ANDREA COZZO
Arruolare la natura in Erodoto
1. La natura come strumento e segnale della volontà degli dei
Nel racconto erodoteo di eventi bellici, o in generale conflittuali, la
natura ha certamente un ruolo importante, e non solo come oggetto di
descrizione per soddisfare la curiosità e il piacere dell’ascoltatore1.
Innanzitutto, come è ben noto, i fenomeni naturali, in particolare quelli
inconsueti, possono indicare la volontà divina che va interpretata, compresa
e quindi assecondata. Un fenomeno misterioso e macroscopico, anzi
macrocosmico, come quello delle eclissi assolve perfettamente a questa
funzione. Ad esempio, quella che avviene nel 585 a.C., dopo una guerra di
cinque anni tra Lidi e Medi, nel corso di una battaglia, fa sì che i due popoli
si affrettino a concludere la pace (1, 74, 1-3); quella dell’ottobre del 480 a.C.,
verificatasi durante un sacrificio per trarre gli auspici contro i Persiani,
induce lo spartano Cleombroto a riportare indietro l’esercito (9, 10, 3); e già
prima, nella primavera dello stesso anno2 quando, al muoversi dei Persiani
da Sardi per Abido, «il sole, avendo lasciato la sua sede nel cielo, divenne
invisibile, benché non vi fossero nuvole e anzi il cielo fosse completamente
sereno, e da giorno si fece notte» (7, 37, 2), il fenomeno è spiegato dai magi
come presagio favorevole ai Persiani3.
Lo stesso vale per i terremoti. Già dopo la partenza del generale
persiano Dati da Delo, l’isola era stata scossa per la prima volta da un
terremoto, probabilmente, afferma Erodoto, perché la divinità voleva
preannunciare i grandi mali che sarebbero avvenuti (6, 98, 1 e 3), e nei
Su questo aspetto cfr. CASEVITZ 1999.
Ma si fa forse confusione con un’eclissi che noi sappiamo essere avvenuta nel 481.
3 Le traduzioni dei passi sono a cura dell’autore. Sull’interpretazione dell’eclisse da
parte dei Magi cfr. GIOVER 2014.
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preparativi per la battaglia navale a Salamina, «al sorgere del sole vi fu un
terremoto sia sulla terra sia sul mare» sicché ai Greci sembrò opportuno
pregare gli dei e chiedere aiuto agli Eacidi (8, 64, 1-2). Infine, anche uno
strano enorme polverone e una misteriosa voce divina dai quali si forma una
nuvola diretta verso Salamina vengono interpretati come segni favorevoli ai
Greci per indicare la sconfitta navale di Serse (8, 65, 1-2 e 6).
Altre volte, l’evento naturale fuori dalla norma ratifica o disapprova,
appunto in quanto manifestazione divina, un fatto. Così, quando lo scudiero
di Dario, grazie a un trucco, riesce a far nitrire il cavallo del padrone che
perciò, sulla base dell’accordo tra i candidati al regno, potrà ottenere il trono,
appare un fulmine a ciel sereno e si sente un tuono: i due eventi atmosferici
hanno la chiara funzione di attestare la convalida sovrannaturale
dell’incoronazione di Dario (3, 86, 2). Di nuovo un tuono, poi, per di più
accompagnato da un terremoto e da un’improvvisa follia dei protagonisti
dell’episodio, che si vanno uccidendo l’un l’altro, si sente quando alcuni
Ateniesi, cercano di recuperare, a Egina, le statue delle divinità Auxesia e
Damia considerate di loro proprietà (5, 85, 2). Un’altra volta, infine, la terra
degli Apolloniati cessa di dare frutti come segno della contrarietà divina nei
confronti del loro ingiusto comportamento riguardo ad Evenio (9, 93, 3).
Attraverso gli elementi della natura la divinità può addirittura operare
essa stessa, direttamente ed esplicitamente, quasi in senso miracolistico,
come si verifica nel noto episodio di Creso in procinto di essere bruciato sul
rogo. Egli invocò Apollo e «all’improvviso dal cielo sereno e senza vento si
raccolsero nubi e si scatenò un temporale e piovve con acqua abbondante e la
pira si spense» (1, 87, 2; cfr. 91, 3).
2. La natura come cooperatrice (divina e non) delle azioni umane
Capita infine che la natura né si limiti a dar segni né si sostituisca
all’azione umana ma cooperi con essa. In questi casi, a volte, il suo carattere di
intervento divino è esplicito, o lo è tanto più quanto più il fenomeno presenta
elementi di eccezionalità.
Nella guerra tra Greci e Persiani la forza cooperatrice della natura è
costantemente attiva a favore dei primi e contro i secondi. Così, al momento
di doppiare il monte Athos, scrive Erodoto,
«un grande e irresistibile vento di borea si abbatté su di loro e ridusse male
molte delle navi gettandole sull’Athos. Si dice che circa trecento navi furono
distrutte e morirono oltre ventimila uomini: essendo infatti questo mare
dell’Athos molto infestato da pesci terribili, alcuni perirono ghermiti da queste
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bestie, altri fracassandosi sugli scogli: quelli che non sapevano nuotare per
questo motivo, altri per il freddo» (6, 44, 2-3)4.
