo, pensamento que nos faz entender o porquê da moda estar sempre inovando. No capítulo VII “L’impero delle restrizione”, Fabrizio Patriarca mostra como a moda domina, e como ela se coloca como um império das restrições. Além disso, o poder da moda não opera contra o costume, como Leopardi coloca no “Diálogo da Moda e da Morte”, sendo a moda a irmã máxima do costume. As características da moda apresentadas no livro nos fazem melhor entender como e por que o desejo e a ânsia por renovação atingem a sociedade contemporânea e a torna vítima do efêmero (p. 151). No capítulo VIII, “L’elegante e il ripugnante”, Patriarca mostra como Leopardi discute o papel dos barbarismos na formação da línguas nacionais e de que como o seu uso transita entre a posição de “fonte de elegância” e “fonte de repugnância” (p. 173-4). Essa questão serve para engendrar aspectos dos mecanismos entre escrita, moda e estética. Após essa breve exposição, ficamos com a sensação de que a “invenção da moda” em Leopardi nos conduz a uma contradição e a um pessimismo latente, porque ao mesmo tempo que nos faz refletir sobre a mercantilização, a caducidade e a nulidade de tudo e de todos, o elemento moda continua a nos seduzir e é inevitável nela não pensar, como bem demonstra Fabrizio Patriarca em Leopardi e la invenzione della moda. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 135 Interviste INTERVISTE Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 136 Interviste Entrevista a Vera Horn Andréia Guerini Universidade Federal de Santa Catarina andreia.guerini@gmail.com Andréia Riconi Universidade Federal de Santa Catarina andreiariconi@gmail.com Daniela Campos Universidade Federal de Santa Catarina Lamusica25@gmail.com Vera Horn, nascida no Rio de Janeiro, é formada em Letras (Português-literaturas e Português-italiano) pela Universidade Federal do Rio de Janeiro, com Mestrado pela Universidade de São Paulo e Doutorado na Universidade de Pisa/Itália, em Literatura Italiana e Estudos de Italianística. É tradutora do italiano e traduziu para o português, entre outros, as Memórias de Lorenzo Da Ponte (Lacerda Editores), Pensamentos e Miscelânea de pensamentos, de Giacomo Leopardi (Nova Aguilar), As duas solteironas, de Tommaso Landolfi (Imago), Diário de Lô (Objetiva). Publicou diversos artigos e ensaios em revistas universitárias de literatura e em outros periódicos, entre os quais Revista de Italianística (USP), Forum Italicum (New York), Cahiers d'études italiennes (Grenoble), Fragmentos (UFSC), Travessia. Revista do Migrante (São Paulo), Annuario geopolitico della pace (Veneza), como também um ensaio sobre a tradução landolfiana no volume Un linguaggio dell'anima (Manni, 2006). Entrevista escritores e escritoras migrantes para a seção News do portal Icon (www.italicon.it). Atualmente é leitora de português na Universidade Ca' Foscari de Veneza. Appunti Leopardiani: Como você chegou a Leopardi? Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 137 Entrevista a Vera Horn Vera Horn: Quando o organizador Marco Lucchesi me propôs a tradução, já tinha lido Leopardi, mas a ideia da tradução foi do próprio organizador, corroborada na época pela Editora Nova Aguilar. A seleção de textos e a própria edição de base foram igualmente propostas pelo organizador. A. L.: Como foi traduzir Leopardi? V. H.: A tradução literária nunca é fácil, Leopardi também não, principalmente para uma iniciante. Foi um aprendizado contínuo, debruçada sobre o texto, interrogando-o e esmiuçando escolhas sintáticas, lexicais, quase como no poema di Drummond, o “trouxeste a chave”, mas também muito além disso, recriando todo um universo na língua portuguesa. A. L.: Você traduziu para o português os Pensieri, fragmentos do Zibaldone di pensieri, “Carta aos senhores compiladores da biblioteca italiana”. Quais foram os desafios de traduzir diferentes esses textos? V. H.: Cada texto foi pensado no seu contexto e na sua especificidade. Foi um exercício de reflexão, antes da tradução. Posteriormente, cada texto foi traduzido separadamente e trabalhado na sua especificidade. No final, fiz uma análise conjunta dos textos, léxico, sintaxe, temáticas. Foi um trabalho árduo, pois a questão dos prazos editoriais e a opressão do tempo não deixam muita margem a (re)elaborações. A. L.: No caso específico do Zibaldone, a seleção dos fragmentos foi sua ou do organizador da edição Giacomo Leopardi. Poesia e Prosa? Como foi feita a seleção dos fragmentos? Teve algum critério específico? V. H.: A seleção dos textos coube ao organizador Marco Lucchesi. A. L.: Como foi traduzir a sintaxe leopardiana? Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 138 Andréia Guerini, Andréia Riconi e Daniela Campos V. H.: Questão muito difícil, pois estávamos em 1996 na época da tradução e hoje não consigo reproduzir toda a reflexão e exercício feitos a partir da sintaxe leopardiana. Não tenho mais as anotações que fiz na época para tentar reconstruir o percurso. Ainda não estávamos em plena era da informática e eu traduzia a mão diversas passagens para depois transcrevê-las para o computador. Nessas folhas de tradução, por vezes experimentava construções diferentes para períodos complexos (como também em relação a questões lexicais) em busca de um período equilibrado entre o tom da obra e a frase em português. Lembro-me do Murilograma a Leopardi: “Em que medida / Leopardi/Será tua linguagem/Tangente à – rompida – nossa?”. A. L.: Qual a edição italiana do Zibaldone e a de os Pensieri usada? V. H.: A edição foi proposta pelo organizador Marco Lucchesi. A. L.: Quando você traduziu Leopardi, você já tinha experiência com a tradução de outros autores do mesmo século? V. H.: Não, não tinha traduzido outros autores do mesmo período. A. L.: Ao traduzir essas obras de Leopardi, você seguiu alguma teoria da tradução específica? V. H.: Li diversos autores que escreveram sobre tradução, desde José Paulo Paes e Paulo Rónai a Rosemary Arrojo, passando por Steiner e Venuti, é um aprendizado contínuo, mas funcionam como um roteiro de ideias e de reflexão. A tradução em si tem que ser pensada na sua especificidade, principalmente quando se trata de textos literários. Conceitos por vezes servem de reflexão sobre nossa prática tradutória, mas acredito também que as práticas de tradução podem servir de base para a teorização, como também teorias desenvolvidas por tradutores, que conhecem a prática da tradução. A formação literária também é de grande valia para um tradutor, pois ele já conta com uma certa bagagem de leitura e pesquisa. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 139 Entrevista a Vera Horn A. L.: Pensou em algum público definido ao traduzir esses textos de Leopardi? V. H.: Pensei em um público já afeito a autores e obras do século XIX, especialmente brasileiras ou portuguesas. Autores que geralmente são estudados no ensino fundamental e, sobretudo, no médio e, portanto, não são desconhecidos do público leitor. A obra de Leopardi está inserida em um contexto e foi preciso recriá-lo em português. Pensando no tradutor como intérprete e como produtor de significados e pensando também nesse mesmo público, tentei fazer uma escolha coerente, trazendo-o para um determinado contexto em língua portuguesa. É interessante pensar no mote machadiano de Esaú e Jacó quando afirma que “o leitor atento, verdadeiramente ruminante, tem quatro estômagos no cérebro, e por eles faz passar e repassar os atos e os fatos, até que deduz a verdade, que estava, ou parecia estar escondida.” Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 140 Poesie POESIE Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 141 Poesie Entre "razón" y "son". "O infindo" de Leopardi-Bretal La operación poético-musical por la cual un texto ejemplar se traduce a otra lengua -en este caso al gallego natal de nuestra compositora-, se transforma y se engarza con una melodía, es algo fascinante que he tenido el privilegio de observar desde dentro, de la mano de la joven compositora y pianista Teresa Bretal Martínez (La Puebla del Caramiñal, 1984). Su investigación, que compagina con la docencia en el Conservatorio Profesional de Música de Riveira, cultiva las diferentes dimensiones de la música, como son la composición, la interpretación y la pedagogía, centrándose en el universo de Béla Bartók. Es autora, entre otras obras musicales, de Andrómeda para banda, de las canciones "Nasín cando as prantas nasen" y "Ora" extraídas de los Cantares Galegos de Rosalía de Castro y de la misa “Estrela do día" para coro y órgano. Recientemente ha compuesto para la conocida mezzosoprano Anna Tonna "Cuatro canciones tendidas al viento", basadas en poemas de Julia de Burgos, la gran poeta portorriqueña. Ahora se ocupa de textos leopardianos que, como en la adaptación para canción que aquí presentamos, transforma conservando y conserva transformando, como si se implantase en tierras gallegas la esencia universal del idilio L'Infinito. Como nos ha confiado la autora, se ha privilegiado el interés por hacer comprensible el texto sin perder el tono, altamente lírico, y el contenido filosófico, con el fin de hacer llegar fácilmente, en la hermosa habla