TRIESTE MITTELEUROPA MEDITERRANEO
MARCO POZZETTO
STORICO DELL’ARCHITETTURA
ATTI
del
CONVEGNO
A cura di
GINO PAVAN
DIANA BARILLARI
EDINO VALCOVICH
E D I T O D A L L A S O C I E TÀ D I M I N E RVA
Extra Serie, n. 11, ARCHEOGRAFO TRIESTINO, Trieste 2014
ARCHEOGRAFO TRIESTINO
edito dalla Società di Minerva – ente morale
Extra Serie, n. 11
ATTI
del
CONVEGNO
tenutosi il 20 febbraio 2009
Aula Magna Scuola Superiore di Lingue Moderne
per Interpreti e Traduttori, Trieste
direttore responsabile: Gino Pavan
sede della redazione e amministrazione
34122 - TRIESTE – via R. Imbriani, 5 / Tel. e Fax: 0039 - 040 661030 – 040 660245
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cod. fisc. 00267590321
Questa pubblicazione esce col contributo di
Patrocinio
Enti promotori
Dipartimento di Ingegneria e Architettura già
Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Trieste
Dipartimento Ingegneria Civile e Ambientale,
Corso di laurea specialistica in Ingegneria Edile
Società di Minerva, Trieste
Collaborazioni
Istituto Italiano di Cultura Lubiana
Istituto per gli Incontri Culturali
Mitteleuropei Gorizia
Extra Serie, n. 11, ARCHEOGRAFO TRIESTINO, Trieste 2013
INDICE
Diana Barillari
Una giornata di studi per Marco Pozzetto . . . . . . . . . . . . . pag.
9
EDino ValcoVich, roBErto camus,
FaBio santorini, DEnis Visioli
Apertura del convegno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
„
15
EDino ValcoVich
Il valore aggiunto di uno storico nella facoltà
di Ingegneria, Marco Pozzetto a Trieste . . . . . . . . . . . . . .
„
21
Gino PaVan
Marco Pozzetto un «minervale» di lungo corso . . . . . . . .
„
31
micaEla ViGlino DaVico
La diaspora dei giuliani a Torino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
„
45
Damjan PrEloVšEk
Marco Pozzetto e l’architettura slovena . . . . . . . . . . . . . . .
„
61
Marco Pozzetto in slovenska arhitektura . . . . . . . . . . . . . .
„
71
EttorE sEssa
Architettura modernista nel Mediterraneo . . . . . . . . . . . .
„
79
DiEGo kuzmin
Marco Pozzetto, mitteleuropeo –
Cercare l’altro e trovare se stessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
„
93
r Enato tuBaro
Marco Pozzetto e l’ICM di Gorizia . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 103
taVola rotonDa
presiede Edino Valcovich
interventi di Rossella Fabiani, Vilma Fasoli,
Maria Masau Dan, Pietro Piva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
„
113
Ezio GoDoli
Trieste, Mitteleuropa, Mediterraneo
attualità di Marco Pozzetto storico dell’architettura . . . . .
„
135
marco PozzEtto
Architettura centroeuropea di una città mediterranea . . . .
„
147
Gino PaVan
Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
„
153
DIANA BARILLARI
UNA GIORNATA DI STUDI
PER MARCO POZZETTO
È nella geografia articolata e plurale della Mitteleuropa che
si svolge il percorso umano e professionale di Marco Pozzetto,
illustre storico di architettura, dal 1977 docente presso la facoltà
di Ingegneria di Trieste (sezione architettura disegno storia e urbanistica), dopo un primo periodo trascorso a Torino presso la
Facoltà di Architettura del Politecnico. Nato a Lubiana in una
famiglia dove si parlavano correntemente tre lingue, sloveno,
italiano e tedesco, Marco Pozzetto aveva una naturale (istintiva)
predisposizione per potersi occupare delle vicende storiche di
un’architettura nata e cresciuta in un contesto culturale pienamente comprensibile solo da coloro che ne avevano fatto parte,
proprio perché in quei territori avevano visto la luce. Un mondo
che Pozzetto aveva conosciuto prima della nascita della cortina
di ferro e del «freddo» che ne era seguito, causando una separazione che aveva fatto smarrire a entrambe le parti un comune
sentire, creando al contempo una interruzione della memoria.
Contro questo smarrimento e le incomprensioni da esso causate
il professor Pozzetto si è mosso in largo anticipo, focalizzando la
propria attenzione su architetture e progettisti che avevano vissuto e operato in un contesto caratterizzato dalla presenza di lingue e popoli molto diversi, dove l’elaborazione di una koiné era
sempre il frutto di uno sforzo teorico e artistico complesso. Lontano dallo stereotipo dello studioso accademico e distante dalla
realtà del proprio tempo, Pozzetto non si è mai limitato a discettare di progettisti e architettura in termini di estetica (anche se
9
riusciva a cogliere sotto il profilo compositivo e architettonico
gli elementi di valore) ma ha sempre calato la ricerca nel flusso
vivo della storia del proprio tempo, traendo da quella del passato
i codici per decodificare e indicare la strada per il futuro. In questo senso il suo insegnamento ha sempre prestato grande ascolto
al fattore «umano», sia che si trattasse di progettisti che di committenti, poiché a suo parere la storia era profondamente intrecciata con le persone, viveva in una dimensione concreta e non
astratta, tanto che lo stesso approccio alla disciplina era strettamente connesso alla sua sensibilità di essere umano oltre che di
studioso. A distanza di anni le ricerche sulla Wagnerschule, Max
Fabiani, Jože Plečnik, i fratelli Berlam si riconducono tutte a una
appassionata campagna di ricostituzione di una identità europea
nella quale andava integrata a pieno titolo l’Europa centrale o
Mitteleuropa: un sogno che ha coltivato con determinazione, traendo forza dai risultati delle ricerche e dall’affiancarsi di altri
«sognatori» disseminati su entrambe i lati dell’ormai ex cortina
di ferro. Una importante base di «sognatori» è a Gorizia presso
l’Istituto degli Incontri Culturali Mitteleuropei, la città dove trovò ospitalità la prima mostra di architettura realizzata da Marco
Pozzetto, dedicata all’opera di Max Fabiani nel 1966. Il grande
architetto di San Daniele del Carso apre la strada ai successivi e
più ampi panorami della Wagnerschule, un progetto di ricerca
che ha meritato al suo infaticabile promotore importanti e prestigiosi riconoscimenti, significativamente venuti da Vienna – la
medaglia «Johann Ritter von Prechtl» conferita nel 1985 dal Senato dell’Università Tecnica di Vienna – e Lubiana – medaglia
architetto Jos. Plecnik nel 1975 e il dottorato honoris causa da
parte della Facoltà di Architettura nel 1989. L’Italia è presente
con riconoscimenti che toccano le punte estreme, da Palermo
(premio Pardes 1988) a Trieste (albo d’onore degli architetti della provincia 2000) ma si avverte che i temi trattati non appartengono alla dimensione culturale nazionale, più propensa a guardare verso il Mediterraneo che al Danubio. In effetti la Mitteleuropa almeno fino alla caduta del muro di Berlino è stata considera10
ta faccenda di confine nord-orientale che, proprio a seguito
dell’ingresso dei paesi dell’est si è trovato nuovamente in posizione baricentrica: un cambiamento che si sta metabolizzando.
Ancora una volta e grazie all’aiuto di Fabiani, Marco Pozzetto
intraprende un percorso di ricerca che lo porta a indirizzare i suoi
studi alla realizzazione della grandiosa rete delle ferrovie asburgiche. Nella prefazione della Ferrovia del Carso (testo del 1858
riedito da MGS press nel 2004), lo studioso ricorda che già nel
1954 offrendo al sindaco Gianni Bartoli il piano-programma per
il porto di Trieste, Max Fabiani riteneva prioritario rinnovare totalmente l’importante infrastruttura ferroviaria, alla quale riconosceva un ruolo fondamentale per lo sviluppo della città. A questo punto ogni dubbio sulla validità delle intuizioni dello studioso Pozzetto si dissolve poiché viviamo in epoca di corridoi transeuropei e reti di infrastrutturazione, pertanto un simile argomento è di stretta attualità. Intanto perché i tracciati degli attuali
corridoi 3, 4, 5 e in parte il 10 «ripropongono tracciati paralleli a
quelli pianificati da Francesconi» a metà Ottocento, ma anche
perché la stessa descrizione del percorso della ferrovia del Carso
(tratto Lubiana-Trieste) fa emergere una filosofia della pianificazione, nella quale le considerazioni tecniche coesistono con un
approccio culturale. Raccontando la storia di questo cantiere durato 13 anni per realizzare un tracciato di 142 chilometri, l’estensore del resoconto ottocentesco considerava oltre allo sforzo tecnico anche i costi umani in termini di lavoro e impatto con il
territorio. Riuscire a capire come si sono risolti delicati problemi
geologici senza devastare il territorio costituiva, secondo Pozzetto, un grande ammaestramento anche per i pianificatori attuali i
quali però, a differenza dei loro predecessori, preferiscono l’approccio tecnicista e considerano la storia un lusso non necessario. Ecco perché il professore nei suoi ultimi anni aveva imboccato un percorso di ricerca sulla figura e le opere dei grandi ingegneri ottocenteschi, scoprendo che i tecnici di livello più alto
erano tutti italiani, da Ermenegildo Francesconi nato a Cordignano (provincia di Treviso) a Carlo Ghega veneziano, a Luigi Ne11
grelli originario di Trento a Pietro Paleocapa vicentino. Italiani
che all’epoca erano fedeli sudditi della monarchia asburgica, ma
non per questo tenuti a margine a causa della loro appartenenza
geografica e linguistica, quanto perfettamente integrati. Quanta
cultura e sapienza, verrebbe da dire, nel considerare gli «extracomunitari» una risorsa e non una minaccia, tanto da riuscire a
farli diventare un volano per lo sviluppo: e tutto questo nello
«stupido» Ottocento. Quello delle infrastrutture ferroviarie è un
progetto di ricerca che meriterebbe di essere ulteriormente sviluppato, in prima battuta in quella facoltà di Ingegneria triestina
presso la quale Pozzetto ha insegnato, sviluppando gli studi
sull’architettura mitteleuropea che aveva cominciato a Torino.
Se ne sta cominciando a parlare da poco, ma anche in Italia si va
configurando l’ambito disciplinare della Storia dell’Ingegneria
che a Trieste avrebbe un campo di applicazione vastissimo, a
cominciare dalle strutture del porto per finire con il sistema dei
trasporti. Sempre Pozzetto ricordava che proprio Trieste aveva il
primato dell’applicazione dei brevetti di calcestruzzo armato,
utilizzati nella costruzione dei magazzini portuali e in seguito
estesi alle costruzioni private in città. Come studentessa prima e
come collega in seguito sono estremamente grata a Marco Pozzetto e insieme al professor Edino Valcovich, presidente del corso di laurea specialistica in Ingegneria edile dell’ateneo triestino,
siamo impegnati a organizzare una giornata di studi in suo onore,
dove oltre a individuare gli importanti apporti alla storiografia
internazionale, si metterà a fuoco quella parte delle sue ricerche
che è volta allo sviluppo di progetti validi per il futuro. È questo
il dono che Marco Pozzetto ha lasciato a noi che lavoriamo in
ambito universitario, ma anche a tutta la città di Trieste e all’intero territorio regionale, sempre che si riesca, adesso che non c’è
più, a comunicare le sue idee facendosi ascoltare.
Articolo pubblicato su «Il Piccolo», 19 febbraio 2009
12
Workshop Pirano 1980 (archivio privato, Trieste)
Max Fabiani, Palazzo Urania a Vienna (1909-1910)
13
M. Fabiani, ingresso al Narodni Dom con vetrata di Koloman Moser, “Der
Architekt”, 1908, tav. 25
14
APERTURA DEL CONVEGNO
Saluto autorità
Valcovich: Credo che possiamo iniziare questa nostra giornata di lavoro – ed è una giornata lunga ma che affrontiamo con
grande entusiasmo – per ricordare Marco Pozzetto per ricordarlo
in positivo, lavorando e ragionando, portando un contributo sul
solco tracciato dal professor Pozzetto tanti anni fa ed in particolare una trentina di anni fa a Trieste, ma naturalmente la storia di
Marco è più lunga dell’avventura triestina. Io darei la parola subito per un breve cenno di saluto al professor Roberto Camus che è
preside della Facoltà di Ingegneria, poi passerei la parola al professor Fabio Santorini che è direttore del Dipartimento di
Ingegneria Civile e Ambientale dipartimento al quale ha afferito
sin dall’inizio il professor Pozzetto e poi all’assessore Visioli della Provincia di Trieste, Ente che ha sempre sostenuto le attività e
le iniziative di Marco Pozzetto, ricordo nel 1979 la tavola rotonda
conclusiva della mostra sulla Scuola di Wagner che si è tenuta
proprio nella sede provinciale alla presenza del professor Carlo
Ludovico Ragghianti. Quindi grazie a tutti voi di essere intervenuti e speriamo di lavorare nel segno tracciato portando un contributo nella direzione che abbiamo voluto dare alla giornata di oggi.
Camus: Grazie buogiorno a tutti e un saluto particolare
alla signora Pozzetto, innanzitutto volevo dire che il Rettore professor Peroni che non può partecipare mi ha incaricato di porgervi i saluti a nome dell’Università augurandovi il successo di questa manifestazione. Per quanto mi riguarda il professor Pozzetto
15
lo ho conosciuto, anche se per la verità quella volta afferivo a
altri dipartimenti, e posso ricordare soltanto un aneddoto sulla
mia posizione di «trafficante», dato che avevo proposto allora di
collocare un altro ponte sul Canale e il professor Pozzetto mi
minacciò di indire una crociata a livello europeo se avessi avuto
l’ardire di continuare su quella strada. Infatti io ho mollato, ma
adesso l’idea è tornata in auge. Con riferimento al ricordo che ho
io del professor Pozzetto mi chiedo che cosa direbbe oggi quando si stanno facendo dei lavori sulle nostre piazze con interventi
che sono abbastanza discutibili, tra l’altro, e in particolare quali
sarebbero i suoi commenti su un problema che mi turba molto,
che è quello della ipotesi di sistemazione di piazza Libertà che
verrebbe completamente stravolta nel suo impianto attuale per
non risolvere neanche il problema del traffico. Con questo piccolo ricordo, ricordo accompagnato dal papillon che sempre vedevo davanti agli occhi quando lo incontravo andando al bar, io
vorrei ringraziare tutti gli organizzatori, in particolare il professor Valcovich e la professoressa Barillari, che hanno svolto un
lavoro estremamente valido nel proporre e nell’organizzare questa giornata, vorrei ringraziare gli ospiti in particolare l’ospite
che viene dalla Slovenia e con questo vi ringrazio tutti. E in
conclusione vorrei ringraziare la Fondazione CRTrieste per il
sostegno che ha voluto dare a questa manifestazione. Grazie e
buona giornata a tutti.
Santorini: Signori buongiorno, io dirigo il Dipartimento di
Ingegneria Civile e Ambientale nel quale sono confluiti gli studiosi di Scienza, Storia dell’Architettura e di tutte le materie afferenti all’architettura che fanno capo al corso di Ingegneria
Civile e Ingegneria edile. In questo dipartimento noi ricordiamo
con molto affetto il professor Pozzetto e come persona molto
incisiva, legata e molto appassionata alla sua disciplina, un docente che ha dato un contributo senza dubbio fondamentale
all’amore degli studenti per lo studio dell’architettura, fornendo
al loro percorso formativo un taglio molto sensibile non solo nei
16
riguardi degli elementi di carattere costruttivo, ma della impostazione storiografica e culturale complessiva che deve sempre
accompagnare la formazione di un ingegnere. A tale proposito
ricordiamo sempre con un certo affetto l’amore della sua vita
che è stato il ruolo del rapporto con la memoria di Max Fabiani
e che lo ha portato a approfondire specificamente quegli aspetti
dell’epoca – si potrebbe dire di fine Liberty, di fine Jugendstil, di
fine Secession – che si è prolungata poi nel primo quarto, per
non dire in tutta la prima metà del Novecento. Da questo punto
di vista è stato prezioso quanto lui ha trasfuso negli studenti, la
caratterizzazione che ha dato alla formazione di questi ragazzi
(oggi tutti professionisti), l’attività per la conoscenza e la divulgazione dell’architettura, conferendo un taglio molto molto particolare agli allievi che sono usciti dall’Università di Trieste che
probabilmente non si ritrovano assolutamente in altre sedi universitarie italiane, se non forse in università d’oltralpe, come a
Lubiana. Da questo punto di vista io devo dire che il professor
Pozzetto è stato per la nostra Università, per il nostro corso di
laurea uno di quei fattori che costituiscono un punto di orgoglio,
per averlo potuto annoverare tra i nostro docenti, fondamentale
per caratterizzare gli studi di questa università nel settore della
storia dell’architettura. È per questo che ci viene molto, molto,
molto a mancare allo stato attuale e in proiezione futura. È per
questo che i suoi allievi, le persone che formano lo staff oggi del
corso di laurea in ingegneria civile-edile – nella fattispecie il
professor Valcovich e la professoressa Barillari – si sforzano in
tutte le maniere possibili per dare continuità nella formazione al
taglio culturale che lui ha conferito. Per questo io ritengo particolarmente importante la vostra presenza, ringrazio i partecipanti e un saluto particolare alla signora Pozzetto che ci onora con
la sua presenza. Grazie signora, e grazie a voi tutti.
Visioli: La ringrazio professor Santorini anche per aver ricordato la sensibilità che l’Amministrazione provinciale ha sempre dimostrato nei confronti dell’Università come agente di
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cambiamento, come agente di trasformazione positiva e nei confronti dell’asse culturale che sottende – ci pare – al vostro convegno, per questo abbiamo aderito molto volentieri al riconoscimento di interesse che è legato alla concessione del patrocinio e
anche – nella modestia delle nostre risorse – ad un contributo
economico fattivo per lo svolgimento di questi vostri lavori. A
partire da una profonda sensazione di utilità dei vostri lavori di
cui vi ringraziamo anticipatamente e le cui conclusioni attendiamo, anche per utilizzzarle nel proseguio della nostra attività amministrativa. Perché? Perchè nel porci il problema di governare
al meglio il presente della comunità triestina e necessariamente
nel tentare di porre o di consolidare basi per il futuro di questo
territorio nella sua componente antropica come nella sua componente artistica paesaggistica e storica, ci siamo imbattuti molte volte nella esigenza assoluta di riflettere il passato e il presente per avere la dimensione di un progetto futuro. E allora ci è
utile straordinariamente tutto quello che ci viene da ambienti
qualificati come il vostro e i lavori di questo convegno, per riflettere su un Novecento che ha prodotto il minimo livello di
capacità di proposta di questa città, il rinchiudersi di ogni frontiera esterna e interna tra le componenti, tra quelle che venivano
chiamate impropriamente le razze, tra le generazioni e le etnie.
Serve ricordare il coraggio che animò la progettualità di alcuni
sognatori, persone che si sentivano empaticamente parte di queste terre, nel parlare tutte le lingue che qui si parlano, nel sentire
propria la cultura di ognuna delle componenti che hanno costruito e fatto grande in qualche modo il passato di Trieste e di tutta
la regione. Noi sappiamo che tutto ciò non basta sicuramente,
ma qui ci sono molti insegnanti e molti studenti ed è giusto quindi sperare e impegnarci per una situazione in cui l’ignoranza, la
prepotenza, il disinteresse per l’altro non siano le cifre costitutive. Anche noi siamo partecipi di questo sogno ed abbiamo quindi estremo bisogno di opporci assieme con gli strumenti della
conoscenza, della cultura e dell’impegno civile a quella patologia sociale che in questo edificio – straordinariamente simbolico
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rispetto ai vostri lavori, agli autori e agli stili che vengono citati
– causò lo sconciarsi di vite umane e luoghi di convivenza, costitui anche un’offesa all’architettura, perché si voleva cancellare tutto quello che significava presenza di diversi, di non omogenei, di non conformisti. Sappiamo che riflettendo, come fate voi,
su chi si sentiva parte di una geografia e di una cultura plurale,
ci diciamo che non è stato sbagliato essere sognatori e continuare oggi, grazie anche alla possibilità di esserlo tramite la conservazione della memoria per lo slancio verso il futuro che uomini
come Pozzetto ci hanno dato. Grazie.
Marco Pozzetto fotografato da Andrea Lasorte alla Casa di Pietra di Aurisina
il 6 aprile 2001
19
Il Narodni Dom ora è la sede della Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste
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EDINO VALCOVICH
IL VALORE AGGIUNTO DI UNO STORICO
NELLA FACOLTÀ DI INGEGNERIA:
MARCO POZZETTO A TRIESTE
La giornata di oggi è stata organizzata per ricordare la figura ed il lavoro svolto dal professor Pozzetto nei lunghi anni della
sua presenza alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Trieste.
Questa giornata non vuole essere solo ed esclusivamente
una giornata di ricordo del suo straordinario impegno nel campo
delle discipline storico-architettoniche. Ha l’ambizione, viceversa, di essere una giornata di lavoro alla quale parteciperanno
molti ed importanti studiosi che sono stati amici, collaboratori
ed estimatori dell’impegno, sul terreno della ricerca storico-architettonica, del professor Pozzetto.
Tale giornata è stata voluta dalla Facoltà di ingegneria dell’Università di Trieste, quella Facoltà che l’ha visto prezioso
collaboratore per quasi vent’anni.
Tale manifestazione non si sarebbe potuta svolgere tuttavia
se, a quella volontà, non si fosse aggiunta la disponibilità, il patrocinio ed il supporto della Provincia di Trieste e della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste.
È per questo fondamentale sostegno che voglio pubblicamente ringraziare i due Enti.
D’altra parte, questi due Enti hanno dimostrato in varie occasioni una precisa attenzione nei confronti del lavoro del professor Marco Pozzetto: è per questo che il doveroso ringraziamento è ancora più sentito e non rituale.
Voglio quindi ringraziare tutti i partecipanti che, a nome
delle singole Istituzioni che rappresentano, hanno aderito con
21
entusiasmo alla iniziativa odierna con loro specifici contributi.
Cito quindi l’Istituto Italiano di Cultura di Lubiana e il professor Damjan Prelovšek, con il quale Marco Pozzetto ha proficuamente collaborato per lunghi anni.
La Società di Minerva, fondata nel lontano 1810 da Domenico Rossetti, ente culturalmente attivissimo per merito del suo
presidente, l’amico Gino Pavan, che ha avuto in Marco Pozzetto
un collaboratore continuo, preciso ed attento.
E ancora l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei
di Gorizia, presente con gli interventi di Diego Kuzmin e Renato
Tubaro. Alle iniziative di questo Istituto Marco Pozzetto ha partecipato sin dai primi anni sessanta. All’impegno di questo Istituto si deve una preziosissima pubblicazione sull’opera di Marco Pozzetto, edita per i tipi dello stesso Istituto nel 2007, a seguito del primo Convegno svoltosi a Gorizia in ricordo dell’opera
dello stesso Marco Pozzetto.
Ancora le facoltà di Architettura di Palermo, qui presente
con il professor Ettore Sessa e quella di Architettura dell’Università di Trieste qui rappresentata dalla professoressa Vilma
Fasoli.
La professoressa Micaela Viglino Davico, che ha lavorato
lungamente con il professor Pozzetto negli anni dell’impegno
torinese, rappresenterà poi il Politecnico di Torino.
La Soprintendenza ai Beni Culturali della nostra Regione
sarà rappresentata dalla dottoressa Rossella Fabiani, così come il
Museo Revoltella, importante istituto culturale della nostra città,
dalla dottoressa Maria Masau Dan.
L’impegno della facoltà di Ingegneria dell’Università di
Trieste è rappresentato dalla presenza della professoressa Diana
Barillari, dei professori Giovanni Ceiner, Roberto Costa, Piero
Piva e dal sottoscritto.
Colleghi ed amici del professor Pozzetto che hanno condiviso con Marco i preziosi anni della sua esperienza triestina.
Cito infine la presenza al nostro Convegno del professor
22
Ezio Godoli dell’Università di Firenze, a tutti noto per i suoi
preziosi lavori sulla nostra città.
Sarà proprio il professor Godoli a chiudere questa giornata
di lavoro con una conversazione sul tema che da il titolo a questa
giornata.
Voglio ringraziare infine, in questa occasione, il quotidiano
locale «Il Piccolo» per l’articolo apparso ieri sulle sue pagine
della cultura.
Meglio di così non si sarebbero potuti introdurre i temi del
nostro Convegno odierno che ha per titolo Trieste Mitteleuropa
Mediterraneo, attualità di Marco Pozzetto storico dell’architettura.
L’articolo riprende una delle ultime interviste di Marco
Pozzetto: quella rilasciata ai redattori del sito web «Next-Trieste», sito che il nostro Dipartimento ed in particolare del Corso
di Laurea in Ingegneria Edile da me presieduto, predisposto per
la Biennale di Architettura di Venezia del 2002, nell’ambito delle esperienze delle scuole di Architettura Italiane.
In quell’occasione Marco Pozzetto illustrò, con la precisione e la puntualità che contraddistingueva i suoi contributi,
la specificità della storia della nostra città, soffermandosi sulle
dinamiche urbanistiche e su particolari evidenze architettoniche.
Marco Pozzetto ha riflettuto, con quell’acume straordinario che gli era proprio, sulla natura di quest’area e su quelle caratteristiche che la stessa città possiede che potranno consentire
alla stessa di svolgere un ruolo di attrazione, in una sicura prospettiva di sviluppo, all’interno di un quadro di interessi di scala
mediterranea.
Naturalmente, così pensava Marco Pozzetto, è la presenza
del porto e delle grandi vie di comunicazione, che, ancora più
rinforzate e valorizzate, contengono le potenzialità di far svolgere a Trieste un importante ruolo in ambito europeo ed internazionale.
Da questi presupposti Marco Pozzetto si spinge ad indagare, con lucidità e profondità, la natura dell’architettura triestina,
23
contribuendo ad evidenziarne i legami con le molteplici culture
di riferimento e, nello stesso tempo, cogliendo gli elementi di
innovazione dei caratteri tecnologici e di quelli formali.
Una città, nella lettura di Marco, complessa e pluri-culturale, attenta ai nuovi venti innovativi che, soprattutto nel periodo a
cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo, spiravano fortissimi nella nostra città.
È la presenza del mare e della infrastruttura portuale, che
condiziona fortemente la formazione della Trieste moderna; tale
paradigma è declinato da Marco Pozzetto, nei molteplici aspetti
che lo compongono, in tutti i suoi lavori che derivavano da un
lungo ed attento indagare quotidiano.
Non è un caso che la lettura che Marco fa del porto di Trieste è una lettura attentissima ai contenuti innovativi delle tecnologie costruttive che, alla fine dell’Ottocento, furono utilizzate
per la realizzazione del porto stesso.
Marco Pozzetto è stato tra i primi in Italia, forse il primo,
che pone tale problema con un importante saggio sull’«Industria
Italiana del Cemento» del 1981.
In tale lavoro Marco analizza con precisione le importanti
innovazioni costruttive utilizzate nella realizzazione dei grandi
magazzini portuali, innovazioni che facevano riferimento ad una
notevole varietà di brevetti costruttivi relativi all’uso del calcestruzzo armato, tecnologia che in quegli anni cominciava a diffondersi.
Da questo punto di partenza Marco Pozzetto prende le
mosse per sviluppare poi una serie di considerazioni, proprie
dello storico dell’architettura, nel merito dei valori formali delle
grandi opere realizzate nell’area portuale.
Il professor Pozzetto considerava importante, e la faceva
propria, una fondamentale considerazione: l’architettura è certamente forma, ma quella forma assolve una funzione e gli spazi
corrispondenti a quelle funzioni devono essere realizzati con
tecnologie costruttive razionali e profondamente innovative.
Forse è questa la ragione per cui Marco Pozzetto si è trovato a casa sua in una facoltà di Ingegneria, ed in un corso di inge24
gneria Edile come quello triestino, dove assunzioni propositive
di tale carattere stavano alla base della maggior parte degli atteggiamenti didattici e di ricerca dei docenti della stessa facoltà.
La facoltà di Ingegneria triestina ha avuto sin dai primi anni
della sua formazione, nella seconda metà degli anni ’50, tra i
propri insegnamenti, quelli relativi alla Storia dell’Architettura.
I Docenti che hanno diretto l’allora Istituto di Architettura
ed Urbanistica, il professor Pio Montesi inizialmente ed il professor Roberto Costa poi, hanno considerato che la formazione
dell’ingegnere civile-edile necessitasse di un forte corredo culturale di tipo storico-umanistico. L’insegnamento Storia, ed in
particolare della Storia dell’Architettura, considerato sia quale
momento formativo, ma anche come momento di approfondimento conoscitivo specifico delle tecniche costruttive originarie
dei vari manufatti sviluppato in funzione di precisi impegni futuri sul territorio progettuale corrispondeva a questi bisogni.
I corsi di Storia dell’Architettura dei primi anni sessanta,
non erano tenuti tuttavia da docenti inseriti nell’organico della
Facoltà. Venivano attribuiti specifici incarichi a docenti esterni
che non potevano garantire, per una serie di molteplici ragioni,
una continuità della docenza e della conseguente ricerca scientifica.
Si deve all’intuizione ed alla volontà di Roberto Costa la
chiamata di un professore di Storia dell’Architettura che costituisse una presenza organica e strutturata all’interno della stessa
Facoltà.
Per queste ragioni, e con una serie di notevoli difficoltà che
in questa sede non posso e non voglio ricordare, nel anno accademico 1977-78 viene chiamato alla Facoltà di Trieste, il professor Marco Pozzetto, in quegli anni impegnato nei suoi lavori di
ricerca e nel suo incarico istituzionale di insegnamento, presso il
Politecnico di Torino.
Marco Pozzetto nel 1977, l’anno del suo arrivo a Trieste, è
uno storico dell’architettura già noto negli ambienti scientifici
italiani ed europei.
25
Insegna Storia dell’Arte e Caratteri Costruttivi degli Edifici al Politecnico di Torino ed ha già sviluppato importanti ricerche su Max Fabiani, su Giacomo Mattè Trucco, su Jože Plečnik,
su Umberto Cuzzi.
Marco compie, arrivando a Trieste una scelta di vita.
Decide di trasferirsi permanentemente in questa città che
sente sua e centro dei suoi interessi culturali, anche in una prospettiva futura.
Da quel momento sarà la sua città e sarà il suo punto di riferimento per continuare a sviluppare le sue ricerche sui terreni
dell’architettura dei paesi del centro Europa, del Movimento
Moderno e sugli architetti che delle vicende dello stesso Movimento Moderno hanno contribuito a delinearne i contorni.
Arriva a Trieste con un patrimonio culturale straordinario:
la ricerca, appena conclusa, e la strutturazione della stessa in forma di pannelli didattici, sulle vicende della Scuola di Otto Wagner.
La Mostra viene presentata a Trieste nel 1979.
Da lì inizierà quindi un percorso che la porterà a farà tappa
a Roma nel 1980, a Graz, Zagrabia, Osiek, Belgrado nel 1981, a
Sarajevo, Maribor, Kakovec, Bologna nel 1982, a Vienna, Salisburgo, Innsbruk, Monaco e Praga nel 1983.
Il lungo lavoro che inizia presso la nostra Università è proficuo, ed importante.
Stabilisce solidi contatti scientifici e didattici con le Università di Lubiana e Vienna e sviluppa una serie di innumerevoli
lavori scientifici di notevole e sicuro valore.
Credo che su questi argomenti si soffermeranno gli interventi degli studiosi che partecipano a questa nostra giornata di
lavoro.
Vale la pena qui in questa sede ricordare l’impegno profuso
nell’organizzazione della didattica all’interno della Facoltà, ricordando il suo profondo impegno ed i tratti di innovazione che
la contraddistinguevano.
A tale proposito io voglio citare l’esperienza di collaborazione con l’Università di Lubiana che si è sostanziato nei Work26
shop degli studenti e dei docenti, tenutisi a Pirano nel 1983 e poi
ad Aquileia nel 1985.
Queste esperienze didattiche sono state profondamente innovative, rispetto alla tradizionale modalità di insegnamento che
caratterizzava allora i corsi di Storia dell’Architettura della nostra Facoltà.
Si trattava di veri e propri laboratori di progettazione architettonica, dove i temi della storia dell’architettura si mescolavano con quelli dell’urbanistica, con quelli della tutela del paesaggio e con la composizione architettonica.
Due gruppi di studenti, uno per ogni Università, guidati
dai relativi professori, si sono confrontati su due temi comuni,
preventivamente concordati. Il primo si riferiva a possibili interventi turistici sulla costa attigua alla città di Pirano, il secondo si riferiva ad una possibile struttura museale per la città di
Aquileia.
Il seminario finale veniva tenuto nelle città oggetto di intervento e cioè Pirano ed Aquileia. In quelle sedi gli studenti vi
rimanevano a lavorare per alcuni giorni e sotto la guida di docenti ed assistenti lavoravano gomito a gomito preparando la
stesura finale dei singoli lavori, con un continuo confronto delle
proposte, una discussione, anche vivace, sugli approcci, una comune valutazione sugli esiti.
Basterebbe questa esperienza per segnalare il valore innovativo della presenza del professor Pozzetto alla nostra facoltà.
