Gennaio 2017
Magistra Via.
Una ri-lettura di alcuni giochi
tradizionali di terra jonica.
di
Tiziana Albano
Tempi moderni. Tempi di Play Station. Tempi di oscurantismo elettronico.
Ai bambini tarantini -ma soprattutto ai loro nonni - propongo invece la piacevole
esperienza “a rebours” verso la terra dei ‘balocchi e dei profumi’, quando giocare
era considerata la forma più seria e più alta di apprendimento della vita. Voglio
ricordare ai bambini di oggi di quanto bello fosse poter giocare all’aperto,
rigorosamente in strada o nei cortili che non erano ancora invasi dall'asfalto e dalle
macchine, non c’era il problema del polverino di ferro o del wind day.
In quegli spazi, magari sporchi ma aperti e pieni di luce, ci si trovava in gruppi a
imparare in fretta il vernacolo, a ‘menarsi mazzate’ e a prenderle 1. Quegli spazi,
quella polvere, quei giochi sono oggi un patrimonio da proteggere e condividere da
parte dei “bambini” di tutte le età.
I giochi documentano, secondo l’etnografo Paolo Toschi, le forme popolari
della vita quotidiana di un gruppo sociale perché in essi sopravvivono usi, riti,
credenze, scongiuri, canzoni, danze folkloristiche. Da tempo riscoperti come forme
di archeologia demologica, i giochi di strada sono considerati anche dal punto di vista
educativo come una delle esperienze che meglio permette alla persona di manifestarsi e nutrire gioiosamente la propria attività interiore, spontanea e/o intenzionale,
sempre indispensabile alla dinamica della propria evoluzione. La ludica, nell’ottica
pedagogico clinica non ha età per essere sperimentata, implica l’evitamento di
operazioni di tipo istruttivo, esalta la funzione energetica ed affettiva, fa ri-vivere
all’individuo la spontaneità come rinforzo alla iniziativa personale, all’autonomia,
promuove e sviluppa l’intenzionalità. In opposizione ai metodi istruttivi - noiosi e/o
poco stimolanti - come educatore esperto in pedagogia clinica ho accolto a piene
mani tale metodica attiva ed attrattiva che potenzia le attitudini funzionali di ognuno
1 Uno dei luoghi più amati per giocare – soprattutto a pallone (u’ futtebbàlle) – era il cosiddetto “Monte delle Vacche”,
attualmente inglobato in nell’area della nuova base navale a Mar Grande. Accanto a quello sono da ricordare luoghi un
po' più vicini al vecchio abitato di Taranto come Piazza d’Armi, Corvisea (attuale Palamazzola), il campo Arsenale.
Caputo N., Vieni c’è strada nel Borgo…, Taranto, Scorpione editrice, 2005
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ad ogni età, combinando contemporaneamente piacere e nutrimento per l’anima col
fluire libero di emozioni, sensazioni e ricordi. 2
Colgo l’occasione di parlare del gioco e delle sue valenze sociali ed educative
per adulti e bambini dalla fortuita lettura di un saggio del 1935 in cui l’etnologo
Giuseppe Cassano, nel capitolo V, con intento collazionistico classifica i giochi
popolari della città bimare in 34 <<fanciulleschi>> e 14 <<da adulti>> con l’intento
di conservarne la memoria.3 In questa sede ho trovato più utile, invece, segnalarli in
base al loro effettivo utilizzo come da “titulum rubricae” , anche con l’aiuto di un
“bambino” di tanto tempo fa: mio padre.
Giochi di tipo simbolico
Riguardano la ludica che presuppone l’imitazione con capacità rappresentativa
ed introducono il bambino alla simbolizzazione, fingendo che un oggetto rappresenti
altro. Nel caso del gioco detto ‘u ruezzele’ (trad: il ruzzolo), per esempio, il
movimento dell’oggetto induceva il bambino ad imitare il gracidìo delle rane
prodotto dallo stridore del movimento della mano. Con i tondi di latta dei lumini
cimiteriali, invece, si giocava a le piattìne. Con le cassette di frutta o le vasche
smaltate, un pò di cuscinetti a sfera ed una cordicella a mò di sterzo si giocava invece
a “brumme brumme o carruzzètte”, cioè alla corsa di automobili.4
-Giochi di tipo drammatico.
