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Num. 1/2019 (anno II) Minimi, non minores a cura di Antonello Fabio Caterino Alessandra Di Meglio Francesca Favaro Vanessa Iacoacci Alessia Marini Ururi Al Segno di Fileta MMXIX Al Segno di Fileta editore in Ururi (CB) www.keposrivista.it ISSN 2611-6685, ISBN elettronico 9788832173024, ANCE E247635 This is this a peer reviewed journal Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/ o spedisci una lettera a Creative Commons, PO Box 1866, Mountain View, CA 94042, USA. Kepos – Semestrale di letteratura italiana Direttori: Antonello Fabio Caterino (Università degli Studi del Molise), Francesca Favaro (Università degli Studi di Padova) Comitato scientifico: Giovanna Battaglino (Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”), Luca Beltrami (Università degli Studi di Genova), Alberto Beniscelli (Università degli Studi di Genova), Francesca Bianco (Università degli Studi di Padova), Marcello Bolpagni (Univerzita Palackého v Olomouci), Maria Grazia Bonanno (Università di Roma “Tor Vergata”), Lorenzo Braccesi (Università degli Studi di Padova), Eleonora Cavallini (Università di Bologna), Maria Di Maro (Università degli Studi di Bari), Wafaa El Beih (Helwan University), Marco Faini (Università di Venezia), Fabio Finotti (University of Pennsylvania, Philadelphia), Marco Daniele Limongelli (University of Kyoto), Giuseppe Lozza (Università degli Studi di Milano), Quinto Marini (Università degli Studi di Genova), Nikica Mihaljevic (Sveučilište u Splitu), Antonio Montefusco (Università Ca’ Foscari), Salvatore Puggioni (Università degli Studi di Padova), Mario Andrea Rigoni (Università degli Studi di Padova), Cristiano Rocchio (Eberhard Karls Universität Tübingen), Enrica Salvaneschi (Università degli Studi di Genova), Mauro Sarnelli (Università degli Studi di Sassari), Jiří Špička (Univerzita Palackého v Olomouci), Barbara Tonzar (Univerzita Palackého v Olomouci), Simone Turco (Università degli Studi di Genova), Gianni Venturi (Università degli Studi di Firenze), Stefano Verdino (Università degli Studi di Genova), Claudia Zavaglini (Univerzita Palackého v Olomouci). Comitato di lettura: Anna Cesaro (Università Orientale di Napoli), Mario Cianfoni (Sapienza – Università di Roma), Maria Cicala (Università di Napoli Federico II), Silvia Corelli (Sapienza – Università di Roma), Maria Cristina Di Cioccio (Università degli Studi “G. D’Annunzio”), Enrico De Luca (Università della Calabria), Fabrizio Foligno (Università di Pisa), Fausto Maria Greco (Università Federico II di Napoli), Matteo Navone (Università degli Studi di Genova), Giulio Osto (Facoltà Teologica del Triveneto), Thomas Persico (Università degli Studi di Bergamo), Girolamo Rodda (Università degli Studi di Genova), Gennaro Tallini (Università di Verona). Comitato redazionale: Elena Bilancia (Università di Napoli “Federico II”), Alessandro Carlomusto (Sapienza – Università di Roma), Valentina Caruso (Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”), Alessandra Di Meglio (Università di Napoli “Federico II”, Responsabile di Redazione), Stefano Di Pino (Sapienza – Università di Roma), Vanessa Iacoacci (Sapienza – Università di Roma, Responsabile di Redazione), Sara Parisi (University of Strathclyde), Francesco Rizzo (Université Paris-Sorbonne), Abdelhaleem Solaiman (Aswan University), Carlotta Susca (Università degli Studi di Bari), Alessandra Trevisan (Università Ca’ Foscari), Nicole Volta (Sapienza – Università di Roma). Supporto informatico: Alessia Marini (Università degli Studi di Siena). Col patrocinio della società Dante Alighieri, comitato di Bergamo, del dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo” (DIRAAS), Università degli Studi di Genova, del centro di ricerca “Lo stilo di Fileta” e del dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste. INDICE FASCICOLO I ............................................................................................................ 7 EDITORIALE ............................................................................................................. 8 ANTONELLO FABIO CATERINO – FRANCESCA FAVARO, Minimi, non minores ..... 9 SAGGI ....................................................................................................................... 10 MATTIA CAPONI, Quale Parigi? Nota alla Parigi di Lorenzo Viani ............... 11 SAMANTA CASALI, Ercole Luigi Morselli, scrittore e drammaturgo ribelle dall’anima inquieta .................................................................................................... 31 ANTONELLO FABIO CATERINO, Echi ‘petrosi’ nel Cinquecento italiano. Mario Colonna e le sue Pietre Madrigali: edizione, commento e disamina prosodica ........................................................................................................................................ 48 GABRIELE D’ANGELI, L'uomo di Torino di Velso Mucci. Appunti per una lettura critica ................................................................................................................ 63 FLAMINIO DI BIAGI, Vittorio Imbriani: tecniche s/compositive del romanzo90 CINZIA GALLO, Vestru di Serafino Amabile Guastella: un’importante prova di un autore ‘minore’................................................................................................ 104 ALESSANDRA MARFOGLIA, Nella 'rete'. Società borghese, esercizio di potere, diritto e consapevolezza tra XIX e XX sec.: Clarice Gouzy Tartufari racconta una donna del suo tempo ................................................................................................ 116 PIER PAOLO PAVAROTTI, «Piuttosto mi adatterò in un grande angolino nella produzione italiana»: la intermittente riscoperta di Mario La Cava, tra classicità ed attualità.................................................................................................................. 137 CINZIA SACCOTELLI, La Mirtilla di Isabella Andreini ..................................... 158 ALESSANDRA TREVISAN, L’arte della gioia di Goliarda Sapienza: una pubblicazione lunga vent’anni (1978-1998) ......................................................... 180 SIMONE TURCO, Qui d’infinito altrove. Appunti e spunti critici su Cristiana Bortolotti, cantrice di ‘ciò che «resta»’ .................................................................. 208 FASCICOLO II ....................................................................................................... 222 VARIA .................................................................................................................... 223 ELEONORA CAVALLINI, «L'inutilità del suo peso avvilito»: riminiscenze omeriche in una lettera di Giuseppe Ungaretti a Mario Puccini..................... 224 ALESSIA MARINI, I Giordano Bruno del XXI secolo: gli eretici delle DH. Progetti, tecnologie e iniziative per comprendere la galassia dell’informatica umanistica .................................................................................................................. 