1
Νότος n. 4
Letteratura e lavoro in Italia. Analisi e prospettive
a cura di Carlo Baghetti
Ad Alessandro Leogrande
che ha realizzato nella vita e nella scrittura
l’ascolto profondo
2
Revue Νότος Espaces de la création: arts, écritures, utopies
www.revue-notos.net
Direttrice:
Angela Biancofiore, Université Paul-Valéry, Montpellier 3
Comitato scientifico:
Antonio Prete, Università di Siena, Italia
Armando Gnisci, Università di Roma, Professore emerito, Italia
Gezim Hadjari, Poeta, Albania
Norma Bouchard, San Diego State University, San Diego, USA
Peter Carravetta, Stony Brook University, NY, USA
Simone Brioni, Stony Brook University, NY, USA
Ramon Alvarado, Universidad Autónoma Metropolitana, Messico
Alfonso Campisi, Université de La Manouba, Tunis, Tunisia
Cristina Castello, Poeta, Argentina
Comitato di lettura:
Carlo Baghetti, Aix-Marseille Université; Università La Sapienza, Roma, Italia
Angela Biancofiore, Université Paul-Valéry, Montpellier, Francia
Danila Cannamela, University of St. Thomas, Minnesota, USA
Daniele Comberiati, Université Paul-Valéry, Montpellier 3, Francia
Silvia Contarini, Université Paris Nanterre, Francia
Ugo Fracassa, Università Roma Tre, Italia
Yannick Gouchan, Aix-Marseille Université, Francia
Monica Jansen, Utrecht University, Olanda
Judith Obert, Aix-Marseille Université, Francia
Raffaele Ruggiero, Aix-Marseille Université, Francia
Sophie Nezri, Aix-Marseille Université, Francia
© Revue Notos. Tous droits réservés.
ISSN 2257-820X
http://www.revue-notos.net
euromedia.revuenotos@gmail.com
3
Νότος. Espaces de la création: arts, écritures, utopies, numéro 4, 2017, © Revue Notos. Tous droits
réservés, ISSN 2257-820X, Université Paul Valery, Montpellier 3, http:// www.revue-notos.net
Federica Vincenzi
(Università IULM, Milano)
La denuncia della Ramondino:
le voci dei Disoccupati Organizzati
0. Introduzione
Il presente contributo si pone come obiettivo quello di recuperare e rivalutare Napoli:
i disoccupati organizzati (1977), prima fatica editoriale della scrittrice Fabrizia
Ramondino. Il saggio si articola in quattro parti, nelle prime due sezioni verranno toccati
i temi cari alla scrittrice: l’impegno sociale e civile della Ramondino, la rappresentazione
della condizione di emarginazione e di estrema povertà del proletariato precario di
Napoli degli anni Settanta del secolo scorso, il Movimento dei Disoccupati Organizzati
e le difficili condizioni in cui versavano le giovani donne lavoratrici. Nella parte finale
della seconda sezione il saggio si propone di illustrare alcuni aspetti relativi alla tipologia
testuale scelta dalla curatrice mettendo relazione, attraverso la citazione, le
testimonianze dei disoccupati con le battaglie portate avanti dal Movimento dei
Disoccupati Organizzati. Inoltre, nella terza sezione, si chiosano le scelte linguistiche
adottate dalla Ramondino, ponendo particolare attenzione sulla scelta
dell’italianizzazione del dialetto. Il saggio si conclude con una breve riflessione sul valore
della riscoperta di un’opera della Ramondino, pressoché dimenticata dalla critica, che si
contraddistingue per il suo realismo e la sua forza comunicativa.
1. L’impegno civile e sociale della giovane Fabrizia Ramondino
Il marcato impegno civile e sociale di Fabrizia Ramondino ha rappresentato una
componente e una tappa fondamentale nella carriera e nella vita dell’autrice. I frutti
letterari di queste esperienze sono molteplici, tra i quali sembra doveroso citare i
maggiori: Napoli: i disoccupati organizzati,1 L’isola dei bambini2 e Passaggio a Trieste.3
Sebbene il libro-inchiesta Napoli: i disoccupati organizzati (1977) venga solitamente
espunto dalla lista bibliografica della Ramondino, perlopiù per la tipologia testuale che
incarna, esso rappresenta cronologicamente il primo contributo dell’autrice. La fama di
scrittrice colta arrivò, per la Ramondino, solo qualche anno più tardi, nel 1981, ed è
1
Fabrizia RAMONDINO, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, Milano, Feltrinelli, 1977.
Fabrizia RAMONDINO, L’isola dei bambini [1995],Milano, e/o, 1998.
3
Fabrizia RAMONDINO, Passaggio a Trieste, Torino, Einaudi, 2000.
2
4
tuttora saldamente legata alla pubblicazione di Althénopis,4 un libro incantevole e
folgorante.
Il primo periodo della produzione della Ramondino è strettamente legato
all’esplorazione e all’analisi sociologica e politica del contesto in cui si trovava a vivere e
a interagire. Il quadro sociale nel quale Fabrizia Ramondino operò non fu affatto dei più
semplici; difatti, la Napoli degli anni Settanta del secolo scorso ribolliva ancora dei
fervori rivoluzionari del 1968. La predisposizione della Ramondino a partecipare ad
esperienze collettive, volte alla valorizzazione della solidarietà nel contesto sociale
napoletano, emerse nel periodo adolescenziale della vita della scrittrice. Sin da
giovanissima la scrittrice entrò in contatto con il gruppo sociale più debole ed
emarginato della città: i proletari. Nello specifico l’autrice cercò di aiutare i figli di questi
ultimi con autentica passione senza rimanere imbrigliata nella tela della retorica
ideologica.5 Il ricordo di quello che lei interpretò come un rito di iniziazione, di
passaggio all’età adulta, emerge con chiarezza in alcune sue pagine contenute nel
capitolo L’isola dei bambini pubblicato negli ultimi due capitoli di In viaggio.6 In questa
occasione la Ramondino rintracciò in un accadimento preciso il momento in cui si
originò questa tensione a contribuire personalmente alla realizzazione concreta di una
società più solidale e più attenta ai bisogni degli emarginati. L’autrice racconta l’episodio
legato a Maria, collaboratrice domestica in casa della madre in attesa del quinto figlio,
che, vedendola oziosa e annoiata, le chiese di aiutare i figli maggiori a studiare
risvegliandola improvvisamente dal torpore adolescenziale che l’avviluppava:
Aveva ventisette anni e portava il quinto figlio – ma diceva di averne avuti sette, perché
contava anche gli aborti. Faceva la serva a ore a casa di mia madre, dove avevo trovato
riparo da un altro naufragio nel periplo intorno all’inospitale continente degli adulti, e
Maria, vedendomi inoperosa – non si rendeva conto della mia depressione – mi chiese se
volevo aiutare i suoi bambini più grandi che andavano male a scuola. Scesi così nel suo
vicolo e i bambini mi salvarono dal male.7
La Ramondino raccontò le condizioni difficili, di estrema povertà in cui versava la
famiglia di Maria e, soprattutto, parlando dell’inattività del marito Mario introduce il
tema del lavoro e della sua assenza. Nella descrizione dello spoglio mobilio della stanza
da lavoro emergono le condizioni di assoluta povertà delle famiglie dei proletari
napoletani:
4
Fabrizia RAMONDINO, Althénopis [1981], Torino, Einaudi, 2016.
«Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal
punto di vista ideologico molto a livello concreto». Fabrizia RAMONDINO, Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia
mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono… Intervista di Franco Sepe a Fabrizia Ramondino, in «Nuovi
Argomenti», XLIII/2008, Generi Coloniali, Mondadori, Milano, p. 36.
6
Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, Torino, Einaudi, 1995.
7
Ivi, p.135.
5
5
La stanza da lavoro di Mario era semivuota, aveva venduto persino le stoffe dei clienti,
impegnato la macchina per cucire. Intorno al lungo tavolo, dove una volta tagliava gli abiti,
furono portate seggiole impagliate e alcune sedie imbottite, superstiti del mobilio nuziale.
La nudità della stanza, il legno grezzo del tavolo, che era servito a varie generazioni, la sua
stessa destinazione al lavoro, gli sguardi dei bambini solenni e fidenti, resero i nostri primi
incontri più simili per me a una celebrazione che a una lezione. Celebravo, ma non lo
sapevo allora, dopo tremendi riti di iniziazione, il mio passaggio all’età adulta, che per una
giovane donna una volta significava fare un bambino, per me invece fu saperlo portare in
spalla.8
Sin dal 1962, e per altri sei anni, la Ramondino collaborò alla realizzazione di un
progetto educativo ambizioso e alternativo, modellato sul Ceis di Rimini9 e
sull’esperienza di don Milani, fondando nel centro storico di Napoli, insieme ad altri
operatori, l’Associazione Risveglio Napoli.10 L’esperienza educativa, iniziata con i figli di
Maria, si allargò ad altri bambini e ragazzi. L’obiettivo principale dell’associazione era
quello di insegnare a leggere e a scrivere ai bambini e agli analfabeti dei vicoli e delle
zone periferiche di Napoli,11 mentre lo scopo più alto e nobile era quello di frenare e
arginare il degrado. La necessità di organizzarsi in un’associazione nacque dallo spirito
pratico di Gervasia, un’ostetrica impiegata all’Aied,12 che riuscì a raccogliere numerose
donazioni, e a rendere la fondazione dell’Ars possibile.13 In quel preciso momento tra
Napoli e la Ramondino si instaurò un legame saldo e intimo.14 La Ramondino si trovò,
per la prima volta, a confrontarsi con una realtà più vasta e complessa. Il nome
altisonante dell’associazione richiamò le attenzioni esterne e sollevò l’interesse dello
Stato, il quale si presentò fisicamente nella persona di Tristano Codignola, allora
Ministro della Pubblica Istruzione. La Ramondino insieme agli altri operatori
dell’associazione suggerirono al Ministro alcuni provvedimenti concreti per garantire ai
bambini un’istruzione; tra questi quello di offrire un sussidio alle famiglie pari al salario
8
Ivi, pp. 135-136.
«A monte di questa esperienza vi è la formazione intrapresa dalla giovane Fabrizia presso il Ceis di Rimini,
l’asilo italo-svizzero fondato da Margherita Zöbeli, i cui metodi pedagogici avanguardistici ella cercherà,
nell’Italia cattolica del dopoguerra, insieme ad altri venticinque-trenta operatori, di applicare nel lavoro con i
Bambini di Torre a Quarto e della Pigna […]» Franco SEPE, Fabrizia Ramondino rimemorazione e viaggio, Napoli,
Liguori, 2010, p. 42.
10
«Con i bambini della Torre a Quarto e della Pigna, Fabrizia ha lavorato ogni giorno dalle nove di mattina alle
quattro del pomeriggio, per sei anni, prendendo dalla vita gli argomenti per aprire con i ragazzi le vie del sapere
come aveva visto fare al Ceis, andando con loro in giro con emozione, fermandosi poi in una stanza semivuota
qualsiasi o nelle sezioni del Partito socialista ad ascoltare, dire, considerare e a dare ordine alle scoperte e ai
ritrovamenti». Marco Rossi-Doria, Introduzione, in L’isola dei bambini [1995], Milano, e/o, 1998, p. 7.
11
«Le iniziative dell’Arn prevedevano una scuola d’infanzia a pieno tempo – né giardino d’infanzia né scuola
materna andavano bene, tanto meno asilo ; la gente del quartiere usò il termine intrattenimento –, una scuola
serale per lavoratori di preparazione alla licenza media e un’inchiesta nel quartiere – socio-antropo-etnologica».
Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., p. 145.
12
Associazione italiana per l’educazione demografica.
13
Cfr. Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., pp. 137-138.
14
«È questo, per la Ramondino, un momento in cui il legame con la sua città diventa più vincolante, a tratti quasi
esclusivo» in Franco SEPE, Fabrizia Ramondino. Rimemorazione e viaggio, Napoli, Liguori, 2010, p. 59.
9
6
del minore lavoratore, al fine di sottrarre i bambini napoletani al lavoro minorile e
offrirgli la possibilità di adempiere l’obbligo scolastico.15 Nonostante il Ministro non
ebbe nulla da eccepire sulla bontà della proposta, essa non venne inclusa quando la legge
istitutiva della scuola media unica venne varata nel 1962.