Sono quelli in cui l’esperienza ludica si esprime attraverso la persona che
comunica e si esprime con il movimento, il suono, i gesti, le parole, manifestando
liberamente i propri sentimenti e le emozioni al confronto con gli altri, sviluppando
l’espressività, la creatività e la socializzazione5.
Nella tradizione tarantina ne esistono alcuni che nella loro versione moderna
ricordano una famosa filastrocca adattabile a molti tipi di utilizzo - come, per
esempio, insegnare a discernere le varie parti del corpo o i vari alimenti della dieta
già in tenera età e con l’uso degli arti superiori.6 Tali giochi non solo favorivano la
conoscenza, l’abilità ed espressività delle mani e un abbozzo di singolarizzazione
2 Pesci – Mani, Dizionario di Pedagogia Clinica, Roma, 2013
3 Cassano G.1935,
4 Caputo 2001, pagg. 273 e sgg.
5 Pesci-Mani, op.cit. .
6 Il bimbo usa tutte le dita della mano per indicare ogni oggetto indicato nei versi. La filastrocca è quella che in
italiano approssimativamente recita ‘Piazza bella piazza, mi scappò una lepre pazza. il pollice la vide, l’indice
l’acchiappò, il medio la cucinò, l’anulare se la mangiò ed al mignolino nemmeno un pezzettino’. In vernacolo
nostrano abbiamo: Pereperièdde! No ng’é niènde. Quiste dice: Ije accatt’u pane, quiste dice:ije accatt’ u vine,
quiste dice: ije accatt’ u case, quiste dice: ije accatt’a paste, quiste dice: Pereperièdde! Vock’a chiazze, e nno
acchie niende. E cci acchie nu picche de pane, miènze a mme, miènze a u’ cane. Trad: Piripirello non c’è ninte!
Questo dice: io compro il pane, questo dice: io compro il vino, questo dice io compro il cacio, questo dice: io
compro la pasta. Questo dice Piripirello: vado alla piazza e non trovo niente e se trovo un poco di pane metà a me e
metà al cane. Cassano, op.cit., pag. 204 Un’altra versione in vernacolo tarantino insegna simbolicamente gli
elementi del viso: Vangareddùzze! Vuccùzza bbedde! ddò pertùse! Ddò muleddère! Ddò chiengùse fenestredde!
Ddò pelùse!e cchianga suse (trad.: mento piccolo e grazioso,boccuccia bella, due pertugi (narici), due mele (gote),
due finestrine ( le rime palpebrali), due piangenti (gli occhi), due pelosi (le sopracciglia) ed un coperchio sopra (la
fronte). Cassano, op cit., 203-204; Pesci G., Pesci A., pag. 66
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delle dita ma erano anche un luogo di integrazione 7 tra la realtà interiore e quella
esteriore del bambino, tra sé e l’altro proprio grazie alla facoltà tattile di quest’arto, la
cui importanza fu già intuita da Anassagora di Clazomene, tra VI e V secolo a.C. .
Giochi come Tuppe tuppe e Mane rosse alla valenza pedagogica aggiungevano il
valore intrinseco di ‘solidarietà nel momento del disagio’: entrambi erano tipici
dell’inverno momento in cui ognuno cercava di scaldare se stesso e l’altro facendo
colonnine di manine aperte o pugnetti chiusi. Botte a mane stimolava invece il
bambino a compiere esperienza di movimenti coordinati delle mani perché, in una
delle fasi del gioco, imparava a fare anche il nodo.
La cosiddetta educazione prescolastica ( attualmente appannaggio della scuola
dell’infanzia) quindi un tempo era tutta <<corporea>>. Tra i vicoli o nei cortili
dell’Isola e del Borgo Umbertino di Taranto così si cresceva e si socializzava : i
giochi potenziavano le abilità ed aiutavano a superare disagi, freni o impedimenti
poiché essi stimolavano l’individuo a :
-esprimere emozioni,sensazioni, stati d’animo che coinvolgevano il viso, il corpo, le
andature (A ccàvadde) e le posizioni (A seggetédde de Monzegnòre), gli orientamenti
spaziali (Scareca bbomme o a mùse;A iatte cecàte, ‘u spezzidde” nella foto )
- a giochi imitativi (A tròcchele – trad.: la troccola8 – usata durante i celeberrimi riti
della Settimana Santa tarantina)
-immagini corporee,(le bedde statuine)
-a giochi di interpretazione di ruoli diversi (le pupe- il gioco delle bambole-)9.
