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FRANCESCO D'ASSISI: LA PRATICA DEL PERDONO

117 stefano sangiorgio FRANCESCO D’ASSISI: LA PRATICA DEL PERDONO Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore.1 Francesco d’Assisi Introduzione Francesco d’Assisi è riconosciuto in modo unanime come santo e come poeta. È raro invece che lo si consideri filosofo, anche se il suo Ordine religioso ha espresso nel corso dei secoli pensatori straordinari. Ma Francesco no: a seconda che si ami o meno la filosofia, si dice di solito che il frate di Assisi si è fermato prima o è andato oltre la filosofia. Il nostro contributo vorrebbe mostrare invece la presenza di un pensiero filosofico, coerente anche se non sistematico, proprio negli scritti di Francesco; di tale pensiero vorrebbe anche provare la grande efficacia nel rispondere a questioni perenni, prima fra tutte il retto comportamento di fronte al “male”. Per comprendere la posizione filosofica di Francesco d’Assisi è imprescindibile fare riferimento alla sua biografia, vero seminato dal quale spunteranno le rapide e dense note scritte su cui ci baseremo. Per quanto riguarda la prospettiva di analisi prescelta, abbiamo deciso di studiare l’autore in quanto uomo, tralasciando intenzionalmente le azioni che ne hanno fatto proclamare la santità, per concentrarci invece sugli atti laici e politici in base ai quali egli ha saputo trasformare profondamente la società medievale.2 Il primo di questi atti è l’abbandono della ricca famiglia borghese per abbracciare la povertà e farne il fulcro di una nuova vita cristiana. Francesco diventa in breve una straordinaria figura di predicatore laico, immerso nella quotidianità e deciso a consacrare la sua vita alla trasformazione del1 2 Fonti Francescane, Editrici Francescane, Assisi 1986, p. 137. Per una biografia ragionata ed equilibrata si veda C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 2001. Il radicamento del discorso filosofico nell’esperienza biografica, che qui proponiamo, assume il suo senso compiuto in riferimento alle regole del Seminario Aperto di Pratiche Filosofiche (SAPF), in particolare alla prima; per approfondimenti relativi alle pratiche filosofiche e al Seminario si consiglia di consultare L’invito alla lettura che apre il presente testo. 118 Primum philosophari la comunità cristiana attraverso il ritorno alla purezza del messaggio evangelico. L’esperienza riformatrice del poverello di Assisi si inserisce nella robusta tradizione dei movimenti cosiddetti ereticali che, dall’XI secolo, ravvivavano il dibattito sulla corretta intelligenza e pratica del Vangelo.3 Tuttavia, mentre quei movimenti non volevano o non potevano essere ascoltati dalla Chiesa, per la loro carica critica verso di essa, Francesco impostò il confronto in un campo inedito: ogni proposta di riforma andava fatta, a suo avviso, attraverso la Chiesa, per trasformarla dall’interno; per questo motivo si adoperò sempre, e con grandi difficoltà, perché tutti i suoi passi di riforma fossero compresi e in qualche modo certificati dal papato, a cominciare dalla nascita di un Ordine religioso composto di laici, fondato sulla povertà integrale e rivolto alla predicazione itinerante. Con gli Ordini mendicanti il pensiero cristiano – e francescano in particolare – comincia a camminare per l’Europa, raggiungendo contesti mai toccati prima e predicando in modo innovativo il Vangelo. Vediamo dunque quali sono gli aspetti salienti della riforma francescana. La prima novità riguarda lo stile della predicazione: ciò che conta, per Francesco, è un metodo che sappia convincere con l’esempio prima che con le parole; a queste ultime, specie se scritte, è sempre preferibile il silenzio, ma quando è necessario parlare – dice Francesco – meglio la “brevità di discorso” (Fonti Francescane, d’ora in avanti FF, pp. 39 e 63). Questa rivoluzionaria predicazione delle opere consiste nell’esprimere l’idea tramite l’azione, a vantaggio di quanti non comprendevano il latino o il volgare dei frati itineranti; ma essa è soprattutto un metodo che si fonda sulla convinzione che “la pratica del bene deve accompagnare la scienza” (FF, p. 81). Rendere gli