Collana diretta da Orazio Cancila
Collana diretta da Rossella Cancila
1.
Antonino Marrone, Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), 2006,
pp. 560
21. Orazio Cancila, Nascita di una città. Castelbuono nel secolo XVI, 2013,
pp. 902
2.
Antonino Giuffrida, La Sicilia e l’Ordine di Malta (1529-1550). La centralità
della periferia mediterranea, 2006, pp. 244
22. Claudio Maddalena, I bastoni del re. I marescialli di Francia tra corte
diplomazia e guerra durante la successione spagnola, 2013, pp. 323
3.
Domenico Ligresti, Sicilia aperta. Mobilità di uomini e idee nella Sicilia
spagnola (secoli XV-XV1I), 2006, pp. 409
23. Storia e attualità della Corte dei conti. Atti del convegno di studi, Palermo 29
novembre 2012, 2013, pp. 200
4.
Rossella Cancila (a cura di), Mediterraneo in armi (secc. XV-XV1I1), 2007,
pp. 714
24. Rossella Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna,
2013, pp. 306
5.
Matteo Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia di un federale, 2007, pp. 261
6.
Geltrude Macrì, I conti della città. Le carte dei razionali dell’università di
Palermo (secoli XVI-XIX), 2007, pp. 242
25. Fabio D'Angelo, La capitale di uno stato feudale. Caltanissetta nei secoli XVI
e XVII, 2013, pp. 318
7.
Salvatore Fodale, I Quaterni del Sigillo della Cancelleria del Regno di Sicilia
(1394-1396), 2008, pp. 163
26. Jean-André Cancellieri, Vannina Marchi van Cauwelaert (éds), Villes portuaires
de Méditerranée occidentale au Moyen Âge Îles et continents, XIIe-XVe
siècles, 2015, pp. 306
8.
Fabrizio D’Avenia, Nobiltà allo specchio. Ordine di Malta e mobilità sociale
nella Sicilia moderna, 2009, pp. 406
27. Rossella Cancila, Aurelio Musi (a cura di), Feudalesimi nel Mediterraneo
moderno, 2015, pp. VIII, 608
9.
Daniele Palermo, Sicilia. 1647. Voci, esempi, modelli di rivolta, 2009, pp. 360
28. Alessandra Mastrodonato, La norma inefficace. Le corporazioni napoletane
tra teoria e prassi nei secoli dell’età moderna, 2016, pp. VII, 337
10. Valentina Favarò, La modernizzazione militare nella Sicilia di Filippo II,
2009, pp. 288
11. Henri Bresc, Una stagione in Sicilia, a cura di M. Pacifico, 2010, pp. 792
12. Orazio Cancila, Castelbuono medievale e i Ventimiglia, 2010, pp. 280
29. Patrizia Sardina, Il monastero di Santa Caterina e la città di Palermo (secoli
XIV e XV), 2016, pp. XIV, 270
30. Orazio Cancila, I Ventimiglia di Geraci (1258-1619), 2016, Tomo I-II, pp. 496
13. Vita Russo, Il fenomeno confraternale a Palermo (secc. XIV-XV), 2010,
pp. 338
31. P. Sardina, D. Santoro, M.A. Russo (a cura di), Istituzioni ecclesiastiche e
potere regio nel Mediterraneo medievale. Scritti per Salvatore Fodale, 2016,
pp. XXVI, 214
14. Amelia Crisantino, Introduzione agli “Studii su la storia di Sicilia dalla metà
del XVIII secolo al 1820” di Michele Amari, 2010, pp. 360
32. Minna Rozen, The Mediterranean in the Seventeenth Century: Captives,
Pirates and Ransomers, 2016, pp. VII, 154
15. Michele Amari, Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al
1820, 2010, pp. 800
33. G. Sodano, G. Brevetti (a cura di), Io, la Regina. Maria Carolina d'AsburgoLorena tra politica, fede, arte e cultura, 2016, VIII, 306
16. Studi storici dedicati a Orazio Cancila, a cura di A. Giuffrida, F. D’Avenia,
D. Palermo, 2011, pp. XVIII, 1620
17. Scritti per Laura Sciascia, a cura di M. Pacifico, M.A. Russo, D. Santoro,
P. Sardina, 2011, pp. 912
18. Antonino Giuffrida, Le reti del credito nella Sicilia moderna, 2011, pp. 288
19. Aurelio Musi, Maria Anna Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità
ecclesiastica nell’Italia meridionale, 2011, pp. 448
20. Mario Monaldi, Il tempo avaro ogni cosa fracassa, a cura di R. Staccini,
2012, pp. 209
In formato digitale i Quaderni sono reperibili sul sito
www.mediterranearicerchestoriche.it. A stampa sono disponibili
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"Collaborazioni Editoriali"
n° 39
Aprile 2017
Anno XIV
Direttore: Orazio Cancila
Responsabile: Antonino Giuffrida
Comitato scientifico:
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Federico Cresti, Antonino De Francesco, Gérard Delille, Salvatore Fodale, Enrico Iachello, Olga
Katsiardi-Hering, Salvatore Lupo, Walter Panciera, María Ángeles Pérez Samper, Guido
Pescosolido, Paolo Preto, Luis Ribot Garcia, Mustafa Soykut, Mario Tosti, Marcello Verga,
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Nel 2016 hanno fatto da referee per "Mediterranea - ricerche storiche" Guido Abbattista
(Trieste), Rosanna Alaggio (Molise), Guido Alfani (Bocconi, Milano), Giovanni Assereto (Genova),
Jaume Aurell (Navarra), Federico Barbierato (Verona), Feliciano Barrios (Castilla la Mancha),
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Nazionale, Catalogo italiano dei periodici (ACNP), Google Scholar, Intute, Base - Bielefeld Academic
Search Engine, Scirus, Bayerische Staatsbibliothek – Digitale Bibliothek, ETANA (Electronic Tools
and Ancient Near Eastern Achives).
1. SAGGI E RICERCHE
Federico Barbierato
Political Astrologers and the Secret Wheels of Providence
Prophecies, Astrology, and Pragmatic Futurologies in Seventeent
- and Eighteenth - Century Venice
9
Erminia Irace, Manuel Vaquero Piñeiro
Alfano Alfani, mercante banchiere nella Perugia del Rinascimento
39
Marco Trotta
Stato moderno e baronaggio nel regno di Napoli
Aspetti e problemi della feudalità nel contado di Molise (secc. XVI-XVIII)
59
Francisco Cabezos Almenar
El Cuerpo de Pilotos de la Armada en Cartagena (1748-1805)
85
Elina Gugliuzzo
Acridofagi: mangiatori di cavallette e disgusto in età moderna
127
2. FONTI
Elisa Bianco
“Un governo mite, un popolo felice”. La Venezia di Friedrich
Leopold von Stolberg (1792)
165
Milena Sabato
Il “diluvio digitale” e le discipline storiche. Risorse online
e riflessioni metodologiche
193
3. LETTURE
Giovanni Brancaccio
Il Francesco di Paola di Giuseppe Caridi
n. 39
219
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Aprile 2017
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
6
Indice
4. RECENSIONI E SCHEDE
Fernando Negredo Del Cerro
La Guerra de los Treinta Años. Una visión desde la Monarquía
Hispánica (José Antonio Guillén Berrendero)
229
Franco Antonio Mastrolia
La pesca delle spugne nel Mediterraneo (1900-1939)
Produzione, commercio, mercati e legislazione (Rosario Lentini)
232
Francisco Javier Crespo Sánchez
Crear opinión para controlar la opinión. Ideología, sociedad y
familia en el siglo XIX (Francisco Precioso Izquierdo)
234
5. GLI AUTORI
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIV - Aprile 2017
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
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n.
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Elina Gugliuzzo
ACRIDOFAGI: MANGIATORI DI CAVALLETTE E DISGUSTO
IN ETÀ MODERNA
DOI 10.19229/1828-230X/3952017
SOMMARIO: La domanda rispetto agli Acridofagi si pone, perché sono in atto tentativi per estendere
l’uso delle cavallette/locuste come cibo a livello mondiale, come dimostrato dai documenti della
Fao e dalle iniziative portate avanti nell’Expo del 2015 sull’alimentazione. Il saggio ripercorre la
storia dei mangiatori di cavallette nel rapporto con la civiltà occidentale, partendo dal punto
fermo degli studi degli scienziati cinquecenteschi, per i quali le locuste erano buone solo per usi
medici. L’indagine va all’indietro fino all’origine della conoscenza degli Acridofagi, grazie ad
Erodoto e Diodoro Siculo, per poi approfondire in avanti il loro riconoscimento nell’età moderna
e in diversi luoghi del mondo.
PAROLE
CHIAVE:
Acridofagi, età moderna, cibo, cavallette, disgusto.
ACRIDOPHAGES: LOCUST-EATERS AND DISGUST IN MODERN AGE
ABSTRACT: It is important to pay attention to the Acridophages’ phenomenon, because there are
ongoing attempts in order to extend the use of locusts as worldwide food, as showed by the Fao
documents or by the initiatives organized by the 2015 Expo about food. The essay retraces the
history of locust-eaters in the relationship with Western civilization, starting from the studies of
the sixteenth-century scientists; according to these scholars locusts were good just for medical
purposes. This survey dates back till the origin of the knowledge of the Acridophages thanks to
Herodotus and Diodorus of Sicily, and then examines in depth its “identification” during Modern
Age and in several regions of the world.
KEYWORDS: Acridophages, Modern Age, food, locusts, disgust.
Cavallette «ad medicos usos» e niente più
«Il fumo delle Locuste vale alle difficoltà dell’orinare, et massime
nelle donne. La carne loro non s’usa in alcuna cosa»: lapidariamente
Pietro Andrea Matthioli, medico senese, nel 1573 distingue nettamente
fra le locuste come cibo e le locuste come componente naturale di terapie sanitarie. Aggiunge infatti: «Quelle che si connumerano nelle spezie
delle Locuste … seccate fresche si bevono utilmente con vino à i morsi
degli scorpioni». C’è un ulteriore distinguo, stavolta fra chi le cavallette
non le mangia e chi invece se ne nutre: «Mangianle ne cibi fino che ne
sono sazij coloro, che abitano Lepti, paese d’Africa»1.
1
P.A. Matthioli, Discorsi, Venezia, 1573, p. 269. A proposito dei mangiatori di cavallette, il medico senese, facendo riferimento alla letteratura dell’età classica e alla tradizione medievale, aggiunge: «I Parthi mangiano le Locuste ne i cibi. Et imperò non è
meraviglia, se nelle sacre lettere (come si legge all’XI capo del Levitico) le lodò Moisé ne
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Elina Gugliuzzo
«Il pane mangiato con la carne delle locuste aiuta a combattere i
calcoli: le locuste fritte rimuovono la scabbia delle unghie. Le zampe
delle locuste tritate con il grasso di capra sanano la lebbra»: c’è un altro
europeo della prima età moderna che pensa di poter mangiare o consigliare di mangiare cavallette, ma sempre a scopo terapeutico: è Thomas Moffett2. Il riferimento appare nella sua grande opera sugli insetti,
che il naturalista e medico inglese non ebbe il piacere di veder pubblicata; il libro, un vero Minimorum Animalium Theatrum, viene stampato
nel 1634, ma il manoscritto reca la data del 1589. Al Cinquecento dunque si può ipotizzare di far risalire il disgusto occidentale verso le cavallette come animali commestibili, pur tenendo presente che la
distinzione che si fa tra alimenti e medicinali appartiene a un’epoca
più recente, ed è conseguente agli sviluppi della chimica alla fine del
XVIII secolo. Nei sistemi tradizionali «la dietetica si è costituita in un
momento in cui tale separazione ancora non esisteva e gli alimenti
erano ancora usati a scopi curativi»3. D’altronde però lo stesso Moffett
segnala le cavallette come più attinenti a «medicos usos», che non a
una tavola imbandita per pranzo e cena.
Un’eco dell’uso medico delle cavallette indicato da Matthioli e Moffett
si ha nel teologo e storico luterano Friedrich Christian Lesser; nella sua
Insecto-Theologia del 1740 dà dei consigli in quel senso: «Il fumo delle
Locuste giova contro la difficoltà dell’urina massime nelle femmine.
Alcuni le appendono al collo nelle Quartane; sono in somma diuretiche,
e cacciano la pietra, o mangiandole intere, o prendendole spolverizzate»4.
Mangiar cavallette, al di là delle dotte convinzioni medico-terapeutiche di Matthioli, Moffett e Lesser, sembrerebbe rimanere solo uno
‘sfizio’ dei ragazzi dell’Europa meridionale: in Spagna e in Sicilia, a
quanto pare ad alcuni osservatori, gli adolescenti, ancora nell’Ottocento, si sarebbero divertiti a spolpare e mangiare «talora le coscie delle
locuste»5. Al di là però degli ipotetici capricci mangerecci dei ragazzi
i cibi al suo popolo Hebreo. Ne anche è da meravigliarsi, che San Giovanni Battista le
mangiasse insieme co’l mele salvatico nel deserto, quantunque sieno alcuni espositori,
che vogliano, che per le Locuste s’intendano alcune radici: et altri, certe cime d’alberi. Al
che non consentendo io, tengo per vero, che per esser egli Hebreo, et grande osservatore
della legge Mosaica, mangiasse veramente queste Locuste animali. Il che tiene anchora
Santo Agostino nell’esposizione dell’epistola di San Paolo à i Romani».
2
T. Moffett, Insectorum sive minimorum animalium Theatrum, London, 1634, p. 124.
3
C. Boudan, Le cucine del mondo. Geopolitica del gusto, Donzelli, Roma, 2005, p. 253.
4
F.C. Lesser, Teologia degl’Insetti, ovvero dimostrazione delle divine perfezioni in tutto
ciò che riguarda gl’Insetti, tomo secondo, Venezia, 1751, p. 153 (ediz. originale, InsectoTheologia, Frankfurt, 1740).
5
Allo stesso modo i «villanelli» lombardi provavano piacere a mangiare l’addome della
‘melolonta aprilina’, ovvero della carruga della vite: A. Villa, G.B. Villa, Le cavallette o
locuste, «Giornale dell’ingegnere, architetto e agronomo», a. IV, n. 3 (1856), p. 130.
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mediterranei e delle astruse ricette mediche della prima età moderna, in
Occidente resta un forte pregiudizio nei confronti delle locuste come commestibili. Anzi, si può parlare di una vera e propria ripugnanza, non solo
alla vista, ma al solo pensiero di poter mangiare le cavallette. Malgrado
la attuale crescita del pubblico interessamento rispetto ai potenziali
benefici dell’entomofagia, molti consumatori in Occidente non si
mostrano entusiasti all’idea di mangiare insetti. Essi spesso reagiscono
con disgusto alla prospettiva di ingerire creature che non sono familiari
come cibo, ma che storicamente sono divenute ben note come animali
nocivi e portatori di malattie, piaghe e flagelli6.
Nessuna interdizione religiosa
C’è a monte di tutto ciò un’interdizione religiosa? Come per altri cibi,
la considerazione e l’approvazione nascono deliberatamente prima
della percezione sensoriale. «Esistono molte espressioni riferibili a tale
modalità: le prescrizioni alimentari delle religioni, i cui regimi regolano
l’astinenza o la moderazione nel consumo di determinati alimenti, per
esempio in base alla loro purezza o al calendario»7. Comunque sembrerebbe proprio che le tre religioni monoteiste, le religioni del Mediterraneo,
consentano di mangiar cavallette e locuste. Mosè, nel Levitico, cap. 11,
si esprime chiaramente a proposito degli insetti alati: «Perciò potrete
mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta,
ogni specie di acridi e ogni specie di grillo». Mentre proibisce agli Ebrei
il porco e gli altri animali «forcuti», Mosè «loda» le locuste, permettendo
quindi ai medesimi l’uso di potersi nutrire di cavallette, di cui si distinguevano quattro specie, secondo alcuni interpreti.