L’esperienza nell’Arn si concluse nel 1968, negli anni in cui la Ramondino vinse la
cattedra di francese e si trasferì a Milano.16 La Ramondino descrisse gli anni
nell’associazione avvalendosi di una metafora altamente poetica ed eloquente; quella del
viaggio in nave. L’equipaggio di questa piccola e fragile imbarcazione erano i suoi
collaboratori e tutti coloro che parteciparono alle attività dell’associazione. Questa
metafora ricorda l’ultimo intrepido viaggio compiuto da Ulisse, quello dantesco. La
ciurma della Ramondino si prefiggeva, come quella di Ulisse, la conoscenza come mèta
astratta e rivendicava l’accesso democratico a questa conoscenza. La destinazione e
l’approdo ultimo di questo modesto veliero era la cosiddetta Isola dei bambini , un
luogo utopico,17 in cui il benessere e l’istruzione dei più piccoli erano tutelati e garantiti.
Purtroppo, come insegna la storia, tutte le imprese utopiche si scontrano con la durezza
e l’asprezza della realtà per dissolversi in essa. La Ramondino fu costretta a tornare nel
continente degli adulti,18 abbandonando a malincuore le velleità utopiche e
rivoluzionarie dell’Arn. Questa prima esperienza di collaborazione sociale e collettiva fu
fondamentale nella vita dell’autrice; grazie ad essa la Ramondino ebbe l’opportunità di
esplorare il terreno, entrando in contatto con la complessità eterogenea della società
napoletana. L’interesse umano per le condizioni dei figli dei proletari e dei sottoproletari
portò la Ramondino, negli anni Settanta del secolo scorso, ad interessarsi e ad avvicinarsi
alla politica e ad alcuni movimenti sociali in fermentazione, nello specifico l’impegno
civile e politico della Ramondino la condusse ad interessarsi della lotta del Movimento
dei Disoccupati Organizzati ponendoli al centro della sulla attenzione.
2. Napoli: i Disoccupati Organizzati
La Ramondino fu maestra sia di scrittura, sia di impegno, e riuscì in Napoli: il
movimento dei disoccupati organizzati a calibrare oculatamente sia la forza
comunicativa, sia quella linguistica. La sua lingua letteraria incarna un italiano raffinato
15
Cfr. Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., p. 138.
Cfr. Fabrizia RAMONDINO, Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove
vengono… Intervista di Franco Sepe a Fabrizia Ramondino, cit., p. 44.
17
«Il disparato equipaggio del nostro veliero […] era assai diverso dalla gente di terra: nel lavoro, ché ogni
disaffezione, trascuratezza, errore avrebbe provocato serie avarie o il naufragio; nella personalità stessa dei
singoli, ché non si sceglie quella vita se non per un oscuro richiamo – insofferenza per la terraferma, fuga dalle
sue ipocrisie, consapevolezza di come gli uomini di terra l’hanno ridotta male, spirito d’avventura, ricerca di
forme di vita essenziali, infine nella accusa stessa rivoltaci dai nostri denigratori: Siete come un guscio di noce
nel mare! – e per mare intendevano il male di Napoli – e nella meta stessa della nostra navigazione, l’isola di
Utopia. Vi navigavamo infatti ben consapevoli che la critica maggiore rivolta all’utopia, quella di fondarsi sui
presupposti di un’ideologia della povertà, era caduta da sé, anche nel sud, in quegli anni detti del boom
economico». Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., p. 147.
18
Ivi, p. 167.
16
7
e ricercato che, nel caso di questa inchiesta sociologica, venne messo da parte in favore
di un dialetto italianizzato, la lingua ufficiale di diversi proletari. Questa determinata
operazione linguistica restituisce duttilità e vitalità all’inchiesta e alle storie raccontante
in prima persona dai protagonisti della lotta, che riacquistano una dimensione
estremamente realistica. Se la lingua letteraria della Ramondino è generalmente colta,
densa e sincopata, in questa occasione la Ramondino si spoglia della sua personale lingua
letteraria per indossare le vesti di intervistatrice e regista silenziosa. La scrittrice
orchestra e armonizza sapientemente le voci dei protagonisti delle sue interviste,
inseguendo e cercando di mordere la realtà con una narrazione asciutta, in alcuni casi
cruda, dura ed essenziale. Le voci dei protagonisti sono varie e diversi sono i registri
linguistici che vengono facetamente riportati dalla Ramondino che, curando quest’opera
in maniera oculatamente bilanciata, tentò di dare voce e autorevolezza alle storie delle
diverse anime che diedero vita alla lotta per la sopravvivenza di diverse centinaia di
famiglie napoletane, cercando, attraverso di esse, di ricostruire la storia sociale e
collettiva di questo gruppo.
Nelle primissime righe dell’introduzione la Ramondino definisce con estrema
chiarezza l’oggetto del libro-inchiesta: «Questo libro parla non solo del movimento e
della lotta dei disoccupati organizzati ma anche delle condizioni di vita generali del
proletariato precario napoletano».19 La scrittrice intendeva illustrare ai suoi lettori le
battaglie portate avanti dai membri del movimento dei disoccupati organizzati e le
condizioni di miseria in cui versava il proletariato precario di Napoli, spiegandone, in
una lunga introduzione, il complesso contesto storico e politico. I protagonisti di Napoli:
il movimento dei disoccupati organizzati sono i proletari precari, la parte più consistente
del proletariato di Napoli. La Ramondino cerca di dare una spiegazione al fenomeno
della precarietà lavorativa e della crescente disoccupazione, individuando nel fenomeno
capitalistico del decentramento dei siti di produzione sul territorio una delle ragioni
scatenanti. Difatti, non appena gli operai iniziarono a maturare una coscienza di classe
e ad organizzarsi le fabbriche minacciarono di chiudere. In una storia raccontata da un
disoccupato del comitato Materdei l’intervistato spiega con un’espressione dialettale
altamente eloquente questo fenomeno: «è la storia delle fabbriche che vanno
fuggendo».20 La Ramondino ha intervistato diversi disoccupati del suddetto comitato e
dalla risposta alla domanda «come è nata questa nuova lista?» si comprende l’essenza e
anche l’origine del movimento dei disoccupati organizzati:
È nata da un’esigenza: dall’esigenza del lavoro. Questo comitato è nato perché abbiamo
bisogno di lavorare. Tra l’altro pretendiamo che il lavoro è un nostro diritto, è un diritto
dei lavoratori e dei cittadini, chiaramente. Come ci siamo organizzati? In modo molto
semplice, ci siamo incontrati così per caso, al Collocamento, perché è un luogo di riunione;
19
20
Fabrizia RAMONDINO, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, cit., p. 9.
