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La profezia di fronte al delirio dei potenti (1Re 21) Abstract La vicenda tragica di Nabot è un’efficace riflessione sulla forza devastante del desiderio che spinge l’uomo alla violenza a cui si oppone soltanto la parola profetica di Elia. di Cristiano D’Angelo La forza travolgente del desiderio di possedere è un’esperienza che, prima o poi, ogni uomo o donna sperimenta, o nella forma del desiderio inappagato che induce a fuggire e rinchiudersi in se stessi, come il re Acab che indispettito dal rifiuto di Nabot «volge la faccia da un lato» (1Re 21,4), o nella forma della prepotenza che si accaparra dei beni altrui, incurante di ogni diritto e della verità, come la regina Gezabele che fa uccidere Nabot per impossessarsi della sua vigna. È questo il tema del racconto del cap. 21 del primo libro dei Re che narra la storia di Acab, potente re di Israele, contro Nabot, piccolo proprietario terriero che difende la sua vigna dalle mire del re che la pretende per sé, solo per soddisfare il suo desiderio di ingrandire i territori della corona e di abbellire il suo palazzo. Il racconto, da un punto di vista storico, conserva il ricordo della grande espansione del regno di Israele sotto i re Omri (885-874 a.C.) e Acab (874-853 a.C.), durante i quali un fiorente sviluppo economico e una serie di campagne militari produssero ricchezza ma anche disuguaglianze sociali e ingiustizie. La vicenda di Nabot diventa così un caso emblematico dell’avidità del potere che, pur di realizzare i suoi obbiettivi, non conosce valori, non rispetta la giustizia, perverte la religione. Contro questa tracotanza del potere si erge la parola profetica di Elia che, in nome di Dio, rivela la falsità e l’arroganza del re. Il racconto tuttavia non è solo una denuncia della malvagità del re e dei potenti; è anche una parabola della condizione umana, soggetta alla prepotenza del desiderio di possedere. All’ombra dei potenti L’inizio del racconto – «Nabot di Izreèl possedeva una vigna che era a Izreèl, vicino al palazzo di Acab, re di Samaria» (21,1) – mette al centro della frase la vigna e il palazzo, agli estremi i personaggi, ottenendo l’effetto di contrapporre nella mente del lettore l’immagine verdeggiante della vigna, simbolo della benedizione di Dio e della fecondità della terra, con l’austerità imponente delle mura del palazzo, immagine del potere regale. Le parole con cui Acab si rivolge a Nabot delineano il ritratto di un re che si crede onnipotente e che agisce come agirebbe un Dio: «Cedimi la tua vigna; ne farò un orto perché è confinante con la mia casa». Il palazzo ha diritto a uno spazio vitale; vicino al palazzo non possono esserci territori di altri; la volontà del re di rendere magnificente la sua dimora e di assicurarne il sostentamento valgono più di ogni altra ragione; il rispetto per la memoria dei padri, con cui Nabot rifiuta la richiesta di Acab, non è preso in considerazione dal re. La brama di avere e la prepotenza del potere illudono il re di essere come Dio, rendendo l’uomo insensibile ai diritti degli altri e alle esigenze della giustizia. Il desiderio del re, le sue ambizioni, la disponibilità di denaro lo fanno sentire in diritto di chiedere e ottenere ciò che vuole, a dispetto di ogni tradizione e affetto. Quella del re a Nabot non è una richiesta, ma un ordine mascherato di buone maniere: «Dammi la tua vigna». Il re non chiede di vendere, ma di dare, e il prezzo o la permuta che propone a Nabot appaiono più una concessione di favore che una compravendita. Il re parla e agisce come se fosse un Dio, perché secondo la Bibbia è Dio che dà la terra (Dt 4,21.38) e la divide tra le tribù di Israele (Gs 11,23); ed è Dio che fa di Eden un orto (Gen 1,30) per