Non facendo parte degli animali immondi, «questa è quella spezie
d’insetti che Iddio permise agli Ebrei di poter mangiare»8. Al contrario
sono condannati gli insetti che camminano sulla terra a dispetto delle
ali di cui sono dotati: «sarà per voi in abominio ogni altro insetto alato
che cammina su quattro piedi». Eccezione rivelatrice, gli insetti che
«saltano sulla terra» invece di «camminare». Il salto è una modalità di
6
H.S.G. Tan et al., Insects as food: Exploring cultural exposure and individual experience as determinants of acceptance, «Food Quality and Preference», 42 (2015), p. 78.
7
N. Perullo, Il gusto come esperienza. Saggio di filosofia ed estetica del cibo, Slow
Food Editore, Bra, 2016, p. 115.
8
F.C. Lesser, Teologia degl’Insetti cit., p. 71. «From rabbinic sources we learn that
locusts were boiled or pickled in salt and vinegar to preserve them»: Z. Amar, The Eating
of Locusts in Jewish Tradition after the Talmudic Period, «The Torah u-Madda Journal»,
11 (2002-2003), p. 187.
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locomozione intermedia fra la deambulazione e il volo. È quasi un
volo, deve aver considerato il Levitico, che tollera il consumo delle
cavallette9.
Quando si passa dai precetti religiosi alla realtà sociale del consumo, emerge che a mangiare le locuste sono prevalentemente le
persone con minori mezzi economici. Le locuste le mangiano i poveri,
la povera gente «nelle coste d’Africa»: così si legge nell’ottocentesca
«prima edizione napolitana» del Dizionario universale delle scienze
ecclesiastiche, dove pure c’è un richiamo a Mosè, ma non a proposito
delle piaghe egiziane, quanto piuttosto in merito alle autorizzazioni alimentari. Dal fatto che Mosè accorda agli Ebrei il permesso di mangiare
le locuste, gli estensori del Dizionario evincono: «apparisce chiaramente
che si mangiavano in tutta la Palestina»10. Della stessa opinione è un
modern traveller che nel 1824 attraversa la Palestina, il quale
aggiunge che ancora al suo tempo le locuste sono mangiate dagli
Arabi e «in many parts of the East»11. L’idea che le locuste fossero cibo
per poveri passa anche nel medioevo, come dimostra il commento al
Vangelo di Giovanni del monaco benedettino Christianus, il quale
visse nell’abbazia di Stavelot-Malmedy a Liège nel nono secolo. Egli
informa i suoi lettori che quegli animali sono all’incirca della grandezza di un dito e che fritti nell’olio spesso sono consumati dai più
indigenti12.
A proposito delle norme alimentari ebraiche, nelle Cérémonies et coutumes religieuses des peuples idolatres du monde (1735), si ha una comparazione con le Indie orientali e con i suoi abitanti. Un interessante
paragrafo reca il titolo De leur maniere de manger les sauterelles:
Nous lisons dans les Evangiles, que Saint Jean-Baptiste vivoit de miel sauvage
et de sauterelles. Quelques Interpretes, qui n’ont pu s’imaginer que l’on mangeàt
de ces insectes, ont dit que par locusta l’on devoit entendre l’extrémité des
branches des arbres … Mais ils ne connoissoient pas les costume des Indiens,
qui mangent souvent des sauterelles après les avoir fait cuire; quoiqu’elles soient
semblables à celles que nous voyons en Europe. Cependant aucun de ceaux qui
en mangent, ne s’en trouve incommodé.
9
J.-L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, Laterza, RomaBari, 1999, p. 49. Ma la faccenda non è del tutto chiara e il Deuteronomio preferisce
proibire tutti gli insetti.
10
J.L. Richard, J.J. Giraud, Dizionario universale delle scienze ecclesiastiche, prima
edizione napolitana, Napoli, 1847, p. 285.
11
The Modern Traveller. A popular description of the various countries of the globe.
Palestine; or, the Holy Land, London, 1824, pp. 12 e 187.
12
H. Šedinovà, Esca eius erant locustae. The origin and meaning of the imaginary
quadruped locusta, «Listy filologické», CXXXVIII, 3-4 (2015), p. 238.
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Cette nourriture n’étoit pas même une chose extraordinaire chez les Juifs, à
qui Dieu avoit permis de manger de ces insectes … Tels sont le Bruchus, l’Ophiomacus, et la Sauterelle, chacun selon son espéce13.
Nel Nuovo Testamento si fa menzione di S. Giovanni Battista, che
nel deserto si nutre di cavallette, oltre che di miele selvatico. Per quanto
riguarda questo passo delle Scritture diversi interpreti della prima età
moderna supposero che, invece di locuste, si dovessero intendere le
gemme degli alberi, le radici o i semi di cassia14. Ma diverse testimonianze assicurano che l’area intorno al fiume Giordano era invasa in
certe stagioni da locuste in grandi numeri e come fosse abitudine raccoglierle e immagazzinarle per un futuro consumo15.
Per i mediterranei le ‘locuste’ sono proprio le cavallette. In inglese
«locust tree» è, invece, il carrubo, con il sinonimo «Saint John’s bread».
Evidentemente per gli esegeti anglosassoni era più consono pensare
che il Precursore di Cristo, facendo penitenza nel deserto, mangiasse
le carrube invece che rincorrere poco dignitosamente le cavallette16. Ma
ambedue gli evangelisti Matteo e Marco concordano nel presentare la
sua figura: aveva un’alimentazione austera, e si potrebbe aggiungere,
non proprio equilibrata nell’apporto di vitamine e proteine, visto come
si nutriva – almeno nel deserto –. D’altronde lì non c’era possibilità di
un’alternanza di cibi e la sua dieta era assolutamente frugale. È interessante notare che i poveri del tempo mangiavano le cavallette fritte,
o seccate e salate, poi ridotte in farina e focaccia; ma, «non essendo
esse grate al palato, solo i più miserabili se ne cibavano»17.
«Chi mangia non giudichi chi non mangia, cioè non lo disprezzi, e
chi non mangia non giudichi chi mangia»: così S. Paolo si esprime nella
13
B. Picart, A.A. Bruzen de la Martiniére, J.F. Bernard, Cérémonies et coutumes religieuses des peuples idolatres du monde, representées par des Figures dessinées de la
main de Bernard Picart: avec une Explication Historique, et quelques Dissertations
curieuses, tome premier, première partie, Amsterdam, 1735, p. 30. Gli autori poi volgono
lo sguardo al Golfo Persico e mettono al corrente che «ces sauterelles sont ordinairement
grandes, rouges, et si pesantes, qu’elles ne se peuvent relever, lorsqu’en certaines saisons
des tourbillions les portent du côté d’Ormuz et de Banderabassi. Les Paysans de ce pays
là les sechent, les salent et les rotissent, et les vendent au marché, comme les autres
alimens».
14
G. Lanzoni, Adversariorum libri quatuor. Accedunt ejusdem viginti breves Consultationes medicae, Ferrara, 1714, p. 104.
15
H. Šedinovà, Esca eius erant locustae cit., pp. 234-236.
16
G. Bernetti, Botanica e selvicoltura, Aisf, Firenze, 2007, p. 482.
17
R.G. Stewart, L’evangelo secondo Matteo e Marco, Torre Pellice, 1870, p. 13. Gli
anacoreti della Tebaide conservano tuttora l’uso dì nutrirsi di cavallette: così affermano,
a proposito di frugali diete solitarie, gli estensori dell’Enciclopedia italiana e dizionario
della conversazione, Venezia, 1842, p. 1186; e anche F.G. Rho, Su’ costumi degli anacoreti
egiziani e siriaci, Brescia, 1821, pp. 14-15.
n.
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Elina Gugliuzzo
Lettera ai Romani. La questione sarà ripresa da S. Agostino18; si
potrebbe da ciò derivare una certa larghezza di vedute in campo alimentare, fatto salvo il divieto di mangiar carne il venerdì, da sostituire
con il pesce. Paolo riecheggia l’aurea esortazione che Cristo rivolse agli
Apostoli: «mangiate quello che vi sarà posto innanzi», «precetto rivoluzionario che liberava il cristiano dalla opprimente rete dei tabù alimentari e dalla paura dei cibi immondi che il Levitico e il Deuteronomio
riversavano sulla tavola ebraica»19.
Il Profeta Muhammad, sull’esempio di Mosè, proibisce egualmente
ai suoi popoli l’uso del vino e della carne porcina, e impone quale
dovere l’uso di mangiare, fra altri animali, le cavallette: «Colui che non
mangia delle mie cavallette, de’ miei camelli, delle mie tartarughe non
è di me, né io sono di lui». «Per tal precetto gli Egiziani, gli Africani, i
Tartari e tutti quei popoli soggetti all’Islam mangiano, si crede, per
principio religioso le locuste e le cavallette»20. Il retaggio arabo è più
importante di quanto lasci credere la frugalità dell’ambiente originario.
I pastori nomadi dell’epoca pre-islamica vivevano di prodotti del latte,
di un po’ di carne e di datteri. Nelle oasi e nel Sud della penisola, dove
il clima è meno arido, il cibo era più vario; vi trovavano posto cereali,
verdure e frutta. In un ambiente povero e aspro, bisognava mangiare
quel che si trovava: cavallette e lucertole arrostite, ad esempio21.
Delle origini degli Acridofagi
I mangiatori di locuste compaiono presto sul proscenio del mondo
occidentale, proprio con Erodoto, il ‘padre della storia’. Nelle sue Storie
c’è un passaggio dedicato ai Nasamoni, popolazione berbera abitante
in Libia lungo il Golfo della Sirte. Piccoli di statura e neri di pelle, i
Nasamoni – per quel che ne sa e ne riferisce Erodoto – «le locuste predano, e diseccate al sole, le macinano, indi nel latte le infondono, e
beono»22. Un’antica tradizione aveva riguardato Erodoto come un
‘bugiardo’. Ma i rapporti di viaggiatori che si erano avventurati attraverso i mari avevano gettato nuova luce sulle sue descrizioni degli
strani costumi di posti lontani: non più a lungo poteva essere conside-
18
Agostino interprete di Paolo. Commento di alcune questioni tratte dalla Lettera ai
Romani. Commento incompiuto della Lettera ai Romani, Introduzione, traduzione e note
di M.G. Mara, Edizioni Paoline, Milano, 1993, p. 154.
19
P. Camporesi, Il governo del corpo. Saggi in miniatura, Garzanti, Milano, 1995, p. 65.
20
L. Failla Tedaldi, Insetti commestibili, Sacri, Medicinali, Industriali e d’Armamento,
«Il Naturalista Siciliano», a. I, n. 10 (1882), pp. 233-234.
21
J.L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione cit., p. 267.
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rato inattendibile. Al contrario, alla luce delle analisi del tempo dei
Lumi, le sue narrazioni rendevano palesi aspetti inattesi del mondo,
soprattutto di quello di civiltà diverse dalla greca23.
E fin qui si tratta di ‘barbari’, ma leggendo Aristofane si trova che
egli fa dire ad uno dei suoi personaggi: «O cielo, quanta voglia avrei di
mangiare una cavalletta o una cicala infilata su una sottile canna».
Evidentemente, fra i bocconcini degli antipasti ateniesi del tempo del
commediografo greco, la cavalletta godeva di un buon apprezzamento24.
Aristofane cita anche pollivendoli che espongono al mercato volatili selvatici a quattro ali, che, secondo Bodenheimer, sono cavallette. Il loro
prezzo doveva essere molto economico, cosicché quel cibo era consumato dalle classi più povere. Si può dire infatti che mentre i ceti più
bassi mangiavano le locuste o le cavallette, i ceti più elevati a quanto
pare preferivano le cicale25. Anche in Grecia si mangiavano e si vendevano cavallette dunque.
Per avere un’idea di come i Greci descrivessero il ‘cibo degli altri’
occorre rivolgersi a un etnografo come Agatarchide. Esiste un popolo,
confinante con Etiopi, Simi e Struzzofagi, «nazione delle altre men
numerosa, magri ed oltremodo negri». Innumerabili locuste volano
«dalle terre non peranco investigate» verso la loro regione. E queste servono loro di alimento per tutto l’anno, «in varii modi preparandole ed
anche insalandone»26. Nel centro dell’Africa quindi, ai margini estremi
del deserto, vivono gli acridofagi, o mangiatori di locuste, che essi catturano accendendo dei fuochi quando lo sciame si avvicina; il fumo
che le abbatte provvede al tempo stesso ad «affumicarle». Per renderle
22
Erodoto, La Talia ovvero il terzo libro delle Istorie, in Le nove Muse di Erodoto Alicarnasseo, tradotte ed illustrate da Andrea Mustoxidi, tomo secondo, Milano, 1822, pp.
298 e 389. Mustoxidi aggiunge in nota informazioni sugli «attelabi», che come spiega Plinio sono le più piccole locuste «sine pennis».
23
C. Ginzburg, Provincializing the World: Europeans, Indians, Jews (1704), «Postcolonial Studies», vol. 14, n. 2 (2011), p. 137. Erodoto è considerato anche ‘padre dell’antropologia’ da C. Parisi, I popoli tra “natura e cultura” nelle Storie di Erodoto, «Archivio
antropologico mediterraneo», on line, anno XII-XIII, n. 14 (2012), pp. 15 e 19.
24
E. Salza Prina Ricotti, L’arte del convito nella Grecia antica. L’evoluzione del gusto
da Achille ad Alessandro Magno, L’Erma di Breitschneider, Roma, 2005, p. 87. Le osservazioni dell’autrice a proposito di questo cibo sono forse un’ottima illustrazione dell’attuale disgusto occidentale: «bocconcini, grazie al cielo oggi scomparsi dal menu … Non
so se esse si cucinassero come oggi si fanno le cozze ad Istanbul infilandole a tre a tre
in uno stecco, passandole nella pastella e poi friggendo, ma so che anche così non mi
attirerebbero».
25
F.S. Bodenheimer, Insects as human food. A chapter of the ecology of man, Springer,
Berlin, 1951, p. 42, il quale aggiunge: «Young shepherds in the fields also enjoyed eating
them».
26
Agatarchide, Delle Istorie, traduzione di Spiridione Blandi, in Storici minori volgarizzati ed illustrati, Milano, 1829, pp. 47-48.
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meglio commestibili, gli acridofagi le inzuppano nell’acqua salmastra,
e queste «locuste marinate» possono venir consumate fresche o conservate, in attesa del successivo «raccolto»27.
Diodoro Siculo, storico del secondo secolo a. C., utilizza per la prima
volta il termine ‘Aκpιδοφάγοι, Acridofagi o mangiatori di locuste, a proposito di una comunità dell’Etiopia che vive ai margini del deserto. Gli
uomini sono più piccoli del resto della popolazione, magri di corpo e
straordinariamente scuri. La maggioranza degli Etiopi, specialmente
quelli abitanti sulle rive del Nilo, è di pelle nera, con naso piatto e
capelli lanosi28. Diodoro illustra poi come mai proprio quella popolazione meriti l’appellativo di Acridofagi.
Verso di loro nella stagione primaverile forti venti di ovest e sudovest spingono fuori dal deserto una moltitudine di locuste, di grande
e inusitata taglia e con ali di colore brutto e sporco. Così, si raccolgono
grandi mucchi di locuste. Perciò, il cibo di questo popolo consiste in
questi animali; poiché essi non posseggono greggi né vivono vicino al
mare né hanno a loro disposizione alcun’altra risorsa; e leggeri di corpo
e rapidi di piede come sono, essi sono anche del tutto di breve vita, il
più vecchio tra di loro non oltrepassando i quaranta anni di età29.
Tutti coloro che scriveranno in seguito sugli Acridofagi faranno
molto affidamento su questa narrazione di Diodoro30. In tutta questa
etnografia «primitiva» (o «primitivistica»), il modello seguito è a un
J.L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione cit., p. 206.