insegnamenti di Gesù praticabili nel mondo, a vantaggio di tutti: è questo il massimo obiettivo che Francesco si pone nella sua vita. Il secondo aspetto della riforma francescana riguarda il concetto di materia-natura, che non viene più intesa come frutto del peccato e ricettacolo della negatività bensì, innovativamente, come prima manifestazione di Dio e strumento di beatificazione delle creature.4 Come afferma Vito Fumagal3 4 Si confrontino, su questo tema i classici studi: T. Manteuffel, Nascita dell’eresia. Gli adepti della povertà volontaria nel Medioevo, Sansoni, Firenze 1975; H. Grundmann, Movimenti religiosi nel Medioevo. Ricerche sui nessi storici tra l’eresia, gli Ordini mendicanti e il movimento religioso femminile nel XII e XIII secolo e sulle origini storiche della mistica tedesca, il Mulino, Bologna 1974; E. Gebhart, L’Italia mistica. Storia del rinascimento religioso nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1983; e G. G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, il Mulino, Bologna 1989. Riteniamo necessario ricordare a questo riguardo il pensiero amalriciano, la più coerente formulazione filosofica della positività della natura, che proprio per la S. Sangiorgio - Francesco d’Assisi: la pratica del perdono 119 li, nel pensiero francescano “la considerazione del valore intrinseco della corporeità si allarga ad accettare serenamente l’intero mondo naturale, buono in se stesso e specchio di Dio. Gli occhi di Francesco – conclude l’autore – sono ben aperti sulla natura”.5 In particolare, è la prospettiva da cui il nostro frate guarda la natura a essere rivoluzionaria: nel suo sguardo non c’è più la superbia di chi ha dato il nome alle cose e perciò le domina; né egli intende gli elementi naturali, come voleva la tradizione monastica altomedievale, quali distrazioni che allontanano dal vero. Francesco li considera piuttosto, a partire da un orizzonte di solidarietà paritetica, porte di accesso privilegiato all’esperienza mistica. Nel suo Cantico, infatti, egli testimonia poeticamente la pari dignità ontologica di ogni creatura, senza distinzione fra i regni del razionale, dell’animale e del vegetale. Perciò, nel pensiero e nell’opera del movimento francescano la verità appare sempre nella forma della comprensione fra creature ugualmente divine: ogni cosa è un “frate” o una “sora” e la scala gerarchica fra le creature appare dissolta. Da questa originale solidarietà sul piano ontologico discende infine, sul piano etico, il dovere di rispettare l’esistenza di ogni cosa. È soprattutto ispirandosi a questa nuova e positiva mentalità che i frati francescani potranno, nel corso del XIII secolo e oltre, superare il pessimismo altomedievale e sostituire, nell’immaginario collettivo, la figura esclusiva del monaco con quella della famiglia dei frati, modello di integrazione in una società che cambia e si vuole più equa e concreta, senza rinunciare alla propria ispirazione religiosa. Il terzo aspetto innovativo della riforma francescana coinvolge l’ambito socio-economico e risiede nel rapporto con la proprietà: Francesco pratica e promuove una rinuncia integrale al possesso, fondata nella consapevolezza che solo facendoci poveri di ogni cosa possiamo veramente essere equanimi. Se il possesso delle cose provoca dolore, sia per la paura di perderle che per il desiderio di incrementarle, allora è meglio aprire la mano serrata dall’avidità; è importante sottolineare, d’altra parte, che la povertà francescana non si traduce nel disprezzo per le cose e si fonda piuttosto nella fiducia teologica che noi avremo tanta ricchezza quanta sapremo do- 5 sua radicalità ebbe il singolare destino di essere fra le più osteggiate e sotterraneamente influenti dottrina ereticali del Medioevo. Per approfondire la conoscenza della figura di Amalrico si può consultare il bellissimo saggio: M. Dal Pra, Amalrico di Bène, Fratelli Bocca editori, Milano 1951. V. Fumagalli, Solitudo carnis. Vicende del corpo nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1990, p. 69. 