Ivi, p. 10.
8
al collocamento centrale a via Marina, ci siamo incontrati tre o quattro di noi quella
mattina, si comincia sempre così, dopo pochi giorni eravamo già ottocento, dopo cinque
giorni già ottocento in questa lista. Perché abbiamo visto che soltanto chi si organizzava
riusciva ad andare avanti, soltanto chi faceva una lotta; quelle persone cioè che non
facevano la lotta, che volevano soltanto attenersi ai discorsi che portava avanti il
Collocamento non ottenevano mai niente.21
La miseria e la disperazione ha provveduto provvidenzialmente ad unire sotto
un’unica bandiera il proletariato precario di Napoli. La Ramondino nell’introduzione
evidenzia come gran parte dei disoccupati di Napoli tra gli anni Sessanta e Settanta
provenivano dal settore calzaturiero. Difatti, nonostante in questo periodo la
produzione e soprattutto l’esportazione di scarpe aumentò notevolmente, da 33 milioni
a 172 milioni,22 il numero di disoccupati nel settore calzaturiero crebbe di circa duemila
unità. L’aumento della disoccupazione, in questo e in altri settori, fu determinato altresì
da una riorganizzazione della produzione e dall’introduzione di nuove macchine; nel
caso del suddetto settore comparve per la prima volta il nastro meccanico. Dopo il 1963
si registrarono processi di ristrutturazione in tutti i settori della produzione che
comportarono una drastica diminuzione dell’occupazione. Per evidenziare la gravità
della situazione lavorativa e occupazionale la Ramondino citò, come fonte autorevole,
le relazioni congressuali della CGIL e, in pochi punti, riassume i mutamenti che hanno
portato il tasso di disoccupazione a crescere:
Questa situazione si riflette nei toni preoccupati delle relazioni congressuali della CGIL,
finito l’ottimismo manifestato negli anni Sessanta. Nella relazione congressuale del marzo
1965 ad esempio denunciano:
1) la crisi definitiva di alcuni settori produttivi; comincia ad esempio a manifestarsi in
tutta la sua gravità la crisi delle Manifatture Cotoniere Meridionali, un tempo una
delle più grosse fabbriche del Mezzogiorno; i licenziamenti e la riduzione dell’orario
raggiungono quei ritmi vertiginosi che porteranno poi alla chiusura della fabbrica di
Napoli; uguale sorte avranno i pastifici;
2) la ristrutturazione nel settore calzaturiero (a cui prima abbiamo accennato);
3) la crisi del settore ferroviario e delle macchine utensili;
4) la ristrutturazione e i profondi mutamenti nell’organizzazione del lavoro in una serie
di aziende come l’Olivetti, i Cantieri Metallurgici di Napoli e Castellammare, la
OCREN, la FIAT;
5) la ristrutturazione generale delle aziende che porta alla scomparsa di quelle piccole e
medie, in particolare nel settore alimentare, con aumento della concentrazione e del
decentramento produttivi.23
21
Ivi, pp. 243-244.
Ivi, p. 12.
23
Ivi, pp.13-14.
22
9
La Ramondino, nella sua corposa introduzione, non mancò mai di inserire dati e
statistiche che supportassero le sue argomentazioni. Inoltre, ella presentò i casi più
significativi ed emblematici per illustrare gli effetti dei processi capitalistici sui lavoratori
precari di Napoli e della relativa zona costiera. Secondo la scrittrice un caso esemplare è
rappresentato da Castellammare di Stabia, uno dei centri produttivi più fiorenti negli
anni Sessanta, in cui venne messo in atto il cosiddetto nuovo modello di sviluppo , le
cui drastiche conseguenze per i lavoratori furono tangibili solo un decennio più tardi: si
registrò il dimezzamento dell’occupazione. Per queste ragioni, nel novembre del 1972,
Castellamare di Stabia fu teatro di lotta di numerosi disoccupati che si rifiutavano di
vivere di espedienti e reclamavano il diritto al lavoro stabile. Nell’introduzione la
Ramondino cita anche il caso dell’insediamento dell’Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, che,
con il suo modello di sviluppo industriale per poli, contribuì all’aumento della
disoccupazione. Difatti, gli 80.000 posti di lavoro promessi, furono sono un’amara
illusione per i contadini e gli operai edili che contribuirono alla realizzazione del
cantiere; solo una piccola parte di essi vennero assunti. Un’altra conseguenza che la
Ramondino registrò era di carattere sociale, ella individuò, tra le varie conseguenze
dell’applicazione del modello capitalista, l’origine del fenomeno della gentrificazione.
Gli affitti e i costi della vita nei pressi di questi centri industriali s’innalzarono
vertiginosamente costringendo molti lavoratori ad emigrare. La Ramondino spiega con
estrema chiarezza anche il ruolo dei mafiosi nell’aumento della precarietà a Pomigliano
d’Arco:
Gli operai dei cantieri, ingaggiati tramite i capimafia locali, acquistano una loro autonomia
politica. Essi sono sottopagati dagli appaltatori mafiosi, hanno talora abbandonato altre
attività precarie e quindi non possono tornare indietro, e subiscono ogni sfruttamento
perché i capimafia per spingerli ad accettare questa condizione gli hanno fatto balenare la
speranza di una assunzione stabile nell’azienda, di cui si rendono garanti. Comincia invece
a profilarsi per loro il licenziamento e chiedono precise garanzie per l’assunzione
promessagli all’Alfa. Nel ’69 i primi licenziamenti delle imprese appaltatrici provocano la
lotta e l’inserimento alla guida di questa lotta di un’organizzazione politica locale, il PCd’ILotta di lunga durata, a quell’epoca il gruppo più numeroso a Napoli, che stimola i già alti
livelli di combattività operaia e raccoglie l’esigenza di una guida organizzativa che il
sindacato si rifiutava di offrire.24
Questa prima forma di organizzazione riuscì a costringere il sindacato ad occuparsi
dell’assunzione dei lavoratori nei cantieri dell’Alfa, che come sottolinea la Ramondino,
in questo caso «otterranno una parziale vittoria». I casi di Castellammare di Stabia e di
Pomigliano d’Arco rappresentano le testimonianze più significative delle lotte operarie
24
Ivi, pp. 15-16.