F.M. Snowden, Blacks in Antiquity. Ethiopians in Greco-Roman Experience, The
Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge Massachusetts, 1971, p. 6.
29
Diodorus of Sicily, in twelve volumes, II, with an English translation by C.H. Oldfather, Heinemann-Harvard University Press, London-Cambridge Massachusetts, 1967,
pp. 161 e 163. Hanno dubbi sull’esistenza del popolo degli Acridofagi, che «da quanto
pare, dev’essere immaginario» F. Romani, A. Peracchi, Dizionario d’ogni mitologia e antichità, Milano, 1826, p. 60. Invece «quantunque le circostanze di questo Popolo fossero
favolose, nientedimeno possono gli Acridofagi esser veri»: G.M. Secondo, Ciclopedia
ovvero Dizionario universale delle arti e delle scienze, Napoli, 1747, p. 51. E a riprova
della sua ipotesi, l’autore aggiunge che «al giorno d’oggi si dice che vivono di locuste in
alcune parti d’Oriente». A proposito della breve vita degli Etiopi acridofagi è stata avanzata un’ipotesi: potersi trattare di pitiriasi rosa. In effetti alcuni dei sintomi descritti dallo
storico Diodoro attorno al 50 a.C. sembrerebbero mostrare la presenza nei corpi dei
mangiatori di locuste di un particolare e feroce tipo di pidocchio alato. Le eruzioni cutanee, che dapprima si mostrano al seno e allo stomaco, presto si espandono su tutto il
corpo. Quando l’eruzione è grattata, emerge una moltitudine di quegli insetti da numerosi piccoli fori nella pelle. Diodoro si chiedeva se la causa fosse la strana dieta di quel
popolo oppure il clima molto caldo: J. Bondeson, Phthriasis: the riddle of the lousy
disease, «Journal of the Royal Society of Medicine», 91 (1998), p. 328.
30
G.R. DeFoliart, The Human Use of Insects as a Food Resource. A Bibliographic
Account in Progress, University of Wisconsin – Madison, 2002, Chapter 9, p. 1, in
http://labs.russell.wisc.edu/insectsasfood/the-human-use-of-insects-as-a-foodresource/ (accesso 28.8.2016); F.S. Bodenheimer, Insects as human food cit., p. 41. Fra
gli altri si veda F. Scufonio, Osservazioni intorno alle cavallette, in Gli Statuti dell’Agricol27
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dipresso il medesimo: quelle descritte sono popolazioni situate, e in
primissimo luogo sotto il profilo culturale, a un livello inferiore quando
non infimo, così da esibire talora tratti autenticamente bestiali. Tipico
di tutte queste descrizioni è il carattere totalizzante, esclusivo, che ha
in esse la connotazione alimentare31.
Da Plinio si sa che ai suoi tempi le locuste erano cibo grato ai Parti,
che le mangiavano così come facevano popoli dell’Africa, in particolare
gli Etiopi32. In realtà poi Plinio sembra propenso a consegnare gli
Etiopi, come mangiatori di cavallette, al reame del favoloso, stentando
a credere nell’esistenza di Agriofagi, Pamfagi, Antropofagi e, appunto,
Acridofagi33. Quando Pompeo Sarnelli, vescovo di Bisceglie, nel 1716
richiama comunque il passo pliniano, non può far a meno di ritrarsi
con un moto di ripulsa: «È ben vero, ch’era cibo vile, e da’ poveri (…) di
poca buona sostanza e mal sano»34. Concorda con questa valutazione
il dottore in legge e archivista padovano Gianfrancesco Pivati: egli
ricorda che Aristofane definiva le cavallette come «un cibo più vile». E
aggiunge che Teofilato lo dice «pasto dei villani più miserabili»35.
Julien-Joseph Virey nel Nouveau Dictionnaire d’Histoire Naturelle del
1816 riprende dagli antichi storici greci l’appellativo di Acridofagi per i
popoli che mangiano le cavallette, al contempo attualizzandone la
vicenda: «Il y a des pays où les sauterelles sont si abondantes, et les
autres nourritures si rares, que les hommes se sont avisés de se nourrir de ces insectes». Ma quel che nella voce Acridofagi del Dizionario
tura, Roma, 1718, p. 213: «Alcuni Popoli per l’addietro si cibavano di Cavallette, tra’ quali
gli Africani, i Siri, i Persiani, gli Ebrei, e particolarmente gli Etiopi, detti Acridophagi dal
mangiare, che facevano le Cavallette».
31
J.-L. Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione cit., p. 206. Ma
anche le ricerche a noi contemporanee non sono state esenti dalle tendenze primitivistiche dell’antropologia mediterranea: F. Benigno, Il Mediterraneo dopo Braudel, in P. Barcellona, F. Ciaramelli (a cura di), La frontiera mediterranea. Tradizioni culturali e sviluppo
locale, Dedalo, Bari, 2006, p. 43.
32
«L’importanza degli insetti per l’uomo è enorme, sia in senso positivo che negativo.
In senso positivo si può ricordare l’interesse alimentare, in molte culture alcuni insetti
vengono consumati anche attualmente come cibo»: B. Wilkens, Archeozoologia. Il Mediterraneo, la storia, la Sardegna, Editrice democratica sarda, Sassari, 2012, p. 22, non si
esime dal richiamarsi a Plinio per confermare che «i Parti usavano nutrirsi con cicale e
cavallette».
33
P. Mason, The Resistance to History. Avatars of the Monstrous Human Races,
«Thamyris», vol. 1, n. 1 (1994), pp. 59 e 62.
34
P. Sarnelli, Del flagello delle locuste, e della loro adjurazione, in Lettere ecclesiastiche, tomo quarto, Venezia, 1716, p. 50.
35
G. Pivati, Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano, tomo primo, Venezia,
1746, p. 59. Il «Teofilato» citato dall’autore si deve identificare come Teofilatto Simocatta,
storico bizantino del VII secolo. F. Romani, A. Peracchi, Dizionario d’ogni mitologia e antichità cit., p. 60, riferiscono che secondo «Teofilatte» di locuste non ne mangiavano che
gli abitanti della campagna.
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risulta più interessante, al di là di questi dotti richiami classici, è quanto
si afferma e si commenta a proposito dei mangiatori di cavallette al passaggio fra Sette e Ottocento. Il povero lavoratore della terra, vedendo «ses
guérets ravagés par ces insectes voraces» e privato delle risorse per la
sussistenza della sua famiglia, «il est obligé de se jeter sur ces mêmes
animaux pour assouvir sa faim». Gli esempi non sono rari in Arabia e in
Africa. Questi stessi popoli ne fanno provvista, salandoli, al fine di conservarli più a lungo per i momenti di carestia «si fréquens dans l’ArabiePétrée». Sembra comunque che «cette nourriture, un peu âcre, cause de
petits ulcères à la gorge, et produit quelquefois une sorte d’esquinancie».
Ma allora le cavallette fanno male alla salute di chi le mangia?
Ancora oggi – prosegue Virey – un gran numero di popolazioni africane
ricerca insetti di tutte le specie per mangiarli, come testimoniano molti
viaggiatori; «mais ils n’ont point remarqué que ces acridophages, ou
plutôt entomophages, fussent atteints de l’affection que les anciens
leur attribuoient»36.
Acridofagi in età moderna
L’annotazione della costumanza di mangiare le cavallette si può far
risalire al Trecento. Secondo le Croniche di Matteo Villani, i grilli, ossia
le cavallette, erano comparsi nell’anno 1354 in Barberia, cioè nell’Africa
settentrionale, in particolare a Tunisi e nelle vicine regioni. E proprio
in quell’occasione al cronista fiorentino perviene la notizia che l’usanza
di mangiare le locuste era già presente «massimamente nel reame di
Tunisi». Qui, appunto nel 1354, il popolo minuto non ha più pane, ma
Matteo Villani spiega come fece a sopravvivere alla carestia di cereali e
graminacee: «metteano i grilli ne’ forni, e cotti alquanto incrosticati li
mangiavano». Con quella «brutta vivanda» si mantennero in vita, ma
egualmente seguì una grande mortalità di quel popolo37.
Una sola volta nella loro storia, a quanto pare, italiani mangiarono
cavallette. La Cronaca Aquilana di Buccio di Ranallo e la Cronaca delle
cose dell’Aquila dall’anno 1363 all’anno 1424 del cronista Niccolò da Borbona, riportano che in Abruzzo nel 1363 un’invasione di «grilli»
distrusse tutte le piante e la popolazione aquilana fu costretta a cibarsi
degli stessi insetti38.
36
J.J. Virey, Acridophages, in Nouveau Dictionnaire d’Histoire Naturelle, tome I, Paris,
1816, pp. 156-157.
37
Croniche di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, vol. II, Trieste, 1858, p. 183.
38
E. Guidoboni, A. Navarra, E. Boschi, Nella spirale del clima. Culture e società mediterranee di fronte ai mutamenti climatici, Bononia University Press, Bologna, 2010, p. 129.
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Forse a quest’episodio singolare s’è ispirato Dario Fo nel suo lavoro
L’aquila no’ l’è un occello:
Sulla santa Bibbia c’è scritto che Elia, visto zonzere dallu cielo ‘sto nuvolame
immenso de’ locuste sbrananti li raccolti, diè l’ordine che ognuno appicciasse torce
e ce desse foco. Così lu frate encitò: ‘Fate comme ordena Elia’ e ognuno se procurò
torze e ceri. Di poi annammo tutti per li campi a enfiammà la segale e li canneti.
Fumo e calore allo brucio colse le cavallette che caddero al suolo a mucchi: fu ‘no
gran falò. Ognuno se piegò verso quella frittata d’animali che davano uno bono
odore d’arrosto e ne magnò ‘na mazzata. Tutti ce fecero iguale, ognuno se gustava
locuste e ‘sclamava: ‘Bono! Deo santo, tu sea benedetto. Ce fai spavento co’ mandàcce ‘sti tremendi castighi e poi ce fai scoprì che l’è tutta ‘na succosa libbagione39.
Nella prima età moderna europea si colloca la netta distinzione fra
i ‘mangiatori di pane’ e gli Acridofagi: così sono definiti in Occidente
quei popoli che le cavallette se le mangiano, o meglio «ch’era fama» si
nutrissero di locuste. In opposizione con i popoli civilizzati40, gli Acridofagi, ovvero i mangiatori di cavallette, «vengono rappresentati come
un popolo dell’Etiopia, che abbita vicino a’ deserti» o comunque come
appartenenti a popoli ‘altri’.
Acridofagi se ne trovano anche dall’altra parte del mondo, nelle Indie
occidentali. Fra il 1539 e il 1541 Galeotto Cei, mercante fiorentino, viaggia per le Antille e si stabilisce per qualche tempo a Santo Domingo. Si
guarda attorno e cosa vede? «Cavallette, o locuste che è una meraviglia
di quella medesima sorta che in Barberia, nel regno di Marrocco, chiamano gaffagniottos». Evidentemente le locuste marocchine erano
famose anche nell’Italia cinquecentesca e Cei se ne ricorda quando vede
comparire le cavallette che gli Indi chiamano «carattache». Ma non le
chiamano soltanto, se le mangiano pure: «et li pigliano et arrostiscono
sulla teghia et se li mangiano». Un po’ a malincuore aggiunge: «et mi
sono trovato a mangiarne per necessità». Poi riprende la descrizione,
un po’ retorica e un po’ comparativa: «et vengono come nugholi che cuoprono el sole, di poi viene un vento et portali via, che in due giorni non
se ne vede nessuno; ma in Barberia ne passa maggiore quantità»41.
39
D. Fo, L’aquila no’ l’è un occello, 3 maggio 2010. Lavoro di revisione del testo, luglio
2010, in http://www.europeana.eu/portal/record/2022105/urn_axmedis_00000_obj_
b1db98a7_20c5_4d04_ a15f_e9862f1d187f.html (accesso 29.6.2016).
40
E. Pellizer, Acridofagi, in Dizionario etimologico della mitologia greca, in http://demgol.units.it/lemma.do?id=1126 (accesso 5 luglio 2016); A. Giardina, Acridi, in Enciclopedia Italiana, 1929, in http://www.treccani.it/enciclopedia/acridi_(Enciclopedia_
Italiana)/ (accesso 5 luglio 2016).
41
G. Cei, Viaggio e relazione delle Indie, 1539-1553, Bulzoni, Roma, 1992, p. 119;
ripreso in G. Bogliolo Bruna, De la merveille à la curiosité. La perception du Théâtre de la
Nature universelle chez les voyageurs, marchands et savants italiennes de la Renaissance,
in E. Stols, W. Thomas, J. Verberckhoes (eds.), Naturalia, Mirabilia et Monstrosa en los
Imperios Ibericos, Leuven University Press, Leuven, 2006, p. 23.
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Questa descrizione contraddice quanto la fantasia popolare, con le
sue utopie di cuccagne e con i suoi sogni di abbondanza di cibi, aveva
proiettato oltre Oceano. Nelle terre al di là del mare, cariche di ansia
di scoperte e di nuove conoscenze, venivano immaginati luoghi con
montagne di formaggio grattugiato, caldaie sempre pronte a cuocere
maccheroni, fiumi di latte e fonti di vino.
Insomma, un ampio inventario della migliore gastronomia quattro-cinquecentesca; era questa la cultura italiana del tempo, proiettata nel Bel Paese oltre
Oceano. Come a dire che anche le fantasie hanno dei limiti: quelli della cultura
in cui nascono. Una cultura in cui ogni cosa ha il suo posto, il suo ruolo preciso, definito in rapporto a tutti gli altri: la cucina e il regime alimentare non
sono un assemblaggio casuale di elementi, ma un sistema globale e coerente.
Di qui la difficoltà ad accettare, e perfino a comprendere il diverso; di qui la
necessità di ‘filtrarlo’ attraverso il nostro sistema di valori. Snaturandolo,
spesso. O comunque adattandolo, riducendolo al nostro metro.
Di fronte a realtà effettivamente diverse, a piante e ad animali sconosciuti,
a cibi inusitati, gli esploratori e i conquistatori europei palesano al tempo stesso
diffidenza e curiosità. Faticano però a inquadrare, a ‘classificare’ teoricamente
le nuove esperienze. Le loro descrizioni mirano sempre a ‘tradurre’ queste esperienze nella propria lingua, a riportarle nell’ambito della propria cultura42.
Un’attestazione di prima mano di quanto avviene nel mondo
maghrebino e arabo nel rapporto fra uomini e cavallette viene da Leone
detto l’Africano, protagonista di lunghi viaggi in Barberia, Egitto, Siria,
Arabia, e autore di una Descrizione dell’Affrica volta dal manoscritto
arabo in italiano nel 1541. Leone testimonia che grandi quantità di
locuste s’alzano in volo in vari luoghi del continente africano, «massimamente nella Mauritania» dove provocano gran carestia. Ed aggiunge:
«Ma i popoli dell’Arabia Diserta e di Libia anno per somma ventura la
venuta di siffatte locuste: perciocché alcuni le mangiano lesse; e altri
le asciugano al sole, dipoi le pestano, e le fanno come farina, e così le
mangiano»43.
Anche i Portoghesi, assediati nel 1506 nella loro fortezza di Cananor,
sulla costa meridionale dell’India, «hebbero per manna mandata dal
cielo» il gran numero di locuste spiaggiate dall’Oceano Indiano. Il 15
agosto, da buoni cattolici, celebrano la festa dell’Assunzione di Maria,
42
M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza,
Roma-Bari, 1993, p. 124.
43
Giovan Leone Affricano, Descrizione dell’Affrica e delle cose notabili che quivi sono,
in G.B. Ramusio, Il viaggio di Giovan Leone e le navigazioni di Alvise di Ca da Mosto, di
Pietro di Cintra, di Annone, di un piloto portoghese e di Vasco di Gama, Venezia, 1837, p.
