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Annali della Fondazione Ugo La Malfa - XXVIII, 2013
Luigi Tomassini
“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”.
Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia
nella Grande Guerra, 1914-18
Vi diranno che le sballate grosse. Non ve lo diranno se potrete produrre la
testimonianza di una fotografia. […] Chi non ha proprio voglia di parlare prenda
una macchina fotografica e scatti fotografie. […]
Il ricordo è un apparecchio scadente. Tra un paio di anni non avrete più una
immagine chiara di ciò che è stato. Le immagini poetiche degli scrittori
dell’entroterra vi sembreranno realtà. Mancherà la parte migliore, la parte viva, ai
limiti dell’impossibile, di quello che ora vi sta intorno ad ogni istante. [Le
immagini ] conserveranno per sempre, a tutti i combattenti di questa guerra,
l’eccezionalità del presente.
Robert Musil, Kameraden arbeitet mit!1
S
econdo Musil, per gli stessi combattenti era difficile conservare e trasmettere il ricordo di cosa fosse veramente
stata la guerra, già a pochi anni di distanza.
Figuriamoci per noi oggi, saremmo
tentati di pensare.
Ci sono, è vero, le memorie, i diari, gli
scritti, i documenti. Possiamo pensare che
attraverso di essi riusciremo a cogliere ancora quale fosse stata l’esperienza di guerra
dei soldati al fronte, che potremo su queste
basi avere una memoria attendibile e condivisa di cosa fosse e come fosse la guerra di
cent’anni fa.
Tuttavia, anche le memorie scritte procederanno per immagini, spesso «immagini poetiche», ci avverte Musil, e presto si
creeranno immaginari che si sovrappor-
ranno alle esperienze reali, vive, «ai limiti
dell’impossibile» che i combattenti sperimentavano al fronte.
La fotografia sembrava a Musil un antidoto a questo appannamento, a questa
traslazione del ricordo, il mezzo più adatto
per mantenere questa parte della memoria,
per conservare per sempre, per gli stessi
combattenti, «l’eccezionalità del presente».
Ad un secolo da quell’evento, vale ancora quel suggerimento, e come possiamo
rileggerlo oggi?
La dimensione di storia culturale verso
cui si è orientata la storiografia degli ultimi
decenni rende del tutto attuale, mi pare, il
monito di Musil. Per quanto riguarda la
storiografia recente sulla guerra si è molto
insistito infatti sulla dimensione dell’espe-
1
Robert Musil, Kameraden arbeitet mit!, “Tiroler Soldaten-Zeitung” n. 9 1916, pp. 3-4, ora in Id., La Guerra
parallela, Reverdito, Trento 1987, p. 22.
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rienza di guerra da parte dei combattenti,
segnando così anche in questo caso una
svolta in senso “culturale” degli studi, dopo
fasi in cui avevano prevalso studi politicodiplomatici o economico-sociali2.
In Italia, l’introduzione di un punto di
vista di storia culturale negli studi sulla
Grande Guerra ebbe una tappa fondamentale nel convegno di Rovereto del 1984; in
quella occasione Paul Fussell espresse, in maniera forse ancora più accentuata di quanto
non avesse fatto nei suoi scritti, la convinzione che lo storico non avrebbe mai potuto
conoscere la “realtà” della guerra, dato che
poteva lavorare solo su testimonianze letterarie. Un’affermazione del genere, per quanto
perfettamente iscrivibile in una svolta culturalista preannunciata da un “linguistic turn”
che aveva già esercitato una influenza notevole sulle discipline umanistiche e aveva prodotto anche qualche risultato in campo
storiografico3, suscitò una notevole impressione fra gli storici italiani presenti, proprio
perché applicata a un recupero e una rivalutazione dell’esperienza di guerra, cioè ad uno
sguardo “autentico” e diretto sulla realtà della
guerra da parte degli stessi protagonisti4.
In un certo senso, era come se Fussell
riproponesse «le immagini poetiche degli
scrittori dell’entroterra» come unico materiale possibile per la ricostruzione della memoria della guerra, o per dirla in maniera
più appropriata, equivaleva ad affermare
che la creazione di una memoria poteva av-
venire solo attraverso la traduzione di quell’esperienza in linguaggio, e quindi per
mezzo di un tramite culturalmente determinato, che avrebbe permesso di registrare,
ma anche finito per banalizzare e sbiadire
le immagini vive e autentiche della guerra,
non conservabili altrimenti attraverso la
sola macchina (“scadente”) del ricordo.
Rispetto allo studioso di letteratura Fussell, che dichiarava di valersi di fonti esclusivamente letterarie, escludendo ogni
possibilità di accesso all’esperienza reale
della guerra, lo scrittore Musil individuava
però una via d’uscita a questa aporia, e la individuava nell’uso della fotografia come dispositivo di conservazione della memoria.
Sia pure nella forma leggera di una
boutade di un combattente letterato, Musil
esprimeva una convinzione circa una specificità peculiare della fotografia nel processo di conservazione della memoria, che
obbliga lo storico, che proprio di quel processo si deve occupare, a porsi delle domande ineludibili. La fotografia sembrava
a Musil una via d’uscita perché in un certo
senso lo scrittore condivideva un’idea ancora ottocentesca, positivista, incardinata
su una presunta “obiettività”, del dispositivo fotografico? Oppure pensava già che
nella fotografia si potesse davvero annidare
uno degli ultimi terreni di resistenza del
“realismo” di fronte alla “relatività semantica”, come avrebbe sostenuto circa mezzo
secolo dopo Roland Barthes, affermando
Cfr. in proposito l’ottimo bilancio storiografico tracciato da Antoine Prost-Jay Winter, Penser la Grande
Guerre. Un essai d’historiographie, Editions du Seuil, Paris 2004.
3
Cfr. sul tema La storia culturale. Parabole di un approccio critico al passato, a cura di Rolf Petri-Antonella Salomoni-Luigi Tomassini, numero monografico di “Memoria e Ricerca” n. 40 maggio-agosto 2012.
4
Paul Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 1984; in Italia successivamente
oltre al lavoro del gruppo di storici raccolti attorno al Museo di Rovereto si registrarono alcuni contributi
importanti che tradussero in studi relativi al caso italiano la forte attenzione al tema della esperienza di guerra
che avevano introdotto Fussell ed Eric Leed (anch’egli presente a Rovereto): cfr. in particolare Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991; Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra: con una raccolta di lettere
inedite, Editori Riuniti, Roma 1993.
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
che «nella Fotografia il potere di autentificazione supera il potere di raffigurazione»5?
Non è il caso di affrontare qui in linea
teorica questo nodo, che ci porterebbe su un
terreno del tutto esterno ai limiti di questo
saggio6, ma possiamo osservarne i riflessi sui
processi storici concreti; e in questo senso si
deve registrare che una convinzione del tipo
di quella di Musil dovette essere molto diffusa durante il periodo della Grande Guerra,
perché la produzione di fotografie conobbe
una accelerazione importante, anche se difficilmente quantificabile, nella sua dimensione privata, familiare, “vernacolare”; e la
fotografia giunse a sconfiggere definitivamente sul piano del discorso pubblico, in
particolare sul terreno della stampa periodica
di informazione, che costituiva il medium
visivo più largamente diffuso all’epoca, l’illustrazione tradizionale, che ancora resisteva
durante gli anni anteguerra7.
Questo fenomeno che storicamente presenta delle evidenze difficilmente controvertibili, si basava probabilmente proprio sulla
convinzione, diffusa anche presso il pubblico
dell’epoca, che la fotografia garantisse di per
sé, per il suo procedimento di natura chimico-fisica, una obiettività superiore a quella
di altri media tradizionali, essendo in grado
in qualche misura di collegare direttamente
l’osservatore con l’oggetto fotografato, dato
che la mediazione e la “traduzione” linguistica del fotografo era limitata dalla natura
meccanica del medium.
Per quanto questo modo di pensare la
fotografia sia oggi chiaramente superato,
tuttavia permane a livello di senso comune
una convinzione diffusa circa la peculiare affidabilità della fotografia come fonte o
“prova”, derivante in ultima analisi dal suo
essere traccia, “impronta”, e non “segno” del
reale passato. Questa convinzione, o per
meglio dire questa modalità culturale attraverso cui la fotografia è stata concepita, praticata e diffusa, ha prodotto risultati
rilevanti, riconosciuti anche a livello normativo8, nei comportamenti sociali connessi
con la comunicazione per immagini.
Questo saggio si occuperà soprattutto
di questo, cioè di cercare di capire come le
fotografie sono state prodotte, fatte circolare, come sono state recepite ed usate socialmente, in una parola come hanno agito
nella storia, prima di divenire oggetto di
attenzione degli storici. Seguendo queste
tre fasi si articolerà in tre paragrafi rispettivamente dedicati a: dispositivi, immaginari, memorie.
DISPOSITIVI FOTOGRAFICI
Il concetto di dispositivo, come quello di
immaginario, è entrato a far parte del vocabolario di coloro che si interessano di
cultura visiva già da diversi decenni, e in
particolare in relazione al dispositivo cinematografico9, un termine che comprende
Roland Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 1980, pp. 89-90.
Mi permetto di rimandare a Luigi Tomassini, Una “dialettica ferma”? Storici e fotografia in Italia fra “linguistic turn” e “visual studies”, in La storia culturale, cit., pp. 93-110. Devo dire che il presente saggio oltre ad
alcune parti di ricerca originali, sintetizza, in un quadro nuovo, diversi risultati di mie precedenti ricerche,
finora mai sistematizzati in volume, ed ai quali quindi mi scuso di rimandare in queste note.
