NUOVI QUADERNI DEL CIRCOLO SEMIOLOGICO SICILIANO
ZOOSEMIOTICA 2.0
Forme e politiche dell’animalità
a cura di Gianfranco Marrone
edizioni
Museo
Pasqualino
Zoosemiotica dei Pokémon
Bruno Surace
1. Gotta catch ’em all!
I Pokémon, composto aplologico di “Pocket Monsters” [Poketto Monsutā],
sono i mostriciattoli più famosi al mondo. Creati nel 1996 dall’informatico Satoshi Tajiri si sono diffusi nell’immaginario globale a partire da una pervasiva
serie di traduzioni intersemiotiche: da videogioco a cartone animato a gioco
di carte da collezione. Chi non li conosce si è perso un bel pezzo di cultura
degli anni duemila. Orde di ragazzini hanno passato i loro pomeriggi in estasi
di fronte a questi piccoli esserini, e tale foga sembra non essersi mai arrestata. Pare anzi che oggi, nell’anno segnato dall’uscita dell’app Pokémon Go1, la
Pokémon-mania sia in ascesa.
Il successo planetario del brand si spiega innanzitutto semioticamente. I
Pokémon, pur nascendo in uno specifico contesto storico-culturale giapponese, sono costruiti a partire da una serie di pattern narrativi tipici della cultura
del cosiddetto “villaggio globale” (McLuhan 1964). Tali pattern sono di facile esportazione, per via della loro permeabilità a pressoché qualsiasi cultura
di contatto, ed è Anne Allison a individuarne i due principali: in primis la
“cuteness as national export and cultural capital” (Allison 2003, p. 35), che
gode di un “appeal universale” (Yamato 1988, p. 247), e in seguito la struttura narrativa per la quale l’esportazione del singolo Pokémon comporta una
scia di costruzioni che gli gravitano attorno, configurando l’esportazione di un
mondo stesso, che si può attorializzare e spazializzare secondo i valori della
cultura di ricezione (Allison 2003, passim)2. Detta tendenza alla polisemia
del mondo Pokémon è possibile per via della sua caratterizzazione quasi del
tutto unicamente attanziale, sulla quale è possibile edificare sistemi semiotici
1 Cfr. Terracciano (2016).
2 Essendo la seguente una prima trattazione ci si soffermerà solo sulle cosiddette prime generazioni, cioè senza indagare sui videogiochi successivi ai primi, ove una serie di questioni
trattate in questo saggio si complicano.
ZOOSEMIOTICA 2.0
ISBN: 978-88-97035-26-8
2017
NUOVI QUADERNI
DEL CIRCOLO SEMIOLOGICO SICILIANO N.1
ISSN: 2532-862X
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V - LETTERATURA, ARTI E MEDIA
anche molto differenti l’uno dall’altro. Eppure il setting, ancorché basilare, è
comunque abbastanza definito da far emergere alcune riflessioni, che in questa sede paiono assai rilevanti.
Invero il mondo Pokémon, sia esso collocato in Giappone o esportato in
Italia, Canada o Nigeria, è dinamizzato attraverso la messa in opera di una società ove vigono alcune regole fondamentali, il cui comandamento principale,
che topicalizza anche il titolo della serie e che si fa obiettivo primario di tutti
i videogiochi Pokémon è: “Gotta catch ‘em all!”. “Acchiappali tutti”. Su questo
dogma si instaura l’intera struttura del prestigio sociale nel mondo Pokémon,
l’oggetto di valore massimo. I protagonisti della serie, solitamente di età adolescenziale, mirano al riconoscimento sociale, che si può raggiungere divenendo acclamati e temibili allenatori Pokémon. Per far ciò devono mettersi in
viaggio con lo scopo di catturare gli esserini, seguendo un preciso sintagma:
trovarli (il più possibile, in varietà più che in quantità) allo stato brado, farli
combattere con i Pokémon già in proprio possesso, infine – quando “esausti” – prelevarli dal loro habitat per inserirli in una piccola sfera nota come
pokeball, ove passeranno buona parte del resto della loro vita in un ambiente
ricostruito idealmente per loro, ma in ogni caso in cattività, e in un probabile stato di torpore, come vite in potenza che attendono di attua(lizza)rsi “su
chiamata”. Su tale struttura, ripetibile ad libitum (oggi gli episodi del cartone
sfiorano i mille), si basa l’interezza dell’universo Pokémon, di successo anche
in un mondo come quello odierno, ove il dibattito sui diritti degli animali
risulta il più acceso che la storia abbia mai visto.