166. In realtà la prima edizione delle Navigationi et viaggi di Ramusio è pubblicata da
Giunti in Venezia fra il 1554 e il 1559.
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ma la fame li aveva già costretti a mangiare cani, gatti e topi. Fu quindi,
per loro, un effetto miracoloso della propria devozione, una mareggiata.
«Si levò il mare in furia» e ogni volta che le onde si scaricavano sulla
terra lasciavano a riva mucchi di locuste: «percioche non solamente a’
sani, ma a gli ammalati diedero vita, et fu tanta la copia loro, che hebbero in esse alcuni giorni che mangiare»44.
Due anni dopo, nel 1508, ancora i Portoghesi conquistano, sempre
sulla costa meridionale indiana, la città di Dabul. Quando vi entrano
la trovano abbandonata dagli abitanti, ma soprattutto senza alcuna
sorta delle attese vettovaglie. In realtà proprio in quell’anno s’era determinata una forte carestia a causa di una invasione di cavallette. Tuttavia gli abitanti sembrava ne avessero fatto tesoro: i soldati portoghesi
trovarono nelle case molti ‘vasi’ pieni di locuste, anche cotte. La cosa
si spiegava con il fatto che per loro era un cibo molto stimato; addirittura gli Indiani si dirigevano ‘per mercantia’ verso lo ‘Stretto di Mecca’
per acquistarne, visto che «in quella parte di Arabia gran copia» se ne
trovava. «Et non solamente nella spugnatione di questa città di Dabul
– soggiunge il cronista Joao Barros - trovarono i nostri questa mercantia, ma ancora in alcune navi di mori che presero». Così i Portoghesi
seppero quanto fosse apprezzato quell’alimento presso la popolazione
indiana di Dabul, deducendolo anche dalla quantità di «vasi pieni di
questi cavalletti» ritrovati.
Lo stesso alimento – è sempre Barros a documentarlo - è molto
usato dagli Arabi, che abitano i deserti di Arabia, ed ancora da quelli
che abitano i deserti africani, che loro chiamano «Zahara». Lì, quando
vedono approssimarsi «le nubi di questa piaga», tutti si preparano a
uccidere le locuste appena poggiano in terra; poi, seccate al sole, le
conservano come vettovaglia: «percioche in quei deserti non piove altra
manna a quella misera et maladetta gente». Malgrado tutto, però, a
Dabul, appena conquistata, alcuni portoghesi son presi dalla curiosità
di assaggiare «questi cavalletti» di cui avevano trovato recipienti pieni
nella città abbandonata. «Alcuni de’ nostri – informa Barros - che di
questi cavalletti mangiarono dicono che hanno buonissimo sapore, et
che la carne loro è così bianca come quella de’ gambari, et degli asteci,
che nella somiglianza sono cavalletti di acqua come gli altri sono gambari di terra»45.
Agli occhi settecenteschi del dottore in legge Gianfrancesco Pivati
appare «un poco difficile» che qualcuno si possa cibare di una tal sorta
44
J. Barros, L’Asia… de’ fatti de’ Portoghesi nello scoprimento, et conquista de’ Mari
et Terre d’Oriente, Venezia, 1562, libro primo, p. 17r.
45
J. Barros, L’Asia cit., pp. 60r-v. Il resoconto di Barros viene ripreso anche da I.
Quiñones, Tratado de las langostas muy util y necessario, Madrid, 1620, p. 13v.
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d’animali. Ma infine si deve arrendere alle evidenze riportate da molti
viaggiatori che avevano percorso l’Africa, spingendosi fino al Congo e
alle parti più interne del continente. Lì chi mangiava locuste e grilli li
trovava un «cibo dilicato»46.
Sul versante orientale del Mediterraneo, in Siria, e con più precisione nei dintorni di Aleppo, le cavallette talvolta infestano il paese. A
detta di Alexander Russell, medico e naturalista scozzese residente
nella città mediorientale dal 1740 al 1753, gli Arabi mangiano questi
insetti freschi oppure li conservano «also salt them up as a delicacy»47.
Un altro mondo, quello dell’Estremo Oriente, dà a William Dampier,
corsaro, esploratore e osservatore scientifico, l’opportunità di scrutare
quanto avviene fra uomini e locuste, nel momento in cui giunge nell’agosto del 1687 nello stretto fra Taiwan e le Filippine. Proprio a nord di queste c’è un gruppo di isole, che Dampier e i suoi compagni d’avventura e
di viaggio chiamano Bashee, non conoscendo il vero nome locale di Batanes. Un paragrafo della sua descrizione delle isole è dedicato alle locuste
seccate, che costituiscono uno dei piatti della cucina del luogo. In questo
tempo – si è nell’agosto del 1687, appunto – le locuste giungono in grandi
sciami e si mettono a divorare le foglie delle patate e altre erbe. I nativi
ne vanno allora a caccia con piccole reti e, dopo averle catturate, le portano a casa, dove le fanno seccare sul fuoco in una bacinella di terracotta. Quando le gambe e le ali si distaccano e le teste e i corpi diventano
rossi come il gambero cotto, sono pronte per essere mangiate. E come
scrocchiano sotto i denti! La curiosità spinge Dampier a provare questo
piatto; il commento è: «I liked it well enough». Ma subito si affretta ad
aggiungere che il suo stomaco si rifiuta di provare altri piatti locali48.
A metà del Settecento, a Chesnaye des Bois, compilatore del «Dizionario universale degli animali», dall’Oceano Indiano perviene notizia
che le locuste sono presenti e ricorrenti con le loro invasioni in Madagascar, in particolare nella zona della baia e del monte Saint Louis. Gli
insetti devastano le campagne coltivate a riso; allora gli abitanti della
grande isola dell’oceano orientale si risarciscono della perdita subita
mangiando i piccoli animali. Dopo aver strappato loro le ali, fanno arrostire le locuste sui carboni49.
G. Pivati, Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano cit., p. 59.
A. Russell, The Natural History of Aleppo and Parts adjacent, London, 1856, p. 62 ;
si veda anche Description d’Alep, in Le Voyageurs moderns, ou abrégé de plusieurs
voyages faits en Europe, Asie et Afrique, Paris, 1760, pp. 137-138.
48
W. Dampier, A New Voyage round the World, London 1697, s. p., in http://gutenberg.net.au/ebooks05/0500461h.html#0500461h-04 (accesso 29.6.2016).
49
F.-A.A. de la Chesnaye des Bois, Dictionnaire raisonné universel des animaux, ou
le règne animal, consistant en quadrupèdes, cétacés, oiseaux, reptiles, poissons, insectes,
vers, etc., Paris, 1759, pp. 64 e 70.
46
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Anche Lesser scruta da lontano le Indie Orientali, per considerare
il modo in cui le genti di quelle contrade fanno uso come cibo delle
locuste, la cui carne è bianca come quella del gambero, «e vien commendata siccome d’un sapore eccellente». Le condiscono in maniera
molto particolare dopo averle fatte bollire, o averle fatte seccare al sole.
Nuovamente Lesser, riprendendo le osservazioni di Dampier, dice pure
che ogni anno nel Regno del Tonchino, ovvero in Vietnam, esce da sottoterra fra gennaio e febbraio una specie di locuste, che risultano
essere un cibo assai apprezzato. «I Tonquinesi ricchi e poveri, raccolgono tutte quelle che possono; le arrostiscono sulle brage, o le pongono
in sale per conservarle; e una tale vivanda non può esser più sana»50.
Non hanno invece alcuna propensione positiva verso le cavallette il
medico e zoologo Luigi Metaxà e il suo allievo Sebastiano Rolle. Romani
degli inizi dell’Ottocento, non possono far a meno di ricordare come i
Romani dell’età classica facessero uso alimentare e gustoso degli
insetti. Ma le cavallette, no, non sono di natura benefica. Se molte
popolazioni ne sono desolate e afflitte, è vero che alcune altre ne sono
provvidamente nutrite. E qui i due autori osservano che, essendo le
regioni meridionali più abbondanti delle maggiori specie di cavallette,
fino dall’antichità s’era introdotto l’uso di mangiarle, «forse per minorarne il numero». Fra gli acridofagi essi contano una gran parte dei
popoli delle Indie orientali ed occidentali, gli arabi, i parti, i tartari, i
cinesi, i «sirj», i persiani, gli ebrei, gli «egizj», gli etiopi. «Non è da porsi
in dubbio però – concludono i due autori – che, bilanciando l’immenso
male col poco utile che se ne trae, quello a questo enormemente prevalga». Fa passare la fame pensare a quelle falangi di locuste, che «più
formidabili d’ogni più elettrica nube» si addensano e si scaricano sulle
campagne, distruggendo le speranze del desolato agricoltore51.
Per due medici romani che esprimono antipatia verso le cavallette,
c’è un italiano che invece scruta con curiosità quanto avviene sulla
sponda meridionale del Mediterraneo. Avventure e osservazioni sopra
le coste di Barberia: non poteva trovare titolo più appropriato al suo
libro Filippo Pananti. Poeta e liberale, mentre tornava in Italia dal
volontario esilio, venne catturato in mare dai corsari algerini e ridotto
in schiavitù. Ma il suo sguardo non perse le capacità di posarsi con
attenzione su usi e costumi della Barberia, dando corpo nel 1817
appunto a quel libro che doveva godere di più ristampe nel corso del-
50
F.C. Lesser, Teologia degl’Insetti cit., p. 114. Ci sono popoli orientali che fanno friggere le locuste con del burro, e marinare con aceto, sale e pepe: F.-A.A. de la Chesnaye
des Bois, Dictionnaire raisonné universel des animaux cit., p. 69.
51
L. Metaxà, S. Rolle, Osservazioni naturali intorno alle cavallette nocive della campagna romana, Roma, 1825, pp. 5 e 11-12.
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l’Ottocento. Così vi si può leggere che il più terribile flagello in quelle
contrade era rappresentato dalle locuste. «I Mauri» in occasione di una
inondazione degli insetti si adoperano per replicare all’aggressione, correndo qua e là con grida, con bastoni, con fuochi accesi cercando di
spaventare e mettere in fuga le funeste miriadi. Poi, vista l’inutilità di
tutti i loro tentativi «cessan d’affliggersi e tormentarsi, e da uomini savi
prendono il lor partito di pazienza, e rassegnazione». Anzi fanno di più:
si danno da fare per trarre qualche vantaggio dalla loro disgrazia, e
vanno a battere gli alberi, su cui le locuste si sono posate, ne riempiono
sacchi, le pongono nell’acqua bollente, le fanno seccare sui tetti, e per
due o tre mesi si assicurano un sostentamento52.
Per osservare ed esaminare natura e cultura dell’ecumene araba
bisogna portare l’indagine sul terreno: Carsten Niébuhr, orientalista
e matematico tedesco, e Peter Forsskål, orientalista e naturalista svedese53, a partire dal 1761 si ritrovano nella medesima spedizione in
Egitto, Arabia e Yemen, dove il secondo morirà. Per quanto riguarda
le locuste, come testimoni oculari, riportano che gli Arabi fanno grigliare quegli insetti su dei carboni e poi li mangiano in grande quantità. Nella loro qualità di esploratori, hanno curiosità di esplorare il
gusto delle locuste: assaggiate, non le trovano troppo malvage. Questo
nutrimento, secondo Forsskål, non ha un gran gusto e qualora se ne
faccia un uso eccessivo, addensa il sangue e va in contrasto con i
‘temperamenti malinconici’. La cavalletta di passaggio, o locusta
migratoria, è proprio quella che mangiano gli Arabi, e secondo quanto
Carsten Niébuhr ha inteso dire a Forsskål, è la stessa che s’è vista
comparire in Germania.
Niébuhr dedica un ampio passaggio della sua descrizione dell’Arabia
all’acridofagia, mostrando la varietà di cavallette e di usi alimentari in
diversi ambiti dei Paesi islamici. Un arabo di Làchsa (Bahrein) – narra
in prima persona il naturalista svedese – con cui viaggiavo in Persia,
mi citava le cavallette che vengono nella sua patria. La cavalletta rossa,
che è molto magra quando arriva, ma che dopo s’ingrassa a spese delle
coltivazioni e con gran danno degli abitanti, diventa un boccone delicato per gli Arabi. Poi viene la cavalletta ‘leggera’: anche questa è magra
quando arriva a Làchsa; dopo che s’è rifatta, cambia il suo nome in
quello di cavalletta ‘grassa’, e serve egualmente come cibo per gli Arabi.
52
F. Pananti, Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia, Firenze, 1817, pp.
187 e 190-191. Una riedizione reca il titolo Relazione di un viaggio in Algeri, quinta edizione, Genova, 1830.
53
P. Forsskål, Descriptiones animalium avium, amphibiorum, piscium, insectorum, vermium; quae in itinere orientali observavit, post mortem auctoris edidit Carsten Niebuhr,
Hauniae, 1775.
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A Basra (Bassora) ha buona nomea la cavalletta che gli abitanti più
amano; si soggiunge che è la femmina, quand’è molto grassa e piena
di uova, a costituire un piatto corroborante per gli uomini. Il maschio
di questo tipo di cavalletta è molto magro e quindi si mangia raramente
nell’estremo sud dell’Iraq.
Gli Europei – prosegue Niébuhr – non comprendono affatto come gli
Arabi possano mangiare, con piacere, le cavallette; e gli Arabi, che non
hanno avuto degli scambi con i Cristiani, non vogliono credere, a loro
volta, che questi ultimi ritengano una delicatezza le ostriche, i granchi,
i gamberetti e i gamberi. Tuttavia questi due elementi culturali sono
circostanze egualmente certe agli occhi del viaggiatore scandinavo. In
tutte le città d’Arabia, da Bab el Mandeb fino a Basra, cavallette infilzate vengono portate al mercato. Ho visto un arabo – riprende Niébuhr
- sul monte Sumâra, che ne aveva riempito un sacco. Poi si lavorano e
cucinano in maniere diverse. Ed ecco un’altra testimonianza in presa
diretta: un arabo d’Egitto, che noi invitammo a mangiare in nostra presenza, le gettò su dei carboni ardenti, e quando pensò di averle grigliate
a sufficienza, le prese per le lunghe gambe e per la testa, e fece un boccone del resto. Quando gli Arabi ne hanno in gran quantità, le grigliano, o le fanno seccare in un forno, o le fanno bollire, e le mangiano
con del sale. Io non ho mai provato a mangiarle – confessa Niébuhr -.
Ma il signor Lucas, che per più anni è stato console del re a Salé, le ha
di sovente gustate, e ha trovato in loro un gusto che s’avvicina a quello
dei “bretlinger”, specie di sardine secche che agli svedesi pervengono
da Eckernfoerde.
Gli Arabi del regno del Marocco, dopo averle fatte bollire leggermente, le mettono a seccare sui tetti delle loro case. Poi se ne vedono
in vendita delle grandi ceste. Né il signor Lucas, né io – aggiunge Nièbuhr – abbiamo sentito mai dire che le cavallette siano un nutrimento
malsano, né che esse generino parassiti. Gli Ebrei dello Yemen mangiano cavallette tanto volentieri quanto gli Arabi maomettani. I Turchi
non sembra abbiano preso ancora gusto alle cavallette. Per questo a
Bagdad, Mosùl, Diarbekr e in altre città alla frontiera dell’Arabia, non
si mangiano, ma servono di nutrimento solo agli Arabi; in compenso
formano la delizia dei polli, dei maiali e soprattutto delle scimmie. La
cavalletta ‘Dubbe’ o ‘Dubben’ è conosciuta in Oman, a Làchsa e a
Bàsra; queste cavallette sono più piccole di quelle che si mangiano
ordinariamente, ma in ogni caso non se ne mangia per niente. A Bàsra
per di più si dice che provochino la diarrea54.