7
8
9
Pesci G., Pesci A., pagg. 27 e segg.
Per “troccola” si intende una tavola ovoidale in legno scuro con impugnatura a semiluna da un lato e decorato da
manigliette e piastrine metalliche a mò di battente da entrambe i lati. Quando la mano scuote il manufatto i battenti
fanno un rumore abbastanza fragoroso. Per inciso, far il “troccolante” nelle processioni pasquali fin dai tempi
antichi è sempre stato considerato un onore incommensurabile all’interno del gruppo sociale.
Bambini e bambine “battezzavano” i propri bambolocci (le pupe) divenendo “compari e commari” (padrino e
madrina). Quando i bambini andavano d’accordo si diceva che “stavan accucchiàte”, al contrario, se sorgevano
motivi di insofferenza ad impedirne l’amicizia si diceva “stè scucchiate”. Questa procedura avveniva con una certa
solennità e secondo una certa procedura: al gruppo si presentavano le mani destre l’uno all’altro con le dita indice e
medio accavallate, segno della precedente amicizia. Uno dei presenti già designato si avvicina ai contendenti e li
invita a distaccare le dita secondo una formula rituale in vernacolo espressa con tono irato : “Scuècchie a quà”
(Separa qua!). I due bambini -ormai nemici- si strappano un capello e lo lasciano andare nel vento dandosi le spalle
e pronunciando l’ultima frase di rito che sancisce l’apertura delle ostilità: “sott’a ll’àrvule de l’alje addò sté muérte
u figghie mije!” (trad.: sotto l’albero dell’olivo dove giace morto mio figlio)
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L’alimentazione del controllo tonico muscolare era invece ‘curata’ attraverso
giochi come A lle rapìdde 10, Scàreca uarrìle (utile nel favorire anche lo scambio
emotivo relazionale11),Le castiédde, Manuè Zozzò 12, U zìppere13,
C’erano giochi con cui i bambini di allora acquisivano l’equilibrio, il controllo
motorio e muscolare (A cambàne, trad.: la campana; botta e fuce – trad: tocca e
scappa;), la conoscenza delle parti del corpo (‘Mane rosse’ e ‘botte a mano’; Tuzze
Martine; u zippere) e della respirazione (Le pambanèdde)14, la capacità e/o l’abilità di
rapportarsi con gli altri ( A lune e u’ sole).
Mano a mano che si cresceva il linguaggio del corpo diventava più complesso,
capace di controllare e coordinare i movimenti, l’espressione verbale e gestuale (u
tuecche -la conta-, a’ morre) per cui si passava a giochi più complessi come Le
mazzaredde (antesignano dell’attuale nascondino)15, magari un tantino anche
pericolosi (A cci tene cape de fierre!!!, trad: per chi possiede una testa di ferro),16
A ciò si aggiunge l’imitazione sia vocale che gestuale come nel caso del gioco
Tùmene seje?, del gioco detto U zammùche (in dialetto tarantino, il sambuco) o
schioppetto 17.
Un gioco che serve per la presa di coscienza degli arti superiori ma è anche un
invito a considerare in senso gioioso il pregrafismo è il gioco del salto con la corda.18
10 È un gioco che in area jonica si faceva con le pietruzze, ma altrove si usavano nocciole o monetine.
11 Risolvo, pag. 24-25. Era caratteristico il dialogo fra i due bambini, incatenati braccia a braccia si sobbarcavano il
peso dell’altro dicendo: “– Zi’ pre(vete)…, – zi’ mo(neche)…, – ce stè face? – n’ore de suenne. Uezete tu ca me
corche ije”. (Trad: Zio prete, zia monaca, che stai facendo? un’ora di sonno. Alzati tu che mi corico io) Quindi si
scambiavano le posizioni.
12 Si giocava per strada a ridosso di muretti o appoggiati ad un muro. Il numero dei partecipanti doveva essere il più
alto possibile. Si iniziava con il solito ‘tocco’ con tutti i partecipanti, quindi i compagni venivano scelti in modo
alternato e, coloro che uscivano dalla conta dovevano piegarsi in avanti, uno dietro l’altro. A seconda dei partecipanti,
si potevano creare delle code lunghe anche una diecina di metri. Il primo monello ( 'u prime chiumme) iniziava quindi a
saltare in groppa con una lunga rincorsa, in modo da potersi sistemare il più avanti possibile. E così via sino a che tutti i
‘chiummi’ si erano posizionati sopra. A questo punto iniziava la gara, quelli di sopra, abbrancati uno con l'altro, per non
cadere,gridavano: MANUE' ZOZZO', pes'u chiumme si 'o no?! E quelli di sotto, se riuscivano a sopportare il
pesorispondevano NONE! Si andava avanti così sino a quando o quelli di sotto non cedevano e quindi per penitenza
dovevano sopportare un nuovo ‘chiummo’ oppure quelli di sopra non riuscivano a mantenersi in equilibrio. Bastava che
uno solo toccasse terra con un piede, che le parti si invertivano. Un gioco molto semplice ma a volte faticoso che
metteva a dura prova i muscoli.