120 Primum philosophari narne attraverso le nostre mani. L’identità francescana risiede, in generale, proprio nella rinuncia alla presa delle cose mondane, non come gesto di ascesi ma come coltivazione dell’equanimità di fronte a quello che ci passa tra le mani, nella consapevolezza che il valore delle cose si incrementa nello scambio e non nella capitalizzazione.6 Essere poveri di tutto, stando però al gioco del mondo, consente al frate di fare della disponibilità, dell’apertura, la cifra della propria esperienza di vita: la regola è di andare in pace senza possesso, cioè vivere senza fissità, per essere sempre pronti a riconoscere il volto di Dio nel creato, anche e soprattutto in ciò che normalmente provoca un dominio della volontà di sé sul rispetto dell’altro e la trasformazione dell’integrità delle cose in un personale integralismo. Francesco che abbraccia il lebbroso ha saputo lasciare anche il possesso più intimo e potenzialmente subdolo, perché non tangibile: l’abbraccio dell’ego. Il frate lieto non vuole sé più degli altri, perché sa che la (propria) verità si attua solo attraverso la verità dell’altro – di tutto l’altro. Questo delicato e decisivo concetto e la relativa pratica di vita verranno spiegate meglio nel seguito del presente scritto. Affrontiamo infine l’invenzione che consideriamo filosoficamente e socialmente più importante fra quelle di Francesco d’Assisi: l’indulgenza della Porziuncola. Interpretando il bisogno di salvezza, sempre più vivo nella società bassomedievale, il nostro frate formula una nuova idea di perdono ecclesiale: si fa confermare da papa Onorio III il diritto alla remissione di tutti i peccati per coloro che si fossero recati nella chiesa di Santa Maria della Porziuncola ogni 2 agosto, giorno della consacrazione della stessa; la curia romana, contrariata da questa novità escatologica, ma decisa a sfruttare ad ogni costo la fama di santità di Francesco, finisce per accettare la proposta del frate. L’indulgenza della Porziuncola ha delle caratteristiche rivoluzionarie rispetto alle precedenti pratiche di remissione dei peccati: è un perdono plenario, perenne e soprattutto libero; assolve cioè da ogni colpa pregressa, si ripete ogni anno ed è concesso senza alcuna condizione, che non sia il sincero pentimento. Non servono soldi né atti eccezionali per ottenere il pieno perdono, che diviene accessibile a tutti: così l’ha fortemente voluto Francesco.7 6 7 Le conseguenze economiche della riforma francecana meriterebbero più ampio approfondimento. Lo studio che meglio le spiega è dal nostro punto di vista: G. Todeschini, Ricchezza francescana. Dalla povertà volontaria alla società di mercato, il Mulino, Bologna 2004. Prima dell’indulgenza della Porziuncola, la remissione completa dei peccati era sottoposta a condizioni di eccezionalità quali la morte in crociata o – a particolari condizioni – il pellegrinaggio nei luoghi santi della cristianità. Francesco dà origi- S. Sangiorgio - Francesco d’Assisi: la pratica del perdono 121 Questo tipo di approccio al cristianesimo, radicale sia sul piano teologico che sociale, non mancava di destare preoccupazioni negli ambienti ecclesiastici: la stessa persona di Francesco, e in seguito l’Ordine da lui fondato, furono lacerati dalla tensione fra l’urgenza di riformare il cristianesimo e la persuasione che l’unico luogo in cui questa trasformazione poteva e doveva realizzarsi era la Chiesa cattolica. Alla gioia per la diffusione del suo Ordine in tutta Europa hanno fatto ombra, in Francesco, gli ostacoli insormontabili nel perseguire una via di mezzo fra due opposti forse inconciliabili: da un lato i giovani entusiasmati dal suo esempio di radicalismo cristiano, dall’altro la gerarchia ecclesiastica, determinata a militarizzare l’Ordine francescano, facendone sempre più uno strumento della teocrazia papale e sempre meno una guida per la riforma spirituale. In questo profondo turbamento Francesco si spegne, senza che difficoltà e morte potessero ormai cancellare l’immagine di colui che ha mostrato come solo su umili spalle si potrebbe sostenere e rinnovare una Chiesa in crisi.8 La seguente lettera scelta come brano antologico è la risposta di Francesco alle preoccupazioni di un ministro dell’Ordine, cioè di un frate francescano con importanti responsabilità direttive sui confratelli. Con ogni probabilità, il ministro era assillato dal problema di come comportarsi nei confronti dei frati che mantenevano condotte divergenti rispetto alla regola dell’Ordine francescano. Brano antologico: Lettera ad un ministro A frate N... ministro. Il Signore ti benedica! Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente ricono- 8 ne dunque ad una prassi di remissione davvero innovativa, che eserciterà una forte influenza sull’elaborazione ecclesiastica dell’idea di Giubileo. Per tutti questi temi si confronti l’eccellente studio: C. Frugoni, Due papi per un giubileo. Celestino V, Bonifacio VIII e il primo Anno Santo, Rizzoli, Milano 2000. Gli argomenti esposti in quest’ultimo paragrafo meriterebbero una più ampia spiegazione. Consigliamo la lettura di due saggi che, oltre alla lettura delle fonti, hanno particolarmente influenzato la nostra interpretazione del francescanesimo: Merlo G. G., Contro gli eretici, il Mulino, Bologna 1996; e C. Frugoni, Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 2001. 122 Primum philosophari sco che questa è vera obbedienza. E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori. E questo sia per te più che stare appartato in un eremo. E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli. (…). Commento 1 – L’opportunità del dolore Nel primo e secondo paragrafo del testo Francesco risponde alle richieste del suo frate e affronta l’enorme problema del negativo: la verità è il tutto, ma una sua parte – che in quanto sua è essenziale – non dice il vero e non fa il bene. Una parte del tutto – una parte di noi – adombra il vero, non è adeguata a dirlo e ad agirlo compiutamente. Perché la verità si fa adombrare, ponendosi nel cuore proprio ciò che la rinnega come madre? Ebbene, Francesco sembra non vedere nel negativo una vera aporia, quanto piuttosto un elemento naturale dell’esistenza mondana, frutto della stessa volontà di Dio; questo non significa tuttavia che egli rinunci a pensare il “male”: se esso c’è proprio per grazia di Dio, deve svolgere una funzione forte nella logica della salvezza, che è compito del buon cristiano riconoscere. In conclusione, Francesco sembra attribuire all’ostacolo del negativo un duplice ruolo, etico ed ontologico: Dio consente, e in qualche modo richiede, il “male” per farci esercitare la virtù e per mostrare la propria capacità di comprendere il negativo senza dissolversi. La giustizia divina, che appare come detto nella forma della comprensione, si completa proprio attraverso l’integrazione di quell’elemento che la nega; se si pensa al percorso esistenziale dello stesso Gesù, la necessità del negativo risulta tutt’altro che uno scandalo etico ed ontologico, essa è piuttosto la pietra angolare di una filosofia autenticamente cristiana. Secondo Francesco, sta dunque all’uomo farsi attore di una sfida già vinta sul piano ontologico, ma da giocarsi nel dolore sul piano etico, seguendo l’esempio di Gesù: l’esperienza del dolore appare come l’occasione più opportuna per saggiare la nostra capacità di obbedire alla verità con la pratica dell’amore. S. Sangiorgio - Francesco d’Assisi: la pratica del perdono 123 Andiamo ora avanti nell’analisi del documento: il secondo paragrafo del testo si conclude con una frase che potrebbe essere fraintesa e richiede quindi un’adeguata spiegazione. Francesco dice chiaramente che non dobbiamo pretendere una penitenza da coloro che peccano, fosse anche la sola promessa di “comportarsi meglio”. Perché allora dovremmo perdonare senza condizioni? Non rischiamo, rinunciando alla correzione dell’altro, di legittimare e stimolare ogni sopruso invece che di sanare le condizioni che lo generano? Ora, come avremo modo di spiegare diffusamente, la frase del testo “non pretendere che diventino cristiani migliori”, non significa abbandonarsi al relativismo: è lo stesso frate ad augurarsi, infatti, che il suo ministro possa “attrarre al Signore” il peccatore. Ma come è possibile aiutare l’altro ad aprire gli occhi senza forzarlo ad una verità, se non la vede? In sintesi, l’atteggiamento francescano verso un confratello errante è quello di chi resta convinto della propria integrità – cioè della verità, così come a lui sinceramente appare – senza rinunciare ad espanderla e ad attrarre verso il bene l’altro. Il punto decisivo del pensiero francescano su questo delicato argomento è dunque il seguente: posta e tenuta ferma la verità, non si attrae qualcuno in essa attraverso il buonismo, concedendogli di dire e fare qualsiasi cosa; né si convince l’errante attraverso un atteggiamento impositivo, obbligandolo dogmaticamente a dire e fare quel che vogliamo noi. Concedere qualsiasi cosa o vietare la libertà di errare esprimono infatti due atteggiamenti molto distanti dal vero, l’indifferenza e la violenza.9 2 – La risposta dell’amore Riassumiamo ora alcuni passaggi del nostro scritto: per Francesco è pacifico e sensato che il conflitto affianchi l’amore; peraltro, gli pare giunta l’ora che il conflitto si accorga della forza dell’amore e ne sia trasformato. 9 L’insistenza francescana sulla necessità di reintegrare il peccatore non è un’accettazione acritica di ogni idea e azione, e non produce un martirio dell’ingenuità; è piuttosto il sacrificio sereno di chi cerca ogni modo per redimere il proprio carnefice dall’errore. Come Francesco intenda realizzare questo obiettivo, lo delucideremo nel seguito del testo. Un’ultima battuta sul problema del corretto agire comunitario: è sorto talvolta il dubbio che le regole del SAPF (Seminario Aperto di Pratiche Filosofiche) – in particolare la seconda, la quarta e la quinta – esponessero i praticanti al rischio del relativismo e dell’indifferenza nei confronti delle posizioni altrui. Ora, è molto importante rivendicare, in coerenza con il discorso di Francesco d’Assisi, la possibilità di un metodo che, evitando i rischi dell’aggressività, sia capace di fondare sull’ascolto reciproco l’edificazione di una spazio di verità comunitario e liberamente condiviso. 124 Primum philosophari Come presentarsi dunque al negatore che ci rende difficile la vita? Risposta: con letizia. Francesco ha dedicato alcune delle sue più straordinarie note al tema della letizia: beato è colui che benedice il negativo, trasfigurandone lo scacco nella grazia, nell’occasione concessa per confermare la forza di comprensione del bene. Solo di fronte all’esperienza dell’estremo si apre dunque la soglia della vera letizia, che per Francesco corrisponde con la massima virtù e con la stessa salvezza dell’anima: letizia non è essere venerato, né fare miracoli, bensì essersi abituati ad “avere pazienza e non conturbarsi” di fronte all’estremo (FF, p. 145). Questa capacità si raggiunge con l’esercizio quotidiano della comprensione e consiste nell’adesione mistica e razionale all’essenza stessa di Dio, amore che avvince ogni sua negazione. La raggiunta letizia comporta dunque una pratica spontanea del bene e si presenta evidentemente come benessere in chi la porta. Ora, come si evince dal testo e come sa chi incontra un maestro, la letizia – energia attraente del sapere – si manifesta anzitutto nella forza magnetica dello sguardo: chi ha raggiunto la perfezione ha gli occhi dell’amore ed attrae a sé. Chi è lieto sta bene, si nota e ci richiama soprattutto, con la sua integrità, alla responsabilità di noi stessi. Francesco conosce bene tale dinamica e propone al suo ministro, anzitutto, di mostrare la propria positività a chi soffre, entrando in prima persona nella situazione conflittuale. Il maestro infatti non allontana chi ha peccato, anzi lo avvicina per metterlo nella condizione di comprendere e rispondere di sé; il primo gesto francescano per insegnare il bene è dunque quello di presentarsi attivamente al negatore, con gli occhi dell’amore. Ora, Francesco ritiene che proprio attraverso la letizia si possa attuare una pratica di trasformazione del negativo che sia, allo stesso tempo, dire di sì alla presenza del tutto e dire di no alla violazione della sua integrità: si può accettare e correggere il negativo, evitando i rischi del relativismo e della violenza. Un equilibrio di opposti tanto raffinato e delicato a livello teorico, si esprimerà evidentemente in una pratica di approccio e comprensione dell’altro molto rischiosa, che si fonda nell’accettazione di due precondizioni: anzitutto, per presentarsi come esempio di letizia avvincente è necessario un grande lavoro su se stessi – a partire dal corpo – di cui diremo qualcosa alla fine della prossima sezione. Inoltre, bisogna guardarsi dal pensare che il nostro “lieto esempio” basti in ogni caso e sia un metodo infallibile. Francesco non cade in questa ingenuità e presenta infatti la letizia come prima mossa di un metodo più articolato; egli sa bene che gli occhi S. Sangiorgio - Francesco d’Assisi: la pratica del perdono 125 dell’amore a volte non bastano e possono tragicamente fallire, esponendo anche il maestro più esperto al rischio del martirio.10 Come raggiungere dunque le migliori possibilità di disinnescare la violenza? Con cosa si può integrare la letizia? Quale stile di vita assumere per essere il più positivo possibile nel mondo e risultare utile all’integrità del tutto, senza ricorrere alla violenza o soccombere in modo inerte ad essa? La risposta di Francesco è che la letizia si completa con il coraggio del perdono: l’amore raggiunto interiormente si corona con la capacità di difenderlo e promuoverlo, anche fuori di noi. Vediamo le ragioni del testo relativamente a questo tema. 3 – Il coraggio del perdono La proposta dell’amore è, allo stesso tempo, teorica ed etica: se la verità appare nella forma della comprensione, l’atto coerente di chi la conosce sarà la compassione per chi provoca dolore e l’impegno per reintegrarlo – in una parola, il perdono. Saper perdonare davvero significa, per un cristiano, praticare la parola di Dio, essere amore assoluto come Egli è, partecipare della perfezione divina nell’atto della piena comprensione di ogni altro. Per questo Francesco scrive il meraviglioso verso del suo Cantico: “Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore”. L’atto del perdono appare dunque quale promozione dell’amore, ma se si radica in esso, non si conclude d’altra parte nella sola sfera dell’affettività: come testimonia il testo, la pratica francescana del perdono è anche una struttura articolata di atti razionali, un vero e proprio metodo filosofico volto ad avvincere il peccatore nel bisogno di integrazione. Analizziamo dunque questa tattica nei suoi passaggi essenziali, facendo riferimento al testo, in particolare al terzo e ultimo paragrafo. Anzitutto, Francesco espone una soluzione di difesa dal negativo che cerca – in luogo di abbattere il nemico – di trasformare la situazione negativa, a partire da colui che sa amare: pretendere un mutamento nel sofferente sarebbe infatti controproducente, mentre dev’essere colui che ha colto l’essenza comprensiva del vero a produrre una svolta, ad entrare totalmente nella situazione conflittuale con gli occhi dell’amore. Solo dall’interno, affrontando in 10 Francesco ha mostrato sempre un coerente fervore del martirio, ad esempio quando, nell’ambito della quinta crociata (1218-21), ha tentato di convertire al cristianesimo il sultano al-Malik al-Kamil. I resoconti del loro incontro, pur sconfinando nell’agiografia, ci permettono di cogliere in trasparenza l’eccezionalità del coraggio francescano. Si confrontino ad esempio FF, pp. 597, 915, e 1094. 126 Primum philosophari prima persona il sofferente, il buon frate potrà fargli capire la comune responsabilità per l’integrità della vita e mostrargli la disponibilità del perdono. Questa prima mossa del metodo francescano esprime dunque un attivismo avvincente, con il quale colui che ama irrompe nel centro del conflitto, dimostrando affetto e interesse per la persona in difficoltà. Per il frate si tratta proprio di sorprendere colui che vuole essere nostro nemico, dandogli l’opportunità di esprimere il suo punto di vista – anche se prevede aggressività – ascoltandolo ed esprimendogli la nostra comprensione.11 Tuttavia, come abbiamo sottolineato, questo primo passo può non bastare e Francesco è pronto a rilanciare la pratica del perdono con la seconda mossa del suo metodo: se l’altro non si accorge dell’errore che commette, non si può perdonargli comunque di aver commesso il fatto, bensì bisogna avere la forza di chiedergli se vuole essere perdonato; anche questo secondo passo – come il primo – assumerà, oltre