54
C. Niebuhr, Description de l’Arabie d’aprés les observations et recherché faites dans
le pays meme, Paris, 1779, pp. 238-241.
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A proposito di locuste ‘arabe’ un omaggio a Niébuhr, per la completezza di nomi e descrizioni che ne aveva dato, viene reso dal viaggiatore
inglese Richard Burton, il quale nel 1853 si imbarca per un pellegrinaggio alla Mecca e alla Medina. Nel suo percorrere l’Arabia si imbatte
nei beduini e ne dipinge i tratti. Il vero beduino è un uomo molto
sobrio, capace di vivere per sei mesi con dieci once di cibo al giorno; il
latte di un solo cammello, e una manciata di datteri, secchi o fritti con
il burro, sono sufficienti per i suoi bisogni. I beduini sono ancora ‘acridophagi’ e anche gli abitanti delle città preferiscono di gran lunga un
piatto di locuste al ‘Fasikh’, un piatto egiziano di pesce che potrebbe
essere comparato alle acciughe, le sardine e le aringhe. I beduini accendono il fuoco di notte e, quando gli insetti cadono stecchiti, essi citano
questo distico per giustificare che se li mangeranno: «Ci sono consentiti
due carcasse e due sangui, /Il pesce e la locusta, il fegato e la milza».
Dal momento che i beduini non hanno raccolti da perdere, la gente
ringrazia il cielo quando piovono locuste. Nell’Hijaz i voli degli sciami
di locuste non sono certi e periodici, ma sporadici; negli ultimi cinque
anni – dice Burton – se ne sono visti pochi sulla Medina. In ogni caso,
quando si riescono a catturare, le locuste sono preparate per essere
mangiate bollendole in acqua salata e poi seccandole per quattro o cinque giorni al sole: una locusta in umido per un arabo è come una
lumaca per un britannico. Viene staccata la testa, tirato via lo stomaco,
rimosse le ali e le parti spinose delle zampe, e l’insetto è pronto in
tavola55. Le locuste non sono mai mangiate insieme a cibi dolci, potrebbero riuscire nauseanti: il piatto è sempre “hot”, con sale e pepe, o
cipolle fritte in burro chiarificato; il suo sapore si avvicina a quello di
un piatto di gambero raffermo56.
Fra lo sprezzante, il condiscendente e l’incuriosito si collocano le
osservazioni di chi si interessa al fenomeno dell’entomofagia e in particolare agli Acridofagi, ma dall’esterno, e per certi versi sotto l’influenza
55
Buona pratica si rivela essere quella di rimuovere ali e zampe. Infatti in Congo è
stato osservato che quando cavallette e locuste sono consumate senza rimuovere le
zampe, può capitare una costipazione intestinale, causata dalle spine della tibia dell’insetto. La rimozione chirurgica delle zampe delle locuste rimane allora l’unico rimedio.
L’autopsia di scimmie morte durante delle invasioni di locuste ha provato pure che il
loro consumo è risultato fatale per le medesime ragioni. Un altro problema, presentatosi
però nel XX secolo, deriva dall’applicazione di pesticidi contro cavallette e locuste, che
può causare guai per via dei loro residui tossici: A. van Huis, Insects as Food in SubSaharan Africa, «Insect Science and its Application», vol. 23, n. 3 (2003), p. 175; e J.
Mlcek, O. Rop, M. Borkovcova, M. Bednarova, A Comprehensive Look at the Possibilities
of Edible Insects as Food in Europe – a Review, «Polish Journal of Food and Nutrition
Science», vol. 64, n. 3, (2014), p. 152.
56
R.F. Burton, Personal Narrative of a Pilgrimage to Mecca and Medina, vol. I, Leipzig,
1874, pp. 259-260.
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dell’Illuminismo francese. Eloquente è il modello interpretativo proposto da Montesquieu, Bouganville e Buffon57; significativo è il caso di
due studiosi siciliani dell’Ottocento. Nel 1832 la Sicilia centrale subisce
una pesante invasione di cavallette; i perniciosi animaletti destano le
più vive preoccupazioni: si è in aprile e il grano è ancora in fase di crescita e si teme una grande rovina. Il Luogotenente generale di Sicilia si
decide a nominare commissario ‘anti-locuste’ il magistrato nisseno
Paolo Zanghì. Dopo aver organizzato la campagna di lotta alle cavallette
e al momento della sua positiva conclusione, Zanghì prende carta e
penna e scrive un saggio sulle modalità di estirpazione degli infesti
insetti. In alcuni passaggi dello scritto il magistrato-commissario non
si esime dal rilevare che in Arabia ed in parecchie regioni settentrionali
dell’Africa gli uomini mangiano le locuste «oggidì nella stessa guisa,
che lo solevano fare in tempi remotissimi. Ma gli Arabi non solo, i Tartari ancora, gli Egiziani, e tutti i popoli della Barberia le mangiano con
piacere, o arroste, o lesse, o le ammolliscono nel butiro, o le disseccano,
o in diversi altri modi apparecchiati le portano sulle loro ingratissime
mense, ne conservano anche in sale per lungo tempo molta quantità
all’oggetto di servirsene al bisogno, e sino le riducono in polvere, e ne
fanno una specie di pane, e ne vendono parimenti al mercato».
Ma non rechi meraviglia – aggiunge il giudice Zanghì– se tanti popoli si fussero nutriti di quest’insetti dalla più remota antichità; fu egli necessario di una
calamità farne cosa utile a’ bisogni.
I deserti dell’Arabia, e della Palestina, le sabbionose montagne dell’Etiopia,
ed altre selvagge, e sterili terre, in cui sono ignote la marra, e l’aratro, e vantaggio alcuno non presenta l’agricoltura, e l’industria campestre, fecero senza
dubbio nascere il bisogno a quanti possono essere colà abitatori di riguardare
come cibo a loro necessario le locuste: tanto è vero che non vi sono dure e
penose abitudini, ne mali gravissimi, a cui l’uomo per necessità non si
avvezzi58.
Tre secoli prima di Zanghì Thomas Moffett aveva percorso temi
simili, sottolineando come lui pensasse che l’abitudine di mangiare le
locuste fosse tipica delle «calidiorum regionum», quindi diffusa fra gli
57
T.C. Jacques, From Savages and Barbarians to Primitives: Africa, Social Typologies,
and History in Eighteenth-Century French Philosophy, «History and Theory», vol. 36, n. 2
(1997), p. 200. Si veda, per esempio, la rappresentazione di Buffon degli Acridofagi, o
mangiatori di locuste dell’Etiopia, che riprende pienamente Diodoro Siculo: G.-L. Buffon,
Histoire naturelle générale et particulière, volume 3, Histoire Naturelle de l’Homme, Paris,
1749, p. 498.
58
P. Zanghì, Delle cavallette e del modo di distruggerle: Opera in circostanza della
invasione avvenuta nella provincia di Caltanissetta nel 1832, Palermo, 1835, pp. 79-81.
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Etiopi, gli Arabi, i Libici, in particolare gli abitanti di Lepti. In queste
ed altre regioni del mondo a lui noto, le popolazioni «in delicijs habent»
anche le uova delle locuste59.
Un altro studioso siciliano, oltre Zanghì, rileva che «negli Stati Uniti
le Pelli Rosse mangiano i grilli»: a dirlo, fra il 1882 e il 1883, è Luigi
Failla Tedaldi. L’entomologo, nato a Castelbuono nel 1853, allievo di
Francesco Minà Palumbo, dopo essersi interessato particolarmente
dello studio delle farfalle, viene preso da curiosità entomo-antropologica e pubblica un testo stuzzicante sugli insetti commestibili. Il capitolo sulle cavallette le localizza in prima battuta nel Maghreb, dove
vengono considerate un cibo delicato e di squisito gusto. Gli insetti vengono arrostiti e conservati nella salamoia, avendo prima tolto le elitre
e le zampe60.
Infine si può tornare alle testimonianze dirette, sempre ottocentesche. Nella parte meridionale dell’Africa, in particolare nell’attuale Botswana, a metà Ottocento opera David Livingstone, testimone dell’uso
di desinare con un piatto di cavallette, soprattutto quando difettano
altre carni. «Questi insetti sono una vera benedizione in Affrica perché
suppliscono qualche volta alle carni». In tempo di grandi siccità gli
indovini del paese, chiamati «i dottori della pioggia», promettono di
richiamare locuste per mezzo degli incantesimi. «La locusta ha un
sapore di vegetabile che varia a seconda delle piante di che si nutre»;
bisogna mangiarla col miele. Alcune si arrostiscono, e mescolate col
sale sono «gustose» e durano mesi61.
Gusti e disgusti
Fin qui si è attraversato il tempo (lungo) e lo spazio (si potrebbe dire,
globale) alla ricerca degli Acridofagi, con tutti i limiti di tale ricerca, primo
fra tutti l’approccio eurocentrato delle fonti. Ma proprio da questo forse
si può ripartire per chiederci quando e perché insorga il disgusto occidentale, nel caso specifico, nei confronti delle cavallette come cibo, preludio alla più generale domanda sui disgusti alimentari (e culturali)
dell’Occidente. Puntata l’attenzione sull’Italia e sulla lingua italiana, si
T. Moffett, Insectorum sive minimorum animalium Theatrum cit, p. 124.
L. Failla Tedaldi, Insetti commestibili cit., p. 234. Una ben documentata biografia
dello scienziato Minà Palumbo è in O. Cancila, Minà Palumbo, Francesco, in Dizionario
biografico, Treccani, ad vocem, in http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-minapalumbo_(Dizionario-Biografico)/ (accesso 26 settembre 2016).
61
D. Livingstone, Missionary Travels and Researches in South Africa, London, 1858,
ripreso in Recenti esploratori dell’Affrica. Il Dottor David Livingstone, «Rivista di Firenze e
Bullettino delle arti del disegno», Firenze, anno secondo, volume quarto (1858), p. 27.
59
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potrebbe iniziare dal nome stesso: cavallette e/o locuste. «Un nome o
una parola possono indurre al – o cortocircuitare il – gusto per il cibo,
perché anche le parole hanno a che fare con la bocca: le parole e la
scrittura condensano gusto e immagine nell’immaginario». La figurazione scritta o verbale di un certo animale come cibo annuncia una
induzione mentale al gusto e rappresenta anche una condizione di
accesso. «Le parole – ancora di più le rappresentazioni visive – hanno
un grande potere, inducendo ma anche suscitando repulsione e impedendo l’accesso, come hanno dimostrato molti esperimenti sui condizionamenti della percezione. Ogni segno – verbale o figurato – rimanda
a un preciso orizzonte d’attesa gustativo che attiva determinati canali
di attenzione»62. Le parole ‘cavalletta’ e ‘locusta’, per la loro storia invadente e malefica, inducono senza dubbio al disgusto.
Gli aspetti antropologici del legame fra gli animali e le parole che li
designano, quando vengono presi in considerazione per la loro commestibilità, sono ben illustrati da Edmund Leach: «Tutti gli animali che
si possono mangiare sono o pesci, o uccelli, o bestie. Resta un gran
numero di animali classificati sia come rettili, sia come insetti, ma questo residuo ambiguo è classificato nella sua totalità come nonbuono
da mangiare. Tutti i rettili e tutti gli insetti sono, sembra, considerati
come nemici dell’uomo, che può sterminarli senza pietà». C’è nella lingua inglese, cui fa riferimento Leach, una grande categoria di animali,
trasversale rispetto alle altre e carica di tabù: essa è vermin. La definizione che il dizionario inglese dà di questa parola è molto ambigua:
mammiferi e uccelli nocivi alla selvaggina, ai raccolti ecc.; volpi, donnole, ratti, topi, talpe, gufi, insetti nocivi, pulci, cimici, pidocchi, vermi
parassiti, persone vili. «Si può anche definire vermin come pests (‘insetti
o piante nocive’) (cioè piaghe ‘peste, flagelli’)». I vermin e i pests sono
intrinsecamente non commestibili63.
Il filosofo ungherese Aurel Kolnai, nell’analizzare il disgusto, lo considera in relazione a insetti e ratti: essenzialmente esso riguarda il brulicante conglomerato di ciò che si definisce “vermin”. Impressionano la
loro sovrabbondante fecondità sessuale e la loro eccessiva mobilità; e
inoltre la loro connessione con lo sporco, con i rifiuti, con la materia
corrotta, da cui deriva la paura del contatto. Si aggiunge, nel caso di
alcuni insetti poi, la bavosa scia del loro strisciare64.
N. Perullo, Il gusto come esperienza cit., p. 98.
E.R. Leach, Aspetti antropologici della lingua. Ingiurie e categorie animali, in M. Del
Ninno (a cura di), Etnosemiotica, Meltemi, Roma, 2007, pp. 129-130 e 132.
64
A. Kolnai, On disgust, Open Court, Chicago, 2004; il saggio fu scritto nel 1927 e
pubblicato originariamente nel 1929 nel volume 10 dello «Jahrbuch für Philosophie und
62
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Il ribrezzo è suscitato già dalla parola con cui si indicano le locuste, ampliato poi dall’osservazione della loro natura e del loro comportamento. Il cappuccino cagliaritano Jorge Aleo, nel solo pensare
alle cavallette nel 1672, si esprime senza mezzi termini nel rendere
manifesta la sua ripugnanza: «La locusta è un piccolo animale schifoso, generato da materia putrida o corrotta». Poi s’aggancia a Plinio
per imperversare: la cavalletta «è un animale inquieto, vagante,
schifoso, dannoso, lascivo e vorace» 65 . Gli vien dietro l’uomo di
Chiesa messinese Giuseppe Cuneo, il quale nel 1696, in occasione
del passaggio di un nembo di locuste nei cieli dello Stretto di Messina, descrive gli «animaletti», che egli, così come tutti i siciliani,
chiamava «grilli»: «Erano di mediocre grandezza, lunghi quanto il
dito di menzo di una buona mano d’huomo, ma non cossì grossi, e
molti ve ne erano più piccioli: tutti erano gialli a color di solfo e con
l’ali un poco biggi a color di quaglia; erano brutti e schifosi a vedersi:
parevano pieni di veleno». Il cronista siciliano condivide con i suoi
concittadini ribrezzo e atterriménto: «Per più giorni nell’hora di
menzo giorno ne passavano per aria delle migliaia e come un nuvolo
che spaventava a chi lo vedeva»66.
Li chiamavano «bruchi» ma erano cavallette: i pugliesi si distinguevano per l’aspetto della denominazione linguistica, ma la sostanza era
la stessa, si trattava sempre degli stessi insetti. Una testimonianza sulle
modalità dell’invasione dei «bruchi» a Lecce, attestata nel 1812, è raccolta da Antonio Lucarelli: «La città istessa non era tan poco esente dal
loro schifoso contagio. Ne rimanevano ingombre le strade, le piazze ed i
tetti delle abitazioni. Entravano anche nelle stanze, se non si usava l’accortezza di tenere chiuse le invetrate. Ne rimanevano sporche pur le
vivande che si cuocevano ne’ focolari da quelli che si intromettevano
per i camini»67. Le considerazioni sull’invasione di Lecce da parte delle
cavallette sono molto simili a quelle di oltre un secolo e mezzo prima
fatte per un identico caso romano. Nel principio del mese di giugno
del 1653 nelle campagne di Roma, «e luochi vicini», comparve una gran-
phänomenologische Forschung» diretto da Husserl; si veda anche W. Menninghaus,
Disgust. The Theory and History of a Strong Sensation, State University of New York Press,
Albany, 2003, p. 18.
65
J. Aleo, Storia cronologica e veridica dell’Isola e Regno di Sardegna dall’anno 1637
all’anno 1672, a cura di Francesco Manconi, Ilisso, Nuoro, 1998, pp. 168-173; tratto da
Jorge Aleo, Historia cronologica y verdadera de todos los sucesos y casos particolare sucedidos en la Isla y Reyno de Sardeña del año 1637 al año 1672, Comune di Cagliari, Biblioteca Comunale di Studi Sardi, mss. Sanjust 16, 1672-1673.