2. Animaloidi animali
Nel mondo Pokémon il lessema “animale”, indicante l’essere animato dissimile dall’umano, non pare esistere. Ciò che esso designa è però ben presente, ed è appunto il Pokémon stesso, la cui accezione risulta peraltro più larga.
Non solo esseri parassitati dal nostro mondo popolano questo mondo fittizio,
come proto-serpenti, ratti, e così via, ma anche tutta una serie di entità senzienti sui cui diritti oggi il dibattito, pur se in germe, sembra piuttosto fermo.
Ci sono Pokémon di derivazione vegetale o fungina, ma pure oggetti elettronici, umanoidi, o difficilmente classificabili, che vivono una vita autonoma,
uniti sotto il comune denominatore secondo il quale l’umanità oggi distingue
gli animali (compresi quelli umani) dal resto dei viventi: l’essere senzienti. È
invero sul principio dell’essere senziente che si incardinano buona parte dei
dibattiti bioetici legati allo statuto dei diritti connessi all’animalità, così come
la regolamentazione legale relativa alla loro appartenenza a un dominio semantico diverso da quello della cosità con cui si trattano gli oggetti (cfr. Sala
2013, p. 20).
I Pokémon dunque non sono animali, ma è legittimo sostenere che ne
rappresentino quanto di più vicino concettualmente possa trovarsi nel loro
mondo. Si possono pertanto definire animaloidi, versioni semplificate degli
animali reali, o, se si vuole, animali possibili. La loro “animalità” è rintraccia610
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ZOOSEMIOTICA DEI POKÉMON
bile chiaramente nella “senzienza”, nella morfologia fisica – almeno in buona parte dei casi – ma anche in una serie di altre caratteristiche di assoluta
rilevanza che hanno a che fare con il rapporto che stabiliscono con gli umani.
La società nei testi Pokémon è infatti bipartita in maniera sostanzialmente
manichea; ci sono i buoni, che amano le creaturine, e vivono con loro in una
maniera che è presentata come simbiotica, e i cattivi (principalmente il gruppo criminale noto come Team Rocket), che invece considerano questi animaloidi come oggetti di commercio, utili solo a scopo di lucro, senza curarsi
del loro trattamento. È tuttavia il lato dei buoni quello che suscita maggiori
riflessioni, giacché la simbiosi di cui si parlava si verifica secondo modalità
oggi inconsuete. La tassonomia “scientista” del mondo Pokémon classifica
le bestiole innanzitutto secondo i seguenti parametri: habitat, capacità combattive, indole. Le indicazioni sull’indole risultano utili al provetto allenatore
che si appresta a catturare il determinato animaloide poiché possono aiutare
nell’addomesticamento del suddetto. Ne consegue un’apparente gerarchia antropocentrica, fondata in primis sul linguaggio (esistono infatti Pokémon davvero molto simili agli umani, ma non considerati tali proprio per mancanze
linguistiche). Il linguaggio dei Pokémon è estremamente primitivo (comunicano emettendo suoni che ricordano il loro nome, come il tipico “pika pika” di
Pikachu), e non consente loro di essere considerati di eguale dignità rispetto
agli umani. Pokémon, molto rari, come Meowth, che conoscono il linguaggio
umano, vengono invece trattati come uomini, e possono non essere vincolati
in una sfera3. Anche in questo caso il testo si rivela “macchina pigra”, traendo
la modalità di semiotizzazione del senziente in base alle sue capacità linguistiche da come essa è adoperata comunemente nella realtà. Di animali che
si considerano particolarmente intelligenti si usa infatti dire che “gli manca
solo la parola”, risalendo fino ad Aristotele quando definiva l’uomo come zoon
politikon, o, più recentemente, a Ernst Cassirer che similmente lo definisce
“animale simbolico”:
L’uomo non vive in un universo puramente fisico bensì in un universo simbolico.
Lingua, mito, arte e religione […] sono i vari fili che compongono il tessuto simbolico […] Ogni progresso umano nel pensiero e nell’esperienza rafforza questo tessuto
[…] La definizione dell’uomo come animale razionale non ha perduto nulla del suo
valore […] (Cassirer 1948, pp. 47-49).
