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DOMENICO SCARPA VIGILE ELEGANZA LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA ESTRATTO da GIULIO EINAUDI NELL'EDITORIA DI CULTURA NEL NOVECENTO ITALIANO A cura di PAOLO SODDU Fondazione Luigi Einaudi Studi 52 GIULIO EINAUDI NELL’EDITORIA DI CULTURA DEL NOVECENTO ITALIANO a cura di PAOLO SODDU Leo S. Olschki editore Firenze 2015 A cento anni dalla nascita di Giulio Einaudi, viene organizzato un convegno volto alla comprensione storica della sua presenza nel cuore del Novecento italiano. Al centro della riflessione sono alcuni filoni di ricerca: lo sfondo nazionale dell’editoria di cultura del Novecento, alcune premesse alla biografia di Giulio Einaudi, l’approfondimento di alcuni nessi e di alcune decisive presenze (Leone Ginzburg, Elio Vittorini, Cesare Pavese, Carlo Dionisotti, Raffaele Mattioli, Giulio Bollati e Raniero Panzieri), la crisi del 1956 da cui trae origine la crescita e il consolidamento del pluralismo dei punti di vista dell’editoria di cultura (Boringhieri, Adelphi), l’accordo con l’Arnoldo Mondadori editore e la democraticizzazione della diffusione del libro. Il volume si conclude sulle permanenze costitutive della casa editrice, dalla filologia alla slavistica, e su progetti collettivi della fase matura dell’Einaudi: la Storia d’Italia, la Letteratura italiana, la Storia dell’arte italiana. La Fondazione ha assunto la denominazione di onlus con deliberazione dell’Assemblea in data 12 aprile 2013 ed è iscritta all’anagrafe delle onlus con effetto dal 14 maggio 2013. Fondazione Luigi Einaudi onlus Studi 52 GIULIO EINAUDI NELL’EDITORIA DI CULTURA DEL NOVECENTO ITALIANO Atti del convegno della Fondazione Giulio Einaudi e della Fondazione Luigi Einaudi onlus (Torino, 25-26 ottobre 2012) a cura di PAOLO SODDU Leo S. Olschki editore Firenze 2015 Tutti i diritti riservati CASA EDITRICE LEO S. OLSCHKI Viuzzo del Pozzetto, 8 50126 Firenze www.olschki.it ISBN 978 88 222 6354 4 INDICE PAOLO SODDU, Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. VII PRIMA SESSIONE L’EDITORIA DI CULTURA NELL’ITALIA DEL NOVECENTO MASSIMO L. SALVADORI, Introduzione al Convegno. . . . . . . . . . . » 3 VITTORIO SPINAZZOLA, Il pubblico dell’editoria di cultura . . . . . . » 7 ERSILIA ALESSANDRONE PERONA, Gobetti editore: dal ‘modello vociano’ all’editore ideale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 13 IRENE PIAZZONI, Negli anni del Regime: orientamenti di fondo e nuovi indirizzi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 33 GIAN CARLO FERRETTI, L’editoria libraria tra sperimentazione e mercato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 69 PAOLO SODDU, Introduzione alla vita di Giulio Einaudi . . . . . . . » 77 GABRIELE TURI, I caratteri originali della casa editrice Einaudi . . » 99 DOMENICO SCARPA, Vigile eleganza. Leone Ginzburg e il progetto di un’editoria democratica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 109 CLAUDIO PAVESE, Il periodo del commissariamento della casa editrice Einaudi (1943-1945) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 141 FRANCESCA GAIDO – FRANCESCA PINO, Oltre i dati di bilancio: il sostegno ininterrotto di Raffaele Mattioli alla casa editrice Einaudi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 189 SECONDA SESSIONE ALLE RADICI DEL PROGETTO: GIULIO EINAUDI EDITORE — V — INDICE EDOARDO ESPOSITO, Letteratura e riviste dopo la liberazione . . . Pag. 219 CARLO MINOIA, Dal «Politecnico» ai «Gettoni»: Vittorini e la ‘poetica del raccontato’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . TERZA » 233 SESSIONE UN CASTELLO DI DESTINI INCROCIATI: RAMIFICAZIONI DELL’EDITORIA DI CULTURA NEL DOPOGUERRA VITTORE ARMANNI, L’accordo commerciale Einaudi-Mondadori: egemonia o mercato? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 247 GIULIA BORINGHIERI, La difficile strada della cultura scientifica in Italia: Paolo Boringhieri e le Edizioni scientifiche Einaudi . . . » 261 ALBERTO BANFI, Nietzsche, Colli, Foà: l’azzardo di un’edizione critica e di una nuova casa editrice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 273 LUCA BARANELLI, Raniero Panzieri e la casa editrice Einaudi (19591963) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 287 ERNESTO FERRERO, L’altro Giulio. Bollati e ‘lo struzzo’ . . . . . . . » 299 LUCA MARCOZZI, La Letteratura italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . » 311 WALTER BARBERIS, La Storia d’Italia nel segno della continuità editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 327 ENRICO CASTELNUOVO, La storia dell’arte . . . . . . . . . . . . . . . . . » 335 VITTORIO STRADA, La slavistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 343 ROBERTO CICALA, Dionisotti e lo struzzo: il rapporto con gli «amici della casa e della storia» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 351 CESARE SEGRE, Einaudi e la filologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 379 Gli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 387 Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 393 QUARTA SESSIONE L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO INTELLETTUALE: I CANTIERI EDITORIALI — VI — DOMENICO SCARPA VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA 0. Nel fascicolo di marzo 1934 della rivista «La Cultura», il primo di una nuova serie stampata da Giulio Einaudi, Leone Ginzburg doveva pubblicare un articolo basato su un documento messogli a disposizione dall’amico Alberto Carocci, direttore a Firenze della rivista «Solaria». Il documento, datato 1810, era una lettera inedita di Ugo Foscolo a Nicolò Bettoni che svelava i retroscena di un litigio intorno alla traduzione dell’Odissea firmata da Ippolito Pindemonte. Tralascerò i fatti (gustosi) che Ginzburg seppe ricostruire facendo leva su quella lettera. Basti dire che il suo fu uno studio di filologia indiziaria, dove l’aggettivo indiziaria assume pregnanza grazie al fatto che in quelle pagine l’interpretazione di un testo ritrovato si appoggiava alla conoscenza di un ramificato contesto politico-letterario e anzi permetteva di riportarne alla luce una zona rimasta coperta per più di un secolo. Quel singolo documento, recuperato e fatto parlare da uno studioso che gli poneva domande pertinenti, illuminava la serie degli altri documenti già noti, rettificandone il senso e perfino la cronologia; la cronologia, anzi, retroagiva sul testo svelandone il significato e le intenzioni; la storia (la storia materiale dei reperti, cosı̀ come la storia in senso assoluto) si convertiva in filologia, e quest’ultima in ermeneutica. Il risultato era notevole: l’articolo di Ginzburg non si limitava a offrire al pubblico alcuni dati nuovi: interveniva a modificare la sistematica di un clima culturale trapassato. Nella nuova serie della «Cultura» che con il marchio del neo-editore Einaudi si spostava da Milano a Torino era previsto per Leone Ginzburg il ruolo di redattore capo. Ma nel fascicolo di marzo 1934 il suo articolo non è nell’indice, né il suo nome figura tra i gerenti.1 Ginzburg, infatti, era stato arrestato 1 Recita il colophon di questo primo numero: «LA CULTURA esce a cura di Arrigo Cajumi, Bruno Migliorini, Cesare Pavese, Vittorio Santoli, Pietro Paolo Trompeo. Direttore-responsabile: Dott. Sergio Solmi». Il gruppo redazionale cambierà più volte fino alla soppressione della rivista, il cui ultimo fascicolo è dell’aprile 1935. — 109 — DOMENICO SCARPA il 13 marzo per attività antifascista, e con tutta probabilità l’impianto della rivista venne cambiato all’ultimo momento, a causa appunto della sua cattura. Le pagine su Foscolo rimasero inedite fino al 1964: 2 l’infortunio poliziesco non cancellò soltanto un aneddoto di inizio Ottocento, ma una lezione di metodo che avrebbe potuto propagare il proprio esempio. Malgrado questa e più gravi disavventure, Leone Ginzburg seppe manifestare comunque, nel lavoro precedente e successivo alla data dell’arresto, la pienezza dei suoi talenti. Quest’ultima affermazione, cosı̀ netta, va motivata. Voci autorevoli hanno sostenuto più volte, con rammarico, che gli scritti superstiti di Ginzburg non ci dànno la piena misura della sua personalità intellettuale. Qui vorrei suggerire la possibilità che ciò non corrisponda al vero. O meglio: è palese che Ginzburg poté compiere solo una piccola parte del lavoro che aveva in animo, e ne poté rendere pubblica – a causa della censura fascista e delle leggi razziali – una quota ancora più esigua. Tuttavia credo che, provando a leggere con attenzione l’insieme dei suoi testi superstiti e mettendoli in rapporto con le attività di traduttore, di filologo, di editore, che lo impegnarono fin da un’età precoce, se ne possa estrapolare un profilo intellettuale completo e attendibile. La maggior parte dell’opera che i tempi, malgrado ostacoli di ogni genere, consentirono a Ginzburg di svolgere, si trasformò in libri, e quegli oggetti custodiscono in maniera più o meno esplicita un insieme di informazioni che i suoi scritti e le sue lettere tacciono, sottintendono o esprimono solo per brevi accenni. Si può descrivere l’idea di editoria testimoniata da Leone Ginzburg affrontando l’analisi merceologica di alcuni libri e mostrando che essi sono significativi ancora oggi, sia dal punto di vista culturale sia sotto l’aspetto industriale e commerciale. Tra questi oggetti tangibili e il progetto che ne ha governato l’iter produttivo sussiste un’ordinata sequenza di passaggi: ed è possibile tracciare percorsi che consentano di spostarsi con scioltezza dall’uno all’altro di questi territori – dalla cultura all’industria – appartenenti a una medesima geografia benché sembrino lontani tra loro. 1. Il 6 novembre 1934 il Tribunale speciale fascista pronunciava la sua sentenza contro Leone Ginzburg. Dieci giorni più tardi apparve sulla prima pagina di «Giustizia e Libertà», che si stampava a Parigi, un articolo non firmato. L’autore era Carlo Levi: 2 Una sfida inedita di Foscolo al tipografo Nicolò Bettoni, in L. GINZBURG, Scritti [di qui in poi, S], a cura di D. Zucàro, prefazione di L. Mangoni, introduzione di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 2000 [I edizione ivi, 1964], pp. 464-470. — 110 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA Leone Ginzburg, che il Tribunale speciale ha condannato a quattro anni di reclusione, ha venticinque anni. Il regime chiude nelle sue galere, non confesso di alcun reato, e tuttavia protestante il suo ideale di libertà, un altro uomo, un altro giovane. Ciò basta al dolore, alla solidarietà anche di quelli per cui il suo nome è un puro nome soltanto, tra quelli degli altri prigionieri. Ma Leone Ginzburg è, in più, qualche altra cosa. È uno dei pochi, anzi dei pochissimi, che in regime legale di fascismo riescono ad avere un pensiero e un’influenza sul pensiero degli altri. Da quando, sei anni fa, egli entrava diciannovenne nel campo degli studii, egli ha effettivamente trasformato tutta una vasta zona della coltura, tra quelle ove più si dava sfogo il dilettantismo.3 Fin da quando incorse per la prima volta nei rigori del regime, uno dei suoi amici più stretti seppe cogliere l’elemento che rendeva Ginzburg diverso da ogni altro oppositore: non solo era tra i pochi che, dotati di pensiero autonomo, fossero capaci di convincere gli altri (i tiepidi, i neutri), ma era unico ancora in questo: nell’avere quale strumento di persuasione il rigore nello studio. Carlo Levi, insomma, fu tempestivo nell’indicare che l’essenza della sua persona risiedeva nella continuità tra il lavoro culturale e l’azione politica. È impressionante ritrovare la stessa osservazione all’altro estremo della parabola di Ginzburg: nel ricordo che un amico più anziano, Tommaso Fiore, gli dedicò non appena si diffuse la notizia della sua uccisione per mano nazista: «A lui bastava far bene, fare meglio di tutti, essere il primo, anche nel mestiere più umile, dove l’anonimato è indispensabile. Giovanni Laterza diceva che era il miglior correttore di bozze che avesse mai trovato in 40 anni».4 Potrebbe apparire futile il dettaglio delle bozze nel necrologio, dettato a caldo, di un capo della Resistenza: di un uomo noto in tutta Italia come dirigente e giornalista politico, come editore, come storico e studioso di letteratura, come precoce militante per una futura Europa unita. Invece l’osservazione non era marginale, perché il lavoro ben fatto – a cominciare dal più umile, come Fiore sottolinea – era un atto costruttivo, un comportamento quotidiano praticato in polemica (talvolta muta, in altri casi conclamata) verso i tanti che si limitavano a essere contro qualcosa. Una correzione di bozze a regola d’arte era già un modo per andare oltre l’antifascismo, per creare uno spazio concreto di convivenza civile nuova, per avviare la storia dell’Italia libera. Meticoloso, meticolosità, sono gli attributi associati a Leone Ginzburg nel carteggio tra Benedetto Croce e il suo editore Giovanni Laterza, non sempre con intonazione benevola: 3 ANONIMO [Carlo Levi], Leone Ginzburg, «Giustizia e Libertà», Parigi, I, 27, 16 novembre 1934, p. 1 (articolo di spalla). Ora in C. LEVI, Scritti politici, a cura di D. Bidussa, Torino, Einaudi, 2001, pp. 129-131: 129. 4 T. FIORE , Ginzburg, «Il Nuovo Risorgimento», Bari, I, 9-10, 1-15 agosto 1944, p. 4. — 111 — DOMENICO SCARPA Croce a Laterza, 1 febbraio 1932: «Più tardi, vi spedirò l’indice dei nomi [della Storia d’Europa nel secolo diciannovesimo], che un amico sta copiando». Croce a Laterza, 24 marzo 1932: «Un amico di Torino, meticolosissimo, mi manda un elenco di piccole correzioni per la 3a edizione della Storia». Croce a Laterza, 27 marzo 1932: «Caro Amico, Vi rimando il volume, che ora, come si dice, è ‘‘confessato e comunicato’’, perché la nuova revisione è stata fatta da un amico di Torino, la persona più meticolosa che io conosca, eppure ha trovato pochissimo che non fosse stato già notato da me». Laterza a Croce, 18 ottobre 1937: «La meticolosità del Ginzburg è esasperante».5 All’altezza dell’ultima lettera citata Ginzburg stava curando per Laterza una nuova edizione filologica dei Canti di Leopardi, di cui aveva rimandato più volte la consegna per scrupolo di precisione. Ma prima di inoltrarsi nel suo lavoro editoriale va segnalato che la stessa etimologia di «meticoloso» indica un possibile legame tra azione politica e azione culturale. Si ipotizza che l’aggettivo risulti da una crasi tra il sostantivo latino metus (timore) e l’aggettivo perı̄culosus, che deriva a sua volta da peritus = esperto, proveniente da un non attestato verbo *periri, fare esperienza, legato al sostantivo greco peı̂ra (prova). Meticoloso è chi scansa i pericoli tenendo una condotta accorta: chi – per venire al caso concreto di Ginzburg – storna il pericolo dell’errore allorché è impegnato in un’opera di cultura, e il pericolo di compromettere la propria azione politica quando da questa dipenda la sorte di altri compagni. Nel marzo 1934, durante le perquisizioni avvenute a Torino in conseguenza dell’arresto di Ginzburg (arresto, è un dettaglio notevole, dovuto a una sfortunata casualità e quindi inatteso), soltanto la perquisizione di casa sua non diede alcun esito, benché la polizia intuisse subito il suo ruolo di «anima» della cospirazione.6 Un uomo meticoloso nel senso pieno della parola non è pavido o torpido: è colui che sa essere audace e prudente insieme. Fin dal principio i capisaldi dell’attività culturale di Ginzburg furono le traduzioni, lo studio della storia (con particolare attenzione alla cronologia), la conoscenza diretta delle lingue e delle culture straniere. Tra i suoi primi articoli ne spicca uno, feroce, contro il «mistero dell’anima slava». Siamo nel 1928, Ginzburg ha diciannove anni. 5 B. CROCE – G. LATERZA , Carteggio 1931-1943, a cura di A. Pompilio, Roma-Bari, Laterza, 2009, t. I, pp. 94-95, 124, 127, 706. 