Tuoni e fulmini poi si abbattono sull’esercito persiano, accampato ai
piedi dell’Ida, nella Troade, uccidendo molti uomini (7, 42, 2), e quando la
flotta persiana raggiunge Magnesia, nella zona costiera tra il promontorio
Sepiade e la città di Castanea, all’alba, all’improvviso, «col cielo sereno e
senza vento», il mare si gonfia e si abbattono su di essa una grande tempesta
e un forte vento di levante. Allora, le navi che se ne accorgono e riescono ad
arrivare alla spiaggia si salvano, mentre quelle rimaste al largo dalla
tempesta si fracassano in diversi luoghi: infatti, «fu una tempesta
insostenibile» (7, 188, 2-3). I venti che sconvolgono il mare arrecando rovina
ai Persiani sembrano quasi la realizzazione effettiva di quel paragone che
Artabano aveva istituito tra la mente di Serse se fosse stata traviata da chi gli
consigliava di invadere la Grecia e, appunto, questi elementi della natura:
«(...) così come dicono che il mare, la cosa per gli uomini più utile di tutte, i
soffi del vento, abbattendovisi, non lasciano che si mantenga nella sua
natura» (7, 16α 1). Gli Ateniesi, appena visto l’inizio della tempesta, in
conformità ad un vaticinio che li esortava a chiedere aiuto “al loro genero”,
pregano il vento Borea (che, in quanto sposo di Orizia figlia del mitico re di
Atene Eretteo, corrispondeva alla figura parentale indicata) di venire in loro
soccorso (timorésai sphísi) e di distruggere le navi dei barbari, come prima
presso l’Athos. In effetti, avviene proprio questo, ed Erodoto commenta: «Se
Borea si abbatté per questo sui barbari ormeggiati, non so dirlo, ma gli
Ateniesi dicono che Borea, dopo averli aiutati (boethésanta) già prima, compì
anche allora quelle azioni e, tornati, eressero un tempio a Borea presso il
fiume Ilisso» (7, 188, 1-189, 3).
Erodoto, a differenza delle sue fonti ateniesi, si mostra incerto, o
meglio cauto: né conferma né è incredulo; semplicemente, non sa. Qui, e ciò
vale in generale, egli si muove all’interno di un sistema di pensiero in cui gli
elementi naturali vengono tanto ipostatizzati dal punto di vista religioso
quanto considerati meri agenti fisici dal punto di vista ‘laico’, e segue un’idea
o l’altra a seconda di ciò che lo convince in ogni singolo caso. Sulla linea
‘prudente’ egli continua il suo racconto anche quando riferisce la notizia
secondo cui in questo disastro i Persiani avrebbero perso non meno di
Diversa la sorte dell’eroe Giasone che in altra zona della Grecia, all’altezza di capo
Malea, trascinato dal vento del nord fino alla Libia, si ferma tra le secche del lago Tritonide
ma ne esce grazie all’aiuto del dio Tritone (4, 179, 2). Sul ruolo dei venti in Erodoto cfr.
GULLETTA 2004.
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quattrocento navi, innumerevoli uomini e una grande massa di ricchezze (7,
190, 1), e aggiunge che
«la tempesta durò tre giorni; infine, immolando vittime e cantando incantesimi
al vento con grida e inoltre sacrificando a Teti e alle Nereidi, i Magi nel quarto
giorno la fecero cessare, oppure per qualche altro motivo cessò da se stessa
spontaneamente. Sacrificavano a Teti, avendo saputo dagli Ioni il racconto
secondo cui da questo luogo essa era stata rapita da Peleo e che tutto il
promontorio Sepiade apparteneva a lei e alle altre Nereidi» (7, 191, 1-2).
I disastri naturali, però, non cessano di colpire i Persiani, e qualche
volta è Erodoto stesso, che in tali casi avverte la particolare stranezza del
fenomeno, a dare per certo che essi abbiano origine divina. Così, nell’agosto
del 480, all’Artemisio,
«appena venne l’oscurità – benché fosse il mezzo della stagione estiva – per tutta la
notte ci furono una forte pioggia e forti tuoni provenienti dal Pelio; i cadaveri e i
relitti venivano trascinati ad Afete [sott.: dove si trovavano i Persiani] e si
incagliavano nelle prue delle navi e intralciavano le pale dei remi. I soldati che
erano lì, sentendo queste cose, erano impauriti, aspettandosi, dati i mali a cui
erano giunti, una rovina totale, perché prima di riprendere fiato dal naufragio e
dalla tempesta che c’era stata sul Pelio li aveva sorpresi una dura battaglia
navale e dopo la battaglia una pioggia furiosa e violenti torrenti che correvano
verso il mare e forti tuoni. Tale fu la notte per costoro. Ma per quelli incaricati di
circumnavigare l’Eubea questa stessa notte fu di molto ancora più orribile
(agriotére) in quanto li colse in alto mare e furono trascinati via e fecero una fine
disgraziata: infatti la tempesta e l’acqua li colsero mentre erano nella zona delle
Cave dell’Eubea, e furono trascinati dal vento (pnéumati) e senza sapere dove
venivano trascinati furono fracassati sugli scogli. Tutto era compiuto dalla divinità,
affinché i Persiani venissero uguagliati ai Greci e non avessero vantaggi» (8, 1213).