Basterebbe questa esperienza per segnalare il valore della sua
presenza ed il significato di apertura, in termini di relazioni, che
il suo impegno nella didattica ha avuto per il nostro corso di
studi in Ingegneria civile-edile.
Una modalità di insegnamento aperta al confronto, al dialogo, alla verifica di approcci e metodologie diverse.
Un metodo che per il professor Pozzetto risultava naturale
in relazione alla sua apertura culturale, ad una serie di conoscenze e relazioni consolidate in lunghi anni di impegno e lavoro
concreto sulle tematiche dell’architettura delle nostre aree.
27
Voglio citare un’immagine che ho ben presente nel ricordo
di quei Seminari ed in particolare di quello tenutosi a Pirano nel
1983.
Per conoscere, capire, analizzare la costa istriana si era
pensato bene di compiere un giro in barca per osservare dal mare
la configurazione e la natura della costa.
Al giro partecipavano docenti e studenti impegnati nel lavoro di proposta progettuale.
Del gruppo di docenti dell’Università di Lubiana faceva
parte anche il professor Edward Ravnikar.
Edward Ravnikar era uno dei maestri dell’architettura
europea. Laureato con Jože Plečnik, aveva lavorato a Parigi
nello studio di Le Corbusier, aveva realizzato numerosi piani
urbanistici tra cui quello di Lubiana e Nuova Gorica ed importanti architetture tra le quali la Biblioteca Nazionale a Lubiana.
Quello che si può definire, senza nessuna esagerazione, un
grande dell’architettura.
Questo viaggio in barca con gli studenti ed i vari docenti
delle Università di due paesi, ad ascoltare i suggerimenti e le
indicazioni di Edward Ravnikar che segnalavano la bellezza e le
caratteristiche della splendida costa istriana che avevamo di
fronte, resta per me tra le più belle immagini che conservo delle
esperienze vissute con Marco Pozzetto.
Il gesto di Ravnikar nel disegnare gli elementi di quella
costa, la sottolineatura dei suoi valori ambientali, l’indicazione
dei punti straordinari, risultano un ricordo indelebile che conservo di quelle giornate piranesi.
Quando, nel titolo di questo mio intervento, parlavo di valore aggiunto per quanto riguarda la presenza di Marco Pozzetto
presso la nostra facoltà, mi riferivo proprio a questa possibilità
che Marco ci ha dato di poter aprire al confronto, al dialogo, alla
conoscenza di altre esperienze la nostra facoltà. Anche per questo quindi: grazie Marco.
Voglio ora concludere questo mio intervento.
28
Molto si potrà dire, e lo diranno gli studiosi che di seguito
interveranno in questa giornata, sul lavoro del professor Pozzetto.
Le sue ricerche su Max Fabiani sono state, e resteranno per
molti anni ancora, punti di riferimento fondamentale per gli studiosi che si occupano delle vicende dell’Architettura Moderna
dell’area centro-europea.
Ma ancora rimarranno punti di riferimento, i suoi lavori
sugli architetti Giovanni, Andrea, Arduino Berlam, sull’architettura del novecento in area udinese, su Ottorino Aloisio, su Pietro
Zanini.
In conclusione quindi voglio esprimere il mio orgoglio per
aver condiviso con Marco Pozzetto l’esperienza all’Università
di Trieste, nella speranza che il suo lavoro, il suo impegno ed il
suo insegnamento costituisca un importante riferimento, anche
per il futuro, per la nostra Università e per i nostri corsi di laurea
in Ingegneria Civile.
29
R. e A. Berlam, Tempio israelitico di Trieste, 1907-1912 (foto Paolo Cartagine)
Lubiana 1982 (archivio privato, Trieste)
30
GINO PAVAN
MARCO POZZETTO
UN «MINERVALE DI LUNGO CORSO»
Nelle pagine dell’Archeografo Triestino del 2007 ho ricordato l’amico Marco Pozzetto con tanta tristezza, ed ho pubblicato la sua bibliografia che la moglie, la gentile signora Gabriella,
mi aveva fatto avere 1.
Nell’incontro di oggi vorrei ricordare i comuni interessi di
studio, la reciproca stima, i lavori fatti «in parallelo», nel segno
dell’amicizia che ci ha legato per venticinque anni; ed ancora,
desidero riferire sugli incontri che Marco ha dedicato alla più
antica associazione culturale delle nostre terre, la Società di
Minerva, di cui fu socio attivo ed apprezzato.
Al Convegno Internazionale di Architettura, tenutosi a
Grado nel 1971, arrivavo da Ravenna e non avrei immaginato
che con Marco ci saremmo ritrovati a Trieste per condividere un
così lungo percorso della nostra vita 2.
Dieci anni dopo infatti il repubblicano Oddo Biasini, ministro per i Beni Culturali e Ambientali, decretò il mio trasferimento alla Soprintendenza della Regione Autonoma Friuli Venezia
Giulia. Era dispiaciuto perché lasciavo la sua Romagna, mi disse,
ma le pressioni ricevute e le difficoltà del momento sollecitavano
la mia presenza a Trieste e nella Regione. Ero felice di ritornare
a casa dopo trent’anni, ben consapevole che mi aspettava la pesante responsabilità del restauro e la ricostruzione del patrimonio
culturale gravemente danneggiato dal terremoto in Friuli 3.
Dopo il disastroso maggio del 1976 nel Friuli si stava affrontando la terza fase della ricostruzione 4.
31
Fu un lavoro impegnativo ed entusiasmante, fatto in perfetta intesa con le Amministrazioni locali e della Regione, con la
generosa partecipazione della gente e l’impegno di tutto il personale della Soprintendenza. In meno di sei anni, a dieci dal terremoto, la ricostruzione portò a risultati straordinari, non solo a
mio giudizio 5.
Per Trieste e le altre province l’impegno non fu minore.
Concluso parte del restauro della sede triestina di Palazzo
Economo ho voluto intitolare la nuova Sala didattica al Soprintendente professor Fausto Franco, indimenticabile mio maestro
e amico 6. Quella sala ospitò una nutrita serie di mostre dedicate
alle attività della Soprintendenza. Dal ricupero dei beni architettonici, artistici e storici, danneggiati dal sisma, alle ricerche archeologiche e all’esposizione di collezioni d’arte antica e moderna da anni in consegna all’Istituto 7.
Marco Pozzetto ne fu assiduo frequentatore e nell’aprile
del 1987, coordinò la Mostra su Romano Boico architetto 19101985 8.
In quel periodo l’incarico per l’insegnamento di Restauro
dei monumenti alla Facoltà di Ingegneria affidatomi da Roberto
Costa fu occasione di nuovi incontri con Pozzetto. Si trovò il
tempo per ricordare Paolo Verzone, suo indimenticabile maestro
ad Architettura di Torino. Lo conoscevo bene dalle missioni a
Istanbul e in Asia Minore quale fraterno amico di Doro Levi,
direttore della Scuola Archeologica Italiana. Al tempo del suo
insegnamento a Torino Marco conobbe il Soprintendente ai monumenti Umberto Clerici che fu titolare di restauro al Politecnico.
Problemi di conservazione del patrimonio monumentale, ricerche archeologiche lavori di anastilosi in Turchia e in Grecia furono argomenti di discussione e per ambedue ricordi di esperienze passate.
Agli inizi degli anni Ottanta la Mostra sulla Scuola di
Wagner che nel 1979 Marco aveva curato per l’Amministrazione comunale di Trieste, stava girando mezza Europa raccogliendo risultati lusinghieri di critica.
32
Nel 1984 con l’esposizione a Praga si concludeva il circuito di quella Esposizione e l’anno seguente il Politecnico di Vienna conferirà a Marco Pozzetto il prestigioso e meritato premio
J.J. Ritter von Prechtl.
Dobbiamo riconoscere grande merito agli amministratori
di Trieste e a quelli della Regione Autonoma Friuli Venezia
Giulia di quel tempo, per aver promosso la particolare iniziativa
che ha fatto conoscere al tempo stesso il nome di Trieste nelle
diverse città europee interessate dalla Mostra.
Nel 1982, sulla scia del successo, Marco avrà la responsabilità della mostra su Raimondo D’Aronco a Villa Manin 9, nel
1984 farà parte del comitato scientifico della mostra veneziana
sulla Secessione a Vienna 10, di quello sullo scultore Alfonso
Canciani a Cormons nel 1992 11, ed a Udine, nel 2001, della
Mostra su Le Arti a Udine nel Novecento 12.
Nel febbraio del 1984, Marco mi invitò a presenziare alla
traslazione dei resti di Max Fabiani da Gorizia al cimitero di
Kobdilj, paese natale dell’architetto.
Ricordo una luminosa e fredda giornata invernale, con sole
e un borino come il Carso sa offrirci in quella stagione. Marco
era al tempo stesso commosso e felice quando lesse il saluto
funebre al suo grande architetto.
Come osserverà Damian Prelovšek Max Fabiani sarà …la
grande passione di Pozzetto e nello stesso tempo segnerà l’impegno di tutta la sua vita… 13.
Per chi desiderasse rendersi conto dello straordinario lavoro di Marco rimando alla lettura del Regesto dei suoi interventi
che l’ICM di Gorizia ha pubblicato nel 2008 negli atti del
Convegno a lui dedicato 14.
Annoto, come esempio, quanto Pozzetto sia stato capace di
fare nel corso del 1984: oltre alla normale attività didattica, tiene
una serie di conferenze a Trieste, partecipa ad un convegno a
Palermo e a Cefalù, promuove un seminario internazionale di
studio a Portorose, pubblica sulla rivista “Parametro” un primo
Contributo sull’architettura triestina, a Lubiana consegna alle
33
stampe il testo della Commemorazione di Max Fabiani e, negli
atti del Convegno di Palermo, pubblica un articolo su Il Parco di
Miramare. Altro riconoscimento per questa sua attività di critico
dell’architettura, nel 1988, lo riceverà proprio a Palermo con la
consegna del premio internazionalle Pardes.
Nel 1985 ad Aquileia ho partecipato ad uno dei Workshop
che egli era solito ad organizzare con i docenti e gli allievi degli
Istituti di ingegneria di Trieste – in questo caso anche con le
Università di Lubiana, Vienna e Graz. Il tema verteva sulla Valorizzazione e la fruizione del patrimonio archeologico. Proposta
molto interessante che antecipava lo studio per un Parco Archeologico ad Aquileia promosso dalla Provincia di Udine negli anni
Novanta al quale ho collaborato 15.
Tra il 1985 e il 1986 a Parigi, il Comune di Trieste con Luciano Semerani aprirà, su due sedi, la Mostra Trouver Trieste.
Alla Conciergerie si esporranno documenti, le immagini e i modelli degli edifici monumentali della città, privilegiando il
Settecento e il periodo neoclassico che caratterizza bene l’architettura di quel tempo a Trieste.
L’opera di Pietro Nobile sarà presente nei preziosi disegni
conservati in Soprintendenza che per l’occasione verranno in
parte esposti. Il catalogo accoglierà alcuni dei miei studi sull’architetto 16.
In parallelo, nel 1986, Marco stava pensando ad una grande Mostra su Max Fabiani e, con l’Istituto per gli incontri Culturali Mitteleuropei di Gorizia, proponeva a Palazzo Attems una
prima esposizione comprendente le cartoline acquarellate dell’architetto. Una rassegna insolita ma occasione quanto mai opportuna per richiamare l’attenzione sull’opera di Fabiani 17.
Nello stesso anno coordinavo a Villa Manin per la Regione
la Mostra della ricostruzione del Friuli a dieci anni dal terremoto, lasciavo la Soprintendenza ed iniziava la mia consulenza per
la Direzione Cultura della Regione Friuli Venezia Giulia.
Con Marco in quel periodo si collaborò alla pubblicazione
sui Marmi del Carso triestino, promossa dalla Camera di Com34
mercio ed egli mi invitò a Gorizia al Convegno internazionale
dell’ICM sulla Scuola viennese di Storia dell’Arte. Quì presentai
un documento di Pietro Nobile sull’ordinamento della Scuola di
Architettura di Lemberg. La pubblicazione del convegno curata
da Marco uscirà appena dieci anni dopo, non per causa sua 18.
Nel 1988 pubblicavo sull’Archeografo una nota su Giuseppe Sforzi allievo di Nobile e l’anno seguente, nella stessa rivista,
il primo e impegnativo regesto sulla vita e l’opera dell’architetto
Pietro Nobile.
Anch’io come Marco per Max Fabiani, avevo trovato la
mia grande passione, devo dire una passione ripresa perché già
nel lontano 1951 avevo compilato l’inventario dei disegni e documenti dell’architetto che l’anno successivo la Soprintendenza
ai Monumenti acquisterà dagli eredi.
Nel 1988 alle scuderie del Castello di Miramare messe a
disposizione dalla stessa Soprintendenza, Marco ordinava la
Mostra: Max Fabiani, nuove frontiere dell’architettura.
Il catalogo ospiterà un mio articolo su Max Fabiani e il
restauro voluto dall’amico. In quell’occasione gli ricordai di
aver incontrato l’architetto Fabiani nella sede della Soprintendenza, in via del Teatro Romano quando, da ispettore onorario ai
Monumenti si interessò del restauro di alcune case caratteristiche di San Daniele del Carso. Non ricordo bene se fosse l’anno
1947 o il 1948, era il tempo del Governo Militare Alleato comunque, Max Fabiani aveva consegnato alcuni disegni alla
Soprintendenza ai Monumenti che avrebbero dovuto trovarsi
ancora negli archivi. Marco li ritrovò e li espose in Mostra.
In quel periodo si andò a Lubiana. Già conoscevo la città
ma la visita fatta con Marco fu per me una vera riscoperta. Mi
accompagnò a vedere le opere di Max Fabiani, di Vurnik, di
Plečnik i realizzatori della Lubiana moderna, Vurnik che istituirà la Scuola di architettura, nella quale insegnerà anche Plečnik.
Dell’architetto visitammo la Biblioteca. Mi rimane ancora il ricordo dello stupore e del brivido che provai nel vedere lo spazio
solenne del suo interno.
35
Il 1989 fu l’anno del Convegno di studio promosso dal
Comune di Trieste sul Neoclassico vi partecipai con un contributo su Nobile conservatore delle antichità.
La Mostra sul Neoclassico tenutasi l’anno successivo segnò un consolante risveglio di studi e di ricerche su questo periodo dell’architettura a Trieste.
Mi meravigliò molto l’assenza di Pozzetto, ne parlai con
lui per constatare l’intesa politico culturale che aveva portato a
Trieste studiosi veneziani. Dimostrazione chiara che i politici
non erano certo in grado di conoscere la qualità degli studi di
Pozzetto.
Al contrario ne erano ben a conoscenza i componenti di
quel particolare mondo di baronie dal quale, qualche anno dopo,
Marco avrebbe ricevuto la più grande ingiustizia della sua vita.
I nostri incontri si fecero in quel tempo più rari anche per i
miei impegni a Roma al Consiglio Nazionale per i Beni Culturali
e con la Regione nell’organizzazione di grandi mostre, sui
Longobardi nel 1990 e nel 1993 sulla fortezza di Palmanova.
Nel 1990 ospitai nell’“Archeografo Triestino” un articolo
di Marco e Kurent su: Ancora un’ipotesi sulle basiliche di Grado, contributo molto apprezzato dagli specialisti, ricordo le lodi
di Sergio Tavano.
Di recente, tra le carte della Minerva ho ritrovato una proposta consegnatami nell’agosto 1991 per una Mostra sui Berlam.
il programma di Marco era molto dettagliato e comprendeva un
sommario preventivo di spesa.
Ne parlai con i responsabili della Regione ma non se ne
fece nulla. Pozzetto organizzò comunque, presso l’Ente per il
turismo, in via San Nicolò a Trieste, una mostra fotografica sui
Berlam accompagnata da un sintetico pieghevole 19.
Per l’Archeografo allora Marco mi affidò due studi sui
Berlam e gli articoli della sua allieva Caterina Lettis.
Nel febbraio del 1998 finalmente usciva il mio libro su Pietro Nobile, architetto (1776-1854), grazie a Manlio Cecovini 20.
Chiesi a Marco di scrivere la presentazione. Lo fece volentieri, e
36
le sue lodi furono tante. Assieme a Elvio Guagnini presentò la
pubblicazione al Circolo delle Generali e al giornale locale «Il
Piccolo» affidò un bel contributo critico.
L’anno seguente anch’egli concluse la monografia su Giovanni Andrea, Ruggero e Arduino Berlam, un secolo di architettura. Mi chiese la presentazione che titolai La leggenda dei Berlam, comprensiva delle meritate lodi all’autore per averci fatto
conoscere gli autori delle più interessanti architetture del periodo storicistico della città.
Il 1999 fu un anno laborioso per tutti e due perché nel maggio, con la Società di Minerva, si organizzò un incontro Internazionale di studio sull’Architetto Pietro Nobile e il suo tempo. Fu
un successo. Alla pubblicazione degli interventi dedicai il secondo numero dell’“Archeografo Triestino” che uscì nel gennaio
del 2000.
Marco poliglotta e amico di molti dei relatori fu un vero
mattatore, non solo relatore ma fu traduttore simultaneo dallo
sloveno, dal croato e dal tedesco e, per gli atti, ne curò la traduzione in italiano.
Nel 1999 ho pubblicato Il Palazzo della Presidenza della
Regione a Trieste, già sede del Lloyd Austriaco progettata da
Heinrich von Ferstel. Nell’occasione Marco ancora una volta mi
fu vicino, autore del contributo Dalla progettazione alla realizzazione, considerazioni di Marco Pozzetto.
In quest‘ ultimo decennio la sua partecipazione alle conferenze della Società di Minerva si era fatta più assidua. Motivo,
la stretta collaborazione dell’Università di Trieste con la Minerva
voluta da Edino Valcovich, presidente del Corso di ingegneria
edile e animata da Diana Barillari, che succederà a Pozzetto nell’insegnamento di storia dell’architettura. Questi cari amici hanno condiviso l’idea, e li ringrazio molto, di riservare alla cattedra
della più antica società culturale della Regione il privilegio di far
conoscere alla città quanto viene insegnato dai professori ed elaborato dagli allievi nei severi corsi di studio di ingegneria e di
architettura.
37
Nel 2002 Marco con Elvio Guagnini hanno voluto presentare ancora un mio faticoso impegno: i due volumi delle Lettere
da Vienna di Pietro Nobile. Importante archivio familiare che gli
eredi dell’architetto hanno voluto concedere in copia alla Minerva, della quale Nobile, nel 1810, fu uno dei soci fondatori.
Fra le 1067 lettere, Marco mi confidò la sua meraviglia per
aver trovato ben 127 riferite a Ermenegildo Francesconi. Consigliere Aulico dell’I.R. Governo austriaco ed importante ingegnere ferroviario, nato a Belvedere presso Sacile, amico fraterno
di Nobile e di Carlo Ghega il progettista della ferrovia Trieste
Vienna 21.
Come sempre determinato nelle sue ricerche, sia d’archivio che sul campo, Marco è andato nel paese di nascita di Francesconi, ha percorso le strade del Cadore e di Pontebba, ha fotografato, consultato testi e ci ha riferito tutto in una importante
conferenza che abbiamo raccolto sull’“Archeografo triestino”
del 2004 dal titolo: Ermenegildo Francesconi e la strada di Alemagna.
È stato uno degli ultimi incontri di Marco in Sala Benco
della Biblioteca civica con la Società di Minerva.
Sono molto grato a Marco per avermi riservato la sua amicizia e per quanto ha dato alla Minerva. Un grazie particolare lo
dobbiamo alla signora Gabriella, moglie affettuosa e autista provetta che lo ha accompagnato per mezza Europa, al figlio Luca
artista della fotografia, suo prezioso collaboratore e grazie ancora alla figlia Barbara, medico, che con la mamma ha cercato di
rendergli meno dolorosi gli ultimi suoi giorni.
38
NOTE
1 m. PozzEtto, Bibliografia in «Archeografo Triestino», serie IV vol.
LXVII = CXV della raccolta, Trieste 2007, pp. 677-689 e G. PaVan, Ricordo
di Marco Pozzetto Ibidem, pp. 273-275.
2 Il XII Congresso Internazionale di Architettura, sul tema Storia
dell’Architettura – Friuli Venezia Giulia si tenne nel Salone dell’Azienda di
Soggiorno a Grado il 20 settembre 1971.
3 Nel novembre dello stesso anno, per disposizione ministeriale, firmai
alla Soprintendenza di Padova il passaggio alla Soprintendenza di Trieste
delle competenze per i Beni archeologici del Friuli.
4 La ricostruzione venne programmata da Regione, Comuni e dal Commissario straordinario del Governo prevedendo, dopo i primi interventi di
soccorso e sistemazione della popolazione, privilegiando l’immediata ricostruzione delle attività lavorative e industriali, la seconda fase interessò la
ricostruzione delle case e dei centri urbani, la terza il restauro dei monumenti e dei beni culturali, privilegiando, in certi casi la ricostruzione di interi
paesi. Esemplare è stata la ricostruzione dei monumenti e dell’intero centro
storico di Venzone.
5 Nel 1986 venni incaricato dalla Regione Friuli Venezia Giulia a
coordinare la Mostra Friuli Ricostruzione 1976-1986 aperta a Villa Manin di
Passariano il 6 maggio. Vd. I due volumi del Catalogo: Friuli Ricostruzione
1976-1986, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Arti Grafiche Friulane,
Udine 1988.
6 La Sala è da anni orma chiusa al pubblico, così come lo è la Galleria
d’Arte Antica che avevo ordinato nello stesso Palazzo Economo. Le opere
d’arte stanno ancora chiuse in casse nel Castello di Miramare!
7 Ha aperto la serie I ritrovamenti Archeologici recenti e recentissimi
nel Friuli Venezia Giulia, pubblicata nel n. 1 della Collana di «Relazioni»
Trieste 1982. Seguirono altre mostre fra queste quella sulla «Collezione
Garzolini» con l’esposizione di appena 2.000 oggetti (ottobre 2003 – restaurati nei due anni precedenti) sui circa 20.000 dell’intera collezione. Si tratta
di un importante patrimonio d’Arte applicata acquistato dall’Amministrazione dello Stato nel 1939!! che deve venir valorizzato ma rimane ancora chiuso
in casse e armadi!
8 m. PozzEtto,Romano Boico e l’architettura, in Romano Boico architetto, 1910-1987, Italia Nostra, catalogo, Trieste 1987, pp. 11-17.
9 La Mostra D’Aronco Architetto si tenne a Villa Manin di Passariano
dal giugno al novembre del 1982.
10 Le Arti a Vienna dalla Secessione alla caduta dell’Impero Asburgico,
Venezia Palazzo Grassi maggio – settembre 1984.
11 A Cormons, nel Palazzo Locatelli, da luglio a ottobre 1992 si tenne la
Mostra su Alfonso Canciani uno scultore friulano nella Secessione viennese.
12 Le Arti a Udine nel Novecento, Chiesa di San Francesco, Galleria
d’Arte Moderna gennaio – aprile 2001.
13 D. PrEloVšEk, Premessa in Marco Pozzetto figure della Mitteleuropa,
a cura di Maurizio Giufrè, Zandonai, Rovereto (TN), 2008 p. VIII.
39
14 Marco Pozzetto storico dell’architettura mitteleuropea, Atti della
Conferenza dell’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei, a cura di
Diego Kuzmin, Gorizia 2008.
15 Al progetto del «Parco archeologico per Aquileia» ho collaborato
qualche anno più tardi con Marcello D’Olivo e altri. Lo studio è rimasto tra
le «buone occasioni perdute» in qualche scaffale d’archivio della Provincia di
Udine. Cfr. G. PaVan, Il Parco Archeologico di Aquileia, Considerazioni sulla prima fase di progettazione, in «Ricerca territorio e sviluppo» Quadrimestrale promosso dal Consorzio per la Costituzione e lo Sviluppo degli Insegnamenti Universitari, Udine, n. 3, dicembre 1991, pp. 29-30.
16 Catalogo della Mostra, Trouver Trieste, Pourtraits pour une ville,
Fortunes d’un port adriatique, Electa, Venezia 1985.
17 m. PozzEtto, Max Fabiani (1865-1962) Catalogo della mostra delle
cartoline, Gorizia 1986.
18 La Scuola Viennese di Storia dell’Arte, a cura di Marco Pozzetto,
Atti del XX Convegno dell’ICM, Gorizia 1995.
19 m. PozzEtto, Giovanni Andrea, Ruggero e Arduino Berlam, pieghevole per la mostra all’APT, Trieste 1991.
20 Cecovini era allora presidente dell’Istituto giuliano di storia cultura
e documentazione.
21 Carlo Ghega, Venezia 1802 – Venezia 1860. Famosa fra i suoi tanti
progetti di ferrovie quella del Semmering, per il collegamento diretto Trieste
a Vienna.
40
CONFERENZE DI MARCO POZZETTO
ALLA SOCIETÀ DI MINERVA
23.11.1991
Architetti triestini: i Berlam
16.4.1994
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
La Piazza dell’Unità e i grandi architetti viennesi. Quale sarà il suo futuro?
17.12.1994
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
(con Gino Pavan, Maria Walcher) Presentazione dell’«Archeografo Triestino»
vol. LIV della IV serie, CII della raccolta
17.2.1996
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
Le preoccupazioni di Gianni Bartoli per uno studio sul Piano regolatore della nostra città nel 1954
10.5.1997
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
(con Sergio Tavano) La Scuola viennese di Storia dell’arte e il Litorale
18.3.2000
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
(con Monika Werzar Bass, Gino Pavan, Barbara Mazza Boccazzi)
Presentazione volume Atti Convegno Internazionale su Pietro Nobile e il
suo tempo, in «Archeografo Triestino» vol. CIX della IV serie, CVII della
raccolta
3.2.2001
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
Il Porto vecchio dell’Emporio triestino
41
27.10.2001
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
(con Pietro Piva e Diana Barillari)
La sperimentazione del cemento armato nel Porto vecchio
dell’Emporio triestino
1.12.2001
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
L’architettura in viaggio lungo il «Corridoio Cinque» e oltre la Mitteleuropa
9.3.2002
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
I palazzi della Comunità serbo ortodossa a Trieste tra Sette e Ottocento
9.11.2002
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
Il contributo degli architetti della Regione al Movimento moderno in Italia
11.3.2003
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
(con Elvio Guagnini)
Presentazione del volume «Lettere da Vienna di Pietro Nobile»
di Gino Pavan
8.11.2003
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
Il barone Daniele Francesconi e i corridoi ferroviari del 1850
6.11.2004
Biblioteca Civica di Trieste, Sala Benco
Perché pubblicare il libro «La Ferrovia del Carso»: provocazioni
della storia
42
Presentazione dell’Archeografo triestino in Sala Benco della Biblioteca Civica; dalla sinistra Gino Pavan, Bruno Maier e Marco Pozzetto.
43
Marco Pozzetto con Alberto Sartoris, 1984 (archivio privato)
44
MICAELA VIGLINO DAVICO
LA DIASPORA DI GIULIANI,
FRIULANI, TRENTINI A TORINO
Affetto, gratitudine, ricordi di momenti, belli e non, vissuti
insieme in anni difficili per l’Università, mi legano a Marco Pozzetto, oggi e per sempre, riportandomi a considerazioni su di un
tempo molto lontano, quando ero la giovane sua assistente, negli
anni dal 1970 al 1977. Si era allora agli albori dell’interessamento della Facoltà di Architettura di Torino all’architettura contemporanea, su richiesta dei più impegnati contestatori del movimento studentesco del ’68, visto che fino ad allora l’insegnamento della Storia dell’architettura terminava con Filippo Juvarra (!).
Negli anni settanta, con Marco, avevamo organizzato un seminario triennale dal titolo Il MIAR torinese, esteso in realtà alle
più significative manifestazioni dell’architettura nella Torino del
periodo tra le due guerre mondiali; un seminario partecipato e
vivo, per la presenza degli architetti protagonisti, che otteneva
ottimi risultati 1, anticipando problemi che solo nell’ultimo decennio si sono posti all’attenzione della comunità scientifica degli studiosi di storia dell’architettura 2.
Vi partecipavano infatti Umberto Cuzzi, Ottorino Aloisio,
Gino Levi Montalcini, propriamente del gruppo MIAR 3, ma anche Armando Melis e Paolo Perona fondatori della rivista «Urbanistica», Nicola Mosso e Ferruccio Grassi della generazione
reduce dalla guerra, il più giovane Mario Passanti, Nicola Diulgheroff del gruppo del cosidetto «secondo futurismo», e soprattutto Alberto Sartoris, della cui amicizia mi onoro di aver goduto
sino alla sua scomparsa negli anni novanta.
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Con incredibile vivacità intellettuale, suscitando l’entusiasmo di docenti e studenti e contribuendo a dare al seminario un
respiro internazionale, Sartoris riproponeva, in una serie di lezioni, il clima culturale della Torino negli anni oggetto di studio,
un tema che riprenderà nel suo ultimo libro del 1990, dedicato a
Adriano Olivetti 4.
Il risultato più significativo del Seminario, dovuto al lungimirante intuito di Marco, anticipava di circa trent’anni l’attuale
tendenza «revisionista» nella storia dell’architettura. Si evidenziava infatti l’eccesso di importanza attribuito dalla storiografia
corrente al MIAR torinese, mitizzato sia per la nota vicenda della via Roma che aveva contrapposto il gruppo dei giovani a Marcello Piacentini 5, sia – e ancor più – come tributo al martirio di
Pagano, morto ad Auschwitz. In altri termini, sin da allora si
constatava che la «modernità» non può essere identificata solo e
unicamente con il Razionalismo 6.
Del resto colui che unanimemente viene indicato come paladino della cultura razionalista, ovvero Alberto Sartoris, nel suo
celebre libro pubblicato dalla Hoepli nel 1932, fuori dai luoghi
comuni e dagli stereotipi storiografici, sosteneva che «l’architetto moderno è gregario del razionalismo europeo» 7, propugnando quindi, in posizione radicale, il «razionalismo mediterraneo».
Si potrebbe obiettare che Sartoris sia, rispetto agli altri componenti del Movimento torinese, un isolato e, per certi aspetti, di
certo lo è nel quadro che di lui fornisce Jacques Gubler nel suo
volume che tratta degli aspetti nazionali e internazionali dell’architettura moderna in Svizzera 8, quando lo definisce un transalpino e transfuga per gli italiani e, per gli svizzeri, un altrettanto
transalpino e trasgressore dell’ordine elvetico 9.
L’isolamento personale dell’italo-elvetico, dovuto al mancato radicamento in uno specifico luogo, lo accomuna un po’ a
tutti gli architetti attivi a Torino negli anni venti e trenta, personaggi di diversa provenienza «mitteleuropea», attratti sia dal clima culturale attento alle esperienze europee di avanguardia creatosi attorno al Cenacolo Gualino 10, sia dalla presenza del Poli46
tecnico ove la laurea in Architettura conferiva, a differenza del
diploma delle Accademie di Belle arti, un titolo che consentiva
la firma dei progetti 11.
Attratti dal clima favorevole alla modernizzazione, studiano
infatti nell’Ateneo torinese alla metà degli anni venti gli istriani
Giuseppe Pagano Pogatschnig, Ferruccio Grassi, Umberto Cuzzi (dopo un biennio di studi a Vienna) e l’unico torinese, Luigi
Levi che, aggiungendo al proprio il cognome materno, diverrà
noto come Gino Levi Montalcini 12. Alla fine del decennio saranno studenti al Politecnico altri «immigrati»: il trentino Ettore
Sottsass, gli udinesi Ottorino Aloisio il goriziano Giuseppe Gira,
lo «svizzero» Sartoris che ritornava nel suo luogo di nascita
dopo l’esilio in cui aveva seguito il padre, sospettato di essere
anarchico.
Si viene così formando un milieu culturale di eccellenza,
con personaggi diversi, formatisi in un clima mitteleuropeo, che
mantengono contatti con i luoghi d’origine durante tutta la loro
permanenza nella capitale pedemontana. Questa situazione, se
da un lato garantisce una visione aperta e non provinciale dei
problemi, dall’altro lato impedisce la formazione di un gruppo
coeso. A differenza di altre associazioni italiane, per gli attori del
rinnovamento architettonico torinese si tratta sostanzialmente di
collaborazioni episodiche, senza che si formi un gruppo con un
dichiarato programma collettivo che ne specifichi obiettivi e posizione nel panorama internazionale.
Eppure di gruppi, nel fervore culturale della Torino degli
anni venti, ne vengono formati parecchi, di ampio respiro pur se
di breve durata. Antecedenti al MIAR sono, nel 1928, La saliera, cenacolo di architetti e artisti (del calibro dei poi ben noti
pittori Menzio, Paulucci, Spazzapan), organizzato da Umberto
Cuzzi 13, mentre è dovuto all’iniziativa di Pietro Betta – docente
al Politecnico e direttore della rivista «L’architettura italiana»
dal 1926 – il GANT, Gruppo Architetti Novatori di Torino. E
ancora, nel 1929, nasce a Parigi l’associazione Cercle et Carré,
organizzata da Sartoris, cui partecipano figure di livello interna47
zionale quali Le Corbusier, van Doesburg, Gropius, Mondrian,
Prampolini.