I Pokemon così, sezionando trasversalmente più di una generazione, sono
aumentati in numeri e tipologie adattandosi ai progressi sociali e tecnologici,
3 Il Pokémon Meowth ad esempio rifiuta la sfera, considerandola un’angheria. Egli, avendo
imparato a parlare, si considera alla stregua degli umani, e ciò è indicativo. Stessa sorte tocca a Pikachu, il Pokémon principale del protagonista, che non sa parlare ma è irritato dallo
stare nella sfera (è quindi un privilegiato, il che dimostra che costringere i Pokémon a vivere
in una sfera costituisce una forzatura).
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ma mantenendo cristallizzata – formula che vince non si cambia – la loro
matrice originaria. Abitano un universo narrativo ove è considerato ordinario,
anzi lodevole, catturarli per farne i propri compagni di avventura, da spendere
in lotte estenuanti con i loro simili.
Ergo nell’ordine identifichiamo alcuni topoi: la cattività come condizione
di realizzazione positiva, e dell’allenatore e del Pokémon stesso, specie quindi
considerata mutila senza l’umano, e lo scontro senza esclusione di colpi – nella messinscena non troppo dissimile rispetto a un combattimento fra cani o
fra galli – atto ad accrescere il prestigio dell’allenatore, pur facendone le spese l’animaloide di turno. Inevitabile pertanto in sede semiotica mappare una
lampante assiologia rovesciata, ove l’idea di essere “padroni” dell’animale e di
poterlo usare a proprio piacimento, peraltro trattenendolo in una mini-sfera
quando non sia utile, è proposta in termini assolutamente positivi, senza che
si discuta la liceità di tale pratica. Appare curioso come una società sempre
più attenta alle questioni animalistiche e che sempre di più si batte contro lo
specismo, accetti tendenzialmente di buon grado – salvo qualche sporadico,
ma significativo reclamo che vedremo più avanti – i regimi discorsivi che i
Pokémon portano con sé.
3. Pokémon snuff
Nel mondo dei Pokémon dunque il trattamento riservato agli animaloidi
non è concepito come vessatorio e, quand’anche un simile comportamento
verso gli animali della realtà sia oggi vituperato da moltitudini di attivisti ogni
giorno in aumento, la questione circa tali comportamenti nelle rappresentazioni testuali non sembra essere molto esplorata4. Eppure l’ordine di questioni implicate è molteplice. In prima istanza: è legittima un’ermeneutica per
la quale i Pokémon siano oggetti di maltrattamento? La contenzione nelle
sfere poké configura inevitabilmente una forma di cattività? Se fosse maltrattamento, implicherebbe – essendo quelli dei Pokémon palesi testi di finzione
– problematiche etiche extratestuali? E, ancora, perché mai un testo così problematico oggi continua a sortire tanto successo?
Partiamo dalla prima questione, muovendoci in una sorta di antropologia
semiotica interna al testo (sulle orme di Eco, che nel Secondo diario minimo
promuoveva un’endosocioeconomia testuale). È necessario pensare al fatto che i
Pokémon siano catturati e usati per combattere come il risultato di una cultura immaginifica che si basa, in diacronia, su due possibili iter:
1. Non ha ancora sviluppato una riflessione etica come quella del mondo
spettatoriale;
2. Ha sviluppato un discorso etico parallelo, giungendo a conclusioni
diverse – ma legittime, almeno nella diegesi – da quelle del mondo
spettatoriale.
4 Cfr. Hobbs (2016).
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ZOOSEMIOTICA DEI POKÉMON
E di conseguenza:
1. Quello sui Pokémon è maltrattamento. Essi sono asserviti all’umano
per accrescerne il prestigio sociale in forza del loro sfruttamento, e gli
abitanti umani dell’universo Pokémon non hanno ancora sviluppato
“sensibilità” alternative;
2. Umano e Pokémon sono veramente in simbiosi, la loro sofferenza è
condivisa, e in generale il Pokémon, le cui abilità cognitive risultano
inferiori a quelle umane, è ben felice di fare da “spalla” al suo umano,
in cambio di una vita felice e amorevole assieme. Sussiste un rapporto
di complementarietà umano-Pokémon/cognitivo-emotivo.
