ANIMAL studies
Rivista italiana di antispecismo
trimestrale
anno 1i numero 3 aprile 2013
chi muore e chi no
ricerche di filosofia della morte
ANIMAL STUDIES
Rivista italiana di antispecismo
trimestrale
3/2013 – Chi muore e chi no. Ricerche di filosofia della morte
numero a cura di Leonardo Caffo
Direttore responsabile
Leonora Pigliucci
Direttore editoriale
Leonardo Caffo (Università degli Studi di Torino)
Comitato scientifico
Ralph R. Acampora (Hofstra University)
Carol Adams (Southern Methodist University)
Steve Baker (University of Central Lancashire)
Matthew Calarco (California State University Fullerton)
Felice Cimatti (Università della Calabria)
Roberto Giammanco (University of California, Berkeley)
Enrico Giannetto (Università degli studi di Bergamo)
Oscar Horta (Universidade de Santiago de Compostela)
Andrew Linzey (University of Oxford)
Dario Martinelli (Kaunas University of Technology)
Peter Singer (Princeton University)
Tzachi Zamir (The Hebrew University of Jerusalem)
Redazione
Domenica Bruni, Leonardo Caffo, Rita Ciatti, Serena Contardi,
Maria Giovanna Devetag, Nausicaa Guerini, Claudia Ghislanzoni, Annamaria Manzoni, Marco Maurizi, Leonora Pigliucci,
Valentina Sonzogni, Antonio Volpe.
Revisione linguistica e traduzione
Sarah De Sanctis, Elisa Giuliana
ISSN 2281-2288
ISBN 978-88-97339-19-9
Reg. Trib. Roma n. 232 del 27/7/2012
© 2013 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop.
via Aldo Moro, 43/D - 04011 Aprilia
www.novalogos.it t info@novalogos.it
finito di stampare nel mese di aprile 2013
presso la tipografia città nuova di roma
Sommario
5
Editoriale di M. Ferraris
Articoli
9
Vivere e Morire: ma per davvero. 5 tesi, passando per 5 film di L. Caffo
15
Appartenere a una comunità, simpatizzare con un’altra – senza trascurare però tutto il resto di M. Andreozzi
34
Quando te ne andrai da qui di A. Manzoni
39
Heidegger e la morte animale di A. Volpe
42
La rimozione della soggettività dell’eterospecifico e la perdita del concetto di morte animale di R. Marchesini
Letture, Note e Critiche
48
Da morti si vive bene: la filosofia della morte a partire da Dissipatio H.G.
di L. Caffo
51
Flatus Vocis. Breve invito all’agire animale di M. Maurizi
53
L’anello mancante. Prolegomeni a una storia dell’architettura della sopraffazione di V. Sonzogni
59
Parità di A. Krebber
65
Morire da maiali, morire da cani: due libri sulla diversità delle sorti
di R. Ciatti
67
Gli animali e la morte di A. Massaro, G. Nicora
Dialogo
73
Indistinti nella carne che dunque siamo. Intervista a Matthew Calarco
a cura di L. Caffo
letture, note e critiche
Parità
André Krebber
Per Skylla e Corinna
Alcuni anni fa a Skylla, il cane di una
mia cara amica, fu diagnosticato il cancro. Ricordo come lei mi comunicò il triste messaggio per telefono: mi informò
dei fatti con trasparenza e tranquillità.
Un cancro alle ossa, aggressivo e molto
comune nei cani. Le probabilità di riuscire a curarlo erano molto basse, anzi,
sembrava proprio che lo stato di salute di
Skylla sarebbe peggiorato rapidamente e
intensamente. Il veterinario le diede sei
mesi di vita – un anno al massimo. La
normale comunicazione di questo stato
di salute, però, contrastava con il suono
della voce di chi la stava pronunciando:
instabile, alcune sillabe quasi incrinate,
sul punto di rompersi. Mentre lei cercava
di mantenere un contegno, la sua voce
era carica di tensione. Nel modo in cui
questo messaggio fu annunciato emerse
il conflitto tra fredda analisi e disperazione emotiva, tra l’inevitabile valutazione
razionale della situazione e l’abbandono
al coinvolgimento affettivo con un altro
individuo. Tuttavia, il senso di smarrimento sembrava nascere non tanto come
risposta a questa tensione pervasiva, ma
più come conseguenza dell’oggetto di
tale e tanta pena: un animale.