7
Cfr, qui di seguito, nota 32.
8
È appena il caso di ricordare che anche il Codice Civile riconosce alla fotografia in quanto tale (cioè se non
alterata o falsificata) uno specifico valore di prova in giudizio.
9
Lucilla Albano, La caverna dei giganti. Scritti sull’evoluzione del dispositivo cinematografico, Pratiche, Parma
1992; Gilbert Durand, Strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, Bari 2009 (ed. or. PUF, Paris 1963).
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sia la componente industriale, tecnologica,
ideologica, sottesa alla produzione e fruizione del cinema, sia il modo in cui ne vengono influenzati i processi percettivi degli
spettatori.
La Grande Guerra appare vista alla luce
di questo concetto come un momento significativo di svolta sia nel dispiegamento
degli apparati tecnologici e ideologici della
fotografia, sia nelle forme della percezione
e della fruizione sociale delle immagini fotografiche.
Come in molti altri campi, la guerra
non sembra segnare tanto una rottura radicale, quanto un’accelerazione di alcune
tendenze già in atto. Un’accelerazione talmente forte, tuttavia, da cambiare radicalmente assetti ed equilibri consolidati, e da
produrre quindi una trasformazione molto
forte, rispetto al periodo anteguerra.
Un primo aspetto di questa forte trasformazione è relativo alla produzione delle
fotografie di guerra, agli operatori, ai committenti, alle procedure messe in opera; un
secondo aspetto è relativo alla circolazione
effettiva delle fotografie, al modo in cui
viene regolata la effettiva distribuzione e visibilità delle immagini, a ciò che effettivamente viene reso pubblico e fatto circolare;
un terzo si riferisce ai contenuti delle fotografie e alla loro percezione sociale, alle dinamiche che si innestano fra fronte e
fronte interno, agli usi informativi e memoriali che se ne fanno sia sul momento
che successivamente alla guerra.
Lungo questi tre aspetti che corrispondono grosso modo alle tre pratiche fondamentali che caratterizzano il dispositivo
fotografico, ovvero il fare, il guardare e il
subire, a cui si associano poi le tre figure
barthesiane dell’Operator, dello Spectator,
e dello Spectrum, si possono individuare
alcune parole chiave che segnalano alcuni
importanti vettori di trasformazione dei dispositivi fotografici nel periodo bellico.
La prima di queste parole chiave, che si
adatta particolarmente al primo punto,
quello relativo alla produzione delle foto,
o alla figura dell’operator, è controllo. Gli
anni del conflitto segnano infatti un momento di accelerazione assai forte per
quanto riguarda il controllo (da parte degli
apparati dello Stato, ma anche di alcuni attori privati) dei processi di produzione
delle immagini fotografiche destinate ad
una circolazione pubblica.
Prima della guerra la produzione e la
distribuzione delle immagini erano regolate già da procedure e protocolli che stabilivano alcuni parametri culturalmente
condivisi e largamente accettati; ma la regolazione formale, sul piano giuridico, era
minimale, e le pratiche e le norme repressive erano limitate a campi molto specifici,
come quelli della fotografia “immorale” o
pornografica, e anche in questo settore soltanto negli anni immediatamente precedenti il conflitto si era avuta una seppur
minimale regolazione normativa a livello
internazionale10.
Durante il conflitto, il controllo sulle
procedure di produzione e sulle forme di
circolazione delle immagini divenne invece
rigidissimo, in molti paesi europei, ed
anche in Italia, con la predisposizione di
una serie di apparati di regolazione e di
controllo e con una normativa specifica.
Nel caso italiano, prima della guerra, la
fotografia aveva un ruolo, nella cultura nazionale, non troppo dissimile da quello
Mi permetto di rimandare in proposito a Luigi Tomassini, Fotografia, pornografia e polizia in Francia e Italia tra Ottocento e Novecento, “AFT – Rivista di storia e fotografia” n. 2 1985, pp. 46-67; ora anche in
http://rivista.aft.it/aftriv/controller.jsp?action=rivista_browse&rivista_id=12&rivista_pagina=46#pag_46.
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
delle altre grande nazioni europee, ma con
alcuni tratti originali. La ricezione dell’invenzione era stata piuttosto rapida, con un
notevole coinvolgimento della cultura
scientifica, come del resto in Francia e in
Inghilterra11; nei decenni successivi l’Italia
aveva avuto un ruolo non inconsistente, ma
certo secondario rispetto ai maggiori paesi
europei nella evoluzione tecnologica, nella
produzione industriale, nella ricerca chimico-fisica legata alla fotografia; aveva
avuto invece un ruolo originale e di primo
piano nella produzione fotografica e nella
diffusione di uno specifico prodotto fotografico, piuttosto rilevante, cioè la riproduzione fotografica del patrimonio artistico, monumentale e paesaggistico della
nazione.
Fra le voci che esprimevano pubblicamente questa cultura fotografica nel paese,
vi erano alla vigilia della guerra, oltre ai circoli e alle associazioni (fra le quali la Società Fotografica Italiana, con Presidente
Onorario lo stesso Re Vittorio Emanuele
III, appassionato fotografo), alcune riviste.
Si può dire che vi fosse quindi un tessuto
di “cultura fotografica” già abbastanza radicato, riconosciuto, e indubbiamente ispirato a valori patriottici e “nazionali”.
Questi ambienti legati alla cultura fotografica al momento dell’intervento in
guerra dell’Italia si trovarono di fronte ad
un divieto generalizzato e radicale, frutto
dell’eccezionalità della situazione. Come
scriveva il “Progresso Fotografico”, la più
diffusa delle riviste del settore: «in questo
periodo moltissimi amatori sono costretti
all’inerzia perché non solo nei territori dichiarati zona di guerra, ma anche in tutti i
paesi dichiarati in istato di difesa è proibito
fotografare, non solo, ma anche semplicemente trasportare a mano un apparecchio
che non sia debitamente piombato dall’autorità»12.
Per contro, la domanda di fotografie di
guerra era diventata fortissima.
Evidentemente non era possibile, perdurando la guerra, mantenere questo divieto assoluto.
Gli ambienti della cultura fotografica
italiana elaborarono quindi un ampio programma di collaborazione fra la fotografia
privata e professionale italiana, e gli organi
di governo, per realizzare una estesa documentazione della guerra. Il programma,
che apparve sul “Progresso Fotografico” e
fu sottoposto al governo, prevedeva un
meccanismo di mobilitazione spontanea e
in certo senso dal basso, essenzialmente
privata, non un servizio gestito direttamente dall’esecutivo, come fu poi in pratica realizzato. Il governo avrebbe dovuto
intervenire, in maniera tale da realizzare
una collaborazione stretta con i fotografi
professionali, e da formare quasi un ente
misto allo scopo.
Questo progetto, che mescolava iniziativa privata e intervento pubblico, a fini di
pubblica utilità, e come risposta all’emergenza della guerra, non ebbe successo: ma
è importante sottolineare che faceva parte
di un fenomeno più ampio, di commistione fra pubblico e privato, con la costituzione di organismi ad hoc su cui si
basava lo sforzo di automobilitazione della
società civile per la guerra, trovando la sua
espressione nella miriade di comitati, soprattutto per l’assistenza e la mobilitazione
civile, che sorsero un po’ lungo tutta la penisola. Questo tipo di automobilitazione,
Mi permetto di rimandare in proposito a Monica Maffioli-Luigi Tomassini, Il dagherrotipo nell’Italia del
1839, in L’Italia d’argento. 1839-1859. Storia del dagherrotipo in Italia, Alinari, Firenze 2003, pp. 15-30.
12
Notizie. Il divieto di fotografare, “Progresso Fotografico” n. 6 giugno 1915.
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che era funzionale al sostegno del governo
Salandra, originariamente minoritario in
parlamento, trovava però un forte limite se
tendeva ad entrare in contatto con la mobilitazione militare (che era invece stabilita
sulla base di una rigida disciplina, con una
prassi fortemente autoritaria e repressiva,
impersonata dalla conduzione di Luigi Cadorna): allora veniva interdetto o interrotto
drasticamente qualsiasi tipo di collaborazione.
Così, nonostante che al comitato proposto dal “Progresso Fotografico” avessero
aderito importanti personalità quali il deputato Giuseppe. De Capitani D’Arzago,
deputato milanese assai vicino a Salandra
il Comando reagì in maniera assolutamente negativa, così come negli stessi mesi
aveva recisamente declinato le offerte di un
analogo e anche più rappresentativo comitato per le invenzioni di guerra, appoggiato
fortemente dal Governo, e composto in
parte dalle stesse persone, compreso Rodolfo Namias, il Direttore del “Progresso
Fotografico”. Come informava sommariamente lo stesso Namias, «il Ministero della
Guerra, pur lodando l’iniziativa, giudica
non si possano conciliare le esigenze militari coll’intervento sul campo di fotografi
non alle dipendenze dirette del Comando».
La gran parte della documentazione fotografica della guerra fu affidata così ai reparti fotografici alle dipendenze del
Comando Supremo, che funzionarono in
pratica da enorme agenzia fotografica, e
costituirono un canale di rifornimento essenziale per l’approvvigionamento della
stampa illustrata.
I reparti fotografici dell’esercito erano
nati alla fine del XIX secolo, ed avevano
avuto un primo collaudo durante la guerra
di Libia, quando alla iniziale specializzazione esclusivamente tecnica per un uso
operativo tattico, si affiancò una attività di
documentazione utilizzabile anche in funzione di sensibilizzazione dell’opinione
pubblica13.