13Quando le vie del borgo non erano invase dalle automobili e i ragazzini (panarijdde) erano padroni di giocare per
strada dopo le giornate di pioggia si era soliti fare un gioco all’interno di un cerchio di terra umida e cretosa che veniva
lasciato libero dagli alberi mancanti nelle strade di Taranto. Lo strumento del gioco era una grossa lima da fabbro o una
vecchia raspa da falegname, lo scopo era quello di conficcare la lima nella terra umida facendola appoggiare su varie
parti del corpo e da quel punto farla piroettare e conficcare nella terra; si cominciava dalle dita della mano e poi si
passava alle parti del braccio, gomito, spalle e altre parti del corpo. Chi sbagliava non facendo conficcare la lima
passava la mano e nel prossimo giro doveva ricominciare, chi invece concludeva per primo il gioco si autoescludeva e
aspettava chi rimaneva piu' indietro nelle varie mosse; il perdente del gioco era quello rimasto indietro che non aveva
concluso le varie mosse. Questi doveva pagare una penitenza che consisteva nell'estrazione con la bocca e i denti di un
ramoscello di legno che tutti i vincitori conficcavano nella terra del cerchio; va da se' che tutti cercavano di conficcare
"u zippere" il più possibile per dare modo al perdente di assaporare la terra .
14 Era un gioco in cui le bolle d’aria si distaccano dall’estremo del cannello che è stato immerso in acqua saponata se
dall’altro estremo si soffia aria con la bocca
15 Risolvo, op.cit. Pag. 23-24
16 In un gruppo di ragazzi uno a sorpresa grida la frase e lancia verticalmente il sasso o altro oggetto mentre si affretta
ad allontanarsi per primo dal luogo del lancio. I compagni fuggono quanto più velocemente possibile per no essere
colpiti.
17 Dizionario dei giochi, Zanichelli
18 Risolvo E.R. 2010, pag. 25
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Una caratteristica che accomuna questi giochi è la costante presenza
dell’esperienza sonora, cinetico respiratoria e verbale ma soprattutto la costante
tendenza alla relazione con l’altro. Una caratteristica tutta tarantina se pensiamo che,
ancora oggi, in un vicoletto sperduto della nostra bella Isola qualcuno ha fissato un
canestro nel muro scrostato di un palazzetto affinché tutti i ragazzi del vicinato
possano giocare a basket!19
Non mancavano nemmeno l’altalena (A pernìchele), l’aquilone (A fumèche o A
cumète), la trottola (u currùchele)20 in foto, il cerchio (con la variante del gioco detto
Le cerchiette), la palla.
Per prendere coscienza delle distanze e degli orientamenti spaziali, avendo a
disposizione solo una palla ( e nemmeno tanto di pregio) 21, i bambini giocavano alle
sette buche detto anche “patrune e sotte’. Consisteva nello scavare sette buche come
di seguito.
o o o
o
o o o
La distanza tra una buca e l’altra era di circa 30 cm, la profondità di 10-15 cm. I
giocatori erano sette come le buche scavate, un ottavo giocatore era incaricato di far
scorrere la palla in una di queste buche. Il proprietario della buca ove la palla entrava
doveva immediatamente prendere la palla e cercare di colpire uno dei rimanenti sei
che nel frattempo correvano via velocemente. Chi veniva colpito doveva a sua volta
raccoglierla e cercare di colpire un altro, e così via sino a quando non si sbagliava.