Ritornando a problemi relativi all’oggetto del Seminario sul
MIAR torinese e sui personaggi operanti nel periodo, è opportuno ricordare che il GANT si forma in occasione della mostra del
1928. La nota mostra, sulla quale molto si è scritto 14, viene organizzata in occasione del decennale della vittoria, fatto coincidere
– onde celebrare le glorie sabaude – con il quarto centenario
della nascita di Emanuele Filiberto, il duca vittorioso nella battaglia di San Quintino e rifondatore dello stato con la nuova capitale Torino.
La mostra risulta un valido riscontro sul come la «disponibilità progettuale» dei giovani progettisti coinvolti vada oltre la
stretta adesione al razionalismo canonico bauhausiano, con una
accettazione ben più vasta del concetto di «moderno» in architettura. Una posizione, questa, confermata del resto dallo stesso
Pagano che, come ricorda Melograni 15, in una conferenza del
1928, verosimilmente tenuta in occasione della mostra, lamenta
l’eccesso di spunti polemici in Le Corbusier, mentre cita come
«architetti moderni» Peter Behrens e Iosef Hoffmann, i cosidetti
protorazionalisti. Al di là delle parole, di certo le concezioni spaziali e formali adottate dall’architetto tedesco e dall’austriaco
hanno un forte richiamo nelle proposte dei giovani architetti torinesi, delle quali i padiglioni della mostra forniscono un vasto
campionario.
L’occasione espositiva è infatti il banco di prova per i progettisti di cui qui ci occupiamo, che nel contesto degli addetti ai
lavori vengono ad assumere una posizione di privilegio. Pagano,
su istanza di Pietro Betta con cui collaborava alla redazione de
«L’architettura italiana», viene infatti nominato direttore dell’Ufficio tecnico della mostra; con lui lavorano i più giovani Gino
Levi Montalcini e Ettore Pittini, veneto ma laureatosi a Torino 16,
e il torinese Paolo Perona.
Non a caso a questo gruppo appartengono i più importanti tra
i ventidue padiglioni della mostra, celebrati nella pubblicazione a
48
cura dei suoi membri nel 1930, Sette padiglioni d’esposizione 17.
Il volumetto da un lato ha falsato il giudizio interpretativo a posteriori sull’esposizione, volutamente ignorando le opere aderenti ai principi dell’International Style come il Padiglione del ferro
battuto e del legno di Sartoris, o la Casa degli architetti di Perona;
d’altro lato però convalida l’assunto del Seminario degli anni settanta, teso a evidenziare quell’«altra modernità» al di fuori dei
canoni proclamati per decenni come gli unici degni di attenzione.
Un rapido esame dell’architettura dei padiglioni è, dell’assunto, la miglior comprova.
Il Padiglione della Chimica (fig. 1), il più ampio, è del solo
Pagano. Voluto da Riccardo Gualino 18, l’edificio a impianto
centrale, con le masse focalizzate sul tamburo a due registri, con
l’adozione del timpano e di sagome decorative abbastanza convenzionali, è di certo ascrivibile a un ambito culturale prossimo
a quello di Tony Garnier o di Peter Behrens. Rigidamente simmetrico è anche il Padiglione delle Miniere e delle Ceramiche
(fig. 2) di Pagano e Perona, a pianta pseudocrociata, costruito in
legno e cartongesso: nel corpo centrale, inquadrato dalle maniche basse che fiancheggiano l’ingresso, la simmetria è ulteriormente accentuata dallo sfalsamento dei volumi, teso a evidenziare l’asse compositivo. Del resto l’«armonia del simmetrico» è
esplicitamente propugnata dallo stesso Pagano 19.
Di quest’ultimo, con Levi Montalcini, è poi il Padiglione
delle Feste e della Moda (fig. 3) che comprendeva un teatro, un
salone per le feste e due gallerie per l’esposizione di tessuti e
modelli. Anche in questo caso la pianta centrale dominata
dall’ampia cupola su tamburo, le sequenze di aperture ad arco su
colonne binate, la decorazione molto diffusa, contribuiscono a
qualificare l’edificio come espressione di un modernismo che
indulge ancora a richiami Secession con frange Déco, più che
come proposta di due architetti in procinto di formare un gruppo
«per l’architettura razionale» 20.
I padiglioni del gruppo di Pagano erano però moderni, tanto
nella funzionalità degli spazi quanto nell’adozione di tecniche e
49
materiali aggiornati – come rileva Edoardo Persico in un articolo su «La casa bella», pur non rinunciando all’impostazione simmetrica con polarità centrale, né alla decorazione, peraltro intesa
come elemento integrato e non solo applicato alla struttura architettonica. Non sarà contraddetta, tale rinuncia, in molte opere
di Pagano e Levi Montalcini, almeno per una decina d’anni: nella più nota e celebrata, il palazzo per uffici del gruppo Gualino,
così come nel padiglione italiano all’esposizione internazionale
di Liegi (1929-1930), o ancora – con autore il solo Levi – nel
progetto del 1937 per il concorso della mai edificata Casa Littoria a Torino.
Anche altri esponenti del MIAR torinese assumeranno atteggiamenti analoghi, in favore della «modernità» libera dalla sudditanza ai dettami del Bauhaus, ad esempio in occasione del concorso per il Palazzo del Littorio e della Rivoluzione fascista da
erigersi a Roma. I gruppi torinesi ritenuti degni di segnalazione
propongono infatti, pur in contesti spaziali articolati, forme consolidate nell’architettura «monumentale»; mi riferisco sia al progetto di Cuzzi, Levi Montalcini, Pifferi, sia a quello presentato,
con l’ingegnere Tedesco Rocca, da Ottorino Aloisio 21 (fig. 4).
L’architetto udinese, laureatosi a Roma nel 1925, formatosi
collaborando con Arduino Berlam, è fautore di una progettazione al passo con le nuove tecniche costruttive, con forme inedite
ma con spazi funzionali, per una architettura assolutamente moderna ma – pur se molto diversa da quella del gruppo Pagano –
anch’essa lontana dai canoni del Razionalismo canonico, non
fosse altro che per la costante attenzione alla storia come maestra del ben costruire 22.
Esordisce infatti, a un anno dalla laurea, con un progetto al
concorso indetto dalla «Rivista illustrata del Popolo d’Italia» per
le Terme littorie, sperimentando grandiose masse sfaccettate secondo triangoli indeformabili calcolati matematicamente che
ripropongono antiche cupole cassettonate: un tema perfezionato
nel 1928 nel progetto per l’Università degli sports (fig. 5), scelto
con altri quattro a rappresentare l’Italia in occasione delle IX
50
Olimpiadi ad Amsterdam. Al progetto Roberto Papini dedica
uno specifico articolo sulla sua rivista, evidenziando quello che
ritengo sia il timbro della progettazione dell’udinese: ricerca del
nuovo, assumendo dalla storia stimoli al progetto. Papini scrive
infatti che Aloisio «non si riallaccia […] alle forme della tradizione ma ne riprende lo spirito e con quello immagina un immenso edificio che realizza, more romano, la vastità solennissima dello spazio racchiuso e coperto» 23.
Concludo questi ricordi sul Seminario degli anni settanta
con una osservazione. Quando si dedicano a temi che potremmo
definire «agresti», gli architetti del MIAR torinese dimenticano
in toto qualunque accenno razionalista per rifarsi alle tradizioni
locali. Emblematica risulta la proposta di Pagano nel Padiglione
per la mostra forestale, caccia e pesca (fig. 6) – ancora nella mostra del 1928 – che illustra parlando di «un portico rusticano di
sapore veneto, ai lati due corpi di fabbrica di ispirazione lombarda e valdostana» 24. La stessa tendenza si rileva in Cuzzi quando
nella villa Borsotti a Balme (1932) si avvale di materiali locali e
altrettanto in Aloisio con la Culla in vimini e acero (1928) (fig.
7) e ancor più nella Casa del pescatore 25, la casa per sè sulle rive
dell’Isonzo, il ritorno al «fogolar furlan».
Un ideale ritorno alle origini, un rientro dalla diaspora di
questo strano MIAR torinese formato da due istriani (Cuzzi e
Pagano), un trentino (Sottsass), due friulani (Aloisio e Gira), un
quasi svizzero (Sartoris), un unico torinese, ma di famiglia con
forti legami internazionali (Levi Montalcini). Un gruppo che,
con altri «stranieri» (l’istriano Grassi, il veneto Pittini, il bulgaro
Diulgheroff) e qualche «locale» (Melis, Passanti, Perona) negli
anni venti-trenta ha arricchito Torino nei confronti di una cultura
di afflato europeo.
Così come l’arrivo di Marco Pozzetto alla Facoltà di Architettura di Torino negli anni settanta ha significato uno svecchiamento di consolidati schemi «subalpini» nell’insegnamento della storia e un aggiornamento sulle problematiche architettoniche
più recenti, di respiro internazionale.
51
Scusandomi per il coinvolgimento personale che può avermi tolto un poco di lucidità nei giudizi, nonché per la scarsa
qualità delle vecchie immagini, desidero aggiungere ancora un
pensiero che urge, insieme ai ricordi: per me, la collaborazione
con Marco nel triennio del Seminario ha significato un periodo
entusiasmante di ricerca, uno dei momenti più belli nella mia
lunghissima vita universitaria 26.
NOTE
1 I risultati sono rimasti inediti a causa di «disavventure economiche»,
tranne per alcuni articoli e per il volume m. PozzEtto, Vita e opere dell’architetto udinese Ottorino Aloisio, Torino 1977.
2 Mi riferisco a quella che oggi viene definita «l’altra modernità»
nell’architettura, non legata ai dettami del Razionalismo.
3 Del gruppo torinese del Movimento Italiano per l’Architettura Razionale facevano parte anche Giuseppe Pagano, Ettore Sottsass, Giuseppe Gira.
4 a. sartoris, Tempo dell’architettura, tempo dell’arte. Cronache degli
anni Venti e Trenta, Città di Castello (PE) 1990.
5 Sul tema della via Roma cfr.: m. PozzEtto, Gruppo torinese del
M.I.A.R. Via Roma, Torino. Significati di una proposta, in Civiltà del Piemonte. Studi in onore di Renzo Gandolfo, Torino 1975, pp. 791-799; l. rE,
G. sEssa, Torino. Via Roma, Torino 1992.
6 Si faccia rimando alla bibliografia disponibile negli anni settanta,
pressoché tutta sostanzialmente rivolta all’esaltazione del Razionalismo
come detentore unico della modernità in architettura.
7 a. sartoris, Gli elementi dell’architettura funzionale, Milano 1932,
p. 15.
8 j. GuBlEr, Nationalisme et internationalisme dans l’Architecture Moderne en Suisse, Milano 1975, p. 209.
9 Il volume di Gubler, edito proprio negli anni in cui si svolgeva il Seminario, contribuiva anche a liberare Sartoris dalla etichetta di «fascista» appioppatagli da più parti a causa dei suoi tentativi giovanili di conquistare le
frange più aperte del Regime alla architettura moderna: rivela infatti che al
secondo congresso del CIAM era pervenuta una lettera del Sindacato Fascista
Architetti che intendeva eliminare Sartoris, definendolo «poco affidabile politicamente» (Ibid., nota 8).
10 Il gruppo raccolto intorno al colto industriale era formato da pittori,
scultori, architetti. Sul tema cfr. m. PozzEtto, Alberto Sartoris e il teatrino
52
privato di casa Gualino, in «Studi Piemontesi», III, 1974, pp. 331-335.; r.
GaBEtti, Riccardo Gualino e la Torino degli anni ’20, in «Studi Piemontesi»,
XI, maggio 1982, pp. 13-17.
11 Sulla situazione della cultura torinese negli anni tra le due guerre
mondiali, cfr. i più recenti contributi: G. montanari – m. ViGlino, Torino
città-laboratorio della modernità. Un mito da sfatare?; c. Franchini – a.
Bruno jr., Architetti e artisti delle avanguardie tra le due guerre; E. DEllaPiana, L’insegnamento dell’architettura dall’Accademia Albertina al Politecnico, in Soleri. La formazione giovanile. 808 disegni inediti di architettura, a
cura di a. j. lima, Palermo 2009, pp. 39-70.
12 Il nuovo nome viene poi legalmente attribuito a tutta la famiglia,
come è ben noto nel caso della sorella Rita, premiata con il Nobel. Cfr. m.
PozzEtto, Gino Levi Montalcini (1902-1974), in «Studi Piemontesi», VI-I,
marzo 1975, pp. 133-141; Gino Levi Montalcini. Architetture, disegni e scritti, «A&RT», numero monografico, dicembre 2003.
13 Su Cuzzi: m. PozzEtto, Equilibrio di un gusto. Umberto Cuzzi architetto, in «Iniziativa isontina. Rivista del Centro studi politici economici e
sociali. Gorizia», maggio–agosto 1974, pp. 29-36; E. uccEllo, Umberto
Cuzzi architetto. Gli anni del razionalismo e l’attività goriziana, in «Studi
goriziani», LXII, luglio-dicembre 1990, pp. 66-96.
14 a. mElis, L’esposizione di Torino del 1928, in «Architettura e arti
decorative», aprile 1928, pp. 372-381; Sette padiglioni d’esposizione. Torino
1928, a cura di G. PaGano PoGatschniG – G. lEVi montalcini – E. Pittini – P.
PErona, Torino 1930; Torino millenovecentoventotto, a cura di G. canElla
– V. GrEGotti, in «Edilizia moderna», numero monografico, 1963; c. BaGlionE, Torino 1928: architetti e architettura all’Esposizione del Valentino,
tesi di laurea IUAV, rel. G. ciucci, Venezia 1988; P. l. BassiGnana, Immagini
di progresso, Torino 1990; Tra scienza e tecnica. Le esposizioni torinesi, a
cura di P. l. BassiGnana, Torino 1992; V. Garuzzo, Torino 1928. L’architettura all’Esposizione Nazionale Italiana, Torino 2002.
15 c. mEloGrani, Giuseppe Pagano, Milano 1955, pp. 47-50.
16 Dopo l’esperienza alla mostra, a tre anni dalla laurea, di Pittini architetto si perdono le tracce, essendosi dedicato all’insegnamento.
17 Sette padiglioni …, cit.
18 L’industriale concentrava la propria attività in quel campo, con progetti e realizzazioni allora di avanguardia. Cfr. anche GaBEtti, Riccardo Gualino …, cit.
19 Insieme alla simmetria, si celebrano «il trionfo della linea retta» e «la
ricerca di equilibrio delle masse, avvicinate, compenetrate». Cfr. Sette padiglioni …, cit. p. 62.
20 Ancora più lontano dalla essenzialità propugnata dal «Movimento
moderno» è il padiglione di Pagano, Levi, Pittini, dedicato a Marina e Aeronautica, con un pesante apparato compositivo e decorativo giustificabile solo
in parte dalla retorica insita nel soggetto e, probabilmente, da pressioni esterne, come avviene nel caso del padiglione di Cuzzi per l’Opera Nazionale
Combattenti. Cfr. Garuzzo, Torino 1928 …, cit., p. 43, p. 46.
53
21 I due progetti sono illustrati in Il nuovo Littorio. I progetti per il Palazzo del Littorio e della Rivoluzione fascista in via dell’Impero, MilanoRoma, 1936-XIV, rispettivamente pp. 193-198 e pp. 99-104.
22 Nell’intervista concessa a Marco Pozzetto nel periodo del Seminario
Aloisio dichiarava: «Meno si è patiti o schiavi della modernità, più si comprendono le cose del passato alle quali ci si avvicina con amore e invidia per
coloro che ci sapevano fare». PozzEtto, Vita e opere …, cit., p, 7.
23 L’articolo di Papini è integralmente riportato nel volume dedicato ad
Aloisio. Ivi, pp. 64-65.
24 Sette padiglioni …, cit., p. 42.
25 Il progetto, con un articolo di Aloisio, è pubblicato in «Domus», XV,
n. 168, 1942, pp. 416-418.
26 Questo contributo si rifà in parte all’intervento della sottoscritta,
L’altro MIAR torinese, al Convegno «L’altra modernità. Città e architettura»,
Roma 11-13 aprile 2007.
54
Fig. 1 – G. Pagano, Padiglione della Chimica, Esposizione per il Decennale
della Vittoria, Torino 1928.
55
Fig. 2 – G. Pagano, Padiglione delle Miniere e delle Ceramiche, Esposizione
per il Decennale della Vittoria, Torino 1928.
Fig. 3 – G. Pagano, G. Levi Montalcini, progetto per il Padiglione delle Feste
e della Moda, Esposizione per il Decennale della Vittoria, Torino 1928.
56
Fig. 4 – O. Aloisio, Tedesco Rocca, progetto di concorso per il Palazzo del
Littorio, 1936.
57
Fig. 5 – O. Aloisio, progetto per l’Università degli Sports, 1928.
58
Fig. 6 – G. Pagano, padiglione per la mostra forestale, caccia e pesca, Esposizione per il Decennale della Vittoria, Torino 1928.
Fig. 7 – O. Aloisio, Culla in vimini e acero, 1928.
59
J. Plečnik, Biblioteca Universitaria di Lubiana, 1930-1936
60
DAMJAN PRELOVšEK
MARCO POZZETTO
E L’ARCHITETTURA SLOVENA
Marco Pozzetto non ha mai nascosto le proprie origini slovene da parte di madre. Apparteneva alla rinomata famiglia Hribar ed era lontano parente del sindaco di Lubiana Ivan Hribar,
che aveva invitato l’architetto Max Fabiani a ricostruire la città
dopo il grande terremoto del 1895. Suo zio Izidor Cankar fu tra
i più brillanti intellettuali sloveni e fondò la cattedra di Storia
dell’Arte presso l’Università di Lubiana. Se non fosse scoppiata
la guerra con tutte le sue conseguenze politiche, Marco avrebbe
quasi certamente terminato gli studi in una delle università più
prestigiose d’Inghilterra, dove lo zio benestante intendeva mandare quel suo talentuoso nipote. Dopo la morte prematura della
madre, infatti, Izidor Cankar si prese cura di Marco, che al tempo aveva appena 4 anni. Marco non parlava molto della sua vita,
ma una volta raccontò: «Ho vissuto con mio zio Cankar fino al
1935, quando fu nominato Ambasciatore jugoslavo in Argentina.
Da piccolo giocavo sotto al tavolo mentre gli facevano visita i
principali intellettuali sloveni dell’epoca. A quel tempo Cankar
era professore presso l’Università di Lubiana, aveva pubblicato
un’introduzione alla comprensione delle belle arti (Uvod v umevanje likovne umetnosti) e stava scrivendo la sua storia dell’arte
nell’Europa occidentale (Zgodovina likovne umetnosti v zapadni
Evropi), che rappresenta il fondamento della storia dell’arte slovena dal punto di vista terminologico, filosofico e sistematico…
Quando ho deciso di iscrivermi ad architettura e a storia dell’architettura, ho tratto molti insegnamenti dai libri di Cankar.
61
Innanzi tutto il metodo di lavoro che egli aveva trasferito dalla
scena viennese alla realtà slovena...» 1
Le cose andarono diversamente e Marco si trasferì in Italia,
la Patria scelta da suo padre, un italiano di origine dalmata.
Marco trascorse diversi anni presso le zie a Grado cercando con
fatica di avvicinarsi alla sua futura professione. La gioventù a
Lubiana e gli studi presso la Scuola domenicana sull’isola di
Brač lo segnarono profondamente. In seguito egli stesso dichiarò che gli anni di studio trascorsi in Dalmazia furono per lui la
migliore scuola che avesse mai frequentato 2. La vera Patria di
Pozzetto divenne la Mitteleuropa e più precisamente l’area
dell’ex monarchia asburgica, sotto la cui egida erano vissuti per
secoli popoli slavi, germanici e romanzi. Marco era un cittadino
europeo nel vero senso della parola. Per noi, che abbiamo vissuto per anni oltre la cortina di ferro, queste cose non erano affatto
scontate ed è per questo che stiamo iniziando a comprendere
soltanto adesso la vera grandezza del suo spirito.
Se non sbaglio, conobbi Marco per la prima volta a uno degli
Incontri Mitteleuropei a Gorizia, tra i cui promotori c’era anche
lui. A dire il vero, salvo qualche rara eccezione durante le vacanze
sull’isola di Cherso, anche in seguito non mi apparve mai diverso
da allora: portava sempre un’elegante giacca a doppio petto, l’immancabile farfallino, i capelli pettinati all’indietro e dei grossi occhiali. Una volta mi confidò che proprio a causa dei suoi problemi
di vista progettò soltanto una casa e preferì dedicarsi alla storia
dell’architettura. Nella sua ampia bibliografia, pubblicata recentemente dal professor Maurizio Giufrè 3, troviamo anche molti testi
in sloveno, o meglio, saggi che trattano la realtà slovena e la sua
architettura. Consentitemi di soffermarmi su questi aspetti e lasciare da parte tutto ciò che riguarda lo studio e la tutela di singoli
monumenti, le sue monografie sugli artisti triestini e friulani e
molto altro ancora, grazie a cui Marco resterà per sempre nei nostri ricordi come un instancabile ricercatore della verità.
Vorrei menzionare anzitutto un’opera non particolarmente
apprezzata sull’architetto Max Fabiani, pubblicata a Gorizia nel
62
1966 4. Potremmo considerarla come una sorta di debito morale
verso la sua madrepatria. In questo libro parla dell’architetto che
ha costruito la moderna Lubiana e nelle cui vene, come in quelle
di Marco, scorreva un po’ di sangue sloveno, visto che nacque e
fu sepolto sul Carso sloveno. Fino a quel momento di Fabiani non
si sapeva ancora molto. Le pubblicazioni dei suoi lavori nelle riviste specialistiche viennesi prima della Grande Guerra erano state dimenticate da tempo e l’unico ad averlo menzionato prima di
Marco Pozzetto fu Henry-Russell Hitchcock nel suo famoso libro
sulla storia dell’architettura nel XIX e XX secolo, in cui erano
state citate marginalmente alcune opere viennesi di Fabiani 5.
La sorella di Marco, Luka, viveva a Vienna e ciò gli consentiva di trascorrere molto tempo nelle biblioteche e archivi
della capitale austriaca durante le vacanze. Fabiani e l’architettura austriaca della prima metà del XX secolo divennero il filo
conduttore delle sue ricerche. Dieci anni dopo la sua opera prima pubblicò a Torino la traduzione della Moderne Architektur di
Wagner con un’ampia introduzione e numerose osservazioni 6,
che dedicò significativamente al defunto zio Izidor Cankar. Fu il
primo tentativo di richiamare l’attenzione della storiografia italiana alla Secessione viennese. Il libro venne pubblicato prima
del tempo, quando i principali storici italiani erano orientati prevalentemente all’Art Nouveau dell’Europa occidentale, pertanto
l’opera di Marco viene ancora oggi ingiustamente citata da pochi. Verso la fine degli anni settanta anche l’Italia fu travolta
dall’entusiasmo per l’architettura della capitale asburgica e molti iniziarono a seguire le orme di Marco, ma in modo meno scrupoloso. Si diffuse una sorta di invidia, nessuno infatti volle ammettere che qualcuno aveva detto già tutto su un argomento che
molti stavano appena iniziando ad affrontare. Marco non volle
scendere a compromessi e non si legò a nessuna delle cerchie
che avrebbero potuto portarlo alle stelle. Sebbene rispettato dagli amici, decise di rimanere in disparte vedendosi chiudere le
porte di molte prestigiose università italiane. In compenso il suo
contributo scientifico fu molto apprezzato oltre la cortina di fer63
ro, dove la storiografia stava iniziando a liberarsi dei vincoli ideologici e a ricercare i legami perduti all’interno dello spazio culturale mitteleuropeo, in passato unitario. Marco divenne un
ospite gradito di molti incontri scientifici internazionali. Mentre
la storiografia italiana insisteva su Otto Wagner e su alcuni dei
suoi più stretti collaboratori, Marco stava svelando sempre più la
vera immagine della Scuola di Wagner, il cui contributo fondamentale va attribuito in realtà ad alcuni ingegnosi studenti giunti a Vienna da altri territori, soprattutto slavi. Uno di questi fu
anche lo sloveno Jože Plečnik.
Marco terminò i suoi studi di architettura a Torino con una
tesi su Plečnik, che a quel tempo era stato di fatto estromesso
dalla storiografia ufficiale nella sua stessa Patria, la Slovenia,
mentre in Italia era quasi del tutto sconosciuto. Marco pubblicò
la sua tesi nel 1968 a Torino con il titolo ampliato Jože Plečnik e
la Scuola di Otto Wagner 7, tracciando così la via delle sue future
ricerche. Questo libro è il primo tentativo di una monografia
completa sull’artista sloveno e in quanto tale possiede ancora
oggi un elevato valore scientifico. Plečnik fu un allievo geniale
di Wagner che pur traendo spunto dall’antichità aveva intrapreso
il suo percorso lungo le scorciatoie del modernismo. Pertanto
non poteva essere inserito in nessuna delle correnti già affermate. Con lungimiranza Marco riconobbe la sua grandezza e cercò
di trasmetterla al pubblico europeo. Ma si ritrovò nuovamente a
precorrere i tempi, poiché Plečnik si affermò sulla scena architettonica europea soltanto dieci anni più tardi con l’avvento del
postmodernismo, con cui la sua opera a dire il vero non ha nulla
a che fare. Tuttavia grazie a lui, verso la fine degli anni settanta,
Lubiana divenne una meta di pellegrinaggio per tutti coloro che,
stanchi del funzionalismo degenerato, volevano ritrovare la strada della tradizione.
Come già detto, Marco non aveva difficoltà ad addentrarsi
nell’architettura mitteleuropea, visto che alla luce della sua doppia nazionalità, della sua conoscenza del tedesco e della comprensione delle altre lingue slave per lui le barriere statali, ideo64
logiche e nazionali non rappresentavano un ostacolo, di fronte a
cui dovette invece arrendersi la maggior parte degli altri storici.
Nel 1979 organizzò a Trieste una mostra itinerante sulla Scuola
di Wagner, accompagnata da un ampio catalogo nel quale illustrò la sua visione sull’importanza e il ruolo che tale Scuola ebbe
sull’architettura europea 8. L’anno successivo l’opera uscì nella
traduzione tedesca presso la casa editrice di Vienna e Monaco
Anton Schroll 9, che aveva pubblicato in passato tutte le opere
fondamentali di Otto Wagner e dei suoi discepoli. Da notare che
nessuno studioso austriaco era riuscito a mettere assieme una
simile analisi del proprio passato artistico, ma lo fece Marco che
nel frattempo aveva ampliato i propri orizzonti approfondendo
l’architettura dei paesi oltre cortina e studiando la letteratura
scientifica slava, inaccessibile ai colleghi austriaci. Oltre agli artisti di origine austriaca, ceca, polacca, ungherese, croata, italiana e di altre nazionalità, l’opera tratta con pari dignità anche i
due principali architetti sloveni: Jože Plečnik e Ivan Vurnik.
Altri studiosi, soprattutto austriaci e cechi, ampliarono le ricerche partendo dall’opera di Marco. Grazie a Friedrich Achleitner,
Vladimír Šlapeta, Zdenko Lukeš, Rostislav Švácha e Jindřich
Vybíral sappiamo oggi molte cose in più sugli allievi di Wagner
di quanto fosse a conoscenza Marco nel 1979. Ciò naturalmente
non significa che Marco non abbia seguito da vicino le nuove
scoperte scientifiche, al contrario, strinse amicizia con molti studiosi austriaci, cechi, sloveni e croati.
Il libro di Marco su Fabiani riscosse molta approvazione
anche in Slovenia e lo stesso anno la Narodna galerija di Lubiana
celebrò con una mostra il centenario della nascita di Fabiani. La
parte scientifica fu affidata a Marco, mentre l’introduzione al
catalogo 10 venne redatta da Marjan Mušič, che a quel tempo era
uno dei pochi studiosi a occuparsi dell’architettura slovena contemporanea. Ciò segnò l’inizio di una proficua collaborazione
tra Marco Pozzetto e gli storici e docenti sloveni. Pubblicava i
suoi articoli nelle riviste Sinteza 11 e Arhitektov bilten 12, nei quali
analizzava l’architettura slovena, soprattutto Fabiani e Plečnik,
65
nel contesto europeo. Grazie alla sua visione cosmopolita riusciva a guardare alle cose in maniera più ampia e profonda di ciò
che noi stessi riuscissimo a fare. Si dedicò molto anche all’architettura di Trieste, svelandone l’eterogeneità etnica che emerge
dagli edifici di epoca asburgica. Cercò sempre di essere onesto
verso tutti i suoi fautori e di individuare sotto il nuovo mantello
italiano la vera immagine di ciò che fu il principale porto austriaco. Si dedicò in particolare al Narodni dom sloveno di Trieste 13,
che prima dell’incendio del 1920 era stato uno degli edifici polivalenti più all’avanguardia della Mitteleuropa. Il suo ideatore,
Max Fabiani, si liberò grazie a quest’opera della Secessione
viennese avvicinandosi alla tradizione mediterranea. Un’altra
grande passione di Marco fu il progetto per il percorso fluviale
lungo la Valle del Vipacco, che Fabiani aveva ideato ispirandosi
al genio di Leonardo da Vinci e con il quale intendeva realizzare
l’antico sogno di creare un collegamento navigabile tra Vienna e
l’Adriatico. Dopo la firma dei trattati di Osimo questa soluzione
apparve a Marco ancor più fattibile e vantaggiosa.
Per il suo contributo alla diffusione dell’architettura slovena Marco ricevette nel 1975 il premio Plečnik. In quell’occasione citò il pensiero di alcuni studiosi stranieri sull’opera di Fabiani
e concluse il suo discorso di ringraziamento con queste parole:
«Credo che questo tipo di opinioni possano spianare la strada
lungo la quale la storia dell’architettura slovena potrà raggiungere il posto che indubbiamente le spetta sulla scena culturale
mondiale.» 14 Da quel momento in poi si può parlare di una costante presenza di Marco in Slovenia, sia in qualità di autore di
trattati scientifici, docente universitario, mentore di giovani architetti della nuova generazione sia in qualità di promotore di
numerosi incontri scientifici e mostre internazionali. Fu anche
tra i partecipanti abituali delle Giornate della cultura di Pirano
che su iniziativa del suo amico viennese Boris Podrecca vissero
un periodo di grande fioritura negli anni ottanta, quando alcuni
degli architetti più famosi a livello mondiale venivano sulla costa slovena a tenere i propri interventi.
66
Ma Marco non si limitò solo allo studio dei due pionieri
dell’architettura slovena, bensì si dedicò con altrettanto entusiasmo alle correnti contemporanee. Scrisse anche sul giovane collega e antagonista di Plečnik, Ivan Vurnik 15, che aveva ugualmente studiato a Vienna e frequentato per un breve periodo la
Scuola di Wagner su consiglio di Fabiani. Tra i suoi contemporanei aveva molta stima dell’architetto Edvard Ravnikar, a cui
era legato da una lunga amicizia. Dopo la sua morte, agli inizi
degli anni novanta, Marco mise in luce il contributo universale
di Ravnikar allo sviluppo dell’architettura moderna e le sue parole hanno tutt’oggi piena validità 16.
Oltre alle sue numerose monografie che comprendono tematiche relative all’architettura, alla pianificazione territoriale e
alla storia dell’arte, continuò con entusiasmo a raccogliere dati
su Max Fabiani. Nel 1983 integrò la sua monografia italiana per
la casa editrice viennese Tusch, aggiungendo per il pubblico tedesco l’interessante sottotitolo Ein Architekt der Monarchie 17.
Le principali novità del volume sono una descrizione dettagliata
della mostra ceco-tedesca a Liberc, sulla quale era riuscito nel
frattempo a raccogliere numerose e interessanti informazioni, e
i piani regolatori per la ricostruzione dell’Isontino dopo le devastazioni della Prima Guerra Mondiale. In questo modo presentò
Fabiani non solo come urbanista, ma anche come un importante
esperto di pianificazione territoriale.
Marco riuscì a realizzare il suo desiderio di una grande mostra su Fabiani nel 1988 a Trieste, che avvalorò definitivamente
la sua arte architettonica 18. La mostra fu presentata in seguito
anche a Lubiana. In quell’occasione furono pubblicati in italiano
e sloveno un catalogo e un’antologia sui trattati di architettura di
Fabiani 19. L’apice di tutto il lavoro svolto fino allora fu per
Marco l’ampia monografia dal titolo Maks Fabiani – Vizije prostora 20. Poiché non riuscì a trovare un editore in Italia, la pubblicò nel 1997 in Slovenia. Si tratta di una vera e propria raccolta
di dati e giudizi che sono fondamentali per ogni ulteriore approfondimento sull’architettura di Fabiani. Nella sua continua ricer67
ca della perfezione Marco si discostò in parte dalle opere principali di Fabiani per presentare tutto ciò che l’architetto carsolino
aveva ideato durante la sua lunga vita. Non va tuttavia dimenticata la sua seconda grande passione, Plečnik. In occasione della
grande mostra che si tenne al Castello di Praga nel 1996, oltre a
un contributo per il catalogo 21 Marco preparò anche una pubblicazione sui suoi allievi 22.