Non lo capii subito. Skylla era speciale
per me, la conoscevo molto bene perché
avevo passato molto tempo con lei. La
vedevo almeno una volta alla settimana,
e mi ci ero affezionato, anche se lei non
sembrava mostrare alcun interesse verso
di me. La consideravo parte della mia
cerchia di amici. La notizia inaspettata
che le rimanevano soltanto pochi mesi di
vita mi sconvolse emotivamente. L’immagine del cancro che decomponeva il
suo omero destro, l’osso che rende stabile la zampa anteriore superiore, cancellando così per sempre la sua abilità
di funzionare e causando a Skylla dolore
e sofferenze sempre maggiori, mi faceva
stare male. Le previsioni erano quindi
molto tristi, e la mia amica ed io, insieme a molti altri che conoscevano Skylla,
eravamo decisi a fare di tutto per rimetterla in salute.
Nei mesi seguenti, però, divenne sempre più evidente quanto questo atteggiamento fosse percepito, nel migliore dei
casi, come una posizione comprensibile
ma non matura né ragionevole verso un
animale malato. Anzi, tutti ci esortavano
a superare il nostro attaccamento emotivo
e a gestire la situazione in modo razionale. Questo disciplinamento della risposta
emotiva verso gli animali non è ristretto
a pochi casi limite, tutt’altro, è ampiamente riflesso in come li trattiamo: nella
modernità il rapporto tra animali e umani è regolato meticolosamente, e vede gli
animali sottoposti al potere umano. Gli
animali sono merce che respira. In molti
paesi la legge non vieta, bensì regola, la
loro uccisione. Il solo fatto di averli come
proprietà si affianca al potere decisionale sulle loro vite, in altri casi – quando
i soggetti animali sono beni comuni le
cui qualità individuali vengono completamente annullate perché irrilevanti al
loro impiego – si definiscono delle quote
per controllarli quantitativamente. E infine, quando nemmeno le quantità sono
cruciali per la loro amministrazione, la
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decisione si basa semplicemente su una
stima del peso collettivo. Eravamo consapevoli di questo atteggiamento, perciò
non fummo molto sorpresi quando il
veterinario ci consigliò di risparmiare a
Skylla il dolore futuro attraverso un’uccisione preventiva. Un comportamento
diverso sarebbe stato sorprendente. Certo, informò la mia amica della possibilità di amputare la gamba, ma la dissuase
immediatamente dal prendere questa
decisione; invece, nell’interesse del paziente, ci esortò a non indugiare troppo
a mettere a morte il cane, perché anche
il minimo ritardo avrebbe solo acuito le
sue sofferenze.
La maggior parte delle persone con cui
parlai concordarono senza esitazioni. Si
affrettarono a suggerire che in questo
momento terribile sarebbe meglio astenersi da trattamenti difficili e pesanti,
che poi non sarebbero forse soltanto una
perdita di tempo e di soldi? Invece sarebbe meglio per tutti, specialmente per il
paziente animale, se venisse “addormentato” o gli fosse “praticata l’eutanasia”.