Chi non riusciva a raccoglierne nessuna veniva penalizzato da un altro giocatore detto
‘mamma’ che metteva un sassolino nella sua buca. Si andava avanti così sino a
quando uno dei giocatori non aveva la buca piena di pietre e quindi diventava " 'u
sotte ": finito il gioco, si bagnava " a palle de pezze ". Ognuno era autorizzato a
colpire "'u sotte ca se metteve appuggiate 'a nu mure cu 'a spadd 'a nnude " sette volte
meno le pietre della propria buca. Se qualcuno colpiva " 'u sotte " alla testa, veniva
punito diventando a sua volta "sotte", con il doppio dei colpi rimasti ad ognuno, e
così via sino ad esaurimento dei colpi. Ovviamente il furbetto che mirava basso, per
non colpire la nuca, se non colpiva "'u sotte" almeno alle gambe, i colpi li pigliava lui
in egual misura. Ovviamente quando qualcuno già aveva tre o quattro "petre" nella
19 Caputo 2005, op. cit., pag. 173
20 Negli anni 50 quando a Taranto le macchine che circolavano erano poche e si aveva a disposizione tutto il
marciapiede, i ragazzi facevano largo uso di questa trottola con grande abilita'. Il gioco consisteva nel far girare con una
corda che si chiamava "cuenze" il curruchele , prenderlo sul palmo della mano mentre girava, colpire quello
dell'avversario che stava sotto e cercare di spingerlo verso il marciapiede opposto. Grande soddisfazione era per i
giocatori vincenti riuscire a spaccare il giocattolo del perdente. Per i suoi nipoti, abili giocatori di videogame, mio
padre ha fatto costruire una fedele riproduzione del gioco. Quando lo prendeva sul palmo della mano i bambini lo
guardavano stupiti e ammirati quasi fosse un giocoliere. Quando poi se lo passava da una mano all'altra senza farlo
fermare, allora volevano provare: l'arte del lancio d’ u currùchele, e' difficile se non si e' fatta la gavetta nelle strade del
Borgo facendo attenzione che non finisse in un tombino o fra gli escrementi dei cavalli.
21 Palline che si costruivano con carta avvolta in calze vecchie
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buca si faceva il gioco di squadra con passaggi "da nu padrune all'otre" sino a colpire
quel disgraziato il quale faceva di tutto per non prendere altri colpi.
Ancora con la palla -anzi due!- si giocava alla livòria, di origini spagnole
importato localmente intorno al 1400 ed in voga fino agli anni ‘50, quando ancora
esistevano spazi non asfaltati. 22 La “livoria”, come ha messo in evidenza per primo
Michele De Noto, è un gioco che assomma in sé il pregio di essere un gioco
all’aperto che necessita,nel contempo, di riflessione e grande attenzione.
Una variante locale del gioco delle bocce,invece, è quel gioco conosciuto col
nome di A' stacche. Gli attrezzi erano: 1) 'a stacch, un pezzo di marmo più o meno
rotondo dai 10 ai 12 cm diametro; 2) un altro pezzo di marmo a forma di
parallelepipedo avente una altezza di 56 cm chiamato boccino. Si poneva il boccino
ad una distanza di 10-15 metri. Si posavano sul boccino a mo' di pila i soldi che si
decideva di puntare, tanto a testa (si parla di monete da cinque o dieci lire), si faceva
il solito ‘tuekke’ e si tirava a turno. Ovviamente ci voleva maestria nel tirare, in
quanto si doveva colpire il boccino cercando di far cadere le monete il più vicino
22 Si gioca in due o multiplo di due e gli attrezzi sono: Doje padde d'acciaje (il peso ottimale è 250 gr.), Doje palette de
faggje, A scigghie. La paletta è a forma di mannaja di macellaio (quella per rompere le ossa), consumata alla base dalla
parte interna,in modo che si possa piegare per poter bene spingere a palle de fijrre nelle varie fasi del gioco. A scigghie ,
di ferro, è a forma di anello, saldato su un punteruolo pure di ferro, lungo almeno 10 cm, che serve per inchiodarlo a
terra. Da un lato è crociato molto fitto e si chiama a vocche (la bocca) e serve per l'entrata della palla,ppe' fa le punte,
il lato opposto è poco crociato ed è la parte ""sudicia"", u cule, per cui se la palla entra, si perde un punto. La stessa si
infila nella terra che deve essere abbastanza dura. Naturalmente così facendo a scigghie non girerebbe liberamente,
quindi una volta infilata, la si estrae e se mene 'n'a sputacckhie nel buco per renderlo lubrificato. Infatti reinfilato il