Nel corso delle sue ricerche sull’architettura mitteleuropea
e in particolare su Fabiani, Marco si creò una ricca biblioteca
riuscendo a strappare dalle mani disinteressate di alcuni parenti
italiani del grande architetto dei preziosissimi documenti d’archivio, tra cui testi filosofici e letterari a tutt’oggi non ancora
avvalorati. Ciò attirò su di lui alcune invidiose e ingiustificate
accuse, che ferirono Marco profondamente. Negli ultimi anni
della sua vita, con l’aiuto di alcuni colleghi e amici sloveni,
Marco tentò di dar vita a un ente dedicato a Fabiani a štanjel
dove il grande architetto era stato sindaco per alcuni anni e aveva partecipato attivamente sulla sua ricostruzione. L’ente purtroppo non ha preso ancora piena forma e ha pubblicato finora
soltanto la traduzione slovena dell’Acma di Fabiani 23, la cui introduzione è stata redatta naturalmente dal nostro indimenticabile amico Marco.
68
NOTE
1 a. hriBar, Rodbinska kronika Dragotina Hribarja in Evgenije Šumi,
Lubiana 2008, pp. 251-252.
2 Ibd.
3 m. PozzEtto, Figure della Mitteleuropa e altri scritti d’arte e di architettura a cura di Maurizio Giufrè, Rovereto 2008, pp. 401-410.
4 m. PozzEtto, Max Fabiani architetto, Gorizia 1966.
5 h.-r. hitchcock, Architecture. Nineteenth and Tweentieth Centuries,
The Pelican History of Art, Terza edizione 1971, p. 404, 472.
6 Otto Wagner – Architettura moderna. Traduzione, introduzione e
commento di m. PozzEtto, Torino 1976.
7 m. PozzEtto, Jože Plečnik e la Scuola di Otto Wagner. Studi di architettura moderna promossi dall’Istituto di Storia dell’Architettura del Politecnico di Torino, Torino 1968.
8 La Scuola di Wagner, 1894-1912. Idee, premi, concorsi, Comune di
Trieste, Trieste 1979.
9 m. PozzEtto, Die Schule Otto Wagners 1894-1912, Wien-München
1980.
10 Maks Fabiani 1865-1962, Narodna galerija Ljubljana, Lubiana luglio 1966.
11 Alcuni esempi: Nekaj novih spoznanj o vlogi Dunaja v zgodovini sodobne arhitekture, «Sinteza» 24-25, Lubiana 1972, pp. 21-28; Pogledi na Fabianijevo urbanistično načrtovanje, «Sinteza» 28-29, Lubiana 1973, pp. 20-26.
12 Alcuni esempi: Max Fabiani. Ob prekopu, Arhitektov bilten, št. 7071, 1984, pp. 16-17; Beležke za zgodovino moderne arhitekture v Trstu,
Arhitektov bilten št. 83-84, 1986, pp. 3-27.
13 m. kraVos, m. PozzEtto, m. Pahor, s. Volk, B. kraVos, P. mErkù,
Narodni dom v Trstu 1904-1920, Trieste 1995.
14 «Arhitektov bilten», n. 23, marzo 1975, p. 19.
15 m. PozzEtto, Ivan Vurnik in dunajska Tehnika, Ivan Vurnik and the
Technische Hochschule in Vienna, v: Ivan Vurnik 1884-1971 slovenski
arhitekt, slovenian architect, Arhitekturni bilten, edizione speciale, Lubiana
1994, pp. 53-58.
16 m. PozzEtto, Fabiani – Plečnik – Ravnikar, v: Hommage à Edvard
Ravnikar 1907-1993, ed. France Ivanšek, Lubiana 1995, pp. 321-326.
17 m. PozzEtto, Max Fabiani. Ein Architekt der Monarchie, Wien 1983.
18 m. FaBiani, Nuove frontiere dell’architettura, catalogo della mostra,
Trieste 1988
19 m. FaBiani, Sulla Cultura della città. Scritti 1895-1960, Trieste 1988
(edizione slovena: m. FaBiani, O kulturi mest. Spisi 1895-1960, Trieste 1988).
20 m. PozzEtto, Maks Fabiani – Vizije prostora, Kranj 1997.
21 m. PozzEtto, Plečnik and Prague Castle, in: Josip Plečnik – An
Architect of Prague Castle, catalogo della mostra, Praga 1997, pp. 49-52.
22 m. PozzEtto, Plečnikova šola v Ljubljani, catalogo della mostra,
Lubiana 1996.
23 m. FaBiani, Akma duša sveta, štanjel 1999, pp. 7-12.
69
Nova Gorica 1985. Ravnikar, Ginelli, Ocvirc (archivio privato, Trieste)
70
DAMJAN PRELOVšEK
MARKO POZZETTO
IN SLOVENSKA ARHITEKTURA
Marko Pozzetto nikoli ni skrival slovenskega porekla po
materini strani. Rodil se je v znani Hribarjevi družini in bil v
daljnem sorodstvu z županom Ivanom Hribarjem, ki je k prenovi
mesta po velikem potresu 1895 pritegnil arhitekta Maksa Fabianija. Njegov stric Izidor Cankar je bil eden najbolj pronicljivih
slovenskih razumnikov in ustanovitelj stolice za umetnostno
zgodovino na ljubljanski univerzi. Če ne bi bilo vojne in političnih zmešnjav po njenem koncu, bi Marko prav gotovo doštudiral
na eni najbolj elitnih angleških visokih šol, kamor je premožni
stric nameraval poslati svojega nadarjenega nečaka. Po prezgodnji materini smrti je Izidor Cankar namreč prevzel skrb za štiriletnega Marka. O svojem življenju sicer redkobeseden, je Marko dejal: »Pri Cankarju sem bival do leta 1935, ko je postal jugoslovanski veleposlanik v Argentini. Tako sem se kot majhen
mulec igral pod mizo, ko so k njemu prihajali vodilni slovenski
kulturniki. V tem času je bil profesor na ljubljanski univerzi,
objavil je Uvod v umevanje likovne umetnosti in pisal svojo Zgodovino likovne umetnosti v zapadni Evropi, ki je temelj slovenske zgodovine umetnosti v terminološkem, filozofskem in sistemskem smislu ... Ko sem se odločil za študij arhitekture in za
zgodovino arhitekture, se mi je vrnilo veliko teh stvari iz Cankarjevih knjig. Najprej metoda dela, kakršno je predstavil, to je
prenesel iz dunajskega v slovenski ambient ...« 1
Stvari so se zasukale drugače in Marko je pristal v Italiji,
izvoljeni domovini svojega očeta, dalmatinskega Italijana, kjer
71
je več let preživel pri svojih tetah v Gradežu in se s težavo prebijal do prihodnjega poklica. Mladost v Ljubljani in šolanje pri
dominikancih na otoku Braču sta ga globoko zaznamovali.
Pozneje je sam dejal, da so bila gimnazijska leta v Dalmaciji
najboljša šola, v kateri je kdaj bil 2. Markova prava domovina je
postala srednja Evropa, pravzaprav prostor nekdanje monarhije
dvoglavega orla, pod katerega krili so nekdaj živeli slovanski,
germanski in romanski narodi. Marko je bil Evropejec v pravem
pomenu besede. Nam, ki smo leta živeli za železno zaveso, te
stvari dolgo niso bile same po sebi umevne, tako, da pravo razsežnost veličine njegovega duha spoznavamo šele sedaj.
Če se ne motim, sva se z Markom prvič srečala na enem od
Srednjeevopskih simpozijev v Gorici, med katere pobudnike je
sodil tudi sam. Pravzaprav ga tudi pozneje, z redkimi izjemami
med počitnicami na otoku Cresu, nikoli nisem videl drugače kot
tedaj, oblečenega v eleganten suknjič z dvema vrstama gumbov,
obveznim metuljčkom, nazaj počesanimi lasmi in debelimi naočniki. Prav zaradi slabega vida je, kot mi je nekoč zaupal, projektiral eno samo hišo, nato pa se raje posvetil preučevanju zgodovine arhitekture. V njegovi obsežni bibliografiji, ki jo je nedavno objavil profesor Maurizio Giufrè 3, najdemo tudi veliko
slovenskih tekstov oziroma razprav, ki zadevajo slovenski prostor in njegovo arhitekturo. Mnogi Markovi spisi so namreč temeljnega pomena za zgodovino slovenske arhitekture. Dovolite
mi, da se osredotočim predvsem na to problematiko in pustim ob
strani vse drugo, kar zadeva preučevanje in varovanje posameznih spomenikov, monografije o tržaških in furlanskih umetnikih in še marsikaj drugega, s čimer bo Marko kot neutruden iskalec resnice za vedno ostal zapisan v našem spominu.
Najprej moram omeniti v Gorici leta 1966 ne posebno
ugledno izdano knjigo o arhitektu Maksu Fabianiju 4. Razumemo
jo lahko tudi kot nekakšen moralni dolg do rojstne dežele.
Obravnava arhitekta, ki je gradil moderno Ljubljano in se je tako
kot v Markovih, tudi v njegovih žilah pretakalo nekaj slovenske
krvi, saj se je rodil in je pokopan na slovenskem Krasu. O
72
Fabianiju dotlej ni bilo veliko znanega. Objave njegovih del
pred prvo svetovno vojno v dunajskih strokovnih glasilih so že
zdavnaj zbledele v pozabo in edini, ki se ga je pred Markom
spomnil je bil Henry-Russell Hitchcock v svoji znani knjigi o
zgodovini arhitekture 19. in 20. stoletja s kratko omembo nekaterih Fabianijevih dunajskih stavb 5.
Markova sestra Luka je živela na Dunaju, kar mu je omogočalo, da je med počitnicami v tamkajšnjih knjižnicah in arhivih prebil veliko časa. Fabiani in avstrijska arhitektura prve polovice dvajsetega stoletja sta postali rdeča nit njegovega raziskovanja. Deset let po izidu svojega prvenca je v Torinu izdal prevod Wagnerjeve knjige Moderne Architektur z obsežnim komentarjem in opombami 6. Knjigo je značilno posvetil pokojnemu stricu Izidorju Cankarju. To je bil prvi resen poizkus zainteresirati italijansko zgodovinopisje za secesijski Dunaj. Ker je
delo izšlo še pred svojim časom, ko so bili vsi veliki domači pisci arhitekturne zgodovine obrnjeni proti zahodnoevropskemu
Art Nouveau, Markovo knjigo po krivici danes le še redko kdo
omenja. Konec sedemdesetih let je tudi Italijo zajel val navdušenja za arhitekturo habsburške prestolnice in mnogi so začeli stopati po Markovih stopinjah, a manj temeljito. Zavladalo je ljubosumje. Nihče ni rad priznal, da je kdo že pred njim povedal
vse bistveno, do česar so se sami šele začeli prebijati. Marko je
ostal nekompromisem poštenjak in se ni priključil nobeni od
skupin, ki bi ga ponesle nad zvezde. Med prijatelji cenjen, je
ostajal v ozadju in vrata vseh prestižnih univerz v Italiji so mu za
vselej ostala zaprta. Zato pa so njegov znanstveni prispevek toliko bolj spoštovali onkraj železne zavese, kjer se je zgodovinopisje začelo otresati ideoloških spon in iskati igubljene povezave
znotraj nekdaj enotnega srednjeevropskega kulturnega prostora.
Marko je postal želen gost na vseh mednarodnih strokovnih srečanjih. Medtem, ko je italijansko zgodovinopisje ostajalo pri
Ottonu Wagnerju in nekaterih njegovih najbližjih sodelavcih, je
sam vedno bolj odstiral pravo podobo Wagnerjeve šole, katere
temeljni delež je v resnici pripadal nadarjenim študentom, ki so
73
na Dunaj prihajali iz različnih, predvsem slovanskih delov monarhije. Eden teh je bil tudi Slovenec Jože Plečnik.
Študij arhitekture je Marko v Torinu končal z raziskavo o
Plečniku, arhitektu, ki je bil tedaj tudi v svoji domovini Sloveniji
praktično izrinjen iz uradnega zgodovinopisja, v Italiji pa domala neznan. Svojo disertacijo je leta 1968 v Torinu izdal tudi v
knjižnji obliki z nekoliko širšim naslovom Jože Plečnik e la
scuola di Otto Wagner 7 in z njo začrtal smer svojega prihodnjega raziskovanja. Knjiga je dejansko prvi poskus celovite monografije o umetniku in ima kot taka še danes znanstveno težo.
Plečnik je bil genialni študent Wagnerja, ki je z naslonom na
antiko ubiral pota mimo bližnjic moderne in se ga torej ni dalo
vključiti v nobeno od uradno priznanih smeri. Marko je dalekovidno prepoznal njegovo veličino in jo skušal posredovati evropski javnosti. Spet se je znašel daleč pred časom, saj je Plečnik
postal pojem evropske arhitekture šele dobrih deset let pozneje z
nastopom postmoderne, s katero pa njegovo delo v resnici nima
ničesar skupnega, čeprav je Ljubljana konec sedemdesetih let po
njegovi zaslugi postala priljubljen romarski kraj za vse, ki so
naveličani dolgočasja izrojenega funkcionalizma hoteli najti pot
vrnitve k tradiciji.
Ker, kot rečeno, Marko z raziskovanjem srednjeevropske
arhitekture ni imel težav, saj mu kot človeku dveh narodnosti z
znanjem nemščine in razumevanjem slovanskih jezikov, državne, ideološke in nacionaline meje niso predstavljale ovir, pred
katerimi je pokleknila večina drugih zgodovinarjev. Leta 1979 je
v Trstu priredil potovalno razstavo o Wagnerjevi šoli z obsežnim
katalogom, v katerem je razgrnil svoj pogled na njen pomen in
vlogo v evropski arhitekturi 8. Leto pozjeje je delo izšlo v nemškem prevodu pri dunajsko-münchenski založbi Anton Schroll 9,
kjer so nekdaj izhajale vse temeljne publikacije Ottona Wagnerja
in njegovih učencev. Simptomatično je, da vsa avstrijska znanost ni mogla spraviti skupaj takšnega pregleda svoje lastne
umetnostne preteklosti, ampak je to storil šele Marko, ki si je
medtem razširil obzorje s poznavanjem arhitekture v deželah za
74
železno zaveso in upoštevanjem Avstrijcem nedostopne slovanske strokovne literature. V knjigi sta poleg Avstrijcev, Čehov,
Poljakov, Madžarov, Hrvatov, Italijanov in nekaterih drugih narodnosti enakovredno predstavljena tudi oba Slovenca Jože
Plečnik in Ivan Vurnik. Na temelju Markove knjige so pozneje
gradili drugi zgodovinarji, zlasti avstrijski in češki. Po zaslugi
Friedricha Achleitnerja, Vladimírja šlapete, Zdenka Lukeša,
Rostislava Šváche in Jindřicha Vybírala danes razumljivo vemo
precej več o Wagnerjevih učencih, kot je leta 1979 lahko Marko.
To seveda ne pomeni, da tudi sam ne bi spremljal novih znanstvenih odkritij in prijateljeval z mnogimi avstrijskimi, češkimi,
slovenskimi in hrvaškimi raziskovalci.
Markova knjiga o Fabianiju je naletela na ugoden odziv
tudi v Sloveniji in še istega leta je Narodna galerija v Ljubljani
s priložnostno razstavo počastila minulo stoletnico arhitektovega rojstva. Vse strokovno delo je opravil Marko, medtem ko je
uvodni tekst v katalog 10 prispeval Marjan Mušič, ki se je tedaj
med redkimi ukvarjal s preučevanjem novejše slovenske arhitekture. To je bil začetek plodnega sodelovanja Marka Pozzetta
s slovenskimi zgodovinarji in z visokošolskimi učitelji. Svoje
tekste je objavljal v revijah Sinteza 11 in Arhitektov bilten 12. V
njih je v evropskem kontekstu obravnaval slovensko arhitekturo, predvsem Fabianijevo in Plečnikovo. Z očmi svetovljana je
stvari videl precej širše in globje kot smo jih upali gledati sami.
Pisal je tudi o arhitekturi Trsta in razkrival njegovo narodnostno heterogenost, ki se odraža v stavbah habsburškega časa.
Vedno je skušal ostati pravičen do vseh njegovih tvorcev in pod
novim plaščem italijanskosti najti pravo podobo nekdanjega
glavnega avstrijskega pristaniškega mesta. Posebej zavzeto se
je ukvarjal s Slovenskim narodnim domom v Trstu 13, ki je bil
pred požigom leta 1920 ena najnaprednejših multifunkcionalnih stavb srednje Evrope. Njegov avtor Maks Fabiani se je z
njim otresel dunajske secesije in se priklonil mediteranski tradiciji. Druga velika Markova ljubezen pa je bila vizija vodne
poti po Vipavski dolini, ki jo je Fabiani zasnoval v duhu genial75
nega Leonarda in s katero bi naj uresničili staro željo po plovni
povezavi med Dunajem in Jadranskim morjem. Po podpisu
Osimskih sporazumov se je taka rešitev Marku zdela še toliko
bolj uresničljiva in gospodarna.
Za prispevek k širjenju prepoznavnosti slovenske arhitekture je Marko leta 1975 prejel Plečnikovo plaketo. Ob tej priložnosti je naštel nekaj mnenj tujih strokovnjakov o Fabianiju in
Plečniku ter zahvalni govor zaključil z besedami: »Mislim, da se
bo s podobnimi mnenji še najboljše razširila stezica, po kateri si
bo zgodovina slovenske arhitekture utrla pot na mesto, ki ji v
območju splošne kulturne zgodovine, po vrednosti nedvomno
pripada.« 14 Od tedaj dalje lahko govorimo o Markovi stalni prisotnosti v Sloveniji, bodisi kot piscem znanstvenih razprav, visokošolskim profesorjem, mentorjem mlajšim generacijam slovenskih arhitektov ali pobudnikom mnogih mednarodnih strokovnih srečanj in razstav. Bil je tudi eden stalnih spremljevalcev
Piranskih kulturnih dnevov, ki so po zamisli njegovega dunajskega prijatelja Borisa Podrecce doživljali pravi razcvet v osemdesetih letih, ko so na slovensko obalo prihajali predavat nekateri svetovno znani arhitekti.
Vendar Marko ni ostal le pri obeh pionirjih slovenske arhitekture, temveč je z enako vnemo spremljal sodobno dogajanje.
Pisal je tudi Plečnikovem mlajšem kolegu in tekmecu Ivanu
Vurniku 15, ki se je prav tako izšolal na Dunaju in je po Fabianijevem nasvetu krajši čas obiskoval Wagnerjevo šolo. Od sodobnikov je izrazito cenil arhitekta Edvarda Ravnikarja, s katerim ga je vezalo dolgoletno prijateljstvo. Po njegovi smrti v začetku devetdesetih let je pokazal na njegov vsestranski prispevek k razvoju moderne arhitekture, njegove tedanje besede pa
imajo še danes polno veljavo 16.
Ob številnih monografijah, ki jih je v življenju napisal in
obsegajo arhitekturno, prostorsko in umetnostno zgodovinsko
tematiko, je še naprej zavzeto zbiral podatke o Maksu Fabianiju.
Leta 1983 je za dunajsko založbo Tusch temeljito dopolnil svojo
italijansko monografijo in ji dodal nemškemu občinstvu zanimi76
vejši podnaslov Ein Architekt der Monarchie 17. Glavni novosti
knjige sta obsežnejši opis češko-nemške razstave v Libercu, o
kateri se mu je medtem posrečilo najti več zanimivih podatkov
in predstavitev regulacijskih načrtov za obnovo Posočja po razdejanjih prve svetovne vojne. Z njimi je Fabijanija lahko predstavil ne samo kot urbanista, teveč tudi tudi kot pomebnega načrtovalca prostora.
Želja po veliki Fabianijevi razstavi, ki naj bi »dokončno«
ovrednotila njegovo arhitekturo, se je Marku uresničila leta 1988
v Trstu 18. Pozneje smo jo videli tudi v Ljubljani. Ob tej priliki
sta v italianščini in slovenščini izšla poseben katalog in antologija Fabianijevih tekstov o arhitekturi 19. Sad vsega dotedanjega
dela pa si je Marko zamišljal v obsežni monografiji z naslovom
Maks Fabiani – Vizije prostora 20. Ker v Italiji zanjo ni našel
založnika, jo je leta 1997 izdal v Sloveniji. Gre za pravo zakladnico podatkov in sodb, neobhodno za vsak nadaljni študij Fabianijeve arhitekture. Stremljenje po popolnosti je Marka nekoliko zaneslo od Fabianijevih glavnih del k predstavljanju vsega,
kar je kraški arhitekt ustvaril v svojem dolgem življenju. Pri tem
pa ni pozabil na svojo drugo veliko ljubezen, Plečnika. Ob veliki
razstavi na praškem gradu leta 1996 je poleg teksta v katalogu 21
sestavil še publikacijo o njegovih učencih 22.
Ob študiju srednjeevropske arhitekture in zlasti Fabianija,
si je Marko ustvaril bogato knjižnico in iz rok nezainteresiranega dela arhitektovega italijanskega sorodstva pred uničenjem
rešil nekaj neprecenljivih arhivskih dokumentov, med katerimi
so tudi doslej še neovrednoteni filozofski in literarni poskusi.
Slednje mu je nakopalo nekaj tožb zavistnežev. Krivica je Marka
močno bolela. V zadnjih letih svojega življenja je skušal s pomočjo nekaterih slovenskih kolegov in prijateljev v Štanjelu,
kjer je Fabiani nekaj let županoval in temeljito posegel v njegovo prenovo, vzpostaviti arhitektovo ustanovo. Ta, žal, še ni prav
zaživela in je doslej izdala le slovenski prevod Fabianijeve
Acme 23, za katero je spremno besedo seveda napisal naš nepozabni prijatelj Marko.
77
NOTE
1 a. hriBar, Rodbinska kronika Dragotina Hribarja in Evgenije Šumi,
Ljubljana 2008, pp. 251-252.
2 Ibd.
3 m. PozzEtto, Figure della Mitteleuropa e altri scritti d’arte e di architettura a cura di Maurizio Giufrè, Rovereto 2008, pp. 401-410.
4 m. PozzEtto, Max Fabiani architetto, Gorizia 1966.
5 h.-r. hitchcock, Architecture. Nineteenth and Tweentieth Centuries,
The Pelican History of Art, 3. izdaja 1971, p. 404, 472.
6 Otto Wagner – Architettura moderna. Traduzione, introduzione e
commento di Marco Pozzetto, Torino 1976.
7 m. PozzEtto, Jože Plečnik e la scuola di Otto Wagner. Studi di architettura moderna promossi dall’Istituto di Storia dell’Architettura del Politecnico di Torino, Torino 1968.
8 La Scuola di Wagner, 1894-1912. Idee, premi, concorsi, Comune di
Trieste, Trieste 1979.
9 m. PozzEtto, Die Schule Otto Wagners 1894-1912, Wien-München
1980.
10 Maks Fabiani 1865-1962, Narodna galerija Ljubljana, Ljubljana julij
1966.
11 Na primer: Nekaj novih spoznanj o vlogi Dunaja v zgodovini sodobne
arhitekture, «Sinteza» 24-25, Ljubljana 1972, pp. 21-28.; Pogledi na Fabianijevo urbanistično načrtovanje, «Sinteza» 28-29, Ljubljana 1973, pp. 20-26.
12 Na primer: Max Fabiani. Ob prekopu, Arhitektov bilten, št. 70-71,
1984, pp. 16-17.; Beležke za zgodovino moderne arhitekture v Trstu, Arhitektov bilten št. 83-84, 1986, pp. 3-27.
13 m. kraVos, m. PozzEtto, m. Pahor, s. Volk, B. kraVos, P. mErkù:
Narodni dom v Trstu 1904-1920, Trst 1995.
14 «Arhitektov bilten», št. 23, marec 1975, p. 19.
15 m. PozzEtto, Ivan Vurnik in dunajska Tehnika, Ivan Vurnik and the
Technische Hochschule in Vienna, v: Ivan Vurnik 1884 – 1971 slovenski arhitekt, slovenian architect, Arhitekturni bilten, posebna izdaja, Ljubljana
1994, pp. 53-58.
16 m. PozzEtto, Fabiani – Plečnik – Ravnikar, v: Hommage à Edvard
Ravnikar 1907-1993, ed. France Ivanšek, Ljubljana 1995, pp. 321-326.
17 m. PozzEtto, Max Fabiani. Ein Architekt der Monarchie, Wien 1983.
18 Max Fabiani. Nuove frontiere dell’architettura, catalogo della mostra, Trieste 1988
19 m. FaBiani, Sulla Cultura della città. Scritti 1895-1960, Trieste 1988
(slovenska izdaja: M. Fabiani, O kulturi mest. Spisi 1895-1960, Trst 1988).
20 m. PozzEtto, Maks Fabiani – Vizije prostora, Kranj 1997.
21 m. PozzEtto, Plečnik and Prague Castle, v: Josip Plečnik – An
Architect of Prague Castle, razstavni katalog, Prague 1997, pp. 49-52.
22 m. PozzEtto, Plečnikova šola v Ljubljani, katalog razstave, Ljubljana
1996.
23 m. FaBiani, Akma duša sveta, štanjel 1999, pp. 7-12.
78
ETTORE SESSA
ARCHITETTURA MODERNISTA
NEL MEDITERRANEO
Il volume che Marco Pozzetto pubblicava nel 1981, dopo
uno studio e una ricerca approfondita sulla Wagnerschule, affrontava e apriva interrogativi molto interessanti sui rapporti a
distanza tra la Sicilia e l’area mitteleuropea, poi discussi nell’ambito del convegno organizzato a Gorizia dall’Istituto per gli
Incontri Culturali Mitteleuropei nel 1986 (XX Convegno Internazionale dell’I.C.M. dal titolo La scuola viennese di storia
dell’arte, Gorizia 25-28 settembre) quando lo stesso Marco
Pozzetto, riuscendo a radunare (lo avrebbe fatto tante altre volte)
intorno a sé esponenti culturali delle province del vecchio impero asburgico, stranamente vi includeva anche la Sicilia. L’occasione era quella di una lettera, rinvenuta da Pozzetto, nella quale
Felix Braun allievo della Scuola di Vienna veniva invitato ad
insegnare storia dell’arte presso la Regia Accademia di Belle
Arti di Palermo. Storicamente il legame tra i due paesi risaliva,
in realtà, al periodo compreso tra il 1720 e il 1734, durante quei
quattordici anni, cioè, in cui la Sicilia fu parte dell’impero asburgico. Un rapporto poi consolidatosi con la politica matrimoniale
della dinastia borbonica di Napoli (1735-1860), insignita della
corona del Meridione d’Italia con la solenne investitura del 1734
nella cattedrale normanna di Palermo.
In realtà, nonostante le complesse vicende politiche occorse alla Sicilia in quegli anni – non ultima una breve stagione di
governo savoiardo conclusasi con un accordo che attribuiva la
corona regia normanna alla casa Savoia – l’avvicinamento
79
dell’isola all’area mitteleuropea era stata costruita già da tempo.
La Sicilia era stata intanto una centrale di diffusione nel Meridione e anche nei territori della Spagna del pensiero di Leibniz;
negli anni poi della ricostruzione del Val di Noto dopo il terribile terremoto del 1693 si era consolidato il rapporto con Vienna e
con l’area mitteleuropea, tant’è che alcuni architetti incontrano
Fischer von Erlach e gli sottopongono i loro progetti, altri, come
Tommaso Maria Napoli, vengono chiamati a costruire le fortificazioni in Ungheria e nella Dalmazia. Ma tornando alla vicenda
mitteleuropea e mediterranea, quando nella sua monografia sulla scuola di Vienna, nel capitolo sugli indirizzi di ricerca,
Pozzetto parla chiaramente di alcune «filiere» portanti della
Wagnerschule, è proprio lui a delineare per la prima volta il filo
rosso quasi impalpabile di questa «mediterraneità».
Si trattava in realtà dell’idea di una cultura mediterranea
considerata nei suoi aspetti metastorici e alla quale concorrevano,
rilanciando una generica «mediterraneità», non soltanto il mondo balcanico, quello iberico e quello italiano, ma, successivamente, anche i paesi della costa nordafricana, sostanzialmente per le
architetture realizzate dagli europei in quell’area geografica.
Proprio la ripresa e la divulgazione di questi temi da parte
della rivista «Der Architekt» farà sì che questa diverrà fra il 1902
e il 1903, dopo la pubblicazione dei Quaderni, quasi l’organo
ufficiale della Wagnerschule. Il numero di «Der Architekt» del
1903 si inaugura con alcune delle prime presenze subliminali di
«mediterraneità» e proprio da quell’anno la rivista comincia a
diffondersi in tutta la Sicilia. Ciò costituisce un altro dei punti di
continuità indagati da Pozzetto e uno dei tanti temi affrontati nel
suo volume sulla Wagnerschule: l’individuazione della rete culturale – diretta o indiretta – messa in atto tra diverse regioni di
«frontiera» attraverso il posizionamento di allievi di Wagner in
alcune particolari sedi. Sostiene questa azione l’idea del sacerdozio dell’architettura da parte degli affiliati, convinti che la «riorganizzazione del visibile» fosse la nuova frontiera della trasfigurazione estetizzante di quella «filosofia del programma» che,
80
nella logica della deroga all’eccellenza del prodotto d’ingegno
artistico finalizzata alla messa a punto di un metodo, aveva sostenuto l’impalcato ideologico degli slanci utopici dell’architettura delle origini della civiltà contemporanea. Essa inizia invero
ad elaborare una propria fisionomia tendenzialmente astila, anche se di nicchia, già alla fine del Settecento; ma è dopo un secolo, in quel particolare momento storico della Vienna fine impero, che questo assunto diventa fondamentale per avviare il
rinnovamento degli indirizzi del gusto collettivo.
La cultura architettonica come azione educatrice, come
spazio per l’educazione intellettiva è stata più volte ribadita da
Marco Pozzetto, e testimoniata attraverso il rinvenimento e l’analisi di vari scritti dei diversi allievi della Wagnerschule. È così
che, anche se non aveva ancora chiarezza sui rapporti e le connessioni tra le diverse scuole e tendenze, Pozzetto, seguendo il
suo filo rosso, ha parlato per primo di Francesco Fichera, il miglior allievo di Ernesto Basile, e dell’aura wagneriana, oltre che
semperiana, dei suoi progetti tardo modernisti.
Ed esisteva, invero, una certa assonanza didattico-operativa tra le due regioni: Ernesto Basile, in maniera traslata e con i
dovuti distinguo (anche dei rispettivi ambienti culturali di attività), aveva fatto in Sicilia un’azione esemplata su quella sviluppata da Wagner a Vienna. Basile aveva cioè dato vita ad una vera
e propria scuola universitaria di architettura contemporanea,
tant’è che Gustavo Giovannoni, in occasione della solenne commemorazione, ne celebrò l’attività di insegnamento dei criteri
moderni dell’architettura osservando che in Europa, in ambito
accademico universitario, tale indirizzo era stato seguito soltanto
da tre scuole, quella di Theodor Fischer a Monaco, quella di Otto
Wagner a Vienna e, infine, quella di Ernesto Basile a Palermo
(cit. da S. Caronia Roberti, Commemorazione del Prof. Ernesto
Basile, Bellotti, Palermo 1934, pp. 9-28, estratto da Annuario
del R. Istituto Superiore di Ingegneria di Palermo, 1934).
In maniera sistematica, così come si conviene ad un insegnamento universitario, la scuola puntava a creare gli elementi
81
necessari a codificare il linguaggio modernista per renderlo volgarizzabile e poter in qualche modo trasformare quelle che erano
le punte eccellenti in una produzione capace di incidere fortemente sulla realtà delle singole aree geografiche.
L’atteggiamento di sacerdozio nei confronti del rinnovamento dell’architettura era, dunque, lo stesso che aveva mosso
anche Max Fabiani; Marco Pozzetto, che ne ha fatto oggetto per
primo di studi accurati e ne ha divulgato l’opera con diverse
esposizioni di architettura, ha ricondotto a questo sacerdozio il
rifiuto di Fabiani della cattedra di architettura a Vienna a favore
della militanza per la ricostruzione dell’area isontina sconvolta
dalla furia dei combattimenti della prima guerra mondiale.
Quando Pozzetto ha esaminato la vita e le opere di Fabiani
erano ancora gli anni in cui la cultura mediterranea costituiva un
riferimento in fin dei conti negativo; era per molti un’espressione dotata prevalentemente di negatività e comunque era diffuso
un atteggiamento abbastanza rigorista e intransigente nei confronti della cosiddetta «terza via» dell’architettura contemporanea, quella cioè che rappresentava l’altra modernità e che pure
aveva avuto una notevole, quanto sottaciuta, importanza.
Certamente a partire dal numero di gennaio del 1903 di
«Der Architekt», quando appunto Ritter von Feldegg decide di
cominciare a presentare con dovizia i disegni della Wagnerschule
che prima facevano solo timide comparse, i progetti dei migliori
allievi di Wagner diventano sempre più presenti e illustrano
quello che si dimostrerà uno dei percorsi fondamentali lungo la
strada della modernità. Anche Jože Plečnik fa la sua prima comparsa nella pubblicistica con qualcosa di mediterraneo. Si tratta,
inizialmente, di una mediterraneità subliminale, quasi impalpabile, perché priva anche del sostegno degli studi, appena agli
inizi, che si stavano per avviare sull’architettura spontanea. Ed è
determinante che la terza annata della rivista pubblichi l’interessante articolo di Josef August Lux sulla Scuola di Wagner, dove
si parla della effettiva rivoluzione messa in atto, anche se non si
affrontano esplicitamente le differenze con le altre componenti
82
dell’Art Nouveau. Lux parla però chiaramente dei risultati di
un’esperienza progettuale che con Wagner diventava «un’architettura dell’essere e non più un’architettura dell’apparire», mostrando un vero e proprio allontanamento dalla via percorsa
dall’architettura storicista, in realtà ancora in gran parte rinvenibile nella pratica dell’architettura Art Nouveau.