10
che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta nel contesto campano. La Ramondino,
inoltre, individua anche nel piano regolatore della città un preciso intento politico volto
inevitabilmente ad aumentare la disoccupazione a Napoli. Il suddetto piano regolatore
prevedeva: lo smantellamento dei siti industriali sulla costiera napoletana per convertire
la zona in area turistico-residenziale e l’espulsione del proletariato dal centro storico di
Napoli, che, secondo l’autrice, rappresentava un’autentica minaccia «all’assetto
borghese della città».25 Secondo la Ramondino la politica si avvalse in maniera
capitalistica delle catastrofi naturali per forzare lo sgombero dei proletari dal centro
storico e favorire i processi di gentrificazione. La Ramondino ravvisa anche
nell’esplosione del focolaio colerico dell’agosto del 1973 un uso strumentale del colera da
parte dell’amministrazione politica, che colse l’occasione per sgomberare, bonificare e
ristrutturare il centro storico di Napoli e le zone costiere abitati da proletari. Nella lotta
contro il colera la Ramondino individua l’origine embrionale del Movimento dei
Disoccupati Organizzati:
Ma è dalla lotta contro il colera che nascono decine di comitati di quartiere e gli embrioni
del movimento dei disoccupati organizzati. La popolazione infatti chiede la bonifica della
città, soprattutto delle fogne. Alla pressione della popolazione e dei disoccupati si risponde
con l’istituzione dei cantieri di lavoro per la bonifica delle fogne, e con dei corsi di
formazione per lavoratori specializzati.26
Nel 1974 in uno di questi comitati, quello di Vico Cinquesanti a San Lorenzo,
iniziarono ad incontrarsi i primi disoccupati che, guidati da alcuni militanti del PCd’INuova Unità, diedero origine al Movimento dei Disoccupati Organizzati. Il movimento
manifestò tutta sua forza politica nel maggio del 1975, allorché i disoccupati occuparono
l’ufficio dell’anagrafe di piazza Dante. Tutti i disoccupati del movimento erano concordi
nel rifiuto del lavoro precario, del conseguente sfruttamento che ne derivava, e
soprattutto si prefiggevano come punto programmatico il controllo del collocamento. I
disoccupati volevano che fosse eliminata la chiamata diretta, molto spesso controllata
dalla mafia o dal clientelismo politico, e che tutti i posti di lavoro passassero per il
collocamento. Inoltre, i disoccupati volevano che s’interrompesse la pratica della
compravendita del posto di lavoro che, come sottolinea la Ramondino: «costava – e costa
– dal mezzo milione ai quattro milioni!».27 L’ultimo punto del programma dei
disoccupati riguardava la garanzia statale all’assistenza medica dei disoccupati e delle
loro famiglie.
Le manifestazioni di protesta dei disoccupati organizzati furono molteplici:
organizzarono cortei che bloccarono simultaneamente per diverse ore il traffico in
diversi punti della città, occuparono enti e edifici statali, e, in queste occasioni, ci furono
25
Ivi, p. 17.
Ivi, pp. 17-18.
27
Ivi, p. 20.
26
11
scontri diretti con le forze dell’ordine che provocarono numerosi arresti. Per spiegare il
cosiddetto sciopero al rovescio i disoccupati addussero come motivazione il fatto che,
dal momento che non erano assunti in fabbrica, la strada rappresentava il loro luogo
d’impiego e pertanto invece di bloccare la produzione, come avviene in un normale
sciopero, loro bloccavano le strade. Ogni comitato del movimento era rappresentato e
coordinato da un delegato e da un direttivo cittadino, i quali trattavano in prima persona
con la controparte durante le manifestazioni di protesta. Per guadagnare maggiore forza
politica i disoccupati organizzati cercarono di costruirsi una rete di alleanze, trovando
sostegno principalmente tra gli studenti e gli operai; a questi ultimi veniva richiesto di
lottare uniti con i disoccupati e di rifiutarsi di fare gli straordinari, ma, come sottolinea
la Ramondino, il loro atteggiamento verso i colleghi occupati era duplice: «a volte si
sentono inferiori a loro, a volte si sentono superiori per la loro maggiore capacità di
lotta».28 Mentre i rapporti dei disoccupati organizzati con il PCI e con i sindacati sono
stati difficili e travagliati. I sindacati lamentavano che questa tipologia di organizzazione
delle masse si fosse formato al di fuori della linea delle organizzazioni sindacali e,
pertanto, accusarono i disoccupati di voler rafforzare il mercato nero delle braccia. Le
accuse che vennero mosse dai sindacati al Movimento rappresentavano i punti di forza
contro i quali combattevano i disoccupati. I punti cruciali sui quali i disoccupati
discussero, s’interrogarono e si divisero riguardavano le posizioni da assumere nei
confronti dei sindacati e della sinistra storica. Durante le loro assise si delinearono due
linee di pensiero, come sottolinea la Ramondino, che si originarono dalle seguenti
questioni:
Ci si può aspettare qualcosa dalle autorità o solo da una dura lotta? Bisogna affidarsi ai
sindacati o soprattutto alla propria autonomia? Bisogna cioè contare sugli altri o solo sulle
proprie forze? Bisogna delegare molto creando così dei capipopolo o dei burocrati del
movimento o delegare e farsi delegare il meno possibile? Bisogna contentarsi di piccole
vittorie, a livello quantitativo e qualitativo, o aspirare a grandi vittorie, come l’ottenimento
per tutti del posto stabile e sicuro, e non allontanarsi dalla lotta quando si è ottenuto il
posto precario in un cantiere di restauro? […] Bisogna allargare il fronte delle alleanze o
no?29
Questi sono stati gli argomenti principali che hanno animato la discussione
all’interno del Movimento dei Disoccupati Organizzati. La Ramondino, nel suo libroinchiesta, manifesta l’intenzione di voler preservare gli elementi di forte contraddizione
all’interno del Movimento dei Disoccupati Organizzati; mettendo in rilievo, per
l'appunto, il rapporto tra i disoccupati e gli operai occupati, tra le diverse linee e idee
politiche all’interno del movimento, tra i delegati e chi invece non voleva essere
delegato, denunciando tradimenti e la corruzione mafiosa all’interno di alcuni gruppi e
28
29
Ivi, p. 22.