de Rosalía, la esencial aventura del alma humana que es la contemplación del infinito espacial y temporal: es decir, la figuración de lo indefinido tanto en la dimensión de la imagen como en la del sonido, en la dialéctica cognoscitiva entre el dato percibido y el trabajo de la imaginación. Así explica Bretal lo que ha querido hacer en su traducción que, siguiendo el magisterio de su maestro Antón García Abril, atiende en su proceso de creación a tres aspectos: lograr la obra atendiendo al interprete musical, al público que la recibe y a uno mismo: “O infindo es una traducción que hago según lo que yo creo que debe ser lo mejor para crear una canción de concierto. Cojo lo que creo que es mejor pensando en el intérprete, garantizando un texto apropiado para desarrollar las posibilidades técnicas de la voz y por descontado pensando en el público cuando modifico otros parámetros que hacen que el texto sea más directo. Pensando en mí, en poder crear musicalmente lo que a mí me gustaría, yo establecí dos estrofas defendiendo la idea Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 142 O infindo de que la poesía tiene dos partes: la primera descriptiva y la segunda más auditiva y sensitiva. Con ello defino estructuralmente el contraste para poder marcar la diferenciación que existe entre ambas. En cuanto a los demostrativos, que son uno de los instrumentos principales de Leopardi para introducirnos en la dinámica de la imaginación de los espacios, los he mantenido por fidelidad al autor y por su propio interés. Por lo contrario aquel recurso que atañe al plano sintáctico, la inversión, es decir, el hecho de poner primero los complementos directos y después el verbo, así como los encabalgamientos de los endecasílabos, los suprimí para privilegiar la compresión del poema y su fusión con la música, pero siempre respetando el texto.” Por ser canción, el texto quiere ser oído en una voz viva, junto a otros que esperamos muy pronto ver emanar de los sobrehumanos silencios leopardianos. Y es que una música que no se oye, como diría el poeta Antonio Colinas, precede al sonido que emana de todo arte musical y poético. Y así el "son de tódolos seus sons", es el verso impregnado de orfismo con el que la autora ha traducido "il suon di lei" y que aúna en síntesis, lo eterno, la muerte y la vida, en una brillante asociación con Siddharta de Hermann Hesse que surgió de su lectura del idilio, como veremos en su paráfrasis. Se produce además entre este verso y el siguiente un interesante juego de aliteraciones y homofonía (“son”: sonido y “son”: primera persona del verbo ser), emanadas de la lengua gallega: “e o son de tódolos seus sons. / Así eu son […]”. Pero el más interesante matiz de la canción está en los versos finales: el sujeto lírico se transforma en un "nauta" que inmerso en el mar "afoga nesta inmensidade, \ no doce arrulo do mar". En la simbología del naufragio, ecos homéricos, lucrecianos y dantescos reverberan en esta imagen y la dulzura del pensamiento que cesa en la contemplación se incrementa en esa maternal expresión: " arrulo do mar". Adentrémonos sin más en este viaje, desde el “outeiro", la colina, más allá de la "siepe", de esta fila de arbustos que impide e invita a la vez, y que la autora, ha traducido por "sebe". Anteponemos a la canción O infindo, la bella paráfrasis del idilio escrita por la autora. Cristina Coriasso Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 143 Teresa Bretal Martínez Paráfrasis de Teresa Bretal a L’infinito de Giacomo Leopardi Él amaba con gratitud la loma, allí sobre él se cernía una hilera de arbustos impenetrable que absorbía sus confesiones. Desde ese lugar solía desear alcanzar el infinito y cuando se lo imaginaba, su magnitud era tal que llegaba a estremecerse. En meditación, sin excesos de palabras, va comparando las cosas de la naturaleza con una nueva mirada, prestando oído con el corazón en calma. Es cuando, inmerso en la sensación de escuchar, su dolor comienza a irradiar y encuentra el sentido secreto de las cosas. Es así capaz de abolir el tiempo, de ver simultáneamente la vida pasada, presente y venidera. Su corazón ya no se aflige porque ve el mundo tal como es amándolo por ser como es sin compararlo con el arquetipo de perfección que había inventado. Cuando estaba en ese lugar, sintiéndose angustiado y casi estremecido, se fija en el susurro del viento y llega de pronto una paz que acude a él y experimenta que todos los sonidos del mundo se multiplican y confluyen en ese leve susurro del viento que entra por esa coraza de hojas. Se integra en la corriente y permanece en ese encuentro, como en una suave comunicación con el mar, decidido a vivir en la totalidad del infinito, en la soledad sonora. O infindo Sempre precei este ermo outeiro e esta sebe que esconde a meirande parte do último horizonte. Mais sentando e mirando alén daquela figúrome no pensamento espazos sen fin, sobrehumanos silencios e unha profundísima quietude, que case anoa o corazón. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 144 O infindo Eu vou comparando aquel infindo silencio co vento que oio bisbar a través desta follaxe: e sobrevenme o eterno, as mortas estacións, a presente e viva e o son de tódolos seus sons. Así eu son un nauta que afoga nesta inmensidade, no doce arrulo do mar. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 145 Traduzioni TRADUZIONI Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 146 Traduzioni Das Unendliche Immer lieb war mir dieser verlassne Hügel, und diese Hecke, die von vielen Seiten des letzten Horizontes den Blick verbirgt. Aber sitzend und unfertige Räume über jene hinaus schauend, und übermenschliche Stille, und tiefste Ruhe ergehe ich mich in Gedanken; wo um Weniges sich das Herz nicht ängstigt. Und wie den Wind ich in diesen Büschen rauschen höre, ich jene unendliche Stille mit dieser Stimme vergleiche: und es überkommt mich das Ewige und die toten Zeiten, und die gegenwärtige, und lebendige und ihr Klang. Und so, in dieser Unermesslichkeit ertrinkt mein Denken: und Schiffbruch erleiden ist mir süss in diesem Meere. Übersetzt von Silvio Bianchi, Basel "Bruderolz", den 21. August 2014 Anmerkung des Übersetzers: Interessant, dass dieser von Leopardi besungene, nahe bei seiner Heimatstadt Recanati stehende Hügel auch Tabor heisst wie der mythisch und biblisch umwobene Berg Tabor (hebr. Har Tavor) in Israel östlich von Nazareth. U.a.: an dessen Fuss im Jesreeltal Sieg der Prophetin Debora und des Richters Barak über den Kanaaniter Sisera (Ri 4); Ort der Verklärung Jesu (Matth. 17,1 ff). Quellen insb.: Neues Lexikon des Judentums, Hrsg. Julius H. Schöps, 1992: Bertelsmann, Gütersloh/München, ISBN 3-570-09877-X, S. 444. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 147 Pubblicazioni PUBBLICAZIONI Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 148 Pubblicazioni Libri afferenti a Leopardi usciti e/o riediti nel 2014 - AA. VV., Journée d’étude Giacomo Leopardi (relazioni della), 22 mars 2014, Sorbonne Nouvelle Paris 3 – CIRCE (http://circe.univ-paris3.fr/Journee_LeopardiCIRCE.pdf). - AA. VV., Lessico Leopardiano 2014, a cura di Novella Bellucci, Franco D’Intino e Stefano Gensini, Roma, Sapienza Università Editrice. - AA. VV., ‘Il laberinto della natura’. La questione filosofica in Giacomo Leopardi, Atti della Giornata di studi al Gabinetto Vieusseux (Firenze, 20 aprile 2012), a cura di Raoul Bruni e Alessandro Camiciottoli, Numero monografico della “Rassegna della letteratura italiana”, 2013, 2 (edito nel 2014). - AA. VV., Una vita per la letteratura. A Mario Marti. Colleghi ed amici per i suoi cento anni, a cura di Marco Leone e Mario Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo (contiene contributi su Leopardi). - Alessandra Aloisi, Desiderio e assuefazione. Studio sul pensiero di Leopardi, Pisa, ETS. - Walter Binni, Leopardi, Firenze, Il Ponte Editore, 3 voll. (I, Scritti 1937-1963; II, Scritti 1964-1967; III, Scritti 1969-1997). - Raoul Bruni, Da un luogo alto. Su Leopardi e il leopardismo, Firenze, Le Lettere. - Giulia Corsalini, «La notte consumata indarno». Leopardi e i traduttori dell’Eneide, Macerata, Eum edizioni. - Rolando Damiani, L’ordine dei fati, e altri argomenti della «religione» di Leopardi, Ravenna, Longo Editore. - Giacomo Leopardi, Canti, introduzione e commento di Andrea Campana, Roma, Carocci. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 149 Pubblicazioni - Giacomo Leopardi, Chansons. Canzoni, traduites de l’italien par CIRCÉ sous la direction de Jean-Charles Vegliante, Paris, Lavoir Saint-Martin. - Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Nuova edizione tematica condotta sugli 'Indici Leopardiani' a cura di Fabiana Cacciapuoti, con un Preludio di Antonio Prete, Roma, Donzelli. - Giacomo e Paolina Leopardi, «Il mondo non è bello se non veduto da lontano». Lettere 1812-1835, a cura di Laura Barile e Antonio Prete, Roma, Edizioni Nottetempo. - Loretta Marcon, La ragione e il cuore. Saggi leopardiani, Padova, Cluep. - Giuseppe Sandrini, Le avventure della luna. Leopardi, Calvino e il fantastico italiano, Venezia, Marsilio. Appunti leopardiani (8) 2, 2014 Pagina 150