228 MOHAMMED NAGUIB, La crisi dell'intellettuale e il dramma di conversazione ne La conversazione continuamente interrotta di Ennio Flaiano .................... 243 PAOLA PIZII, La scrittrice del respiro dell’anima: Neera ................................ 264 ISABELLA PROCACCI, «Me Venus artificem tenero praefecit Amori»: Ovidio e Savioli, poeti d’Amori.............................................................................................. 282 MOHAMMED SALAH, Guareschi e le sentinelle del progresso ....................... 306 RECENSIONI ........................................................................................................ 319 ELENA BILANCIA, Recensione al Glossario di Informatica Umanistica (GloDIUm), a cura di Antonello Fabio Caterino, Marcello Bolpagni, Marco Petolicchio, Alessandra Di Meglio, Vincenzo Vozza, Ururi, Al Segno di Fileta, 2019 .............................................................................................................................. 320 ROSSANO DE LAURENTIIS, Recensione a Sergio Luzzatto, Max Fox o le relazioni pericolose, Torino, Einaudi, 2019 ........................................................................... 322 FASCICOLO I EDITORIALE 8 ANTONELLO FABIO CATERINO – FRANCESCA FAVARO, Minimi, non minores La storia in fin dei conti è imprevedibile. Fortuna e merito non sempre vanno di pari passo: basti pensare a tutti i sapienti e gli scrittori ai quali il tempo non ha concesso collettiva memoria. Si possono citare, a titolo d’esempio, i tanti eruditi che nel Settecento si dedicarono, con paziente e sistematica operosità, a catalogare e raccogliere materiali dei secoli precedenti; gli ermeneuti le cui interpretazioni hanno costituito il fondamento di un diffuso costume critico; gli scrittori le cui pagine, tralasciate da pubblico e critica, attendono una lettura più attenta perché si sprigioni la loro voce di significato. Il pregio di queste umbratili, evanescenti figure di dotti e di poeti è spesso trascurato, o respinto ai margini, dai manuali di storia della letteratura italiana, e si annida in rari contributi editi presso riviste scientifiche, quasi mai accessibili a chi non sia uno specialista. Tuttavia, il frutto di tanto impegno, per quanto in genere misconosciuto, rappresenta un lascito che non va trascurato. Un adagio sentenzia: ad impossibilia nemo tenetur, ma un altro – altrettanto incisivo – risponde: nihil dulcius quam ommia scire. Dare voce a tutti i ‘dimenticati’ è proposito di certo irrealizzabile, forse addirittura inappropriato: il tempo, infatti, ha una sua imponderabile saggezza nello stabilire ciò che deve restare e ciò che può disperdersi. Accade però – neppure troppo raramente, e a causa delle infinite variabili e combinazioni della storia – che ‘il meccanismo s’inceppi’, e che validi autori siano condannati a una sorta di confino ermeneutico solo perché un ostacolo si è frapposto tra il loro merito e la fortuna che avrebbe dovuto accompagnarlo. In alcuni casi è relativamente semplice esaminare in che cosa sia consistito tale ostacolo; in altri casi più arduo. Con questo numero non tentiamo di sondare l’insondabile. Più modestamente, con questo numero vorremmo espandere la nostra conoscenza spingendoci in alcuni anfratti oscuri, talvolta riscattando dall’oblio un nome, un’occasione di cultura, talaltra evidenziando un episodio, un merito, una peculiarità tematica o stilistica. Perché più si conosce, più – in un modo o nell’altro – si offre un servizio. E l’intento di servire è insito in chiunque si definisca studioso. Perché lo studio è desiderio, ma la scoperta è servizio. 9 SAGGI 10 MATTIA CAPONI, Quale Parigi? Nota alla Parigi di Lorenzo Viani «Che anarchia… l’Arte… Non è vero?» (L. Viani) Se si guarda ad una città d’arte, attraversata da molti autori se non da tutti, una delle immediate associazioni di certo è Parigi. La capitale francese si àncora più saldamente, nell’immaginario, ad un periodo definito: è la capitale dell’Ottocento. Eppure, da qualche tempo, ha anche avuto uno spostamento d’interesse: una particolarizzazione fin de siècle e soprattutto primonovecentesca; cioè verso un’epoca in cui pittori poeti e scultori d’ogni nazione vi entrarono, quasi personaggi di una scrittura romanzesca, connettendosi in un rapporto psicologico e soggettivo con uno degli spazi per eccellenza. A voler guardare quindi con attenzione la memorialistica sul periodo prebellico, ognuno di quei testi riflette la relazione con la realtà in cui è inserito l’artista. Una relazione sicuramente autoriale, ma che in alcuni testi più ambigui e meno definibili si presenta come personale: nei casi in cui la narrazione memorialistica è non per nulla detta ‘romanzata’. Un interessantissimo caso di ambiguità strutturale e soggettivazione topologica è decisamente Parigi di Lorenzo Viani.1 Pittore, incisore e scrittore di particolarissimo caso, la visione che esprime nei riguardi della capitale francese è però spesso lasciata ai margini, non trovando la centralità dei successi altrui. Un uso tipicamente strumentale, in funzione limitata all’autore, è invece la sorte più frequente per questo testo.2 Volendone invece cercare il rapporto con la città, centrale fin dal titolo, si ha una operazione di ricerca profonda; perché, se è sempre difficile raccogliere una testimonianza sulla Parigi della Belle époque, è per lo più impossibile cercare di disossarla, tanto da poter vedere finalmente la città reale stagliarsi davanti agli occhi. Totalmente insostenibile è questo tipo di ricerca su un testo di Viani (che pure però la città la racconta, a modo suo): per questi motivi, in questo articolo si guarderà soltanto alla lente descrittiva dell’autore – un impasto tematico, stilistico e persino politico, come si vedrà – la quale filtra la narrazione, allontanando irresistibilmente Parigi dalla vista. La nota scolarizzazione discontinua e varia di Viani lo aveva portato già ad avere una conoscenza del disegno, mentre svolgeva l’apprendistato di barbiere La prima ed. è Milano, Treves, 1925; qui si cita da Viani (1980). Quando i suoi libri, come giustamente sottolinea Terzuoli, proprio non sono «ricordati quasi come appendice aneddotica della feconda opera del pittore» (Terzuoli [1962], p. 193). 