Ivi, pp. 27-28.
12
soprattutto introducendo la questione di genere, cogliendo le contraddizioni esplicite
tra uomini e donne:
Un’altra contraddizione esplicita è quella tra uomini e donne: certo non è bello che dei
disoccupati chiamino puttana una donna solo perché va alle riunioni e ai cortei e la
invitino per questo solo fatto a convegni amorosi o si rifiutino di farla partecipare alle
trattative con le autorità. Queste posizioni vanno abbattute. Ma non con i metodi con cui
si trattano i nemici.30
Persiste nei disoccupati del movimento l’idea che le donne, in quanto tali, non fossero
né predisposte né adatte alla lotta. Questo atteggiamento, perlopiù maschilista e
sessista, attinge alle vecchie concezioni che prevedevano che la donna dovesse badare
esclusivamente alla prole e alle faccende domestiche. Inoltre, la Ramondino sottolinea
come la situazione della donna sia stata strumentalizzata dalla borghesia per dividere e
sfruttare meglio il proletariato. Nel racconto dal titolo Il movimento delle disoccupate
organizzate emerge la durissima testimonianza di Elvira, una compagna del comitato di
Montecalvario, che affronta il discorso delle difficili condizioni di lavoro e lo
sfruttamento a cui erano sottoposte le donne:
Vedi, io avevo un esaurimento così forte che pesavo trentotto chili; ti basti dire: diciannove
anni e trentotto chili. Lavoravo con mio cugino questi maledetti calzoni che vedi, allora
avvenne che le ragazze che stavano da lui se ne andarono tutte quante; mo’ giustamente
rimase solo lui, allora gli facevamo il lavoro io e una mia cugina. Dieci pantaloni al giorno!
Ci metto i passanti, poi ci metto questo dentro, lo rivesto, poi ci metto, vedi, il pezzo qua,
lo rivesto, poi ci faccio il buco qua sopra per l’apertura. […] Allora mi fa vicino a me: Devi
fare dieci pantaloni al giorno , io abitualmente ne faccio cinque, sei. […] Ogni pantalone
mille lire. Tutto quel lavoro, e poi fare i servizi a mia madre, mi venne un esaurimento che,
ti dico, proprio non ce la facevo più.31
Per quanto riguarda la condizione di subalternità della donna nei confronti degli
uomini Elvira, dichiarandosi apertamente femminista, ci tenne a precisare che, sebbene
il contesto rimanesse prevalentemente ostile alle istanze di cambiamento e di
ammodernamento culturale, iniziarono ad emergere sentimenti di riscossa e ribellione
e, nelle giovani napoletane come Elvira, si fece strada il desiderio di uguaglianza sociale:
Io ritengo che per esempio ti potrei parlare a livello di una femminista. La donna, per
esempio, per le persone antiche come sono rimaste qua deve fare la mamma, la figlia, la
moglie e basta; politica non ne deve fare, per esempio in mezzo a queste cose non ci deve
stare, quell’altro non lo deve fare, insomma a un certo punto io mi dovrei rendere schiava,
30
31
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 151.
13
io questo non lo voglio, non voglio assolutamente essere schiava di una persona, cioè he
lui mi deve utilizzare a me come gli pare e piace. No!32
Le storie raccontate dai disoccupati organizzati sono prevalentemente storie di
sofferenza, di povertà, di condivisione di una sorte comune e soprattutto di lotta. Nelle
interviste, soprattutto in quelle singole, emerge quella che la Ramondino definiva la
«prepotente soggettività dei disoccupati intervistati».33 Le storie raccontate si
concentrano soprattutto sulle dure condizioni di lavoro a cui erano disperatamente
sottoposti i disoccupati. In alcune interviste emerge la denuncia, da parte di alcuni
membri del movimento, del lavoro in nero e del lavoro minorile nelle fabbriche. Come
sottolinea in una testimonianza un disoccupato:
Ho faticato venti giorni e il padrone della fabbrica nostra ha chiuso proprio. […] Non paga
i contributi e niente a noi ci scaricano, ci mettono in cassa integrazione, chiamiamola cassa
integrazione, ottocento lire al giorno, sarebbe cassa integrazione se quelli fossero
industriali, ma quelli sono… tengono ottanta operai ma ne dichiarano cinque, […] E là ci
sono più bambini che grandi, tutti di età sotto i 14 anni, gente che a scuola non ci va
proprio. L’ultima la più piccerella non vi dico, ha otto anni, le danno tremila lire alla
settimana.34
In altri racconti come quello di Salvatore Simeone, soffiatore di vetro licenziato dopo
diciotto anni di lavoro, si percepisce chiaramente che le fabbriche erano luoghi in cui
illegalità veniva continuamente e sistematicamente perpetrata a danno della salute e dei
diritti dei lavoratori. Come si evince dal testo i lavoratori precari erano costretti ad
accettare queste condizioni perché i datori di lavoro erano avvezzi ad usare il lavoro
come arma di ricatto. Nella testimonianza di Salvatore emerge tutta la drammaticità di
questa condizione e le difficoltà che i lavoratori incontravano:
E in quello stabilimento c’erano tutti i rischi nocivi alla salute, cioè residui di gas, un forno
che produceva trenta quaranta gradi di calore e ti mettono a lavorare a due metri di
distanza, specialmente quando è estate, come si fa a sopportare quel calore?, il fisico non
ce la può fare. E poi ci accusano di assenteismo, l’assenteismo che viene proprio per forza
maggiore perché il fisico nostro può resistere un giorno, due, una settimana, quindici
giorni, ma poi viene il momento che non so, ti viene una bronchite, perché mentre stai
tutto sudato, per forza maggiore vuoi prendere un po’ d’aria e vieni colpito da raffiche di
vento. Questo perché? perché il padrone costruisce lo stabilimento come fa comodo a lui,
non come potrebbe far comodo all’operaio che ci deve lavorare dentro e il padrone fa un
solo discorso: l’operaio mi deve produrre, poi me ne frego se muore […].35
32
Ivi, pp. 152-153.