Durante il conflitto, l’esile apparato già
esistente (tre “squadre” fotografiche, una
presso il Comando Supremo, una ciascuna
presso il comando della II e della III Armata, quattro squadre telefotografiche da
montagna, una assegnata al Genio, per un
totale di 23 fotografi) si sviluppò rapidamente, ampliando contemporaneamente i
propri ambiti di lavoro. Alla fine del conflitto risultavano aver prestato la loro attività oltre 600 fotografi militari, che avevano
realizzato oltre 150.000 riprese fotografiche.
Cosa significa questo dato? Che la
massa di 600 fotografi arruolati in un
ruolo che richiedeva una certa esperienza
del mestiere, poté essere raggiunta solo con
un larghissimo ricorso a civili richiamati;
inoltre non solo la massa operativa era civile, ma anche coloro che dirigendo il servizio ne ispiravano in qualche misura
l’azione.
In particolare, la squadra fotografica
addetta al Comando Supremo, oltre ad essere trasformata prima in “sezione” con
una maggiore dotazione di uomini e mezzi,
e poi in “Direzione del Servizio Fotografico”, per chiarire la sua preminenza sulle
altre, divenne particolarmente importante
perché operò in stretto rapporto con l’Uf-
Andrea Greco, Il servizio fotografico nell’esercito italiano. Il dibattito sulla documentazione fotografica agli inizi
della Grande Guerra, “AFT Rivista di Storia e Fotografia” n. 22 1995, p. 9; Angelo Del Boca-Nicola Labanca
L’impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori Riuniti, Roma 2002, pag. 9; una dettagliata ricostruzione della storia dei servizi fotografici italiani durante la Grande Guerra in Nicola Della
Volpe, Esercito e propaganda nella Grande Guerra, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Roma 1989. Cfr.
anche Id., Fotografie militari, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Roma 1980.
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
ficio Stampa del Comando Supremo, e fu
affidata fin dall’inizio ad Ugo Ojetti. La figura di Ojetti, arruolato nel Genio militare
con il grado di sottotenente, rientra in una
tipologia piuttosto interessante di intellettuali che durante il conflitto prestarono
servizio nell’Esercito, contribuendo in
modo importante a introdurre saperi,
competenze e modelli della società civile (e
politica) entro l’apparato militare.
Si trattava di personaggi come Giovanni Borelli, Giuseppe Prezzolini, Gioacchino Volpe e Giuseppe Lombardo Radice
impegnati nell’Ufficio Storiografico della
Mobilitazione Industriale e nel servizio “P”
al fronte, o anche giuristi e universitari
come Enrico Redenti, imprenditori come
Enrico Toniolo, scienziati come Vito Volterra tutti inseriti, in qualità di ufficiali dell’Esercito, in alcuni posti chiave che
gestivano il rapporto fra le forze armate e la
società civile durante la guerra.
Ojetti, dopo essere stato incaricato della
gestione dei beni artistici e monumentali
nella zona di guerra, fra il dicembre del
1915 e il febbraio del 1916 si occupò della
costituzione dell’Ufficio Stampa e Propaganda del Comando Supremo, di cui costituì la figura chiave. L’arrivo di Ojetti
comportò una svolta sensibile nei rapporti
fra il Comando e la stampa, facendo in
modo che la strategia di comunicazione del
Comando Supremo, praticamente limitata
inizialmente agli scarni e tecnici bollettini
ufficiali, e per il resto affidata a un’azione
di censura preventiva, passasse invece ad
una fase di collaborazione, seppur limitata
e controllata, con la stampa “amica”14, seguendo una linea di maggiore apertura
verso l’opinione pubblica, come avveniva
all’estero nei maggiori paesi alleati. All’interno dell’Ufficio Stampa e Propaganda fu
costituita la sezione fotografica, che assorbiva la funzione svolta dalla precedente
“squadra”, e di cui Ojetti assunse la diretta
responsabilità, mentre per il resto il comando delle altre sezioni e l’Ufficio nel suo
insieme fu affidato ad ufficiali di carriera
di più alto grado, nonostante Ojetti rimanesse comunque la figura “chiave” dal
punto di vista politico e culturale15.
È interessante notare che comunque
Ojetti aveva presentato, nel suo progetto per
la costituzione dell’Ufficio, la proposta di
istituire un servizio fotografico sul modello
della Section photographique de l’Armée,
costituita in Francia sotto la guida di Pierre
Marcel Lévi16, che aveva una impostazione
molto aperta e “privatistica”, contemplando
un notevole grado di autonomia e fra l’altro
una sostanziale autosufficienza sul piano economico raggiunta attraverso la vendita delle
14
Ojetti così si esprimeva in una sua relazione al Comando Supremo per la costituzione dell’Ufficio, parlando del coinvolgimento dei giornalisti migliori e più fidati: «Questo avviene ormai in tutti i paesi belligeranti. Per questo è necessario, magari sotto un’apparente eguaglianza di trattamento, dare solo a questi
migliori notizie opportune, temi da trattare volta per volta, piante topografiche, schizzi disegnati da ufficiali
di stato maggiore così frequenti nei giornali illustrati stranieri e ancora mai veduti in giornali illustrati italiani»; in: Relazione per la costituzione dell’Ufficio stampa al Comando Supremo, in Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Fondo Ojetti 250 Mss, 7, 14 busta 8, cit. in Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale
durante la prima guerra mondiale fra documentazione e propaganda, tesi di dottorato in Scienze storiche in età
contemporanea, Univ. Siena, a.a. 2011-12, p. 233.
15
Cfr. Marta Nezzo, Prodromi a una propaganda di guerra: i rapporti Ojetti, “Contemporanea” n. 2 aprile
2003.
16
Ojetti cita Pierre Marcel e Gabriel Faure, come realizzatori della section; cfr. ora sull’argomento Hélène
Guillot, La section photographique de l’armée et la Grande Guerre. De la création en 1915 à la non-dissolution,
“Revue historique des armées” n. 258 2010, pp. 110-117.
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immagini. Uno dei tratti caratterizzanti del
modello francese, che Ojetti si proponeva di
riprendere, era quello della collaborazione
richiesta agli stessi combattenti, per fornire le
fotografie da loro prodotte17. Questa impostazione, ribadita in un successivo promemoria specificamente destinato alla “propaganda per mezzo della fotografia”18, in cui si
contemplava anche la possibilità che il Comando acquistasse fotografie dai singoli ufficiali e soldati al fronte con «l’esclusiva di riproduzione per un periodo di tempo
limitato» in realtà fu solo molto limitatamente seguita nella prassi successiva, mentre
la necessità di avere un materiale abbondante
fu risolta dall’ampliamento già citato dei servizi, e il controllo della diffusione restò affidato saldamente allo stesso Ojetti19.
La figura di Ojetti fu particolarmente
importante anche per un altro aspetto, piuttosto rilevante e caratteristico, della produzione di fotografie di guerra, ossia la documentazione fotografica dei danni inferti al
patrimonio artistico e monumentale.
La propaganda francese all’interno e soprattutto all’estero, nei paesi neutrali, come
l’Italia, aveva subito collegato strettamente i
due temi della barbarie del nemico verso i civili (soprattutto i fanciulli e le donne del Belgio e delle zone occupate) e della barbarie
verso i monumenti. Un grande rilievo ebbero
le distruzioni inferte alla cattedrale di Reims
e alla Biblioteca di Lovanio. Mentre però era
difficile documentare in maniera inoppugnabile gli episodi di violenza tedesca sulla
popolazione civile, era molto facile portare
una documentazione fotografica dei danni al
patrimonio artistico, e quindi la fotografia
entrò fin dall’inizio con una certa importanza
nel dispositivo di propaganda francese.
Tutta una letteratura del genere entra
in larga misura a far parte dell’apparato
propagandistico alleato in Italia nei mesi
della neutralità, con opuscoli riccamente
corredati di fotografie e anche con cartoline illustrate20.
Un tale filone, ripreso e curato da
Ojetti presso il Comando Supremo, costituì in Italia un caso molto interessante di
produzione e diffusione di documentazione fotografica, poiché coinvolse anche
le Sovrintendenze e gli enti locali, con notevoli conflitti sia di competenza che di impostazione della rilevazione fotografica21.
Secondo Hélène Guillot, La section photographique de l’armée, cit., tale apertura fu determinata in realtà
dal ritardo con cui la Francia si mosse su questo terreno rispetto alla Germania. Ojetti si preoccupava comunque di precisare nel suo progetto di costituzione della sezione fotografica, che «Il Comando Supremo
esercita, naturalmente, diritto di controllo su tutte le fotografie di questo ufficio». Cfr. Ugo Ojetti, Relazione
per la costituzione dell’Ufficio stampa, cit., in Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale durante la
prima guerra mondiale, cit., p. 233-34.
18
Il promemoria, del 29 febbraio 1916, è riportato, assieme ad altri prodotti nello stesso periodo da Ojetti
per la costituzione delle varie sezioni dell’Ufficio, in Marta Nezzo, Prodromi a una propaganda di guerra,
cit,, pp. 332-337.
19
Come affermava lo stesso Ojetti in una lettera alla moglie del 1° marzo 1916, «Ora il gabinetto [… fotografico] rientra sotto la mia diretta tutela […] di fatto tutta la propaganda per la guerra, d’ogni paese, in Italia e fuori, è da stamane nelle mie mani». Ugo Ojetti, Lettere alla moglie, Sansoni, Firenze 1964, p. 228; cit.
in Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale durante la prima guerra mondiale, cit., p. 238.