1 2 11 da Fortunato Primo Puccini e da Narciso Fontanini. Ed è appunto in quei retrobottega viareggini che si era formato, leggendo e disegnando, tra il 1894 e il 1900.3 Queste piccole note, di certo insufficienti, in modo irresistibile cercano di entrare nell’articolo; sono giustificate perché, senza troppa precisazione ma in modo identico, Parigi comincia con la rievocazione del maestro e dei giorni di scuola, dell’espulsione e del passaggio alla «barbitonsoria»: A me capitò un padrone, garibaldino fanatico, giocatore di lotto e uomo caldo... diceva lui. Questa parola la ripeteva sovente alla moglie onde giustificare certi gesti e certe occhiate ghiotte che egli dava alle donne formose: «Lo sai, son caldo!». La sua bottega era il ritrovo di tutti i reduci dalle Patrie Battaglie del paese, quasi tutti caldi come lui, i quali, finito il furore delle armi, si scaldavano al fuoco di altri arrembaggi; uscendo ripetevano in coro: «Siamo caldi!». Lì, fui preso dalla smania di imparare.4 Soprattutto, sempre intorno all’inizio di secolo, sulla spinta avuta dalla conoscenza di Plinio Nomellini era migliorato e aveva proseguito la sua strada verso la pittura, anche tramite l’iscrizione all’Istituto lucchese di Belle arti, ai viaggi per le città d’arte della toscana e oltre, fino all’Accademia delle arti e del disegno di Firenze.5 Accumulata diversa produzione, «fra il 1904 e il 1906» Viani aveva organizzato «le prime mostre personali (anche a Milano, in occasione dell’apertura del valico del Sempione)», e nel 1907 aveva anche partecipato alla «VII Biennale veneziana con due gruppi di disegni ispirati al tema de “I Dispersi” e de “Gli Ossessi”».6 In parallelo alla crescita artistica era corsa la sua adesione all’anarchismo, affinato con le letture, instradato sempre da Fontanini, Nomellini e Roccataglia Ceccardi, gonfiato dagli incontri anche di Andrea Costa e Pietro Gori, e culminato con l’ingresso nel circolo «Delenda Carthago».7 «Sono nato a Viareggio il 1 di novembre del 1882 da genitori della lucchesia capitati qui ai tempi di Maria Teresa [e Carlos Borbone] di cui erano servitori. Non ebbi mai passione per la scuola. I miei genitori si struggevano che io conseguissi la licenza delle scuole comunali, o almeno, come soleva spesso ripetere mia madre – analfabeta – imparassi a mettere in carta. Invece non terminai che la seconda, allora mi instradarono ad un mestiere: il barbiere, che ho fatto fino all’età di anni diciotto. Imparai a scrivere alla meglio. Poi mi detti allo studio» (lettera di Viani a Giovanni Papini del 13 dicembre 1924, cit. in Martini [2006], pp. 37-38). 4 Viani (1980), pp. 60-61. 5 Cfr. ivi, p. 38 e Ciccuto (1980), p. 8. 6 Ciccuto (1980), p. 9. 7 Su ciò vedi: «Nel Casone fu costituita la Delenda, una società segreta che non lasciava veruna traccia di scritti e di carteggio. Ogni affiliato diventava centro d’azione. […]. La stanza dove si raccolsero non aveva finestre e vi si accedeva per una porta bassa come la chiudenda di un forno. La Delenda proclamava la proprietà un furto, e il furto la rivendicazione dei propri diritti. Patria, il mondo. Legge, la libertà. […] Quelli della Delenda odiavano i timorosi, i pavidi, i calcolatori, i metafisici. Davano atto alle imprescindibili ragioni dell’istinto con il fatto e tra loro si chiamavano i fattisti. L’umanità, sfrondata da tutte le pusillanimità della morale, da tutti i 3 12 Difatti, giustificando il precoce ingresso della scrittura rispetto ai fatti narrati, la prima conoscenza di Parigi è tutta libresca e desunta dagli Ultimi giorni della Comune, da Michelet e da Hugo: «Parigi! "Nulla di più fantastico, tragico, stupendo. Per Cesare, città vettigale; per Giuliano, villa; per Carlo Magno, scuola, dove richiama dotti di Alemagna e cantori d'Italia e che Papa Leone III battezza col nome di Sorbona; per Ugo Capeto, palazzo domestico; per Luigi IV, porto con pedaggio; per Filippo Augusto, fortezza; per San Luigi, cappella; per Luigi il collerico, patibolo; per Carlo V, biblioteca; per Luigi XI, stamperia; per Francesco I, bettola; per Richelieu, accademia; per Luigi XIX il luogo dei letti di giustizia e delle camere ardenti; per Buonaparte, il gran crocicchio della guerra!"» «Non lo senti?» mi diceva ansante cogli occhi fuori del capo. «Lo sento» ripetevo cupo «e allora?» «La nostra città è Parigi! L'ho detto e lo ripeto. Poi tu non sai che è la città della Comune!».8 Da questi dialoghi con Cesare, il figlio del maestro, Viani lascia derivare romanzescamente la partenza e il suo «aberintarsi» (‘smarrirsi’ secondo il glossario)9 per Parigi. D’altro canto, pare accertato, dice Marcello Ciccuto, che: una prima presenza di Viani nella capitale sia registrabile per il periodo compreso fra il gennaio del 1908 e la primavera dell’anno successivo (con una breve “rimpatriata” nell’estate del 1908 e un rapido viaggio a Bruxelles nel dicembre del medesimo anno); mentre un secondo viaggio con relativa permanenza è documentato per i mesi a cavallo tra il 1911 e il 1912.10 Passando oltre a questi unici dati, le evidenze iniziano un po’ a scemare; perché non si riesce a distinguere – né Viani sembra consentirlo – tra i due viaggi che si fondono e confondono in un’unica esperienza, impedendo di dirimere le scansioni temporali. Anche l’autore ne sembra cosciente quando nel romanzo suggerisce le due linee temporali, ma eticamente e personalmente le sovrappone – e così di conseguenza anche stilisticamente. Un esempio che valga per tutti lo si trova nelle pagine dedicate a Picasso. Dopo averlo attaccato per aver trasformato la sua arte in «tavole d’algebra, di ragion dura di calcolo, di calcolo gelido»11 – già più che significativa dichiarazione di poetica –, Viani scrive: «Dopo degli anni, ripassai da Parigi: “Sai, Picasso copia Ingres” mi disse un amico». 12 compromessi, da tutte le leggi, era il termine e l’ascensione suprema. Bestialità o umanità. Orgia dionisiaca o mortificazione della carne e dello spirito. L’individualismo esasperato, sospinto alle estreme conseguenze: Il deserto e la boscaglia o la città strepitosa dove può e deve signoreggiare l’Io» (Viani [1929], pp. 85-86). 8 Viani (1980), pp. 61-62. 9 Cfr. Viani (1980), p. 197. 10 Ciccuto (1980), p. 21. 11 Viani (1980), p. 170 12 Ivi, p. 172. 13 Se da un lato, quel «dopo degli anni» distingue le due linee, la realtà generica apre alla mancanza di sicurezze – e in un certo senso all’eternità di quel giudizio su Picasso – lasciando il dubbio che una tale sovrapposizione temporale spesso si affacci in questi ricordi, senza potersene accorgere. In realtà, l’analisi si può avvalere di questa incertezza, scoprendone, come già si poteva nelle opere italiane di fine Ottocento, un ponte di attraversamento del testo. Ha scritto Tommaso Pomilio a proposito di certa narrazione scapigliata: Se (per la topo-analisi fenomenologica di un Bachelard) lo spazio, “nei suoi mille alveoli”, può racchiudere e comprimere l’idea di tempo, è possibile che questa contrazione del tempo (che è uno dei tratti più rappresentati, nella percezione della metropoli ottocentesca) enuclei lo spazio (ossia, naturalmente, la percezione di esso) attorno ad una serie instabile di epifanie. Il tempo umano opera, nella costruzione mentale del proprio habitat, quello “spreco” d’immaginario, che (nel tempo moderno) dà vita all’ingranaggio choc-epifania (o è generato da esso); a ciò ancora si opponeva (nell’ultima persistenza dei suburbi non ancora urbanizzati, seppure soggetti a progressiva corrosione), la dilatazione