66
G. Cuneo, Avvenimenti della nobile città di Messina, tomo primo, Regione Siciliana,
Palermo, 2001, pp. 315-316 e 318.
67
A. Lucarelli, La Puglia nel secolo XIX, con particolare riferimento alla Città di Acquaviva in Terra di Bari, Soc. Tip. Edit. Pugliese, Bari, 1926, pp. 30-33.
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dissima quantità di cavallette «di diverse forme d’ali, e piedi». Ma gli
insetti non si limitarono a invadere la campagna: «in Roma entravano
nelle Case, e ne’ Palazzi, non senza disturbo, ed orrore delle persone; e
nelle tavole saltellavano sulle vivande, senza poterle riparare»68.
Insomma, le cavallette entravano nelle cucine e saltavano sulle tavole
di tanti italiani dell’età moderna, ma non ci rimanevano per essere
mangiate. Al contrario, suscitavano disgusto e ribrezzo, anche perché
andavano a imbrattare le pietanze, sia che stessero cuocendo, sia
che fossero già in tavola.
Per inciso, anche gli uomini provavano a provocare disgusto alle
cavallette. Ottavio Andreucci, a Ottocento inoltrato, ricorda l’ennesima
ricetta provata dopo tutte quelle dell’età moderna, ritenuta atta a replicare a una inondazione di locuste. Essa era composta di sapone, spirito
di vino, sidro di pera, radice di cardo selvatico e olio minerale: «vuolsi
per l’odore suo nauseante che sia atta a disgustare le salterelle»69. Ma
più che con le ricette ‘fetenti’ per allontanare le cavallette, in età
moderna, si pensa di metterle al bando facendo ricorso alla Chiesa.
Diversi esempi mostrano come le parole ‘cavallette’ e ‘locuste’ mettessero, già al solo sentirle pronunciare, paura e terrore; quindi si poneva
il problema materiale non di come catturare gli insetti per imbandir
tavole, ma di come allontanarli.
Nel manoscritto De laudibus Siciliae et praesertim vallis Mazariae
Giovan Giacomo Adria riporta un’invasione di cavallette avvenuta nel
1490: «vidi» – afferma il medico e storiografo mazarese – un grandissimo esercito di locuste volare nell’aria. Nel cielo di Mazara del Vallo il
loro passaggio durò dalla mattina fino al pomeriggio; le locuste proseguirono poi fino a Siracusa, dove si abbatterono sulla terra. Il buon
vescovo dei Siracusani, temendo quella peste, scomunicò le locuste.
Dopo l’anatema, immediatamente le locuste si alzano dalla terra,
riprendono lo straordinario volo, vanno a sommergersi in mezzo al
mare e vanno ancora a putrefarsi su quei lidi, ancora a causa della
scomunica, sempre secondo Adria70.
68
I. Ciampi, Innocenzo X Pamfili e la sua corte. Storia di Roma dal 1644 al 1655,
Roma, 1878, p. 264; G. Chiericato, Le spighe raccolte cioè annotazioni erudite ed erudizioni notate, Venezia, 1764, p. 56.
69
O. Andreucci, Delle Cavallette e del modo di distruggerle, «Rivista di agricoltura,
industria e commercio», presso G.P. Vieusseux, Firenze, n. 10 (luglio 1870), p. 181. Il
termine ‘salterelle’ è chiaramente un francesismo derivato da ‘sauterelles’, parola con
cui s’indicavano oltr’Alpe le cavallette.
70
J.J. Adria, De laudibus Siciliae et praesertim vallis Mazariae, manoscritto del secolo
XVI, Biblioteca comunale di Palermo, ai segni Qq C 85, c. 45v; ripreso in M.G. Castello, Il
Ms. De Laudibus Siciliae et primo de valle Mazariae di Gian Giacomo Adria, «Atti dell’Accademia di scienze lettere e arti di Palermo», serie IV, vol. XXXV (1975-76), pp. 193-258.
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Nell’anno 1658, a Palermo la giornata del 16 aprile, martedì santo
prima della Pasqua, è consacrata alla celebrazione del rito della «maledizione dei grilli», portandosi tutti, clero e popolo, fuori porta Nuova, in
direzione della campagna. Di fronte alla minaccia delle locuste non si
poteva far altro che ricorrere agli anatemi, per risparmiare danni al frumento e a tutte le altre «cose necessarie al vitto umano». Sempre di martedì, il 29, e sempre in aprile, si ripete nel 1659 la cerimonia religiosa per
difendersi dalle cavallette71.
Era lecito «animalia nociva maledicere, seu conjurare et excommunicare, et exorcizare»? Il teologo Martin del Rio, vissuto nella seconda
metà del Cinquecento, risponde: «esser leciti gli esorcismi, e gli Ecclesiastici discacciamenti degli animali nocivi, massimamente gli approvati, e ricevuti dalla Chiesa, non altrimenti gl’inventati da persone
particolari. Ed oggi abbiamo ne’ Rituali Romani le formole legittime, che
tutti debbono seguitare, perche le inventate da’ particolari, sono proibite». Così il vescovo settecentesco Pompeo Sarnelli può narrare quanto
avvenuto una volta a Francesco Alvarez, «Sacerdote religiosissimo, e
Cappellano del Rè di Portogallo». Alvarez, trovandosi in Barna, città africana, visto che le cavallette andavano distruggendo il paese, ordinò di
fare una processione lontano dall’abitato, al termine della quale disse
che gli fossero portate alcune cavallette. A queste, «conforme il Rito della
Chiesa», comandò che «dentro lo spazio di tré hore dovessero sgombrare
tutto quel paese, e trasferirsi overo nel paese degli Etiopi Idolatri, ò precipitarsi nel mare, ò finalmente andarsene nelle montagne, e paese
diserto … al qual comandamento quando non avessero ubbidito», disse
che sarebbero state date in preda agli uccelli, perché le divorassero, e
ai venti procellosi, che le dissipassero, e le facessero morire72.
71
Diari della Città di Palermo dal secolo XVI al XIX, volume V, a cura di G. Di Marzo,
Palermo, 1870, pp. 76-77 e 81.
72
M. del Rio, Disquisitionum magicarum libri sex, Lugduni, 1608, lib. 3, sect. 8;
ripreso in P. Sarnelli, Lettere ecclesiastiche, tomo quinto, Venezia, 1716, pp. 37 e 49.
Infine chi celebrava il rito aspergeva d’acqua benedetta i campi. San Vincenzo Ferreri
distingue le prerogative dell’acqua benedetta; fra queste afferma che «dà ancora la fertilità a’ Campi… e libera dalle locuste e da’ topi»: E. Ciancio, Il devoto nelle Lettere ecclesiastiche di Pompeo Sarnelli, «La Capitanata», a. 32, n. 3 (1995-1996), p. 321. Nella stessa
pagina del Sarnelli si rievoca, condannandola, una procedura in auge nei tempi medievali, il processo alle cavallette: «In quanto poi à fare il processo giudiziale, costituire il
procuratore degli animali nocivi, citarlo, e fare altri atti giudiziali sono cose vane, e superflue». Se processo si doveva fare alle cavallette – sostiene ironicamente Hiob Ludolph nel
1696 – allora si dovevano convocare anche gli uccelli selvatici e farli esprimere a proposito della distruzione degli insetti, correndo essi il pericolo di vedersi deprivati all’istante
del loro cibo preferito. E a questo punto anche gli Acridofagi dovrebbero essere sentiti
dai giudici nel corso del processo, di cui potrebbero chiedere la nullità: H.A. Hagen, Lawsuits against grubs and grasshoppers, «Science», vol. 4, n. 82 (1884), p. 169.
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Appare molto interessante in questa pagina il riferimento agli
Etiopi, che sembra riemergere da tempi molto lontani, dagli Acridofagi di Diodoro Siculo. D’altronde quel lontano passato non è passato, se si pensa a come in tutta l’Etiopia meridionale ancor oggi i
clan mostrano una forte tendenza a differenziarsi tra di loro non solo
in base a criteri genealogici e sociologici, ma anche sulla base dei
cibi mangiati e di quelli evitati. È pratica comune l’uso di soprannomi
che derivano dalle abitudini alimentari per identificare gruppi di persone o identità etniche: «Tigrayans are well recognized as ‘locusteaters’»73.
Nel XXI secolo si è ancora fra gusti e disgusti, ma lo spazio del
sapore come sapere si è esteso, comprendendo e avendo «a che fare
tanto con qualunque riconoscimento autoidentitario quanto con le
approssimazioni all’alterità e all’esotismo: il piatto di tortellini o gli
arancini apprezzati in quanto ricordo, le cavallette fritte apprezzate in
quanto esotiche». Si è chiarito come il gusto possa fungere da sonda
attiva della scoperta del mondo74. E non solo ai nostri giorni, ma anche
nel passato occidentale.
Quando nel 1693 eserciti di locuste invasero la Germania, vi fu
chi provò a mangiarne. L’eminente orientalista tedesco Hiob
Ludolph, primo europeo ad acquisire la conoscenza della lingua etiopica e che tanto conosceva dell’Oriente, le riconobbe simili a quelle
«delle quali gl’Indi fan tanto caso». Quindi le fece preparare alla loro
maniera. Ne fece bollire alcune come si fa con i gamberi, e altre ne
marinò con aceto e pepe. Poi prese uno dei suoi servitori e gli fece
fare da cavia assaggiatrice. Allorché si accertò che quello aveva mangiato senza danno le locuste ammannite, ne gustò anch’egli; anzi, un
giorno ne fece regalo – non è dato sapere quanto ben accetto – al
Magistrato di Frankfort75.
L’autore del “Dizionario degli animali” (1759) afferma decisamente
che in Europa non si conosce questo «ragoût», o piuttosto un pasto
così frugale; ci si contenta di ammirare la sobrietà degli Orientali, ma
allo stesso tempo non si desidera imitarli76. D’altronde l’ideale di
gusto vigente ancora nel XVII secolo portava a ricercare sapori tem-
73
V. Peveri, The exquisite political fragrance of enset. Silent protest in Southern Ethiopia
through culinary themes and variations, «Partecipazione e conflitto. The Open Journal of
Sociopolitical Studies» (2015), p. 573.
74
N. Perullo, Il gusto come esperienza cit., p. 80: «una parte crescente dei cultural
studies oggi riguarda il cibo in quanto marcatore della complessità multiculturale».
75
F.C. Lesser, Teologia degl’Insetti cit., pp. 113-114.
76
F.-A.A. de la Chesnaye des Bois, Dictionnaire raisonné universel des animaux cit.,
pp. 64 e 70.
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perati e a creare un bilanciamento attorno al concetto di dolcezza,
cercando di rendere graditi gli alimenti. «La cucina ideale è preparare
o cuocere per rendere digesti e dare equilibrio agli alimenti troppo
forti, troppo secchi, troppo umidi, troppo salati, troppo amari»77. Le
cavallette evidentemente non potevano apparire un buon ingrediente
per una tavola così pensata.
Nell’univocità di atteggiamenti si ritrova però talvolta qualche eccezione, come quando nel 1741 il castigo di Dio delle locuste si abbatte
sulle terre pugliesi, localizzandosi nella provincia di Bari e in particolare
nel territorio di Andria. In questo ennesimo episodio di invasione di
cavallette in Italia, si possono cogliere due comportamenti divergenti,
rispetto alle cavallette stesse. Gli immensi sciami di locuste, agli occhi degli
abitanti, rappresentano l’«esempio spaventevole» della collera divina.
Secondo l’andriese Riccardo D’Urso, che recupera la memoria di quanto
avviene nell’aprile del 1741, una buona porzione degli insetti si intrometteva nelle case e tormentava i cittadini nelle cucine, nelle tavole, nei letti.
Una cosa importuna e fastidiosa: le cavallette passano da cucine e
tavole, ma solo per eccessiva e insopportabile molestia. Uno spettacolino a parte e alternativo, invece, lo mette in scena un distaccamento di
soldati spagnoli, che dimorava in quel periodo appunto ad Andria.
Mentre gli Andriesi gemevano, gli Iberici tripudiavano ed era tutto un
odore di rosolato per il paese: degli insetti facevano frittura, «mangiandoli
con avidità in tutte le ore»78.
Volge lo sguardo alle usanze alimentari occidentali, Virey, estensore
della voce «Acridophages (peuples)» del Dictionnaire d’Histoire Naturelle,
e afferma esplicitamente che gli Occidentali mangiano granchi, gamberi e altri crostacei, «qui sont des espèces d’insectes». Cita poi il caso,
da lui conosciuto personalmente, di un giovane divoratore di bruchi,
mentre gli giungono notizie di altre persone, «des femmes même, qui
ont mangé des araignées et autres insectes hideux ou degoûtans, sans
en éprouver d’accidens».
Gli Acridofagi provocano, nell’enciclopedista che vuole offrirne
una precisa definizione e una completa illustrazione, dei moti contraddittori. Quando sembra che ci si diriga verso l’accettazione di
quel particolare cibo, che a quanto pare male non fa, ecco la stroncatura: in generale «les insectes procurent une mauvaise nourriture,
âcre, irritante, et qui ne fournit presque pas de chyle: aussi les personnes qui en feroient un continuel usage, ne pourroient pas exister
C. Boudan, Le cucine del mondo cit., p. 298.
R. D’Urso, Storia della Città di Andria dalla sua origine sino al corrente anno 1841,
Napoli, 1842, pp. 162-163.
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long-temps». E poi si corre il rischio di non distinguersi dai Tonchinesi,
che amano molto gli insetti come alimento «et mangent même les
poux», come fanno le scimmie. A rincarare la dose e chiudere la partita,
Virey considera, «surtout chez les nègres, cet appétit pour les insectes»,
una inclinazione identica a quella delle scimmie; «de sorte que c’est un
nouveau trait de ressemblance qui indique la grande analogie entre
ces espèces; car, en effet, le nègre descend vers les races des singes, et
en est plus voisin que l’homme blanc; aussi ses habitudes se rapprochent-elles de ces animaux imitateurs»79.
Un italiano in Algeri le cavallette però le assapora, nonostante le
considerazioni degli enciclopedisti francesi: Filippo Pananti, per via
della sua cattività come schiavo, ha la possibilità, e la capacità, di
osservare usi e costumi locali. Fra l’altro, era stato già notato, a proposito delle cavallette, che «i corsari africani ne fanno il loro ordinario
nutrimento acconciate in barili»80.
Pananti non può mancare quindi di rilevare come gli abitanti siano
avvezzi a mangiar locuste e subito dopo confessa: «Io ne ho assaggiate
fritte nella padella, e cotte sulla gratella: non sono cattive; s’assomigliano un poco alle sardelle, e anche un poco al granchio; sono piuttosto malsane, ma uno ci si assuefà». Magari poi però non fa come i
«Mori» che le pigliano per le due gambe posteriori «e se le ingollano
come se fossero beccafichi»81.
Sempre in Algeria, nel 1891, l’entomologo francese Jules Künckel
d’Herculais nota con una certa sorpresa come i nativi siano ben
disposti a collaborare a una campagna per la distruzione delle locuste. La ragione è semplice: le usano come cibo. Attorno a Tougourt in
ogni tenda e in ogni casa viene preparata la scorta di locuste, in
media 200 chili per ogni tenda. Il carico di sessanta cammelli, circa
9000 chili, è la quantità di locuste accumulata giornalmente tra gli
Ksours dell’Oued-Souf. Le cavallette sono una risorsa preziosa per la
popolazione povera. Per conservarle, esse sono prima cotte in acqua
salata, poi essiccate al sole. I nativi raccolgono e preparano così ragguardevoli scorte che, al di là di quanto necessita per il loro consumo,
ne hanno qualche quantità da commerciare sui mercati di Tougourt
e Temacin. L’entomologo francese passa poi alla testimonianza
diretta: «Ho adesso nelle mie mani due cassette di locuste preparate
di fresco e mi convinco che sono certamente un cibo accettabile. Il
J.J. Virey, Acridophages cit., pp. 157-158.