20
Cfr. ad esempio Les Allemands destructeurs de cathédrales et de trésors du passé. Mémoire relatif aux bombardements de Reims, Arras, Senlis, Louvain, Soissons, etc. accompagné de photographies et pièces justificatives, Hachette,
Paris 1915. Mi permetto di rimandare per questo aspetto a Luigi Tomassini, La documentazione fotografica dei
bombardamenti e dei danni del patrimonio artistico ravennate nelle due guerre mondiali: la prima guerra mondiale,
in Parola d’ordine Teodora, a cura di Giuseppe Masetti-Antonio Panaino, Longo, Ravenna 2005, pp. 247-265.
21
Cfr. in proposito Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale durante la prima guerra mondiale, cit.
17
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
I servizi fotografici ufficiali delle forze armate e del Comando Supremo non erano in
realtà gli unici apparati impegnati nella documentazione fotografica della guerra. Un
altro caso interessante fu quello della Sezione
fotografica dell’Ufficio Storiografico della
Mobilitazione Industriale, che produsse una
documentazione dell’industria italiana che
non aveva precedenti e restò a lungo ineguagliata come ampiezza e sistematicità.
Il responsabile della sezione fotografica
era il sottotenente Riccardo Bettini, cioè,
anche in questo caso, un civile temporaneamente prestato al servizio militare, dato che
era in realtà il rappresentante della terza generazione dei noti fotografi Bettini di Livorno, una delle “case” fotografiche più note
e interessanti nel panorama italiano22.
LA CENSURA
Nonostante che gli interventi di Ojetti, la
progressiva e in un certo senso naturale
estensione dei servizi fotografici durante i
lunghi anni del conflitto, nonché l’attività di
alcune branche dell’amministrazione militare stessa rivolte al “fronte interno”, come
quella dello Storiografico, avessero intro-
dotto una notevole quantità di immagini relative al conflitto, superando quindi l’iniziale
impostazione di una censura preventiva che
semplicemente negava la possibilità di produrre immagini, la censura conservò un
ruolo fondamentale per quanto riguardava
la selezione delle immagini che effettivamente potevano essere viste dal pubblico23.
Per quanto riguarda la fotografia propriamente militare, tale incarico fu affidato alla
stessa Sezione fotografica di Ojetti che doveva occuparsi, fra i suoi compiti, anche
della “censura fotografica”24. In realtà l’impostazione iniziale del progetto di Ojetti,
che contemplava la possibilità di un contributo diretto da parte dei combattenti al
fronte, era in parte confliggente con il divieto assoluto iniziale di riprendere fotografie; la soluzione non fu trovata a livello
normativo con una nuova impostazione, ma
attraverso una serie di circolari e provvedimenti specifici, che peraltro nel loro succedersi facevano intuire che non solo l’iniziale
divieto assoluto non era in pratica mantenibile, ma che in certa misura si era costretti a
cercare di ricondurre entro le maglie della
censura militare un fenomeno di diffusione
di immagini che evidentemente tendeva a
superare i limiti della normativa25.
22
Su tutta questa vicenda, e sui risultati raggiunti, mi permetto di rimandare a Luigi Tomassini, La fotografia dell’industria. La grande guerra, in L’immagine dell’industria lombarda 1881-1945, a cura di Duccio Bigazzi-Giovanna Ginex, Mediocredito Lombardo-A. Pizzi, Milano 1998, pp. 99-126.
23
In questa sede ci riferiamo alla censura militare e specificamente a quella rivolta alle immagini fotografiche. Sulla censura in generale durante la guerra, cfr. Antonio Fiori, Il filtro deformante: la censura sulla stampa
durante la prima guerra mondiale, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 2001.
24
Nicola Della Volpe, Esercito e propaganda nella Grande Guerra, cit., pp. 16-24.
25
In particolare, con la Circolare n. 537 14 gennaio 1916, con oggetto: Fotografie nella zona di guerra, lamentando
che su riviste italiane e straniere circolassero immagini del fronte che non erano passate dalla autorizzazione dell’Ufficio Censura, e che erano con ogni probabilità state scattate da ufficiali o soldati, si attribuiva ai Comandi di
Armata la facoltà di proibire di nuovo in assoluto ai combattenti di riprendere immagini fotografiche della zona di
guerra. Il primo maggio del 1916 fu emanato un apposito Decreto Luogotenenziale (n. 498) con il quale si vietava
di «esibire, esporre, pubblicare, vendere o distribuire in qualsiasi modo o sotto qualsiasi forma, fotografie, disegni,
modelli, schizzi di armi, munizioni e posizioni delle nostre truppe, che non siano stati preventivamente approvati
dall’Autorità militare”. Ulteriori provvedimenti limitativi, che lasciavano però intuire il diffondersi di pratiche che
tendevano a eludere la normativa, furono emanati nel corso del 1917 e fino praticamente ai mesi finali della guerra.
Cfr. su di ciò Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale durante la prima guerra mondiale, cit., pp. 239-41.
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In ogni caso, si può dire che la preoccupazione principale della censura, nel caso
della fotografia, fu quella di controllare
l’afflusso delle immagini sulla stampa periodica e di informazione. Assai più limitato fu l’impegno a controllare il flusso di
immagini fotografiche direttamente dal
fronte verso l’interno, a parte qualche tentativo, effettuato anche con il ricorso alla
censura postale26; mentre come è noto su
questo ultimo terreno il governo italiano
esercitò una fortissima pressione censoria
per quanto riguardava scritti e comunicazioni epistolari27.
Il che ci porta a considerare la fondamentale importanza, oltre alla questione
della produzione, della circolazione delle
immagini fotografiche attraverso quello
che all’epoca si poteva considerare il medium visivo di maggiore diffusione, e cioè
la stampa periodica illustrata.
2. IMMAGINARI
Dopo aver esaminato la fase della produzione delle fotografie di guerra, associandola
alla parola chiave del “controllo” di questa
produzione, delle varie agenzie e protocolli
che si occupavano di gestire la particolare
visibilità garantita dal mezzo tecnico di registrazione visiva, conviene ora esaminare la
circolazione e la diffusione effettiva di fotografie, seguendo il nostro schema tripartito
per cui dalla funzione dell’operator, del produttore, si passa ad esaminare il polo opposto del processo fotografico, ovvero quello
che corrisponde allo “spectator”, cioè allo
stadio della fruizione delle fotografie.
Assoceremo questa fase alla parola
chiave “immaginari”, una parola estremamente diffusa nei recenti studi sulla
rappresentazione della guerra. L’immaginario sociale, inteso come la capacità di
un gruppo sociale di rappresentarsi il
mondo con l’aiuto di un insieme articolato di immagini che gli forniscano un
senso, è un concetto molto utile per analizzare l’insieme di immagini prodotte e
circolanti negli anni di guerra. Un primo
aspetto importante è che l’immaginario
sociale costituendosi come sostrato della
vita mentale, in un certo senso mediando fra il reale e il simbolico, ci induce a riflettere sul fatto che le immagini
della guerra che ci sono pervenute e che
ora esaminiamo non sono solo un modo
per conoscere oggi la realtà della guerra
di allora, ma sono state anche un elemento attivo del processo storico, hanno
esercitato esse stesse un ruolo più o
meno importante nel determinarne il divenire, non fosse altro come parte integrante della informazione e della
propaganda di guerra.
Il secondo aspetto, direttamente connesso a questo, è che ricollegando decisamente la produzione di immagini alle
tensioni e alle relazioni che strutturano il
rapporto degli individui con il loro contesto sociale, il concetto di immaginario sociale ci aiuta a concepire la produzione di
immagini non come un corpus statico, indifferenziato, composto da elementi omotipici, ovvero esteso e definito in modo
uniforme, ma come un complesso in cui
esistono alcune parti particolarmente attive
e significative.
Circolare n. 12347 6 ottobre 1917, Censura postale – Divieto di commercio di fotografie, schizzi e disegni di
carattere militare, in USSME, A91; cit. in Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale durante la prima
guerra mondiale, cit., p. 241.
27
Su questo tema, più in generale, cfr. il fondamentale studio di Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Bollati Boringhieri, Torino 2000 (2 ed.).
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
Qui non ci interessa cercare di vedere
attraverso le fotografie “la guerra com’era”,
ma cercare di capire quali fossero effettivamente le immagini che circolavano, che venivano viste, e come su di esse si potessero
costruire immaginari sociali diffusi e condivisi. Avvertendo però che la particolare
natura della fotografia impediva di costruire immaginari con la libertà di ricostruzione immaginativa e fantastica
dell’illustrazione tradizionale, ma imponeva un vincolo forte e costante con la “realtà” della guerra, o quanto meno con
l’oggetto, la determinata configurazione
spazio temporale del reale che veniva riprodotta dall’apparato fotografico, sia pure
come traccia, ombra, come “spectrum” appunto.
Questi due aspetti, la ricerca cioè del
massimo della diffusione sociale delle
immagini e il vincolo “realista” che obbliga a precise scelte di contenuti, caratterizzano la presenza della fotografia
nella stampa illustrata di informazione (e
in parte di intrattenimento) durante la
guerra.
La produzione di immagini fotografiche durante la guerra fu enormemente più
ampia di quella che circolò sulla stampa,
ma solo una piccola parte ebbe una diffusione sociale di massa; la gran parte ebbe
circolazione limitatissima, spesso solo privata nel ristretto ambito familiare o delle
relazioni personali dei loro autori; si tratta
di immagini utilissime per noi oggi per cercare di capire quale fosse la realtà del conflitto e per costruire una “memoria
culturale” della guerra; ma le immagini che
all’epoca, in seguito al processo di controllo che abbiamo appena esaminato, avevano una circolazione pubblica di massa,
erano molto meno numerose e molto precisamente selezionate per tipologie e contenuti.