6 Cfr. L. MANGONI , Introduzione, in L. GINZBURG , Lettere dal confino 1940-1943 [di qui in poi, LC], a cura della medesima, Torino, Einaudi, 2004, p. XVIII. Poi, col titolo Le «Lettere dal confino» di Leone Ginzburg, in ID., Civiltà della crisi. Cultura e politica in Italia tra otto e novecento, Roma, Viella, 2013, pp. 323-337: 334. — 112 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA E sı̀ che pareva che questa critica facilona non avesse più ragion d’essere, dopo che le traduzioni dirette e integrali, moltiplicatesi in questi ultimi anni, avevano dato modo di spazzar via per sempre tutti i concetti vaghi, le frasi fatte, le viete definizioni; ma si vede che c’è da battagliare ancora [...]. Anche in giornali reputati accade di vedere critici che passano dall’ambiente del Dostojevskij a quello del Cèchov senza scorgervi soluzione di continuità: per colpa, certo, della stessa letteratura russa, che è fiorita subito senza bisogno, come la francese, di tentativi e di assaggi secolari; e ha avuti tanti nomi illustri, in un secolo e mezzo, da far sembrare impossibile che si dovessero disporre secondo una severa cronologia... [...] Perciò qui s’è discorso della preparazione che il critico deve avere per occuparsi della letteratura russa, e non del modo di giudicarla: perché questo modo non esiste, e cioè non è diverso da quello che serve per la poesia di tutt’i paesi.7 Il manifesto di metodo qui condensato troverà ripetute applicazioni. Ne farà le spese tra gli altri un poligrafo particolarmente adatto al ruolo del bersaglio polemico, autore del pamphlet Intelligenza di Lenin: «Intelligente e pittoresco libro, quello di Curzio Malaparte; ma poteva scriverlo senz’andare in Russia, con la scorta dei maggiori giornali sovietici e delle opere del Dostojevskij».8 La frase è in una nota a piè pagina di un saggio critico del 1930: tanto basta per discriminare un orecchiante dagli studiosi seri. Più spesso, però, ci vorrà tutto un articolo quando si tratterà di reimpostare un determinato argomento secondo linee che a Ginzburg appaiono congrue: gli anni tra il ’27 e il ’33 lo vedono impegnato in un lavoro capillare di cui va offerto qualche rapido esempio prima di tentarne una definizione. Cominciamo dall’ultimo scorcio del periodo; dal 1933 e dall’autore cui Ginzburg dedicò la tesi di laurea: «Quando tutta l’opera di uno scrittore come il Maupassant è racchiusa in poco più d’un decennio, s’ha da diventar per forza pedanti nelle determinazioni temporali».9 A seguire, ecco un brano sulla politica delle traduzioni, che risale all’anno precedente: La frenesia delle «opere complete», che ci pone dinanzi con la medesima imperturbabilità «tutto London», o «tutto Galsworthy», o perfino «tutto Ramón Gomez de 7 L. GINZBURG , Il «mistero» dell’anima slava, «Il Baretti», Torino, V, 3, marzo 1928, pp. 13-14 (che sono la prima e seconda pagina del mensile, la cui numerazione di pagina era continua su base annuale), ora in S, pp. 345-347: 345, 347. Nel testo i nomi propri saranno trascritti secondo la grafia adottata da Leone Ginzburg al momento in cui pubblicò per la prima volta i suoi articoli: fino al 1933, infatti, egli non aveva ancora adottato i criteri di traslitterazione scientifica dell’alfabeto russo che di lı̀ a poco furono recepiti anche dalla Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Gentile. 8 ID., Storia russa recente, «La Cultura», Milano, IX, 8, agosto 1930, pp. 679-686: 681n; ora in S, pp. 52-58: 53 n. 9 L.G ., Maupassant, «La Cultura», Milano, XII, 2, aprile-giugno 1933, pp. 479-482: 480, poi col titolo [«Trenta novelle»], in S, pp. 426-430: 427-428. — 113 — DOMENICO SCARPA la Serna», è solo un fenomeno momentaneo di stabilizzazione culturale. Vent’anni fa tutti i ragazzi del mondo, tranne quelli italiani, leggevano Il richiamo della foresta: da noi il libro giunse, e con grande apparato, solo nel 1924. S’ha da avere il coraggio di riconoscere che, per molti scrittori d’ogni valore, ma tutti di fama europea, il nostro pubblico ha dovuto «mettersi al corrente» con una rapidità che facilitava gli ingorghi. Adesso l’ultimo romanzo di Galsworthy o di Thomas Mann uscirà in italiano un paio d’anni dopo essere uscito in inglese o in tedesco, e il nostro mercato lo assorbirà normalmente.10 Il ragionamento di Ginzburg richiama alla memoria il troppo celebre apologo di Arbasino sulla mancata «gita a Chiasso» della cultura italiana, che a suo modo di vedere l’avrebbe dovuta intraprendere proprio negli anni trenta. L’articolo di Ginzburg (la cui frecciata è rivolta soprattutto a Gian Dàuli, che in quegli anni andava appunto traducendo tutto London e tutto Galsworthy per le collane da lui dirette presso le edizioni di «Modernissima» e del Corbaccio 11) delinea lo stato delle cose nella giusta proporzione, e col giusto aroma d’ironia. Tra l’altro, il brano spiega anticipatamente l’avversione della casa editrice Einaudi (all’epoca non ancora fondata) per le «Opere complete di», fatte salve poche eccezioni. Ma arretriamo di un altro anno, senza lasciare l’argomento-traduzione e tornando anzi su Maupassant; del quale uno scrittore di fama, Marino Moretti, aveva appena tradotto Une vie per la «Biblioteca romantica» diretta da Borgese per le edizioni Mondadori: «Sia detto senza voler offendere nessuno, ma la ‘‘Biblioteca romantica’’ sembra proprio concepita apposta per mettere in una luce ridicola i nostri scrittori viventi che il pubblico stima di più».12 È la chiusa di un articolo della «Cultura», periodico che in quei mesi dedicò svariate recensioni alla collana di Borgese, firmate dai suoi specialisti nelle varie letterature, proprio per segnalare l’inconsistenza di gran parte delle versioni pubblicate in quella collana di scrittori tradotti da scrittori.13 Poco prima, sul10 L. GINZBURG , Ancóra del tradurre, «Pègaso», Milano, IV, 2, febbraio 1932, pp. 234-236: 235, ora in S, pp. 360-363: 362. 11 Gian Dàuli editore, traduttore, critico, romanziere, a cura di M. David e V. Scheiwiller, Milano, Banca Popolare Vicentina - Libri Scheiwiller, 1989. 12 LEONE GINZBURG , Guido di Maupassant, «Una vita», «La Cultura», Milano, X, 10, ottobre 1931, pp. 823-827: 827, poi in S, pp. 415-421: 421. 13 La «Romantica», ideata da Borgese nel 1926, avviò nel 1930, con La Certosa di Parma tradotta da F. Martini, la pubblicazione dei cinquanta volumi previsti dal piano editoriale; fu completata nel 1942. Si veda l’opuscolo Biblioteca romantica diretta da G.A. Borgese, Mondadori, Milano [novembre] 1931. Tra le recensioni e saggi che «La Cultura» dedicò alla collana si vedano in particolare: M. PRAZ, rec. di D. DEFOE, Lady Roxana. L’amante fortunata [trad. it. di G. Biagi, 1930, «Romantica», vol. IV], «La Cultura», Milano-Roma, IX, 1930, pp. 777-781; V. SANTOLI, Un romanziere — 114 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA la stessa testata, Ginzburg bollava il velleitarismo colposo con sei parole in apertura d’articolo: «André Maurois non sa il russo»: 14 eppure André Maurois, scrittore reputato non solo nella sua Francia, dava alle stampe una monografia su Turgenev. Non tutte le note critiche di Ginzburg sono raccolte nel volume dei suoi Scritti, ma questa non è la sede adatta per stendere una bibliografia più completa. Sarà più utile un altro esercizio: leggere in ordine cronologico i suoi testi, senza distinzione di argomento (a differenza cioè di quanto avviene nella loro raccolta, organizzata per sezioni tematiche), e leggerli non dalle pagine di quel volume bensı̀ direttamente dalle riviste e dalle altre pubblicazioni dove apparvero: dal «Baretti», da «La Cultura», da «La Nuova Italia», da «Pègaso», dagli apparati delle opere tradotte e introdotte da lui. Questo ripasso sul filo dei mesi, a volte delle settimane, consente di osservare in progressione la scrittura di Ginzburg: esaminando i suoi criteri di scelta non tanto degli argomenti, quanto dei punti nevralgici su cui si rendeva opportuno un intervento (vedi il brano sulle «opere complete», vedi l’intervento sull’«anima slava» situato al principio della sua attività di russista), prestando ascolto alla vivacità del suo dialogo con una platea di colleghi, di avversari, di interlocutori dislocati nella politica, nell’università, nell’editoria. Una tale rilettura autoptica non vuole avere niente di archeologico. Negli anni 1927-1933 Ginzburg non si dedicò a costruire un canone letterario, né per il passato né per il presente: lo vediamo invece impegnato a testimoniare, articolo dopo articolo, in base alle occasioni che si scelse o gli si offrirono, un metodo di lavoro, una politica editoriale in fieri nella sua opera di recensore e scrittore di storia. Che lui medesimo se ne rendesse conto o meno, la sua opera quotidiana era proiettata nel futuro: nel suo avvenire individuale cosı̀ come nel destino dell’editoria italiana. Appunto questa sua meticolosa aratura del terreno culturale è tale da imprimere, in chi la osservi, la convinzione che Ginzburg stesse dispiegando il proprio talento senza altri limiti che non fossero quelli imposti alla libertà di stampa dal regime fascista: ed erano gli stessi danese. Jens Peter Jacobsen [su Maria Grubbe, trad. it. di G. Gabetti, 1930, «Romantica», vol. V], ivi, pp. 844-855; v.s. [V. SANTOLI], Mörike [rec. di Mozart in viaggio per Praga. La storia della bella Lau. Il tesoro, trad. it. di Tomaso Gnoli, 1930, «Romantica», vol. VI], «La Cultura», Milano, X, 3, marzo 1931, pp. 275-276; v.s. [V. SANTOLI], Goethe [rec. di I dolori del giovane Werther, trad. it. di G.A. Borgese, «Romantica», vol. II], ivi, 5, maggio 1931, pp. 427-428; M. PRAZ, rec. di N. HAWTHORNE, La lettera scarlatta [trad. it. di F.M. Martini, 1931, «Romantica», vol. VIII], ivi, 6, giugno 1931, pp. 492-499; L. GINZBURG, rec. di A. CECOF, Il duello. Tre anni. La corista. Lo studente. Sul mare [trad. it. di L. Kociemski, 1931, «Romantica», vol. IX], ivi, pp. 500-504, ora in S, pp. 315-321. 14 L .G ., Turghénjev in Francia, «La Cultura», Milano, X, 6, giugno 1931, pp. 517-518: 517, ora in S, pp. 178-179: 178. — 115 — DOMENICO SCARPA limiti incontrati da tutta la cultura non-fascista non rassegnata ad abbandonare il proprio paese. Ginzburg seppe agire entro il loro perimetro scegliendo ogni volta il modo migliore per aggirarli, forzarli o sfruttarne le contraddizioni interne: usandoli contro lo scopo per il quale erano stati creati. La sua azione culturale, proprio come la sua azione politica, fu questa leale astuzia dell’intelligenza.15 Non è difficile raccogliere dagli articoli di Ginzburg brevi passaggi che sono altrettante tessere di un metodo coerente, da ricostruire con la tecnica del mosaico. La loro sequenza sarà accompagnata dal minimo possibile di commento. Secondo Ginzburg (possiamo cominciare di qui), la disparità dei giudizi su Gončarov non si spiega limitandosi a comparare i testi critici che lo riguardano: «bisogna rendersene ragione, esaminando la fisionomia storica del Gonciaròv e dell’opera sua: soltanto allora si potrà tentare un giudizio estetico».16 Potrà sembrare un principio banale e non lo era, né in assoluto né tantomeno per quegli anni; in particolare, non era un procedimento scontato per una disciplina ancora instabile quale la slavistica italiana. Appoggiarsi simultaneamente ai testi e al contesto era ragionevole quanto raro a quel tempo, e Ginzburg avrebbe insistito più volte su questo aspetto, sulla costruzione di una cultura di base che valesse anche come un restauro di saperi, opportuno persino a beneficio della madrepatria da cui provenivano i testi d’autore (gli scritti inediti e postumi dei classici russi che si andavano pubblicando nell’Europa occidentale) e i testi critici che li riguardavano. Nel recensire le pagine manoscritte di Turgenev appena stampate a Parigi, Ginzburg punta l’attenzione non sul frisson dell’inedito ma, al contrario, sulla «conferma filologica ch’esse dànno a proposizioni critiche, a cui si giunge con un esame puramente estetico dell’opera del Turghénjev».17 Impiantare il giudizio estetico (la sua conferma, o rettifica, o smentita) sul rigore filologico era, nell’Italia del 1932, un’idea niente affatto scontata. Arretriamo di un altro anno: nel 1931, cinquantenario della morte di Dostoevskij, Ginzburg si accollò il ruolo di calmieratore delle emozioni scomposte: «s’è sentita tropp’aria di ‘‘tragedia’’ in giro, anche per questo cinquantenario: valeva la pena di risalire ai 15 Sull’attività editoriale di Ginzburg segnalo due strumenti indispensabili: S. ADAMO, Leone Ginzburg e le traduzioni dal russo, «Il Risorgimento», LIV, 2, 2002, pp. 231-288; L. BÉGHIN, Da Gobetti a Ginzburg. Diffusione e ricezione della cultura russa nella Torino del primo dopoguerra, Bruxelles-Roma, Institut Historique Belge de Rome, 2007 (in particolare il capitolo «Leone Ginzburg russista», pp. 403-446). 16 L. GINZBURG , Gonciaròv, «La Cultura», Milano, IX, 12, dicembre 1930, pp. 989-999, poi in S, pp. 165-175: 169. 17 L.G ., Turghénjev, «La Cultura», Milano, XI, 4, ottobre-dicembre 1932, pp. 862-864: 863, ora in S, pp. 180-182: 181. — 116 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA documenti».18 Cosı̀ suona la conclusione di uno dei saggi critici più lunghi e argomentati di Ginzburg: il quale appena due mesi prima, nel fascicolo che «La Cultura» dedicava alla ricorrenza affidandogliene la responsabilità, lodò l’«amorosa perizia» di Alfredo Polledro che per la prima volta, e integralmente, traduceva Delitto e castigo dal testo originale.19 Lungo tutto il suo percorso lavorativo Ginzburg vorrà tenere unite la precisione e la grazia nel prodotto editoriale. Non esiste garanzia di riuscita in quest’opera di approssimazione, come si può vedere dalla congiunzione che metterò in corsivo in un passaggio della sua prefazione a La Donna di picche di Puškin; vi si parla della versione francese del racconto firmata da Mérimée, «una versione deliziosa, benché nel complesso fedele».20 Non è un’estetica quella che qui va prendendo forma: sono i princı̀pi di una condotta di lavoro editoriale, basati sullo studio e enunciati via via che li si mette in pratica. Ancora nel 1931, ancora su Dostoevskij e ancora in chiusura di articolo – un articolo che torna, fin dal titolo Un Dostojevskij patetico, a colpire la bestia nera dell’«anima slava» –, Ginzburg registra con sollievo «quanto sia fuor di moda, ormai, mancar di rispetto al lettore».21 2. Al principio degli anni trenta la vera eleganza editoriale non consisteva più nello smerciare traduzioni oltremodo libere (o soltanto approssimative) di classici stranieri, confezionate in collane di pregevole manifattura come la «Romantica» Mondadori, garantite dal nome di uno scrittore come Giuseppe Antonio Borgese (celebre sia quale narratore sia quale studioso delle letterature europee), rese infine appetibili grazie alle firme di autori graditi al pubblico. A dispetto del rapido successo commerciale e della soddisfazione che ne potevano trarre i palati più grossolani, tutto questo retrocedeva nel passato. I tempi erano maturi per imprese nuove. Nel 1932 L’Armata a Cavallo di Isacco Babel – cosı̀ il nome in copertina – fu il primo volume della «Biblioteca Europea» di Frassinelli editore, diretta a Torino da Franco Antonicelli. Tradotto da Renato Poggioli, slavista giovane quanto competente, il libro nasceva da una proposta dello stesso Poggioli 18 L. GINZBURG , Contributo alla celebrazione di Dostojevskij, «Pègaso», Milano, III, 4, aprile 1931, pp. 385-407, ora in S, pp. 201-223: 223. 