Pertanto, i Greci ebbero la notizia che quei Persiani «erano stati
annientati dalla tempesta che c’era stata» (8, 14, 1).
Quando i Persiani, in marcia verso Atene, arrivarono a Delfi,
all’altezza del tempio di Atena Pronaia, «dal cielo si abbatterono su di loro
dei fulmini e dal Parnaso due rocce, staccatesi, precipitarono su di loro con
grande fracasso e ne uccisero molti e dal tempio della Pronaia sorse un urlo e
un grido di guerra. Tutte queste cose concomitanti misero paura ai barbari»
(8, 37, 3-38, 1). Va sottolineato a questo punto il rapporto tra gli elementi
naturali della terra greca e la paura da questi procurata ai Persiani che, come
si vedrà, costituisce una costante nel racconto erodoteo. Il carattere divino di
questo avvenimento doveva essere diffusamente ammesso e lo testimonia il
fatto stesso che i massi vennero conservati nel tempio dove Erodoto li poté
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vedere (8, 39, 2). La valenza sacra resta anche nell’azione del vento di zefiro
che spinge i relitti delle navi della battaglia di Salamina fino alla spiaggia
Coliade dell’Attica, in modo che si avveri la profezia secondo cui le donne
del luogo accenderanno il fuoco con i remi (8, 96, 2). Ma in ogni caso la
natura sembra cooperare con i Greci contro i Persiani, anche soltanto per
abbattere il loro morale, perfino quando, per così dire, non agisce. Se nel
passo sopra citato le rocce hanno quasi miracolosamente preso vita e moto
provocando danno e paura, in un altro caso è semplicemente l’ombra delle
rocce protese sul mare, a capo Zostere, tra il Pireo e capo Sunio, a mettere in
fuga i Persiani che, invece, hanno pensato che si trattasse di navi greche (8,
107, 1).
La natura continua ad essere ostile ai Persiani anche quando il Re, in
difficoltà, si ritira e trova i ponti che aveva ricostruito sull’Ellesponto
«distrutti da una tempesta» e, passato ad Abido con le navi, perde molti
soldati sia per il fatto che essi si rimpinzano del cibo adesso finalmente
disponibile sia per il cambiamento del tipo di acqua (8, 117, 1-2). La versione
alternativa a questo racconto, narrata dallo stesso Erodoto, presenta fatti
differenti ma mantiene l’idea di un analogo accanimento della natura. Essa
infatti afferma che Serse si sarebbe imbarcato a Eione per l’Asia, ma «mentre
navigava lo sorprese un vento forte e tempestoso proveniente dallo
Strimone»5 e, poiché la tempesta infuriava, il re, spaventato, accettò il
suggerimento del timoniere di far gettare in acqua i suoi soldati per
alleggerire la nave e solo così riuscì ad arrivare in Asia (8, 118, 2-4).
Infine, quando Artabazo, dopo avere scortato Serse in Asia, ritorna in
Grecia e assedia Potidea, qui, dopo tre mesi di assedio,
«avviene un notevole abbassamento della marea che dura per molto tempo. I
barbari, avendo visto che si costituiva uno stagno, avanzarono verso la Pallene.
Dopo che ebbero percorso due parti della distanza e ne restavano ancora tre da
percorrere per essere nella Pallene, avvenne una grande ondata, quanto mai ce
n’erano state, come dicono quelli del luogo, benché ce ne siano spesso. Quelli
che non sapevano nuotare perirono, quelli che ne erano capaci, li uccisero i
Potideati, venuti su delle imbarcazioni. I Potideati dicono che la causa del flusso
e della sventura persiana fu che proprio questi Persiani che furono distrutti dal
mare erano stati quelli che avevano profanato il tempio e la statua di Poseidone
nel sobborgo della città. E dando questa spiegazione a me sembra che dicano
bene» (8, 129, 1-3).
5
Al quale, tra l’altro, Serse aveva sacrificato: 7, 113, 2.
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Qui adesso viene alla luce il fatto che la cooperazione della natura –
della natura della terra greca che fa un tutt’uno con la religione6 – possiede il
carattere della giustizia punitrice dell’empietà. La natura – è il pensiero dei
cittadini di Potidea condiviso da Erodoto - non tollera il comportamento
sacrilego dei Persiani. Anche quando questi sembrano avere vinto, appunto,
sia sulla natura sia sulla religione dei Greci, come quando bruciano il tempio
di Eretteo sull’acropoli di Atene e l’olivo della dea protettrice della città che
vi si trova dentro, la realtà risulta ben diversa. Il giorno successivo infatti un
ramo di quell’albero germoglia (8, 55). La Grecia, i suoi dei, la natura che li
rappresenta sopravvivono, risorgono e resistono, anzi trionfano, rispetto al
tentativo nemico di conquista e annientamento.