del tempo naturale, la ciclicità stagionale e meccanica: il grande flusso, contro l’illuminazione fuggitiva.13 Non è difficile trovare questa dinamica nella descrizione vianesca di Parigi. La percezione della città, proprio dove si dilata o cede il tempo, cinge i luoghi attraverso la presenza vagabonda del pittore. La narrazione procede sempre per blocchi più o meno lunghi e collegati dai salti che solo la processione di una memoria di più di quindici anni prima (Parigi fu pubblicato nel 1925) o di una serie d’epifanie possono dare. Una fusione temporale che invece non intacca i luoghi, sempre riconosciuti, e infine giudicati, come ad esempio il Pantheon che diviene «gran cisternone»14 oppure Notre-Dame il «vascello in perdizione».15 Ancora Pomilio produce osservazioni utili per sciogliere alcuni nodi di questa percezione: Lo spazio si circoscrive, si circostanzia, s’incastra in una topografia fisica e mentale (anch’esso si comprime), sempre più si riduce il campo dell’esperienza durativa (e così, degl’incontri casuali e ineluttabili, quasi stagliantisi su un paesaggio immenso e disponibile), cedendo il campo all’immediatezza irriflessa e consumabile dell’esperienza vissuta. All’eclissi di questa geografia, fa però riscontro un dilatarsi della topografia cittadina, sino al punto che è possibile si conformi una sorta di fantastique urbano; o che, invece, si susciti una pura contemplazione del turbinìo metropolitano, sino alla perdita d’orientamento e alla sua fascinazione angosciante. 16 E sulla scorta di queste considerazioni di matrice benjaminiana, si può aggiungere un ultimo aggancio, utile a mettere a sistema il corpo di Parigi. L’«immediatezza irriflessa e consumabile dell’esperienza vissuta» in questo libro Pomilio (2002), p. 10. Viani (1980), p. 133. 15 Ivi, p. 177. 16 Pomilio (2002), p. 10. 13 14 14 prende forma, seppur ‘romanzata’ si è detto, dell’autobiografia, della memorialistica. E perciò, al contrario di volersi fare «irriflessa e consumabile», l’esperienza di Viani tende eticamente a politicizzarsi in arte. Un solidarismo umanitario, l’intento di distinguere tutta un’umanità reietta che popola la capitale e tende ad essere schiacciata anche dalla morale cristiana. «Les rapports commencent toujours dans la fiction de l’égalité, de la fraternité chrétienne. Dans cette foule l’inférieur est déguisé en supérieur, et le supérieur en inférieur. Moralement déguisés l’un et l’autre. Dans d’autres capitales le déguisement ne dépasse guère l’apparence et les gens insistent, visiblement, sur leurs différences, font un effort, de païens et de barbares, pour se trier. Ici, ils les effacent le plus qu’ils peuvent. De là vient cette douceur du climat moral de la rue parisienne, le charme qui fait passer sur la vulgarité, le laisser-aller, la monotonie de cette foule. C’est la grâce de Paris, sa vertu: la charité. Foule vertueuse...».17 Questo è un passo di Valéry Larbaud sul «douceur du climat moral de la rue parisienne», che Benjamin chiosa così: «È giusto inscrivere questo fenomeno interamente nella virtù cristiana o, forse, non è qui all’opera l’ebbrezza di assimilare, sovrapporre, comparare che nelle strade di questa città si mostra superiore all’intento sociale di farsi valere?».18 Se è tanto vero che le strade parigine fagocitano tutte le classi sociali, le travestono l’una nell’altra, quest’«ebbrezza» sottolineata da Benjamin pone in gioco la frattura nell’ideale di Viani. Dalle letture sulla Comune e sull’epoca della Rivoluzione, coscientemente messe in testa al libro come si è visto, nella narrazione si passa ad una serie di ritratti dolorosi, realistici nei loro crudeli dettagli. Prima di vedere come si sviluppino le descrizioni, è utile cogliere un anticipo proprio di come la politicità di Parigi dia il senso a quei ritratti. Un passaggio, decisamente aderente anche a quanto letto sopra, è questo: Stazionavano i meschini presso un grande portone di color d'ombra; dal pietrone che poggiava sui pilastri pendeva la bandiera della patria; il vessillo a tre colori nell'accidia di quelle sere non alitate da vento, dense di una nebbia greve che respirandola lascia giù per la gola il raschiore della caligine, pendeva immoto verso l'impietrato come un cencio mézzo di lordura. Un lampione funebre era acceso sotto, la luce itterica illuminava le parole Liberté Fraternité Egalité. Una porta più piccola si apriva nel portone, tanto bassa che la gente per passare doveva umiliare la fronte verso il lastricato d'un cortile color dell'inferno.19 La bandiera inerte e soprattutto il motto rivoluzionario offeso da una luce fioca e malaticcia mostrano che gli ideali sono ancora dolorosamente irrealizzati, Vedi nota seguente. Benjamin (2000), pp. 467-468. 19 Viani (1980), p. 150. 17 18 15 perfino circondati da un’aura funerea.20 Sono indice di qualcosa che ha immediate conseguenze testuali; nel giro di una frase appare il significato profondo: umiliazione, specie per gli ultimi. Mario De Micheli più d’ogni altro ha colto quanto questo avesse conseguenze per Viani: Dipingeva così, religiosamente i «santi» dell’anarchia, i «poveri cristi», i «poveri di spirito», i «dannati della terra», i «forzati della fame», come li aveva cantati Eugène Pottier nell’Internazionale, che aveva scritto nei giorni dei massacri bianchi della Comune di Parigi.21 Raccogliere i volti, i caratteri e gli atteggiamenti dei «forçats de la faim» è il modo più diretto di politicizzare l’arte che mette in opera il viareggino. Gran parte dell’esperienza parigina, fatta di vagabondaggi, fame e freddo, è incentrata alla Ruche, l’alveare filantropico e cosmopolita ospitante tutti gli artisti meno abbienti, e in cui anche Viani prende un atelier. Un luogo in cui erano passati, fra i tantissimi, anche Chagall, Léger, Soutine, Archipenko, Modigliani e Apollinaire, Cendrars, Jacob, Salmon. Mi portai nel quartiere di Vaugirard, uno dei più popolosi alla periferia che si congiunge al ventre di Parigi con la serpe lunga della via omonima. Vaugirard non ha come gli altri quartieri, il suo cimitero. Nel passage Dantzing, un fondo si strada per il quale si accede alla porta Versailles, c'era allora un quadrato di terra recintato di mura: terreno aspro, in cui ai tempi dei tempi i pattumai rovesciavano le carra piene di immondizie. Su quel terreno grasso impolpato di sostanze putrescenti, vegetavano alte le malerbe: cicerbite, ingrassa- porci; ortica, gramigna e ruta selvatica. Sparpagliati ovunque c'eran pentoli fessi, brocche di smalto schiacciate, padelle dal fondo crivellato, bricchi smanicati, filtri sfondati, casseruole, barattoli, pentoli, tutta la scampanata che ruzzola dalla garetta della lordura. Nel mezzo a quella sterpaia c'era una casa rotonda, qualcosa che ricordava certe camere d'incenerimento; era invece una casa battezzata col vezzoso nome della "Ruche": l'Alveare.22 La racconta come un posto vicino all’inferno, circondato da una discarica. Un luogo costituito di privazioni e fatiche e da un’infinità d’anime perse catturate da Parigi, questa Morgana divoratrice di noi sognatori. Tutti gli inquilini «per lo più banditi dalle loro terre», per quanto ironicamente (a detta dell’autore) avessero «passato il limite dell'onesto», sono torme di provocatori che ripetutamente compongono «a caratteri vistosi» la scritta «La Ruche, Cimitero di Vaugirard».23 Compensano lo spazio che li circonda e cercano di riprenderne continuamente il possesso. Infestatori che «quando erano installati dentro, non ce li levava più Su questo si possono aggiungere le influenze ed il pessimismo dei garibaldini rientrati nella vita comune dell’Italia postunitaria e «costretti a soffrirne l’involuzione», come giustamente fa notare De Micheli, vedi De Micheli (1987)a, pp. 125 e segg. 21 Ivi, p. 123. 