19 L .G ., Delitto e castigo, «La Cultura», Milano, X, 2, febbraio 1931, p. 195, ora in S, pp. 197198: 197. 20 L. GINZBURG , Prefazione, in A.S. PUŠKIN, La Donna di picche. Racconti, traduzione integrale dal russo con prefazione e note di L. Ginzburg, Torino, Slavia, 1931 («Il genio slavo», n. 22, serie russa, n. 12), in nota a p. x, poi in S, pp. 144-149: 145 n. 21 L .G ., Un Dostojevskij patetico, «La Cultura», Milano, X, 10, ottobre 1931, pp. 835-836: 836, ora in S, pp. 226-227: 227. — 117 — DOMENICO SCARPA che Ginzburg aveva avallato privatamente, sostenendone poi le pubbliche sorti con una recensione sul prestigioso mensile «Pègaso» che Sua Eccellenza Ugo Ojetti dirigeva avvalendosi di Pietro Pancrazi segretario di redazione. Ecco dunque il parere di Ginzburg su Babel’ in versione italiana: «egli può aprire degnamente questa collana, dove sono accolti (e onorati con una veste tipografica di inconsueta, ma sobria eleganza) alcuni classici ottocenteschi e i contemporanei più ricchi di vitalità, scrittori non solo europei, ma tali da suscitare l’attenzione di noi europei».22 È, ancora una volta, la frase conclusiva di un articolo: il cui testo è interamente dedicato a discutere con amichevole puntigliosità la traduzione di Poggioli, arrivando a trasfondere il giudizio critico nella valutazione storicolinguistica di svariati brani dell’opera (a volte inappariscenti, altre volte di importanza essenziale), cosı̀ come Poggioli li aveva resi in italiano. In questa recensione la filologia è filologia fattuale, cosı̀ come la critica è critica culturale: entrambe le discipline poggiano su un piano di concreta umiltà prima di protendersi a tracciare l’arco panoramico dell’«attenzione di noi europei». Anno 1932: da poco più di un decennio era attiva in Italia una generazione di slavisti nati al principio degli anni novanta dell’Ottocento, ormai pienamente maturi: Ettore Lo Gatto, Giovanni Maver, Alfredo Polledro, per nominare i maggiori. L’ultimo dei tre non era un accademico di professione bensı̀ un avvocato dotato dei talenti dell’editore e del traduttore, grazie ai quali poté fondare a Torino, nel gennaio 1926, la Slavia, le cui collezioni portanti furono «Il genio russo» e poi «Il genio slavo».23 In virtù del magistero di questi precursori, e più ancora grazie alla passione dell’autodidatta, si affacciarono pochi anni dopo in letteratura alcuni uomini nuovi, più giovani di quindici-vent’anni: Tommaso Landolfi, Renato Poggioli e lo stesso Ginzburg, l’unico per il quale il russo fosse lingua madre: ma di un paese dove aveva trascorso solo la prima infanzia. È un’ovvietà, da ripetere però con energia: occorreva fondare una slavistica italiana e moderna, fondata a sua volta sulla cognizione diretta dei testi originali e della cultura da cui giungevano. Una conseguenza meno banale di questa situazione era la necessità di rifare i lavori malfatti: le traduzioni da mediocri a pessime di testi mutilati o manipolati senza riguardo, condotte non sugli originali bensı̀ su altre traduzioni il più delle volte francesi. Per 22 L. GINZBURG , Isacco Babel, «L’armata a cavallo», «Pègaso», Milano, IV, 10, ottobre 1932, pp. 504-506: 506, ora in S, pp. 338-340: 340. 23 Slavia. Catalogo storico, a cura di L. Béghin e F. Rocci, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2009. Si veda anche S. ADAMO, La casa editrice Slavia, in Editori e lettori. La produzione libraria in Italia nella prima metà del Novecento, a cura di L. Finocchi e A. Gigli Marchetti, Milano, Angeli, 2000, pp. 53-98. — 118 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA poco meno di dieci anni la Slavia di Polledro si dedicò a questo compito, cui parteciparono (salvo Maver) tutti i migliori slavisti, esperti o brillanti neofiti che fossero. Benché molti articoli di Leone Ginzburg si presentino come recensioni, si può notare che una parte cospicua di essi consiste in un vero e proprio rifacimento del lavoro altrui basato su un’informazione più solida. In parecchi casi Ginzburg emerge da questi brevi saggi come il curatore putativo dell’opera sottoposta al suo collaudo: l’esplicatore più attendibile del testo, il revisore della sua traduzione italiana. Fin quando non fu incarcerato, Ginzburg ebbe la fortuna di disporre di riviste consentanee, adeguate a ospitare lavori dall’aperto respiro tecnico. Quando, alla fine della sua detenzione nel marzo 1936, gli fu proibito pubblicare su giornali e riviste, mentre le ristrettezze di un clima culturale che si confinava progressivamente nell’autarchia sfoltivano la varietà delle testate, quando infine le leggi razziali gli impedirono di firmare alcunché col proprio nome (la sua edizione dei Canti di Leopardi fu stampata da Laterza appena in tempo – febbraio 1938 – con indicazione del curatore in copertina), Leone Ginzburg trovò il modo di proseguire il lavoro senza più mediazioni: la casa editrice Einaudi, che fondò nel 1933 col suo amico Giulio, gli consentı̀ di progettare e di fare anziché limitarsi a giudicare e correggere. «Libri per tutti, a prezzi popolari, magistralmente tradotti, presentati con vigile eleganza». Fu questo lo slogan della nuova collana Einaudi «Narratori stranieri tradotti», inaugurata nell’estate 1938 con I dolori del giovane Werther di Goethe nella traduzione di Alberto Spaini. Lo slogan era stampato sul secondo risvolto della sovraccoperta, ossia in terza di copertina. Immediatamente di seguito erano annunciati i volumi successivi, con i nomi dei rispettivi traduttori in grande evidenza: Cesare Pavese per Tre esistenze di Gertrude Stein, per Moll Flanders e per David Copperfield, Ettore Lo Gatto per Oblòmov (rilevato dalla Slavia che aveva ormai cessato l’attività), Enzo Giachino per Cosı̀ muore la carne di Butler, Luigi Berti per Henry Esmond di Thackeray. E appunto una lettera del 4 ottobre 1937 indirizzata a Berti – firmata dall’editore Giulio Einaudi ma scritta con ogni probabilità da Ginzburg – descriveva il senso della collana in preparazione: La mia collezione si propone di presentare al nostro pubblico narratori insigni, e opere di sicura diffusione presso le persone intelligenti, cominciando da Werther per finire con Du côté de chez Swann.24 24 Trascrivo direttamente questa lettera dall’Archivio Einaudi, in deposito presso l’Archivio di Stato di Torino, incart. Berti, Luigi. Ma si leggano anche le citazioni da (e le considerazioni su) que- — 119 — DOMENICO SCARPA Il programma abbracciava quello che dalla prospettiva di oggi si può definire il secolo lunghissimo del romanzo. Non solo del romanzo europeo, come testimonia la presenza di Gertrude Stein, primo narratore contemporaneo stampato da Einaudi.25 Le case editrici Slavia e Frassinelli avevano preparato il terreno a questo risultato. Alla prima Ginzburg aveva partecipato a pieno titolo avendo tradotto, prima dei suoi vent’anni, Taràs Bùlba di Gogol’ e Anna Karénina di Tolstòj, più tardi La Donna di picche di Puškin. Aveva seguito in modo defilato la «Biblioteca Europea» di Frassinelli-Antonicelli, ma (lo si è visto) premurandosi di avvertire i lettori che essa ospitava anche opere non europee: prime fra tutte, gli Anderson e i Melville nelle versioni del suo amico Pavese. Grazie a questi precedenti la nuova collana Einaudi poteva scegliersi un’insegna semplicissima, «Narratori stranieri tradotti»: la narrativa straniera aboliva i confini e si presentava indivisa al pubblico italiano. Giulio Einaudi aveva chiesto a Francesco Menzio di disegnare, con levità di segno grafico, tutte le sovraccoperte; in più, ciascun volume della collana recava nel controfrontespizio un ritratto dell’autore in bianco e nero, un riquadro incollato alla pagina: per quel primo Goethe si era scelta «una sanguigna di Kraus, 1776». Dunque, autori traduttori e pittori comparivano tutti con le loro firme, e il nome del traduttore (come già nelle collane Slavia e Frassinelli) figurava sul frontespizio. Viceversa, la presenza di Leone Ginzburg, ideatore della collana, non si segnalava apertamente; ma aveva lasciato la sua firma morale nella «vigile eleganza» che suggellava la presentazione dei «Narratori». A una eleganza di qualità vigile si richiedeva non solo attenzione assoluta ma anche una quota di diffidenza rispetto a sé medesima, un autocontrollo estetico-economico che non le consentisse alcun eccesso. Anche sotto questo aspetto l’idea della nuova collana si discostava da quella avviata da Carlo Frassinelli sei anni prima. Da Berti a Enzo Giachino, da Pavese a Spaini a Lo Gatto allo stesso Ginzburg, le persone che avevano collaborato all’una e all’altra impresa (e prima ancora, per quanto riguarda i due slavisti a fine elenco, a Slavia) erano esattamente le stesse: ma nei «Narratori stranieri tradotti» assumevano una postura intellettuale differente. Per esempio, la scelta del Werther per inaugurare la prima collana letteraria di un editore impegnato fino a quel momento solo nella saggistica poteva apparire banale se non superflua: a che scopo offrire al pubblico l’ennesima traduzione italiana di un classico dalla fama proverbiale? sto documento dovute a L. MANGONI nella sua Prefazione a S, p. xxx, e in Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 31. 25 Autobiografia di Alice Toklas usciva nei «Saggi» già nel 1938, tradotto anch’esso da Pavese, il finito di stampare di Tre esistenze è del 10 gennaio 1940. — 120 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA Perché non presentarsi accentuando la novità, inaugurando magari la collana con Gertrude Stein? Il primo a muovere l’obiezione fu proprio il traduttore designato per il Werther, Alberto Spaini, che cosı̀ scriveva a Einaudi il 6 agosto 1937 con una velocità tale da travolgere gli accordi di genere e numero: Ma ho ripensato a questo progetto di tradurre il Werther, e veramente mi persuade poco. L’ho anche riletto con cura in questi giorni, e lo trovo veramente un libro inattuale e, soprattutto, cosı̀ poco goethiano. Goethe stesso si è mostrato cosı̀ ingrato verso questo suo figlio che gli aveva dato la gloria, e per cinquant’anni non ha fatto altro che metterlo in caricatura. È cosı̀ esclamativo! Non so se noi, lettori convinti di Proust, riusciremmo a trovare lo slancio necessario a tradurre quei suoi periodi sospirosi... Sto pensando perciò se non sarebbe molto più opportuno e vicino al nostro spirito una traduzione, per esempio, dei Wanderjahre, che, fra le altre, non sono mai stati tradotti in italiano integralmente. E questa traduzione la farei veramente molto volentieri. Ci pensi un po’ su.26 Spaini dunque vedeva il Werther in contraddizione con l’autore che nella lettera di Einaudi-Ginzburg a Berti figurava come approdo ideale della collana; pure, da germanista e traduttore autorevole qual era, la sua proposta alternativa era sensata. Ginzburg (anche qui è ragionevolmente certo che fosse lui a rispondergli, tre giorni dopo, a nome dell’editore) l’approvò, ma aggiungendo una di quelle domande di sondaggio con cui metteva alla prova gli interlocutori. Nel proporLe di tradurre il Werther per la mia collezione pensavo soprattutto alla fedeltà inalterabile del pubblico di tutt’i paesi per questo libro, ch’Ella tratta forse troppo crudelmente. Ma se ai Wanderjahre (a proposito, come tradurrebbe Lei questo titolo?) Ella si metterebbe volentieri, io non ho nulla in contrario ad affidarglieli. La fine dell’anno 1937 come termine di consegna, proposto da Ginzburg nella stessa lettera, indusse Spaini (24 agosto, lettera manoscritta) a una elaborata retromarcia. I Wanderjahre – la proposta per il titolo fu I viaggi di Wilhelm Meister – gli avrebbero richiesto ben più di quattro mesi di lavoro, laddove nel rimanente scorcio di stagione estiva avrebbe potuto preparare la traduzione del Werther, per poi rivederla attentamente nei mesi successivi. Uscı̀ dunque, nella traduzione e con prefazione di Spaini, il Werther: la cui sovraccoperta firmata da Menzio semplificava al massimo l’offerta editoriale, dato che la grafica riportava unicamente: Goethe / Werther più il cognome 26 Archivio Einaudi, incart. Spaini Alberto. Le prime due lettere citate sono dattiloscritte. — 121 — DOMENICO SCARPA dell’editore giù in esergo, laddove il frontespizio del volume forniva il titolo completo. Lo schema fu mantenuto nei numeri successivi della collana, i cui manufatti si presentavano essenziali e accattivanti nella confezione esterna, curati con scrupolo appena il lettore li scoperchiasse. Einaudi e Ginzburg chiedevano ai collaboratori prefazioni cordiali ma rapide, asciutte e, sopra ogni altra cosa, informative. La nuova collana intendeva sottrarre classici anche notissimi, come appunto il Werther, alla vulgata critica che ne aveva per lungo tempo imbolsito la ricezione, cosı̀ da proporli a un pubblico vasto, da abituare a un nutrimento intellettuale di buona qualità offerto a prezzo contenuto. Il Werther costava solo 6 Lire in quella prima edizione, grazie anche alla sua brevità. Quanto al risvolto del Werther, certamente dovuto anch’esso a Ginzburg, convogliava in poche righe i caratteri del nuovo stile Einaudi: Per gustare questo libro non occorre nessuno sforzo di preparazione culturale: esso ha fermato e reso in forma limpida e immediata uno dei momenti eterni dell’anima umana: l’aspirazione a far dell’amore una religione per la quale è lecito sacrificare anche la vita. La ribellione romantica che tende a sollevare l’uomo oltre la mediocrità e i compromessi dell’esistenza trovò in Werther uno dei suoi primi forsennati campioni. Questo tutti lo sanno, ma non tutti sanno che nel breve romanzo è raffigurato un piccolo mondo, perfetto nelle sue proporzioni: una idillica società settecentesca di giardini e di gioventù, di saggi conversari e di pace campestre, di patriarcale saggezza e cittadine urbanità. Su questo sfondo si erge Werther, ribelle e invasato. Il lettore s’accorge con sorpresa che nessuna delle innumerevoli incarnazioni ottocentesche del mito di Amore e Morte raggiunse più il miracoloso equilibrio e la grazia perfetta della giovanile opera di Goethe. Anche questa presentazione mostra un equilibrio che si direbbe irripetibile: corregge in anticipo il tono, a tratti riduttivo, della prefazione di Spaini (il quale vi sviluppa, sia pure sfumandole, alcune considerazioni della sua lettera d’apertura a Giulio Einaudi), e propone una lettura tanto semplice quanto nuova di un romanzo ‘che tutti conoscono’, smorzando