cuneo nel terreno e dando un bel colpo al lato dell'anello, questo gira come una trottola. Si gioca su un terreno
abbastanza liscio, a tawule, (tavola) e, dopo aver fissato il punteggio necessario alla vittoria, solitamente a 21 punti, il
gioco inizia con il solito tuekche e il primo designato a lanciare la palla che deve essere appoggiata sulla paletta e tenuta
con il pollice, disegnata una striscia a circa 15 metri dall'anello e che delimita l'area di gioco, a menata, lancia la palla in
direzione dell'anello con l'intento di farla entrare subito attraverso l'apertura pronunciando la frase di rito: ponn' ije e
vinghe a partite. Nel senso che se la palla entra direttamente nel 'a scigghie la partita è vinta. Se la palla non è entrata
nell'anello, tira il secondo, pronunciando a sua volta la frase : ponn'ije e n'agghie doiie , quindi se la palla entra, il
tiratore guadagna due punti. A questo punto a turno si cerca di far entrare la biglia nell'anello, usando i vari sistemi. Se
la palla dell'avversario dà fastidio allora con la propria palla si cerca di allontanarla, spesso si fa nascondere la propria
palla all'occhio dell'avversario con la bravura dettata dall'esperienza di gioco, per cui bisogna giocare list' (svelti) con
piccoli tocchi, senza accompagnare la palla con la paletta. I giocatori provetti, sono in grado di colpire la palla
dell'avversario, quando questa si trova oltre l'anello . Il nacc'hr' consiste in colpetto che allontana la palla avversaria
dall'anello, quando si riesce a spostare la palla dell'avversario dall'anello, facendo prendere il posto alla propria allora si
dice nacc'hr e punte. Quando la palla riesce ad entrare nel cilindro si segna un punto. Se capita che la palla
dell'avversario sia ad una distanza ottimale (10 o 20 centimetri) in direzione della menata, allora si batte il cave, cioè
spingendo la propria palla su quella dell'avversario, con una certa potenza, si cerca di farla arrivare oltre la linea di
partenza con la dicitura cave, ci mandene è fatte. ('cave' dal latino ' guardati ') io tiro, se la palla viene toccata durante il
percorso io realizzo lo stesso il punteggio (due punti). Se invece va tutto liscio e la palla oltrepassa la linea vi sono i due
punti regolamentari. Se la palla entra dalla parte sudicia, l'avversario pronuncia: cule, per cui si perde un punto e non si
può fare altro che farla rientrare dalla vocche pronunciando. Pesc'cule. Può capitare che durante il gioco una palla si
trovi adiacente alla scigghije e chi deve tirare, ha la palla immediatamente poco distante, e in direzione della menata il
giocatore che deve spingere la palla dell'avversario con il cave prende la mira e dice: cave da 'ngule tre punte puppù
quindi tira, se la palla dell'avversario esce dalla menata allora si realizzano i tre punti, anche se la propria palla entra da
cule. Se durante il gioco la palla viene toccata da qualcuno, l'avversario pronuncia la frase nno' ppue' caca' significando
che non si può fare alcun gioco, ma solo ritoccare la palla con la paletta pronunciando la frase pozze piscia'. Esiste una
fase chiamata Scippe Carduccie. C'entra in questo qualche antenato della famiglia patrizia dei Carducci, forse poco
esperto giocatore, che mirando al passaggio della palla nell'anello, urtava contro la semicirconferenza del ferro e
cambiava la posizione della vocche, che restava così sino al colpo di raddrizzamento. Durante il giuoco esiste la fase di
licenze d'a muscetìje (permesso di pulire il terreno avanti la palla, durante il suo cammino. Alcune espressioni che sono
rimaste: C'entre padd' palétte e livorie (dicesi di oggetto molto largo) E' cave de 'na palette (qualcosa di facile
comprensione) Sciucame list' (siamo sinceri)
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possibile alla propria ‘stacchia’ senza farla rotolare, per cui i più bravi la forgiavano a
mo' di pera e quindi la stessa strisciava bene sulla terra battuta. Come il gioco delle
bocce, chi seguiva nel tirare cercava di scostare le stacchie degli altri in modo di
avvicinarsi ai soldi già caduti per terra. Quando tutti avevano finito di tirare ognuno
prendeva le monete più vicine al proprio strumento.
E si continuava sino a che non si finivano i soldi.
Quantum mutatum ab illo … ma nemmeno per sogno!