Quale che sia l’ipotesi esatta affinché le fila reggano è necessario che il
percorso narrativo del mondo Pokémon escluda una sanzione negativa: la
morte del Pokémon in battaglia. Per quanto infatti le lotte siano estenuanti
e senza esclusioni di colpi la morte dell’animaloide è una sanzione negativa
non prevista, anche se spesso sfiorata. Dei Pokémon è tollerata e mostrata la
sofferenza, che anzi è metro con il quale si può misurare la forza combattiva
dell’avversario, ma non la dipartita. Così non è possibile vedere Pokémon morire, nonostante il loro mondo presenti una serie di caratteristiche che ne designano la mortalità: Pokémon di tipo fantasma, cimiteri Pokémon e Pokémon
rari (è la rarità sintomatica di una presenza maggiore in passato, e quindi di
un diradarsi della specie?). Per ora accettiamo tali discrasie in un multiverso
come quello che si sta esplorando, considerandole in ogni caso utili per articolare maggiormente la dissertazione in futuro. Sulla sofferenza mostrata e sul
fatto che questa possa essere letta come frutto di maltrattamento è necessario
invece soffermarsi, poiché da questa si diparte una triade di domìni semioetici relativi al maltrattamento del non umano nei testi finzionali, a scopo cioè
unicamente rappresentazionale:
1. Maltrattamento di animali veri;
2. Maltrattamento di animali finti;
3. Maltrattamento di animaloidi.
Tutte e tre le pratiche di rappresentazione sono votate allo stesso risultato,
cioè generare degli effetti di senso all’interno del testo, e rientrano in quello
che Simon Hobbs chiama Animal Snuff, intendendo cioè la pratica, vera o finta, di sevizia più o meno violenta di animali di fronte a una macchina da presa,
per compiacere in qualche modo lo spettatore5. Ci interessa definire non tanto
le analogie fra questi esercizi semiotici, quanto piuttosto le dissonanze che
sussistono sul livello semioetico. Sul caso del maltrattamento di animali veri
per la realizzazione di film e simili è piuttosto ragionevole affermare fin da
subito che si tratta di un esercizio che versa nella più totale illiceità. È bene ricordare che nel cinema e nei media tale pratica è piuttosto rara, anche se vanta
5 Adopero qui la categoria dello snuff in maniera “allentata”, giacché essa comporterebbe
che il risultato della sevizia su schermo sia la morte dell’animale.
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alcuni casi celebri come Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980) o Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979)6. In Cannibal Holocaust ad esempio
assistiamo all’uccisione di una vera tartaruga gigante (ma pure di altri animali, come accade spesso nei cosiddetti “mondo movie”). Tali scene portarono a
molte proteste degli animalisti, per motivi più che plausibili: non è necessario
che si uccida un animale reale per motivi che afferiscono a domìni rappresentazionali. In ogni caso si tratta di casi oggi piuttosto sporadici, almeno per
quanto riguarda i media audiovisivi tradizionali. Non è al contrario infrequente captare online filmati amatoriali che offrono allo sguardo dello spettatore
immagini più o meno cruente di animali vessati7. La ludicità di chi perpetra
tali crimini sta proprio nell’offrire allo sguardo altro una determinata serie di
orrori, rivoltarlo e incuriosirlo nel contempo. Brevemente il maltrattamento
di animali veri a scopo rappresentazionale è quindi difficilmente inquadrabile
in qualsivoglia regime semioetico, pur comportando una stimolante serie di
questioni che qui trascendiamo8. Al contrario ci interessa capire se ha una
relazione coi Pokémon, che certamente afferiscono di più ai domìni 2 e 3
(maltrattamento di animali finti e di animaloidi). È cioè giusto inscenare un
combattimento fra cani (ricordiamo che nei videogiochi Pokémon è previsto
un premio in denaro per il vincente la battaglia) del tutto ricostruito al computer nel proprio film, o idearlo e scriverlo nel proprio romanzo? E qual è
il rapporto fra le stragi e lo sfruttamento di squali, cani, gatti, leoni, draghi,
unicorni, Pokémon, necessari per tutta l’umana storia dei testi, e la realtà9?