Dopo la vittoria a Salamina, Temistocle è chiaro e netto nel mettere in
relazione il successo riportato e l’aiuto divino (che noi sappiamo essersi
manifestato attraverso i fenomeni naturali già citati) contro l’azione persiana
che, si sottolinea ancora, è oltraggiosa, al contempo, nel campo della
religione e in quello della natura, oltre che in quello ad essi connesso della
politica:
«questa impresa non l’abbiamo compiuta noi ma gli dei e gli eroi che
rifiutarono che sull’Asia e sull’Europa regnasse un solo uomo, che era empio e
tracotante e che considerava allo stesso modo le cose sacre e quelle profane,
bruciando e abbattendo le statue degli dei e che fece frustare e mettere in catene
il mare» (8, 109, 3)7.
Palesemente, qui, il riferimento è alla fustigazione (e forse anche
marchiatura) dell’Ellesponto inflitta da Serse, con l’aggiunta di parole
offensive («barbare e folli», perché il Re si presentava come «padrone» che
avrebbe attraversato lo stretto che questi lo volesse o no), come castigo al mare
in quanto, pur non avendo ricevuto alcuna offesa, aveva distrutto il ponte
che egli aveva costruito per passare dall’Asia all’Europa (7, 34-35). Ora,
dobbiamo pensare che qui Serse fosse sì empio ma avesse almeno ragione di
pensare di avere reagito ad un torto fattogli dall’Ellesponto o piuttosto
bisogna considerare strettamente connesse l’empietà e l’ingiustizia del Re? A
me pare che sia da seguire la seconda ipotesi. Infatti, è vero che l’Ellesponto
non aveva ricevuto offesa esplicita da Serse ma è altrettanto vero che questi
Cfr. LARSON 2007 (il senso generale del saggio, per quel che qui mi interessa, può
essere riassunto nell’affermazione, che viene ben argomentata e illustrata con vari esempi, di
p. 57: «the gods of the land naturally favor and protect the native-born»).
7 Cfr. 7, 139, 5: furono gli Ateniesi, «naturalmente dopo gli dei», a respingere i
Persiani.
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voleva servirsi del ponte per invadere l’Europa8, all’interno di un progetto di
sottomissione di tutta la terra che il re persiano aveva osato porre in termini
di confronto con il regno di Zeus: «daremo alla terra di Persia gli stessi
confini dell’etere di Zeus, perché il Sole non vedrà terra alcuna che confini
con la nostra, ma percorrendo tutta l’Europa insieme a voi io renderò tutte le
terre un’unica regione» (7, 8γ 1-2). Lo stretto marino aveva dunque
semplicemente preso le difese di coloro che erano vittime di un torto.
3. Natura e giustizia
A questo punto va chiarito meglio che la cooperazione della natura,
esplicitamente o implicitamente strumento degli dei contro i Persiani, non
avviene all’insegna di un’idea come quella del «Dio è con noi», nel senso che
«gli dei sono con i Greci», per così dire, a prescindere da tutto. La tensione
attiva tra natura e Persiani è coerente con la credenza generale relativa alle
dinamiche della giustizia nel rapporto tra gli uomini (a qualsiasi popolo essi
appartengano) e tra gli uomini e ciò che è loro superiore.
In questa attività acque e venti, gli elementi mobili della natura, sono
gli agenti del contrasto privilegiati, in quanto possono anche iniziare l’azione
conflittuale, o almeno quella che viene interpretata come azione conflittuale
dall’agente umano che ad essa reagisce empiamente.
Se le vicende del re d’Egitto Ferone – punito dagli dei con la cecità per
avere scagliato una lancia, «con folle arroganza» (atasthalíe), nei vortici del
Nilo che ha inondato le colture ed è agitato da un forte vento (2, 111, 1-2) –
sembrano avere una connotazione esclusivamente religiosa, altri casi
costituiscono esempio di una presa di posizione, da parte della natura, in
favore di chi sta subendo ingiustizia.
A questa tipologia appartengono sia il racconto secondo cui il fiume
Dira, in Tessaglia, sarebbe scaturito per portare aiuto (boethéo) a Eracle che
bruciava (7, 198, 2), sia quello secondo cui un fiume della Macedonia, appena
i Temenidi in fuga dai sicari del re di Lebea che vuole ingiustamente
ucciderli lo superano, si gonfia a tal punto da impedire agli inseguitori di
attraversarlo e far sì che i fuggitivi effettivamente si salvino (8, 138, 3).
Quanto ai Persiani, il loro contrasto con la natura, specialmente con quella
rappresentata dall’acqua dei fiumi, sembra già avviato in qualche modo da
Ciro quando si appresta a marciare – in quella che ancora una volta è
Sulla fustigazione dell’Ellesponto che, fuori dall’interpretazione erodotea, può
essere considerato un atto di propaganda della regalità persiana, cf. RUBERTO 2012.