In questa ricerca di volumetrie elementari, di cromatismi
nuovi, di polimaterismo, di lotta all’imitazione, l’intonaco bianco del Mediterraneo diventa un elemento conduttore, così come
gli impianti planimetrici, dalla geometria semplice e tendenti
alla centralità; tutto, anche se in maniera lenta e inavvertibile, va
incontro a qualcosa che si va concretizzando come «terza via».
Ma, volendo esaminare anche un’altra prospettiva, se il
settentrione guarda al Mediterraneo come crogiuolo della sostanza linguistica dell’architettura, in quello stesso momento il
Mediterraneo guarda al settentrione e alla Mitteleuropa come
luogo di ispirazione delle istanze più colte del vernacolo. Esiste
quindi un doppio percorso: da un lato i settentrionali guardano il
Meridione, o meglio il Mediterraneo, come una terra dalla quale
trarre spunto non solo per essere stata la patria della classicità
ma anche per la diversa concezione che ne caratterizza, prevalentemente per ragioni climatiche, l’architettura spontanea.
D’altro canto i meridionali subiscono il fascino del nord come
terra più legata alle istanze che sentono provenienti dalla cultura
e dall’architettura medioevali e, al tempo stesso, ad una moderna rifondazione della socialità dell’essere. Non è un caso che
anche il villino Florio a Palermo, apparentemente l’opera più
settentrionale di Ernesto Basile progettata nel 1899, venga pubblicato tra le pagine del fascicolo I dell’annata 1903 di «Der
Architekt» (e ancora, nello stesso anno, in «Memorie di un architetto», XIII, I, 1903, cop., p. 2, tavv. I, II e XIII, II-III, 1903,
p. 2, tavv. II, III; in «The Studio», XXX, 127, 1903, pp. 76-77;
in «L’Arte Decorativa Moderna», II, 1, 1903, p. 20 e infine nel
volume di Vittorio Pica, L’Arte Decorativa all’Esposizione di
Torino del 1902, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo
83
1903, p. 367). Va detto però che sebbene l’edificio venga considerato anche da Thovez (Nord o Sud? nell’indirizzo decorativo,
in «L’Arte Decorativa Moderna», I, 9, 1902, pp. 277-284) e da
Melani come una rinnovata tipologia di castello, si tratta di un
neo tardogotico siciliano con radici catalane (come appunto l’architettura del Quattrocento siciliano) che trae le matrici delle
proprie variabili stilistiche dalla tradizione architettonica locale
dei palazzi urbani turriti. A questa tipologia si attesta originariamente il Villino Florio; ma la modifica operata nella fase finale
del progetto con l’aggiunta del tetto a due falde con le capriata a
vista, direttamente originate dai manuali tedeschi di carpenteria
(presenti nella biblioteca di Basile) dà un tono nordico a questo
edificio, dotato invece di un impianto geometrico definito da
una ferrea quadripartizione con i singoli settori caratterizzati da
sovrapposizioni di piani differenziate per quadrante; una sorta di
acerba, compromissoria e dubbiosa (e ricordiamo l’illuminante
articolo su Basile di Pozzetto intitolato Il grande dubbioso
dell’avanguardia) premonizione del raumplan, ma in forma di
prodromo alquanto bloccato. Invero, quando viene pubblicato il
Villino Florio, Ernesto Basile ha già in corso la progettazione
delle sue «case bianche» palermitane, fra cui la sua celebre casa
di via Siracusa del 1903-1904, dove evidenti sono i richiami alla
cultura mediterranea e i punti di tangenza con le coeve ricerche
astile di Josef Hoffmann e dei migliori allievi di Wagner.
La componente mediterranea è d’altronde una delle variabili regionaliste del Modernismo. Anche il catalano Josep Puig y
Cadafalch, per esempio, nella casa che progetta per sé ad Argentona, e che fa parte della sua serie «blanca», fa un decisivo salto
in avanti, perché il riferirsi alla mediterraneità permetteva di
abolire definitivamente il principio dell’imitazione (applicato
alla definizione del paramento murario storicista) per puntare
sull’immaterialità dell’intonaco e quindi sull’essenzialità della
forma.
Ancora, nello stesso fascicolo I del 1903 di «Der Architekt»,
che costituisce una sorta di miniera di sollecitazioni, compare per
84
la prima volta un articolo di J. A. Lux sull’architettura spontanea
nell’area sud-tirolese e mitteleuropea, illustrando quello che rappresenta, come ha ben evidenziato lo stesso Pozzetto, l’indirizzo
regionalista all’interno della Wagnerschule, tuttavia fortemente
contaminato dalla strisciante componente mediterranea.
Basti vedere l’esempio del quartiere di Höhe Warte a Vienna, di J. Hoffmann, che rappresenta una particolare fase di transizione. D’altronde lo stesso Hoffmann, e con lui anche Hermann
Muthesius (che traduce in chiave germanica la cultura abitativa
inglese), resta molto colpito dall’immaterialità dell’intonaco e in
Höhe Warte sia la casa Moser che la Henneberg o la Spitzer sono
la filiazione dell’incontro fra la cultura del «genius loci» dell’architettura spontanea nell’area mitteleuropea e il «distillato» che
proviene dalla cultura della casa mediterranea.
Otto Schönthal, uno dei più interessanti allievi di Wagner
(tanto che quest’ultimo lo eleggerà a suo sostituto nel progetto
per la villa Wojczik alla periferia di Vienna), ha solo 22 anni
quando mette in pratica la mediazione fra quello che è il linguaggio del Tirolo e delle aree mitteleuropee e quello che proviene dall’idea di mediterraneità. Allo stesso modo, allievi come
Karl Maria Kerndle, o Marcel Kammerer con «la casa di Capri»,
o Oscar Felgel con l’alloggio per il borsista a Roma e con le più
complesse opere successive, o ancora Emil Hoppe, forse il più
sottile interprete di questa tendenza, mostrano come questa componente sia sempre presente nella Wagnerschule, così come aveva sottolineato lo stesso Pozzetto.
Tutto ciò attribuisce un carattere internazionale a questa
componente mediterranea che, partendo da Muthesius, per alcune opere, da Prost, da Garnier e da tanti altri e dall’area viennese, si estende poi pressoché a tutto il Mediterraneo e soprattutto
diventa la chiave di lettura dell’operare di alcuni architetti che
lavorano nei paesi del nord Africa (come, ad esempio, Resplandy
o Valensi).
La mediterraneità diventa in qualche modo un elemento
ordinatore, ma dà luogo al contempo ad uno spartiacque perchè
85
nasconde già al suo nascere (come può vedersi emblematicamente nella Clubhaus di Victor Lurije, pubblicata nell’annata
del 1903 di «Der Architekt») un’altra componente legata al recupero dei segni di una classicità metastorica, quella che Olbrich
aveva interpretato a Darmstadt nella fontana e che, con particolare intonazione, Plečnik e Fabiani senza esostismi introducono
in tutte le loro architetture come un elemento di connotazione
estetica. Entrambi, guardando al Meridione con un certo interesse (Fabiani era venuto anche in viaggio e aveva disegnato l’ellenistico ariete in bronzo e le templari teste leonine del museo archeologico di Palermo), riconducevano, ricollegavano, richiudevano l’anello tra il centro mediterraneo rappresentato dalla
Sicilia e il centro dell’Europa, nucleo emanatore di questa nuova
cultura.
Marco Pozzetto con i suoi studi ci ha spiegato, con grande
semplicità e chiarezza ma con impareggiabile capacità di coinvolgimento, anche emotivo, una pagina irripetibile di questa
esperienza che si può appunto riassumere, come egli suggerisce,
nelle poche parole di Lux: «Questa architettura va verso l’architettura dell’essere e non del sembrare».
86
E. Basile, Villino Florio a Palermo, “Der Architekt”, 1903, tav. 17
O. Felgel, progetto per la casa del borsista austroungarico a Roma, “Der Architekt”, 1901, tav. 96.
87
J. Hoffmann, progetti per villa Spitzer, Hohewarte, Vienna, “Der Architekt”,
1901, tav. 50
J. Plečnik, schizzo architettonico con villa, “Aus der Wagnerschule”, 1898, p. 14
88
J. Hoffmann, schizzi di case a Capri, “Der Architekt”, 1897, p. 13
89
M. Kammerer, progetto di villa a Lovrana, “Der Architekt”, 1901, tav. 62
90
W. Deininger, Villa al mare, “Der Architekt”, 1903, tav. 45
91
V. Lurije, progetto per un Klubhaus, “Der Architekt”, 1903, tav. 112
92
DIEGO KUZMIN
MARCO POZZETTO, MITTELEUROPEO
CERCARE L’ALTRO E TROVARE SE STESSI
Nasce nel 1925 a Lubiana 1 Marco Pozzetto, da mamma
slovena e papà italiano di Grado, quando conclusa la belle époque e l’epopea asburgica, dal 1918 la sua città è parte del Regno
dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni 2.
Adolescente, si trova presto in balia della seconda guerra e
di un dopoguerra ancora più difficile, tanto da essere adulto ormai, quando finalmente si laurea architetto al Politecnico di
Torino, appena nel 1968 3.
Le tracce della storia traspaiono dagli edifici, finché esistono...
Trascende la storia dell’architettura in senso lato 4, l’importanza dello studioso Pozzetto, ancorché di questa sia stato grande interprete di rango europeo. Il suo insolito incarico al corso di
Storia presso la facoltà d’Ingegneria dell’Università di Trieste,
istituito nel 1977, rappresenta una tappa assai significante, meritoria ancorché per la facoltà, a riconoscere la sua lunga e scrupolosa attività di ricercatore.
Ostica tra l’altro per il suo sguardo, che tranne qualche
scampolo d’indagine verso altre tematiche, pur importanti e significative, quasi ago magnetico di una bussola interiore, è sempre rimasto costantemente rivolto alla vecchia Europa, la Mitteleuropa viennese-centrica, divisa però negli anni del suo lavoro,
tra Est ed Ovest 5.
Uno sguardo oltre il muro, scomodo allora ai tempi della
Guerra fredda e scomodo ancora su questi territori dell’ex Lito93
rale 6, per la persistenza di una politica della supremazia della
cultura latina millenaria su ogni altra, che incredibilmente e con
grande pervicacia tiene ancora banco 7, malgrado l’essere terre
queste diventate di ex frontiera ormai 8. Riga nera permanente,
filo della cozza sulla linea di risacca, relitto di estremismi
dell’800, un malsano nazionalismo demodè, che tuttavia non
vuole estinguersi...
Sarà stato per il suo essere cosmopolita, aperto e pluringue,
capace di trovarsi a suo agio a Torino non diversamente da Vienna,
Budapest, Lubiana o Trieste. Città scelta quest’ultima poi per viverci, in via Domenico Rossetti 81. Una città particolare, curiosamente connotata da un linguaggio secolarmente ormai franco, il
triestino 9, lo stesso che anche James Joyce (1882-1941) dovette
imparare, ancorché volentieri nella frequenza dei tanti locali,
quando vi si trovo lì nel 1905, per insegnare l’inglese alla Berlitz.
Pozzetto rovista nell’armadio della Storia e pezza a pezza,
ne estrae i segni di quella cultura secolare della vecchia Europa,
adriatica ed alpina, della quale lui stesso era figlio e dalla quale
anche noi veniamo. Ancorché per qualcuno forse oggi rorida di
naftalina, profumo che però a molti racconta ancora l’efficienza
dello stato asburgico, equamente amministrato col criterio del
«buon padre di famiglia». Medesimo principio poi, che sfacciatamente poi e di sola facciata, ispira i criteri fondamentali della
amministrazione anche nel nostro paese, con la quale però ci si
trova però a convivere malamente 10.
Dall’armadio tira fuori una valanga tra architetti e progettisti, della scuola di Otto Wagner in particolare, lampanti poi nelle
pagine scritte in tedesco, per noi oscuro 11, nella insuperabile rivista «Der Architekt» 12, fonte tra le privilegiate dal nostro ricercatore mitteleuropeo e poliglotta. Un lavoro di svelamento lunghissimo, durato una vita e culminato nella minuziosa descrizione
delle innumerevoli tracce, lasciate da Max Fabiani (1865-1962)
un po’ dappertutto, sui territori ex asburgici.
Grande architetto, misconosciuto appunto fino alle ricerche
di Marco Pozzetto 13.
94
L’alter ego.
Riscoperta quasi, della propria storia e della propria memoria.
Succede a volte, per genti vissute su questa frontiera mobile
della Venezia Giulia, con gli spostamenti della quale si son trovate di persona a dover fare i conti, ben diversamente dalle trombe
delle capitali. Genti, costrette spesso a dimenticare la propria memoria, i cognomi e la letteratura 14, per fare posto ad un nuovo,
estraneo, artificialmente iniettato da fuori. Spesso in situazioni
cruente ed estreme, come quando questo palazzo, il «Národni
Dom», fu incendiato dai fascisti nel luglio del 1920 15, o quando
nel 1922 il «Trgovski Dom» di Gorizia fu espropriato 16 dal
Regime.
Edifici moderni entrambi, plurifunzionali ed all’avanguardia allora, creature peculiari di Max Fabiani, ambedue attentamente indagati da Marco Pozzetto 17.
Pare ineludibile un riferimento alla vicenda di Boris Pahor
(1913) 18, scrittore triestino, anch’egli misconosciuto e malgrado
la sua grande attività scoperto in Italia pochi anni fa 19, che sempre
per via della frontiera mobile al suo turno non è stato riconosciuto «nostro», ma bensì «altro», fin da bambino poi, quando si trovò spettatore del terribile incendio del Národni dove ci troviamo,
che descriverà molti anni dopo, nel suo libro Il rogo nel porto.
Un passato che si identifica con l’epoca di quando si costruivano edifici coi muri a piombo, impossibili quasi da incontrarsi oggi sulle riviste di architettura, dove tutto si esibisce storto, inclinato, torto, sismicamente pencolante o decostruito, a seconda dell’estro dell’interprete. Che nella impercettibile differenza sinusoidale del vortice architettonico nel quale si trova,
cerca di differenziarsi dal collega, omologandosi invece completamente nella medesima contorta ordinarietà, quella dei minimi
frattali della globalizzazione. Uguali dal grande al piccolo in
ogni singola parte, ma sempre indifferenti al contesto derivante
dal luogo, fondamentale fonte invece per i grandi progetti di
ogni epoca.
95
Max Fabiani coltivò sempre un approccio pittorico 20, non
da estroso artista, bensì quale dilettante della tecnica, nel modo
degli intellettuali che nell’Ottocento come nel Rinascimento 21 vi
si dedicavano senza ambizione, appunto per diletto. Dipingeva
quindi, e in età matura gli piaceva creare ad acquarello su cartoncino cartoline originali, che poi spediva ad amici e conoscenti. Tecnica ad acqua, delicatissima per il gioco delle trasparenze
vellutate, ma assai difficile nel contempo 22, perché non è possibile rimuovere o coprire la goccia colorata, che ormai ha impregnato il foglio.
Il gesto del pennello va ben meditato e premeditato fin
dall’inizio, con grande rigore e soprattutto amore...
Delicatezza e trasparenza che hanno portato Pozzetto a curare una bella mostra di queste cartoline 23 e l’edizione di una
loro scelta dozzina 24, per conto dell’Istituto per gli Incontri
Culturali Mitteleuropei di Gorizia, nel 1986.
Delicatezza e sensibilità.
M. Fabiani, Meriggio nel porto di Trieste, 1931 (sin.) e Veduta di Roma, 1930
(archivio privato)
96
M. Fabiani, piazza Cavour a
Gorizia 1956 (alto) e A dimensione dell’uomo, 1956
(archivio privato)
97
M. Fabiani, Il gelso dei Fabiani, 1925 e piazza della Vittoria a Gorizia, 1956
(alto), Gorizia, Valle del Corno nell’avvenire (previsione degli ingombri),
1948 (archivio privato)
98
Caratteri, ambedue trasparenti nelle dediche con le quali
Marco ha voluto segnare il frontespizio delle pubblicazioni più
importanti della sua grande produzione, le due monografie su
Max Fabiani. La prima 25, semplice e forse un po’ burbera, «A
mia moglie», la seconda 26, che dopo una vita di studi conclude il
ciclo sul grande architetto di San Daniele, con una dedica tenerissima «A mia madre che nacque, visse e morì giovanissima
nella Bianca Lubiana di Max Fabiani».
Segni discreti e importanti. Raccontano il significato per
Marco della famiglia e dell’altra metà del cielo, quella dell’universo femminile, condensato poi, come per ogni uomo, intensamente nella figura della madre prima e della sposa poi…
Le copertine delle monografie su Max Fabiani curate da Marco Pozzetto, il catalogo della mostra del 1966 a Gorizia e il volume in lingua italiana edito da MGS
Press a Trieste nel 1998.
99
NOTE
1 Lubiana fu provincia del Regno d’Italia dal maggio 1941 al settembre
1943, istituita al termine della campagna di Jugoslavia durante la Seconda
guerra mondiale, mediante la spartizione delle zone etnicamente slovene dell’allora Regno di Jugoslavia tra le forze di occupazione italiane a sud, tedesche a nord e il Regno d’Ungheria ad est, che faceva parte dell’Asse.
2 Proclamato il 1º dicembre 1918, rimase tale sino al 3 ottobre 1929,
quando assunse ufficiale la denominazione ufficiale di Regno di Jugoslavia.
3 Risale però già al 1966 la sua prima pubblicazione sull’architetto
Max Fabiani, importantissima per la materia e i contenuti, edita dal Comune
di Gorizia.
4 In senso lato perché la collaborazione di Marco Pozzetto con l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei (ICM) di Gorizia, è stata feconda
per la conoscenza della Storia che abbraccia ogni campo, nel raffronto tra le
memorie, per il superamento delle barriere derivanti dalle localizzazione nazionale e regionale di luoghi di appartenenza transnazionale, scaraventati
all’improvviso nella logica dei blocchi contrapposti, della seconda metà del
‘900.
5 Il muro di Berlino è caduto nel novembre del 1989.
6 La Venezia Giulia, cioè Gorizia + Trieste, è una definizione territoriale coniata nel 1863 assieme a quella delle Tre Venezie dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli. Fino al 1918, il territorio si chiamava Litorale austriaco.
7 Come racconta la vicenda del Giorno del ricordo che si celebra il 10
febbraio, in memoria delle vittime delle foibe, che rimane ancora preda della
speculazione politica di ogni parte, invece del chiarimento che sarebbe opportuno, specialmente dopo il discorso pronunciato quest’anno dal Presidente
Napolitano per l’occasione.
8 La Comunità europea, nella quale ci troviamo oggi, guardando indietro si presenta come riproposizione allargata della Mitteleuropa dell’epoca
del Fabiani, quando popoli, nazioni e regioni, culture e religioni, vivevano
pacificamente assieme in uno scopo di comune convivenza, idealmente rappresentato da Francesco Giuseppe nel suo motto, «Viribus Unitis».
9 In ampia decadenza, dato che dopo secoli sempre più i triestini si
stanno assimilando alla lingua italiana, in un processo di assimilazione, non
difforme da quello che ha colpito Udine vent’anni fa o forse prima, dove però
l’orgoglio della lingua di casa pare ritornato.
10 Nel campo dei Lavori Pubblici, la burocrazia italiana ha ben superato quella Sovietica. Non passa mese ormai, senza una modifica rilevante,
dopo che per un secolo la materia era regolata da una legge, la 2248 del 1865,
che funzionava benissimo e non aveva bisogno di modifica alcuna.
11 Dato che in larga parte il tedesco non lo parliamo, né siamo in grado
di leggerlo.
12 La rivista Der Architekt, stampata a Vienna dal 1895 al 1921, rappresenta un compendio delle migliori progettazioni architettoniche dell’area
Mitteleuropea di quel periodo, esposte nell’ottica di un confronto architetto-
100
nico del tutto culturale, completamente scevro da spiriti nazionalistici, se non
per la rivendicazione della particolarità del luogo, dato che diverso è costruire in Istria sul mare, rispetto le colline del Collio goriziano o sui Tauri.
13 Proprio come il goriziano Nicolò Pacassi (1716-1790), del quale pochi in Italia conoscono i tanti palazzi e anche meno delle molte regge sulle
quali è intervenuto e che segnano ancora le capitali delle province dell’ex
Impero Austro-Ungarico: Schönbrunn e Hofburg a Vienna, poi Praga, Bratislava, Budapest e Milano, dove nell’arco discendente della sua parabola di
architetto di corte, dopo la sua ristrutturazione di Palazzo Clerici nel 1769
quale sede della reggenza provvisoria, il Piermarini provvede in suo luogo
alla realizzazione della definitiva reggia di città, nella capitale lombarda.
14 L’uso dello sloveno scritto dopo il 1595 fu praticamente impedito per
un secolo dalla Controriforma, per contrastare le tesi eretiche che Primož
Trubar andava allora predicando.
15 Le squadre pare poi impedissero pure l’intervento dei vigili del
fuoco.
16 In realtà ci fu una vendita forzosa al Partito fascista, comunque estorta al Consiglio d’amministrazione della Società slovena, per circa un quarto
rispetto il valore di mercato. «Nel corso degli anni 1926 e 1927 centinaia di
società culturali slovene, che fiorivano sin dai tempi della seconda metà del
secolo precedente in città e in ogni più piccolo paese vennero proibite dal
governo fascista. Vennero chiuse le biblioteche, sulla pubblica via vennero
bruciati i libri (il bruciare opere letterarie non fu una prerogativa dei soli nazisti), vennero proibiti i giornali in lingua slovena... Il 4 novembre 1926,
dopo la parata celebrativa dell’anniversario della vittoria, duecento fascisti
devastarono le sedi dei circoli culturali sloveni a Gorizia siti nel Trgovski
dom in Corso Verdi, nella sede della federazione dei circoli di cultura liberali
in via San Giovanni 7 e la Narodna tiskarna - Tipografia nazionale in via
Favetti ...». m. Waltritsch, Slovensko bančništvo in posojilništvo na Goriš
kem / Gli istituti di credito sloveni nel goriziano, Gorizia 1982, pp. 396-397.
17 Con grande difficoltà. I progetti originali del Fabiani, per il Trgovski
Dom, depositati presso l’Archivio Storico di Gorizia, fino pochi anni fa erano
riservati, in quanto l’immobile era zona militare. Nell’edificio infatti, proprio
nel locale a doppia altezza dove per una trentina d’anni ha operato la storica
libreria Paternolli, tra gli spifferi si trovavano scomodamente un paio di uffici della Guardia di Finanza.
18 Nel 2007 insignito con la Legion d’onore dalla Repubblica di Francia.
19 Il 17 febbraio 2008 è stato ospite della trasmissione televisiva «Che
tempo che fa» di Fabio Fazio.
20 Si vede anche nei suoi progetti dove, più spesso nei più tardi, non
manca mai un tocco liricamente figurativo, come per la balaustra della Casa
Bernt-Verizzi in via Bombi a Gorizia, per la quale invece di un banale vaso o
una sfera a coronamento del pilastrino d’angolo, disegnava un bel gattone
sonnecchiante al sole, da scolpirsi in pietra d’aurisina, mai poi realizzato. Cfr.
Marco Pozzetto, Max Fabiani, Mgs Press, 1998, p. 384.
101
21 Inevitabile un riferimento allo stile della maturità architettonica del
Fabiani, da Pozzetto definito «Barroccus Fabianensis», concetto riassunto nel
«decor» dell’Urania di Vienna, del 1909.
22 Pare quasi quanto racconta la cartolina della «rosa nel ghiaccio»,
dove si vedono bene anche le foglie e sul gambo delle spine ben pronunciate,
dato che non c’è rosa senza spine...
23 A latere del 20° convegno internazionale di studio dell’ICM su «La
Scuola Viennese di Storia dell’Arte», furono esposte nel settembre del 1976 a
palazzo Attems di Gorizia, una settantina di cartoline originali di Max
Fabiani, tutte «viaggiate». Con molta modestia di Marco Pozzetto, stante la
mostra ritenuta evidentemente marginale rispetto il convegno dove dissertò
su «Vienna e le periferie dell’Impero», non è stata da lui menzionata nell’elenco delle mostre, pubblicato in «Marco Pozzetto, storico dell’architettura
mitteleuropea», edito nel 2008 dall’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei di Gorizia.
24 La dozzina derivava dal numero di sezioni ottenibili dal foglio di tipografia formato standard di una volta. Oltre ad essere un elegante numero di
quantità, è sopravissuto per le confezioni delle uova.
25 Max Fabiani architetto, edito dal Comune di Gorizia nel 1966, sindaco Michele Martina.
26 Max Fabiani, pubblicata nel 1998 per i tipi della MgsPress, col contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia.
102
RENATO TUBARO
MARCO POZZETTO E L’ICM DI GORIZIA
Ricordare il prof. Marco Pozzetto storico dell’architettura,
docente appassionato, organizzatore di grandi eventi, conferenziere, autore di libri che fanno testo potrebbe apparire facile,
tanto ampia e precisa è la documentazione della sua multiforme
attività che egli ci ha lasciato. Ma non ho la competenza tecnica
per trattare queste materie.
Presentare invece Marco Pozzetto come persona, nei suoi
rapporti sociali, nei suoi valori spirituali è difficile anche per chi
ha avuto il privilegio di collaborare con lui per un quarantennio.
Indubbiamente, chiunque lo abbia frequentato può testimoniare
che egli ha sempre operato con lucidità intellettuale, rigore scientifico, disponibilità alla collaborazione congiunta però ad una
fermissima indipendenza da condizionamenti di qualsiasi natura
e provenienza.
L’ho conosciuto quando, a Gorizia, presentò il suo primo libro, Max Fabiani architetto. Era il 1966, lo stesso anno in cui
con un paio di amici avevo costituito l’Istituto per gli Incontri
Culturali Mitteleuropei, con il proposito di perseguire un duplice scopo: nel campo della ricerca storica, analizzare quali siano
stati gli elementi più fortemente unificanti del linguaggio culturale mitteleuropeo nelle varie discipline, tal ché – in un territorio
plurilingue caratterizzato per oltre un secolo da veementi spinte
nazionalistiche – diverse manifestazioni della vita sociale e culturale hanno espresso forme evidenti di tipicità caratterizzante;
nel campo dei rapporti umani, aprire un colloquio diretto fra
103
studiosi cui la contrapposizione dei due blocchi divisi con una
‘cortina di ferro’ impediva da vent’anni il libero confronto delle
idee, degli studi, delle esperienze: obiettivo, questo, ben più ambizioso e più difficile di quello scientifico, perché detta apertura
poteva corrodere la reciproca, strumentale e indiscriminata demonizzazione delle popolazioni «i buoni di qua, i cattivi di là»
che per motivi politici in realtà faceva comodo ad ambedue gli
schieramenti.
Dell’allora neo costituito Istituto Marco fu, fino alla sua
scomparsa, un pilastro fondamentale. Nel 1966, l’ICM patrocinò
l’esposizione della mostra su Fabiani collegata alla presentazione
della monografia; in quei giorni lavorammo quindi assieme per il
suo allestimento nella sala-teatro del Trgovski Dom (poi Casa del
Fascio, poi Intendenza di Finanza, ora quasi in abbandono) che
proprio Fabiani aveva disegnato una sessantina di anni prima.
Di Pozzetto, di questo uomo dal fisico asciutto, con la farfallina, oltre allo sguardo fermo e alla inconsueta «esse» sibilante
con cui pronunciava certe parole, mi rimasero impressi la sicurezza con la quale procedeva nel lavoro e la cordialità che subito
si stabilì fra di noi. La lettura del suo libro su Fabiani mi fece
conoscere meglio chi era quel vecchio gentiluomo che nell’immediato dopoguerra passava di frequente davanti a casa mia, e
quando incrociava mio padre si fermava a parlare con lui di
piante e di giardini. Ma contemporaneamente la mia attenzione
– e anche la mia curiosità – ebbero per oggetto l’autore di una
ricerca così approfondita, per effettuare la quale aveva viaggiato
da Torino ove allora abitava a Trieste e Gorizia, da Vienna a
Lubiana, alla Polonia, alla Cecoslovacchia esplorando anche archivi dei quali in quegli anni non era facile ottenere l’autorizzazione alla consultazione (consultazione che, appresi, aveva effettuato leggendo i documenti nelle diverse lingue nelle quali erano
scritti), e aveva raccolto – in gran parte con la sua macchina fotografica – una documentazione iconografica di grande interesse. Chi era questo autore, era forse un barone in qualche università, era un famoso storico dell’architettura? No, era uno studen104
te universitario. Certo, non più giovincello, aveva superato i
quarant’anni. Perché mai un uomo che possedeva intelligenza,
cultura, personalità non comuni, non s’era ancora laureato? Son
venuto a conoscerlo a poco a poco, soprattutto da lui stesso,
nell’arco dei secondi quaranta anni della sua vita durante i quali
ha collaborato sistematicamente con l’Istituto ICM.
Vicissitudini eccezionali, affrontate sempre con coraggio e
determinazione, hanno segnato la sua vita, specie nell’età giovanile. Vediamone qualcuna...
Abbiamo già sentito che a Lubiana, dove era nato nel 1925,
viveva con la madre. Il papà, gradese, quando lui era ancora
molto piccolo, aveva fatto divorzio e se ne era andato per il
mondo, a navigare, a combattere in Spagna con i repubblicani
come pilota di un caccia nella guerra contro i franchisti; Marco
lo ritroverà nel dopoguerra a Grado, dove per qualche anno vissero assieme nella casa del nonno paterno (nel frattempo morto); ma ho avuto l’impressione che tale convivenza non sia stata
tanto facile.
Prima dell’età scolare, la morte improvvisa e tragica della
madre lasciò Pozzetto solo. Certo, aveva un nonno materno molto ricco che lo coccolava, due sorelle della mamma dolci, benestanti, colte; il marito di una di esse era il già allora famoso Izidor Cankar; ma, in realtà, era senza famiglia. Lo zio Izidor,
compatibilmente con i suoi impegni di cattedratico di Storia
dell’arte e, dal 1937, di diplomatico del Regno di Jugoslavia, lo
assiste, lo educa, gli fa da tutore: Marco beneficerà per tutta la
vita dei suoi insegnamenti, e lo attesta pubblicamente quando
scrive «...ho avuto la fortuna di vivere negli anni formativi con
uno dei personaggi ragguardevoli della seconda generazione
della Scuola Viennese, Izidor Cankar [...] ritengo di aver appreso
nei sette anni della convivenza con Cankar alcuni atteggiamenti
mentali [...] che mi hanno facilitato l’impostazione di studi
nell’ambito di storia dell’architettura [...]». Dopo la scuola dell’obbligo, in Slovenia comincia a frequentare il liceo scientifico; poi
viene mandato lontano, in collegio. Non so come lui abbia accol105
to questa decisione delle zie: per certo, fu una scelta che segnò a
fondo la sua vita, a parer mio in senso positivo. Sì, perché non
venne spedito in un orfanotrofio, ma nell’ottimo convitto aggregato al quattrocentesco convento dei domenicani a Bol, nell’isola di Brazzà; convento che possedeva una ricca raccolta di reperti, documenti e manoscritti dall’antichità al Quattrocento oggetto di studio per quei religiosi. Là rimase fino alla maturità classica, anche nei periodi di vacanza salvo brevi incontri con le zie.
Negli studi superiori ebbe quindi un corpo docente di elevato
livello: quasi tutti quei domenicani si erano laureati a Lovanio.
Là perfezionò la sua conoscenza del tedesco – che era la terza
lingua parlata in casa, in aggiunta allo sloveno e all’italiano – e
non solo apprese il serbo-croato, lingua nella quale gli venivano
impartiti gli insegnamenti, ma imparò bene anche l’inglese. D’estate, non gli era difficile attraversare i 5 Km di mare che separano Bol dall’isola di Hvar, o Lesina, dove nella cittadina di Stari Grad c’è un altro importante convento domenicano, che nel
suo patrimonio museale aveva anche una interessante pinacoteca. Oltre che dallo zio, Pozzetto acquisisce anche dai domenicani l’interesse per la ricerca storica e la capacità di indagare in
archivi e biblioteche.
Le vicende della guerra lo coinvolgono non appena ha conseguito la maturità: come tanti suoi coetanei, per sfuggire al pericolo della deportazione in Germania passa sulle montagne,
assieme ai partigiani, l’inverno tra il 1944 e il 1945; viene operato d’appendicite in un ospedale di fortuna, se la cava anche in
quell’occasione, mentre due fratelli della madre vengono ammazzati dai titini. Arriva la fine della guerra. E decide di scappare in Italia, dove ha sentito che anche lo zio Izidor Cankar
dovrebbe essersi rifugiato: spera che trovandolo egli possa aiutarlo a conseguire il suo sogno di diventare architetto. Attraversa
tutta l’Italia, arriva in Sicilia in piena estate del 1945, su una
spiaggia in una zona apparentemente disabitata cerca refrigerio
con un bagno. Quando esce dall’acqua, non trova niente: tutto gli
è stato rubato.