22 Viani (1980), p. 82. 23 Ivi p. 83. 20 16 nemmeno l'acqua bollente», tanto che «espulsi da una stanza si rintanavano in un'altra, per poi, dopo poco tempo, ritornare in quella di prima».24 Eppure il nucleo centrale delle definizioni sulla Ruche volgono tutte intorno alla storpiatura cimiteriale, ad una religiosità grottesca perfettamente indice dello stile di Viani. La sacralità, se non proprio dell’arte, di un rifugio per gli artisti, si rovescia, trasformando l’edificio in un inceneritore grigio e spaventoso. Boucher, il «padrone di casa», mortificato dall’appellativo ormai comune di «cimitero» per l’Alveare, entrando «vestito di nero com'era sempre, sembrava uno che andasse a visitare i suoi poveri morti».25 Ma non sono soltanto le circostanze, anche gli interni lo dimostrano: «Presi visione rapida della casa: le rampe delle scale erano sette come i peccati mortali; con sette salti si poteva uscire all'aperto».26 E ancora: Dalla parte che l'edificio crematorio guardava le scarpate delle fortificazioni, sembrava il cimitero dei protestanti in un paesetto cattolico; erbe non falciate si avvilucchiavano a plinti di pietra inverditi dall'umidità e su questi posavano le statue delle virtù teologali: Fede, Speranza, Carità.27 La Ruche insomma è cimitero fuori con le tre statue e lo è dentro con i dannati ed i loro carcerieri. Fra questi, a scoprire ancor di più la metafora infernale dantesca, c’è la «concierge», che abita sotto una tettoia vicino al cancello. È «una specie di cagna incatagnata in quel covile» con «occhi cupi come acqua torba, bocca molle, naso in su dai cui fori si poteva veder le cervella, petto polpo, ventre conciato come una pelle di tamburo, coscie divaricate, zampe di papera, la quale urlava dietro a tutti gli inquilini improperi osceni».28 Cerbero e insieme Caronte che conduce Viani al suo atelier e che svela finalmente il passaggio tra interno ed esterno. L’esperienza della città moderna segna infatti il debordare dalla nozione di “interno”; il suo definitivo sconfinare, disperdersi in uno spazio allargato (senza più frontiere da oltrepassare), che è al tempo stesso familiare e sconosciuto al soggetto: interno ed esterno a esso. E qui che si corrode e apre lo spazio interiore, fisico (perché l’abitazione non è più un rifugio, non è il luogo della familiarità, ma è il campo in cui – nell’abbattersi della frontiera – il “perturbante” può sprigionarsi), o psicologico (l’interiorità, o il Profondo, del soggetto): perché il soggetto conosce lo scollamento dalla comunità a cui usava rapportarsi.29 Le riflessioni più salienti, come si è potuto capire, rompono in realtà la frontiera tra interno ed esterno, trasportando il primo nel secondo e più a fondo fino a comporre il paesaggio di Parigi. La questione è ancora una volta legata ai Ibidem. Ibidem. 26 Ivi, p. 84. 27 Ivi, p. 82. 28 Ivi, p. 83. 29 Pomilio (2002), p. 19. 24 25 17 personaggi che popolano le descrizioni: non soltanto Boucher o la «concierge» della Ruche fanno parte di questo paesaggio, ma tutta una serie di uomini che entrano per metonimia con testa, gambe o braccia levate. E in cui la difficoltà di dirigere il distinguo tra la partecipazione e la somiglianza o il distacco da questa ciurma di «damnés de la terre» o ancora di «santi maledetti» è dolorosamente evidente. Quest’esperienza in ambiguità con la miseria la si può vedere perfettamente riportata, in uno strumentale sguardo fuori dalla finestra: Lo studio sembrava la cella di un carcere duro, il foro di presa della stufa pareva il pertugio per il quale in segregazione apparisce la ciotola della zuppa […]. Per curiosare mi avvicinai verso l'invetriata. Com'era desolata a quell'ora la tragica sterpaia: rattristava il cuore. Invece che a Parigi ebbi la sensazione di essere in un villaggio selvaggio: verso le mura c'era delle casette piccole come stallini di maiali, fatte di lattoni rugginosi e di casse da petrolio, coperte di teloni incerati neri, uncinate a dei pioli confitti nella terra. Trombe di stufa schiacciate, tenute in bilico da piramidi di fili di ferro erano i fumaioli di quelle tane; a quell'ora da tutti i tubi filava fumo celeste, cani magri uggiolavano a catena legati fuori, uomini intrisi di loja, con le braccia impastate di polta e le scarpe marcie di fanga aggobbivano sotto dei sacchi colmi d'ossa e di stracci e di pezze imbevute d'untume e cinciagliori. Erano i cercatori che rufolavano nelle mucchia della lordura aiutati dai loro cani incimurriti. 30 È in dinamiche come questa, si diceva sopra con Pomilio, che si vede il «dilatarsi della topografia cittadina»; che si mostra una sorta di «fascinazione angosciante»31 ed un disorientamento all’interno di luoghi sempre più simili a passi di Dante o di Dostoevskij. Poco sotto la descrizione dalla Ruche, il circondario si allarga allo sguardo. Non è un caso, in questa percezione deformante di Viani, siano proprio un casermone ed i suoi soldati ad essere che senza scopo e senza posa. Una turbinante punizione eterna prosegue la rottura della frontiera: Di mezzo a un acquatrino che fumava come sotto vi ardesse un fuoco di stracci si elevavano i tetri muraglioni del cortile di una caserma. L'immenso edificio anneriva sulla luce del tramonto, dalle finestre aperte che in ordini uguali dilungavano sulla facciata e ne aumentavano la tetraggine, si udiva un vocìo sconnesso come si ode quando si passa di sotto le mura di un manicomio. La sentinella passeggiava come un dannato davanti al portone, l'ufficiale sembrava un compasso piantato sulla terra, il tricolore svaniva nel tramonto violetto. Dei soldati ramazzavano il cortile, un gruppo di prigionieri erano ad arieggiare sopra una scarpata, contornati da altri soldati con le bajonette innastate. Dei cavalli legnosi erano legati ai mozzi delle carrette celesti, altri soldati poltrivano sui muriccioli di un fosso che tagliava il cortile a metà. La tromba ogni minuto faceva il terribile lagno dei adunati, una corvé accendeva i lampioni fuori delle mura. L'acre tanfo dolciastro e acuto delle esalazioni ammoniacali, il fetore degli uomini accatastati, il bestino delle comunità appestava l'aria. I gesti insulsi, come quelli 30 31 Viani (1980), pp. 84-85. Pomilio (2002), p. 10. 