4. Mondi gemellari
Il modo migliore per rispondere è quello di rifarsi ad alcuni casi di studio
significativi. Ci riferiamo qui ad alcune campagne condotte dalla PETA (People for the Ethical Treatment of Animals) che proprio sui Pokémon, e non solo,
hanno basato una serie di attività di protesta. A tutti gli effetti ciò che più pare
rilevante non è tanto l’utilizzo dei mostriciattoli a fini propagandistici, di per
sé comprensibile e simile ad esempio all’utilizzo di un attore hollywoodiano
come testimonial per una determinata campagna di sensibilizzazione, quanto
piuttosto l’oggetto stesso della protesta mirato anche a discutere i contenuti
del cartone animato in sé.
6 Per un elenco più esaustivo si consulti l’opera di Hobbs citata.
7 Ad oggi la migliore trattazione scientifica relativa ai temi dello snuff è Jackson, Kimber,
Walker e Watson (2016).
8 Una trattazione esaustiva della questione dovrebbe ad esempio soffermarsi sulla dimensione rituale dell’uccisione animale, e sul modo in cui i mondo movie si incardinino su
questa; bisognerebbe definire se simulare un rito allo scopo di filmarlo possa costituire
un rito a sua volta, e con ciò interrogarsi in ogni caso sulla dimensione etica legata a certe
forme di ritualità.
9 Se interessati a dati relativi a vere stragi di animali avvenute durante la lavorazione di film
rivolgersi nuovamente a Hobbs.
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ZOOSEMIOTICA DEI POKÉMON
Il risultato è un minigioco online, Pokémon Black & Blue – Gotta Free ‘Em
All, ricalcato sulla lunga serie di videogiochi Pokémon, sia sul lato grafico
che su quello narrativo di base. Se lo schema attanziale rimane invariato le
assiologie sono invece ribaltate. Il protagonista questa volta non è un umano,
ma un Pokémon che si muove in un percorso obbligato e incontra allenatori
contro cui ingaggia una lotta allo scopo di liberare le creature da loro possedute e abusate. La sintagmatica della lotta è significativa: l’umano di turno
è contraddistinto da attacchi violenti, mentre il Pokémon ha a disposizione
modalità pacifiche per “lottare”, come abbracci o fusa, e risponde violentemente solo sé minacciato (cioè sempre, secondo la narrazione). Il messaggio
sotteso è che l’utilizzo della violenza in assetto difensivo sia lecito, seppure la
propensione sia quella a un approccio pacifico. Ogni qualvolta si vince contro
un allenatore poi si è premiati, come nei giochi originari. Questa volta tuttavia
non è il denaro la sanzione positiva, ma un pdf scaricabile con un piccolo set
di carte stampabili con i Pokémon del gioco o, in alternativa, un link a un
video Youtube che premia il giocatore “in consapevolezza”, ad esempio mostrandogli, sostanzialmente senza curarsi della sua sensibilità, come avviene
una mattanza di animali.
Così si esplicita il nesso fra mondo Pokémon e mondo reale. Gli attivisti
della PETA compiono un’operazione che può essere letta in due maniere: da
un lato vi è una critica manifesta ai valori veicolati dal testo originale, dall’altro, più surrettiziamente, tale testo viene cavalcato come modello rappresentativo della “cultura dell’abuso degli animali” nel mondo reale, ma su cui edificare la rivoluzione. In termini persuasivi la strategia è sottile, giacché non
palesa un’equazione del tipo Pokémon = animali, ma mira a stabilire dei link
suggerendo invece la diversità tra i primi e i secondi, poiché abitano ontologie
diverse, ma sono accomunati dal sentire. Così non sono solo i video cruenti “a
tradimento” a stabilire la connessione, ma anche il modo attraverso il quale
sono rappresentati gli allenatori che mano a mano il giocatore si trova a dover
combattere: un Ash Ketchum (lo storico protagonista del brand) in abiti circensi, una scienziata pazza dal ghigno spietato con bisturi e siringa in mano,
una donna ubriaca che impugna una mazza da baseball, un tetro signore con
addosso una pelliccia di Pokémon che brandisce una mannaia. Il campionario
di orribile umanità è contrapposto agli animaloidi, sempre più risemantizzati
come animaletti, malconci e incerottati, a significarne il triste passato come
vittime stesse degli abusi che ora combattono. Tale campionario costituisce
un altro ponte di collegamento fra testo e realtà, poiché ogni figura umana
si rifà a tipici bersagli delle battaglie animaliste: i circhi, la sperimentazione
animale, etc. Tali pratiche non esistono nel testo originario (tutt’al più ve n’è
il surrogato molto approssimativo del Team Rocket). Inoltre l’ambiente su cui
si muovono i personaggi ricalca quello dei videogiochi originali, ma è spazializzato a partire dall’isotopia del sangue (pressoché assente, come la morte,
nei testi di partenza). Sia i “cattivi” che l’intero mondo della rappresentazione
risultano insanguinati, e fra gli alberi si nascondono trappole per orsi. Anche
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V - LETTERATURA, ARTI E MEDIA
in questo caso si coglie un’istanza non esplicitata: la questione animalista, e la
battaglia che comporta, coinvolge e deve coinvolgere tutti; o con noi, o contro
di noi.