In questo paragrafo cercheremo in
primo luogo di quantificare il fenomeno,
parametrando il “corpus” costituito idealmente dalle immagini fotografiche pubblicate dai maggiori periodici illustrati italiani
sia in relazione all’universo complessivo
delle immagini prodotte, sia in relazione al
peso dell’illustrazione non fotografica; in
secondo luogo cercheremo di capire quali
fossero i soggetti rappresentati e quindi gli
immaginari proposti, dedicando una particolare attenzione al tema della “banalizzazione” della guerra attraverso la
fotografia.
2.1. La saturazione di immagini della guerra
totale: la “Domenica del Corriere” 19151918.
Il fatto che la Grande Guerra si avviasse a
diventare “guerra totale”28 significa anche
che la guerra divenne praticamente l’unico
soggetto rappresentato; e quando non era
rappresentata direttamente, restava comunque il parametro, il punto di riferimento indiretto di ogni rappresentazione,
in misura molto maggiore che le guerre del
passato.
Per quanto schematico sia un indicatore puramente quantitativo, tuttavia non
si può non tener conto del fatto che durante la prima guerra mondiale il più famoso e diffuso settimanale illustrato
dell’epoca, la “Domenica del Corriere”, dedicò alla guerra e agli eventi ad essa connessi poco meno del 90% delle fotografie
pubblicate sulle sue pagine.
Allo scoppio della guerra europea, nel
1914, sorsero nuove testate specificamente
A quanto ne sappiamo il primo consolidarsi del termine in un uso “pubblico” come un titolo di un libro,
è in un volume di Leon Daudet del 1916, intitolato appunto La guerre totale.
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dedicate alla guerra29; e soprattutto le esistenti rivolsero quasi esclusivamente la loro
attenzione al conflitto in corso. Il caso più
eclatante fu quello dell’“Illustrazione popolare”, edita a Milano da Treves, che già
dal n. 33, del 13 agosto 1914, cambiava il
titolo in “La Guerra Europea”.
Sulla “Domenica del Corriere” le fotografie non di guerra, che nei primi mesi del
1915, fino al maggio, erano il 53% del totale, scesero drasticamente e progressivamente dopo l’intervento in guerra
dell’Italia e negli anni successivi, fino ad essere meno del 9% nel 1918.
Negli anni immediatamente precedenti il
1914, nella “Domenica del Corriere” l’illustrazione fotografica aveva già acquisito un
ruolo assolutamente predominante, ma non
esclusivo: come è noto, rimanevano illustrate
manualmente le due pagine più importanti, la
Tabella 1
Categoria
prima e l’ultima di copertina, ed inoltre la illustrazione manuale aveva ancora un ruolo all’interno del periodico. Sotto questo aspetto,
il settimanale segue del resto un trend tipico
dell’epoca: sono questi gli anni come è noto in
cui si ha una profonda trasformazione nell’illustrazione della stampa periodica30.
Nel complesso si contano durante i 4
anni di guerra 4.230 immagini fotografiche
pubblicate: che diventano 7.810 se si aggiungono le 3.580 fotografie formato tessera contenute nelle rubriche dedicate ai
caduti e ai decorati. In maniera del tutto
empirica, abbiamo cercato di ripartire le
foto in categorie tematiche. Per fare ciò abbiamo adottato una suddivisione in 12 tipologie; la ripartizione delle foto durante
tutto l’arco degli anni 1915-1918 è quella
evidenziata nella tabella 1, che mostra anche
la suddivisione nelle varie categorie.
1915
1915 1916
prima
dopo
del 24 maggio l’intervento
Combattimenti
30
7
6
Paesaggi di guerra
80
193 238
Soldati e eserciti
61
169 164
Prigionieri, feriti, morti
7
41
60
Regnanti, militari, personalità
47
145 180
Armi, munizioni, lavoro
34
88 133
Distruzioni
10
12
53
Cerimonie, commemorazioni
18
31
62
Storia della guerra
0
9
25
Tecnologia e trasporti
14
11
24
Manifestazioni collettive per la guerra
12
17
3
Foto non di guerra
284
51 147
Totale
597
774 1095
1917
20
170
111
37
157
195
41
69
16
19
2
124
961
1918
(fino al
novembre)
15
97
161
22
119
90
39
62
4
10
13
68
700
Fra queste, oltre a quelle citate nel testo, uscirono nei primi mesi del conflitto “La guerra europea” e “La
guerra illustrata” di Sonzogno, mentre Treves pubblicava “La guerra delle nazioni”, e l’editore napoletano Bideri “La grande guerra europea del 1914-1915”. Devo queste notizie a Francesco Mineccia, che mi ha cortesemente anticipato il testo in via di pubblicazione di una sua relazione dal titolo La Grande guerra in tempo
reale: le dispense illustrate italiane nel periodo della neutralità (agosto 1914-aprile 1915) al convegno The Great
War and the Illustrated Press, Paris XIII-MSH Paris Nord, 5-6 June 2013.
30
Anne-Claude Ambroise-Rendu, Du dessin de presse à la photographie (1878-1914): histoire d’une mutation technique et culturelle, “Revue d’histoire moderne et contemporaine” XXXIX 1992, p. 10, osserva che già nel 1900
più del 53% delle illustrazioni del maggiore settimanale illustrato francese (“L’Illustration”) sono fotografiche;
anche in questo caso con la guerra si ha un balzo in avanti e la percentuale passa all’80% nel 1914.
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
Si tratta di dati riferiti al numero di
tutte le foto effettivamente pubblicate, con
esclusione dei disegni, delle copertine,
delle illustrazioni pubblicitarie, nonché
delle fototessere dei caduti e decorati: queste ultime abbiamo ritenuto opportuno
scorporarle, e ne parleremo nell’ultimo paragrafo, dato che tematicamente e graficamente costituiscono un corpo a sé nella
pubblicazione.
Come si vede, un primo dato è la evidente diminuzione delle foto non di guerra
dal momento dell’intervento dell’Italia:
con una forte cesura a partire dal mese di
maggio, ma con un trend che si estende
anche negli anni successivi (le foto non di
guerra diminuiscono costantemente fino a
tutto il 1918).
Una diminuzione non così evidente ma
comunque marcata e costante hanno
anche le foto che abbiamo classificato nella
categoria 2: ovvero paesaggi, ambienti della
zona di guerra in cui il fattore ambientale
paesaggistico era esclusivo o dominante rispetto alla presenza umana o ad altri temi.
Fra le altre categorie, è piuttosto evidente che la categoria 11 (manifestazioni
collettive) è particolarmente accentuata
negli anni 1915 e 1918, ovvero in coincidenza della entrata in guerra e della vittoria: mentre per il resto, le oscillazioni più
forti si hanno fra la categoria 3 (foto di soldati) e 6 (produzioni di guerra). Nel 1917
si ha una netta diminuzione della prima,
mentre la seconda ha un picco verso l’alto.
Anche qui la spiegazione è piuttosto evidente: nel 1917 infatti si ha Caporetto, che
provoca una diminuzione nel numero delle
fotografie di militari, mentre nel contempo
il paese cerca di valorizzare lo sforzo del
“fronte interno” dove non solo le produ-
zioni di guerra sono in aumento, ma anche
è necessario rispondere in qualche modo a
fermenti contrari alla guerra che scuotono
in profondità il mondo del lavoro.
Sostanzialmente costante, anzi in crescita percentuale, è la categoria riservata
alle personalità di governo e militari.
Nel complesso, le tipologie di gran
lunga più frequenti, nell’ambito delle foto
che sono in relazione con la guerra, sono
la 2, la 3, la 5 e la 6, che si collocano ciascuna con una percentuale da un quinto a
un settimo della quota complessiva; poi le
categorie 4, 7, 8, con quote che oscillano
attorno al 5%, e poi tutte le altre con quote
nettamente minori (attorno al 2%).
Il dato senz’altro più significativo è che
fra queste categorie vi è quella della rappresentazione della guerra per eccellenza:
ovvero la rappresentazione del combattimento (cat. 1).
2.2. I limiti del rappresentabile: il combattimento e la morte
Questo dato ci obbliga a soffermarci su
questo punto, già notato in molti studi, ma
in ogni caso ineludibile, della relativa scarsezza di foto di combattimento, le più
drammatiche e coinvolgenti, così come
delle foto dei soldati morti, quelli italiani
in particolare, del tutto assenti in pratica
sui giornali illustrati che abbiamo esaminato. Come hanno chiarito gli studi esistenti, che di questo aspetto si sono
largamente occupati, questa assenza era dovuta congiuntamente a motivi tecnici, per
la difficoltà di riprendere scene di battaglia
sotto il vincolo di una situazione tattica che
non lasciava praticamente nessuno spazio
alla dimensione dello sguardo31, e a motivi
di censura e di autocensura: questi ultimi
31
Come aveva sottolineato con grande efficacia Eric J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1985.
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particolarmente evidenti nella rappresentazione dei morti.