fin dalle prime parole il possibile insorgere d’ansia che al lettore medio ispira l’alta cultura. In questo atteggiamento consiste forse la differenza rispetto alla «Biblioteca Europea» di Frassinelli: che si presentava come iniziativa all’avanguardia, audace, rivolta a un pubblico ampio ma selezionato, con un ammicco di compiacimento nella confezione editoriale progettata da un grafico eccelso – l’editore Carlo Frassinelli 27 in persona – e nelle illustrazioni di Mario Sturani sulle copertine. Nel27 Mi limito a rinviare al suo Trattato di architettura tipografica (Torino, Frassinelli, 1941, ma finito di stampare il 25 dicembre 1940), che si può leggere anche come un romanzo autobiografico di formazione. — 122 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA la stessa città le edizioni Einaudi sceglievano un approccio diverso: identica (se possibile, anzi, più alta) qualità dei prodotti, prezzi più abbordabili, approccio incoraggiante verso il pubblico – ma senza smancerie o paternalismo. Ginzburg era ben sperimentato in questo genere di pedagogia amichevole e di polso fermo, perfino sottilmente astuta nel proporsi: fin da quando, con le note a piè pagina che corredavano le sue traduzioni dal russo, introduceva i lettori italiani a una civiltà di cui ignoravano tutto: a poco a poco, con discrezione, senza una parola di troppo ma con il necessario d’informazione ogni volta, il lettore si vedeva accolto in un mondo nuovo con la grata sorpresa di sapersi orientare. A riprova basti sfogliare i quattro volumi della sua Anna Karénina usciti da Slavia nel 1929. Ai lettori italiani Ginzburg spiegava la pronuncia delle parole russe e l’origine di alcuni termini-chiave, le flessioni dei nomi e dei patronimici, i proverbi e le espressioni idiomatiche, le unità di misura e i gradi della burocrazia, la preparazione delle pietanze, gli indumenti, la geografia, la maniera di deformare le espressioni tedesche o francesi presso le varie classi sociali, persino la più accentuata volgarità, in russo, di una parola come «amante» rispetto alla lingua italiana. Il senso culturale di questa sua traduzione – e dello stesso marchio editoriale Slavia, cosı̀ come della migliore slavistica italiana del tempo – trova una sintesi nella nota alla pagina 37 del primo volume, là dove Stepàn Arkàdievic Oblònskij chiede all’amico Konstantı̀n Lévin: «Com’è che dicevi che non ti saresti mai più messo un vestito europeo?» Nota di Ginzburg, a piè pagina: «I russi contrappongono volentieri quello che è veramente loro, nazionale, alle espressioni di vita dei popoli occidentali, cui riserbano il nome di europei». Per quanto dipendesse da lui e da Slavia, Ginzburg si proponeva di colmare la distanza culturale: perché, a oltre cinquant’anni dall’apparizione di quel romanzo, la Russia era ormai una regione dell’Europa e come tale andava restituita ai lettori italiani. Sotto l’aspetto propriamente intellettuale consisteva in questa operosità ampia e minuziosa la cura dell’oggetto-libro da parte di Ginzburg; ma (e tornando alla casa editrice Einaudi) la sua fattura materiale aveva altrettanta importanza. I cataloghi antiquari che oggi mettono in vendita le prime edizioni del Werther o degli altri volumi inaugurali dei «Narratori stranieri tradotti» avvertono il potenziale acquirente che il volume è (quando lo è) in ottimo stato, ma la carta è ingiallita. Ora, questo è solo in parte un effetto del tempo: la carta aveva già quel tono appena giunta in libreria. Giulio Einaudi – questa volta la voce e la responsabilità dello scritto sono proprio sue – aveva voluto esattamente cosı̀ i libri della collana, per ragioni che fanno trascendere l’economia politica in politica culturale. Ecco la sua risposta a un lettore qualificato come Arrigo Cajumi – già collaboratore di Gobetti e poi della «Cultura», anche nell’ultima serie col marchio dello Struzzo – che il 21 luglio 1938 obiettava — 123 — DOMENICO SCARPA sul tono «molto popolare» delle prefazioni: e su altro ancora. Einaudi gli rispose il primo agosto. Lei ha ragione a dire che i nostri volumi hanno prefazioni ‘popolari’, ma essi vogliono raggiungere appunto un vasto pubblico, oltre quello solito dei raffinati [...] Quanto al formato, pensi che voglio far stare in un volume libri come l’«Idiota», senza dover usare, per mettere della carta sottile, una carta di lusso (tipo Oxford), e d’altra parte senza cadere nella carta tipo Barion. Il color salmone copre il grigio sporco dell’impasto scadente, e dà un certo tono al libro. Il titolo sbiancato, se risalta meno in vetrina, ha una certa naturale fosforescenza, che non è di cattivo gusto quando è su un tavolino a casa. Del resto quello che lei desidera lo fa già Mondadori nella «Romantica», ma i volumi sono più cari. Avrei dovuto allora imitare Salani? Almeno cosı̀ si vede che si tratta di edizioni Einaudi.28 Difficile addurre un documento che meglio di questa lettera dia testimonianza che la casa editrice Einaudi fu fondata insieme – agita insieme – da Giulio Einaudi e da Leone Ginzburg. Per esprimersi con il lessico dell’arte contemporanea bisognerebbe forse parlare di action publishing; ma un’impresa del genere non tollera anacronismi perché deve badare al listino prezzi della carta e ai cataloghi della concorrenza prima di mettere un’opera in cantiere: e prima di rifinirla in ogni dettaglio, anche se il prezzo di copertina del volume inaugurale sarà fissato a sole 6 Lire; proprio per quello, anzi. «Vigile eleganza» è la bussola che governa l’iter produttivo dal principio alla fine negli aspetti materiali e immateriali: che marca il suo scostamento dall’eleganza di superficie della «Romantica» Mondadori (frutto delle economie di scala su cui può contare una grande industria) cosı̀ come dall’eleganza preziosa che contrassegna l’oggetto-libro disegnato da Frassinelli. I volumi dei «Narratori stranieri tradotti» furono prodotti popolari realizzati da menti e mani aristocratiche. La collana fu lanciata al principio dell’estate 1938 con tre opere appartenenti a tre diverse letterature: il Werther di Spaini, il Defoe di Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders curato da Pavese, Oblòmov di Ivan Gonciaròv rilevato dalla Slavia e tradotto a suo tempo da Lo Gatto.29 Nel 1933, in uno degli ultimi articoli che poté pubblicare con 28 Cito il botta-e-risposta fra Arrigo Cajumi e Giulio Einaudi da L. MANGONI , Pensare i libri cit., p. 31. In nota si afferma che ambedue le lettere provengono da AE, incart. Cajumi, dove però non le ho ritrovate. 29 I primi due volumi della collana recano un finito di stampare al 30 giugno; il terzo, Oblòmov, che non era una novità editoriale avendo avuto il privilegio di inaugurare nel 1928 la collana «Il genio slavo» di Slavia, fu contrassegnato col numero 3 benché terminato in anticipo, il 6 giugno. Il nulla osta prefettizio alla «diffusione e vendita» dei tre volumi è invece datato 9 luglio 1938-XVI. Il prezzo di copertina fu di Lire 15 per il Defoe (293 pagine), di Lire 20 per il Gonciaròv (507 pagine). — 124 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA il suo nome, Ginzburg aveva deplorato nella versione della commedia di Griboedov La disgrazia di essere intelligente firmata da Leone Pacini Savoj, «una certa sua appariscente disinvoltura»: 30 l’opposto della «vigile eleganza» che avrebbe enunciato e perseguito più tardi. A sé stesso, ai suoi collaboratori, Ginzburg chiedeva una vigilanza la cui caratura era la medesima che aveva indotto uno dei suoi maestri, Benedetto Croce, a tenere per oltre quarant’anni dei «taccuini di lavoro»: un rendiconto giornaliero, assai stringato, dell’opera svolta. Croce lasciò scritto di aver tenuto quel diario fattuale per «invigilare» sé stesso.31 3. Nell’autunno 1933 Leone Ginzburg era cittadino italiano da meno di due anni, libero docente di letteratura russa all’università di Torino da meno di uno.32 In febbraio aveva dedicato a Puškin la prolusione del suo primo corso, in un’aula affollata di amici e studenti. Pochi mesi più tardi, al principio del nuovo anno accademico, era pronto a rinunciare alla propria carriera: il regime fascista obbligava anche i liberi docenti al giuramento di fedeltà già previsto per i professori. Dopo aver comunicato di non essere disposto ad accettare per il suo insegnamento «condizioni se non tecniche e scientifiche»,33 Ginzburg fu dispensato dal servizio. Sempre nel ’33, il 15 novembre, si costi30 L. GINZBURG , A.S. Gribojèdov, «La disgrazia di essere intelligente», «La Cultura», Milano, XII, 2, aprile-giugno 1933, pp. 447-453: 448, poi in S, pp. 135-143: 136. 31 Dedicati «Alle mie figliuole», i Taccuini di lavoro di Croce furono incominciati il 27 maggio 1906 e conclusi con una nota riepilogativa datata 3 luglio 1950. Occupano sei volumi, stampati fuori commercio in Napoli, Arte tipografica, 1987, ma messi in circolazione cinque anni più tardi. In vita, Croce ne pubblicò solo la parte relativa al periodo 25 luglio 1943-8 giugno 1944: Quando l’Italia era tagliata in due. Estratto di un diario (luglio 1943-giugno 1944), Bari, Laterza, 1948. La raccolta di quelle note, prolungata fino al 31 dicembre 1945, è stata ripresa col titolo Taccuini di guerra 1943-1945, a cura di C. Cassani e con un saggio di P. Craveri, Milano, Adelphi, 2004. Sui Taccuini è da vedere lo studio di G. SASSO, Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989. La nota dove compare questa espressione forte è un brano riepilogativo e autoriflessivo, un amaro afterthought posto, tra parentesi quadre, di séguito all’appunto del 31 gennaio 1939: «Quantunque questi taccuini siano stati da me, ormai da trentatre anni, iniziati e proseguiti al solo fine di segnare i lavori che andavo componendo, e quasi d’invigilare me stesso per l’utile distribuzione delle mie giornate, – e perciò mi sia astenuto dal notare miei pensieri e sentimenti, che mi avrebbero portato ad altra sorta di diario: – voglio dire oggi che da più mesi la vita mi si è fatta, assai più che già non fosse, triste e pesante, e più frequentemente di prima debbo raccogliermi a meditare la condizione in cui mi trovo, ed esortare e sforzare me stesso a continuare l’opera mia». B. CROCE, Taccuini di lavoro 1937-1943, ed. cit., p. 127. 32 Il Regio Decreto che gli concedeva la cittadinanza era dell’8 ottobre 1931, mentre la libera docenza gli era stata attribuita in data 21 dicembre 1932. 33 La lettera (8 gennaio 1934) era indirizzata al preside di facoltà Ferdinando Neri, già relatore nel dicembre 1931 della sua tesi di laurea su Maupassant. È trascritta nella Cronologia di S, in nota alla p. LXXI; una riproduzione fotografica era apparsa nel ventennale della scomparsa di Ginzburg («Resistenza. Giustizia e libertà», Torino, XVIII, 2, febbraio 1964, p. 5). — 125 — DOMENICO SCARPA tuı̀ la ditta «Giulio Einaudi, editore» (la virgola tra il nome e la qualifica avrebbe figurato per anni sul frontespizio dei suoi volumi). L’iniziativa di avviare la nuova impresa era dovuta in gran parte a Leone, il quale non poteva prevedere che un giorno sarebbe stata il suo lavoro principale. Poche settimane prima, il 7 ottobre, cosı̀ scriveva a Croce: «sempre più mi convinco, che alla gente troppo pronta alle false generalizzazioni sulla Russia e la sua cultura, si debbano dare testi, oltre che saggi critici».34 L’argomento era il filosofo Pëtr Jakovlevič Čaadaev, la frase una sintesi dei princı̀pi scientifico-operativi di Ginzburg: un’asserzione da editore altrettanto che da studioso. Gliene va affiancata un’altra ugualmente breve, che riguarda le narrazioni ‘minori’ di Puškin da lui raccolte nel volume La Donna di picche: «ricercandone l’origine c’è modo di chiarire anche la natura di queste prose».35 Con il lavoro sui testi scandito da degnità di metodo come queste, Ginzburg suggeriva che ogni seria indagine storico-filologica finisce per convertirsi in lettura critico-estetica, in esegesi. Ampliare la base fattuale delle conoscenze vuol dire porsi nella condizione migliore per ripensare un giudizio di merito. Tra filologia e critica si attiva una continuità che si risolve in circolarità, reversibile sempre e sempre in progresso. Esprimeva già queste idee, sul finire del 1931, l’epigrafe del saggio introduttivo alla Donna di picche,36 forse il testo inaugurale di un Ginzburg pienamente maturo come slavista.37 È un motto dello stesso Puškin, «I traduttori sono i cavalli di ricambio della cultura»; dargli rilievo fu un implicito gesto di orgoglio che non trova altro riscontro nei suoi scritti. Ma a ben vedere non si trattò di orgoglio. Il traduttore, anzi il traduttore-curatore, si dichiarava al servizio del testo. Gli avrebbe fatto superare le distanze con impeto, velocità e stile, per poi scomparire nel risultato del lavoro, nel proprio ruolo di vettore. E davvero le pagine di Ginzburg sembrano emettere la voce stessa dei fatti oggettivi, inalterabili perché oggettivi. Questa particolare tonalità andrà interrogata, essendo a sua volta una professione di metodo. Rispetto alla critica del suo tempo (letteraria, storiografica, politica) Leone Ginzburg si mantenne svincolato e spregiudicato. Non la ignorò, al contrario LC, p. 303. A.S. PUŠKIN, La Donna di picche, cit., p. VIII, ora in S, p. 144. 36 La collana «Il genio slavo» prevedeva in ciascun volume la presenza di un saggio introduttivo, a differenza di quanto avveniva con la collezione fondante di Slavia «Il genio russo», dedicata alle opere di Tolstòj, Dostoevskij, Turgenev, Gogol’ e Čechov. 37 La Donna di picche reca la data 1931 in frontespizio, senza indicazioni sul finito di stampare: fu il penultimo volume del «Genio slavo» per quell’annata. Il catalogo storico Slavia curato da Béghin e Rocci lo assegna erroneamente al 1932 (cfr. p. 139); lo stesso sbaglio commette Renato Poggioli nella sua recensione, definendolo un «bel dono d’anno nuovo» e indicando 1932 nei dati bibliografici, cfr. In margine alla prosa di Puskin, «Solaria», VII, 1, gennaio 1932, pp. 43-50. 34 35 — 126 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA la conobbe a fondo; ma nessuna corrente incontrò il suo consenso pieno, e di ciascuna tenne conto innanzitutto per rilevarne gli errori di fatto o di interpretazione, e più ancora le aporie interne, i partiti presi, le deformazioni della realtà indotte dal dogmatismo di scuola. Con questo assetto si apri una sua strada, spesso attraverso terreni non dissodati. Ginzburg era sempre pronto a rinviare l’indagine intorno ai fatti per risalire innanzitutto, in linea diretta, ai fatti stessi: ai testi. Prima che a interpretare s’impegnò a leggere: con il soccorso della filologia e della storia, con il vantaggio di poter fruire i classici nei rispettivi originali, con l’onestà intellettuale che gli permetteva di considerarli iuxta propria principia. L’ipotesi da cui partivo è che Ginzburg non sia stato un talento incompiuto: che al contrario sia riuscito a dispiegare le sue doti malgrado i limiti obbiettivi che gli vennero imposti. Qui va introdotta una notevole eccezione: Ginzburg non occupa il posto che gli spetterebbe nella storia della filologia testuale italiana del novecento. Il suo apporto alla disciplina fu decisivo, ma il passaggio della storia ne ha cancellato i segni: ha disperso i suoi manoscritti e gran parte degli scambi epistolari e degli archivi editoriali che potrebbero documentarcene il lavoro, e cosı̀ pure le tracce, volatili per natura, di molte relazioni professionali. «Questi erano i dui figli d’Oliviero, Grifone il bianco et Aquilante il nero»: è il distico che chiude l’ottava 67 nel canto XV dell’Orlando furioso. Lo riporta Franco Antonicelli spiegando che lui e Ginzburg si erano spartiti quei soprannomi, Grifone e Aquilante, corrispondenti alle loro carnagioni.38 Con lo pseudonimo «Aquilante» Ginzburg firmò una recensione al «memorando volume» che ha innovato radicalmente, in Italia, la filologia delle varianti d’autore: il saggio con cui il suo maestro Santorre Debenedetti pubblicava in edizione critica I frammenti autografi dell’Orlando furioso.39 L’articolo apparve il 4 giugno 1937 sul quotidiano genovese «Il Lavoro»: ricorrere a un nome di copertura fu l’unica via per stamparlo: scarcerato da poco più di un anno, Ginzburg rimaneva un vigilato speciale 40 con obblighi e divieti. 