18 dei galeotti e dei pazzi, quell'andare e venire senza guida d'una volontà, quel trapano d'ottone, martirizzavano l'anima.32 L’antimilitarismo, cardine dell’anarchia e che sarà interrotto da Viani sono con la partecipazione volontaria alla Grande Guerra33, è uno dei princìpi deformanti di questo passo. Ma, a maggior ragione, vedersi circondato da «gesti insulsi, come quelli dei galeotti e dei pazzi» e da «quell'andare e venire senza guida d'una volontà» non possono far altro che «martirizzare l’anima» del pittore. Infatti aveva detto Benjamin che la città per il flâneur «si scinde nei suoi poli dialettici. Gli si apre come paesaggio e lo racchiude come stanza». 34 Così l’insensatezza di ciò che si mostra e la clausura della Ruche hanno la stessa espressione e durezza, la stessa mancanza di scopo e di volontà. Il martirio dell’anima, nella deformazione piena e drammatica della visione metropolitana, coglie l’io delle descrizioni di Viani, supera e integra la dilatazione degli spazi; aprendo a nuove formazioni che gonfiano l’emozione fino a parametri irrazionali che, si vedrà più avanti, possono entrare nella definizione di espressionismo35: Fuori, uno strizzone di freddo mi accoppiò il costato. In un attimo gelai fino alla cima dei capelli, una serpiggine di aghi mi corse per tutto il corpo. Quando la porta si chiuse pesante dietro alle mie spalle, mi sentii come precipitare nella notte eterna; mi pareva che una spaventosa cateratta fosse stata calata fra me e la vita. Mi voltai dissensato. Sul portone ingigantito dalla mia disperazione vidi una lucciola verde. Era il buco della chiave, poi anche quello fu inghiottito dalla notte. Ripresi la via della Ruche con un'andatura cadenzata e con lo sguardo rivolto contro di me. Uomini e cose si frantumavano nel vortice dei miei pensieri. Una di quell'ore in cui si invocano spaventosi cataclismi, l'esplosione della terra, la caduta dei mondi, l'orrendo silenzio del nulla. Come tramutato dal freddo feci qualche chilometro e alle tre varcavo la soglia della Ruche.36 L’angosciosa traversata dei caratteri dalla città all’«anima» si mostra, infine, in un passo molto personale, in cui i tormenti sono dovuti anche agli elementi più naturali del paesaggio osservato, fino a rovesciare espressionisticamente il contenuto corporeo e la sua densità: Viani (1980), p. 85. Vedi Viani (1929), la cui struttura si compone anche delle motivazioni all’interventismo di Viani. Sul suo antimilitarismo e pacifismo è importante ricordare i disegni per l’album Alla gloria della guerra!, composto e ideato proprio nel secondo viaggio parigino, e pubblicato con le note illustrative di Alceste De Ambris nel 1912 dalla Camera del Lavoro di Parma; su cui vedi De Micheli (1987)b, Cirillo (2016), p. 33 e Martini (2006), p. 44. 34 Benjamin (2000), p. 466. 35 Per ora basti dire che mi riferisco a Muzzioli (2013). 36 Viani (1980), pp.162-163. 32 33 19 Terribili sere, quando siamo vuoti e un tocco di campana rintrona nella nostra testa e tutto il corpo sembra sonoro, i fischi degli uccelli e gli uccelli medesimi con lieve fruscìo d'ali par che entrino dal foro di un orecchio e riescano dall'altro sciamando, quando i capelli sembrano erba verde alitata dal vento e i battiti del cuore, le fitte martellate di un fabbro sopra un'incudine di acciaio, quando siamo più del mondo di là che di qua e l'amicizie sono vaghi ricordi color di terra, i parenti favole, il padre e la madre nebbie dipanate dai secoli; quando il cielo fa celeste il sangue medesimo. 37 Si potrebbe anche portare, pietra di paragone, la ricostruzione – si noti bene, qui anche più tarda di quella vianesca – fatta da un altro toscano: Ardengo Soffici. Nel Salto vitale, ripercorrendo i suoi trascorsi del periodo francese, ricorda anche i suoi momenti alla Ruche: Quando vi arrivai io, la Ruche era piena zeppa, come la vidi poi sempre, di ogni generazione di artisti, di bohèmes, e anche d’artigiani arrenativisi da ogni parte del mondo: piena come un uovo. V’erano pittori e scrittori francesi, scandinavi, russi, spagnoli; scultori e musicisti tedeschi; dilettanti inglesi e americani; formatori italiani; incisori del quartiere, falsificatori di statuette gotiche; qualche avventuriero balcanico, sudamericano, o del prossimo Oriente: tutti, quale con la moglie, quale con l’amante, quale solo, – come finalmente ero io. Fra tutto questo caravanserraglio, il mio studio, posto in uno dei fabbricati minori, consisteva in una giusta stanza con la solita larga vetrata nella parete esterna, lucernario a spiovenza, una soupente, o soppalco, da dormirvi sopra un sommier, un piano di legno su due caprette, un cavalletto, un paio di seggiole e una stufa di ghisa. Né altro mi occorreva per il mio uso e il mio lavoro: difatti mi misi subito all’opera.38 Si deve però tenere a mente ciò che Mario Richter riesce a mettere a fuoco, nella sua ottima ricostruzione de La formazione francese di Ardengo Soffici, e cioè che Soffici ha in certi punti soprattutto la preoccupazione di dare coerenza alle sue convinzioni, cercando di mostrare di aver assimilato e rifuso la cultura francese. Per non dire appunto che la realtà descritta è ancora una volta soggetta, anche se in modo diverso da Viani, ad una «trama narrativa fortemente compromessa dalla presenza dell’autore» non solo in quanto «direttamente interessato»39, come accennato, ma appunto per la costruzione narrativizzata. L’utilità del parallelo si mostra nella differenza di approccio. Con l’Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo, il poggese tenta di ricostruire un’aura alla sua esperienza artistica. Riducendo lo spazio di gioco, lanciandosi in disamine moderate che tendono a superare ogni momento di questa memorialistica, cercando di agganciare uno stile unitario e mono-linguistico per quanto possibile, lavora nel senso opposto di Viani. Infatti per Soffici, la Ruche fu un’istituzione Ivi, p. 184. Soffici (1968), p. 365. 39 «L’Autoritratto diventa uno strumento alquanto infido, utile soltanto nella misura in cui sia possibile di volta in volta riconoscere, entro una trama narrativa fortemente compromessa dalla presenza dell’autore direttamente interessato (nonostante l’obiettività di fondo, si è visto); alcuni motivi, alcuni atteggiamenti rivelatori, magari soltanto di riflesso» (Richter [1969]), p. 15. 