nutrire gli esseri viventi. La proposta di Acab a Nabot è apparentemente sensata: egli offre in cambio della vigna di Nabot «una vigna migliore» (1Re 21,2) o, se Nabot preferisce, gli darà un corrispettivo in denaro. Il desiderio di possedere produce la presunzione di essere noi a decidere ciò che è buono o cattivo per gli altri, così Acab è lui che sa ciò che è buono o meno buono per Nabot; fino alla farsa di apparire addirittura generoso, dando in cambio una viglia migliore di quella stessa di Nabot! E se Nabot preferisce del denaro, il re glie lo darà, perché per lui tutto ha un prezzo e tutto può essere comprato e misurato sul valore economico. La risposta di Nabot – «Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri« (21,3) – rivela un mondo di valori totalmente diverso da quello del re, evocando l’idea radicata nella tradizione biblica della terra come dono inalienabile di Dio, unico proprietario di tutta la terra (Lv 25), e del legame tra terra e famiglia (Dt 25,5-6; Rut 4,5). Acab non reagisce alle parole di Nabot, ma se ne va «amareggiato e sdegnato» (1Re 21,4), come svuotato da quel “no” che rivelava l’illusoria onnipotenza del suo desiderio, e come sorpreso e confuso dalla scoperta di un limite che per essere superato avrebbe necessitato l’uso della violenza, di cui si farà poi interprete ed esecutrice Gezabele. Per il momento, però, Acab è come paralizzato da quel “no” imprevisto, e si getta sul letto, a simboleggiare una morte e una ferita, quella del proprio orgoglio e del proprio fallimento, che la risposta di Nabot gli aveva messo di fronte. Così il re non vuol vedere nessuno, «voltò la faccia da un lato», e non voleva mangiare niente; perché il rifiuto degli altri e la voglia di morire, sono a volte la manifestazione di un Io incapace di relazionarsi con la diversità e di accettare il limite. Significativamente, quando Acab risponde alla regina che gli chiede conto del suo stato d’animo dirà che Nabot gli ha detto «non darò a te la mia vigna» Traduzione letterale, leggermente diversa da quella della CEI: «non cederò la mia vigna»., sorvolando sul motivo del rifiuto, il rispetto dell’eredità dei padri, ed enfatizzando il rifiuto come un fatto personale, a sottolineare il non riconoscimento dell’autorità regale, e lasciando aperta la possibilità che, quello che al re è negato, ad altri potrebbe essere concesso. In altre parole, Acab non sopporta che la parola di Nabot valga quanto la sua! Dall’amarezza alla violenza Il rifiuto di Nabot produce nel re un sentimento di «amarezza» e «sdegno», che l’ebraico esprime con due aggettivi che evocano un ampio arco di sentimenti interiori che vanno dalla rabbia all’ostinazione, dalla confusione alla distruzione, come dopo una tempesta o una guerra. È l’efficace descrizione di uno stato psichico di stordimento e di torpore, una sorta di autismo dei sentimenti, in cui ci si rinchiude in se stessi, ci si «rigira il volto», fin quando le energie scatenate detonano improvvise nella direzione del pentimento o della violenza omicida. La scena richiama l’episodio di Caino e Abele, quando Caino, frustrato dalla preferenza divina accordata ad Abele, si oscura in volto, o meglio, traducendo alla lettera, «gli cade il volto» (Gen 4,6). Le parole di Dio a Caino lo pongono di fronte all’alternativa di dominare l’istinto che, come un animale accovacciato al suo orecchio lo tenta alla violenza (4,7), o di obbedire alla parola di Dio che lo richiama alla responsabilità e al bene. È la stessa alternativa che si pone ad Adamo ed Eva quando il serpente li incita a non ascoltare il comando divino. In questi testi emerge l’idea che esiste nell’uomo una dimensione istintiva che lo spinge al male e lo allontana da Dio e su cui i malvagi fanno forza per condurre