Riassumendo la retorica visivo-narrativa della PETA in Pokémon Black &
Blue è la seguente:
Ri-spazializzazione delle scenografie di gioco, con conseguente risemantizzazione: prevalenza di tonalità rosse e di scenari insaguinati. Si
tratta di una vera e propria pedagogia dell’orrore edificata a partire da
un’assiologia manichea;
Destrutturazione della complessità narrativa originaria in favore del
passaggio di un unico messaggio (da narrazione multidirezionale a
narrazione unidirezionale): il sadismo degli umani va combattuto ad
armi pari;
Nesso a-logico (e cospiratorio) fra pratiche finzionali di gioco, di derivazione, ad esempio, favolistica (collaborazione paritetica fra umani e
animali), e pratiche reali considerate come abiette, quali vivisezione o
bracconaggio.
In conclusione vi è la sanzione finale a toni moralistici con invito al proselitismo. In un ambiente ora privo di sangue i quattro Pokémon liberati esclamano: “Congratulations! You’ve won! You’ve crushed the trainers’ resistance
and have succeeded in giving them a higher calling! Now share the message to
continue helping others. And remember: there’s no place in this world for the
mistreatment and exploitation of Pokémon!”. La crasi massima è rappresentata dal sintagma “this world”. La PETA qui si riferisce a un mondo unico, che
interpola la finzione con la realtà, e il pronome “this” si pone come efficace
deittico, sospeso fra un qui e un altrove, entrambe topologie ove il problema
dell’abuso del senziente va risolto alla stessa maniera:
In a cultural context, the manner in which we represent animals says a lot about
who we are, or who we strive to be, and what we are conflicted about. Whether the
animal is constructed as the radical other or someone with whom we can relate and
feel kinship, describing animals in popular culture is often – if not always – a way
to indirectly describe ourselves. Our identity as humans is intimately tied to that of
the animals, whether these two are identified or defined in opposition (Tønnessen,
Tüür 2014, p. 7).
Va precisato come Pokémon Black and Blue non sia l’unico esempio di sfruttamento della finzione da parte della PETA per veicolare il “messaggio animalista”. Altri testi sono stati risemantizzati in questo senso, come il videogame
Super Mario, del quale è stata realizzata una versione insanguinata (come per
i Pokémon) sul presupposto, assai azzardato, che esso possa in qualche modo
promuovere la caccia ai procioni.
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Bruno Surace
ZOOSEMIOTICA DEI POKÉMON
5. Siamo tutti disposofobici
Il successo planetario dei Pokémon apre inoltre a temi in un certo senso
inediti per la zoosemiotica, e che pure hanno pieno diritto di rientrarvi. Il claim
“Gotta Catch ‘em All” intercetta una disposizione che è a metà fra la psicologia
e la semiotica, nota come “accaparramento compulsivo” o “disposofobia”. Qui
si tratta non tanto di un accumulo oggettuale di impronta patologica, che può
arrivare a coincidere con forme di “barbonismo domestico” o addirittura con
Sindrome di Diogene10, quanto di una forma di accumulo iconico e simbolico,
se è vero che “nature and its inhabitants are not seen as such, but as symbols,
or, more precisely, as social conventions. The living being become a projection
of a general interpretation of reality” (Martinelli 2010, p. 298). Nel cartone
animato, ma ancora di più in prima persona nei videogiochi, il piacere del
testo non è tanto nel vincere la battaglia quanto nel collezionare Pokémon. Nel
sapere di averli a disposizione piuttosto che nell’adoperarli, in una forma di
tipico “mal d’archivio” per dirla secondo la lettura freudiana del fenomeno che
dà Derrida (1995). Scrive infatti Tobin proprio nel merito dei Pokémon come
il fascino che sortiscono costituisca “[…] a form of anal compulsion but also
perhaps […] a sympton of the capitalist drive toward possessive accumulation”
(Tobin 2014, p. 17). In effetti la lettura capitalistica, che richiama il feticismo
delle merci marxiano, pare calzare a pennello, specie se si adotta un’ottica intertestuale e si guarda alla gargantuesca mole di merchandising generato dal
brand Pokémon. Connessa a questa in ogni caso va considerata un’ulteriore
ermeneutica, basata su una propensione condivisa alla scophopilia, il piacere
di guardare freudiano, “l’assunzione dell’altro come un oggetto, assoggettandolo a uno sguardo di controllo” (Mulvey 1975, p. 6). Possedere un Pokémon
nel videogioco, o riviverne la possessione attraverso il cartone animato, significa non averne altro che l’icona a disposizione, peraltro nel caso dei videogiochi
(quantomeno nei primi) ridotta a uno scampolo di pixel a bassa definizione.