Ivi, p. 31.
34
Ivi. p. 248.
35
Ivi, pp. 85-86.
33
14
In questo libro-inchiesta, grazie alle testimonianze dirette di alcuni disoccupati, la
Ramondino riuscì a dare voce agli emarginati, a ricostruire la storia del singolo
all’interno di un movimento le cui lotte portarono a limitati successi nazionali. La
Ramondino riuscì, attraverso questo progetto ambizioso, a restituire dignità a storie di
intima e profonda sofferenza costruendo appositamente una lingua che potesse essere
compresa e condivisa sul territorio nazionale. Le descrizioni delle lotte dei lavoratori
precari, e le loro deboli testimonianze, si intrecciano e confluiscono nella macro-storia
delle lotte nazionali per il diritto all’occupazione, per il rispetto delle tutele lavorative e
per il superamento dell’annosa questione della disuguaglianza di genere che
attraversarono l’intero Paese tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
3. La rappresentazione e la questione della lingua
Il libro della Ramondino raccoglie in quindici capitoli altrettante storie. In alcuni casi
si tratta di interviste singole, mentre in altri si tratta di interviste aperte a tutti i membri
di un comitato specifico o di interventi scritti direttamente da alcuni disoccupati.36 Dalla
testimonianza della curatrice di quest’opera, in questo libro-intervista, si registrano due
fenomeni linguistici particolarmente frequenti nelle conversazioni registrate e poi
trascritte: il code switching, un passaggio non programmato dalla lingua al dialetto o
viceversa, e quello del code mixing, in cui, nella conversazione, parole dialettali entrano
e si mescolano all’italiano.37 Si ha dunque un’alternanza e una mescolanza vera e propria
di codici linguistici, ciò sembrerebbe confermare che l’italiano e il dialetto, nella Napoli
del ’77, convivevano in una situazione di complementarità linguistica nelle classi sociali
meno abbienti. Il dialetto napoletano viene utilizzato dai disoccupati come uno
strumento prezioso per ampliare ed arricchire il quadro delle opportunità espressive e
funzionali e ciò che ne deriva è, nella maggior parte dei casi, il fenomeno della
convergenza linguistica.
La penna della Ramondino è intervenuta, in alcuni casi, nella italianizzazione di
alcune interviste; la curatrice sottolinea che il dialetto era la lingua in cui erano state
condotte la maggior parte delle interviste registrate col magnetofono. Questo processo
linguistico di italianizzazione , e, in alcuni casi, di traduzione integrale delle interviste
venne accuratamente spiegato in una nota dalla Ramondino:
I testi scritti non hanno subito modifiche. I testi tradotti quasi integralmente sono quelli
di Giuseppe (cap. 3), Elvira (cap. 6), il cap. 11, gran parte del capitolo 14. Più che tradurre
abbiamo italianizzato i testi cioè mantenuto in gran parte le struttura sintattica, i modismi,
l’uso particolare di vocaboli simili a quelli italiani; abbiamo poi lasciato in dialetto vocaboli
36
Sono le storie raccontate da Scialone, Elisa e il letterato rispettivamente nei capitoli quinto, sesto e
tredicesimo.
37
Cfr. Tullio DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai giorni nostri [2014], Roma, Laterza,
2017, p. 119.
15
di difficilmente traducibili o particolarmente espressivi, auspicando che contribuiscano ad
arricchire la nostra koiné (la traduzione è in nota).38
La questione linguistica posta dalla Ramondino è di grande rilevanza. Nei confronti
degli intervistati e dei lettori la Ramondino si pone in qualità mediatrice linguistica nel
traghettare i significati da una sponda all’altra. Italianizzando i testi la Ramondino ha
reso accessibile l’esperienza dei disoccupati organizzati ai lettori di tutta la penisola. Un
libro di interviste integralmente in dialetto, con ogni probabilità, non avrebbe avuto la
medesima risonanza: la limitata accessibilità del testo lo avrebbe relegato e confinato
all’esclusiva fruizione regionale. La Ramondino ha conservato i modismi traducendoli
in italiano, rendendo il testo esperibile in un contesto allargato, nazionale, senza però
eliminare la forza comunicativa e le caratterizzazioni linguistiche e sintattiche che ne
contraddistinguono la specificità regionale. Vi è in questo libro una vera e propria
contaminazione tra italiano e dialetto e, come sottolinea la Ramondino, è la lingua
italiana, seppure caratterizzata da errori, a prevalere:
Nonostante le molte pagine in dialetto nelle interviste orali, molte locuzioni dialettali e
molte contaminazioni tra italiano e dialetto (di cui la più tipica è il ricorrente Se io vorrei,
farei, mentre in dialetto si direbbe s’i vulesse, facesse ), è la lingua nazionale, pur tra molti
errori , che domina tanto nei racconti orali che nei tre interventi scritti. […] Verso il
dialetto i disoccupati non hanno né vergogna né fierezza e verso la lingua nazionale non
hanno né arrivismo né disprezzo.39
Il pericolo sventato dalla sapiente abilità della Ramondino era quello di costruire una
lingua affettata, totalmente artificiale che provocasse un effetto di straniamento; che
creasse un distacco e una distanza incolmabile tra l’opera e la realtà oggettiva dei
disoccupati organizzati. Secondo la Ramondino l’italiano e il dialetto, nel contesto
napoletano degli anni Settanta, convivevano in una situazione di diglossia; vi era un
continuo fluire da una lingua all’altra senza provocare attrito.
Sembra calzante, in questa occasione, la riflessione di Camilleri sul rapporto tra
italiano e dialetto, difatti egli, riprendendo il concetto pirandelliano, esplora il rapporto
tra sentimento e il concetto: «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto
confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa
stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella
stessa cosa esprime il concetto».40 Quelle che la Ramondino registra sono confidenze
intime, indicibili, in cui il sentimento e il dialetto prevalgono, ma nel momento in cui i
38
Fabrizia RAMONDINO, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, op. cit., p. 30.
Ivi, p. 38.