l’uomo alla rovina. Alla luce di questa tradizione biblica il modo con cui il racconto di 1Re 21 descrive Gezabele fa di lei una figura paradigmatica di come il male si impossessa dell’uomo spingendolo al disastro. Gezabele, come il serpente con Eva e come l’animale che sta all’orecchio di Caino, permette alla voce interiore di Acab di venire fuori; così la sua domanda ad Acab fa emergere l’orgoglio ferito del re che si sente rifiutato e non riconosciuto da Nabot. La risposta di Gezabele – «Eserciti così la potestà regale su Israele?» (21,7) – è l’esplicitazione del sentimento di Acab, della sua voglia di dominio e affermazione. La storia di Acab mostra come il desiderio negato e la frustrazione rendono l’uomo influenzabile da chi, come Gezabele o come il serpente nella Genesi, desiderano condurlo al male. Gezabele porta Acab a vedere nella risposta di Nabot non solo un’offesa alla sua persona, ma un’offesa alla regalità. Se Acab non agisce– così sembra sottintendere la regina –, ne andrà del suo onore, egli non sarà più il re che deve essere, e altri, l’intero Israele, potrebbero comprenderlo! L’immagine del re sarebbe screditata e Acab apparirebbe debole e incapace, e la frustrazione e la disappetenza che avevano preso il re dopo il rifiuto di Nabot altro non sarebbero che la conferma della sua inettitudine! Ma non è così, lui è il re, sembra dire Gezabele, e Nabot è colui che ha sbagliato, pertanto Nabot e Israele devono sapere chi è Acab! Gezabele ha abilmente manipolato il re e adesso la questione di una vigna è diventata una questione di stato! A questo punto Gezabele ha campo libero, il silenzio del re alle sue parole, crea lo spazio perché lei possa agire; e Gezabele agisce, sostituendosi al re e a Dio: «Alzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot di Izreèl» (21,8). La gioia che nell’Antico Testamento è associata all’osservanza dei comandamenti (Dt 5,29; 6,3), in particolare all’onorare il padre e la madre (5,16), adesso è legata alle parole e alle azioni di Gezabele! Ancora, per la Bibbia è Dio che insegna al re come esercitare la regalità (17), osservando i comandamenti e vigilando sul desiderio di possedere che devia il cuore (17,14-20), mentre Acab deve imparare dalla regina. La parola e l’agire di Dio sono sostituiti da quelli della donna che adesso si sostituisce anche al re, mandando lettere agli anziani e ai notabili della città per ordire un inganno ai danni di Nabot. Il racconto mostra le estreme conseguenze a cui conduce la brama di possedere, l’incapacità di contenere il desiderio e l’istinto, che portano a sentirsi come Dio e a sostituirsi a Dio. La brama del potere che perverte la religione e le istituzioni Il giudizio e l’accusa a Nabot, avvenuti durante l’assemblea degli anziani e dei notabili della città, un’istituzione normalmente deputata all’amministrazione della giustizia nei villaggi, e il digiuno, che per ordine della regina precede l’assemblea, conferendole solennità e sacralità, rivelano come il delirio di onnipotenza distrugga la religione, corrompa le istituzioni, uccida la verità. Per comprendere l’ironia tragica di questa scena è importante ricordare che il digiuno, che nell’Antico Testamento è un mezzo per espiare i peccati (1Re 7,6) e uno dei modi per conoscere la volontà di Dio (Esd 8,21), diventa ora strumento per commettere un omicidio e affermare la volontà del re! Così il giudizio di Nabot si trasforma in una farsa dove la falsa testimonianza, la corruzione e l’intimidazione ai giudici, diventano gli strumenti della giustizia! La regina si è sostituita a Dio e dove non c’è timor di Dio, c’è timore dei potenti, asservimento e paura, uso degli altri per i propri scopi e accondiscendenza al male. Ma allora perché – si potrebbe domandare – la regina ricorre a uno stratagemma così complicato per uccidere Nabot, mantenendo la farsa di un giudizio che lei ha già predeterminato? Perché in questo modo si permette alle coscienze di mascherarsi, di nascondere le proprie responsabilità dietro l’apparenza delle forme e del diritto; in definitiva, si permette che la paura di perdere il proprio benessere, la propria posizione sociale, abbiano la meglio sul diritto, la verità, la giustizia. Mantenendo la forma di un giudizio equo, la farsa della giustizia permette che le persone si abituino al male e alla violenza, fino a quando chi ha il potere agirà indisturbato, diventando lui stesso fonte del diritto e della giustizia, sostituendosi a Dio e alla verità. Non uccidere, non dire falsa testimonianza, onora il padre e la madre, osserva i comandamenti! In questa scena non muore solo Nabot, ma anche la giustizia, la religione e la vita sociale! La parola profetica argine alla violenza, possibilità di un nuovo inizio È a questo punto drammatico del racconto, quando ormai niente e nessuno sembra più potersi opporre alla volontà del re, che entra sulla scena il profeta Elia, portatore della parola di Dio (21,17). La storia dei rapporti di Elia con Acab e Gezabele era già lunga e conflittuale, con il profeta che aveva preannunciato una lunga siccità e accusato il re di aver abbandonato i comandi del Signore e di aver seguito déi stranieri (1Re 18,19). Elia aveva poi sconfitto i profeti di Baàl con un fuoco sceso dal cielo a divorarli, e il popolo aveva riconosciuto che solo il Signore è Dio (1Re 18,39); dopo di che Elia aveva mandato il re Acab a mangiare e bere perché la pioggia stava tornando (1Re 18,41). Ma tra Acab e il profeta c’è di mezzo Gezabele, a cui il re Acab racconta tutto, provocando così la persecuzione di Elia ad opera della regina (1Re 19). È interessante che come Elia aveva invitato Acab a mangiare come segno della fine della siccità, così anche Gezabele invita il re a mangiare, come segno che anticipa la fine dell’uomo che privava il re della soddisfazione dei propri desideri! C’è un chiaro parallelo tra questi due personaggi, Elia e Gezabele, in questi capitoli, il cui scopo è insegnare che c’è sempre un’alternativa: quella di obbedire alla parola di Dio, mediata dal profeta, che fa tornare l’acqua e la vita, o quella di obbedire alla parola di Gezabele che porta alla morte del giusto e alla distruzione. Può sorprendere che Elia entri sulla scena quando ormai Nabot è morto, ma la sorpresa sparisce se si comprende che il racconto biblico vuole far riflettere sulle conseguenze estreme a cui conducono l’avidità, il desiderio di onnipotenza, un esercizio sbagliato del potere. Era necessario far vedere che Nabot morisse per far capire al lettore tutta la gravità della situazione e presentare così l’esistenza di un’alternativa, rappresentata dalle parole del profeta. L’agire del profeta diventa così esemplificativo di un modo di essere possibile, diverso per Israele, che conduce alla vita e non alla morte, alla giustizia e non alla violenza e alla sopraffazione dei giusti. Così Elia ha il compito di dire la verità, di svelare come stanno le cose, accusando il re, e non Gezabele, di aver «assassinato e usurpato» (21,19); è ancora Elia che esplicita le conseguenze delle azioni del re e della regina, mostrando che esiste un principio di responsabilità, che la storia non è sotto il dominio dei potenti, ma sotto il giudizio di Dio. La Parola del profeta permette di riconoscere la verità, creando la possibilità del pentimento e indicando la via della giustizia che il delirio di onnipotenza del re avevano pervertito. Il profeta si fa portatore di un’istanza superiore, quella della parola di Dio e dei comandamenti, che pongono un limite