Naturalmente la bibliografia su questo episodio è vasta: qui basti aggiungere almeno
BRIQUEL-DESNIER 1983 e LONGO 1987, 38-40.
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un’invasione e duque un atto ingiusto – contro Babilonia: uno dei suoi cavalli
sacri entra, hypó hýbrios, nel fiume Ginde per cercare di attraversarlo ma
viene travolto dalle acque e per questo Ciro si fa duro (chalepáino) col fiume
che ha osato tale oltraggio (hybrízo); anzi, dopo aver minacciato (epapeiláo) di
renderlo tanto debole da potere essere guadato dalle donne senza che queste
nemmeno si bagnino le ginocchia, interrompe la spedizione e fa scavare e
dividere il fiume in trecentosessanta canali rivolti in tutte le direzioni
facendogli così pagare il fio (tíno) della sua azione (1, 189, 1-190, 1; 1, 202, 3)9.
L’avanzata di Serse verso l’Europa è contrassegnata da quella che, a
questo punto, forse può essere interpretata come una vera e propria lotta, che
in questo momento si conclude a favore di Serse, tra il Re e la natura. Non mi
riferisco soltanto alla già citata fustigazione dell’Ellesponto, in cui la
dimensione della violenza è evidente, ma anche al lessico antagonistico che
connota il ‘comportamento’ della natura in rapporto all’esercito persiano.
Così, i soldati di Serse sono talmente numerosi che solo i fiumi più grandi
riescono a non venir meno (epiléipo), prosciugati da quelli (7, 21, 1). Il tanto
grande esercito persiano non riesce ad essere dissetato dal fiume Scamandro
nella Troade la cui corrente perciò viene meno (epiléipo) e non basta (apochráo)
(7, 43, 1). Il fiume Melas non resiste (antíscho) all’esercito e viene meno
(epiléipo) (7, 58, 3). Il fiume Liso «non resistette (antésche) nel fornire acqua
all’esercito di Serse ma venne meno (epélipe)» (7, 108, 2). Le sole bestie da
soma, abbeverandosi in un grande lago della città di Pistiro, lo disseccarono
(7, 109, 2). Tra alcuni grandi fiumi solo l’Echidoro «non bastò (ouk antéchrese)
a soddisfare la sete dell’esercito ma venne meno (epélipe)» (7, 127, 2). Erodoto
ribadisce che, dato l’enorme numero dei Persiani, non si stupisce che molti
fiumi si disseccarono (7, 187, 1). Invece, «tra i fiumi della Tessaglia,
l’Onocono fu l’unico che non bastò (apéchrese) a soddisfare la sete
dell’esercito. Dei fiumi che scorrono nell’Acaia, neppure il più grande,
l’Epidano, neppure questo resistette (antésche), se non a malapena» (7, 196).
La campagna di Cambise contro gli Etiopi, poi, è segnata da tratti che,
come vedremo, la fanno assomigliare per certi versi a quella di Serse contro
la Grecia. Smascherato dal re degli Etiopi come uomo ingiusto in quanto,
altrimenti, «non desidererebbe altra terra che la sua, né cercherebbe di
ridurre in servitù uomini dai quali non ha ricevuto alcun torto» (3, 21, 2),
Cambise si mette subito in marcia contro di loro senza preparare le adeguate
riserve di cibo: ordina di ridurre in schiavitù gli Ammoni e incendiare il
Questo episodio è particolarmente rappresentativo del rapporto tra espansionismo
persiano e atteggiamento di controllo e di offesa nei confronti della natura, che si estrinseca
non solo all’esterno ma anche all’interno dell’impero, come nel caso descritto in 3, 117 (cfr.
ROMM 2007, 187 sg.).
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tempio di Zeus, e va avanti ma, prima di aver fatto un quinto del cammino,
gli vengono a mancare le provviste; tuttavia, continua ad avanzare e i soldati,
finché possono ricavare qualcosa dalla terra, si nutrono con l’erba ma
quando arrivano nella zona sabbiosa si mettono a sorteggiare un uomo ogni
dieci per mangiarlo: perciò Cambise rinuncia alla spedizione (3, 25, 1-7).
Inoltre, i cinquantamila soldati inviati contro gli Ammoni non arrivano a
destinazione e non si saprà neanche la loro fine se non ciò che ne raccontano
gli Ammoni stessi. Secondo loro, nel deserto, un «grande e straordinario
(mégan te kái exáision) vento Noto spirò su di loro mentre erano intenti al
pasto e, trascinando vortici di sabbia, li seppellì e in questo modo
scomparvero» (3, 26, 1-3)10. La scomparsa di tali soldati, che sarebbero incorsi
in questa sorta di giustizia di Noto annientatrice degli invasori, è analoga a
quella del popolo degli Psilli, insediato all’interno della Sirte. In base a
quanto narrano i Libici, esso avrebbe fatto una spedizione contro il vento
Noto dopo che questi, soffiando, aveva prosciugato le sue cisterne, ma
quando l’esercito giunse nel deserto di sabbia, il vento lo seppellì (4, 173).