38 F. ANTONICELLI , Aquilante, «L’Opinione», Torino, 5 febbraio 1946, cit. da Luisa Mangoni nella nota alla lettera di cui sopra, LC, p. 209. Il Furioso viene citato nella lezione stabilita da Cesare Segre: Milano, Mondadori, 1976, p. 339 [I edizione: L. ARIOSTO, Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e del 1521, a cura di Santorre Debenedetti e Cesare Segre, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1960]. 39 I frammenti autografi dell’Orlando furioso, a cura di Santorre Debenedetti, Torino, Chiantore, 1937. Una ristampa anastatica, con premessa di Cesare Segre, è apparsa presso le Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010. Lo studio di Debenedetti fu il volume inaugurale per la collana del «Giornale storico della letteratura italiana. Testi inediti o rari». 40 L’articolo I frammenti autografi dell’«Orlando furioso» è ora raccolto in S, pp. 433-437. — 127 — DOMENICO SCARPA A quel tempo Debenedetti era professore ordinario di Lingue e letterature neolatine all’università di Torino. In questo ruolo aveva conosciuto Leone Ginzburg. Nel 1933 la stima per l’allievo lo aveva indotto a finanziare con centomila lire di allora la casa editrice da lui fondata con Giulio Einaudi.41 Dopo la parentesi carceraria di Ginzburg i loro rapporti ripresero, probabilmente più intensi e solidali: anche perché nel 1938 Debenedetti veniva a sua volta estromesso dall’insegnamento in forza delle leggi antiebraiche. Il dialogo con Debenedetti – paritario e affettuoso come tutte le relazioni di Ginzburg con i propri maestri, ma movimentato da un’ironia che non escludeva toni bruschi – avrebbe poi attraversato l’intero suo soggiorno a Pı̀zzoli come internato civile di guerra, dal giugno 1940 ai primi di agosto 1943: con un gusto dell’intrattenersi in conversazione che rende unica quella confidenza epistolare. Nei Frammenti Debenedetti era arrivato a ricostruire, rendendole lampanti per ogni lettore di buona volontà, alcune fasi dei processi compositivi che condussero Ariosto alla terza e definitiva redazione del Furioso (1532) che rappresenta, rispetto alle stesure del 1516 e 1521, «quasi un’opera nuova, sia per la dizione, ormai ripulita d’ogni più lieve macchia e già dai primi versi trasfigurata, sia per la mole e l’architettura».42 L’osservazione si legge nella prima parte dell’Introduzione, dedicata alla «Descrizione e ordinamento dei manoscritti». Nella recensione del «Lavoro» l’ammirazione dell’allievo Aquilante-Ginzburg si concentrò sul fatto che un acquisto scientifico cosı̀ raro si fondasse su un riordino di materiali: Debenedetti aveva saputo collocare nella giusta sequenza alcune serie di carte autografe che erano note agli eruditi da almeno due secoli, ma che fino a quel momento erano state trascurate, o considerate un rompicapo insolubile: il Debenedetti s’è avvisto per primo di questa forma aurorale della poesia ariostesca, e vi s’è accostato con trepidante discrezione. [...] Alla critica ariostesca questi materiali, se finalmente essa li degnerà d’uno sguardo, forniranno in ogni tempo esempi, appunto, preziosi e illuminanti di incontentabilità artistica e di paziente raggiungimento dell’espressione poetica; e saranno magari il presupposto filologico di nuove stupende intuizioni interpretative: tuttavia, a condizione che si adoperino con la medesima cauta delicatezza.43 41 S. CESARI , Conversazione con Giulio Einaudi, Roma-Napoli, Theoria, [ottobre] 1991, pp. 21-23. 42 I frammenti autografi dell’Orlando furioso, ristampa anastatica cit., p. XIII . 43 AQUILANTE [Leone Ginzburg], I frammenti autografi dell’«Orlando Furioso» cit., in S, pp. 434, 436-437. — 128 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA Nel campo degli affetti intellettuali la «trepidante discrezione» e la «cauta delicatezza» accreditate al maestro equivalgono alla «vigile eleganza» perseguita dall’allievo. Entrambe si attuano in un lavoro manuale prima ancora che scientifico, in un gioco di pazienza. L’interpretazione critica potrà venire più tardi, suscitata dalle novità testuali già messe in ordine materialmente – anzi, alla lettera, spiegate: perché Debenedetti aveva saputo ricostruire le sequenze dei gruppi di ottave abbozzati da Ludovico Ariosto su carte che l’autore, quattro secoli prima, aveva ripiegate più volte su sé stesse. Ciò che contava era dunque il testo, ricondotto alla novità (e all’ingannevole semplicità) della sua evidenza. Per questi motivi la recensione dedicata da Ginzburg ai Frammenti del Furioso si può considerare il primo annuncio di una collezione einaudiana, la «Nuova raccolta di classici italiani annotati», che due anni più tardi e sotto la direzione di Debenedetti si sarebbe aperta con un commento alle Rime di Dante a cura di Gianfranco Contini.44 La «Nuova raccolta» non era una collana filologica. Ai curatori non era richiesto di stabilire un nuovo testo critico, bensı̀ di adottare il più attendibile tra quelli esistenti. L’impronta della filologia sarebbe stata evidente, invece, nel modo di presentarlo al pubblico. Stese in collaborazione da Debenedetti e Ginzburg, le Note per i collaboratori prescrivevano di offrire al lettore «quelle sole notizie e quei chiarimenti, che mettano in confidenza con l’opera e la facciano leggere nel modo più utile, superando senza troppo parere gli ostacoli che le diversità storiche di linguaggio o in genere di cultura possono e debbono frapporre». Senza troppo parere: cioè con discrezione, senza sovrabbondanza di nozioni ma senza voler dissimulare la difficoltà dei classici, che «possono e debbono» ostacolare, a distanza di secoli, una comprensione immediata. L’apparato di ciascun volume della «Nuova raccolta» prevedeva un’introduzione asciutta e informativa, come già nei «Narratori stranieri tradotti». A fine volume un’«appendice critica» avrebbe esposto lo stato attuale del dibattito, delle ricerche, della fortuna d’autore. Ma a caratterizzare la «Nuova raccolta» dovevano essere le note: dallo stile diverso rispetto agli usi correnti, e in tacita polemica con essi. Le note al testo non dovrebbero accompagnare d’obbligo ogni pagina, ma piuttosto ogni punto oscuro, ogni allusione ovvia per l’autore commentato e magari invece solo parzialmente per il lettore: servendo a ricostruire il valore del testo nella sua 44 pp. Sul progetto della «Nuova raccolta» si vedano la Prefazione di L. Mangoni a S (in particolare, e, della stessa, Pensare i libri cit., pp. 26-29. XXXI-XXXIII) — 129 — DOMENICO SCARPA integrità, col tono di chi richiama alla memoria quello che può esserle momentaneamente sfuggito, e non con l’aria di far lezione a qualcuno; e tanto meno avrebbero da rinviare scortesemente ad altri libri per avere spiegazioni, che sono sempre da dare se necessarie, da omettere se superflue.45 Per Debenedetti e Ginzburg il commento ideale doveva essere una sintesi ricostruttiva del testo a beneficio del lettore. Non una cattedra virtuale da cui riversare la propria erudizione, tantomeno un proscenio da cui effondere sensibilità. Il giudizio estetico era da riassorbirsi nella presentazione dell’opera. Alla critica si chiedeva di tendere verso l’oggettività della filologia, di una scienza testuale sobria da porre al servizio del pubblico: di un pubblico che si poteva sperare meno esiguo del solito, grazie all’impostazione della nuova collana. Le Rime dantesche commentate da Contini, primo volume della «Nuova raccolta di classici italiani annotati», recano il finito di stampare 4 dicembre 1939: nell’anno XVIII di un’èra fascista oramai razzista. Nel libro non c’è traccia del nome di Debenedetti, direttore della collana; impensabile trovarci quello di Ginzburg che ne seguı̀ il cammino redazionale. La collana sarebbe proseguita con La città del sole di Campanella, curata nel ’41 da Norberto Bobbio.46 In piena guerra, maestro e allievo continuavano il lavoro in condizioni proibitive: dalla sua casa di Giaveno Debenedetti, privato della cattedra per motivi razziali, dall’internamento di Pı̀zzoli Ginzburg, spogliato per la stessa ragione della cittadinanza italiana. Malgrado gli onori soprattutto postumi, al ruolo scientifico-operativo di Santorre Debenedetti nella filologia italiana del Novecento non è riconosciuta un’importanza adeguata, cosı̀ come resta quasi completamente ignoto l’apporto di Leone Ginzburg che sul modello del suo maestro concepı̀ una collana riconosciuta esemplare fin dalla comparsa delle Rime dantesche. Ora, non è un caso che Gianfranco Contini, curatore di quel volume, avesse recensito a sua volta, qualche settimana dopo Aquilante-Ginzburg, i Frammenti autografi dell’Orlando furioso con un articolo miliare per la moderna critica delle varianti d’autore,47 né è accidentale che nell’autunno 1952 Giulio Einaudi gli offrisse, 45 Delle Note per i collaboratori della «Nuova raccolta» esiste una stesura manoscritta di Ginzburg, certo elaborata con Debenedetti (al quale l’allievo usava prestare la sua opera di «amanuense», vedi la lettera di Ginzburg a Debenedetti da Pı̀zzoli, 18 maggio 1943, in LC, p. 229), e una versione dattiloscritta, più sintetica. Qui si cita dalla prima. Entrambe sono conservate fra le carte di Santorre Debenedetti depositate presso l’Università di Pavia. I brani riportati sono citati da Luisa Mangoni nella sua Prefazione a S, pp. XXXI-XXXII. 46 Il finito di stampare è del 31 marzo. 47 G. CONTINI , Come lavorava l’Ariosto, «Meridiano di Roma», II, 29, 18 luglio 1937, p. IV ; ora — 130 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA quattro anni dopo la scomparsa di Debenedetti, la direzione della «Nuova raccolta» con l’incarico di continuarne l’opera da «direttore-dittatore».48 Ambedue allievi di Debenedetti, Ginzburg e Contini – le intersezioni dei loro percorsi lungo le vicende filologiche del novecento – richiedono un’apposita ricerca congiunta. Qui, in queste pagine, si descrive una disgiunzione: l’assenza delle firme di Debenedetti e Ginzburg dalle opere che accompagnarono alla pubblicazione presso Einaudi. A volersi ostinare nell’ottimismo contro l’evidenza dei fatti ci si potrebbe illudere che questa duplice cancellazione costituisca un adempimento scientifico, crudele ma pure dispettosamente congruo: il correlativo di una filologia compiuta che lascia parlare i testi con la loro voce, il coronamento di un’opera grazie alla quale la cultura italiana poteva ormai fruire di Anna Karénina trascritta fedelmente nella nostra lingua cosı̀ come di un Orlando furioso corredato dalle sue leggi di progressione, per merito di studiosi che scomparivano nel risultato del loro lavoro. E invece non esiste compensazione. Proprio come i testi su cui opera il filologo, la storia è concreta, o almeno non è umanamente astuta. Più facile che obbedisca alle leggi dell’economia o solo alla legge del più forte. 4. Nel fascicolo di marzo 1939 la rivista «Il Libro Italiano» pubblicava l’articolo Esperienze di un editore giovane. Giulio Einaudi annunciava che vedranno la luce tra breve due nuove collezioni. Una di queste è la «Nuova raccolta di classici italiani annotati», che offrirà alle persone colte e al pubblico universitario testi filologicamente perfetti dei nostri classici, accompagnati da un commento sobrio ed esauriente. I commenti ai classici sono troppo spesso estetizzanti o semplicemente scolastici: la «Nuova raccolta» sarà uno strumento di lavoro di gran pregio eppure senza pedanteria. La veste editoriale sarà moderna ed allettante, il prezzo dei volumi relativamente modesto.49 L’altra collezione imminente era la «Biblioteca di cultura economica», ma qui si potrà fingere per comodità di lavoro che si trattasse ancora dei «Narratori stranieri tradotti»: perché la novità dell’impresa consisteva nel saper progettare, con identico rigore e con duttile talento nel comunicare, una collana in Esercizı̂ di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice di testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino, Einaudi, 19822 [I edizione ivi, 1974], pp. 232-241. 48 Giulio Einaudi, lettera a Contini del 16 ottobre 1952, in G. CONTINI , Lettere all’editore (1945-54), a cura di P. Di Stefano, Torino, Einaudi, 1990, p. 39 n. Contini accettò l’incarico, conservandolo fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1990. 49 G. EINAUDI , Esperienze di un editore giovane, «Il Libro italiano», Roma, III, 3, marzo 1939, pp. 170-172: 172. — 131 — DOMENICO SCARPA destinata al grande pubblico e un’altra per la comunità degli studiosi. L’articolo di Einaudi, all’epoca ventisettenne, finiva cosı̀: «In ogni occasione, poi, io cerco di non dimenticare che il lettore italiano è molto intelligente, e quindi molto esigente». Quest’ultima frase era vera solo a metà, e il giovane editore lo sapeva. Per l’altra metà era un desiderio o una speranza. Sarebbe dipeso dal lavoro di persone come lui modificare la proporzione, postulando un pubblico di livello più alto: una comunità di lettori ancora immaginaria, che andava ideata e prodotta come i libri per il futuro. Se questo elemento umano è implicito negli oggetti proposti al mercato dal marchio «Giulio Einaudi, editore», si arriverà a capire meglio l’opera di Leone Ginzburg studiandone il catalogo storico: non solo per gli anni 1933-1944, ma ben oltre la sua morte per mano nazista: alcuni capisaldi operativi fissati da Ginzburg non sarebbero venuti meno, infatti, per lungo tempo. Il 3 aprile 1943, in una lettera a Giaime Pintor, Einaudi alludeva a lui con l’espressione «il nostro collaboratore principale»,50 dove la necessità del segreto (in casa editrice si sapeva bene che tutta la corrispondenza veniva intercettata e letta dalla polizia politica) nulla toglieva all’esattezza della definizione. Il giovane Pintor sarà la pietra di paragone in queste pagine conclusive. Aveva conosciuto Ginzburg a Torino, dove col grado di tenente dell’esercito lavorava presso la Commissione italiana di armistizio con la Francia.51 Al principio del 1941 i suoi amici romani – Carlo Muscetta per primo, reggente della sede Einaudi nella capitale – lo avevano presentato a Pavese; ben presto si era trovato coinvolto nella casa editrice, all’inizio come consulente per la letteratura tedesca, poi con facoltà d’iniziativa sempre più ampia. La vita di Pintor procedeva rapida ovunque lo portasse. Nato nel 1919, dieci anni dopo Ginzburg, era stato quasi altrettanto precoce, cominciando a pubblicare le sue versioni dal tedesco fin dal ’38. Da quel momento in poi la sua attività letteraria aveva registrato un’accelerazione progressiva, affinando una brillantezza innata nel suo stile di scrittura e nel suo impatto personale. Sul finire del 1941 era tra i pochi collaboratori dell’Einaudi che potessero fregiarsi del titolo, scherzoso solo in parte, di «senatori». Chissà se Ginzburg, che in gioventù aveva amato queste invenzioni goliardiche (rendevano agile e solida l’amicizia, approfondivano la complicità culturale e affettiva), sarebbe stato ancora disposto a partecipare, adesso che gli scherzi potevano apparire fuori luogo. ProbaLa lettera è citata in LC, pp. 206-207 n. M.C. CALABRI, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Torino, Utet, 2007, pp. 191-198. La prima trasferta torinese legata al nuovo incarico avvenne il 20 dicembre 1940. 