106
E così, totalmente nudo, senza un documento, senza una
lira, senza una tasca in cui infilare un ventino se l’avesse trovato
per strada, Marco Pozzetto comincia a vent’anni, in Italia, la sua
nuova vita. Ma ha con sé un patrimonio immateriale prezioso,
che nessuno può sottrargli: intelligenza viva, voglia e capacità di
lavorare, padronanza di cinque lingue, cultura che spazia dalla
storia alla letteratura, dalle scienze alla matematica alla filosofia: a parte la medicina, è quanto già Vitruvio nel suo De Architectura pretendeva per gli architetti. Soprattutto, ha una maturità
acquisita in famiglia, nel collegio dei domenicani, attraverso le
vicissitudini che hanno caratterizzato tutta la sua vita e che hanno concorso alla formazione del suo carattere deciso. Ed ha la
volontà ferma di diventare architetto.
A Venezia, dove arriva poco tempo dopo, fa il turno di notte
e l’interprete in un albergo che ospita anche truppe inglesi di
occupazione. A Grado, dal 1946, lavora come operaio nei cantieri di bonifica; d’estate fa il bagnino. A Grado arrivano anche,
dalla Jugoslavia, due sorelle della madre, ovviamente senza il
cospicuo patrimonio che era stato incamerato dallo Stato: ma
Marco almeno recupera sinceri affetti famigliari.
Passa un decennio prima che egli riesca a ottenere dal governo titino copia del diploma di maturità. Può così, finalmente,
iscriversi alla facoltà di architettura, che frequenta prima saltuariamente a Venezia e poi a Torino.
Già da questi cenni biografici sommari emergono le qualità
che fanno di Pozzetto – dotato fin dalla nascita di grande talento – un uomo cui la vita ha fatto acquisire quei valori di fondo
che arricchiscono la persona e le danno la misura del giusto
rapporto con le cose, le persone, la vita.
Ripercorriamo assieme, ora, alcune fasi del suo percorso
professionale.
Nel 1966, come già detto, il libro e la mostra su Fabiani; nel
1968 la laurea a Torino e subito dopo la libera docenza in Caratteri Stilistici e Costruttivi dei monumenti nella Facoltà di Architettura di Torino. In quella stessa facoltà diventa presto professo107
re associato, ma nel contempo si dedica con impegno e rigore
scientifico ad una pluralità di altre iniziative: mostre (talune di
eccezionale importanza), conferenze, ricerche, redazione di libri
e di cataloghi, tante altre attività in tutta l’Italia e all’estero.
In aggiunta a ciò, durante il periodo torinese egli collabora
intensamente con l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei come relatore nei convegni internazionali di studio: mi pare
opportuno citare qui di seguito le relazioni pronunciate in quei
primi anni.
Nel 1970, convegno su «L’urbanistica nella Mitteleuropa»,
presenta Cenni su alcune precedenze; nel 1971, convegno su
«Architettura e società nella Mitteleuropa» coordinato e presieduto da Hans Sedlmayer (che si era laureato con Schlosser nel
1923) Pozzetto relaziona su La Secessione e l’Europa centro
orientale: sviluppi e conseguenze; nel 1972, convegno su «Il
Teatro nella Mitteleuropa», parla del Teatro come ambiente architettonico nella Mitteleuropa degli ultimi due secoli; nel 1973,
convegno su «La Mitteleuropa nel tempo», la sua relazione riguarda i Contributi filosofici di Gottfried Semper e il linguaggio nella Mitteleuropa; nel 1974, convegno su «La filosofia nella Mitteleuropa», presenta Appunti sulla cultura filosofica dei
Praktischen Aesteticher ; nel 1975, convegno su «La pittura nella Mitteleuropa» presieduto dal goriziano Antonio Morassi (che
si era laureato con Dvorák nel 1916), Pozzetto relaziona su le
Componenti mitteleuropee della pittura e della scenografia di
Luciano Baldessari; nel 1977, convegno su «Valori umani dell’umorismo e della satira nella Mitteleuropa» il suo intervento riguarda le Forme artistiche con cui detti valori vengono talvolta
espressi.
Ma Pozzetto dà i suoi preziosi pareri anche nelle fasi di programmazione, di definizione degli obiettivi scientifici, di strutturazione operativa dei convegni stessi.
Considerando questo complesso di contributi all’ICM, tutti
di alto livello, tutti assolutamente originali, nei quali Pozzetto
spazia con competenza in campi della cultura umanistica anche
108
tanto diversi da quello propriamente attinente all’architettura; e
scorrendo l’elenco delle mostre, delle conferenze, dei libri e dei
cataloghi, delle tante altre sue attività che egli fece in quello stesso periodo in aggiunta all’insegnamento, nasce spontanea una
prima conclusione che penso condivisa anche da chi ora mi
ascolta: ci troviamo di fronte a un personaggio del tutto eccezionale, ad un uomo mitteleuropeo che si era inserito con profitto
nel mondo torinese.
Poi, però, ripenso anche a quanto in quegli anni egli mi andava dicendo negli incontri ricorrenti che noi avevamo, e cioè
che egli a Torino si trovava bene, era inquadrato in una Facoltà
prestigiosa, c’erano tante e stimolanti possibilità di lavoro (basti
pensare al suo impegno diretto nel catalogo della grande mostra
itinerante «Piemonte da salvare» nel 1970, o al suo lavoro sulla
FIAT Lingotto del 1975), ma... ma si sentiva lontano dall’ambito
territoriale che considerava suo, non tanto perché là era nato,
quanto perché in quell’area si trovano i principali obiettivi dei
suoi interessi di storico dell’architettura e anche di attento osservatore della società civile. Non occorreva che egli lo dicesse, lo
si capiva dai suoi lavori: dallo sviluppo continuo della ricerca su
Fabiani dopo la prima monografia alla sua tesi di laurea su Jože
Plečnik, ai quattro volumi sulla Scuola di Otto Wagner pubblicati (in varie lingue) durante il periodo torinese, ed anche dagli
articoli e dai saggi scritti nonché dalle conferenze pronunciate in
tedesco, in sloveno, in serbo-croato durante i suoi viaggi nell’Europa centrale e balcanica. A proposito della sua continua attenzione per tutto quanto riguarda questo nostro territorio, cito un
episodio significativo: negli allegati di carattere tecnico ed economico del Trattato di Osimo (1975) viene ventilata l’ipotesi di
una via d’acqua Adriatico-Danubio: Pozzetto coglie al volo l’occasione, rispolvera il progetto di Max Fabiani che egli aveva ben
studiato, lo integra con valutazioni aggiornate dei potenziali volumi di traffico, dei nuovi strumenti tecnici ora disponibili per
l’esecuzione dei lavori, con correzioni del tracciato... presenta il
suo lavoro a Gorizia, a Trieste, in Slovenia... ma si sa bene che
109
tutto il pacchetto di accordi economici del Trattato di Osimo è
stato poi archiviato.
Torniamo però al suo desiderio di venire a Trieste. Me ne
parlava spesso nei nostri incontri, dapprima come di un sogno
quasi irrealizzabile: mi diceva delle incomprensioni che incontrava, della difficoltà di far accettare l’idea di un insegnamento
di storia in una Facoltà di ingegneria, delle aperture che talvolta
emergevano, delle nuove perplessità sorte; poi, a poco a poco...
Nel 1977 comincia il suo insegnamento a Trieste, nel 1979 si
trasferisce definitivamente qui. Non abbandona i suoi interessi
culturali in Italia, da Trieste, Udine e Gorizia a Venezia (dove tra
l’altro redige il catalogo su Le Arti a Vienna – 570 pagine – pubblicato in italiano e in tedesco) giù giù fino a Palermo ove si reca
più volte. Ma, da Trieste, spazia preferibilmente in tutta l’Europa
centro-orientale, intensifica la sua attività di ricercatore, di conferenziere, di organizzatore di mostre e di convegni; a Praga tiene relazioni in cèco, (a Parigi parla in francese), in Polonia consulta i documenti in polacco; suoi libri e cataloghi vengono pubblicati nelle tante lingue che conosce. Ovunque, in quest’area, si
sentiva a casa propria: è un mitteleuropeo «da manuale».
In tutto questo tempo, continua la sua collaborazione sistematica con l’ICM, che nel 1986 celebra i primi vent’anni di attività. Per quell’occasione, è naturale che il convegno internazionale di studio che l’ICM organizza annualmente abbia rilevanza
particolare e che la ricerca riguardi un tema particolarmente significativo per la cultura mitteleuropea. Se ne discute, Pozzetto
propone la «Scuola viennese di Storia dell’Arte» anche perché,
fino ad allora, mancava uno studio organico sulla materia. Questa proposta viene accettata e si parte. Un anno di lavori preparatori. Pozzetto delinea un progetto di massima, poi coordina il
lavoro, i primi incontri per definire gli obiettivi scientifici e gli
argomenti principali da affrontare, l’individuazione degli esperti
cui affidare le relazioni di base. Assieme a costoro, vengono scelti gli altri temi e gli altri relatori; a tutti viene data informazione
chiara della strutturazione del convegno, e molti relatori si scam110
biano opinioni in proposito, tal ché il simposio, quando si svolge,
non è una passerella di eccellenti solisti, ma è un concerto nel
quale ciascun oratore concorre con la sua parte alla composizione di un insieme armonico. Un convegno davvero esemplare.
È giusto che i frutti di un lavoro così significativo non vadano dispersi, quindi servono gli Atti, che secondo le intese saranno curati da Simone Viani cui viene consegnata tutta la documentazione occorrente. Purtroppo, Viani muore. Se ne incarica
allora Pozzetto, che con fatica riesce a ricompattare tutto e, per
di più, lo integra con l’elencazione completa degli associati e
laureati alla Scuola viennese di Storia dell’Arte.
Ecco, questo è Marco Pozzetto. Ma per capire in modo più
compiuto la sua figura, è necessario aver presente un altro elemento che per mezzo secolo è stato componente essenziale, prezioso della sua vita, e cioè la sua splendida famiglia qui presente.
La famiglia Pozzetto al convegno, Luca, Gabriella e Barbara (foto Kuzmin)
111
8° Convegno ICM (archivio privato, Trieste)
112
TAVOLA ROTONDA
Presiede EDINO VALCOVICH
Edino Valcovich: I lavori del nostro pomeriggio iniziano
ora con le riflessioni dei partecipanti alla Tavola Rotonda sul
tema centrale di questo Convegno: Trieste, Mitteleuropa, Mediterraneo, attualità di Marco Pozzetto storico dell’Architettura.
Gli studiosi che vi partecipano non hanno bisogno di presentazioni.
Sono certamente a tutti noti.
Voglio solo ricordare che, per ragioni ed occasioni diverse,
li accomuna una attiva presenza sulle tematiche oggetto di discussione ma anche legami di amicizia e di confronto scientifico
con Marco.
Credo che tali caratteristiche renderanno ricco il dibattito e
per alcuni versi, unico il confronto.
La parola alla dottoressa Rossella Fabiani della Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. della nostra Regione.
Fabiani: Marco Pozzetto è stato uno storico dell’architettura alla continua ricerca del rapporto fra momenti storici e attualità. La sua è una lettura dell’opera sempre tesa a creare un
ponte, un collegamento fra il passato e l’oggi. Prova ne è l’articolo su Architettura centroeuropea in una città mediterranea dove,
in una brevissima sintesi, Marco Pozzetto affronta le ragioni dello sviluppo architettonico triestino, quello che ha caratterizzato
e caratterizza i luoghi, in particolare lo storicismo, vero marchio
distintivo e peculiare della città.
113
Il filo conduttore della sua attività critica ha legato i vari
elementi di continuità nell’architettura triestina, debitrice in larga parte verso il mondo tedesco, continuità, prima delle sue riflessioni, non altrimenti pienamente riconosciuta. E penso al
contributo in occasione del convegno su «Il neogotico in Europa
nel XIX e XX secolo», tenutosi nell’autunno 1985 a Pavia cui,
della nostra regione, ho partecipato insieme a Marco Pozzetto e
Diana Barillari 1.
La lettura di Miramare, iniziata nella sede pavese movendo
dagli aspetti architettonici e poi proseguita l’anno dopo, nel
1986, puntando sull’aspetto paesistico del parco, è stata di esempio per tutti coloro che hanno affrontato i temi storicistici del
XIX secolo. In particolare, sottolineare «la proiezione dell’ombra dell’arte nordica di Schinkel» in diretto dialogo con l’attività
di Heinrich Ferstel è un’ ipotesi di lavoro che ha avviato nuovi
filoni di ricerche ed interessanti scoperte.
Marco Pozzetto ha aperto anche il fronte conoscitivo collocando le ragioni del parco di Miramare nel più ampio mondo
del giardino paesistico – Landschaftsgärtnerei – e anche qui
collegandolo al mondo tedesco di Hermann von Pückler
Muskau e di Peter Joseph Lennè nell’ambito di quel sentire la
natura così profondamente intimo e personale di Massimiliano.
E Gianni Pirrone, nella prefazione al volume sul parco curato
da Marco Pozzetto, poteva scrivere che egli: «ha contribuito a
fornire, sul tema specifico delle ville e dei giardini italiani
dell’Ottocento, chiavi interpretative di fenomeni complessi
quali, ad esempio, quelli relativi alla interpretazione critica del
romanticismo, di cui giardino e paesaggio sono peculiari
espressioni» 2.
Marco Pozzetto non è stato, però, solo uno storico dell’eclettismo nè ha concentrato il suo impegno unicamente su questi
temi: è stato molto di più, perché ha collocato l’eclettismo a metà
strada fra Neoclassico e Scuola di Otto Wagner.
Anzi, Marco Pozzetto ha saputo segnare un filo conduttore
che dall’inizio dell’800 arriva fino a ’800 avanzato e poi ancora
114
verso il ’900 e proprio nella sua ricerca di questo filo conduttore
ho avuto l’occasione di incontrarlo.
Ho conosciuto Marco Pozzetto frequentando le sue lezioni
di storia dell’architettura nella facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Trieste da studentessa di lettere con indirizzo
storico artistico. Poi, Marco Pozzetto mi ha chiamato a collaborare in occasione della mostra sulla Scuola di Wagner per le traduzioni dal tedesco di alcuni articoli dalla rivista “Der Architekt”.
È stata per me una palestra di formazione perché nella trasposizione da un linguaggio ad un altro Marco Pozzetto mi ha insegnato non soltanto a leggere i testi, ma soprattutto a percepire le
architetture ed i monumenti segnati sulla carta.
Non posso non dire, allora, che Marco Pozzetto mi ha mostrato proprio la continuità nell’architettura ed ha contribuito ad
arricchire la mia esperienza, formatasi anzitutto sullo studio dei
modelli e delle forme.
A Marco Pozzetto va così un grazie per l’incoraggiamento
che mi ha dato negli studi e per l’insegnamento che ognuno di
noi, credo, continua a tenere dentro e continua a trasmettere anche agli altri.
Per merito di Marco Pozzetto credo che tutti – e così
anch’io – abbiamo saputo cogliere del neoclassico e dell’eclettismo tanti motivi forse nel passato rimasti silenti.
Valcovich: Grazie dottoressa per il prezioso inquadramento delle attività di ricerca sviluppate dal professor Pozzetto. Speriamo di aver l’occasione di ritornare, per un approfondimento,
sui temi da lei trattati.
La parola ora alla professoressa Vilma Fasoli della Facoltà
di Architettura della nostra Università.
Fasoli: la dottoressa Fabiani ha già in parte anticipato un
tema sul quale intendevo portare la mia riflessione. A quanto da
lei già sottolineato vorrei aggiungere che Marco Pozzetto non era
legato alla città solo per il valore del suo patrimonio artistico o
115
per la sua storia, ma soprattutto in quanto spazio di vita. Per
Pozzetto, Trieste era la città nella quale aveva scelto di vivere. Per
approfondire due aspetti, a mio avviso essenziali rispetto ai temi
fino ad ora toccati, vorrei partire da un semplice ricordo: è l’ottobre del 2000, io ero appena arrivata a Trieste, nominata professore alla facoltà di Architettura. Tramite i contatti della professoressa Micaela Viglino di Torino, approdo a Trieste accolta in casa
Pozzetto. Il professore mi accoglie come una studentessa «lontana»: condividevo con lui una radice comune, entrambi ci eravamo formati presso la Scuola Politecnica di Torino. Parliamo di
molte cose, ma non di storia dell’architettura. Parliamo di Trieste,
di cos’è Trieste. Per me la città è una realtà nuova, per lui «una
vecchia amica», «una confidente»; per me qualcosa da scoprire,
da cercare di capire. Mi sarei trovata davanti a studenti da formare in una città che non conoscevo, ma della quale mi ero fatta alcune impressioni. È a partire dalle mie curiosità, dalle mie incertezze, ma anche o soprattutto dalle mie apprensioni, che ha inizio
un dialogo. Siamo lontani dai temi di storia dell’architettura, la
nostra conversazione attraversa la vita della città e nella città,
affonda nei suoi problemi, nelle sue specificità, scende ad osservare la sua popolazione e gli spazi dentro i quali essa vive e si
muove. Questo per me è stato un momento fondamentale perché
Marco Pozzetto mi ha insegnato a cambiare sguardo, mi ha insegnato a cercare diverse prospettive di osservazione, come osservare, cosa osservare. Le fotografie che sono state mostrate questa
mattina sono la città che vive – non è solo l’architettura – ma sono
le persone che la abitano, che la trasformano che la modificano,
che la fanno rallentare che la fanno accelerare. E in questo secondo me il grande merito di Marco Pozzetto è quello di aver cercato
di attualizzare la storia. Per lui la storia era una chiave di lettura
attraverso la quale poter tornare a guardare la città, i problemi
della città. Alcuni suoi contributi su giornali e riviste – come
quelli apparsi sul «Piccolo» – si propongono di affrontare i problemi della città attraverso la conoscenza del suo passato. Anche
semplicemente sperare che, progetti rimasti «nel cassetto» come
116
quelli di Max Fabiani per un canale navigabile, potessero essere
riesumati, non per celebrarne la memoria, ma per poter comprendere come la storia avrebbe potuto in qualche modo aiutare a
formulare nuovi progetti, a ridisegnare un futuro per la città, si
possono aprire a questa chiave interpretativa. E questo principio
dell’attualizzazione della storia ha consentito a me di guardare a
Trieste cercando di affrontare uno dei lavori fondamentali dello
storico, perchè lo storico non ha il compito di costruire miti, il
compito dello storico è quello di cercare di leggere al di là dei miti
e delle ideologie. E su questo vorrei allargare le nostre «osservazioni» su Marco Pozzetto: nell’ultimo intervento video, di Trieste
egli dice «Non è una città neoclassica, è una città storicistica».
Eppure con i suoi studi Pozzetto ha attraversato il Neoclassico, lo
Storicismo, la Scuola di Wagner, è andato oltre Trieste per poi
ritornare su Trieste e guardare la specificità locale. Penso allora
che egli voglia comunicarci come queste siano fasi della vita di
una città, della cultura della quale essa può essere testimone. Non
è quindi né Neoclassicismo, né Eclettismo, né Secessione viennese, ma la città come spazio di ricerca in cui ogni sapere, ogni
cultura, ogni competenza contibuisce a disegnare un futuro «possibile». I suoi studi sono costantemente legati al dialogo tra specificità e complessità: la Scuola di Wagner è una scuola dell’ex
Impero austroungarico, è una scuola che aggrega molte specificità, molti popoli, molte tradizioni, e che a sua volta ha generato
molte nuove scuole. Nelle sue biografie, Max Fabiani, Boico,
Plecnik c’è il tentativo di costruire una rete. Nelle nostre conversazioni spesso mi diceva: «guardi questo particolare e poi la stessa cosa è là e poi faccia attenzione a questo!». Passava da una
città all’altra, da un momento all’altro, da un’architettura a un’altra, in un’analisi trasversale che non è quella della «barriera dello
stile», ma è la trasversalità di una cultura che ormai era già internazionale, così come Pozzetto ha saputo affrontarla, così come
Pozzetto ci sta insegnando e guidato a leggere.
Su questi due aspetti, quello dell’impegno nell’attualizzazione della storia e del rapporto tra la specificità e complessità
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culturale di alcuni protagonisti della storia dell’architettura,
Pozzetto ha saputo offrire un contributo fondamentale. È ripercorrendo le esperienze attraverso le quali questi protagonisti si
sono misurati o confrontati con il «futuro», declinato quello che
avevano appreso nelle diverse scuole, tradotto le specificità dei
propri sistemi di appartenenza, che Pozzetto ha voluto indicarci
la strada per moltiplicare i nostri punti di osservazione, poiché
egli apparteneva a questi territori ma la sua cultura aveva ormai
superato tutti i confini. A mo avviso è questo quello che dovremo cogliere per il prossimo futuro. Grazie.
Valcovich: Grazie professoressa Fasoli. La parola ora alla
dottoressa Maria Masau Dan direttrice del Civico Museo Revoltella di Trieste.
Masau Dan: Ascoltando, stamattina, alcune notizie della
vita di Marco Pozzetto che non conoscevo, e scoprendo che ha
avuto una vita decisamente più avventurosa di quanto potessi
immaginare, credo di avere capito molte più cose di lui, e provo
ancora più ammirazione per una persona che ha sempre suscitato in me una grande curiosità per il suo lavoro di studioso e
profonda stima per le sue qualità personali.
Partecipo molto volentieri a questo convegno anche se non
sono in grado di dare contributi scientifici nel campo della storia
dell’architettura, ma mi sento in dovere di aggiungere la mia testimonianza su una personalità indimenticabile della nostra cultura.
Ho sempre attribuito il fatto che il professor Pozzetto fosse
un personaggio non comune soprattutto alle sue origini familiari, alla sua appartenenza a diverse culture, ma oggi ho scoperto
che, in realtà, sono state anche le vicende della sua vita, difficile,
piena di ostacoli e sfide, ad averlo messo nelle condizioni di
guardare il mondo con uno sguardo più aperto e disincantato e,
nello stesso tempo a fare di lui un uomo particolarmente adatto
a collegare situazioni molto diverse, a mettere in relazione mondi apparentemente lontani e a superare i confini.
118
La nostra conoscenza risale agli anni Ottanta, quando io
dirigevo, a Gorizia, i Musei provinciali, dove si svolgevano tradizionalmente i convegni dell’Istituto per gli incontri culturali
mitteleuropei dei quali Pozzetto era sempre uno dei protagonisti.
Incontri fondamentali per la nostra generazione, che ha potuto
allargare i suoi orizzonti ascoltando grandi nomi della cultura
internazionale, tra i quali, per la storia dell’arte, voglio ricordare
Antonio Morassi. Anni particolarmente intensi, in cui Gorizia
era davvero al centro di un vasto contesto culturale. Ogni anno
si discuteva di un tema diverso, letteratura, filosofia, architettura… Gli atti diventavano importanti strumenti di studio.
E Pozzetto era perfettamente a suo agio, quello era davvero
il suo mondo. Sapeva interfacciarsi con chiunque su tantissimi
argomenti, come è stato già sottolineato da altri relatori.
I nostri incontri non sono stati così frequenti ma sempre
piacevoli e interessanti. Avvenivano in quel palazzo Attems, sede
dei Musei provinciali, che forse era un luogo simbolo anche in
rapporto alla cultura e ai gusti di Pozzetto, con un palladianesimo rivisto in chiave austriaca che ben si prestava a fare da sfondo
alle discussioni sul carattere peculiare del clima mitteleuropeo.
Voglio sottolineare anch’io, come hanno già fatto altri,
un’altra qualità di Marco Pozzetto, l’indipendenza. Chi, come me,
e come altri, in questa sede, opera nelle istituzioni pubbliche sa
quanto è difficile mantenere l’indipendenza, quante interferenze
e pressioni si devono subire, quante volte occorre mediare per riuscire a portare a termine un progetto. Pozzetto si è trovato spesso a confrontarsi con la pubblica amministrazione, o, meglio, con
la politica, e talvolta ne è uscito male, perché era un uomo coraggioso, uno che effettivamente diceva le cose come stavano e non
si piegava facilmente. Ha dato ai più giovani una lezione utile
anche in questo senso, è stato un esempio di coerenza e di coraggio, molto importante per noi che apparteniamo alla generazione
successiva. Ci ha insegnato a non piegarci, ad andare avanti per la
nostra strada, che, alla fine, è quella del rigore scientifico, senza
contrapposizioni politiche ma anche senza compromessi.
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Pozzetto era anche un uomo che credeva nelle istituzioni e
che si metteva in relazione con tutte le istituzioni culturali, in
particolare con i musei, per i quali aveva una speciale attenzione.
Chi opera nei musei ha spesso una sensazione di isolamento dal
mondo scientifico, dall’Università. Questo non accadeva con
Pozzetto, che conosceva, frequentava e aiutava i musei, e qui mi
riallaccio anche a un rapporto che ha avuto con la Galleria d’Arte Moderna di Udine. La mia collega Isabella Reale, direttrice
della galleria, che non può essere presente oggi, mi ha mandato
un messaggio pregandomi di leggervelo, perché anche lei conserva un ricordo molto grato per quello che ha fatto per il suo
museo: «Mi fa piacere ricordare la disponibilità e la condivisione di Marco Pozzetto nei confronti delle nostre istituzioni museali per sostenere progetti concreti di valorizzazione dell’opera
degli architetti intesi non solo come studio scientifico e divulgazione, ma come conservazione e tutela delle loro stesse architetture e soprattutto del patrimonio di idee e progetti dei loro archivi, contribuendo in prima persona affinché non si disperdessero
e si indirizzassero verso l’istituzione museale per garantirne la
loro pubblica fruizione. E il caso udinese è ben noto con la conseguente nascita e accrescimento di una sezione dedicata ora trasformata in una vera e propria sede museale all’interno di palazzo Morpurgo, le Gallerie del Progetto che molto devono alla sua
generosa disponibilità di studioso aperto al dialogo e al confronto. La prima mostra curata dal professor Pozzetto per i Musei di
Udine «Ottorino Aloisio architetto» risale al 1981, ed è stata determinante per la decisione dell’architetto Aloisio, legato da antica amicizia e frequentazione torinese al professor Pozzetto e
alla sua famiglia, di donare il suo archivio ai nostri musei. Sono
seguiti altri fondamentali contributi per la mostra D’Aronco nel
1982 allestita a villa Manin, alla mostra promossa sempre alla
Gamud «Pietro Zanini» nel 1987, altro architetto che ha donato
il suo archivio al museo. Quindi ricordiamo anche il suo contributo sui protagonisti dell’architettura a Udine per il catalogo Le
arti a Udine nel Novecento.
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Questo aspetto dell’attività di Pozzetto mi sembra molto
importante da riprendere, perché è un problema, quello della conservazione dei documenti dell’architettura, che pochi si pongono
e che gli stessi musei non possono affrontare da soli. I nostri
musei d’arte moderna si trovano già in difficoltà nella gestione
del patrimonio esistente, per cui difficilmente possono fare spazio ad altre cose. È chiaro, però, che in una situazione del genere
l’architettura non viene documentata, assieme alle altre arti, come
sarebbe giusto; quindi l’iniziativa di Udine delle Gallerie del
Progetto legata anche a questa amicizia con il professor Pozzetto
mi sembra una cosa da tenere ben presente anche in questa sede.
E concludo con un’altra rapida riflessione. Al di là dei contenuti del suo lavoro, secondo me Marco Pozzetto (ed è forse
anche questa la ragione del fascino che esercita su di noi) ha incarnato una tipologia di studioso «al di sopra dei confini nazionali» a cui dovremmo aspirare tutti noi che viviamo in queste
terre, dove per capire la storia si devono conoscere le lingue e gli
archivi di diversi Paesi. È evidente che non conoscere le lingue
dei Paesi vicini oltre a quella principale mutila tutte le nostre ricerche. Pozzetto ha dato contribuiti preziosi perché aveva un
quadro di riferimento straordinariamente ampio, si muoveva naturalmente tra Trieste, Lubiana e Vienna. La sua bibliografia era
in tedesco, in sloveno e in italiano. E noi? Come possiamo studiare l’Ottocento, sia che il nostro interesse sia verso l’architettura sia che ci occupiamo di storia dell’arte o di storia sociale, senza le fonti che anche territorialmente corrispondono alla realtà di
questo mondo nell’Ottocento? Indubbiamente le nostre ricerche,
se limitate al nostro mondo più prossimo, possono dare risultati
importanti e utili, ma sono pur sempre parziali.
Mi pareva giusto evidenziare questo aspetto anche perché
Diana Barillari, nell’invitarmi, ha sottolineato che si è organizzato un convegno proiettato nel futuro, non si vuole soltanto
commemorare un uomo e uno studioso, ma cercare di ricavare
degli stimoli per i giovani. Secondo me uno degli insegnamenti
di Marco Pozzetto da tenere ben presente è questo: nelle nostre
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terre dobbiamo guardare all’indietro in una dimensione più ampia di quella che oggi è segnata dai confini nazionali, dobbiamo
essere padroni di tutti gli strumenti di comunicazione, e dunque
delle diverse lingue parlate intorno a questo confine, per potere
lavorare davvero assieme agli altri, soprattutto nell’ambito delle
istituzioni culturali.
Valcovich: Grazie per le interessanti ed acute riflessioni.
La padronanza degli strumenti linguistici per uno studioso
è elemento fondamentale ed irrinunciabile.
Marco Pozzetto possedeva questa padronanza. La sua capacità di muoversi con consapevolezza in un preciso ambito territoriale e culturale, si sviluppava proprio in relazione a quella
sua straordinaria capacità di conoscenza.
La parola ora al professor Piero Piva della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trieste.
Piva: Grazie sono onorato innazitutto e perciò ringrazio
Diana Barillari e il professor Edino Valcovich, sono onorato e
anche emozionato di essere qui oggi, mi ha colto di sorpresa credevo di non provarla questa emozione. Poche parole non certo
una disquisizione dotta come quelle che ho sentito quest’oggi, io
non mi permetto che di rievocare la figura di Marco attraverso gli
episodi, tantissimi ma pochi ve ne riferisco, i più salienti dei tantissimi di quelli che abbiamo avuto nella nostra lunghissima amicizia. Marco Pozzetto per me aveva il pregio più grande che io ho
ammirato in lui con poche parole riusciva a insegnare cose importantissime. La sobrietà, l’eleganza diceva il professore Valcovich, le poche parole che usava anche a lezione con noi, usava
poche parole e ci ha insegnato tantissime cose. Noi eravamo entusiasti di seguire il corso di Marco Pozzetto, noi dell’ingegneria
civile trattino edile, non era un corso di laurea più vicino all’architettura, così ci nutrivamo veramente di questi straordinari insegnamenti che Marco ci dava nella storia dell’architettura. Ha
insegnato lui a insegnare a me, modestamente molto più mode122
stamente di lui, ma proprio usando poche parole, la non prolissità,
la semplicità che è dei grandi appunto. Marco è sempre con me,
lo dico con commozione come vedete ma con molta sincerità,
Marco è con me ogni volta che vedo il faro della Vittoria, che
vedo piazza Unità. Ecco con poche parole: piazza Unità è la piazza più bella del mondo, affermazione immediata di Marco Pozzetto. Perché Marco? gli chiedo. Risposta, perché ha di questi palazzi straordinari su tre lati (inutile ricordarne l’architettura) e il
quarto lato si apre al mare. E mi ha convinto. Ma c’è piazza
Navona, ma è piazza Unità la piazza più bella del mondo. Parentesi, perché mi viene in mente di farlo perché ho citato piazza
Unità: dobbiamo a Marco Pozzetto l’aver scongiurato la realizzazione di un parcheggio multipiano sotto piazza Unità come ricorderanno tutti i triestini. Lui ha fatto una battaglia ricordo che lui
a me aveva anche detto sto facendo troppo poco, lui ha scritto
tanti articoli sul «Piccolo» proprio per battersi contro questa realizzazione. Chiusa la parentesi, piazza Unità è la piazza più bella
del mondo lo dobbiamo a Marco Pozzetto. Ma io Marco ce l’ho
presente quasi giornalmente perché quando vedo il faro della
Vittoria, mi ha fatto scrivere qualcosa sul Tempio israelitico.
Passo uno dei passaggi più importanti dei ricordi che ho di Marco
Pozzetto quando mi ha invitato alla cerimonia a Vienna quando
veniva insignito del premio Precht; la mia emozione, lo seguivamo e si inchinavano tutti i professori del Politecnico nel riconoscerlo e nel riceverlo. È stata un’emozione grandissima e tu citavi
prima la sua passione la sua competenza nel visitare i musei, devo
a Marco anche il saper visitare un museo, perché ancora l’occasione di Vienna citata prima: vicino al Politecnico c’è il Kunsthistorisches Museum e allora Marco mi ha detto vai da solo a vederlo.