40
Andrea CAMILLERI e Tullio DE MAURO, La lingua batte dove il dente vuole, Roma, Laterza, 2014, p. 5.
39
16
disoccupati si riferiscono alla lotta e alla sua importanza nazionale subentra l’italiano, la
lingua ufficiale della lotta di tutti i disoccupati.
Sebbene la realtà linguistica riportata dalla Ramondino sia essenzialmente edulcorata
e attentamente manipolata, la fedeltà della curatrice viene riposta nella dura e spoglia
trasposizione di storie personali, scevra di un qualsiasi ornamento linguistico che ne
abbellisca inutilmente la forma estetica della narrazione. Grazie a questa operazione la
Ramondino è riuscita a rimanere fedele, se non alla forma, quantomeno alle storie che
ha scelto di riportare.
4. Conclusioni
Il problema della disoccupazione a quarant’anni dalla pubblicazione di Napoli: i
disoccupati organizzati è un problema particolarmente sentito, soprattutto dai giovani
lavoratori italiani. Sebbene le condizioni di lavoro siano inesorabilmente cambiate, a
favore dei lavoratori, le forme di sfruttamento sono diventate più subdole e sottili. Non
è un caso che, per la sua attualità, l’opera della Ramondino sia stata riedita nel 1998 da
Argo in una nuova versione dal titolo Ci dicevano analfabeti il movimento dei disoccupati
organizzati.41 Come sottolinea Laura Rorato, in questo nuovo titolo scompare la distanza
tra il lettore e le storie dei disoccupati:
Scompare il tono neutro e distaccato del titolo originale. Il pronome ci in Ci dicevano
analfabeti fa sì che la voce dei disoccupati emerga fin dal titolo e che la coralità dell’opera
venga maggiormente sottolineata. Serve inoltre a rendere partecipe il lettore e a generare
in lui un sentimento di solidarietà.42
La Ramondino, modificando il titolo, annulla definitivamente la distanza tra il lettore,
la curatrice e i protagonisti delle interviste. Attraverso la Ramondino ci sono pervenute
le voci e le testimonianze dei disoccupati, degli emarginati e degli ultimi43. Queste voci
raccontano la storia di una classe sociale dimenticata che, nonostante fosse posta ai
margini dell’esistenza, ha trovato nei valori della solidarietà e della fratellanza la forza
di reagire e di lottare per la rivendicazione dei propri diritti. La modalità dell’intervista
41
Fabrizia RAMONDINO, Ci dicevano analfabeti il movimento dei disoccupati organizzati, [1977], Lecce, Argo,
1998.
42
Laura RORATO, Fabrizia Ramondino, Caravaggio e i quartieri di Napoli: Alla maniera delle Sette opere di
Misericordia di Michelangelo da Caravaggio, in «Testi e Studi di Letteratura Italiana», XIII/2013, «Non sto quindi
a Napoli sicura di casa» Identità, spazio e testualità in Fabrizia Ramondino, Perugia, Morlacchi Editore U.P., pp.
180-181.
43
Non è un caso che l’esergo del libro del ’77 fosse di Mao Tze Tung «gli ultimi saranno i primi», che, come
sottolinea la Ramondino nella nuova introduzione a Ci dicevano analfabeti il movimento dei disoccupati
organizzati: «Naturalmente io sapevo che non si trattava di una citazione del Vangelo. E se Mao non lo era, lui
che era di tutt’altra cultura, significa non solo che il Vangelo ha un valore universale». Fabrizia RAMONDINO,
Ci dicevano analfabeti: il movimento dei disoccupati organizzati, cit., p. 8.
17
e la scelta di italianizzare il testo conferiscono solennità e dignità alle voci di coloro che
le confidarono storie di amarezza e afflizione.
Nei suoi libri più impegnati la Ramondino si è sempre esposta, facendosi da tramite,
cercando di raccontare ciò che per definizione è indicibile ed è solo esperibile: la
sofferenza dei più deboli. Nei suoi tentativi di raccontare il dolore e la sofferenza la
Ramondino non si pose mai al centro, bensì di fianco, assumendosi la piena
responsabilità delle storie altrui e trasformando la sua penna in un mezzo necessario per
diffondere consapevolezza e conoscenza delle lotte intraprese dagli ultimi. La forza
comunicativa della Ramondino è inequivocabilmente eloquente, anche perché la
scrittrice rimase sempre umilmente conscia nel riconoscere che esiste una distanza
incolmabile tra vivere la sofferenza e raccontarla attraverso le parole.
Bibliografia
CAMILLERI Andrea e DE MAURO Tullio, La lingua batte dove il dente vuole, Roma, Editori
Laterza, 2014.
DE MAURO Tulio, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai giorni nostri, Roma,
Editori Laterza, 2017.
RAMONDINO Fabrizia, Althénopis, Torino, Einaudi, 1981.
RAMONDINO Fabrizia, In viaggio, Torino, Einaudi, 1995.
RAMONDINO Fabrizia, L'isola dei bambini, Milano, e/o, 1998.
RAMONDINO Fabrizia, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano,
Milano, Feltrinelli, 1977. Nuova edizione: Ci dicevano analfabeti: il movimento dei
disoccupati napoletani degli anni '70, Lecce, Argo, 1988.
RAMONDINO Fabrizia, Passaggio a Trieste, Torino, Einaudi, 2000.
RAMONDINO Fabrizia, Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane,
chissà da dove vengono… Intervista di Franco Sepe a Fabrizia Ramondino, in «Nuovi
Argomenti», XLIII/2008, Generi Coloniali, Milano, Mondadori, pp. 34-45.
RORATO Laura, Fabrizia Ramondino, Caravaggio e i quartieri di Napoli: Alla maniera delle
Sette opere di Misericordia di Michelangelo da Caravaggio, in «Testi e Studi di Letteratura
Italiana», XIII/2013, «Non sto quindi a Napoli sicura di casa» Identità, spazio e testualità
in Fabrizia Ramondino, Perugia, Morlacchi Editore U.P., pp. 180-181.
ROSSI-DORIA Marco, Introduzione , in L’isola dei bambini, Milano, e/o, 1998, pp. 9-13.
SEPE Franco, Fabrizia Ramondino. Rimemorazione e viaggio, Napoli, Liguori, 2010.
18