50 51 — 132 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA bilmente sı̀, dato il flusso continuo di humour che circola nei suoi messaggi, e dato che il suo percorso editoriale presso Einaudi era stato fin dal principio un travestimento coatto, anzi una spoliazione del proprio nome e del proprio ruolo, da sostenere con trovate epistolari ogni volta diverse in modo da confondere eventuali indagini di polizia.52 L’incontro Ginzburg-Pintor avvenne negli uffici della casa editrice l’ultima settimana del novembre 1941. Ginzburg aveva potuto lasciare l’internamento di Pı̀zzoli grazie a una licenza per motivi sanitari.53 Nel pomeriggio di sabato 29 ebbe luogo una riunione di lavoro: Einaudi Pavese Ginzburg Muscetta e io seduti intorno a un tavolo abbiamo discusso i libri uno per uno. Un notevole esercizio di intelligenza: raramente ho visto cinque persone cosı̀ agguerrite su un argomento.54 Più del compiacimento che esprime, è «notevole» nel racconto di Pintor il rilancio di energia provocato da una situazione cosı̀ schiettamente competitiva entro la cornice della collaborazione. Qui l’intelligenza è intelligenza materiale, merceologica, applicata a oggetti da valutare «uno per uno». Quella di Pintor può sembrare soddisfazione, ma è felicità: la tonica felicità del lavoro a regola d’arte, che i suoi compagni condividono. Si spiega cosı̀ il contrasto con la nota di diario del giorno successivo, domenica 30 novembre, «Una domenica fredda e umida che esprime tutto l’inverno di Torino». Passato a salutare Gabriele B.[aldini] in casa Antonicelli: l’aria da Hôtel de Rambouillet che ha preso quella casa diventa insopportabile. Il povero Mila divideva la mia tristezza in mezzo a tutta quella gente mediocre e inutile. Li ho lasciati prestissimo e sono andato a casa Ginzburg a prendere gli amici.55 Senza doverne sottoscrivere i giudizi, si può capire lo sguardo sprezzante di Pintor, che qualifica di «preziosi ridicoli» gli intellettuali raccolti nel salotto di Franco Antonicelli malgrado il loro orientamento antifascista. A Torino 52 Mi permetto di rinviare al mio articolo Il nome invisibile. Leone Ginzburg e la casa editrice Einaudi, 1933-1944, in Amici e compagni. Con Norberto Bobbio nella Torino del fascismo e dell’antifascismo, a cura di G. Cottino e G. Cavaglià, Milano, Bruno Mondadori, 2012, pp. 186-218. 53 Persiste una discordanza sulla data dell’incontro. Dai documenti risulta che Ginzburg sia arrivato a Torino il 27 novembre (cfr. LC, p. 102n) laddove Pintor fissa l’incontro al 25, mentre dal 26 al 28 fu in missione militare a Chambéry: v. M.C. CALABRI, Il costante piacere cit., pp. 284 e 556, che corregge la data erronea 23 novembre riportata in G. PINTOR, Doppio diario 1936-1943, a cura di M. Serri, Torino, Einaudi, 1978, p. 161. 54 G. PINTOR , Doppio diario cit., p. 163. 55 Ibid. — 133 — DOMENICO SCARPA Pintor cercava altro: una tempra umana che aveva già còlto in Pavese («In fondo l’uomo migliore qui a Torino. La sua semplice generosità»),56 e nei colleghi di lavoro dotati, come lui, dell’ambizione di trasformare integralmente il pensiero in azione con buona pace del principio di entropia. Ecco perché «La raffinatezza di questi intellettuali piemontesi» gli appariva «un esempio di superiore dilettantismo».57 L’«intelligenza» messa alla prova nel lavoro e la raffinatezza gratuita dell’«intellettuale» erano qualità che si escludevano a vicenda. Lo ribadisce la definizione con cui termina il suo appunto polemico: «Il gusto come mediatore dell’intelligenza e insieme limite all’attività produttiva». È una nuova parafrasi di «vigile eleganza», benché più rarefatta dell’originale. La scrittura di Pintor nei suoi appunti è rapidissima. Spesse volte non li completa. Può lasciare in bianco intere righe o singole parole: quando l’espressione precisa non viene, o quando un punto è da sviluppare in un altro momento, avendone il tempo e la pazienza. Poco oltre nel suo brogliaccio troviamo una nota su Ginzburg: Ginzburg mi confessò una sera che leggendo i contemporanei era onestamente persuaso che fossero stupidi, ma che qualche volta non riusciva a reprimere il sospetto di essere lui stupido. Questa che era anche la mia reazione e in generale quella di tutti aveva un valore di testimonianza particolare in bocca a un uomo che io ero disposto a considerare il più intelligente fra quelli che si occupavano in Italia di questioni di cultura. Poi compresi che G. era un moralista e che la sua opposizione era ancora quella di tanti amici nostri solo Ma non era possibile questa antinomia continua di moralisti e scrittori L’arte si staccava risolutamente da ogni avanguardia d’intelligenza, la sensibilità dal fatto espressivo, cioè il momento del gusto diventava una specie di 58 Sviluppare queste righe, lacune incluse, fino alle ultime loro conseguenze richiederebbe un lungo discorso. Mi limiterò a pochi punti cominciando dalla condivisione con Ginzburg del parere sui contemporanei, cui segue un brusco ripensamento. Per concedersi di pensare che i contemporanei sono stupidi – sembra dire Pintor con l’insieme dei due movimenti, di adesione e ripulsa – occorre essere contemporanei a pieno titolo: essere, senza riserve, uomini del proprio tempo, rischiando magari il contagio (meglio se non mortale) della sua malattia. Pintor sembra sospettare che Ginzburg appartenga a una gene- 56 57 58 Appunto senza data, ivi, p. 130. Ivi, p. 129, appunto senza data. Ibid. — 134 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA razione sorpassata, che i valori su cui orienta la sua azione non lo facciano idoneo a capire il mondo attuale. Eppure, Pintor non svolge il suo discorso in nome della nevrosi come strumento di conoscenza, carattere distintivo del ventesimo secolo. Più che dissentire da questo tratto del proprio tempo, lo irride o lo ignora. È estraneo all’«età dell’ansia», sdegna il «dramma interiore» – e qui vale la pena trascrivere uno dei suoi brani più noti, da un saggio pubblicato in quello stesso 1941: Che l’attuale generazione abbia sete di trascendenza, di lotta col demone, di miti eroici e di sublimi orrori, io non credo. Essa lascia ai vecchi intellettuali delusi questa confusione di propositi; le conversioni religiose e il distacco dal mondo. Posta di fronte a dei problemi vitali, educata fra avversità precise e sensibili, l’ultima generazione non ha tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito. Solo sfruttando le armi di questa sua esperienza, unendo una estrema freddezza di giudizio alla volontà tranquilla di difendere la propria natura, essa potrà sfuggire alla condizione di servitù che si prepara per le minoranze inutili.59 Pintor parla nel nome della rapidità fisica e mentale, di un’agilità che lo rende prensile, duttile e trasmutabile. Possiede la stessa curiosità umana del giovane Ginzburg: ma, venuto al mondo dieci anni più tardi, ha raggiunto la maggiore età vivendo solo in Italia, e sotto il regime fascista da quando ha avuto uso di ragione. Saldo nel gusto estetico, ben orientato dalla propria bussola morale, è imbevuto del clima del suo tempo e non si rifiuta di respirarlo. Ai suoi occhi non avrebbe senso respingere i contatti e tenersi in disparte: sarebbe come rinunciare alla vita stessa. Pintor può capire solo fino a un certo limite il riserbo e l’anonimato professionale in cui Ginzburg vive da anni per forza maggiore, prima a Torino poi a Pı̀zzoli. La sera del 28 novembre 1941, appena rientrato da una missione militare a Chambéry, accompagna Pavese a trovare Leone Ginzburg e sua moglie Natalia in casa loro. Commento: «Ginzburg sembra molto intelligente: marito e moglie hanno adottato il tono più polemico degli intellettuali ebrei: sono estremamente rappresentativi». Potrà spiacere questa freddezza classificatoria screziata d’ironia: è il tono di Pintor: e per strano che possa sembrare è il suo modo di mostrarsi perturbato dall’incontro con i Ginzburg. Qualche anno prima, Leone Ginzburg aveva manifestato un giudizio analogo sulla generazione che lo precedeva. Ne riferisce Piero Calamandrei in una nota di diario del 15 maggio 1939: 59 G. PINTOR, Il nuovo romanticismo, «Primato», Roma, II, 16, 15 agosto 1941, p. 2; poi, col sopratitolo Contro i miti romantici, in Il sangue d’Europa (1939-1943), scritti raccolti a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, [22 febbraio] 1950, pp. 159-163: 162. — 135 — DOMENICO SCARPA Pancrazi mi diceva [...] che Ginzburg, giovane sui trent’anni che è stato due anni nel reclusorio di Civitavecchia per ragioni politiche, gli dichiarò: «una gran quantità di antifascisti sono gente stupida e inetta, di cui bisogna liberarsi» (lo stesso discorso, all’incirca, faceva Montale). E Pancrazi si domanda se anche noi non si appartenga a questa genia, e non si dia ai giovani, anche contrari al regime, l’impressione di questi innocui gentiluomini democratici, superati dal tempo che cammina.60 Pietro Pancrazi, critico letterario, era nato nel 1893; Piero Calamandrei, giurista, nel 1889. Benché riportato da una terza persona, il tono di Ginzburg è riconoscibile – ed è ben diverso da quello di Pintor: franco e diretto, cosı̀ fermamente sincero da non suonare nemmeno brutale. L’accostamento delle due citazioni è un invito a distinguere. Pur condividendo la parte essenziale di una stessa posizione etica, estetica, politica, Ginzburg e Pintor sono divisi dalla percezione del mondo, dalla linea cronologica lungo la quale si sono svolte le loro rispettive biografie (verrebbe da dire: le loro biologie). Pintor non intende compromettersi con il regime di Mussolini, ma è sempre pronto a partecipare: ha il desiderio, il gusto di frequentare chiunque, magari per pochissimo: quanto gli basti per conoscere, per valutare con la sua impietosa stringatezza qualsiasi compagnia. Nel descrivere Ginzburg, però, non è stringato, tantomeno impietoso (non ne avrebbe appigli). Il suo giudizio è mobile, sfaccettato, combattuto. Giaime Pintor ha finalmente trovato una persona di cui non riesce a prendere le misure, con cui si sente solidale, verso cui prova un’attrazione intellettuale che si blocca sulla soglia dell’affetto sciogliendosi in un ammirato sconcerto. Che cos’era il «moralismo», che cos’era il «gusto» su cui si era interrotto il suo appunto del 30 novembre? Pintor possiede una mente da uomo classico innestata su un sistema nervoso contemporaneo. Privo di angosce da figlio del proprio secolo, è dotato di una capacità di risonanza intellettuale che di quelle angosce è una sorta di antimateria, di rovescio operativo. Di qui la sua ambizione di conciliare la moralità con l’intelligenza, il gusto con il talento, meglio di quanto non gli sembri capace Leone Ginzburg. Se Pintor è un corridore che vorrebbe correre cosı̀ veloce da sfiorare appena la pista, Ginzburg è un marciatore che, in quanto tale, non staccherà mai entrambi i piedi dalla strada. Sotto questo aspetto, e forse nella sua intima natura, Ginzburg è uomo dell’Ottocento: per il bisogno di radicarsi che ne orienta il percorso intellettuale, gli studi, il lavoro editoriale, le aspirazioni politiche legate a una futura Italia libera che serbi un’attiva memoria del suo Risorgimento, e a una futura Europa unita di cui sia parte integrante la sua Russia. 60 P. CALAMANDREI , Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, vol. I, 1939-1941, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 37. — 136 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA Ricorda Bobbio che «Leone parlava lentamente, pacatamente, con un certo sforzo, quasi dovesse cercare le parole, ma trovava sempre quella esatta».61 Anche in questo particolare brilla l’ottocento. Alla prosa di Ginzburg, perfettamente bilanciata e senza inflessioni, mancano i tratti distintivi del ventesimo secolo: la volubilità, lo scarto dalla linea retta, il guizzo dell’arbitrio, il binomio «bellezza e bizzarria», i numeri irrazionali e i numeri immaginari. Per temperamento e per scelta non ricorre mai alla mossa del cavallo – caratteriale, intellettuale, sintattica – che contraddistingue la prosa dei suoi amici Pavese e Pintor. Ginzburg possiede lo stile del rocciatore che pianta i suoi chiodi uno dopo l’altro: chi osserva la parete li potrà vedere in fila lungo l’estensione del dislivello superato. Negli studi cosı̀ come nell’attività editoriale Ginzburg ha frequentato poco il Novecento, eppure la sua conoscenza della letteratura russa si direbbe più completa di quella che Giaime Pintor acquisı̀ della tedesca. Ginzburg lo incontrò spesso nelle due settimane di licenza dal confino; ciascuna delle sue giornate torinesi dell’autunno 1941 appare segnata da interazioni con Pintor. Siamo ora all’1 dicembre, un lunedı̀. La mattina lavorato all’Istituto, poi visto Ginzburg che mi vuole convincere a non pubblicare Rilke. È straordinariamente persuasivo: vuole che traduca di più e crede che non mi sia impegnato abbastanza. Non so cosa rispondere a queste ragioni morali e editoriali.62 «Morali e editoriali» scrive Pintor, che nel riepilogo di quei giorni avrebbe annotato nel diario (mio il corsivo): «Poi compresi che G. era un moralista». Etichettando come moralismo quel richiamo alla moralità, si poté liberare dall’obiezione declassandola, ma al prezzo di fraintendere il collega. L’edizione delle Poesie di Rilke curata da Pintor uscı̀ nei primi giorni del 1942.63 Il libro era smilzo, ottanta pagine, la scelta dei testi oculata e arbitraria: una selezione sulla base del gusto, che fece data nella fortuna italiana di Rilke: per la natura delle poesie incluse, che intendevano sottrarre Rilke alle sue aure sapienziali, e soprattutto per la fermezza di mano della versione, la cui trasparenza non dissolveva il mistero di quei versi, ma li spogliava del registro prezioso, elitario, decadente, con cui si erano presentati prima di allora nel nostro paese. La Nota del traduttore dichiarava con una certa spavalderia il senso dell’operazione: 61 62 63 N. BOBBIO, Introduzione, in S, p. XLVIII. G. PINTOR, Doppio diario cit., p. 164. L’Istituto è quello giuridico dell’Università di Torino. Il finito di stampare è del 10 gennaio. — 137 — DOMENICO SCARPA La scelta delle poesie è libera. Non ho voluto dare ai lettori un compendio dell’opera di Rilke; ho voluto raccogliere quello che per me, in un particolare