Lo avevo già visto, ma senza che mi avesse impartito questi suoi
suggerimenti. Io Peter Bruegel der Alte lo volevo vedere e Marco
mi aveva detto «lo sai ben che lì ci sono 19 delle sue 20 opere» e
io le ho viste cento volte e ogni volta mi è servito vederle perché
le vedevo da certe angolazioni. È stata anche quella una grandissima emozione mi ha insegnato lui a guardare Vienna, ma come
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a noi studenti ci ha insegnato a guardare – Marco è stato non solo
un maestro nella didattica (pozzo di scienza e di cultura lo avevamo soprannominato) perché era diverso, non me ne vogliano gli
altri docenti, era diverso. La cultura straordinaria di Marco, non
ti faceva pesare la sua cultura ma la spiegava, la trasferiva, era un
piacere ascoltarlo. Ha trasferito a me il piacere di insegnare, insegnava semplicemente, che non vuol dire poco, vuol dire tantissimo. Ho scritto soltanto qualche luogo e tralascio tanti ricordi che
sono personalissimi che restano nostri, i luoghi che mi fanno ricordare Marco Pozzetto sono tantissimi e non solo i luoghi ma
anche gli episodi, proprio quando ci lascia uno che si ama, allora
i riferimenti alcuni sono ovvi altri sono particolarissimi e personalissimi che tengo per me, naturalmente. Allora Aquileia cominciamo con il workshop «Piran 80» quei seminari straordinari,
ecco la dimostrazione per dimostrare (casomai ce ne fosse bisogno) la sua Mitteleuropa, lui aveva inventato di organizzare seminari delle tre università di Graz di Lubiana e di Trieste appunto. E
allora studenti e docenti, lì mi ha fatto conoscere il grandissimo
Edvard Ravnikar, carissimo amico suo. Dopo che siamo andati a
Lubiana, ecco il turista o anche l’addetto ai lavori se volete, l’architetto l’ingegnere la persona di cultura certo che gode nel vedere la biblioteca, di veder Plecnik, ma non ho mai goduto tanto se
non come dopo gli insegnamenti di saper vedere e le opere d’arte,
il bello come ho potuto avere da Marco Pozzetto. C’è in sala chi
ci accompagnava, c’è in sala un’amica che ci accompagnava (ci
siamo commossi proprio a questo ricordo) in questo primo seminario di Portorose, di questo workshop. Erano incontri culturalmente altissimi, noi studenti entusiasti, io ero appena laureato,
entuisiasti di questa sua iniziativa, poi ha fatto Aquileia e poi gli
altri incontri che ha ricordato anche il professor Pavan questa
mattina. Ma certo che io non vado a riferire episodi del curruculum della vita di Marco, erano le cose che mi legano a lui. Come
posso non pensare a Marco Pozzetto (e ne avrei tantissime altre)
pensando a questo stesso edificio che ci ospita. Io per questo edificio ricordo di lui – intanto che mi aveva insegnato a non vergo124
gnarsi di commuoversi – ma ricordo che ogni volta che pensava
all’incendio doloso, all’attentato che hanno fatto a questo edificio
nel bruciarlo negli anni Venti, piangeva sempre Marco. Se credete ci rientriamo anche in tanti altri aspetti della sua vita ma della
sua umanità (me lo ha suggerito la Lella), ma mi fermerei qui.
Valcovich: Grazie Piero.
Grazie per un intervento che ricorda, con affetto, i valori
umani della presenza di Marco presso la nostra Facoltà. Ti dobbiamo essere grati per questa sottolineatura.
Ora abbiamo il tempo per un secondo giro di riflessioni.
Prima di cominciare voglio però citare, per la sua importanza, il tema che ha posto la dottoressa Rossella Fabiani: il lavoro
di Marco Pozzetto su Miramare o meglio sul Parco di Miramare.
In quell’occasione, Marco Pozzetto, da storico dell’architettura e non da botanico, si confronta con i temi ambientali propri di una realtà interessante e complessa come il Parco della
dimora di Miramare.
Lo fa all’interno di un gruppo di lavoro interdisciplinare
ricco di studiosi di straordinaria rilevanza.
Il valore di quell’impegno e di quell’esperienza risiede nel
fatto che Marco Pozzetto ritiene che il grande valore di quell’architettura, il Castello, straordinario esempio di gotico quadrato
per rubare un’immagine cara alla dottoressa Fabiani, sta nell’insieme Parco- Edificio.
Lo fa dal punto di vista dello studioso di architettura che
possiede tutti gli strumenti di indagine per analizzare l’edificio,
le culture di riferimento, le tecnologie utilizzate.
Marco Pozzetto apre in quell’occasione il suo lavoro ad
una lettura di carattere ambientale.
Lo fa con la sicurezza dello studioso che sa praticare il confronto interdisciplinare, che sa individuare i confini delle singole discipline ed interpretare i risultati emersi dalle specifiche
indagini in termini di una riaggregazione problematica delle singole parti.
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Anche di questa natura era costituito l’approccio all’analisi
del professor Pozzetto.
Uno studioso che sentiva il bisogno di nuove indagini di
confine che portavano all’estensione della disciplina sino al limite di possibili sovrapposizioni.
Posso citare, a tale proposito, i suoi studi si canali navigabili, occasioni di approfondimento della proposta dell’architetto
Max Fabiani sul canale navigabile Isonzo-Sava-Danubio, o ancora i suoi studi sulle grandi opere infrastrutturali di ingegneria
ferroviaria.
La parola ora alla dottoressa Fabiani.
Fabiani: ecco appunto io prima parlavo di alcune riflessioni
che ho lanciato: per quanto riguarda il parco posso principalmente
dire, e credo che sia una cosa importante, che lo stato degli studi
prima che lui cominciasse a riflettere su questo, del parco e del
castello di Miramare si era sempre parlato come di un luogo della
vicenda tragica di Massimiliano, ma non era mai stato inserito,
non era mai stato calato nella storia europea, perché secondo me
il mondo di Massimiliano – grazie appunto agli spunti e ai suggerimenti di Pozzetto – è proprio lo specchio dell’Europa dell’Ottocento. In Miramare c’è un microcosmo di quello che un grande
sentire artistico architettonico e appunto paesistico dell’Europa
dell’Ottocento, di metà Ottocento, è uno specchio incredibile una
testimonianza unica sia dal punto di vista decorativo sia dal punto di vista architettonico e del giardino di quella che era l’Europa
alla metà dell’Ottocento che è conservato assolutamente intatto.
E su questo abbiamo continuato a lavorare come Soprintendenza
e speriamo di continuare ancora a riflettere perché è un aspetto
che deve essere assolutamente riconosciuto e anche sentito dalla
città che purtroppo non sempre – dalla città e dalle istituzioni
culturali – non sempre si riesce a far sentire in maniera forte.
Quindi questo stretto legame culturale con l’Europa, ma il giardino sicuramente ma anche l’architettura, cioè la trasposizione di
un’architettura nordica di un’architettura che stava sulla riva di
126
laghi e di fiumi che si trova sulla riva di un mare e di un mare
Mediterraneo. Ecco del mare più a sud ma anche nella parte più a
nord del Mediterraneo dell’Europa, pertanto ci sono queste due
componenti che lui ha lanciato per primo come riflessione e che
quindi poi è stata lentamente raccolta. Volevo fare ancora due riflessioni, innanzitutto anch’io volevo citare Pietro Zanini, preparandomi per oggi ho guardato un po’ la bibliografia di Pozzetto e
mi sono scorsa il catalogo della mostra di Zanini e ho visto come
analizza in maniera direi molto – mi si passi questa parola – spietata (tra virgolette) nel senso che apprezza moltissimo alcuni lati
interessanti di Zanini ma come altri lati di questo architetto che
ha vissuto per molti anni e che quindi è passato, se possiamo dire,
da un tardo storicismo a un’attualità degli anni settanta se non
sbaglio, Pozzetto dice in maniera molto chiara certe cose le ha
fatte bene, altre cose sono quasi da non prendere in considerazione e questo in un catalogo di una mostra – io adesso sto banalizzando – ma detto in maniera più edulcorata ma sicuramente molto chiara e gli fa grande onore, perché evidentemente non è solo
uno studioso che mirava soltanto a collegare l’attività di un artista
e deve per forza sempre giustificare l’attività di un artista. Un’altra
riflessione che volevo ancora aggiungere è sul discorso del tedesco ecco appunto quando ho conosciuto Pozzetto mi ha chiesto
«ma lei conosce il tedesco?» E io ho detto sì, «Ah benissimo!» ha
detto e infatti la traduzione di quei pezzi di “Der Architekt” che
poi abbiamo e anche poi lui stesso mi ha ampiamente corretto,
però dal punto di vista prevalentemente storico-artistico perché
non conoscevo certi termini tecnici che ovviamente ho appreso
proprio grazie a tutte traduzioni, mi hanno veramente incoraggiato a continuare nello studio della lingua e forse se ho continuato
questi studi sull’architettura e sull’arte dell’Ottocento è stato proprio grazie a questa conoscenza della lingua che lui mi ha sempre
incoraggiato a mantenere. Ultimissima riflessione volevo proprio
ricordare quello che diceva Piva relativamente ai viaggi di istruzione, io ricordo anche di aver fatto un viaggio a Vienna a conoscere il Karl Marx Hof l’architettura della Vienna Rossa e certa127
mente i viaggi degli studenti sono sempre molto interessanti e
esaltanti (anche se io non ero più studentessa ma mi ero appena
laureata) però ricordo la sensazione di andare a percepire sul posto l’architettura. E quello mi ha veramente insegnato perché se
oggi faccio qualche viaggio tradisco le mie origini da storico d’arte e vado molto più a conoscere l’architettura a sentire l’architettura, questa è una cosa molto interessante, la spazialità sentire
l’architettura come decorazione ma sentire l’architettura come
spazio come dimensione e lui mi ha sempre detto «Sì, puoi guardare tutti i libri che vuoi, però devi vedere devi vivere l’edificio
per capire realmente l’impatto». E devo dire che questo è stato
molto utile nella conoscenza dei giardini e nella conoscenza degli
edifici che si possono raffrontare con Miramare e con quelli che
ancora oggi sono esistenti e sono presenti. Cioè questo continuo
rapporto – e in particolare per Miramare lui l’ha messo in evidenza in maniera molto chiara – tra esterno e interno e tra contesto
paesistico. Ecco questo è un aspetto che ripeto, per oggi a noi
quasi sembra normale ma negli anni ottanta non veniva ancora
preso in considerazione affatto; ecco, la sensibilità degli studi in
questo campo è venuta ben dopo.
Valcovich: Grazie dottoressa. La parola alla professoressa
Fasoli.
Fasoli: cogliendo questo tema del giardino e del parco, il
Settecento, l’età dei Lumi, è anche l’età in cui si vede nella progettazione dei giardini un momento di conciliazione tra tutte le
arti nel senso che è necessario conoscere la topografia, saper gestire la rappresentazione grafica, conoscere l’idraulica – perché
se non c’è acqua un giardino ha vita breve, avere competenze nel
campo della botanica, conoscere la pittura perché la scelta delle
essenze arboree è legata agli effetti dei colori nelle diverse stagioni dell’anno, e l’architettura in senso di scenografia teatrale,
perché è molti scorci di giardini o di progetti di padiglioni di
giardini sono quasi la riproduzione in scala di certe scene di tea128
tro. Pozzetto aveva ben presente come il progetto di un giardino
riuscisse e dovesse attraversare tanti saperi. E questi tanti saperi
ci portano a pensare a Marco Pozzetto come a una figura estremamente versatile. Condivido pienamente le perplessità della
dottoressa Masau Dan che ha osservato: «e come facciamo con il
tedesco, come facciamo con le lingue?» È vero dove lo troviamo
oggi uno storico che conosce otto lingue? Faccio un semplice
esempio (la signora Pozzetto mi corregga o integri): italiano, inglese, francese, tedesco, sloveno, serbo, croato, ceco, latino: da
questo punto di vista il professor Pozzetto era uno storico eccezionale, soprattutto se riferito alla possibilità del dominio e del
controllo storiografico e critico. Questo ci pone davanti al fondamentale problema del cambio di generazione, ma anche a un passaggio di testimone, un aspetto questo già anticipato pochi anni
fa dallo storico Marino Berengo. A conclusione dell’introduzione
al suo libro L’Europa delle città egli aveva scritto: «i tempi della
‘interdisciplinarietà’, tanto invocati in questi anni, non sono ancora maturi per me». Non è la constatazione di un fallimento,
piuttosto riconoscimento di un limite. Riconosciamo a noi questo
limite nella conoscenza delle lingue, riconosciamo a noi il limite
nella capacità di dominare e di controllare la complessità storiografica. Osserviamo piuttosto l’ampiezza dei programmi europei: essi ci invitano a confrontarci, a scambiarci e a intrecciare le
conoscenze e le competenze. Forse Marco Pozzetto ci passa un
testimone, che ci impegna a lavorare insieme e forse è questa
quotidianità del lavorare insieme, ammettendo anche i piccoli o
grandi limiti, che ci consentirà di portare avanti e continuare le
sue ricerche. Del professor Pozzetto, Sessa ha fatto emergere i
pregi del «rigore» e dell’«eleganza», io aggiungerei quella dell’uomo paziente. Egli sapeva attendere i tempi della ricerca, mentre
oggi noi pratichiamo la fretta di fare, di pubblicare. E questo saper pazientare – la ricerca ha bisogno di sedimentare e lo studioso di distaccarsene per poi riprenderla per fare passi avanti, ma
anche ripercorrere il percorso già fatto – unito al rigore nello
studio, a mio avviso non appartiene ai tempi in cui noi oggi vi129
viamo. A mio avviso, questo costituisce un limite ben più grande
e profondo della mancanza della conoscenza di tante le lingue.
Valcovich: La pazienza di Marco. Era un’immagine che ci
mancava.
Marco Pozzetto era uno studioso e la pazienza è certamente una caratteristica positiva dello studioso. È vero: Marco era
paziente. Aveva la capacità di aspettare, di riflettere, di ascoltare.
Dote che non tutti gli studiosi possiedono.
Dottoressa Masau Dan, a lei la parola.
Masau Dan: a questo proposito io non penso che il vantaggio di conoscere le lingue sia solo in termini quantitativi e mi
rendo conto che oggi è impossibile trovare figure eccezionali
come Pozzetto, che conosceva otto lingue, ma ritengo che si tratti anche di acquisire e possedere vari strumenti di lettura. Quando
il prof. Piva parla di «fascino della semplicità» si riferisce a una
semplicità ottenuta attraverso un lungo processo di elaborazione
e di confronti. Grazie a questo Pozzetto è riuscito a trasmettere
ai suoi allievi anche degli efficaci strumenti di lettura. L’ampiezza
delle sue conoscenze, l’esperienza, come aveva lui, di tante realtà
artistiche, lo facilitava nella comprensione dell’opera d’arte e nella trasmissione di questo sapere ai suoi allievi.
Per questo sono convinta che anche oggi uno studente che
si impegna nello studio delle lingue possa mettere meglio a frutto le sue conoscenze.
Fasoli: oltre a dominare un repertorio storiografico ampio,
occorre riconoscere a Marco Pozzetto anche una dote grandissima che era quella della sintesi e della trasversalità. Ritengo che
su questo fronte non possiamo far altro che arrenderci e pensare
di trasferire la capacità di Marco Pozzetto e condividerla, passando a un lavoro di gruppi di ricerca allargati.
Piva: ho poco da aggiungere o avrei tantissimo da dire…
poche parole con cui ho esordito prima e nel rispetto per l’inse130
gnamento di Marco Pozzetto. Io aggiungo spontaneità a quanto
tu dicevi rispetto all’abilità alla conoscenza. Ecco spontaneità
l’altra sua grande dote. Lui trasferiva la sua conoscenza in una
maniera che sembrava la più naturale e spontanea possibile. E
riusciva con un solo aggettivo a farti capire una cosa, cioè la
banalità che prima ho detto «Piazza Unità bella, la più bella»,
un solo superlativo, ma con pochi termini riusciva a far capire e
a farti capire quanto fossero importanti o meno importanti le
cose nell’ambito del restauro architettonico, dell’esistente. È
vero che era un critico che sapeva cogliere anche gli aspetti negativi di un certo autore. Zanini credo che fosse un ingegnere
anche, Rossella, ma forse era solo ingegnere, la mostra aveva
quel titolo «Pietro Zanini architetto». Ecco una cosa che mi fa
pensare a Marco ogni settimana ma ogni giorno quando passo
davanti al campanile di Mortegliano ecco per dire un altro dei
mille riferimenti.
Fabiani: Infatti lo apprezzava.
Piva: lo apprezzava moltissimo ma io quando lo vedo non
penso che è il campanile più grande d’Italia, ma che me lo ha
fatto conoscere Marco Pozzetto. E un’altra cosa ci ha insegnato
che sono riuscito a trasferire, ecco a proposito del carattere multidisciplinare di qualsiasi azione progettuale o di lettura critica
di un monumento di un edificio di un’architettura. Il carattere
multidisciplinare – lo ha ben spiegato stamane il professor
Valcovich l’importanza della storia – noi studenti ignorantissimi
tali eravamo anche se venivamo dai licei, ai primi corsi di Marco
Pozzetto abbiamo appunto pensato che costui ci insegnasse veramente la cultura. Ma ci ha fatto capire anche – questo io tento
di trasmettere ai miei studenti nel corso di Restauro architettonico – quanto occorra sapere di archeologia e di storia in particolare naturalmente e della storia delle tecniche e della storia
dell’architettura e dell’archeologia e della storia dell’arte e poi
delle materie più prettamente scientifiche, come la chimica dei
131
materiali e la tecnica delle costruzioni. Marco aveva una grande
considerazione degli ingegneri, tanto è vero che anche su questo
mi ha convinto di non distinguere gli ingegneri dagli architetti,
ci sono i bravi e i meno bravi in un campo e nell’altro tanto è
vero che io uso soltanto il termine progettisti, noi cerchiamo di
insegnare a progettare senza distinzione di qualifiche, senza altre qualificazioni. Più che ricordare altre cose voglio ringraziare
Marco che è sempre con me, non voglio aggiungere altro perché
non ne ho neanche competenza a far la critica dell’architettura.
Dobbiamo credo tutti un grandissimo ringraziamento, sembra
una chiosa una conclusione e non preoccuparti Edino è soltanto
la mia conclusione. Grazie.
Valcovich: Piero, preziosissimo il tuo intervento.
Piva: scusami e non è stato ricordato quasi tutto di Marco
Pozzetto stamani e la sua opera (non si tratta di una svista) anche
quando vado alla Biennale ricordo Marco Pozzetto perché lui ha
curato la sessione la più straordinaria della Secessione di Vienna.
Valcovich: È difficile sintetizzare un dibattito che si è sviluppato a partire da una molteplicità di approcci e che ha messo
in campo una pluralità di suggestioni e riflessioni.
È difficile dare un senso concluso alla pluralità di considerazioni emerse perché, per loro natura, tali problematiche sono
soggette a riflessioni ed approfondimenti successivi.
Trieste è una città straordinaria, ricca di valori oggettivamente definiti nelle sue architetture, nel suo disegno urbanistico,
nei suoi valori culturali, nel suo contesto ambientale.
Marco Pozzetto ci ha insegnato, con il suo lavoro quotidiano, con il suo impegno nella didattica operativa, con le sue importanti relazioni nazionali ed internazionali, a valorizzare, far
conoscer e ri-conoscere questi valori.
Marco Pozzetto ha avuto la capacità di indagare i molteplici e plurimi contorni di questa nostra struttura urbana e territo132
riale, in un confronto che si è dilatato oltre a consuete misure per
coglierne le relazioni ed i possibili raccordi.
Lo avete sottolineato un po’ tutti. Marco è stato capace di
leggere la natura di questa città, di leggerne e capirne gli umori,
di interpretarne le molteplici istanze culturali, di evidenziarne i
ricchissimi intrecci economici e sociali.
Lo ha fatto con una sensibilità non usuale, negli storici
dell’architettura, di capirne i punti nevralgici di caratterizzazione della realtà urbana.
Lo ricordavano molti studiosi nei loro interventi.
Marco non si stancava mai di sottolineare i punti di innovazione che risaltavano nel lavoro di analisi documentale che sviluppava.
Il lavoro sul Porto di Trieste è da questo punto di vista di
straordinaria importanza.
La questione dei numerosi brevetti del calcestruzzo armato utilizzati nella costruzione di quell’importante infrastruttura,
viene indagata, sottolineata da Marco Pozzetto e successivamente presentata agli studiosi, per il notevole valore innovativo
che aveva assunto già nel periodo di costruzione della stessa.
Un campo di sperimentazione che nello stesso tempo è sperimentazione scientifica, tecnologica, architettonico-formale, urbanistica.
Un momento di forte sperimentazione connesso ad una importante fase di sviluppo economico della città che era venuto a
maturarsi in un quadro di nuove esperienze sperimentali e di
innovazione tecnologica di carattere europeo.
Avevamo sempre pensato, prima degli studi di Marco Pozzetto, ai grandi Magazzini del Porto di Trieste come delle grandi
opere realizzati con tecnologie tradizionali o di limitata innovazione.
È Marco Pozzetto che pone per primo il problema del Porto di Trieste quale importante campo di sperimentazione scientifico-tecnologica. Lo fa sulla base di un lungo lavoro di raccolta
dati, di indagini sul campo, facendo riferimento ad una capacità
133
di analisi critico-comparativa che mette in campo il quadro delle
sperimentazioni di settore di ambito europeo.
Entrano così in gioco le sue indagini sulla scuola di Vienna
di Otto Wagner, le esperienze in tema di tecnologie innovative
del calcestruzzo che stavano caratterizzando le grandi opere europee ed i suoi lunghi lavori sull’architettura moderna dell’Europa centrale..
Il grande e forte vento dell’innovazione spira a Trieste nel
Porto di Trieste.
È il Porto di Trieste che definisce la gerarchia della città e
ne determina la consapevolezza di essere ormai una grande città
multi-etnica e multi-culturale.
Nell’ultimo periodo stava ultimando i suoi lavori sulle
grandi opere di ingegneria dei trasporti quali ponti, ferrovie, canali navigabili. Aveva intuito il grande valore dell’opera di ingegneria, ma aveva capito, e cercava di evidenziarlo con i suoi lavori, il valore dell’innovazione, della tecnica, della scienza.
La lettura che Marco fa dell’opera di architettura è sempre
legata alla sua natura costruttiva, al contesto storico-sociale di
riferimento, all’ essere opera che si confronta e che di questo
confronto è il portato.
Questo il grande insegnamento che deriva dall’impegno
scientifico nel settore della Storia dell’Architettura di Marco
Pozzetto.
Ai giovani studiosi il compito di riprendere quegli insegnamenti, arricchirli, attualizzarli, in un rinnovato quadro di interessi delle materie storico-architettoniche.
NOTE
1 Il neogotico nel XIX e XX secolo, a cura di Rossana Bossaglia e
Valerio Terraroli, atti convegno, Milano 1989.
2 Un giardino in riva al mare. Il Parco di Miramar ieri e domani: vicende storiche e prospettive culturali, Trieste 1986.
134
EZIO GODOLI
TRIESTE, MITTELEUROPA, MEDITERRANEO
ATTUALITÀ DI MARCO POZZETTO
Il mio primo incontro con Marco Pozzetto, di cui avevo già
letto il libro del 1968 Jože Plečnik e la scuola di Otto Wagner,
risale alla metà degli anni settanta, non ricordo l’anno esatto, ed
è avvenuto a Bologna, in occasione di uno degli allora frequenti
convegni sui beni artistici e architettonici. Ne ho conservato memoria per due motivi: per avere conosciuto uno studioso a cui mi
accomunava l’interesse per l’architettura viennese attorno al
1900, ma soprattutto perché questa scoperta condivisione di progetti di studio era stata immediatamente utilizzata da Marco
come spunto per avviare una bonaria querelle conviviale con
Daria De Bernardi Ferrero a proposito dell’importanza di avviare una più approfondita riflessione storica sulla Vienna di
Wagner. Nonostante il mio rapporto difficile con una città ripiegata sul suo passato e chiusa verso la contemporaneità come
Firenze, in quella occasione ho compreso la fortuna che mi era
toccata di avere iniziato la carriera universitaria come assistente
in un istituto dove, grazie a Giovanni Klaus Koenig e a Franco
Borsi, agli studi di storia dell’architettura dell’ età contemporanea era assicurato uno spazio adeguato nell’attività di ricerca
come in quella didattica (due corsi obbligatori su tre).
Questa fiorentina era una anomalia in un panorama nazionale che vedeva allora una larga maggioranza di ordinari di storia dell’architettura arroccati in una posizione che contestava la
qualifica di «storici» a quanti si occupavano dell’architettura del
XX secolo e tendeva relegarli nella schiera dei «cronisti», con
135
conseguenze destinate a pesare sul loro futuro accademico. Ora
che pregiudizi di questo tipo dovrebbero essere considerati quasi del tutto estinti, l’anomalia fiorentina è entrata nel mirino del
nuovo conformismo normalizzatore delle ultime generazioni di
«professorini» che si stanno adoperando per smantellare il lascito di chi li ha preceduti.
Tornando a quegli anni settanta ricordo di avere percepito
il malessere di Pozzetto per la sua condizione di isolamento e
per gli oneri non indifferenti (anche economici) derivanti dalle
scelte dettate dai suoi interessi di ricerca, che erano fuori dal
coro non solo perché prevalentemente orientati verso l’età contemporanea. Per il suo europeismo, di cui sono espressione emblematica i suoi studi sulla Wagnerschule intesa come il tronco
principale di un complesso albero genealogico di scuole d’architettura che hanno avuto ramificazioni transnazionali, dando
vita ad una cultura architettonica caratterizzata dall’unità pur
nella varietà delle diverse declinazioni regionali, Pozzetto non
poteva non avvertire il disagio di una realtà universitaria che si
avviava ad investire massicciamente energie nella storia locale,
alla quale più o meno tutti abbiamo portato il nostro tributo.
Spesso si trattava di una scelta dettata dalla convenienza più che
da una convinta adesione intellettuale, da necessità economiche
che inducevano a rivolgersi alle fonti locali perché più facilmente accessibili, con risparmio di tempo, di lavoro e di denaro.
A studenti intenzionati a fare una tesi di storia dell’architettura
non si potevano che suggerire temi, le cui fonti fossero facilmente accessibili e a costi contenuti. L’orientamento diffuso
verso lo sviluppo della storia locale, il crescente interesse per le
microstorie, tra i cui frutti si possono annoverare storie in ponderosi volumi di regioni e città italiane, che hanno superato per
mole anche quella Storia d’Italia dell’Einaudi che era stato il
loro modello di riferimento, comportava diversi rischi: quello di
indurre lo studioso a un diminuita capacità di discernere le gerarchie di valori, per il rapporto di empatia che necessariamente
si veniva a sviluppare con l’argomento di cui si stava occupan136
do; di alimentare, sia pure involontariamente, un culto della storia locale che spianava la strada a celebrazioni ispirate da un’ottica strapaesana che comportavano una dissipazione di risorse
umane e dei denaro pubblico in iniziative e manifestazioni culturali volte ad incongrue rivalutazioni di opere e figure di modesta rilevanza al di fuori dello stretto contesto locale, sottraendo
così risorse a progetti di ricerca più impegnativi e di maggiore
rilevanza nazionale e internazionale. Quando ci si volgerà indietro per delineare un bilancio dell’eccezionale fioritura di studi
locali dell’ultimo mezzo secolo (che peraltro non è un fenomeno esclusivo dell’Italia, ma interessa altri paesi europei caratterizzati da una marcato regionalismo, come per esempio la
Spagna), non si potrà non rintracciarvi le radici delle derive culturali dei giorni presenti.
Perché proprio il ricordo Marco Pozzetto mi induce a queste riflessioni, in primo luogo perché fin dai primi tempi in cui
lo ho conosciuto ho avvertito in lui lo stesso mio disagio nei
confronti di certo provincialismo culturale italiano. Non ho
avuto modo di approfondire con lui l’argomento e di appurare
fino a che punto prevedesse i rischi impliciti in questi orientamenti intellettuali, ma il suo impegno in studi caratterizzati dalle loro implicazioni transnazionali (basti pensare alle figure alle
quali si è rivolto il suo interesse di ricercatore, da Plečnik, architetto a Vienna, a Praga e a Lubiana, a Max Fabiani che ha
lasciato segni significativi della sua opera a Vienna, a Trieste e
ancora a Lubiana, a quella eccezionale fucina attivi attraverso
l’Europa, che è stata la Wagnerschule) è già una risposta a questo interrogativo.
Uno degli insegnamenti più importanti e di maggiore attualità di Pozzetto, proprio oggi che tra molteplici difficoltà
sono elaborati in ambito europeo progetti di ricerca che ruotano
attorno al tema del ruolo svolto dagli architetti europei fuori dal
vecchio continente, è stato proprio l’impulso forte, impulso impresso con l’esempio alla storiografia dell’architettura italiana a
considerare la realtà nazionale in un più ampio quadro di riferi137
menti internazionali. In fondo, a ben vedere, è anche emblematica la scelta di Trieste come meta del suo volontario esilio, non
solo per la vicinanza alla amata Slovenia. Trieste, in quanto città
crocicchio, luogo di incontro, di diramazione e di transito di figure che hanno operato in ambito mitteleuropeo ma anche in
un’area mediterranea più ampia, rappresentava un punto d’osservazione congeniale a quelli che erano gli interessi di ricerca
di Pozzetto. Non mi soffermerò su un tema di cui penso si sia già
parlato, il ruolo di Trieste in ambito mitteleuropeo, ma vorrei
richiamare l’attenzione su un altro argomento, ricco di potenzialità per il futuro: l’importanza di Trieste come centro di studi
sulla presenza degli architetti italiani nell’area mediterranea.
Anche perché, da quindici anni a questa parte, è questo il tema
che maggiormente impegna la mia attività di ricerca e ritengo
quindi utile delineare un sintetico quadro della situazione degli
studi italiani e soprattutto accennare alle prospettive di ricerca
che potrebbero vedere Trieste impegnata con un ruolo affatto
secondario.
La storiografia dell’architettura italiana ha cominciato con
un notevole ritardo a rendersi conto dell’importanza del patrimonio rappresentato dall’architettura italiana d’Oltremare. Il
primo convegno che ha cercato di dare un quadro d’assieme
complessivo, seppure limitato solo ai paesi islamici del Mediterraneo, risale al 1990: il convegno Amate sponde...la presenza
dell’Italia nell’architettura del mondo islamico, i cui atti sono
stati pubblicati nel 1992. Curato da Attilio Petruccioli, questo
convegno è stato il primo avvenimento che ha dato l’avvio a una
serie di studi che, dai primi anni novanta, hanno cominciato a
moltiplicarsi. Si deve però anche osservare che non di rado gli
studiosi italiani si sono occupati dei connazionali italiani all’estero in seguito a provocazioni o a stimoli provenienti da altri
paesi mediterranei e europei. È qui presente Diana Barillari che
ha partecipato con me nel 1994 a un convegno sugli italiani di
Istanbul e può confermare che quel convegno non era stato concepito dall’Istituto Italiano di Cultura ma dall’Istituto Francese
138
di Studi Anatolici di Istanbul. L’allora direttrice dell’Istituto
Italiano di Cultura, Adelia Rispoli, donna dinamica e intelligente, non si è lasciata sfuggire l’occasione di salire sul treno che
altri avevano avviato, senza averne i mezzi finanziari, e di assicurare la riuscita della iniziativa. Quattro anni dopo un’altra dinamica direttrice di un Istituto di Cultura all’estero, Carla Burri,
direttrice dell’Istituto del Cairo, dopo che l’Institut Français
d’Archéologie Orientale aveva avviato un progetto di ricerca sugli italiani in Egitto, ha deciso di partecipare alla gestione del
progetto coinvolgendovi esperti italiani. Il convegno si è poi
concretizzato in una pubblicazione in lingua francese, alla quale
ha collaborato anche Diana Barillari, che trattava prevalentemente dell’opera degli architetti italiani in Egitto. Questi episodi
dovrebbero indurre a riflettere sulle ragioni che inducono architetti e studiosi di diversi paesi europei ad interessarsi del cospicuo patrimonio rappresentato dall’architettura italiana d’Oltremare. Al di là dell’importanza del suo recupero storiografico,
non vanno trascurate le prospettive di lavoro implicite nella riscoperta, nella rivalutazione e nel recupero di questo patrimonio, soprattutto per chi opera nel campo del restauro, del restauro urbano a quello architettonico. Progressivamente stanno infatti cadendo le pregiudiziali ideologiche su quella che era bollata, spesso impropriamente, come «architettura coloniale».
Anche in paesi come la Libia cominciano a manifestarsi i primi
segni di un interesse, promosso dal figlio di Gheddafi, ad avviare campagne di restauro di alcune delle più importanti architetture di Tripoli, con il coinvolgimento di studi professionali italiani, mentre vengono presi in considerazione anche progetti di
recupero degli archivi che conservano la documentazione sull’opera degli architetti italiani in Libia.
In paesi, che non erano colonie italiane, come per esempio
l’Egitto, le architetture progettate da architetti o costruite da
imprenditori italiani costituiscono delle porzioni importanti dei
centri storici di città come Il Cairo e Alessandria d’Egitto. È
fresco di stampa un monumentale volume che si intitola Italy in
139
Alexandria di Mohammed Fouad Awad: si tratta di un atlante di
600 pagine, dal quale risulta che non solo la Corniche ma gran
parte del centro di Alessandria d’Egitto è opera o di imprese
costruttive o di architetti italiani. E il complesso degli immobili e delle opere pubbliche prodotto da architetti e imprenditori
italiani configura una realtà urbana di grande estensione che,
accanto ai resti archeologici e ai monumenti dell’architettura
islamica, costituisce in Egitto, come in altri paesi dell’Africa
settentrionale e del Medio Oriente, i nuclei principali delle città
storiche.