Diversamente dai casi che coinvolgono
gli umani, nei quali l’eutanasia è circondata da scrupoli morali molto forti, queste parole vengono solo di rado supportate dalla piena coscienza dell’atto reale
di uccidere. Il più delle volte, se quando
si parla di umani prevale la complessità,
quando si tratta di non umani tale gesto è considerato niente di più che una
liberazione per il paziente. Tuttavia, la
consolazione insita in certi termini deriva da un oscuramento dell’ambiguità di
ciò che effettivamente succede: l’individuo in questione non si addormenta, né
viene sostenuto nella decisione di met-
tere fine alla propria vita – come invece
indica il termine eutanasia se riferito agli
esseri umani. Al contrario, è il “padrone”
dell’individuo a decidere della sua vita,
e le parole “eutanasia” e “addormentare”
non fanno altro che rendere l’atto di uccidere all’apparenza meno nocivo, meno
scioccante, facilitando la scelta al padrone o relativizzando l’azione della persona
che metterà in pratica la condanna. Una
tale dissimulazione linguistica sembra
necessaria, visto che di solito la decisione di porre fine alla vita di un individuo
non è affatto facile, specialmente quando
esso ci è vicino e non può comunicare in
maniera chiara i suoi desideri. Ri-definire rende più sopportabile l’onere di decidere, inoltre racchiude una certa verità,
in quanto queste scelte normalmente seguono un processo emotivo ben diverso
da altri incuranti atti di morte. Però provocano conseguenze di portata altrettanto vasta. Fui allo stesso tempo scioccato,
offeso, confuso e reso insicuro dall’asfissiante unanimità con cui tutti facevano
bella mostra di argomenti razionali e
umani in favore della soppressione di
Skylla come soluzione alle sue sofferenze, e dalla ferocia con la quale spesso scagliavano questi argomenti contro di me.
Sconcertato, presto mi stancai di questo
approccio pragmatico, e mi chiesi se in
questa pratica tanto consigliata ci fosse
davvero un compassionevole riconoscimento dei bisogni dell’animale, come
professavano i suoi difensori.
Mi ero quasi arreso all’inevitabile
quando la mia amica andò dal panettiere
e inciampò in un’indiscreta cagnetta a tre
zampe. Si scoprì che anche lei aveva sofferto di cancro alle ossa, con la stessa tri-
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letture, note e critiche
ste prognosi, ma invece di essere sottoposta a una iniezione letale, era stata curata
con la medicina moderna. Il chirurgo
Volker Hach stava sviluppando una cura
per i cani malati di cancro che non solo
sembrava potesse salvare la vita di Skylla, ma addirittura permetterle di tenersi
la zampa. Proprio come nella medicina
umana, la parte dell’osso affetta dalla
malattia viene asportata e sostituita con
una protesi ancorata alla restante parte
dell’osso. Era una prassi ancora in via di
sviluppo, e non era sicuro che l’avrebbe
guarita: Skylla sarebbe stata uno dei primi cani a sperimentare questa procedura; per di più la natura aggressiva del suo
cancro rendeva estremamente difficile
riuscire a eliminarlo totalmente dal sistema, ma era comunque un’opportunità e
ci diede nuova speranza. Inoltre, anche
se l’operazione non avesse avuto successo, Hach ci assicurò che l’amputazione
sarebbe stata un’efficace ultima spiaggia
– dopotutto la ricerca ha dimostrato che
la maggior parte dei cani se la cava molto
bene anche con tre zampe. Comunque,
la mia amica temeva di sottoporre Skylla
ad un peso troppo grande e ad un sistema ancora in fase di prova, e non voleva
prendere una decisione. Per valutare la
possibilità e le prospettive di un trapianto portammo Skylla alla clinica, e dopo
alcuni test fu chiaro che il veterinario
era molto positivo riguardo alle probabilità di successo. Quindi, dopo aver
esaminato tutti i possibili scenari, la mia
amica accettò di procedere col trapianto
e l’operazione fu fissata poche settimane più avanti. All’inizio, tutto sembrò
procedere secondo i piani: l’intervento
andò bene e Skylla sembrò riprendersi
nella prima settimana. Purtroppo però,
il nostro entusiasmo si rivelò prematuro.