momento o in una particolare circostanza, è stato scoperta e occasione di poesia. La traduzione è libera, notizia forse inutile per chi sa che ogni traduzione è libera per natura. In alcuni casi è arbitraria: il testo a fronte indicherà questi arbitrı̂ e testimonierà in favore di eventuali condanne. Ginzburg aveva chiesto a Pintor qualcosa di diverso: completezza, rigore filologico, rinunzia all’arbitrio. Il fatto stesso che, malgrado la capacità di persuasione esercitata sul collega (Pintor ha un tono di meraviglia inerme in quella nota di diario), il consiglio di Leone risultò irricevibile – e giustamente, alla luce del risultato –, permette di isolare un ulteriore elemento del suo stile di scrittura: che fu incontaminato dall’attualità, dalla mondanità giornalistica, e non lasciò aderire a sé una sola particella di linguaggio fascista: magari al prezzo di suonare un poco anacronistico, di sfiorare una solennità sia pure non retorica, di parlare anche nelle lettere private come un libro stampato, sempre però con un soffio di calore che gli animava ogni frase. Ma qui il punto non è lo stile di Ginzburg, o la reale eventualità che la scrittura di Pintor lasci intravedere, al contrario, qualche venatura fascista. Il punto è che chi appartiene al Novecento – da Moravia a Pavese, da Pintor a Poggioli, da Soldati a Vittorini – ha da mescolarsi al fascismo, o almeno dovrà attendere a lungo prima di dedicarsi a un’opposizione politica conclamata. In alcuni di questi casi (Moravia, Soldati, Vittorini) il linguaggio mostrerà qualche segno dei tempi, laddove in Ginzburg la completa estraneità al fascismo fu anche immunità nel modo di esprimersi. Un confronto dei suoi scritti con il tono critico che costituisce la media dell’epoca andrà declinato per via di negazione: Ginzburg non è mai nebuloso, mai gergale, mai filoprovinciale, mai rissoso, mai circonlocutorio, mai passatista, mai intimidatorio. Di questo suo distacco offrirò un indizio materiale. Con l’entrata dell’Italia in guerra il regime fascista emise cartoline postali propagandistiche recanti il motto VINCEREMO profilato trasversalmente, a caratteri di scatola e in proiezione tridimensionale, sulla facciata bianca destinata al messaggio epistolare. Quelle cartoline diventarono presto di uso comune, per l’intera durata del conflitto e anche oltre: dopo la caduta di Mussolini, e dopo l’armistizio con gli Alleati, se ne continuarono a distribuire le giacenze, biffando con rigacci scuri il verbo ormai fuori corso. Scorrendo la sua corrispondenza con casa Einaudi dall’esilio di Pı̀zzoli si rileva che Ginzburg evitò accuratamente quelle cartoline per quasi due anni e mezzo, fino al 14 novembre 1942. Dovette rassegnarsi a usarle quando rimasero le sole disponibili: la prima che rechi il motto (dal suono ormai sarcastico a quel punto: il nostro — 138 — VIGILE ELEGANZA. LEONE GINZBURG E IL PROGETTO DI UN’EDITORIA DEMOCRATICA esercito era in ritirata su tutti i fronti di guerra) è datata 17 novembre. Ma anche allora Ginzburg si guardò dal ricorrere al lato «Vinceremo» fino al 31 marzo 1943, quando finalmente lo coprı̀ di scrittura. Lo stesso avrebbe fatto l’8 e il 24 maggio, l’1 e il 18 giugno, e infine il 10 luglio 1943. Durante quella notte l’esercito americano era sbarcato sulle coste della Sicilia. L’aneddoto custodito in crittografia dalle carte Einaudi è indice di uno stile cui va dedicato un ultimo sguardo. Ginzburg adopera spesso la preterizione «senza dubbio», che in lui equivale al gesto con cui si rimuove un ostacolo dalla propria visuale: con uno spiffero d’impazienza, perché a partire dal punto in cui cade il «senza dubbio» la sua frase accelera. Occorre citare Dante: «ma io scoppio | dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego» (Purg. XVI, 53-54). Il dubbio è una posizione di ripiegamento, un’asfissia da cui strapparsi al più presto. La locuzione «senza dubbio» fu il modo peculiare che Ginzburg trovò per alzare la voce con fermezza e con cortesia, laddove i suoi «forse» hanno quasi sempre curvatura ironica. Anche queste annotazioni riguardano il lavoro editoriale e il progetto che lo governa: Ginzburg si impone sovente la pazienza, ma il sostantivo-spia della sua prosa, il più rivelatore del suo temperamento, è «impazienza». Nemmeno quest’ultima è un impulso del novecento: è il fastidio ispirato da un qualcosa che appare incompleto, imperfetto, incoerente. Malgrado la scarsa simpatia per il secolo in cui visse, Leone Ginzburg non si confinò nel partito preso della compostezza, dell’equilibrio forzato: della sanità mentale a ogni costo, reale o simulata che fosse. Albergava in lui la piena consapevolezza di ciò che è umano, anzi di più: una fiamma costante di solidarietà morale che si avverte ad esempio quando ci parla della voluttà di autodenigrazione nel protagonista di Memorie del sottosuolo.64 Il suo amico Bobbio cosı̀ ha definito il suo carattere: «rigidezza nelle idee temperata da una pudica delicatezza nei sentimenti».65 Ho appena accennato al racconto di Dostoevskij, ma qui preferisco offrire un testo di Ginzburg non raccolto tra i suoi scritti: il risvolto dell’Oblòmov di Ivan Gonciaròv (cosı̀ in copertina), che nell’estate del ’38 fu il terzo volume dei «Narratori stranieri tradotti». In poco più di mille caratteri, la sintesi di quanto detto finora. I russi non si offesero troppo prendendo coscienza dei loro difetti più evidenti ed antichi nella figura di Oblòmov. Erano infatti quei cordiali difetti – indolenza, bona64 La prefazione al volumetto, il n. 25 della «Universale» Einaudi, finito di stampare il 10 novembre 1942, è raccolta in S, pp. 245-248. 65 N. BOBBIO , Introduzione cit., in S, p. LVI . — 139 — DOMENICO SCARPA rietà, noncuranza signorile, gusto per le sterili fantasticherie – di cui un popolo magari si lamenta e si accusa con vivacità, perché lo conducono o già l’hanno condotto in passato alla decadenza e alla schiavitù, ma in sé non riescono a sembrare infamanti. Oblòmov è un pigro, un accidioso, un disutile, e i suoi sforzi per uscire dal letargo al quale lo condannano l’indole e l’educazione falliscono tutti, uno dopo l’altro; non riesce a salvarlo neanche la devozione d’una giovane donna bella e innamorata di lui. Ma chi non ama e non compiange Oblòmov? chi non ha un sorriso cordiale dinanzi ai suoi battibecchi col burbero e devoto servo Zachàr? chi non si sente stringere il cuore nel vedere disperse tante qualità generose e sentimenti cosı̀ delicati? È che non solo i russi, ma tutti gli uomini, in misura maggiore o minore, hanno in se stessi qualcosa di Oblòmov. Privilegio di effettiva universalità, che è toccato in sorte a poche indimenticabili creature nella poesia di tutti i tempi. La conclusione tocca a Giaime Pintor. Il suo appunto, senza data, segue immediatamente quello sulla possibile stupidità dei contemporanei. E ne dà spiegazione pur lasciandolo in sospeso.66 Appunto uomini come Lucio L.[ombardo Radice] e come Ginzburg dovevano insegnarmi, come cioè è lo sviluppo delle doti tecniche che salva un uomo o almeno O almeno, giustifica concretamente la sua esistenza, avrebbe potuto completare Pintor. O almeno, ci lascia i libri che ha prodotto e il progetto di un’editoria democratica, si può concludere qui. 66 G. PINTOR, Doppio diario cit., p. 129. — 140 — GLI AUTORI ERSILIA ALESSANDRONE PERONA – Formatasi a Pisa presso la Scuola normale superiore, ha diretto a Torino fino al 2012 l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea «Giorgio Agosti». Il filone principale dei suoi studi riguarda Piero Gobetti e l’edizione critica della corrispondenza e delle opere (La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Einaudi 1983, 1995; Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, Einaudi 1991; Piero Gobetti, Carteggio 1918-1922, Einaudi 2003; Id., Carteggio 1923, di prossima pubblicazione). VITTORE ARMANNI – Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia economica e sociale presso l’Università Bocconi. Dal 1992 si occupa di valorizzazione delle fonti archivistiche e bibliografiche. Ha lavorato con la Fondazione Feltrinelli e il Centro per la cultura d’impresa; dal 1998 collabora stabilmente con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. È autore della monografia Cento anni di futuro. Storia delle Messaggerie italiane (Garzanti, 2013) e ha scritto sulle case editrici Mondadori e Unitas, su Erich Linder e Luciano Mauri. ALBERTO BANFI – Si è laureato con una tesi su Giorgio Colli presso l’Università degli studi di Milano nel 1997. Nel 2004 pubblica sulla rivista «Kleos» il saggio biografico Giorgio Colli: il coraggio del pensiero, basato sul suo lavoro di ricerca presso gli archivi Einaudi e Boringhieri di Torino e l’archivio Giorgio Colli di Firenze. Dal 2012 cura il sito web giorgiocolli.it ideato insieme ad Enrico Colli. È bibliotecario per ragazzi dal 1999. LUCA BARANELLI – Ha lavorato dal 1962 al 1994 nelle redazioni degli editori Einaudi e Loescher. Oltre che dell’attività politica e culturale di Raniero Panzieri, si occupa da anni dell’opera di Italo Calvino. Ha inoltre curato scritti di Romano Bilenchi, Eugenio Colorni, Renato Solmi, Gianfranco Contini, Cesare Cases e Sebastiano Timpanaro. WALTER BARBERIS – Si è formato all’Università di Torino dove si è laureato con Corrado Vivanti e con Alessandro Galante Garrone. Ha proseguito i suoi studi a Parigi, conseguendo prima il DEA sotto la guida di Jacques Le Goff e quindi il PhD sotto la direzione di Ruggiero Romano e Maurice Aymard. È attualmente professore — 387 — GLI AUTORI oridinario di Storia moderna presso l’Università di Torino. Dal 1975 ha lavorato presso la casa editrice Einaudi, di cui è ora Presidente. GIULIA BORINGHIERI – È la figlia di Paolo Boringhieri, a cui ha dedicato un saggio uscito da Einaudi nel 2010: Per un umanesimo scientifico. Storia di libri, di mio padre e di noi, che tratta soprattutto degli inizi dell’avventura editoriale del padre, nel primo ventennio del dopoguerra, inquadrandola nel contesto della diffusione della cultura scientifica in Italia fra fascismo e post-fascismo. ENRICO CASTELNUOVO – Ha insegnato Storia dell’arte nelle Università di Losanna, Ginevra, Torino, Scuola Normale Superiore di Pisa, e all’École normale supérieure di Parigi. Per Einaudi ha pubblicato Un pittore italiano alla corte di Avignone. Matteo Giovannetti e la cultura in Provenza nel sec. XIV (1962), Arte, industria, rivoluzioni. Temi di storia sociale dell’arte (1985), Vetrate medievali. Officine, tecniche, maestri (1994), ha collaborato alla Storia d’italia con il saggio Il significato del ritratto pittorico nella società (1973), alla Storia dell’arte italiana con i saggi Centro e periferie (1979) e Arte delle città, arte delle corti (1983); alla Storia di Torino con il saggio Sopravvivenze e progetti: il rapporto città-contado nel secolo XII (1997, in collaborazione con Giampietro Casiraghi, Giuseppe Sergi, Patrizia Cancian e Costanza Segre Montel); ha curato, con Giuseppe Sergi, i quattro volumi di Arti e storia nel medioevo (2002-2004). ROBERTO CICALA – Direttore editoriale di Interlinea, insegna presso l’Università cattolica a Milano ed è presidente del Centro novarese di studi letterari. Tra i campi d’interesse, gli epistolari editoriali novecenteschi e le vicende di autori Einaudi dalle carte d’archivio, curando, tra l’altro, I libri di Carlo Dionisotti (Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1999), La chimera. Storia e fortuna del romanzo di Sebastiano Vassalli (con G. Tesio, Novara, Interlinea, 2003), Libri e scrittori di via Biancamano. Casi editoriali in 75 anni di Einaudi (con V. La Mendola, Milano, Educatt, 2009), «Colloquio coi vecchi libri». Lettere editoriali (1942-1988) di Carlo Dionisotti e Giulio Einaudi (Novara, Interlinea, 2012), Il bello e il vero. Petrarca, Contini e Tallone tra filologia e arte della stampa (con M. Villano, Milano, Educatt, 2012). EDOARDO ESPOSITO – Già collaboratore di riviste come «Belfagor» e «L’Indice», è docente di Letterature comparate e di Teoria della letteratura presso l’Università degli studi di Milano. Ha lavorato soprattutto sulla letteratura contemporanea, curando fra le altre cose l’antologia Poesia del Novecento in Italia e in Europa (Feltrinelli, 2000) e, recentemente, la monografia Elio Vittorini, scrittura e utopia (Donzelli, 2011). Per Einaudi ha curato con Carlo Minoia il volume relativo alle Lettere 1952-1955 di Elio Vittorini. ERNESTO FERRERO – Ha lavorato a lungo in Einaudi, dove è entrato nel 1963, diventandone poi il direttore editoriale negli anni ’80. A quell’esperienza è dedicato il libro di memorie I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli, 2005). Narratore, critico, — 388 — GLI AUTORI saggista e traduttore, ha vinto il Premio Strega 2000 con N., e dal 1998 dirige il Salone internazionale del libro di Torino. GIAN CARLO FERRETTI – Dopo anni di giornalismo e di editoria, ha insegnato all’Università di Roma tre e all’Università di Parma. Collaboratore di quotidiani, periodici e radiotelevisione, ha pubblicato studi sulla letteratura e sull’editoria libraria del novecento italiano, tra cui L’editore Vittorini (Einaudi, 1992), Storia dell’editoria letteraria in Italia 1945-2003 (Einaudi, 2004), la voce Giulio Einaudi in Dizionario biografico degli italiani (Roma, 2013) e ha curato di Alberto Mondadori, Lettere di una vita 1922-1975 (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori 1996). FRANCESCA GAIDO – Laureatasi nel 2006 all’Università degli Studi di Milano con una tesi su Pietro Verri pubblico funzionario, borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici, collaboratrice scientifica dell’Archivio storico di Intesa Sanpaolo, per il quale ha redatto l’inventario delle Carte di Raffaele Mattioli, 1946-1972 (Intesa Sanpaolo, 2014). Insieme con Francesca Pino ha curato l’edizione degli scritti di banca di Giovanni Malagodi, Dalla crisi allo sviluppo (Aragno, 2010). Collabora anche con la Fondazione Raffaele Mattioli per la storia del pensiero economico. LUCA MARCOZZI – Insegna letteratura italiana all’Università di Roma tre; studioso della letteratura dei primi secoli e in particolare di Dante e Petrarca, ha collaborato alla Letteratura italiana Einaudi diretta da Alberto Asor Rosa sia per il Dizionario delle opere della prima edizione sia nella riedizione pubblicata nel 2007 per il Gruppo editoriale L’Espresso. Tra i suoi lavori La Biblioteca di Febo Mitologia e allegoria in Petrarca (F. Cesati, 2003), la Bibliografia petrarchesca 1989-2003 (Olschki, 2003). CARLO MINOIA – Ha insegnato italiano e storia negli istituti secondari superiori statali dal 1964 al 1998. Dal 1974 ha svolto collaborazioni e attività di consulenza editoriale presso Einaudi, Garzanti, Marietti, Cedam, Mondadori. È autore di pubblicazioni in volume e su rivista e in particolare è curatore dei tre volumi dell’epistolario di Elio Vittorini usciti fino a oggi per Einaudi: Gli anni del «Politecnico». Lettere (1977), I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943 (1985), I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943 (2006; in collaborazione con Edoardo Esposito). CLAUDIO PAVESE – Collezionista dei libri Einaudi (ne possiede oltre cinquemila), ha curato a New York e a Milano, per la Fondazione Giulio Einaudi, la mostra de «I Coralli». Ha inoltre curato le mostre Cesare Pavese – I libri (il catalogo è pubblicato da Aragno), organizzata a Santo Stefano Belbo nel centenario dello scrittore piemontese e sulle collane Einaudi, tenutasi nel Castello di Cisterna d’Asti. Tra i suoi lavori si segnalano saggi sull’antologia Americana curata da Elio Vittorini («Bibliologia», 2009) e sul primo commissariamento Einaudi in uscita per Unicopli. IRENE PIAZZONI – È docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano. Ha pubblicato volumi e saggi sulla storia della cultura, del giornalismo, dello — 389 — GLI AUTORI spettacolo, della televisione e dell’editoria, tra cui Valentino Bompiani. Un editore italiano tra fascismo e dopoguerra (Milano, LED Edizioni, 2007), La musica leggera in Italia dal dopoguerra agli anni del boom Cultura, consumo, costume (L’Ornitorinco, 2011), Storia delle televisioni in Italia Dagli esordi alle web tv (Carocci. 