all’ambizione dei potenti, che frenano la forza devastante della brama di avere e degli istinti, che danno senso e sostengono le istituzioni sociali, spesso ridotte a meri strumenti delle voglie dei potenti. È ancora il profeta che manifesta le conseguenze di un peccato che non coinvolge solo i protagonisti, ma anche i discendenti, perché quando si perturbano l’ordine e la verità, si crea come una scia di morte che si diffonde nello spazio e dura nel tempo. Il profeta, mediatore della parola di Dio, funge da argine alla forza distruttrice del desiderio del re. Sorprendentemente, Acab reagisce alla condanna profetica riconoscendo il proprio peccato e smettendo di mangiare. È questo il primo digiuno autentico del racconto, che implica la volontà del re di sottomettersi a Dio, rimandando così l’esecuzione della condanna. Il racconto mostra qui un intento didattico, insegnando che il pentimento può mutare le decisioni di Dio (Lv 26,41). Ma il messaggio principale del racconto rimane quello sul disastro a cui conducono l’avidità di possedere e le lusinghe del potere. Contro tutto questo si erge la parola profetica che ricorda all’uomo il limite della propria condizione umana, parola che tiene vivo quel timore di Dio che permette all’uomo di vincere la forza onnipotente del desiderio, rendendo così possibile il riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti, la ricerca della verità e l’impegno per la giustizia. Box: I Fenici I Fenici, chiamati in genere nella Bibbia Sidònii, sono gli eredi degli antichi abitanti di Canaan che dopo l’invasione dei Popoli del mare, nel XIII sec. a.C., si distinsero dalle altre popolazioni dell’area siro-palestinese. I Fenici abitavano in città-stato lungo le coste del mare, di cui le più importanti erano Arwad, Biblo, Tiro e Sidone. Furono i re di Tiro a fornire a Davide e Salomone legni pregiati e manodopera specializzata per costruire il palazzo e il tempio; come avvenne anche per la ricostruzione del secondo tempio al ritorno dall’esilio babilonese (Esd 3,7). La Bibbia attesta rapporti positivi tra i Fenici e Israele che portò, talora, ad alleanze reciproche e a matrimoni tra le dinastie regnanti, in particolare all’epoca di Salomone e di Acab, la cui moglie Gezabele, era figlia del re di Sidone. Corrotto dalle mogli straniere, Salomone venerò Astarte, divinità di Sidone, a cui dedicò un altare sulle colline intorno a Gerusalemme (2Re 23,13). Allo stesso modo Acab, influenzato da Gezabele, costruì un tempio al dio fenicio Bàal in Samaria (1Re 16,32). Alcuni oracoli profetici accentuano questa connotazione negativa dei Fenici condannando le loro città, ricche e superbe; ed Ezechiele denuncerà la superbia delirante del re di Tiro che si considera come un Dio (Ez 28). Tuttavia la Bibbia non presenta un ritratto completamente negativo dei Fenici. Anzi, conosce la possibilità della loro conversione (Is 23,17), come testimonia la storia esemplare della vedova di Sarepta di Sidone, anche lei fenicia, che, a differenza della malvagia Gezabele, riconosce Elia come uomo di Dio (1Re 17,23). Finestra: Espressione del volto «Fece girare il suo volto» è la frase con cui la Bibbia segnala la contrarietà e la frustrazione di Acab dopo il rifiuto di Nabot. Molti stati d’animo e sentimenti sono espressi nella Bibbia attraverso il colore del volto o i suoi movimenti. La faccia rossa è espressione di rabbia o di paura; il volto immobile indica l’angoscia e il dolore per la morte (2Re 8,11); il volto indurito, l’arroganza (Pr 7,13); il volto che si prostra a terra la riverenza o la vergogna. Veramente si può affermare a ragione che per la Bibbia il volto è lo specchio dell’anima. D’Angelo Cristiano Facoltà Teologica dell’Italia Centrale; Firenze cristianodangelo1970@gmail.com