Il gioco ha avuto sempre una grande importanza, non solo per i bimbi. È
oramai stato riconosciuto come un importante momento aggregativo tal punto che
Freud stesso lo assimilava “alla fantasia e al sogno, potendo procurare in forma
simbolica le gratificazioni che sono negate o impossibili nella realtà.” In un certo
senso giocare permette di allontanarci dalla vita reale ma anche di scoprir-si. Così,
cessata la presenza e la percezione del modello ludico esterno si passa ad introitare
una immagine mentale, che può essere richiamata opportunamente nel tempo 23.
Così i giochi “mminz a’ strad”, le filastrocche dei nonni a mò d’ntrattiene e
tramandate di generazione in generazione erano alla base del naturale
apprendimento sociale, etico e fisiologico fin dalla culla, in una società ormai
trasfigurata in una eternità intangibile. “Noi, quelli di allora, più non siamo gli
stessi”, scrive Neruda 24 e molti con lui saranno d’accordo. Ne dissento per le
ragioni a seguire:
1 - il gioco è importante per tutti perché fa bene, ad ogni età. Noi siamo sempre
noi anche se soggetti ad una evoluzione naturale che sopisce ma non distrugge ciò
che è stato inconsciamente e piacevolmente appreso. Se ci sentiamo diversi è
perché il nostro intimo ‘fanciullino’ si è assopito ma è ancora lì, testimone del
diritto/dovere di ognuno ad essere in evoluzione in ogni tempo e in ogni età, anche
attraverso i comportamenti e le regole appresi;
2 – il gioco è un’occasione importante per scongiurare solitudine e depressione,
mali comuni soprattutto tra le persone anziane, insegna regole di vita che molti dei
nostri giovanissimi apprendono solo fra i banchi di scuola – se fortunati-;
3 – il gioco è importante per stimolare tanto la fantasia quanto la reattività del
cervello grazie agli engrammi (tracce) di memoria che in noi restano … alla faccia
del tempo che passa;
4 – il gioco è importante per metterci a confronto con comportamenti e dinamiche
sociali senza la tensione che queste comporterebbero in circostanze più serie;
5 - avere voglia di giocare, avere degli spazi ricreativi appropriati, stimolanti e
divertenti può aiutare a rendere l’individuo un membro migliore per la propria
comunità. A Firenze, Marta Mani ed Angelina Cetica, pedagogiste cliniche, hanno
sperimentato con le persone anziane di un centro diurno momenti di relazione
educativa sincrona basati sul “gioco” intergenerazionale. Per molti vi è stato un
23 Pesci-Mani,op.cit.
24 http://www.poesiedautore.it/pablo-neruda/posso-scrivere-i-versi-piu-tristi-stanotte
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passaggio graduale dalla più totale apatia ad una ripresa di costrutti amicali e
familiari incentivati da una presa di coscienza secondo cui la senescenza è solo uno
dei momenti dell’evoluzione della vita, non quello che per forza prepara “al
distacco”.
6 – il gioco è importante perché insegna – o fa ricordare – che il nostro corpo è
unico ed irripetibile e per questo dobbiamo prendercene cura fin da piccoli.
Il gioco,insomma, è quel “ponte ideale” che ci lascia uguali a noi stessi e, al
tempo stesso, ci lega alle generazioni. Questo ponte ha i piloni che appoggiano
sulla vita e sul ricordo, percorrerlo ci educa e ci aiuta ad educare, l’ampiezza della
sua campata ci rende autorevoli “testimoni del tempo” tanto quanto più essa è
ampia.
Il poeta tarantino Diego Marturano, nella poesia “Stave ‘na vote” ci ricorda con
mesta dolcezza che sono proprio le persone anziane di ogni tempo i “pontefici” 25
delle nostre tradizioni.
BIBLIOGRAFIA
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Caputo N., Taranto, com’era, Taranto, Cressati, 2001
Caputo N., Vieni, c’è una strada nel Borgo… Taranto, com’era 2, Taranto, Scorpione, 2005
Cassano G., Radèche vecchie, Taranto, Mandese (rist. anastatica dell’edizione del 1935)
Pesci – Mani, Dizionario di Pedagogia Clinica, Roma, 2013
Pesci G., Pesci A., La pedagogia clinica in classe. Roma, Magi, 2006
Risolvo E.R., Abbasce a Marine ha nnate u’ Bammine, Scorpione,2010
25 Nel senso etimologico latino di ponte, il raccordo per eccellenza tra una generazione e l’altra