Dizionario universale economico-rustico, tomo terzo, Roma, 1793, p. 54.
81
F. Pananti, Avventure e osservazioni sopra le coste di Barberia cit., pp. 187 e
190-191.
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sapore di gamberi è molto spiccato; col tempo esse perdono questa
loro caratteristica»82.
Nel 1825, alla ricerca delle cavallette nocive per la campagna
romana, Metaxà e Rolle, a un certo punto del loro saggio, fanno una
digressione sull’acridofagia. Naturalmente le cavallette morte non interessano; «le sole viventi servono di alimento». Le femmine, quando
ancora non hanno deposto le uova, «stimansi più sugose e più pingui»;
e per giunta è più facile dar loro la caccia, perché sono meno veloci e
agili «pel ventre pregno e per la brevità delle ali». In genere, nei luoghi
dove vengono mangiate, le cavallette si predispongono per la loro conserva: si buttano vive nell’acqua bollente, si asciugano e si salano. In
previsione di una scarsezza di derrate alimentari, si suole disseccarle
e ridurle in una specie di polvere farinosa «ad oggetto di farne pasta».
Il giudizio finale è ambivalente: «Noi il crediamo un vil cibo introdotto
dalla necessità; non prezioso per certo; non però di assoluto nocumento, e molto meno venefico»83.
In Sicilia, nel 1832, un amico spinge il magistrato Paolo Zanghì a
provare a gustare le cavallette, visto che al momento in cui lo stesso
Zanghì ricopre, come si è detto, l’incarico di commissario per l’estirpazione delle cavallette, di queste c’è una grande abbondanza nell’interno
dell’isola. Allora, tagliati i piedi e le gambe delle locuste, il commissario
le fa apparecchiare in diversi modi. Ed ecco la sua testimonianza in
presa diretta: «mi sforzai a metterle in bocca, ma sentivo che non era
questo un cibo adatto a’ nostri usi ed a’ bisogni di nostra vita, onde mi
fu necessità superare ogni pregiudizio ed ogni aversione per assaggiarle, e posso assicurare che al gusto appresi d’essere un cibo di niuna
utilità e niente piacevole»84.
In tutt’altro ambiente, nell’Africa meridionale, David Livingstone
prova a mangiare le locuste e scopre che, allorché sono arrostite, le
preferisce ai gamberi marini. Ma, a conti fatti, finisce per dire che
farebbe a meno tanto delle une che degli altri, e soprattutto raccomanda di non mangiar le cavallette lesse, che sono disgustose oltre
ogni dire85. «Il loro sapore v’ha chi dice esser simile a quello del caviale,
dei gamberi granchi o di certi funghi, secondo il modo come sono cucinate; Livingstone e Riley asseriscono condite con pepe e burro hanno
82
J. Künckel d’Herculais, Note sur les populations acridophages en extreme sud de
l’Algerie, «Bulletin de la Société. Entomologique de France» (1891), pp. 24-26; ripreso in
G.R. DeFoliart, The Human Use of Insects as Food and as Animal Feed, «Bulletin of the
ESA» (Entomological Society of America) (1989), p. 22.
83
L. Metaxà, S. Rolle, Osservazioni naturali intorno alle cavallette nocive cit., pp. 11-12.
84
P. Zanghì, Delle cavallette e del modo di distruggerle cit., pp. 78-81.
85
D. Livingstone, Missionary Travels and Researches in South Africa cit., p. 27.
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il sapore della carne, arrostite quello di nuocciola; non lasciano d’altronde d’essere un cibo sano»: così informa Failla Tedaldi a proposito
dei sapori delle locuste riportati dalle varie testimonianze consultate.
Poi tiene a fare una precisazione: «Ho letto che in Sicilia e in alcune
parti meridionali i ragazzi si mangino i soli femori, però io non ho mai
veduto tal uso». Di contrappunto sembra proprio che i «selvaggi» della
Nuova Caledonia e dell’America si rallegrino allorquando le orde di questi insetti invadono il loro suolo: ne mangiano a sazietà. La specie commestibile dell’America è il «Calaptenus spretas»; una scatola di questi
insetti preparati in conserva negli Stati Uniti veniva presentata alla
Società Entomologica di Francia dal signor Riley86.
Non sappiamo quali siano state le reazioni della società scientifica
francese a quella che poteva essere considerata una provocazione, ma
Charles Valentine Riley, fondatore dell’entomologia economica negli
Stati Uniti, dopo aver condotto esperimenti sulla «palability» delle locuste trovandole un «very good food», era consapevole delle difficoltà: «I
knew well enough that the attempt would provoke to ridicule and
mirth, or even disgust, the vast majority of our people, unaccustomed
to anything of the sort, and associating with the word insect or ‘bug’
everything horrid and repulsive»87.
Gli antropologi, affrontando il tema del cibo, hanno spesso ripetuto
la famosa tesi di Lévi-Strauss, secondo cui è buono da mangiare ciò
che risulta buono da pensare, assegnando dunque una priorità all’idea
del cibo. Poi, quando parlano di tabù alimentari, secondo Leach, pensano solo alle materie commestibili riconosciute come alimenti possibili, ma proibite o permesse solo in condizioni particolari (rituali). «Sono
sostanze coscientemente cariche di tabù». Essi hanno in mente, ad
esempio, le interdizioni della carne porcina per i giudei, di quella
bovina per i brahmani, oppure l’atteggiamento dei cristiani di fronte al
pane e al vino della messa.
Ma un’altra categoria, le sostanze commestibili non classificate
come alimenti, merita altrettanta attenzione. «La natura del tabù è del
tutto diversa nei due casi. La proibizione del maiale per i giudei è un
affare rituale ed esplicito; essa dice in effetti: ‘Il maiale è un alimento,
ma i giudei non devono mangiarne’. L’obiezione degli inglesi contro il
fatto di mangiare carne di cane è altrettanto forte, ma si fonda su una
86
L. Failla Tedaldi, Insetti commestibili cit., pp. 234-235. Charles Valentine Riley fu
fondatore dell’entomologia economica e primo entomologo di Stato negli Stati Uniti.
87
G.R. DeFoliart, The Human Use of Insects as a Food Resource, chapter 9, Western
attitudes toward insects as food: Europe, The United States, Canada, University of Wisconsin – Madison, 2002, p. 6, in http://labs.russell.wisc.edu/insectsasfood/the-humanuse-of-insects-as-a-food-resource/ (accesso 28.8.2016).
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premessa diversa. Essa deriva da questo presupposto categorico: ‘Non
si mangia carne di cane’»88. In realtà, ad osservare la cosa con l’occhio
dello storico, questa sembra essere una rinuncia alimentare piuttosto
recente; gli stessi inglesi avrebbero infranto talvolta queste tacite proibizioni, seppure in periodi di estrema penuria: «negli anni difficili del
terzo decennio del Seicento, in molte case si considerava la carne di
cane ‘un piatto prelibato’». Restava comunque assodato che il cane era
uno dei migliori amici dell’uomo: non poteva essere anche uno dei suoi
nutrimenti89.
Marvin Harris inverte i termini in senso materialistico90: è buono da
pensare ciò che è buono da mangiare, ovvero ciò che una società si
trova a dover mangiare per motivi economici e sociali.
Ma per mangiare vivande in qualsiasi modo preparate, c’è pur sempre bisogno di materia prima: le cavallette, per farne spiedini arrosto o
per tramutarle in farina da impastare per paste e pani, ci debbono
essere. E la parte euro-occidentale del mondo non può vantare una
disponibilità così elevata e continua della materia prima ‘cavallette/
locuste’. Inoltre è difficile dire perché e come la cultura occidentale
abbia perso il suo appetito di insetti. Probabilmente metodi energeticamente più efficaci nell’allevamento di bestiame addomesticato
subentrarono rispetto al bisogno di procurarsi proteine supplementari
tramite gli insetti. «Insect-eating among Westerners was largely a matter of fending off starvation (as was the case during a few European
locust plagues) or of personal eccentricity»91.
Poi è vero che il sistema percettivo del gusto racchiude in sé istanze
sociali e culturali, etiche ed economiche, ma, al contempo, fisiologiche,
sensoriali e psicologiche. «In tal senso la percezione gustativa è una
percezione ecologica: essa è costituita da un amalgama di forze etero-
E.R. Leach, Aspetti antropologici della lingua cit., pp. 124-125.
K. Thomas, L’uomo e la natura. Dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente 15001800, Einaudi, Torino, 1994, p. 137. In realtà poteva accadere che, fuori dal loro
ambiente, degli inglesi si accostassero a qualche tavola con carne di cane: questo avviene
per il capitano Cook e i suoi compagni, i quali scoprirono che la carne del cane dei mari
del Sud, che si nutriva di vegetali, una volta cotta, era quasi buona come quella dell’agnello inglese; e di nuovo accadde a un viaggiatore britannico quando fu invitato dagli
indigeni delle isole Sandwich a dividere il loro pasto. L’invito era imbarazzante: «L’idea
di mangiare un animale fedele come il cane impedì a tutti noi di partecipare a questa
parte della festa – ma poi aggiunge – anche se, per render giustizia alla carne, una volta
arrostita aveva un aspetto bellissimo» (pp. 58 e 136).
90
M. Harris, Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Einaudi,
Torino, 2006.
91
M.R. Berenbaum, Bugs in the system; insects and their impact on human affairs,
Basic Books, New York, 1995, p. 181.
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genee – chimiche, biologiche, psichiche, culturali, sociali – che esprimono valori talvolta anche in conflitto tra loro»92.
Dal punto di vista della chimica, le cose del mondo rientrano in due
categorie: edibili (che possono essere mangiate senza danno), e non
edibili (che non possono essere mangiate). Dappertutto, tuttavia, questa divisione è presto superata da un’altra, culturalmente significativa,
che separa ciò che è commestibile (che può lecitamente essere mangiato) da ciò che non è commestibile (che non deve essere mangiato).
Nel non commestibile finiscono anche molti elementi perfettamente
edibili dal punto di vista chimico, che tuttavia progressivamente susciteranno nei soggetti lo stesso ribrezzo che causano gli elementi non
edibili (le cavallette per gli europei, il maiale per gli islamici ecc.).
«Attenzione, dunque, a non fare del nostro ribrezzo qualcosa di naturale o, di converso, a giudicare che il ribrezzo altrui sia causato da ignoranza o superstizione: dappertutto è in azione la cultura, dappertutto
gli umani sono addestrati fin nelle loro reazioni più intime»93.
Una prospettiva?
Oltre al dato puramente materiale, c’è forse una considerazione ulteriore da fare, riguardante il disgusto come modalità utilizzata per non
aprirsi alla conoscenza dell’altro, anche sotto l’aspetto culinario. Il gusto
infatti è il sapere endocorporeo più adeguato alla conoscenza dell’altro,
l’abilità percettiva che consente un’esperienza più vera delle cose, proprio perché non solo esplora la materia a contatto, ma addirittura vi si
fonde. Si tenga presente la tesi di coloro che vedono nell’essere a contatto, e persino nella mescolanza, una più alta garanzia di veridicità: il
gusto è «votato a essere il più veritiero e il maggiore investigatore della
natura delle cose» perché le tocca e le esplora direttamente94.
Il perseguimento della diversità bioculturale, attraverso la ricerca
del buon cibo, è diventato il mantra del Denmark’s Nordic Food Lab,
costituito nel 2008. Esso opera, proprio contro le modalità di chiusura alla conoscenza dell’altro dal punto di vista alimentare, con la
ricerca culturale e scientifica sull’entomofagia, piuttosto che sul
N. Perullo, Il gusto come esperienza cit., p. 102.
S. Consigliere, La forma dei sensi, in Atti del XVI Convegno Occhio della mente.
Dialogo nel buio: alla riscoperta dei sensi e della parola, Istituto David Chiossone, Genova
(13 ottobre 2011), pp. 1-2, in http://www.chiossone.it/images/stories/eventi/ATTI_
CONVEGNO/occhiodellamente/2011/Consigliere.pdf (accesso 14.10.2016).
94
N. Perullo, Il gusto come esperienza cit., p. 70.
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livello sensazionalistico. Per saziare un mondo affamato, il Lab offre
l’innovativo menu ‘Pestival’, completo di ricette per delicatezze come
‘Locuste arrostite’ e ‘Mousse di Tignola della farina’. La filosofia del
Lab è semplice, fondandosi sull’attraversamento della divisione disciplinare delle ‘due culture’, combinando un interesse focalizzato sulle
‘humanities’ e sulla localizzazione geografica con l’interesse scientifico
al ‘sapore’ (gastronomia) e alla nutrizione. L’ecologia, la necessità, e
l’appetito suggeriscono che nessun cibo singolo può nutrire di per sé.
Per di più, in un mondo afflitto da così tante pressioni - cambiamento
climatico, una crescita esplosiva della popolazione, e un forte degrado
dei suoli – sostenibilità e diversità debbono camminare mano nella
mano: questo richiede il consumo di un’ampia gamma di differenti
cibi ‘locali’95.
Il territorio, con le sue ‘terre’, fornisce la materia prima per le pietanze,
ma è anche la superficie che si può attraversare in lungo e in largo, alla
ricerca della tipicità o, di converso, dell’esoticità. Grazie alle diversità
ambientali dello spazio terrestre, l’alimentare esprime le sue favorevoli
congiunzioni con un altro tipo di discorso, quello turistico, da cui derivano itinerari enogastronomici e percorsi alla scoperta di cantine, osterie,
ristoranti e trattorie. Il vero viaggiatore va alla ricerca delle pietanze del
posto, è colui che mangia le cose a prima vista più disgustose, proprio
per dimostrare la vera congiunzione con la meta visitata, l’avvenuto acclimatamento al luogo. Ed è sulla logica dell’acclimatamento, sullo sforzo
estremo per assimilare e assimilarsi all’altro che si basano programmi
televisivi come Orrori da gustare, in cui il protagonista sfida se stesso
degustando i piatti tipici delle mete più esotiche, anche a costo di vedere
infrante tutte le regole discriminanti tra l’edibile e il non edibile96.
D’altro canto, la globalizzazione attuale anche in campo alimentare
ha prodotto nuove contraddizioni e nuovi conflitti, con una diversa
articolazione dei rapporti tra esotico e locale: può capitare che lo stra-
95
D.P. Coleman, Toothsome Termites and Grilled Grasshoppers: A cultural history of
invertebrate gastronomy, «Animal Studies Journal», vol. 5, n. 1 (2016), p. 3.
96
A. Giannitrapani, Conclusione, in G. Marrone, A. Giannitrapani (a cura di), Mangiare: istruzioni per l’uso. Indagini semiotiche, «EIC – Serie speciale della rivista online
dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici» (2013), p. 235. La cosiddetta ‘cucina etnica’
è entrata ormai di prepotenza in molti programmi televisivi, proponendo diversi cibi esotici da provare. Una riflessione s’impone: «partecipiamo passivi a una vera moltiplicazione
senza sosta di antidotari e trasmissioni televisive in cui lo chef-star, raccogliendo in ogni
dove, spoglia di significato il patrimonio dell’ars coquinaria di un ambito territoriale, e il
cibo, ingrediente creativo, album di sapori e di profumi, trama incorporea di un universo
in netta opposizione al ‘mordi e fuggi’ di questo momento storico, si consuma nell’ineludibile pianificazione del gusto»: M.A. Epifani, La tavola: identità sociale, sapori e saperi,
«L’Idomeneo», n. 20 (2015), pp. 200-201.