37 38 20 un po’ borghese che non corrisponde, per esplicita citazione, a quella del viareggino: La Ruche descritta romanticamente da Lorenzo Viani nel suo Parigi come una sorta di dostojewskiana [sic] Casa dei Morti, o d’inferno, non era, almeno a quel tempo, nulla di tutto questo. Essa era al contrario l’istituzione più bonacciona, più borghese, più, persino, conciliativa che la mente di un filantropo repubblicano ottocentesco potesse immaginare.40 E non c’è da dimenticare che Soffici ebbe vita relativamente più facile a Parigi entrando quasi subito nelle cerchie de «La Plume», «Gil Blas», «Froufrou», «L’Europe Artiste» ed altre, divenendo presto integrato e apprezzato collaboratore. Viani invece «qualche soldo racimolava facendo caricature e schizzi per i libri di Gorkij e Richepin, o per riviste d’avanguardia»41 come pure lo stesso «Gil Blas». Mentre se si guarda alle esposizioni di Viani ci sono la galleria di Georges Petit per la Comédie humaine, non molto spinta nella ricerca, e l’associazione al Salon d’Automne, che invece era terreno abituale di critici e di artisti non solo parigini.42 Di quest’ultima ricordava nel 1919 che gli era giunta principalmente grazie all’esclusione del suo trittico I taciturni dalla Biennale di Venezia.43 Sfruttando un’ultima volta il parallelo con Soffici, si può indicare ancora un luogo mancante. Al Salon des Indépendants, dove in quel periodo si incontrano i presenti e futuri protagonisti della pittura, il poggese espone già nel 1902 e di nuovo nel 1905 e nel 1907, quando ancora doveva iniziare o stava iniziando il suo slancio per divincolarsi da un gusto di tipo preraffaellita e genericamente simbolista.44 Viani invece non riesce ad entrare ed esibire i suoi disegni o i suoi quadri agli Indepéndants. È solo l’intrico diverso di conoscenze che differenza le due esperienze? Non sembra: semmai distingue i due esiti e quindi ricordi. Scriverà Viani a Nomellini, considerando appunto l’esperienza fatta: «Ti confesso, come a un padre, per te è bene non esserlo effettivamente, che la gita a Parigi è stata un buco nell’acqua, ma ormai il fatto è compiuto e bisogna tirarne quello che si può sia bene sia male».45 E il discreto insuccesso costringe Viani a sofferenze estreme come molti altri infelici che incontra, lasciando così che il giudizio su Parigi si componga; e anche perché è da ricordare romanticamente con Jouvet che «un letterato e un Soffici (1968), p. 364. Cirillo (2016), p. 39. 42 Su cui anche Martini (2006). 43 Cfr. Viani (1919), p. 211. 44 Vedi almeno Richter (1969), pp. 16 e segg. 45 Cit. in Ciccuto (1980), p. 11. 40 41 21 accademico possono essere tolstoiani o picassiani, un artista che dimora alla Ruche può essere soltanto se stesso».46 La formazione socialista e anarchica di Viani – se non pure l’esperienza familiare47 – lo spingerà alla ricerca dei soggetti più derelitti della società e si vedranno nelle prime opere di narrativa – ad es. Gli ubriachi (1923) e I Vàgeri (1926) – e nelle figure protagoniste dei suoi disegni. L’«ebbrezza di assimilare, sovrapporre, comparare» che con Benjamin si è vista essere presente «nelle strade» di Parigi è un tentativo di indifferenziazione che provoca l’annullamento delle istanze di lotta, perfino «l’intento sociale di farsi valere». Il «linguaggio protestatario»48 di Viani si costituisce in dialettica col paesaggio in Parigi, cercando di scuotere il lettore e porre al centro quei sottoproletari, meschini o dannati che altrimenti non avrebbero voce né coscienza. La comunione con loro permette al testo di portare il rapporto con lo spazio da questi personaggi fino all’io di Viani. L’aureola con cui appaiono nella loro miseria, il modo con cui sono inquadrati nei loro ritratti – un vero compendio si ha nei disegni di Viani – si compone inoltre di «contaminazioni romantiche»49, modi appassionati e drammatici. L'arte è per me l'esaltazione dell'impossibilità della rivolta, della eccessività e, se volete, della follia. Visitando l’opera mia per meglio penetrarne lo spirito, è necessario sapere l’identità effettiva di anima che io sento di avere coi vagabondi, coi deplacé, la comunanza di vita che io ho col popolo, il quale mi espresse dalle sue viscere e da cui non mi sono mai, mai staccato, perché in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi!50 Jouvet (1950), p. 4. «Subito dopo il licenziamento, mio padre, senza arte né parte, girottolava per i canti delle darsene, senza veruna speranza. Gli occhi riflettevano la desolazione. Piano piano egli si scarnì, sulle spalle ricurve le scapole sembravano due pietre che lo gravassero verso la terra. Il pane perse il colore e il profumo, divenne un pastone pesante e del colore della terra argilla. Ingozzato che s'era faceva piastrone sullo stomaco come aver mangiato pastone da mattoni. Mia madre si spolpò e ingiallì. Tutti ci cominciarono a negare. Il fornaio voleva vedere i soldi sulle mani, il macellaro dava cincigliori di ciccia da cane. Rivedo mio padre vergognoso rasentare il muro della mia strada, con sotto il cappotto un cavolo infradicito, un chilo di farina di granturco e una cartatina di sale. Mia madre non si mise mai lo scialle sulla testa come facevano quasi tutte le altre donne del vicinato né andò mendica di uscio in uscio. Si mise invece a lavare i bucati. La vedo ancora nei tristissimi inverni uscire di sulle pietre del fosso e tornare a casa come un'affogata a cui Dio avesse concesso di rivedere i figli per l'ultima volta. Non avendo panni di che mutarsi, si nudava nel canto del fuoco e si faceva asciuttare pelle e vestimenta dalle fiammate. Per tutto il giorno tremava come una bimba. Così intirizzita andava a far legna nel bosco e ritornava tutta sanguinante. La sera non si accendeva più il lume. Si stava nel canto del fuoco come gatti» (Viani [1930], pp. 124-5). 48 La definizione è di De Micheli, v. De Micheli (1987)a. 49 Viani, Gli incantatori di serpenti, cit. in Id., p. 121. 50 Id., Testi inediti e rari, cit. in Cirillo (2016), p. 36. 46 47 22 Per Viani Parigi ha sùbito l’impatto di una somma di «sgalerati», miserabili e dimenticati che continua a cercare e trovare, ad osservare e raccontare; e si vedono presto «l’empito della sincerità umana e della passione umanitaria, il senso altissimo della pietas e la violenza della denuncia, la coscienza dell’umiliata e offesa condizione del reietto e del povero, l’humor tagliente e affettuoso verso la commedia umana, il sentimento mistico e panico per la solennità della natura».51 Ne viene fuori la descrizione di una città di grande buio e inquietante silenzio, perlustrata da un flâneur attentissimo, in cui ogni essere che la popola sprofonda nella lordura, nel gelo, nella fame, nella follia e nel delirio, come anche Viani stesso. Il suo occhio implacabile ne esprime continuamente un giudizio severissimo – che è poi quel che resta alla fine del libro dei tanti miseri che si affastellano uno dopo l’altro. Le stesse strutture, lo si è visto negli esempi sulla Ruche, che dovrebbero accogliere tante di queste persone finiscono per subire deformazioni infere e punitive. E se pure, come Betocchi, si vuol vedere le figure e gli aneddoti come «provinciali, negati all’universale», non si può tralasciare di ammettere che «una partecipazione reale, popolaresca, alla vita di questi personaggi resiste sempre»; non si può in fondo non dire che «i suoi personaggi sembra averli sottratti, appunto, a