2014). FRANCESCA PINO – Storica e archivista, dirige l’Archivio storico di Intesa Sanpaolo. È consigliere dell’International Council on Archives dell’UNESCO (sezione Archivi d’impresa) e della European Association for Banking History. Ha pubblicato un centinaio di saggi storici, edizioni di documenti e guide archivistiche e conduce ricerche sistematiche sulla biografia di Raffaele Mattioli. Tra le ultime pubblicazioni: Raffaele Mattioli, Uscire dalla crisi. Comunicazioni interne sul salvataggio della Banca Commerciale Italiana, 1933-1934 (Torino, Aragno, 2010). MASSIMO L. SALVADORI – Professore emerito di Storia delle dottrine politiche dell’Università di Torino, vi ha insegnato dal 1967 al 2005. È stato Fellow al Wilson Center di Washington, DC e Visiting Professore alla Columbia e alla Harvard University. Tra le opere più recenti: Democrazie senza democrazia (Laterza, 2009), Storia d’Italia, crisi di regime e crisi di sistema 1861-2013 (Il Mulino, 2013); Le stelle le strisce la democrazia. Tocqueville ha veramente capito l’America? (Donzelli, 2014). È componente il Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi onlus. DOMENICO SCARPA – È consulente del Centro studi Primo Levi di Torino. Ha insegnato nelle Università di Napoli-L’Orientale e di Milano-Bicocca ed è stato ricercatore presso la Scuola normale di Pisa e alla Italian Academy at Columbia University, New York. Ha curato per Einaudi il IIIº volume – Dal Romanticismo a oggi – dell’Atlante della letteratura italiana e ha pubblicato monografie su Italo Calvino, Natalia Ginzburg e Franco Lucentini, oltre alla raccolta di saggi Storie avventurose di libri necessari. Scrive per «Il Sole 24 Ore». CESARE SEGRE – Filologo, semiologo e critico letterario, ha insegnato Filologia romanza all’Università di Pavia. Ha procurato le edizioni critiche, tutt’ora di riferimento, dell’Orlando Furioso e della Chanson de Roland. Ha fondato nel 1966, presso Einaudi, «Strumenti critici», rivista che ha contribuito a ridisegnare il panorama della critica letteraria italiana. Tra le sue numerose opere, quasi tutte per Einaudi: I segni e la critica; Le strutture e il tempo; Semiotica filologica; Avviamento all’analisi del testo letterario; Fuori dal mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà; Intrecci di voci; Notizie dalla crisi; Per curiosità. Una specie di autobiografia; Ritorno alla critica; Tempo di bilanci; Dieci prove di fantasia; Critica e critici. PAOLO SODDU – Insegna Storia contemporanea e Storia dei partiti e dei movimenti politici all’Università di Torino. Tra i suoi lavori L’Italia del dopoguerra Una democrazia precaria 1947-1953 (Editori riuniti, 1998); Ugo La Malfa Il riformista moderno (Carocci, 2008), con S. Facci, Il Festival di Sanremo. Parole e suoni raccontano — 390 — GLI AUTORI la nazione (Carocci, 2011). Per Einaudi ha curato di Luigi Einaudi, Diario dell’esilio (1997) e di Massimo Mila, Argomenti strettamente famigliari Lettere dal carcere 19351940 (1999). VITTORIO SPINAZZOLA – È professore emerito di Letteratura italiana contemporanea all’Università degli Studi di Milano, saggista e critico letterario. Per Einaudi ha pubblicato «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini, in Letteratura italiana. Le opere (1996). GABRIELE TURI – Ha insegnato Storia contemporanea nella Facoltà di lettere di Firenze. Dirige dal 1982 la rivista «Passato e presente» e nel 1995-2013 ha diretto «La Fabbrica del libro». Fra le sue pubblicazioni: Casa Einaudi (Bologna, 1990), Giovanni Gentile. Una biografia (Firenze, 1995; seconda edizione ampliata Torino, 2006), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea (a cura di, Firenze 1997), Viva Maria. Riforme, rivoluzione e insorgenze in Toscana (Bologna, 1999), Il mecenate, il filosofo e il gesuita. L’«Enciclopedia italiana», specchio della nazione (Bologna, 2002), Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista (Roma-Bari, 2002), Editori italiani dell’Ottocento. Repertorio (a cura di, con altri, Milano, 2004), Il nostro mondo. Dalle grandi rivoluzioni all’11 settembre (Roma-Bari, 20104), La cultura delle destre. Alla ricerca dell’egemonia culturale in Italia (Torino, 2013). — 391 — FINITO DI STAMPARE PER CONTO DI LEO S. OLSCHKI EDITORE PRESSO ABC TIPOGRAFIA • SESTO FIORENTINO (FI) NEL MESE DI DICEMBRE 2014 FONDAZIONE LUIGI EINAUDI TORINO Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi (dal 1893 al 1970) A cura di Luigi Firpo. Pubblicazione promossa dalla Banca d’Italia. 1971, 912 pp. con 123 figg. n.t. e 9 tavv. f.t. di cui 1 a colori. Rilegato. Catalogo della Biblioteca di Luigi Einaudi. Opere economiche e politiche dei secoli XVI-XIX A cura di Dora Franceschi Spinazzola. 1981, 2 tomi di XXXII-956 pp. con 21 tavv. f.t. Rilegati. – Supplemento (numeri A.1 - A.1000). 1991, XVI-226 pp. con 8 tavv. f.t. Rilegato. LUIGI STURZO - MARIO EINAUDI, Corrispondenza americana (1940-1944). A cura di Corrado Malandrino. 1998, LXXX-344 pp. ANNALI II-VI (1968-72); IX-XI (1975-77); XIII-XXII (1979-88); XXIV (1990); XXVI-XXXVIII (1992-2004). SCRITTORI ITALIANI DI POLITICA, ECONOMIA E STORIA Rilegati MARSILIO DA PADOVA, Defensor pacis, nella traduzione in volgare fiorentino del 1363. A cura di Carlo Pincin. 1966, 604 pp. con 1 tav. f.t. DALMAZZO FRANCESCO VASCO, Opere. A cura di Silvia Rota Ghibaudi. 1966, 780 pp. con 5 figg. n.t. e 1 ripr. CARLO ILARIONE PETITTI DI RORETO, Opere scelte. A cura di Gian Mario Bravo. 1969, 2 tomi di 2162 pp. con 5 figg. n.t., 11 tavv. f.t. e 2 pieghevoli. CARLO BOSELLINI, Opere complete. A cura di Miriam Rotondò Michelini.Vol. I: Nuovo esame delle sorgenti della privata e pubblica ricchezza. Vol. II: Opere minori. 1976, 2 tomi di 1388 pp. con 7 tavv. f.t. LUIGI EINAUDI, Interventi e relazioni parlamentari. A cura di Stefania Martinotti Dorigo. Vol. I: Senato del Regno (1919-1922); Vol. II: Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958). 1980-1982, 2 tomi di 1930 pp. con 2 tabelle ripiegate. GIAMBATTISTA VASCO, Opere. A cura di Maria Luisa Perna. 1989-1991, 2 tomi di 1972 pp. con 6 tavv. f.t. e 2 figg. n.t. LORENZO VALERIO, Carteggio (1825-1865). Raccolto da Luigi Firpo, Guido Quazza, Franco Venturi. Vol. I (1825-1841). A cura di Luigi Firpo e Adriano Viarengo, 1991, LXXVI-578 pp. con 4 tavv. f.t. – – Vol. II (1842-1847). A cura di Adriano Viarengo. 1994, XCVIII-640 pp. con 7 tavv. f.t. – – Vol. III (1848). A cura di Adriano Viarengo. 1998, CXVIII-482 pp. con 6 tavv. f.t. – – Vol. IV (1849). A cura di Adriano Viarengo. 2003, CXLVII-502 pp. con 7 tavv. f.t. STUDI 1. Nord e Sud nella società e nell’economia italiana di oggi. Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 30 marzo - 8 aprile 1967), 1968, 542 pp. 2. GIAN MARIO BRAVO, Torino operaia. Mondo del lavoro e idee sociali nell’età di Carlo Alberto. 1968, 304 pp. 3-5. Banche, governo e parlamento negli Stati sardi. Fonti documentarie (1843-1861). A cura di Ernesto Rossi e Gian Paolo Nitti, 1968, 3 tomi di XCVIII-2198 pp. con 41 tavv. f.t. 6. TERENZIO COZZI, Sviluppo e stabilità dell’economia. 1969, 196 pp. 7. ANDREA CAIZZI, Terra, vigneto e uomini nelle 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. colline novaresi durante l’ultimo secolo. 1969, 204 pp. SALVATORE SECHI, Dopoguerra e fascismo in Sardegna. 1969, 504 pp. Esaurito ALDO AGOSTI, ANNAMARIA ANDREASI, GIAN MARIO BRAVO, DORA MARUCCO, MARIELLA NEJROTTI, Il movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi (1945-1969). 1971, 148 pp., seconda edizione. DORA MARUCCO, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia. 1970, 352 pp. Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo. Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Einaudi (Torino, 5-7 dicembre 1969). 1971, 654 pp. Esaurito MARCELLO CARMAGNANI, Sviluppo industriale e sottosviluppo economico. Il caso cileno (18601920). 1971, 244 pp. con tabelle e grafici n.t. FRANCO BONELLI, La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia. 1971, 242 pp. con tabelle n.t. Dipendenza e sottosviluppo in America Latina. A cura di Salvatore Sechi, 1972, 420 pp. con 4 tavv. f.t. ALESSANDRO VERCELLI, Teoria della struttura economica capitalistica. Il metodo di Marx e i fondamenti della critica all’economia politica. 1973, 264 pp. FERNANDO CLAUDIN, ANNIE KRIEGEL, ROBERT PARIS, ERNESTO RAGIONIERI, MASSIMO L. SALVADORI, PAOLO SPRIANO, LEO VALIANI, Problemi di storia dell’Internazionale comunista (19191939). A cura di Aldo Agosti. Relazioni tenute al Seminario di studi organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino, aprile 1972). 1974, 254 pp. Esaurito MAURO AMBROSOLI, John Symonds. Agricoltura e politica in Corsica e Italia (1765-1770). 1974, 168 pp. GIOVANNI ASSERETO, La Repubblica ligure. Lotte politiche e problemi finanziari (1797-1799). 1975, 286 pp. Commemorazione di Luigi Einaudi nel centenario della nascita (1874-1974). 1975, 162 pp. con 4 tavv. f.t. RICCARDO FAUCCI, Finanza, amministrazione e pensiero economico. Il caso della contabilità di Stato da Cavour al fascismo. 1975, 212 pp. L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra mondiale. Relazioni tenute al Convegno di studi svoltosi presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 25-26 ottobre 1974). 1975, 244 pp. Esaurito LUCIANO ALLEGRA - ANGELO TORRE, La nascita della storia sociale in Francia, dalla Comune alle «Annales». 1977, 356 pp. Esaurito 23. GIANNI MAROCCO, Giambattista Vasco. 1978, 164 pp. 24. L’Archivio di Agostino Rocca. A cura di Stefania Martinotti Dorigo e Paola Fadini Giordana. 1978, 372 pp. Esaurito 25. CARLO PAZZAGLI, Per la storia dell’agricoltura toscana nei secoli XIX e XX. Dal catasto particellare lorenese al catasto agrario del 1929. 1979, 148 pp. con 9 figg. e 6 tavv. ripiegate n.t. 26. MANUELA ALBERTONE, Fisiocrati, istruzione e cultura. 1979, 212 pp. 27. LUIGI EINAUDI - BENEDETTO CROCE, Carteggio (1902-1953). A cura di Luigi Firpo. 1988, VI156 pp. 28. LUIGI EINAUDI - ERNESTO ROSSI, Carteggio (19251961). A cura di Giovanni Busino e Stefania Martinotti Dorigo. 1988, VI-604 pp. 29. Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo durante XVIII e XIX secolo. Atti delle giornate di studio promosse dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 6-7 maggio 1988). A cura di Maria Teresa Maiullari. 1990, 284 pp. 30. Alle origini dell’europeismo in Piemonte. La crisi del primo dopoguerra, la cultura politica piemontese e il problema dell’unità europea. Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 28-29 novembre 1991). A cura di Corrado Malandrino. 1993, 148 pp. 31. Political economy and national realities. Papers presented at the Conference held at the Luigi Einaudi Foundation, Palazzo d’Azeglio (Turin, September 10-12, 1992). Edited by Manuela Albertone and Alberto Masoero. 1994, 418 pp. con 1 fig. n.t. 32. I trent’anni della Fondazione Luigi Einaudi. Mario Einaudi (1904-1994) intellettuale, storico ed organizzatore culturale tra America ed Europa. Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 29-30 novembre 1994). A cura di Maurizio Vaudagna. 1995, 208 pp. con 1 fig. n.t. 33. Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita. A cura di Luciano Guerci e Giuseppe Ricuperati. 1998, IV500 pp. con 2 tavv. f.t. 34. Europeismo e federalismo in Piemonte tra le due guerre mondiali. La Resistenza e i Trattati di Roma (1957). Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 9 e 10 ottobre 1997). A cura di Sergio Pistone e Corrado Malandrino. 1999, XIV-320 pp. 35. GEOFFREY A. HAYWOOD, Failure of a dream. Sidney Sonnino and the rise and fall of liberal Italy (1847-1922). 1999, VIII-574 pp. 36. ‘‘From our Italian Correspondent’’. Luigi Einaudi’s articles in The Economist, 1908-1946. Edited by Roberto Marchionatti. I 1908-1924, II 1925-1946. 2000, 2 tomi di LXVIII-834 pp. complessive con 5 tavv. f.t. 37. Economia, sociologia e politica nell’opera di Vilfredo Pareto. A cura di Corrado Malandrino e Roberto Marchionatti. 2000, VIII-442 pp. 38. La reinvenzione dei Lumi. Percorsi storiografici del Novecento. A cura di Giuseppe Ricuperati. 2000, XVI-236 pp. 39. Una rivista all’avanguardia: La «Riforma sociale» (1894-1935). Politica, società, istituzioni, economia, statistica. A cura e con introduzione di Corrado Malandrino. Presentazione di Gian Mario Bravo, 2000, XXXVI-432 pp. 40. LUIGI EINAUDI, Riflessioni di un liberale sulla democrazia (1943-1947). A cura di Paolo Soddu. 2001, xxx-302 pp. 41. I diari di Luca Pietromarchi ambasciatore italiano a Mosca (1958-1961). A cura di Bruna Bagnato. 2002, L-446 pp. con 1 tav. f.t. 42. BRUNA BAGNATO, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica, 1958-1963. 2003, VIII-616 pp. con 1 tav. f.t. 43. LILIANA SAIU, Stati Uniti e Italia nella Grande Guerra, 1914-1918. 2003, XIV-258 pp. 44. Un popolo per l’Europa unita. Fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche. A cura di Corrado Malandrino. Presentazione di Dario Velo. 2004, X-254 pp. 45. GIORGIO MONESTAROLO, Negozianti e imprenditori nel Piemonte d’antico regime. La cultura economica di Ignazio Donaudi delle Mallere (1744-1795). 2006, XXVIII-344 pp. 46. FRANCESCO FORTE, L’economia liberale di Luigi Einaudi. Saggi. 2009, XVIII-370 pp. 47. La scuola di economia di Torino. Co-protagonisti ed epigoni. A cura di Roberto Marchionatti. 2009, VIII-484 pp. con 3 figg. n.t. 48. GIANNI MARONGIU, La politica fiscale dell’Italia liberale dall’unità alla crisi di fine secolo. Prefazione di Guido Pescosolido. 2010, XXII472 pp. 49. Luigi Einaudi nella cultura, nella società e nella politica del Novecento. Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 16-17 aprile 2009). A cura di Roberto Marchionati - Paolo Soddu. 2010, X-378 con 6 figg. n.t. 50. Good Government, Governance, Human Complexity. Luigi Einaudi’s legacy and contemporary societies. Edited by Paolo Heritier and Paolo Silvestri. 2012, XVIII-346 pp. 51. Mario Einaudi. Scritti sulla politica europea 1944-1957. A cura, con introduzione e traduzione di A. Mariuzzo. Prefazione di L.R. Einaudi. 2013, X-298 pp. 52. Giulio Einaudi nell’editoria di cultura del Novecento italiano. Atti del convegno della Fondazione Giulio Einaudi e della Fondazione Luigi Einaudi onlus (Torino, 25-26 ottobre 2012). A cura di Paolo Soddu. 2015, X-410 pp. CASA EDITRICE LEO S. OLSCHKI ISBN 978 88 222 6354 4