Eppure avere accesso a tale icona, possederne la visione, è un privilegio raro,
specie quando raro è il Pokémon, che si può sfoggiare agli altri o a se stessi. Si
destituisce così l’idea della cattività dei Pokémon come una forma preminentemente sadica. Se del sadismo c’è, esso è in un ordine secondo rispetto alla
pulsione allo sguardo come apparato di possedimento. Simili considerazioni
possono essere mosse nei confronti del possedimento di animali domestici.
Per quanto il “padrone” di un cane o di un gatto si professi animalista è molto
difficile che esso parli del suo animale senza dire che “lo ha”, che è appunto “il
suo”. È lui che si occupa di nutrirlo, che gli fornisce riparo, che lo coccola, lo
abbraccia, e, innanzitutto, che “lo guarda” (“guardare il cane” significa porvi
un’attenzione particolare, curarsene). Quando l’ipotetico possessore di cane,
il più animalista fra gli animalisti, parla del suo compagno di vita, è probabile
che dica “il mio cane”, in questo modo già stabilendo una gerarchia basata
10 Cfr. Di Censi (2016).
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proprio sul possesso. Egli può sempre giustificare tale accusa sostenendo che
si tratta di un inganno linguistico, o magari stupire chi tenti di metterlo alle
strette sostenendo che non è il “suo cane”, ma “il compagno di vita che vive assieme a lui”. Ma quanti possessori di cani, che pure li trattano con il massimo
amore, sarebbero disposti a lasciarli in un’ipotetica riserva ove gli sarà garantita la massima libertà e condizioni di vita ancora migliori, in totale armonia
con la natura? Probabilmente pochissimi. È questa una forma di incoerenza?
Probabilmente sì. È questa una forma di sadismo? No, e se sì, solo a un ordine
inferiore rispetto all’affetto e alla pulsione verso il possesso.
La tendenza alla bio-collezione dunque è una prerogativa dell’umano che
andrebbe ripensata come caratteristica fondante l’affettività. Così possedere
i Pokémon pare un’azione giustificabile entro un regime forico, fuorché ad
essi non si faccia del male. Il problema, come si è visto in precedenza, è che
il rapporto di amore con questi è spesso subordinato a una forma di sfruttamento, seppure questo appaia alla fine dei conti come necessario all’interno
della diegesi.
Non ci si dimentichi in conclusione che si tratta di un cartone animato,
e cioè di un testo che fin dall’apparato significante esalta la sua radicale finzionalità, e che quindi può in via definitiva “permettersi” di costruire un’animalità parallela, retta su assiologie sovvertite, e che pure ci dicono qualcosa
della realtà: “[…] I cartoni animati non si limitano a offrire delle caricature del
genere umano. […] Mettono in primo piano l’animale, questo grande rimosso della narrativa tradizionale” (Ferraris 2015, p. 108). Se fossero nati oggi i
Pokémon probabilmente non sarebbero stati quelli di ventennale memoria
che, nonostante i continui upgrade, sono entrati nella storia. All’epoca riflettevano un mondo diverso, cui per nostalgia continuiamo a rivolgerci, amandoli
e amando gli animali allo stesso modo, senza sentirci per questo incoerenti.
Bibliografia
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