ad una carica affettiva, la forma dell’argomento razionale. La funzione filosofica più rilevante della richiesta consiste nello spostare il fuoco da colui che perdona a chi sta (è lì) per essere perdonato: se infatti, nella prima mossa, il buon frate si è posto al centro del conflitto, chiamando in causa il negatore, ora si sottrae alla logica di questo e lo lascia disorientato, al centro di una situazione inaspettata, in cui gli si offre amore e gli si mostra la possibilità di ammettere i propri errori – senza subirne danni – anzi accedendo in definitiva a un miglioramento di sé e a una superiore comprensione del reale.12 La genialità e anche la difficoltà di questa soluzione risiede proprio nel saper suscitare la forza irresistibile del perdono – oltre che attraverso l’affettività e l’argomentazione – attraverso la sorpresa di una rivoluzione prospettica.13 11 12 13 Per chiedere al negatore di ritornare sui suoi passi dobbiamo senz’altro avviare un dialogo razionale e affettivamente coinvolgente con lui: servono buone ragioni e buone emozioni, in un metodo di risoluzione dei conflitti che si configura come pratica eminentemente filosofica. Questa tattica di iniziale attrazione dell’opponente, di parziale cedevolezza alle sue intenzioni e di trasformazione del suo potenziale nocivo attraverso il disorientamento, ricorda molto da vicino le tecniche di neutralizzazione dell’avversario formalizzate dall’arte marziale del taichi. Per approfondire il contesto di questa arte e il suo fondamento filosofico taoista si rimanda all’articolo di Massimiliano Cabella presente in questo testo. La trasformazione del punto di vista si verifica proprio nel passaggio fra la prima e la seconda mossa del metodo francescano. La svolta in una situazione di conflitto può essere provocata, infatti, attraverso le virtù dell’anamorfosi, tecnica che offre nuove letture della realtà a chi sia disponibile ad accoglierle, e in particolare a chi, trovandosi nell’errore, è maggiormente confuso, esposto alla sofferenza e S. Sangiorgio - Francesco d’Assisi: la pratica del perdono 127 Francesco, parlando alla mente e al cuore delle persone, mostra dunque un metodo di risoluzione dei conflitti tanto logico quanto affettivo, dove tutti escono vincitori: nessuna forzatura costringe il negatore, solo la forza pacifica della verità, che mostra tutta la sua fermezza e forza integrante. Il perdono francescano si configura quindi come una pratica di razionalità amorevole e consente di coniugare la difesa della propria integrità – della verità stessa – con l’efficacia di un perdono realmente universale. Infine, un’ultima riflessione di metodo, volta a spiegare quanto abbiamo appena accennato circa la necessità del lavoro su se stessi: la pratica del perdono non si riduce ad un’arte di persuasione razionale, ma realizza la sua piena efficacia solo attraverso il corpo del perdonante. L’integrità e l’intenzione amorevole del perdonante – primi messaggi recepiti dal negatore – si esprimono infatti nel complesso organico della persona. In conclusione, quello che realizza pienamente questa pratica francescana è l’atteggiamento di chi la compie: per il buon esito del perdono risultano decisive la determinazione amorevole e la piena partecipazione del sé – in corpo e spirito. Conta, non tanto il distinguersi dal negativo, ma il modo di questo differenziarsi: un dire di no sicuro e pacifico, detto con la letizia di chi ha vinto su se stesso e impegna tutto di sé per amare l’altro. Un dire di no che ricomprende e trasforma ogni negazione, mostrandone allo stesso tempo il ruolo essenziale. Questa riflessione sul metodo di praticare il bene ci permette di approfondire una questione che abbiamo lasciato in sospeso: come dev’essere colui che perdona, per farlo con questa convinzione quasi divina? Chi è il primo perdonato? Rispondere a queste domande ci consentirà anche di proporre un esercizio di pratica filosofica che riteniamo interessante. Ora, colui che perdona deve anzitutto essere in esercizio: la letizia che ci rende forti nelle situazioni negative è frutto di un assiduo lavoro su se stessi e va sempre coltivata. La prima persona che dobbiamo perdonare