Anche qui la distruzione potrebbe essere legata al fatto che gli Psilli marciano
fuori del loro territorio piuttosto che ad un carattere intrinsecamente empio
della loro spedizione, perché l’atteggiamento ostile nei confronti di entità
naturali, sia pure divine ma estranee al proprio territorio, non sembra
automaticamente condannabile. Erodoto, infatti, ci informa su diversi casi di
questo tipo senza che mai traspaiano suoi giudizi negativi. Così, i Geti,
quando si verifica un tuono o un fulmine, scagliano frecce verso il cielo
proferendo minacce contro la divinità, perché credono che non vi sia altro
dio oltre a quello loro (4, 94, 4). I Cauni, che prima avevano eretto templi a
divinità straniere, quando decidono di tornare a venerare solo gli dei patrii,
indossano le armi e vanno in processione percuotendo l’aria con le lance per
scacciare gli dei stranieri (1, 172, 2), e gli Atlanti mandano maledizioni contro
il Sole quando è troppo caldo e lo insultano con ogni turpitudine perché,
ardendo, consuma loro e la loro regione (4, 184, 2).
Forse si può dire che gli uomini e l’ambiente naturale locale
costituiscono un unico insieme di parti reciprocamente solidali e addirittura
in un concreto rapporto di mutuo aiuto. Le parole utilizzate da Erodoto mi
sembra che parlino molto chiaramente in questo senso. Gli Sciti, per esempio,
nel non avere città né mura né case e nel praticare non l’agricoltura ma
l’allevamento e nel vivere da nomadi, hanno trovato (exeurísko) il modo
perché nessun invasore sfugga loro e nessuno li possa sorprendere, cosicché
sono invincibili e impossibili da affrontare in uno scontro: «queste cose sono
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Sull’immagine del deserto cfr. AUJAC 2002.
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state da loro escogitate, essendo la terra adatta e i fiumi loro alleati (eónton
sphi symmáchon); infatti, la terra è pianeggiante ed erbosa, ricca di acqua e
attraverso di essa scorrono fiumi non molto meno numerosi dei canali
d’Egitto» (4, 47, 1). Probabilmente, l’‘alleanza’ è costituita dal fatto che i fiumi
forniscono, come è detto espressamente a proposito del fiume Boristene,
nonno di Targitao, primo uomo della Scizia (4, 5, 1), «pascoli bellissimi e
molto ben curati e pesci squisiti e abbondanti», con acqua da bere, e sulle sue
rive, dove il terreno non è seminato, l’erba cresce altissima e alla foce il sale
cristallizza spontaneamente (4, 53, 2-3, cfr. 4, 58-59, 1). Il rapporto di stretta
cooperazione tra popolo e natura del territorio da esso abitato lo vediamo
testimoniato espressamente come un rapporto di cooperazione civica, anche
nelle lotte tra Greci stessi: nel 494 a.C., lo spartano Cleomene, in procinto di
invadere l’Argolide, offre sacrifici propiziatori al fiume argivo Erasino, ma
ottiene presagi sfavorevoli che gli impediscono di avanzare e che egli stesso
non ha perciò difficoltà a interpretare come una risposta ‘partigiana’ del
fiume «che non tradisce i concittadini» (6, 76, 1-2)11.
4. Un ruolo di giustizia anche per lo «spazio»?
Si sa bene – ed Erodoto lo ricorda più volte - che il Gran Re chiede ai
popoli terra e acqua in segno di sottomissione12. Ma nelle spedizioni militari
fatte contro la Grecia, i due elementi, quasi mostrassero la loro stessa
esplicita riluttanza a passare in mano all’invasore, svolgono un ruolo di
opposizione all’impresa persiana anche quando vengono presentati come
semplici dati spaziali fisici.
Dell’ostilità propriamente bellica della terra e dell’acqua, ancorché
specificamente dell’acqua rappresentata dal mare, si mostra consapevole il
persiano Artabano nel tentativo di fare riflettere Serse sui rischi della sua
impresa contro i Greci. Per illustrare un concetto che già abbiamo visto
È indicativo anche il fatto che Cleomene non si arrende e prende un’altra strada
ma poi finisce per compiere una serie di azioni empie (tra cui, secondo alcuni, quella di dar
fuoco a un bosco sacro) che lo porteranno ad una brutta fine (cf. 6, 75, 3 e 80). L’episodio
relativo al fiume Erasino viene solitamente menzionato per sottolineare il legame sussistente
tra un luogo e le divinità che vi sono onorate (cfr. oltre al già citato (supra, n. 6) LARSON 2007,
anche RICHER 1999 (par. 24 dell’ed. online); sui sacrifici alle frontiere, come quello in oggetto,
attestati a proposito degli eserciti spartani cfr. PRITCHETT 1979, 68 sgg. Al di là di tutte le
differenze ‘comportamentali’, il ‘sentimento’ del fiume Erasino non è molto diverso da
quello dei fiumi Scamandro e Simoenta quando combattono con Achille in difesa dei Troiani
in Omero, Il. 21, 214 sgg. (part. 249-250 e 308-310).