Nel loro insieme, le foto di combattimenti negli anni del conflitto sono sulla
“Domenica del Corriere” solo l’1,5%. Una
percentuale bassissima, come si vede, a cui
però fa da contraltare la percentuale di
quasi il 45% di immagini dedicate al combattimento nelle tavole di Beltrame. Come
è noto, le illustrazioni di Achille Beltrame
comparivano a colori nella prima e nell’ultima pagina di copertina del settimanale;
per cui avevano un ruolo assolutamente
privilegiato. Come ha notato Antonio
Faeti, “quelle tavole acquerellate si [fondavano] su artifici retorici che media più
complessi e più nuovi non possono
usare”32 e per l’epoca avevano una efficacia
complessivamente assai alta.
La ripartizione delle immagini sulle copertine della “Domenica del Corriere” è
quella che appare dalla tabella seguente:
Come si vede una ripartizione del tutto
diversa rispetto a quella delle fotografie.
Con la significativa eccezione del 1917, un
Tabella 2
Categoria
Combattimenti
Paesaggi di guerra
Soldati e eserciti
Prigionieri, feriti, morti
Regnanti, militari, personalità
Armi, munizioni, lavoro
Distruzioni
Cerimonie, commemorazioni
Storia della guerra
Tecnologia e trasporti
Manifestazioni collettive per la guerra
Foto non di guerra
Totale
anno difficile non solo per Caporetto, la
quota di immagini di combattimento, nell’illustrazione manuale delle prime pagine
della “Domenica” era sempre pari o superiore al 50%. E la stessa osservazione potrebbe esser fatta per le pagine finali, che
seppure in misura minore assolvevano alla
stessa funzione di un primo impatto visivo
per il lettore.
Il combattimento quindi era ancora
privilegio dell’illustrazione tradizionale: un
dato che si ritrova anche sulle pagine
dell’“Illustrazione Italiana”, dove le copertine non sono necessariamente illustrate, e
dove quindi vi è una maggiore libertà di
impaginazione: ciò non toglie che anche
sull’ “Illustrazione Italiana” le immagini di
combattimento siano affidate spesso alla
matita dei disegnatori, mentre le copertine
vengono utilizzate per una diversa tipologia d’immagini (soprattutto fotografie di
personaggi pubblici, personalità del governo e militari)33.
In questa situazione per cui l’immagine
manuale, per il resto in via di netta dimi-
1915
17
1
3
2
2
1916
34
1
4
3
2
2
0
1
2
1
2
0
4
1
30
52
1917
18
15
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2
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1
52
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44
Totale
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12
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3
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2
178
Antonio Faeti, La guerra di Arcipiombo, in Il cinematografo al campo. L’arma nuova nel primo conflitto mondiale, a cura di Renzo Renzi, Transeuropa, Ancona 1993, p. 119.
33
Rimando per questo, come per altri aspetti della diffusione della fotografia sulla stampa periodica dell’epoca, a Luigi Tomassini, Immagini della grande guerra: fra pubblico e privato, “AFT. Rivista di storia e fotografia” n. 22 1996, pp. 35-47 e n. 23, pp. 39-49.
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
nuzione, recupera un suo ruolo durante il
conflitto proprio per rappresentare il combattimento, è da osservare che un tale atteggiamento è comune a molti paesi in
guerra34; ma vi sono delle eccezioni rilevanti, che fanno capire che era possibile
una rappresentazione molto più realistica35.
La mancanza di morti è evidentemente
da attribuirsi sia, come già detto, ad una
autocensura dei fotografi, ma soprattutto
(visto che la disponibilità di immagini
degli archivi oggi accessibili rivela una certa
quantità di fotografie di scene di morte) al
funzionamento dell’apparato di controllo
sopra descritto. Per quanto le singole immagini pubblicate offrano contenuti indubbiamente interessanti per il pubblico
dell’epoca, nel suo complesso la visione
“pubblica” della guerra espunge il dramma,
l’esperienza di guerra, la banalizza riducendola in termini di razionalità e di quotidianità su misura di un pubblico
“esterno” al vissuto reale dei combattenti36.
3. La memoria culturale della guerra: archivi – tracce – rappresentazioni
Seguendo sempre, in questo rapido nostro
schema, delle tre fondamentali figure che
caratterizzano il processo fotografico, resta
da esaminare quella forse più enigmatica,
che Barthes definisce lo “Spectrum”.
Spectrum è l’oggetto (o l’individuo)
rappresentato dalla fotografia; viene chiamato così perché un istante dopo lo scatto
della fotografia appartiene già al passato, la
sua presenza in quella particolare congiunzione spazio-temporale è cessata, in un
certo senso è già morto, e quella che ci
resta attraverso la fotografia, per quanto simile, è solo un’ombra.
Questa denominazione adottata da Barthes potrebbe apparire stravagante, o
quanto meno troppo sofisticata, visto che si
deve designare semplicemente il contenuto
dell’immagine; ma in realtà corrisponde
almeno in parte a un luogo comune molto
diffuso, al fatto cioè che quando un individuo si fa fotografare si può dire che è stato
“immortalato” dalla fotografia. In altre parole si stabilisce una funzione memoriale
della fotografia, in rapporto diretto con il
tempo, e quindi (anche nel termine) con la
morte.
L’aspetto un po’ paradossale di questo
fenomeno è che mentre ci si potrebbe
aspettare che gli “spectra” si assottiglino e si
diradino col tempo, fotograficamente possiamo vedere oggi molto più di quanto potesse vedere un qualsiasi “spectator” di
allora.
L’operazione di render visibili le fotografie della guerra, anche quelle che il controllo, la censura, e la regia degli apparati
governativi e della stampa, avevano lasciato
del tutto sconosciute negli archivi, o quelle
Laurent Veray, Montrer la guerre. La photographie et le cinématographe, “Guerres mondiales et conflits
contemporains” n. 171 1993, pp. 113-114.
35
Cfr., per il caso assai interessante della rivista “Le Miroir”, Joëlle Beurier, Images et violence 1914-1918.
Quand Le Miroir racontait la Grande Guerre, Nouveau Monde Éditions, Paris 2007 ; ed anche Stefano Viaggio-Luigi Tomassini-Joëlle Beurier, Soldati fotografi. Fotografie della grande guerra sulle pagine di “Le Miroir”,
Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto 2005.
36
Sul tema della “banalizzazione” operata dalla fotografia rispetto al tema della morte e della violenza, recentemente riportato al centro del dibattito storiografico dalla discussione attorno alla mostra e catalogo di
Clément Chéroux (a cura di), Mémoire des camps, photographies des camps de concentration et d’extermination
nazis, 1939-1999, Marval, Paris 2001, cfr. alcune considerazioni in Ilsen About-Joëlle Beurier-Luigi Tomassini, Lo storico di fronte alle fotografie della violenza estrema, in Fotografie e violenza. Visioni della brutalità
dalla grande guerra ad oggi, numero monografico di “Memoria e Ricerca” n. 20 sett.-dic. 2005, pp. 5-21.
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che avevano circolato ma solo in forma privata tra fronte e paese, era cominciata già
subito dopo la guerra, anche per intenti
politici molto determinati; ma ora ha compiuto passi da gigante. Se si visita il sito di
Europeana, che dà accesso a molte (ma
non tutte) delle risorse digitali relative alla
guerra disponibili di internet, già troviamo
immediatamente milioni di immagini disponibili.
Lo spectrum della fotografia nel nostro
caso si incarna dunque in una quantità
praticamente sterminata di reperti, per di
più dotati ciascuno almeno in parte di una
propria irriducibile individualità (le fotografie non si possono trattare come le
schede degli atti battesimali o come i registri di entrata e uscita delle merci, il cui
contenuto per la sua parte essenziale e significativa può essere normalizzato secondo schemi logici standardizzati).
Questo porta ad un certo disorientamento: la prima reazione da parte dello
storico consiste nel ricondurre questa
massa sterminata di fonti entro il quadro
canonico a cui è abituato; in primo luogo
la loro sistemazione archivistica, che oltre a
garantire la conservazione fisica, fornisce
una serie di informazioni dirette e indirette
che aiutano poi a riconoscerle come
“tracce” del passato, come indizi utili per
elaborare infine ricostruzioni attendibili sul
piano storico, rappresentazioni attuali di
quel passato eccezionale.
Tuttavia resta il fatto che queste moderne macchine della memoria che sono le
grandi banche dati di immagini coi relativi
motori di ricerca funzionano in un certo
senso proprio in maniera tale da dissolvere
tendenzialmente gli schemi tradizionali appena ricordati.
Da un lato costituiscono una risorsa di
straordinaria importanza e portata, se confrontata con la possibilità di accesso e di
conoscenza di questo tipo di fonti; dall’altra i modi di conservazione, catalogazione,
accesso di queste “fonti digitali” sollevano
una serie di problemi su cui ancora il dibattito è alle sue fasi iniziali37.
Tuttavia, oltre alla loro possibile utilizzazione in sede storica, che si può considerare quindi solo nella fase iniziale, vi è un
evidente uso di queste fonti, e di queste
tecnologie applicate al patrimonio culturale, in funzione memoriale.
La parola chiave per affrontare questo
ultimo punto, relativo allo spectrum, all’oggetto, al contenuto delle immagini, potrebbe essere dunque quella di memoria
culturale. La memoria culturale, secondo
l’accezione attualmente corrente di questo
termine in campo storiografico, si riferisce
ad operazioni tese a legare il passato al presente, modellando e mantenendo attuali i
ricordi fondanti, e includendo le immagini
e le storie di un altro tempo entro l’orizzonte del presente38; un compito per il
quale la fotografia pare avere una vocazione
particolare.