e rendere capace di amare siamo dunque noi stessi: proprio per fare il bene degli altri dobbiamo prima imparare a volerci bene, raggiungendo un equilibrio personale e praticando esercizi per diffondere, dalla nostra interiorità al mondo, l’energia che emana dalla cura amorevole di sé. Per concludere il discorso e introdurre la nostra proposta di pratica, torniamo sul limite che affligge il metodo francescano – non per una sua natura imperfetta, ma per l’umanità del suo contesto: e se, nonostante le migliori intenzioni, fallissimo nell’intrepida impresa di far amare? Di più: se perciò intimamente desideroso di cambiare prospettiva. Per approfondire il tema della rivoluzione prospettica e il valore dell’offerta anamorfica nelle pratiche filosofiche si rimanda all’articolo di Francesca Luise presente in questo testo. 128 Primum philosophari un singolo successo non bastasse per ricondurre definitivamente una persona ad una retta comprensione? Ora, anche di fronte a queste difficoltà Francesco ci invita a non disperare, come si evince dall’ultimo paragrafo del brano. Qui si ribadisce che non dobbiamo considerare il ripresentarsi delle negatività – nella stessa o in altre persone – come fallimento del perdono, bensì come un’immancabile opportunità di radicarne la pratica: le occasioni offerteci di sanare spesso ferite varie, di una o più persone, rafforzano la fiducia nell’essere capaci di un amore che incrementa. Infatti, il dovere di dire di no all’indifferenza e alla violenza per la verità, proprio per la sua estrema difficoltà, è da considerarsi come un luogo di esercizio – non un fine bensì un mezzo, sempre perfettibile, per essere modello di vero amore. La forma dell’azione correttiva non vincola dunque a promesse di rivoluzione, bensì ad una costruzione progressiva, il cui paradigma è quello della pratica collettiva: un’attrazione al bene che si ripete non perché non riesca ad ottenere il suo scopo, ma perché lo ottiene solo attraverso un esercizio assiduo e comunitario. Aiutare gli altri a salvarsi “sia per te più che stare appartato in un eremo”, perché solo così, attraverso gli altri, salvi te stesso.14 Francesco esprime in questo concetto un gioiello di praticabilità dell’altruismo: ognuno può perdonare veramente, nella misura in cui sa che ciò che scusa concorre al perfezionamento, suo e di tutti. Invito alle pratiche Attenzione amorevole e perdono di sé Presentiamo ora un esercizio di pratica filosofica che ha lo scopo di radicare nella nostra persona l’abito dell’attenzione amorevole nell’agire e l’attitudine al perdono di sé. 1) Dedico attenzione a un’azione da me compiuta che non produce una piena soddisfazione, in me o negli altri; la racconto in forma scritta o orale. 2) Accetto questa azione come manifestazione positiva del mio impegno umano; mi esercito a distinguere gli aspetti positivi (ragioni) e negativi (limiti) della stessa azione. 14 Per approfondire il tema della pratica filosofica come esercizio collettivo, si rimanda all’articolo di Laura Candiotto su Platone presente in questo testo. Si può anche utilmente consultare la riflessione cristiana presente in: J. Ratzinger, Il perdono di Assisi, Porziuncola, Assisi 2005, in particolare alle pp. 37-38. S. Sangiorgio - Francesco d’Assisi: la pratica del perdono 129 3) Chiedo perdono per le mancanze rilevate, che hanno impedito la piena espressione della mia positività; penso amorevolmente a come non farmi più condizionare dalle ragioni e dai limiti del mio agire. Metodo dell’esercizio: prima in forma privata; a seguire in piccoli gruppi, attraverso la consulenza di amici che ci conoscono bene; eventualmente, nell’ambito di un ritiro dedicato alla pratica, in maniera anonima e/o pubblica, con la guida di una o più persone preparate alla consulenza. L’esercizio raggiunge i migliori risultati se viene aperto e concluso da una pratica di respirazione profonda e naturale della durata di 5/10 minuti, al fine di raggiungere una migliore lucidità mentale. Si consiglia di non superare la durata complessiva di un’ora; si prediliga piuttosto la ripetizione dell’esercizio su diverse azioni. 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