12 Cfr. ad es. 4, 126; 5, 17, 1 e 73, 2; 6, 48, 2; 7, 32 etc. Sul valore simbolico di questi due
elementi cfr. MUNN 2009.
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espresso nel caso della spedizione di Serse contro gli Etiopi, egli adopera,
appunto in riferimento al ruolo degli elementi della natura, il vocabolario
militare: «due cose, le più grandi di tutte sono nemiche (polemiótata)» ai
Persiani, cioè la terra e il mare: il mare, perché non c’è porto sufficientemente
grande per accogliere (déchomai) tutta la flotta persiana, nel caso di una
tempesta; la terra, a sua volta, sarà nemica (polemíe), specialmente se durante
l’avanzata non sorgerà alcun ostacolo (antíxoon), perché il desiderio di andare
avanti trarrà in inganno ed essa diverrà sempre più nemica (polemiotére) in
quanto, col passare del tempo, diventerà sempre più vasta e, non potendo
giungere le vettovaglie necessarie all’esercito, produrrà fame (7, 47, 2 e 49, 15). L’apparente mancanza di opposizione della regione al Re si rivela dunque
una lusinga per la sua insaziabilità che lo attira in una trappola. Nella
riflessione di Artabano la natura, terra o mare («porto marino»), è
considerata nel suo passaggio, per così dire, da ambiente naturale a
estensione spaziale, da sistema ecologico-territoriale a luogo inteso come
grandezza fisica: insomma, come immutabile dato di fatto che pone un
ostacolo netto. Serse, nella sua risposta, vede le cose diversamente, restando
all’interno di un’ottica bellica che prevede solo spazi ambientali o
antropizzati: alla fin fine, egli può ‘confrontarsi’ efficacemente con i primi in
virtù della temporalità atmosferico-naturale in cui inizia la sua azione, e
dominare i secondi grazie alla numerosità del suo esercito. Infatti, dice il Re,
se si vuole avere successo, bisogna correre qualche rischio ma in realtà, nel
caso specifico, non c’è nulla da temere: il suo esercito, partendo «nella più
bella stagione» - dunque in sintonia con la natura - e con vettovaglie
abbondanti, potrà poi sostentarsi con le messi «della terra e del popolo», che
è fatto di agricoltori e non di nomadi, su cui marcerà (7, 50, 4). Gli eventi,
però, daranno ragione ad Artabano su entrambe le questioni e, come già
Cambise nella sua fallita spedizione contro gli Etiopi, anche Serse si mostrerà
tanto ingiusto prevaricatore quanto incapace di prevedere come i luoghi che
invade potrebbero appunto ridurlo a mal partito.
Sul versante di terra, il ritorno in patria di Serse dopo la sconfitta sarà
segnato dal fatto che i soldati, quando non trovano da saccheggiare, per la
fame si riducono a mangiare l’erba, e le foglie e le cortecce degli alberi e
vengono colpiti dalla dissenteria e dalla peste (8, 115, 1-3). A proposito di
questo evento, già Eschilo (Persiani 482-491 e soprattutto 792-794) aveva
espressamente messo in luce lo stesso legame cooperativo tra la terra e i
Greci in funzione antipersiana affermando che essa, «in quanto uccide con la
fame uomini troppo numerosi», è «alleata» (xýmmachos, xymmachéi) dei Greci.
Sul versante marino, poi, la spiaggia non sarà sufficiente a contenere
tutte le imbarcazioni persiane (7, 188, 1) e il tratto di mare, troppo ristretto in
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rapporto al numero delle navi, farà sì che queste si ostacolino reciprocamente
sia all’Artemisio (8, 16, 2) sia a Salamina (8, 89, 2; 91, 1). A proposito di
quest’ultimo scontro, Temistocle comprende correttamente che, data la
pesantezza e inferiorità numerica delle navi greche, mentre il mare aperto
porterebbe ad un esito bellico sfavorevole, un luogo poco esteso costituisce
un vantaggio, e si comporta di conseguenza: infatti, «gli uomini che
decidono (sulla base di) ciò che avviene di solito (oikóta), per lo più hanno
successo, mentre quando decidono (sulla base di) ciò che non avviene di
solito (mé oikóta) nemmeno la divinità vuole accordarsi con le opinioni
umane» (8, 60γ). Insomma, l’estensione dello spazio greco (stretto), sia esso
la spiaggia o il mare, non ‘accoglierà’ la grandezza (numerica) dei Persiani:
conoscere le dimensioni fisiche dei luoghi, le loro potenzialità tendenziali,
consente di capire come farsi aiutare da essi ... e dagli dei.