È per questo che spagnoli, francesi ora anche inglesi dimostrano negli ultimi tempi un forte interesse per questo patrimonio, che, per le condizioni climatiche particolari che ne accelerano il degrado, dovrà essere oggetto di ampie campagne di restauro. Non a caso la Comunità Europea ha aperto delle linee di
finanziamento (per esempio Euromed Heritage) di progetti concernenti l’area euro-mediterranea. In questa riscoperta del patrimonio dell’architettura italiana d’Oltremare, che non è l’unico
europeo, ma in paesi come la Tunisia e l’Egitto ne costituisce
una parte cospicua, l’Italia è in una posizione di grandissimo
svantaggio per varie ragioni. In primo luogo per la condizione
particolare nella quale si trova la ricerca italiana: noi siamo infatti ricercatori part time, dovendo fare innanzitutto i docenti
universitari e solo nei ritagli di tempo dell’attività didattica possiamo dedicarci alla ricerca. Anche quando in Italia il CNR non
era una struttura in via di smantellamento, pressoché inesistente
era al suo interno lo spazio riservato alle scienze umane. Paesi
come la Francia dispongono invece di due strutture di ricerca,
l’Università e il CNRS. L’importanza attribuita ai settori di studio sui quali mi sono soffermato è verificabile accedendo via
rete ai siti di strutture pubbliche francesi ce hanno destinato
propri dipartimenti allo studio delle architetture francesi fuori
del continente europeo.. Questo che vi sto mostrando è il sito
del dipartimento INVISU, istituito tre mesi fa all’interno
dell’INHA (Institut National d’Histoire de l’Art) che è un’ema140
nazione diretta del Ministero della Cultura. Questo dipartimento, che dispone di una sede prestigiosa nella Galerie Vivienne,
uno dei più famosi passages storici di Parigi, è diretto da
Mercedes Volait che da diversi anni si occupa dell’architettura
francese in Egitto, nell’Africa settentrionale e nel Medio
Oriente, e ha svolto un ruolo pionieristico nella riscoperta della
presenza degli architetti italiani in Egitto e dell’architetto goriziano Antonio Lasciac. L’organico di questo dipartimento è costituito da dieci persone che a tempo pieno si occupano dell’apporto europeo all’architettura e all’urbanistica dei paesi della
riva meridionale del Mediterraneo. Anche altre strutture pubbliche di ricerca in Francia hanno molto investito, in questi ultimi
anni, sullo studio dei lasciti del passato coloniale. Di fronte a
una simile concorrenza gli studiosi italiani si trovano in condizioni di forte svantaggio, che incoraggiano un antagonismo destinato ad esprimersi in disegni velleitari per la mancanza di
adeguati sostegni istituzionali e per le ambizioni sproporzionate
alle risorse disponibili.
Le uniche prospettive praticabili sono, a mio avviso, quelle
di una integrazione e di una collaborazione europea che, accantonando insostenibili velleità di competizione, punti ad una cooperazione, secondo una linea che, per la mia esperienza personale, è foriera di discreti risultati. Il primo è il volume, appena
uscito, The Presence of Italian Architects in Mediterranean
Countries (Maschietto Editore, Firenze), che raccoglie gli atti di
un convegno internazionale tenutosi nel novembre 2007 nella
Biblioteca di Alessandria d’Egitto e pubblicati in lingua inglese
che è la lingua occidentale più diffusa negli ambienti intellettuali egiziani. Questa iniziativa, finanziata con fondi di un progetto
di ricerca di interesse nazionale, ha inteso inaugurare una serie
di incontri periodici, volti ad approfondire e diffondere la conoscenza dell’opera degli architetti italiani attivi nei paesi del
Mediterraneo, che dovrebbero succedersi con una frequenza
biennale: il prossimo, programmato per il dicembre 2009 a
Tunisi, ha lo stesso titolo e come sottotitolo la precisazione
141
Maghreb. Mentre nel primo convegno di Alessandria d’Egitto
gli interventi hanno riguardato un arco geografico che andava
dall’Istria al Marocco, i futuri convegni dovrebbero mettere a
fuoco aree geografiche più circoscritte fornendo aggiornamenti
sulla presenza di architetti e imprese italiane che le nuove acquisizioni documentarie rivelano essere stata più estesa e consistente di quanto rivelassero le fonti bibliografiche di riferimento.
E ancora deve esser citata l’iniziativa del Ministero degli
Affari Esteri che, nell’ambito della rassegna «Convergenze mediterranee», ha promosso tre mostre sugli architetti e ingegneri
italiani in Siria e Libano (Beirut, aprile 2008; Damasco, maggio
– giugno 2008), in Egitto (ottobre – novembre 2008) e in
Marocco (dicembre 2009).
In conclusione vorrei introdurre alcune considerazioni su
quello che potrebbe essere il ruolo di Trieste, rispetto soprattutto
a temi e progetti di ricerca che stanno suscitando un notevole
interesse in altri paesi europei. Un tema di ricerca sul quale possiamo registrare, in Francia come in Inghilterra, una notevole
convergenza di interessi e un forte investimento di energie, è
quello della progettazione e della costruzione del canale di Suez
e delle città del canale. Trieste è una città, basti citare l’archivio
Revoltella, che in questo ambito di ricerca avrebbe molto da
dire. Un altro tema di grande importanza, al cui approfondimento Trieste potrebbe recare un significativo contributo, è quello
del ruolo come promotori immobiliari dei suoi istituti di assicurazione (Assicurazioni Generali e Ras in testa) che in tutta l’area
mediterranea non solo hanno costruito le proprie sedi, ma si
sono anche impegnati in una attività di promozione edilizia, soprattutto dove ostacoli di natura politica non erano frapposti agli
investimenti italiani. Una terza linea di ricerca che, dai dati finora disponibili, sembra meritevole di sviluppi significativi è quella concernente il ruolo delle imprese edilizie triestine nell’esportazione di materiali da costruzione, di competenze professionali
e di maestranze verso i paesi della riva meridionale del
Mediterraneo. Infine un altro argomento sul quale sono solleci142
tati studi approfonditi è quello che riguarda il ruolo di Trieste
come centro di formazione di architetti, o di figure professionali
che si fregiavano di questo titolo, attivi nei paesi della riva meridionale del Mediterraneo. Nelle ricerche svolte da Mercedes
Volait negli archivi della Heliopolis Housing and Development
Company, che raccolgono la documentazione sulla città nuova
di Heliopolis, costruita dai belgi a partire dal 1904 alla periferia
del Cairo, sono stati trovati disegni di architetti i cui nomi erano
seguiti dalla stampigliatura «architetto diplomato all’Istituto
Cesare Battisti di Trieste», per esempio Riccardo Toman e
Edoardo Cherini. Lo stesso titolo è esibito da progettisti e imprenditori che hanno operato in Tunisia e in altri paesi. A lato di
queste prospettive di ricerca, un argomento più esplorato ma non
certo esaurito è quello degli architetti che dalla Venezia Giulia e
dal Friuli sono andati a operare nei paesi delle rive orientale e
meridionale del Mediterraneo. L’attività di D’Aronco a
Costantinopoli e nell’impero ottomano è stata sufficientemente
approfondita anche se sussistono alcune, poche, zone d’ombra;
una più approfondita conoscenza dell’opera di Lasciac richiede
ancora notevoli approfondimenti, che si scontrano con gli ostacoli derivanti dalla dispersione dell’archivio dell’architetto (in
parte di proprietà privata) e dalle difficoltà di accesso e di consultazione dei materiali conservati negli archivi pubblici egiziani. Su altre figure che occupavano posizioni di rilievo nell’ambiente professionale cairota, come i fratelli Antonio e Francesco
Battigelli che erano triestini e hanno associato il loro nome ad
un’opera come la villa Zogheb, una delle prime e più importanti
rivisitazioni dell’architettura civile islamica dell’Egitto, condotta con scrupolo filologico, si dispone di informazioni del tutto
insufficienti. E ci sono tanti altri nomi di triestini giuliani e friulani dei quali, come dei Battigelli, si sono perse le tracce.
Raccogliendo il lascito intellettuale di Marco Pozzetto, il suo
spirito, il suo incoraggiamento a interpretare Trieste come un
centro di convergenza e diramazione di diverse culture architettoniche, penso che il ruolo della città, tra la seconda metà
143
dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, come nodo di relazioni tra la Venezia Giulia e i paesi mediterranei rappresenti un
campo di ricerca per gli studi di storia dell’architettura meritevole di adeguati investimenti. E l’importanza di un tale investimento per i giovani studiosi e per i giovani ricercatori in una
realtà di integrazione euro-mediterranea non può essere misurata soltanto sulla base delle ricadute immediate e concrete rappresentate dalle prospettive di lavoro nel settore del restauro architettonico e degli interventi di riqualificazione urbana. Non meno
importanti, soprattutto ai fini dello sviluppo del dialogo interculturale, sono le ricadute in termini di immagine e di valorizzazione del lavoro italiano di una riflessione storica pacata, scevra da
distorsioni ideologiche e da velleità di riaffermazione di un primato intellettuale (vanità alla quale non sempre gli europei sanno rinunciare), dell’apporto fornito dai nostri connazionali, dagli
imprenditori edili agli architetti, dai capimastri e dalle maestranze artigiane ai muratori, alla costruzione delle città dell’area mediterranea. Grazie per l’attenzione.
Valcovich: Grazie professor Godoli, mi sembra che recuperando l’insegnamento di Marco Pozzetto viene rilanciato un
altro traguardo un’altra meta in prospettiva, e quindi accogliamo
ben volentieri questo impulso. Certo che il momento è tragico
per quanto riguarda i fondi per la ricerca universitaria, però il
tema è certamente di grandissimo interesse. E mi pare che quel
possibile tentativo di recuperare di verificare se questa ipotesi
sia possibile credo che debba esser fatto. Io credo che siamo arrivati alle conclusioni, mi pare che il lavoro di oggi sia stato un
lavoro molto buono non soltanto per l’affluenza di pubblico,
quanto per le cose che ci siamo detti e certamente il contributo
conclusivo del professor Godoli aggiunge ulteriori elementi di
prospettiva a un dibattito che ne era già ricco. E quindi nel nome
di Marco ricordando il suo forte contributo alla cultura internazionale di Trieste, io credo che possa essere raccolto e mi piacerebbe dire che ci rivedremo al più presto e che si possa pensare
144
fra qualche anno di ritrovarsi recuperando quanto abbiamo detto
oggi per la presentazione degli atti (forse anche prima di qualche
anno) e in quell’occasione rilanciare ancora e verificare se quello che ci siamo detti oggi può essere portato avanti. Grazie a
tutti, grazie a tutti quelli che hanno partecipato naturalmente a
Lella e a Barbara in modo particolare. Grazie a tutti.
«... Mi sento una specie di Don Chisciotte», 1953
(collezione privata)
145
Veduta di Porto vecchio a Trieste con i magazzini
Interno di un magazzino del Porto
146
MARCO POZZETTO
ARCHITETTURA CENTROEUROPEA
DI UNA CITTÀ MEDITERRANEA
Città contraddittoria, nuova, ma di origini antichissime,
probabilmente greche, visto l’impianto urbanistico e gli accenni
al villaggio Tergestra di Callimaco nei ‘Frammenti…’, Trieste
visse di luce riflessa per quasi due millenni.
Divenuta colonia romana, fu fortificata dall’imperatore
Augusto; nella tarda antichità appartenne alla X Regio Venetia
ed Histria. Devastata dai Goti passò al Bisanzio, poi ai Longobardi, quindi ai Franchi e, nel decimo secolo, al Regno d’Italia;
nel 948 Lotario la affidò ai Vescovi che non esercitarono la signoria, lasciando al Comune di consolidare quei liberi ordinamenti che avrebbero segnato fino ad oggi il modo di essere ella
città. Per ragioni economiche Trieste tentò di opporsi alla Serenissima poi, con la Dedizione del 1382, scelse l’Austria. Per tre
secoli la scelta risultò errata; la città si ridusse a livello delle
cittadine rivierasche minori dell’Istria e tuttavia mantenne e potenziò le autonomie comunali.
Le fortune di Trieste iniziarono quando gli Asburgo, sulla
scia di Pietro il Grande, decisero di aprire una finestra sul Mediterraneo. Nel 1719 infatti, per edito di Carlo VI, Trieste divenne Freyhafen (porto franco), ma solo dopo la concessione delle
facilitazioni economiche e fiscali da parte dell’imperatrice Maria Teresa la città cominciò ad attrarre le genti del Continente e
del Mediterraneo.
Alla fine del diciottesimo secolo Trieste è una città doppia
composta dal nucleo storico, una combinazione di acropoli anti147
ca con l’insediamento medioevale di tipo nordico, coronato con
castello e murato, ma con la facies interna delle città italiane e la
città dell’economia, situata fisicamente fuori mura e diretta dagli
immigrati per quanto riguardava l’economia: Borsa, assicurazioni, banche, navigazione ed industria pesante. Il loro gusto per
il rischio produsse ricchezze favolose – spesso naufragate assieme ai vascelli – ed anche il desiderio di integrarsi: si contano
peraltro sulle dita di una mano gli spettabili mercanti cooptati
nel Consiglio dei Quaranta, organo massimo del Comune. L’era
napoleonica contribuì ad unificare – parzialmente – gli abitanti
e, di conseguenza, Trieste ebbe quasi un secolo di continua benché ineguale ascesa; le attività vocazionali vennero razionalizzate. Le Assicurazioni Generali e la Riunione Adriatica di Sicurtà
(RAS) sostituirono la miriade di piccole società private di assicurazioni, mentre il Lloyd Austriaco (successivamente Triestino) con l’annesso sistema di cantieri navali divenne la principale società di armamento navale dell’impero austro-ungarico.
Alla metà del diciannovesimo secolo l’arciduca Massimiliano (fratello dell’imperatore) scelse di vivere a Trieste. Da comandante della Marina imperiale diresse la sua modernizzazione, mentre Ludwig von Brück sostenuto dai maggiori statisti
austriaci dell’epoca da Metternich ad Eichhoff, Kolowrat, Kuebeck, Stadion, Schwarzenberg, pose la basi del Lloyd, la cui seconda sezione era preposta alle assicurazioni navali e la terza
alle attività editoriali. La presenza di queste personalità diede
alla città un forte impulso culturale, scientifico e tecnologico.
L’Arsenale del Lloyd (arch. Christian Hansen) e il Castello di
Miramar (ing. Carl Junker) divennero modelli per Vienna: La
borghesia, a differenza dei padri, qualificò il proprio stato chiamando architetti affermati per costruire palazzi sempre più lussuosi e duraturi sui terreni sottratti al mare dagli ingegneri di
formazione viennese. Vennero costruite grandi infrastrutture
come la Ferrovia Meridionale Vienna – Trieste a doppio binario
inaugurata nel 1858 e considerata per alcuni decenni la più ardita del continente (progetto dell’ingegnere Carlo Ghega), il com148
plesso del Porto Vecchio e di quello di Sant’Andrea. Trieste, il
Primo porto dell’impero attraeva irresistibilmente le genti
dell’immenso hinterland dell’impero; all fine dell’ottocento divenne, per il volume dei traffici, il quinto porto dell’Europa.
Ad eccezione dell’architettura, piuttosto unitaria perché
aveva conservato i ritmi neoclassici anche durante il periodo
dello storicismo, la cultura rimase estremamente sfaccettata.
Collezioni private vennero trasformate per lascito testamentario
in musei (Revoltella, Scaramangà, Morpurgo), altre furono
smembrate (Caccia). Musei vennero creati dalle Comunità greco
ortodossa, serbo ortodossa e israelitica, fondamentali (assieme
all’augustana ed evangelica riformata) per amalgamare i cittadini di provenienze diverse nel sette- e nell’ottocento.
In ben nove teatri fiorì la vita musicale e teatrale; scultori e
pittori non riuscivano a far fronte a tutte le commesse, sia pure
di decorazione. Sorsero in numero cospicuo associazioni letterarie e politiche con le relative pubblicazioni periodiche. Verso la
fine del secolo diciannovesimo vi si aggiunsero le istituzioni
della minoranza slovena che ammontava al 20 % della popolazione, Nonostante il complesso incontrarsi e scontrarsi delle culture, l’Austria per ragioni politiche non concesse alla città l’Università.
Se in politica Trieste oscillava tra la mentalità medioevale
e le proposte transnazionali, dal punto di vista etnico visse nella
felice condizione di città italiana all’estero, visto che prendeva
in considerazione solo i migliori aspetti artistici, scientifici, culturali ed economici della madre Patria, trascurando quelli meno
nobili, protetta nella vita quotidiana dalla burocrazia austriaca e,
talvolta, ma non spesso, oppressa dalla polizia del multinazionale impero. Un esempio di repressione culturale fu la negazione
dell’Università, che sarebbe divenuta il centro dell’irredentismo,
esattamente come accadde per Lubiana, dove doveva essere represso l’ irredentismo sloveno.
Alla fine del settecento vi si litigava in un buon numero di
lingue del Mediterraneo, ma la lingua del Tribunale Marittimo e
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Commerciale fu l’italiano; nell’ottocento i consigli di amministrazione della maggiore parte di società commerciali, industriali e assicurative usarono il tedesco, ma tutti gli atti, verbali e la
gran parte dei documenti fu scritta in italiano. Il plurilinguismo
implicava certamente una migliore comprensione di altre culture, prima che si fosse creato l’abbozzo di una cultura propria,
basata sulla tolleranza e che, solo apparentemente può essere
considerata centroeuropea, allo stesso modo come l’aspetto formale e architettonico è solo apparentemente mediterraneo.
Gli equilibri, se mai fossero realmente esistiti, si spezzarono nel 1918, quando un terzo dei 230.000 abitanti tornò negli
stati eredi dell’impero degli Asburgo (Austria, Cecoslovacchia,
Polonia, Ungheria, Romania, Unione Sovietica, Jugoslavia) o
negli stati preesistenti, (Germania e Svizzera soprattutto). Il vuoto venne rapidamente riempito con gente proveniente dalle varie
regioni italiane, in prevalenza centrali. Alla metà degli anni venti furono chiuse per legge le scuole private bilingui delle comunità religiose. La minoranza autoctona slovena venne pesantemente osteggiata: le sue istituzioni economiche, culturali e scolastiche furono costrette a cessare l’attività mentre la maggior
parte dei cognomi venne italianizzata. Dal balcone del Municipio della ex città cosmopolita Mussolini nel 1938 proclamò le
leggi razziali. D’altro canto Roma privilegiò Trieste con le commesse ai cantieri navali, e con notevoli interventi urbanistici ed
edilizi, tendenti a modernizzare l’impianto generale della città e
a mettere in evidenza la «romanità» delle sue origini. Il porto
peraltro solo nel 1936 raggiunse il volume dei traffici del 1914.
Dal 1943 al 1945 Trieste fu inclusa nel Terzo Reich come
capoluogo della regione Adriatisches Küstenland. In seguito
venne occupata per quaranta giorni dall’esercito di liberazione
jugoslavo, per essere amministrata, dopo l’accordo tra gli alleati,
da un governo militare anglo americano dal 1945 al 1954, quando la città venne restituita all’Italia.
Il periodo fu tragico per le rese dei conti: razziale da parte
dei tedeschi, etnica tra gli estremisti slavi e italiani, ideologica
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mista a motivazioni private tra i fascisti e i comunisti, non di
rado della stessa etnia. I nazisti organizzarono l’unico campo di
sterminio a meridione delle Alpi ed anche il solo inserito nel
tessuto di una città. A sua volta l’armata jugoslava usò tecniche
sperimentate durante gli anni della rivoluzione (oltre che della
guerra ai nazifascisti), vale a dire l’eliminazione diretta dei nemici o presunti tali. La politica sostanzialmente neutrale del governo militare alleato nelle dispute tra gli italiani e gli alleati
jugoslavi non piacque a nessuno e la situazione geopolitica in
cui si venne a trovarsi la città piacque ancora di meno.
A sei chilometri dal centro di Trieste aveva inizio la famigerata cortina di ferro tra il mondo occidentale e quello orientale
che avvolgeva la città e il suo territorio e che nei pressi di Monfalcone distava soli 1800 metri dal mare: la striscia con tutti i
collegamenti tra Trieste e l’Italia, ferrovia, strada, autostrada, acquedotto, elettrodotto, linee telefoniche e telegrafiche, rese il territorio strategicamente indifendibile per cui la città isolata iniziò
il proprio declino nonostante le provvidenze dei governi. Il tramonto delle navi passeggeri iniziato negli anni sessanta fece venire meno la cantieristica con il relativo indotto industriale e artigianale, vale a dire una delle principali vocazioni storiche della
città. Il fatto provocò la chiusura di otto cantieri navali e di un
non precisato numero di stabilimenti industriali. La Riunione
Adriatica di Sicurtà trasferì la sede a Milano. I traffici del porto
subirono le conseguenze della perdita o, quanto meno, della
chiusura del retroterra e dei mercati dell’Europa centro-orientale.
Al notevole sviluppo dell’Università si aggiunse alla fine
degli anni sessanta il Centro Internazionale di Fisica Tecnica,
ambìto dai premi Nobel, a cui seguirono il Sincrotrone e la Scuola Internazionale superiore di Studi avanzati, istituzioni di prestigio internazionale, nonché l’Area di Ricerca scientifica e tecnologica ed altre istituzioni.
Con il crollo dell’Unione Sovietica e la sparizione della
Cortina di ferro del 1989 e con il progetto di associazione all’Unione Europea di buona parte dei territori che ottantacinque anni
151
fa appartenevano all’impero degli Asburgo hanno – in teoria –
ripristinato il retroterra e reso le condizioni commerciali di Trieste simili a quelle antecedenti il 1914. In pratica dovranno essere
superate grandi difficoltà di varia natura: politiche, sociali, infrastrutturali e del ripristino della rete di relazioni. A vantaggio
della città rimane però la sua posizione geografica che nessuna
globalizzazione potrà scalfire.
Nota
Ogni saggio normalmente sostiene una tesi. Si sa che le
città conservano caratteristiche peculiari del periodo della loro
particolare fioritura. Il principio vale anche per Trieste. La tesi
che sostengo è la seguente: Trieste ha avuto uno straordinario
sviluppo urbano nei decenni dell’architettura storicistica. Ed è a
questo stile che alcuni tra i suoi migliori architetti hanno dato
contributi originali. Inoltre, a differenza delle altre città l’architettura triestina è costruita prevalentemente in pietra. Probabilmente il futuro scoprirà che la città può essere considerata come
la capitale dell’ultimo periodo storicistico.
Contributo redatto per il sito Nextrieste realizzato dalla sezione
Architettura Disegno Urbanistica e Storia della Facoltà di Ingegneria di Trieste in occasione della partecipazione alla Biennale Architettura 2002 a Venezia.
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GINO PAVAN
POSTFAZIONE
Gli Atti della giornata di studio dedicata a Marco Pozzetto
escono dopo cinque anni. Siamo lieti di ospitarli nell’undicesimo Extra Serie dell’«Archeografo triestino».
Lo ritengo un doveroso segno di gratitudine per quanto
Marco ha dato alla Società di Minerva ma anche perchè è un
ringraziamento a Edino Valcovich e a Diana Barillari i quali, con
passione e capacità di docenti, da tredici anni portano sulla cattedra minervale professori e allievi della Facoltà di Ingegneria
del nostro Ateneo.
A loro dobbiamo l’organizzazione dell’incontro del due
febbraio 2009 ospitato per l’intera giornata nell’Aula Magna della Scuola Superiore di Lingue per Interpreti e traduttori a Trieste.
Proprio nella Národni Dom, opera dell’architetto Max Fabiani
del quale Pozzetto è stato il grande studioso.
Apre la raccolta degli Atti Diana Barillari con un profilo a
tutto tondo di Marco Pozzetto, pubblicato in precedenza su «Il
Piccolo» di Trieste. Segue un chiaro regesto analitico sull’importanza degli studi dell’illustre storico dell’architettura, ed infine
annuncia l’incontro che stava preparando con Edino Valcovich,
Presidente del corso di laurea specialistica in Ingegneria edile.
Il convegno è presieduto dallo stesso Valcovich. Dopo i
rituali saluti dei colleghi della Facoltà di Ingegneria (professori
Roberto Camus e Fabio Santorini) e dell’Assessore alle Politiche di Pace e Legalità della Provincia di Trieste Dennis Visioli,
egli mette in evidenza il valore aggiunto portato alla Facoltà da
153
Pozzetto, anticipatore ed appassionato storico dell’architettura
Mitteleuropa e di Trieste e annuncia l’ordine dei lavori dell’intera giornata. Sarà un coro a più voci in onore di Marco Pozzetto
uomo, maestro e studioso esemplare.
A lui dedico un racconto dei tanti anni passati assieme coltivando analoghi interessi di studio e di lavoro. Risultano evidenti la sua particolare dedizione alla Società di Minerva e i contributi dati all’«Archeografo triestino» da lui e dai suoi allievi
All’incontro non poteva mancare la testimonianza di Micaela Viglino Davico già sua assistente al Politecnico di Torino
che gli dedica una brillante memoria sulla Diaspora di giuliani,
friulani, trentini a Torino, a ricordo delle impegnative indagini
dedicate, negli anni Sessanta, assieme a Marco al MIAR torinese.
Damjan Prelovšek, preziosa presenza di un intellettuale
sloveno amico di Marco, il quale, con viva partecipazione, ci
riferisce sulla travagliata infanzia di Pozzetto e su molti altri episodi inediti della sua vita. Testimonia gli studi fondamentali dell’amico che precorrono nel tempo non solo la conoscenza dell’opera di architetti sloveni quali Jože Plečnik, Max Fabiani, Ivan
Vurnik allievi della scuola di Wagner, ma anche sui lavori di
Edvard Ravnikar rivolti alla moderna Lubiana.
Ettore Sessa, docente alla Facoltà di Architettura di Palermo, ha conosciuto Marco nell’ambito dei seminari tenutisi in
quella città. Illustra i suoi meriti avendo egli, per la prima volta,
delineato i particolari rapporti della Wagnerschule di Vienna con
Palermo e gli architetti che hanno operato nel Mediterraneo dalla Turchia all’Egitto, grazie alla conoscenza di tanti disegni divulgati dalla rivista «Der Architekt».
Su La Mitteleuropa e Marco Pozzetto scrive Diego Kuzmin,
dell’ICM di Gorizia. Ricorda la maturazione degli studi su Max
Fabiani. Ci propone motivi per la miglior comprensione della
doppia nazionalità di Marco. Così evidenti nell’amore che riservava alla sua «bianca Lubiana» e alla città di Trieste.
Renato Tubaro, ideatore nel 1966 a Gorizia dell’Istituto per
gli Incontri Culturali Mitteleuropei (ICM) riconosce che per l’I154
stituto Pozzetto è stato «un pilastro fondamentale fino alla sua
scomparsa». Egli può vantare con l’architetto un’amicizia quarantennale ed è stato un piacere sentirlo riferire su episodi sconosciuti della su vita. Lo aveva incontrato, ancora studente, proprio nel 1966, quando presentò a Gorizia il suo primo lavoro
sull’architetto Fabiani.
La Tavola rotonda presieduta da Edino Valcovich segna la
seconda tappa dell’incontro. Vi partecipano Rossella Fabiani,
Maria Masau Dan, Vilma Fasoli, Piero Piva e lo stesso Valcovich.
Numerosi gli argomenti trattati, sulle particolari qualità
umane, le innate doti di docente, la validità degli studi storici
che hanno distinto Marco Pozzetto..
Ezio Godoli a metà degli anni Settanta lo aveva incontrato
a Bologna in uno dei convegni sui beni architettonici e artistici.
Ricorda il disagio di Marco, europeista, in quel ambiente nazionale di cultori e docenti che privilegiavano tematiche sull’architettura contemporanea. Una fioritura di microstorie del XX secolo che ha significato dissipazione di risorse umane e di denaro
pubblico osserva Godoli.
Sull’esempio di Pozzetto europeista, anche lui come altri,
hanno voluto, invece, estendere l’indagine sull’attività edilizia
degli italiani e degli europei nei paesi Mediterranei dell’Asia e
dell’Africa, dalla Turchia al Marocco.
155
Le pubblicazioni dell’Archeografo Triestino, fondato nel 1829 da Domenico
Rossetti, comprendono:
4 volumi della I Serie (voll. I-IV, 1829-1837);
24 volumi della II (nuova) Serie (voll. V-XXVIII della raccolta, 1869-1902),
l’ultimo dei quali contiene l’INDICE GENERALE (onomastico, cronologico, geografico, epigrafico), a cura di Alberto Puschi e Piero Sticotti, dei 28 volumi della I e
della II Serie per gli anni 1829-1902;
21 volumi della III Serie (voll. XXIX-XLIX della raccolta, 1903-1936) con un
supplemento in due fascicoli al vol. XV della III Serie (XLIII della raccolta) e un
INDICE GENERALE PER IL CENTENARIO, compilato da Piero Sticotti, con prefazione storica ai volumi per gli anni 1829-1929;
73 volumi della IV Serie (voll. L-CXXI della raccolta, dal 1938 - il n. CVII e il
CXVIII sono doppi), un INDICE GENERALE (1829-1991) in ricordo del centocinquantesimo anno della morte di Domenico Rossetti e un INDICE GENERALE
(1829-2004) in ricordo di Pietro Nobile, curati da Gino Pavan.
11 volumi Extra Serie:
11) Gino PaVan, Lettere da Vienna di Pietro Nobile (dal 1816 al 1854), (voll.
I-II), 2002
12) catErina sPEtsiEri BEschi, G.L. Gatteri e la Rivoluzione greca (1821), 2003
13) VEsna cunja rossi, I gesuiti a Trieste e gli Asburgo nel Seicento, 2005
14) lorEnzo nuoVo, Manlio Malabotta critico figurativo, 2006
15) katharina schoEllEr, Pietro Nobile direttore dell’Accademia di Architettura di Vienna (1818-1849), 2008
16) attilio GEntilE - GiusEPPE sEcoli, La Società di Minerva (1810-1960),
2009.
17) Gino PaVan, La Cappella dell’Episcopio a Trieste, di Ivan Vurnik (19131914), 2010.
18) 200° della Società di Minerva a Trieste (1810-2010), a cura di Gino Pavan e
Giuliana Marini, 2011.
19) camillo DE FrancEschi, L’Arcadia Romano-Sonziana e la Biblioteca Civica
di Trieste, 2011.
10) carlo noBilE, L’ultima bugia, autobiografia di un socialista istriano, 2012.
11) Marco Pozzetto, storico dell’architettura, 2013.
4 volumi della I Serie (voll. I-IV, 1829-1837) in Facsimile (400 copie numerate
ognuno), 2005-2006-2007-2008.
Quasi tutti i volumi della IV Serie e molti delle precedenti, l’INDICE GENERALE (1829-2004), i voll. degli Extra Serie ed i Quaderni della Società di Minerva non esauriti, si possono acquistare presso la Segreteria della Società di Minerva, 34122 Trieste, via Imbriani 5, tel.-fax 040661030, www.societadiminerva.it –
societadiminerva@gmail.com o presso il nostro distributore «Studio Bernardi
Numismatica», 34121 Trieste, via Roma 3, tel. 040639086, fax 040630430.
QUADERNI
DELLA SOCIETÀ Dl MINERVA
Supplemento dell’
Direttore responsabile: Gino Pavan
N. 01 - CESARE PAGNINI - Domenico Rossetti a 200 anni dalla nascita (esaurito)
N. 02 - UCCI CVITANICH - Dal minuetto alla Marsigliese
N. 03 - BRUNO COCEANI - I Cosulich (esaurito)
N. 04 - BRUNO COCEANI - La mia lunga fraterna amicizia con Vittorio Tranquilli (esaurito)
N. 05 - RINALDO DEROSSI - La pipa di Giotti (esaurito)
N. 06 - MARINO GENTILE - Attilio Hortis nel cinquantenario della morte
N. 07 - CESARE PAGNINI - Casanova a Trieste (esaurito)
N. 08 - RINALDO DEROSSI - La Trieste di Paolo Belli in disegni d’album di
quarant’anni fa
N. 09 - BRUNO TONAZZI - Paganini a Trieste
N. 10 - UCCI CVITANICH - Piccolo mondo Biedermeier (p. I) (esaurito)
N. 11 - CESARE PAGNINI - Impressioni di vita triestina (1776-1777) (esaurito)
N. 12 - UCCI CVITANICH - Piccolo mondo Biedermeier (p. II)
N. 13 - MARIO NORDIO - Triestinità di Ferruccio Busoni
N. 14 - VALERY LARBAUD - Trieste mi piace (a cura di Marino Bolaffio)
JEAN FRANÇOIS FOGEL - Morand-express (a cura di Ucci Cvitanich)
N. 15 - RINALDO DEROSSI - Taccuino carsico, storie e fantasie dell’altopiano
N. 16 - ANTONIO TRAMPUS - Un commerciante di Anversa distintosi a Trieste
F.E.J. Baraux 1750-1829
N. 17 - UCCI CVITANICH - Piccolo mondo Biedermeier (p. III)
N. 18 - LIBIA PERPICH - Interni di caffè ed altri disegni (presentazione di
Giorgio Voghera)
N. 19 - VITO LEVI - Dove le parole finiscono… (note per i programmi di concerto scelte da Bianca Zanettovich)
N. 20 - AURELIA GRUBER BENCO - Racconti - Una «storiella» - Due «raccontini», a cura di B. Maier (presentazione di G. Pavan)
N. 21 - GINO PAVAN (a cura) - Il monumento a Domenico Rossetti e il suo
restauro
N. 22 - BARBARA MAZZA BOCCAZZI - Francesco Algarotti: un esperto d’arte
alla corte di Dresda