Indubbiamente la gigantesca operazione di digitalizzazione di una serie di
fonti in atto a proposito della guerra, favorita dalla ricorrenza centenaria, ma già in
corso da tempo, sembra indirizzata proprio
ad una operazione di memoria culturale,
oppure ad un orizzonte di “public hi-
Mi permetto di rimandare a Luigi Tomassini, Vita nuova di vecchi media: le fotografie storiche in rete fra
divulgazione e ricerca, in Media e storia, a cura di Francesco Mineccia-Luigi Tomassini, numero speciale di
“Ricerche Storiche” n. 2-3, a. XXXIX (2009), pp. 363-437.
38
Cfr. per questa impostazione l’opera di Jan Assmann, La memoria culturale: Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino 1997.
39
Cfr, Serge Noiret, “Public history” e “storia pubblica” nella rete, in Media e storia, cit., pp. 275-327.
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
story”39, cioè in definitiva a creare un collegamento diretto fa i reperti memoriali e il
pubblico dei fruitori, che spesso provvede
ad una risemantizzazione dei documenti,
saltando in un certo senso la mediazione
della storia, intesa come operazione di selezione e rimodellazione del materiale documentario e delle fonti che mira, oltre che
alla memoria del passato, alla sua comprensione critica.
Se cerchiamo su Internet Europeana, il
grande progetto di collezione digitale europea che ha una specifica parte dedicata
alla Grande guerra, vediamo che il sito prevede una impostazione che può costituire
senz’altro una risorsa per gli storici, ma è
concepito soprattutto per un uso memoriale e per eventuali azioni di “public history”. L’accesso principale è infatti relativo
alle “Storie famigliari sulla Prima Guerra
Mondiale” (con possibilità di vedere le storie pubblicate e un bottone interattivo “aggiungi la tua storia”), mentre la parte più
ampia della home page è dedicata ad una
iniziativa tipicamente di “public history”40.
È interessante osservare che la grande
maggioranza delle storie presentate, anche
al di là delle specifiche sezioni dedicate rispettivamente a “fotografie” e “cartoline”,
sono in gran parte costituite per la parte
documentaria da materiale fotografico.
Su questi aspetti legati, più che al lavoro dello storico propriamente inteso, ad
aspetti di costruzione di una memoria culturale (nonché al sempre incerto confine
fra questi due ambiti) si dovrebbe però riflettere in maniera ben più approfondita
di quello che non sia possibile in questo
saggio.
Quello che ci interessa però qui è di notare che questo tipo di operazioni memo-
riali con uso della fotografia non sono tipiche dell’oggi e delle metodologie digitali,
ma avevano avuto inizio si può dire al momento stesso dello scoppio della guerra.
Può essere utile ricordarlo, ricostruendo
un episodio finora assai poco noto, lateralmente accennato nei paragrafi precedenti,
relativo al primo tentativo effettivo di raccolta/produzione sistematica di fotografie
relative alla guerra, messo in atto dal Comitato Nazionale per la Storia del Risorgimento (CNSR).
Nell’agosto del 1915, il Ministero della
Pubblica Istruzione, attraverso il CNSR,
promuoveva una “Raccolta di testimonianze e di documenti storici sull’attuale
Guerra Italo-Austriaca” che al settimo dei
10 punti in cui si articolava prevedeva la
raccolta di materiale documentario grafico,
e in primo luogo dei “ritratti dei combattenti caduti e di segnalato valore”. Il programma veniva alla luce un paio di mesi
dopo l’iniziativa sopra ricordata de “Il Progresso Fotografico” di promuovere una collaborazione dei fotografi, professionisti e
dilettanti, e delle loro associazioni, allo
sforzo di documentazione della guerra; e
tendeva quindi a vanificare quella iniziativa, già respinta nel suo tentativo di interessarsi della zona di guerra, anche per
quanto riguardava il fronte interno.
Namias, il direttore del “Progresso Fotografico”, aveva cercato di resistere e ribadire la propria volontà di collaborazione,
ma aveva dovuto amaramente concludere
che il CNSR «è una emanazione del Governo, vuole che tutto quanto ha importanza per la storia della nostra guerra faccia
capo ad esso, e non ammette iniziative
estranee ad esso»; aveva dovuto quindi rassegnarsi di fronte a questo interlocutore
40
Al 22.12.2013, la home era ancora dedicata all’annuncio di un interessante “Collection day a Pordenonelegge” in collaborazione con l’«Associazione culturale WW1 - dentro la Grande Guerra».
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apparentemente così più potente e organizzato. In realtà, la raccolta di documentazione fotografica compiuta dal CNSR fu
assai meno sistematica e completa di
quanto non pretendesse il suo Presidente,
Boselli, all’inizio della guerra, e per quanto
riguarda la fotografia fu un quasi completo
fallimento a quanto risulta dai documenti
rimasti41 e dalle notizie disponibili.
Questo insuccesso dipese in buona
parte dal tipo di intervento che il CNSR
aveva programmato, che è molto interessante però retrospettivamente dal nostro
punto di vista.
Il Comitato infatti pensò di provvedere
emanando una circolare a tutti i sindaci dei
comuni italiani in cui richiedeva ai comuni
di appartenenza dei militari morti oltre ad
alcuni dati biografici, una fotografia del caduto. Il comitato chiedeva ai sindaci di
farsi tramite direttamente presso le famiglie, in termini nei quali questa commistione di pubblico e privato è evidente:
Prego inoltre la S.V. di voler cortesemente adoperarsi affinché la rispettiva famiglia, per il tramite di Lei, faccia invio di un ritratto fotografico
del suo congiunto. Qualora la famiglia possegga
una sola copia di tale fotografia il Comitato Nazionale ne farà diligente restituzione, dopo aver
provveduto a proprie spese alla riproduzione. Ma
è superfluo aggiungere che si fa appello alla S.V.
Ill.ma perché interponga i suoi buoni uffici affinché la fotografia venga possibilmente offerta
in dono42.
Questo episodio è poi caduto nel-
l’oblio, ma ho avuto occasione di verificare
in un caso specifico l’esito della richiesta
del CNSR, in maniera piuttosto incidentale, mentre facevo alcune ricerche in un
archivio di un comune toscano, a Castelfiorentino. Il Sindaco di Castelfiorentino,
avendo ricevuto ovviamente la richiesta, vi
aderì, e progettò anzi, per valorizzarla
anche a livello locale, una esposizione permanente nei locali del Comune. Come si
esprimeva una circolare indirizzata ai parenti dei caduti del comune, «perché rimanga per sempre memoria dei caduti sul
campo dell’onore, sarò grato alla S.V.
Ill.ma, se vorrà compiacersi di farmi avere
una fotografia del suo caro Estinto, per riprodurla e farne oggetto di mostra ai propri conterranei, sia presenti che futuri,
nella Sala maggiore del Municipio»43.
L’iniziativa non ebbe successo, anzi suscitò le sentite proteste di alcune delle famiglie dei caduti, e fu quindi abbandonata.
Tuttavia è a mio parere indicativa perché
testimonia del fatto che durante la prima
guerra mondiale si gioca una partita fra uso
pubblico e privato della fotografia che stabilisce nuovi equilibri.
La fotografia di guerra non ha solo un
valore documentativo o anche estetico o
evocativo; specie quando è fotografia dei
caduti, e quando il corpo del caduto è disperso o comunque non raggiungibile dalla
famiglia per le esequie, sulla fotografia del
caduto si addensa una ritualità che in parte
sostituisce quella delle normali onoranze
funebri. La fotografia diviene parte importante dell’elaborazione del lutto, come già
Maria Cristina Di Martino, I manifesti della grande guerra. Esposizione documentaria, iconografica e bibliografica del Fondo Guerra della Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma, “Accademie & Biblioteche d’Italia” nn. 1-4, gennaio-dicembre 2011, pp. 114-116.
42
Ministero della Pubblica Istruzione, Comitato Nazionale per la Storia del Risorgimento, circolare con oggetto Raccolta di documenti storici sull’attuale guerra; la copia da noi citata è spedita il 13 marzo 1917, e conservata in Archivio del Comune di Castelfiorentino, b. 204D.
43
Archivio del Comune di Castelfiorentino, b. 198 bis, f. Encomi e ricompense per atti di eroismo.
41
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-18ta
aveva osservato Pierre Bourdieu, e assume
quindi un valore “magico” (nel senso indicato da Roland Barthes, di emanazione diretta del reale e non di prodotto di una
specifica “arte”).
Anche questa dimensione eminentemente personale e privata della fotografia
veniva però messa in discussione dalla
guerra. Un tentativo molto simile a quello
compiuto da Boselli e dal CNSR si ebbe
infatti sulla stampa periodica.
Fin dall’inizio della guerra infatti la
“Domenica del Corriere” pubblicò una rubrica, variamente intitolata, ma comunque
dedicata ai caduti in guerra, consistente in
una o due pagine in cui erano ordinate le
fototessere dei caduti.
Spesso, almeno all’inizio, in abiti civili,
prima quindi presumibilmente che le famiglie avessero ricevuto una loro foto in
divisa militare, comparvero in ordine, sulle
pagine del settimanale (come del resto di
altri periodici: anche “La guerra italiana” e
“L’Illustrazione Italiana” avevano una analoga rubrica), i caduti.
In formato carte de visite o album,
senza altra indicazione se non il nome, il
grado e la località di provenienza; non evidentemente tutti, e a preferenza ufficiali o
volontari: ma comunque con regolarità
presenti sulle pagine del settimanale per
quasi tutto il primo anno di guerra. In
complesso, 1273 caduti apparvero in effigie sulle pagine del maggior settimanale illustrato italiano.