La ferita non si rimarginò come avrebbe
dovuto, l’osso continuò a peggiorare lasciando l’innesto molto debole e Skylla
incapace di tornare a usare la zampa. A
malincuore, solo poche settimane dopo
dovemmo intraprendere un altro viaggio
verso la clinica per amputare l’arto, con
la speranza che almeno questa volta si sarebbe liberata del cancro.
A parte il peso emotivo dell’esito incerto, le settimane prima dell’operazione
e quelle seguenti non furono facili nemmeno dal punto di vista logistico. Prendersi cura di un animale malato di cancro
non è meno difficile che prendersi cura
di un umano con la stessa infermità, e
in più viene a mancare quasi totalmente
l’infrastruttura del sistema sanitario. La
mia amica viveva al terzo piano. A causa
dell’impossibilità di usare la zampa anteriore, Skylla, che pesava ben più di 20
chili, doveva essere trasportata su e giù
dalla scale almeno tre volte al giorno, per
poterla tenere all’aperto almeno finché
la sua condizione debilitata glielo avesse permesso. Quando era possibile, la si
portava a fare lunghe gite in spiaggia o
nella foresta, e per questo era necessario
pianificare dei turni di volontari. Inoltre,
bisognava organizzare le visite al dottore
in città, così come quelle alla clinica di
Hach, lontana centinaia di chilometri.
Questa situazione era complicata anche
dal fatto che la mia amica non aveva né
la patente né una macchina – anche se,
probabilmente, non sarebbe stata comunque in grado di guidare. Per ogni
viaggio, che durava due giorni e doveva
essere fatto durante la settimana, biso-
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gnava trovare un autista e una macchina. Per fortuna, un nostro amico si era
appena trasferito vicino alla clinica, così
non dovevamo passare la notte in motel.
Sicuramente senza il solido sostegno dei
suoi amici, il tentativo di salvare Skylla
sarebbe fallito prima ancora di cominciare, lasciandola al suo triste fato. Non
meno significativo fu il costo dell’impresa: infatti, sebbene il chirurgo non ci addebitò alcuna commissione a causa dello
stato di sperimentazione dell’intervento,
e per la stessa ragione ottenemmo forti
sconti sulla protesi, la somma da pagare
fu piuttosto consistente. L’intera iniziativa, insomma, richiese moltissime risorse
e tanta energia.
Questi compiti implicarono un certo
sforzo, ma permisero anche a tutti i coinvolti di modellare e intensificare il loro
rapporto personale con Skylla. A volte
andavo a trovarla di mattina. Salendo le
rampe di scale spesso la sentivo scodinzolare prima ancora di raggiungere l’appartamento, nelle giornate buone agitava
la coda così forte che perdeva l’equilibrio
sulle tre zampe. Trasportarla giù per le
scale ripide, con la spalla così debole e
la mia amica sui tacchi, era una vera e
propria sfida, ma una volta giunta a terra sana e salva Skylla zoppicava verso il
piccolo parco sull’altro lato della strada
dove nelle giornate di sole sorseggiavamo
caffè, osservandola masticare i fili d’erba o agguantare l’occasionale insetto che
vola basso.
Lanciammo un appello pubblico per
aiutare la nostra amica a raccogliere il denaro per la cura, ma con nostra sorpresa
molte delle risposte furono devastanti.
Un buon numero di persone reagirono
in modo ostile e aggressivo, altri definirono la spesa “inappropriata” e superflua.
Questioni che non sarebbero state affatto
problematiche se il paziente fosse stato
umano, all’improvviso fomentarono l’indignazione generale: un animale domestico sembrava essere sacrificabile, dopo
tutto. Certo, quando i fondi servono per
questioni private le richieste di sostegno
appaiono sempre problematiche, perché
i soldi non vanno a favore di un bene
comune, e noi ne eravamo ben consapevoli. Ma la mia amica stava davvero
lottando per pagare le procedure mediche, e non capivamo proprio perché un
individuo dovesse essere lasciato morire,
rifiutandogli un aiuto che sarebbe facilmente procurabile, solo perché mancava
un supporto finanziario. Specialmente in
virtù del fatto che per noi la stessa possibilità di aiutare e sostenere Skylla in quel
momento significava anche opporsi alla
mercificazione degli animali, e compiere
un passo fondamentale verso il riconoscimento dei loro bisogni e il rispetto dei
loro interessi. Verrebbe forse messa in
discussione una richiesta che riguardasse
la donazione di midollo osseo ad un paziente umano malato di cancro?