In realtà, la ristrettezza dello spazio si dimostrerà un vantaggio per i
Greci anche in combattimenti di terra. Così è, innanzitutto, alle Termopili,
dove i Persiani, per giunta quelli scelti, denominati «gli immortali» e in
numero maggiore dei Greci, sono condannati all’insuccesso, come spiega
Erodoto, «visto che combattevano in un luogo angusto» (7, 211, 2). Tra l’altro,
ancora alle Termopili, un altro fattore ambientale, specificamente l’assenza di
vento (nenemía), costituisce anch’esso un elemento a favore dei Greci perché
permette loro di udire il rumore delle foglie calpestate dai Persiani e quindi
di non essere presi alla sprovvista (7, 218, 1)13. Poi la situazione è favorevole
ai Greci a Platea, dove i Persiani, caduto il muro che li riparava e rotte le fila,
«erano turbati, com’era ovvio, per il poco spazio, impauriti e rinchiusi in molte
decine di migliaia di uomini» e perciò venivano massacrati (9, 70, 4-5). Infine,
si verificano condizioni analoghe anche ad Atene: infatti Mardonio, dopo
averla incendiata, si era ritirato «perché – nota Erodoto - l’Attica non è una
regione adatta alla cavalleria e se fosse stato vinto in uno scontro non c’era
scampo se non per uno stretto sentiero, cosicché anche pochi uomini li
avrebbero trattenuti» (9, 13, 1-3).
Dunque anche le caratteristiche meramente estensive del territorio
greco producono, nei Persiani, paura e sconfitta. In relazione agli elementi
atmosferici, Artabano aveva ammonito
Serse, per dissuaderlo dalla
spedizione, facendogli osservare:
Ho già osservato che il vento Zefiro svolge il ruolo di (oggettivo) operatore divino
in 8, 96, 2. È il caso di aggiungere che da esso, come anche da Noto e da altri venti, si guarda
Serse nell’operazione di ancoraggio delle sue navi che fanno da ponte sull’Ellesponto in 7,
36, 2: tra i venti e i Persiani c’è un contrasto profondo, un’opposizione quasi di principio.
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«tu vedi come la divinità fulmina gli animali più grandi e non lascia che
facciano mostra di sé, mentre quelli piccoli nemmeno la infastidiscono. Vedi
come lancia i suoi dardi sugli edifici più alti e sui più alti alberi. (...) Così anche
un grande esercito viene distrutto da uno piccolo quando la divinità, per
invidia, gli getta addosso la paura o il tuono (brontén) per i quali periscono in
modo indegno di loro, perché il dio non permette che un altro tranne che lui
stesso pensi cose grandi» (7, 10ε; cfr. phóbos e brontái, rispettivamente, in 7, 42, 2
e 7, 43, 2).
La descrizione dei luoghi sembra essere coerente, appunto, con tale
precisa cornice teorica. La grandezza, soprattutto se vuole ‘strafare’, esibirsi e
crescere ulteriormente, incorre non solo nell’opposizione divina della natura
ma anche in quella spaziale. Come sostiene ancora Artabano, non è la
pochezza delle forze militari il punto debole di Serse bensì, esattamente al
contrario, la sua abbondanza: gli spazi stretti diventano tanto più ostili ai
Persiani quanto più sono numerorse le loro truppe sia di terra sia di mare
che, appunto per le loro dimensioni, avranno difficoltà ad agire (7, 49, 1). È
una questione religiosa, dunque, in quanto la divinità ricorda continuamente
agli esseri umani il loro basso statuto. Ma è anche una questione fisica perché
le dimensioni spaziali sono anch’esse solidali con l’ambito naturale in cui più
propriamente si esprime la volontà divina: il “grande”(persiano) non può
essere contenuto nel “piccolo” (greco), non può essere accolto, non può entrare
in esso, e per questo esso non può che essere destinato all’insuccesso.
Andrea Cozzo
Università degli Studi di Palermo
Dipartimento Culture e Società
Viale delle Scienze, Ed. 15
90128
Palermo, Italia
andrea.cozzo@unipa.it
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Andrea Cozzo, Arruolare la natura in Erodoto
Abstract
L’articolo individua i ruoli assegnati da Erodoto agli elementi naturali
e ambientali negli eventi bellici, o in generale conflittuali. Tali elementi
sembrano essere chiamati in causa come cooperatori della giustizia e della
legge generale secondo cui gli uomini e l’ambiente naturale locale
costituiscono un unico insieme di parti reciprocamente solidali e addirittura
in un concreto rapporto di mutuo aiuto. Ma essi compaiono anche come
spazi caratterizzati in senso meramente dimensionale: qui la «piccolezza»
greca si rivela funzionale all’impossibilità di contenere la «grandezza»
dell’esercito persiano che, per questo stesso, non potrà che risultare sconfitto.
Parole-chiave: Erodoto, Natura, Guerra, Spazio, Ambiente.
The study identifies the roles assigned by Herodotus to natural and
environmental elements in war events, or in general conflictual events. These
elements are considered as cooperators of justice by virtue of law according
to which men and the local natural environment constitute a complex of
mutually supportive parts and even in a concrete relationship of mutual aid.
They also appear as spaces characterized in a merely dimensional sense.
Here the Greek «smallness» is functional to the impossibility of containing
the number of the Persian army which, therefore, can only be defeated.
Keywords: Herodotus, Nature, War, Space, Environment.
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