Per dare un ragguaglio, il numero dei
morti italiani durante le prime quattro battaglie offensive dell’Isonzo (cioè fino alla
fine del 1915) raggiunse il numero di
62.000.
Dal marzo 1916 però la rubrica si tra-
sformò, nel senso che ospitava non più i
caduti in guerra, sia pure selezionati secondo quanto abbiamo sopra detto, ma
solo i decorati al valore, non necessariamente caduti, con un simbolo che si riferiva al tipo di onorificenza ottenuta.
Si può ritenere, anche se non ne abbiamo prova diretta, che su questa scelta,
per così dire comunicativamente meno ingenua, avessero influito le obiezioni di
Ojetti, il quale aveva già da tempo osservato che «continua da mesi sui nostri periodici illustrati la deprimente pubblicazione a pagine intere e a doppie pagine dei
ritratti dei caduti in guerra […] e solo di
rado si è pubblicato il ritratto di uno degli
ufficiali o dei militari di truppa che hanno
avuto l’onore di una ricompensa al valore»44.
Tuttavia, anche questa rubrica ebbe fine
dopo circa un anno: l’ultima volta in cui
venne pubblicata fu nel maggio del 1917.
Anche in questo caso le ragioni immediate
possono essere intuibili, in un momento in
cui era in atto la decima battaglia dell’Isonzo, e in cui si profilavano momenti
difficili e decisivi sul fronte di combattimento come sul fronte interno45.
Ma si può anche leggere, a distanza,
questa cessazione, come l’abbandono
ormai di ogni dimensione privata, individuale, nel ruolo della fotografia di guerra
ospitata sui periodici e destinata quindi ad
uno sguardo “pubblico”.
Questa tensione fra sguardo pubblico e
dimensione privata risulta più evidente se
si prova ad effettuare un confronto con le
illustrazioni fotografiche dei giornali della
seconda guerra mondiale.
Mentre, come è stato già notato, le immagini pubblicate dei combattenti della
Cit. in Raffaella Biscioni, I danni al patrimonio culturale durante la prima guerra mondiale, cit., p. 237.
In complesso, sulla “Domenica del Corriere” vennero pubblicate 2.444 immagini di decorati in questa rubrica nel periodo sopra ricordato.
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Grande Guerra, a parte quelle appena citate dei caduti, sono di solito immagini che
non ritraggono individui, ma gruppi, che
cioè vedono il combattente come soggetto
anonimo, collettivo, talora addirittura ripreso di spalle, o dall’alto, o comunque
quasi come componente fra le altre del paesaggio o della macchina bellica, sostanzialmente passivo46, scorrendo giornali
illustrati come “Tempo” o “Signal”, o “Stars
and Stripes”, o altri settimanali della Seconda guerra, ci troviamo di fronte spesso a
primi piani di combattenti, visti in azione,
individualmente o in piccoli gruppi, con
una capacità di rappresentazione psicologica e di concentrazione dello sguardo sul
singolo combattente del tutto assente nelle
foto della Grande Guerra.
Nel contempo, però, queste foto della
seconda guerra mondiale hanno un valore
assolutamente esemplare, sono cioè assolutamente anonime, rappresentano in forma
individuale una situazione, un tipo, un genere collettivo. Così è per il pilota che scruta
il cielo prima del combattimento, per la sentinella che vigila attenta sull’orizzonte, per i
puntatori della contraerea, e via dicendo.
Si tratta insomma di tipi esemplari, che
pur colti in un una istantanea (naturalmente costruita, ma non è questo il
punto), esprimono una situazione generale, possono rappresentare un tipo universale, e per questo sono irreparabilmente
anonimi: se avessero un nome guasterebbe
probabilmente l’effetto.
Le foto dei caduti, anche se eroi, se decorati, della Grande Guerra, con il loro
volto fissato nella riproduzione formato
tessera, a volte senza neppure la divisa, con
la scarna ed essenziale nota del nome e del
luogo di nascita, e di quello di morte, rimandano invece ad una dimensione irrimediabilmente, al confronto, individuale
e privata.
Resistono, inconsapevolmente, ad ogni
tentativo di trasformare il dramma estremo
che li ha portati a comparire in effigie proprio lì, ad ogni sforzo di tradurlo in “immagini poetiche degli scrittori dell’entroterra”
o, se vogliamo, degli scrittori di cent’anni
dopo.
46
Secondo quanto scriveva Giulio Bollati, le fotografie della Grande Guerra erano in genere “noiose”, “solitarie”, “monotone”, “come se non dovessero essere viste da nessuno, nemmeno da chi ha premuto il pulsante della Kodak portatile” (Note su fotografia e storia, in Storia d’Italia, Annali 2, L’immagine fotografica
1845-1945, t. I, Torino, Einaudi, 1979, p. 51). Lo stesso giudizio, con parole assai simili, in Jorge Lewinski, The Camera at War. A history of war photography from 1848 to the present day, Simon and Schuster, New
York 1978, pp. 69-70.
360
Una pagina di un album realizzato dal Reparto fotocinematografico dell’Esercito, Museo Centrale del
Risorgimento, Roma, MCRR A 5, p. 3. Fotografo: tenente Lomaglio
Panorama dalla Valle di Visdende alla Valle del Fleous dalla q.ta 2400 presso la Forcella di Houbot.
14 agosto 1915, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR Album E 2, 18
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Sul Podgora dopo la battaglia dell’8 e 9 agosto 1916. Il groviglio dei reticolati distrutti, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR L 2 52
Una pattuglia di fanteria, Museo Centrale del
Risorgimento, Roma, MCRR Album B 1 081
362
Vedetta di un battaglione di Marina, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR A 5 248
La Cavalleria passa il Monticano, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR A 5 398
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-ta
Argine del Piave a Salettuolo, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR A 5 354 (Si noti
la squadra fotografica in azione sulla destra)
Arditi della Sassari a Santa Lucia, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR A 5 351
Soldati austriaci morti in una trincea, Museo
Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR
NEG NE 11 0086 A2
I morti per la Patria, “La guerra Italiana”, n. 10,
2° serie, 1916, p. 149
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L’aviatore Tenente Enrico Cottino, morto il 16 maggio 1917. Album Ulderico David con 80 foto, Ravenna, Biblioteca Classense
Produzione di guerra nel reparto fonderia dello stabilimento torinese della Società Anonima Italiana per la
Fabbricazione dei Proiettili. Fotografo: Gian Carlo
Dall’Armi. Archivio Storico della Città di Torino,
fondo G.C. Dall’Armi. “L’immagine è ripresa durante la spillatura di prova del metallo fuso” (B. Bergaglio, Gian Carlo Dall’Armi. Una storia torinese, in
http://www.sisf.eu/category/focus/ )
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Il Re Vittorio Emanuela e il Generale Joffre,
“Illustrazione Italiana” 19-09-1915
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-ta
Un gruppo di giovani donne italiane impiegate
dall'esercito inglese mentre scaricano munizioni
di artiglieria in una stazione ferroviaria del nord
Italia durante il 1918
La contessa Niobe Bevilacqua Lazise di Nogarole
che fu una vera madre per i bimbi dei richiamati,
durante la loro permanenza a Viserba. La contessa curava anche i piccoli bimbi dalle leggere
congiuntiviti. Album Ulderico David con 18
foto, Ravenna, Biblioteca Classense
Torino. Donne al lavoro presso lo stabilimento
della Società Anonima Italiana per la Fabbricazione dei Proiettili. Fotografo: Gian Carlo
Dall’Armi. Archivio Storico della Città di Torino, fondo G.C. Dall’Armi. “Le operaie indossano tute e cuffie da lavoro, obbligatorie
nei reparti con macchine utensili mosse da
cinghie e pulegge al fine di impedire infortuni
dovuti al trascinamento di abiti e capelli da
parte delle cinghie stesse. Per tale motivo era
vietato anche l’uso delle gonne” (B. Bergaglio,
Gian Carlo Dall’Armi. Una storia torinese, in
http://www.sisf.eu/category/focus/)
Regina Noè Ferrari con il figlio Giuseppe e la sua
capra si fanno ritrarre da un fotografo per spedire
la fotografia al marito e padre al fronte, Alagna
Lomellina, 1915
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La facciata della Basilica di San Marco protetta da difese antiaeree, Istituto Centrale per il
Catalogo e la Documentazione, G.F.N. archivio fotografico, Fondo Ministero Pubblica
Istruzione (MPI) N. inv. 147597
366
Basilica di S. Apollinare Nuovo, esterno – Danni riportati durante il bombardamento austriaco
del 12 febbraio 1916, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, G.F.N. archivio fotografico, Fondo Ministero Pubblica Istruzione (MPI) N. inv. 303885
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“Conservare per sempre l’eccezionalità del presente”. Dispositivi, immaginari, memorie della fotografia nella Grande Guerra, 1914-ta
Venezia. Deposizione della Statua
equestre di Bartolomeo Colleoni, per
proteggerla dai bombardamenti, Istituto Centrale per il Catalogo e la
Documentazione, G.F.N. archivio
fotografico, Fondo Ministero Pubblica Istruzione (MPI) N. inv.
305346
Venezia. Statua equestre di Bartolomeo Colleoni, Istituto Centrale per
il Catalogo e la Documentazione,
G.F.N. archivio fotografico,
Fondo Ministero Pubblica Istruzione (MPI) N. inv. 305265
367
368
Pola durante il bombardamento del 17 luglio 1918, Museo Centrale del Risorgimento, Roma,
MCRR E 4 13
Impianto cinematografico inglese autocarreggiato, Museo Centrale del Risorgimento, Roma, MCRR
Fp 7 52
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