La maggior parte delle persone osservò
che mettere fine alla vita di Skylla era inevitabile, nonché la migliore tra le opzioni
disponibili. Fummo accusati di essere irragionevoli e crudeli verso il cane, anche
irrimediabilmente sentimentali. Perché
farle passare un numero indefinito di
settimane di stress, farle sopportare i dolori dell’operazione, del trapianto, della
chemioterapia e forse dell’amputazione?
Perché sentivamo il bisogno di accertarci che nell’interesse dell’animale non ci
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letture, note e critiche
fosse solo il risparmiarsi le ulteriori difficoltà della vita? Messo di fronte alle
dure conseguenze di una tale decisione,
fui molto combattuto. Ovviamente non
volevo che Skylla soffrisse inutilmente.
Questo in particolare ci tormentò quando lei non ricominciò ad usare la zampa
e dopo poche settimane il cancro ricomparve, anche se sentivo che troncare tutto
senza nemmeno lottare per la sua vita e
la sua salute sarebbe stato sbagliato. Tuttavia, questa decisione non spettava a me
o alla mia amica, ma a Skylla: cosa avrebbe voluto? Lottare? Arrendersi? Godersi i
suoi ultimi mesi di vita? Ma poi ha senso
associare questi pensieri, considerazioni,
desideri e speranze alla percezione che
un cane può avere del mondo? Chiaramente è difficile decidere della vita di
un’altra creatura. Forse non eravamo capaci di accettare l’inevitabile e di lasciarla
andare? Non sembrava che Skylla si fosse
arresa. Anche se era visibilmente stanca
e abbattuta dal dolore dell’arto eroso dal
cancro, sembrava felice, per quanto uno
possa esserlo in simili circostanze. Ma di
nuovo, avrebbe potuto arrendersi? Era
capace di capire cosa stava succedendo
e qual era la posta in gioco? Era allegra
con noi perché era felice di vederci, ma
misera e ansiosa di morire quando non
c’eravamo? Avevamo forse giudicato il
suo comportamento soltanto dalla nostra prospettiva soggettiva?
È indubbio che l’eutanasia, ad un certo
punto, può essere un sollievo. Alla fine
anche l’ultima, debole speranza di curare
Skylla andò in frantumi, e dopo l’insuccesso dei due tentativi – il trapianto e
l’amputazione – decidemmo proprio di
praticarle l’eutanasia, prima che il dolore
diventasse insopportabile. Tornammo a
questa opzione solo quando fu evidente
che la lotta non avrebbe salvato il paziente in fin di vita: anzi, fu estremamente
importante per noi l’averle dato la possibilità di combattere il cancro. Abbiamo
riconosciuto la sua individualità, la sua
capacità di affrontare le incertezze della
vita materiale di qualsiasi vivente, invece di rifiutarle tale unicità e dignità sin
dall’inizio relegandola allo stato di una
merce arbitrariamente rimpiazzabile. La
possibilità di salvarla, s’intende, implicava l’utilizzo della conoscenza umana
e della tecnologia moderna, e quindi un
inestimabile atto di solidarietà verso un
essere non umano.
Guardandomi indietro mi chiedo se
l’intera argomentazione – colorata di
umanitarismo – per l’eutanasia degli animali non faccia parte di una prospettiva
a dir poco rovesciata. L’eutanasia e la liberazione dalla sofferenza sarebbero solo
una faccia della medaglia umanitaria, e
l’altro lato consisterebbe nel condividere
il nostro progresso tecnologico con gli
animali, utilizzandolo a loro beneficio.