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niero diventi più familiare del familiare, che i confini del noto e dell’ignoto si modifichino. Si ripropone l’antica contraddizione dell’uomo
‘onnivoro’: da un lato la continua tensione nel desiderio di innovazione e di varietà alimentare, dall’altro la paura del cibo sconosciuto,
dell’alimento che può portare alla contaminazione e «all’espropriazione del sé». Il paradosso è fonte di ansia nel rapporto con il cibo,
per ciascun individuo, in particolare quando si tratta di cibo inesplorato, mai provato prima, magari con un odore particolare: «il disgusto
che nasce dal confronto con quest’alimento ignoto provoca profonde
reazioni emotive»97.
Inoltre per circostanze diverse, alcuni sono oggi stranieri al loro
stesso gusto dell’infanzia, ed è anche a causa di ciò che, nelle società
occidentali post-industriali, è fiorita una nuova domanda sul gusto,
rivolta non tanto all’esotico, quanto piuttosto al locale e al ‘familiare’,
al ‘tradizionale’. Si può interpretare questo fatto come un arricchimento, in quanto il gusto pone sempre di fronte a un campo multisensoriale e complesso, tanto che alcuni studiosi hanno cercato anche di
indagare sulle qualità visive di un piatto. Lo sanno bene i cuochi, che
possono dedicare molto tempo alla costruzione visiva dei loro piatti, ed
anche alle loro titolature. Un cibo quindi deve essere pure ‘buono da
vedere’, altrimenti potrebbero irrompere nausea, ripugnanza, distanza.
«La dimensione ideale-cognitiva governa le categorie dell’equilibrio simbolico del gusto e del suo contrario»: colori difformi da quelli culturalmente condivisi possono trasformare un piatto da appetitoso in
repellente e disgustoso98.
Costituita la relazione fra percezioni sensoriali e loro valutazione
estetica, si produce così un sistema di valori gastronomici: se il gusto
consiste nel seguire l’orientamento ‘corretto’ dei processi di trasformazione delle materie, il disgusto sta nella sua inversione. «Apprezzare o
disprezzare i prodotti culinari è mimare tale processo ritenuto naturale,
riproporlo a un altro livello, quello della civiltà e della cultura. Di un
piatto maldestro si dice che ‘fa vomitare’: guardare lo spettacolo televisivo MasterChef per ricredere»99.
97
C. Platania, Labirinti di gusto. Dalla cucina degli dèi all’hamburger di McDonald,
Dedalo, Bari, 2008, p. 116. D’altra parte il disgusto può essere provocato anche dalla
monotonia delle pietanze; non a caso il desiderio di variare i gusti fece la fortuna delle
spezie in età moderna: C. Boudan, Le cucine del mondo cit., p. 302. Quanto alla difficoltà
di penetrazione da un ambiente culturale in un altro, basti pensare alla storia della
patata nel suo passare al di qua dell’Atlantico.
98
E. Spedicato Iengo, Il ‘colore’ nel piatto. Oltre il gusto e il commestibile, in C. Cipolla,
G. Di Francesco (a cura di), La ragion gastronomica, Angeli, Milano, 2013, pp. 64-66.
99
G. Marrone, Senso e forma del cibo. Sulla semiotica dell’alimentazione, pp. 5-6, in
http://s3.amazonaws.com/academia.edu.documents/37119681/senso_e_forma_del_cibo.p
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Occorre scendere nello specifico dell’esperienza e della narrazione
contestuale, per comprendere che tipo di relazioni tra i soggetti e il
cibo sono in gioco di volta in volta. In altri termini, l’empatia gustativa
del saggio è un’empatia ‘rovesciata’. Essa consiste nel capire – e sentire – perché viene apprezzato un cibo che noi non riusciamo ad
apprezzare, o perché si prova piacere per una bevanda che ci lascia
indifferenti o ci dispiace: questa capacità rappresenta il culmine della
saggezza del gusto100.
Un aneddoto, una sorta di facezia riguardante i Padri del deserto,
rappella proprio questo modo di atteggiarsi:
Un giovane monaco andò a consultare un anziano: Abba – gli disse – tu sai
che è da poco più di un anno che vivo nel deserto, e in questo tempo già sei o sette
volte sono venute le cavallette. Tu sai quale tormento siano, poiché si infilano
dappertutto, persino dentro il nostro desinare. Come ti comporti tu? L’anziano,
che viveva nel deserto da quaranta anni, così rispose: Le prime volte, quando mi
cadeva una sola cavalletta nella zuppa, buttavo via tutto. Poi, levavo le cavallette
e mangiavo la zuppa. In seguito mangiai tutto, cavallette e zuppa. Adesso, se qualche cavalletta cerca di uscire dalla zuppa, ce la rimetto dentro101.
L’uomo occidentale sta ricordandosi adesso della sua discendenza
dagli insettivori: piatti di cavallette, bruchi, ecc. cominciano ad entrare
nella moda culinaria occidentale. Presentano molti vantaggi sotto il
profilo economico, dietetico e sanitario102.
Molte persone tuttavia non amano gli insetti. Questo disgusto non
è comunque innato. Esso si forma durante l’infanzia ad opera di chi
circonda il bambino. Tutto ciò che non è generalmente consumato nella
società è spesso pensato come disgustoso da mangiare. Vi è un’antipatia generale rispetto all’ingerire qualsiasi cosa che non sia stata pensata come cibo. Alcune persone rifiutano gli insetti, come qualcosa di
impuro. Tuttavia, in gran maggioranza gli insetti, in particolare quelli
commestibili, come cavallette, lepidotteri o larve di coleotteri, per lo più
mangiano fresche foglie o fibra di legno e sono, quindi, più puliti e più
igienici di granchi o aragoste, che mangiano carogne103.
df?AWSAccessKeyId=AKIAJ56TQJRTWSMTNPEA&Expires=1484240634&Signature=%2FPP
xE%2BqCV5ikTZBZNk1HWS4DkDg%3D&response-content-disposition= inline%3B%20file
name%3DSenso_e_forma_del_cibo._Sulla_semiotica.pdf (accesso 12.9.2016).
100
N. Perullo, Il gusto come esperienza cit., pp. 103-104 e 175.
101
R. Kern, Arguzie e facezie dei Padri del deserto, Gribaudi, Milano, 1995, p. 74.
102
G. Forni, Origine ed evoluzione dell’alimentazione carnea e problematiche connesse.
Domesticazione animale ed evoluzione umana, in T. Maggiore, L. Mariani (a cura di), Seminari carne. Filiera zootecnica. Valore alimentare, Museo lombardo di storia dell’agricoltura,
S. Angelo Lodigiano, 2014, p. 13.
103
J. Mlcek, O. Rop, M. Borkovcova, M. Bednarova, A Comprehensive Look cit., p. 153.
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Ma per molte persone l’idea di mangiare insetti evoca soltanto un
senso di disgusto. Eppure un’ampia gamma di vertebrati è composta
di mangiatori di insetti. Molte scimmie li mangiano, incluso lo scimpanzé, il nostro parente più prossimo. Di converso, molti umani
restringono la scelta carnea a pochi vertebrati, molluschi e crostacei.
Dopo aver notato che le culture europee, e le nazioni da esse derivate,
sono le sole a non mangiare insetti, Vane-Wright afferma: «Food habits
are not conditioned by nutritional tables, calorie counts or balanced
diets. What we eat is conditioned by religion, by tradition, by fashion in a word, by culture». Una volta stabilitesi, le preferenze alimentari
sono fortemente resistenti al cambiamento.
Un gran numero di insetti sono consumati in Africa, in Asia e nell’emisfero occidentale; «Could such insects become acceptable to
western palates? Perhaps». L’imprevedibilità della provvista è un
grosso problema nel caso in cui si volessero alimentare con insetti le
società urbane, anche se può avvenire che molti insetti possano
essere localmente o periodicamente abbondanti. Tecniche colturali
avanzate dovranno essere messe in campo se si ritiene di voler alimentare in modo affidabile e su larga scala gli abitanti delle città.
Vane-Wright avanza infine un’ipotesi sulla resistenza occidentale al
consumo di insetti: «the very fact that eating insects belongs to the
hunter-gatherer stage of human evolution may be a major factor in
their rejection by western people; we may unconciously reject entomophagy as primitive»104.
Ma forse è solo una questione di etichetta? È stato dimostrato
che la denominazione e l’etichettatura descrittiva dei tipi di cibo, sia
nuovi sia familiari, influenzano il loro “appeal”; l’associazione di alimenti insoliti ad alimenti noti nelle diete correnti potrebbe accrescere il desiderio di provarli. La sfida sta nel persuadere una cultura
‘insettofobica’ a considerare queste creature come una valida riserva
di cibo. Presentare alimenti con insetti come ingredienti a consumatori non propensi a consumarli, usando la parola ‘entomofagia’,
potrebbe rivelarsi deleterio, a meno che la percezione della parola
da parte del consumatore non sia alterata fino al punto da associarla con commestibilità, appropriatezza, basso rischio alimentare
«and a positive social history»105.
104
R.I. Vane-Wright, Why not eat insects?, «Bulletin of Entomological Research», 81
(1991), pp. 1-2.
105
J. Evans et al., ‘Entomophagy’: an evolving terminology in need of review, «Journal
of Insects as Food and Feed», 1, 4 (2015), p. 301.
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Comunque il consumo alimentare di insetti non è un atteggiamento nuovo in molte parti del mondo. Dalle formiche alle larve di
coleotteri – mangiate da tribù in Africa e Australia come parte della
loro dieta di sopravvivenza – alle popolari e croccanti locuste fritte e
godute in Tailandia, si stima che circa due miliardi di persone in giro
per il mondo mangino insetti regolarmente. Più di 1900 specie presumibilmente sono utilizzate come cibo, per lo più nei paesi tropicali.
Globalmente, gli insetti più comunemente consumati sono coleotteri,
bruchi e poi api, vespe e formiche. Seguono cavallette, locuste e grilli,
cicale, cicadelle, cimici, termiti, libellule, mosche. Il mangiare insetti
è fortemente condizionato da pratiche culturali e religiose; in ogni
caso gli insetti sono comunemente consumati in molte regioni del
mondo. In molti Paesi occidentali, comunque, la gente guarda all’entomofagia con disgusto e associa il mangiare insetti a comportamenti
primitivi. Quest’attitudine di riflesso ha comportato una mancanza
d’attenzione nelle ricerche sull’agricoltura; malgrado tutto, malgrado
i riferimenti storici all’uso degli insetti come cibo, l’argomento ha
molto di recente catturato la pubblica attenzione in tutto il mondo106.
L’italiano Consiglio Nazionale delle Ricerche è stato presente
all’Expo 2015 di Milano con una Conferenza sui nuovi cibi, che prendeva le mosse dalla grande difficoltà a introdurre gli insetti, in particolare vermi, grilli e locuste, nell’alimentazione tipica della cultura
occidentale. Eppure essi sono ricchi di proteine e di sali minerali. La
loro preziosa sostanza nutritiva ha spinto i ricercatori del Cnr a cercare
di utilizzare gli insetti per produrre diversi tipi di farine. Per il nostro
modo di pensare – hanno sostenuto le ricercatrici Graziella Chini Zittelli e Antonella Leone – è più facile mangiare un ‘muffin’ fatto con
farina di insetti piuttosto che una manciata di grilli fritti. La farina di
insetti ha tutte le proprietà necessarie per essere utilizzata sia nella
dieta umana sia come alimento per il bestiame, con un doppio vantaggio: è molto nutriente e rappresenta una fonte di proteine alternativa
alla farina di pesce, che diventerà sempre più costosa dato il sovrasfruttamento dei mari107.
Quanto però il gusto alimentare sia condizionato culturalmente è
dimostrato dal fatto che mentre alcune popolazioni (ad esempio i nativi
australiani) per antico costume si nutrono di animalucci quali vermi,
106
A. van Huis et al., Edible insects: future prospects for food and feed security, Fao
– Food and Agriculture Organization of the United Nations, Rome, 2013, pp. 1 e 10.
107
Research, Sustainibility and Innovation in New Foods, Conference, Open Plaza –
EXPO Center, 21 ottobre 2015, in https://www.expo.cnr.it/en/node/111https://www.
expo.cnr.it/en/node/111 (accesso 28 settembre 2016).
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lucertole, formiche, locuste, gli Occidentali continuano a provare
disgusto al guardare o solo pensare un pasto del genere, intimamente
persuasi (etnocentricamente) di un’assurda rozzezza di costumi di
quelle genti108.
Questa discriminante, sociale, e si potrebbe dire di ‘civilizzazione’,
che si è costruita nel tempo ed è stata rafforzata dall’attuale imperialismo alimentare, fa sì che oggi sia difficile accostarsi al «cibo degli
altri» con qualcosa di diverso dalla curiosità, anche se in alcuni casi
le nostre reazioni di fronte, per esempio, a insetti, siano locuste o
lombrichi, riflettono l’irriducibilità di quei «cibi» ai nostri codici alimentari109. Appare certo difficile seguire l’esemplare comportamento
di S. Francesco d’Assisi, il quale, per ubbidienza evangelica, era uso
«conformarsi nella qualità dei cibi a quelli che l’albergavano» e ad
essere gentile verso il prossimo anche nella «civile condiscendenza
del mangiare»110.
Ci sono molte ragioni per cui la ricerca nel campo degli alimenti e
della nutrizione dovrebbe concentrarsi non solo sulle società industrializzate e sui suoi problemi, né considerare il consumatore occidentale
paradigma della dieta umana. Se guardiamo attentamente le culture
situate al fuori del mondo urbano moderno, possiamo ottenere informazioni importanti su alimenti e nutrizione, tanto da un punto di vista
sostanziale quanto dal punto di vista della ricerca applicata e, a lungo
termine, acquisire un beneficio per la società globale del nostro mondo
contemporaneo111.
Ricerche recenti, promosse anche dalla Fao, dimostrano come consumare insetti (interi o in polvere) apporti benefici notevoli in termini
di contenuto proteico. Tuttavia l’accettazione a livello sociale è, di fatto,
molto bassa nelle società occidentali. Eppure, l’utilizzo di insetti e derivati nei prodotti alimentari non è del tutto nuovo anche in Occidente:
prodotti quali marmellate e succhi di frutta ne contengono tracce, per
un consumo medio pro capite stimato pari a 250 gr/anno. Manca
ancora, tuttavia, una chiara consapevolezza di ciò112. Rendere gli insetti
V. Lanternari, Religione magia e droga. Studi antropologici, Manni, San Cesario di
Lecce, 2006, p. 198.
109
P. Scarpi, Il senso del cibo. Mondo antico e riflessi contemporanei, Sellerio, Palermo,
2006, p. 14.
110
P. Camporesi, Il governo del corpo cit. pp. 65-66.
111
I. de Garine, El consumisme i l’antropòleg, «Revista d’etnologia de Catalunya», n.
17 (2000), p. 13.
112
V.C. Materia, C. Cavallo, Insetti per l’alimentazione umana: barriere e drivers per
l’accettazione da parte dei consumatori, «Rivista di economia agraria», anno LXX, n. 2
(2015), p. 140.
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gustosi e allettanti è una delle maggiori sfide per promuovere l’entomofagia, particolarmente nel mondo occidentale. L’accettazione di un
cibo dipende non soltanto da dimensioni razionali come la «palatability»
o i benefici nutrizionali e ambientali; essa ha altrettante dimensioni,
emozionali e culturali. Le preferenze alimentari delle persone sono
influenzate dalla storia culturale, dall’esperienza, dalla disponibilità
all’adattamento, «but entomophagy in the Western world is, according
to Kofi Annan, also a matter of education»113.
Una articolata ricerca storica può cogliere il percorso dagli Acridofagi a noi e farci intendere meglio gusti e disgusti nostri.
113
A. van Huis, M. Dicke, J.J.A. van Loon, Insects to feed the world, «Journal of
Insects as Food and Feed», 1 (2015), p. 4.
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