Negare le conquiste umane agli animali invece di condividerle con loro in un
atto di solidarietà riproduce una relazione strumentale e antropocentrica. Inoltre, pubblicizzare questo rifiuto come
assistenza umanitaria significa offuscare
la vera natura di questa attività e trasformarla nel suo opposto, limitarla al suo
risvolto negativo, ridicolizzando il nostro
potenziale di compassione e solidarietà.
Un’eredità di questo genere rispecchia
l’idea che gli esseri umani debbano essere
considerati separatamente dagli animali,
perché radicalmente diversi, e promuove
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l’asservimento dei secondi al governo dei
primi, asservimento sul quale si basa l’intera concezione dell’umano nella società
occidentale.
Di conseguenza, ogni sforzo per stabilire una relazione con gli animali che
abbandoni questa divisione di superiorità costituisce una minaccia al controllo e
alla stessa nozione di essere umano. Ogni
tentativo di trattare l’animale allo stesso
modo e con la stessa moralità delle persone deve essere scongiurato. Per questo
il nostro impegno per salvare Skylla dalla
morte doveva provocare un tale umanitarismo negativo, perché rinunciava
all’asserzione della superiorità dell’uomo. Le cure mediche di Skylla, attraverso l’applicazione animale di conseguimenti dell’essere umano diversi da quelli
che rafforzano la sua egemonia – qui
nella forma del potere di decidere sulla
vita e sulla morte di un individuo animale, e quindi di esercitare un controllo
totale su di esso – contestavano la credenza che gli umani siano radicalmente
diversi dagli animali e ridicolizzavano la
loro prolungata posizione di superiorità.
L’eccezionalità dell’essere umano fu confutata e il suo potere sovrano sfidato non
in teoria, bensì nella pratica.
Ovviamente, questo episodio non può
essere preso a modello dell’atteggiamento
generale verso il trattamento medico degli animali, e non può nemmeno essere
visto come un’inchiesta attendibile della
relazione con gli animali nelle società occidentali, né come un colpo feroce contro
la cultura antropocentrica dell’occidente.
Tuttavia, se si vuole seriamente superare
l’antropocentrismo non si può prescindere dall’invocare uno spirito di umiltà che
ritratti le rivendicazioni di superiorità e
dominio dell’essere umano sulla natura.
Per questo dobbiamo accettare che non
abbiamo in comune con gli animali solo il
pianeta su cui viviamo. Quello che Hach,
la mia amica e le persone che l’aiutarono
fecero per Skylla combinò la propensione
umana per il pensiero razionale e l’avanzamento tecnologico con la compassione
verso gli animali e la natura. Così facendo
contestarono la credenza che il dominio
sia il tratto caratteristico della ragione
strumentale umana nel rapporto con gli
animali, sostituendola con un’umile solidarietà verso il non umano. La speranza è
che attraverso cambiamenti di questo tipo
nella relazione pratica con gli animali non
solo possano trasformarsi l’attitudine verso di loro e la relazione attuale tra umano e animale, ma possa anche aprirsi una
strada verso un rapporto che sia meno
devastante di quello odierno, fondato
sull’impulso di rovesciare l’ordine naturale per mezzo della razionalità.
Dopo l’eutanasia di Skylla, il veterinario
che aveva diagnosticato il cancro all’inizio e sconsigliato cure prolungate ammise
che anche lei aveva cercato di combattere
la stessa malattia nel proprio cane invece
di ucciderlo. La confessione fece luce sul
suo conflitto interiore nonché sulla cultura repressiva che, per risolvere la contraddizione emotiva di queste situazioni,
l’aveva spinta a dare suggerimenti in linea
coi razionalissimi dettami della società.
Tuttavia, le sue parole offrono un barlume di speranza: forse la razionalità non ha
ancora del tutto cancellato e rimpiazzato
l’empatia con gli animali e la natura.
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Traduzione di Elisa Giuliana