un clima più effimero, di superficie, per portarli in zone più profonde».52 Si veda per questo il colloquio avuto col Mohammed Sceab, cantato anche da Ungaretti, che Viani ritrae prima del suicidio, «malinconico come una pecora», mentre «impoveriva il suo gagliardo sangue arabo a Parigi»53: Quel corpo così bene attagliato nelle rivolte del barracano, umiliato nella tragedia di quei vestiti di bordatino e il capo in cui un tempo aveva rosseggiato il tarbuscio rosso, ora ricalcato dentro lo chapeau Melon, mi fecero dirgli disperato: «Ma perché sei venuto a Parigi?». Egli mi guardò stupito, vidi ne' suoi occhi di mussulmano che la Mecca era stata sostituita da questa città dove singhiozzano i violini. «Vous savez, monsieur Viani, Paris est Paris». Il vento faceva svettare le rame degli alberi e parevano tante verghe di metallo, la gente rincasava infreddolita, delle nuvole cariche di verde poggiavano sui tetti; mentre s'andava là là pensosi, sentii che sul mio viso si scioglievano degli stracci di neve. «Ci mancavi anche te» dissi e scossi i ciuffi dei capelli. Ceab [sic] guardò il cielo con lo stupore di un giudeo quando vide che Cristo avea scoperchiato l'avello. Ceab [sic] guardò la terra, si scosse le maniche della giubba: «Che cos'è questo?» e gli tremava il cuore e le mani. «Che cos'è questo?» richiese supplichevole. «È neve» gli risposi. «Viani,» mi disse timido «sono venuto a Parigi per vedere la neve: sì, la neve, la neve: scusatemi, gradirei godere da solo questo spettacolo».54 Russoli, cit. in Ciccuto (1980), p. 29. Betocchi (1954), p. 38. 53 Viani (1980), p. 142. 54 Ivi p. 144. 51 52 23 L’«impossibilità della rivolta», che l’arte dovrebbe «esaltare», come dice Viani, trova a soggetto tutti di deplacé, come Sceab, e ancora una volta i miseri. Va ora aggiunta a ciò una annotazione di discrimine. Si diceva prima che Viani usa verso i suoi personaggi «pietas» e «violenza di denuncia» – non pietà – in aperta differenza dai veristi. Ha scritto Pietro Pancrazi che «i nostri veristi […] dai loro poveri diavoli esprimevano anche libertà umana, poesia, li facevano anche cantare. E, sempre, la loro arte volle essere umanamente e socialmente pietosa». Viani invece i suoi miserabili «per il colore e nel colore, piuttosto li salda e ribadisce nella loro pena e miseria»55 Aveva scritto infatti già nel 1907: Arte sociale… e tutti i deficienti e gl’insipienti si gettarono sulle tele, […] con il cristiano intento di suscitare pietà, o, peregrina intenzione, la rivolta; ne abbiamo visti tanti di quei lavoratori sfibrati e cadenti, di emigranti sconsolati e affamati, carne lacera e spezzata, mal resa, mal costituita, immonda; e se un senso di rivolta sentimmo fu contro coloro i quali tentarono di farci ingoiare l’amara pillora [sic] nell’ostia dell’arte sociale.56 Perché sempre l’«impossibilità della rivolta» ha poi, dichiaratamente, per oggetto quella «rappresentazione inesorabile dello sfasciamento mostruoso di esseri umani» che per molti vale l’«impossibilità della sua arte».57 Un raffronto diretto con tanti di questi artisti «sociali» forse potrebbe aiutare a coglierne la distanza anche ideale di Viani. Un passaggio esauriente su questo è proprio il ricordo dell’esposizione alla Galerie di Petit: Dopo due giorni ricevei l'avviso di portare i miei disegni alla Galleria di Georges Petit, quella dove fu esposto il ritratto di Dorian Gray. Era lusinghevole per me […]. Malgrado il titolo corrosivo, la "Commedia Umana" accampata nelle auree sale di Georges Petit era un sinedrio di scettici, di lepidi e di servizievoli, apparati sotto il bel nome come un branco di cenciosi sotto una grondaia: i giardinetti svenevoli di Semoff, gli aborti ventruti di Weber, i quadri normali di Raffaelli, le vesciche slabbrate di Herman Paul, le rotondità obese e tagliuzzate di Léandre, i titillamenti di Abel Faivre e i bozzetti di quel galantuomo di Zandomeneghi: tutta roba che sarebbe crollata sotto uno scroscio di risa di Daumier. In mezzo a quelle pareti ambrate, insaponate di lampone, dai toni di pisello, i miei disegni di gente pietosa, brutale, avvinazzata sembravano un ponce zincato rovesciato sopra una tovaglia apparecchiata per un agape di filosofi astemii. Pancrazi (1946), p. 28. E prosegue giustamente distanziandolo anche Fucini: «Va da sé che i “vageri” non somigliano neppure ai contadini e popolani e vagabondi del tradizionale bozzetto toscano: questi, tutti stemperati nel loro paesaggio, quasi figure e voci della natura; quelli, ciascun per sé, isolati e rattratti nella natura come punti o grumi d’ombra. Empoli e Viareggio stan vicino; ma il Fucini e Viani sono lontani che più non potrebbero» (ibidem). 56 Viani, L’esposizione internazionale di Venezia, cit. in De Micheli (1987)a, p. 125. 57 «Quella rappresentazione inesorabile dello sfasciamento mostruoso di esseri umani, fece gridare alcuni alla impossibilità della mia arte» (Viani [1919], p. 211). 55 24 Ma in questa città, che è raggio per quelli che son lontani, gli indumenti e i nomi sono nei primi piani. La "Commedia Umana" si poteva ben chiamare lo sposalizio di Ciuccianespole.58 Non essendo adatto o adattato al clima artistico e politico che mostra la Comédie humaine da Petit, la sua arte appare impossibile. Con una vicinanza più esplicita a Daumier per il fine di lotta politica e di riconoscimento delle condizioni sociali (si pensi proprio al giustamente celebre Le Wagon de troisième classe), le maschere dipinte da Viani sono inservibili, come un «ponce zincato» per «filosofi astemii». Perché molti circoscrivono l’arte nei limiti della possibilità, io penso che le unità realistiche debbono essere soggiogate al concetto informatore di un’opera. Il quadro (io sono reazionario di concetto) deve essere un’impostazione monumentale dei gruppi, la deformazione coscente [sic] delle parti alla linea passionale e drammatica. Se un’opera manca di passione manca di umanità, quindi è antinaturale, disumana, cinica, accademica.59 Con questo passo del 1919 si può utilmente chiosare l’opinione di Viani alla vista di quello «sposalizio di Ciuccianespole». La struttura «monumentale», romantica se non già vicina ai modi di Fattori, e in un certo senso eroica dei gruppi su una tela, non fanno forse al caso di Parigi, se non si osserva che tutto il testo è questa «impostazione». Contro l’accademismo cinico delle altre narrazioni si oppone l’umanità tutta dei «dannati della terra». La «deformazione coscente delle parti alla linea passionale e drammatica» è proprio l’angoscioso accostamento tra tutti gli individui raccontati, ognuno col suo carattere, di cui si fa però carico l’io di Viani che subisce la passione della metropoli come flâneur moderno. Ed è così che lo stile, per coordinarsi a questi temi, si crea in una fusione tra un impressionismo (Falqui ha parlato di «impressionismo vociano» per accentuazioni e contorni delle descrizioni)60 che ha lontano alle spalle la bozzettistica (e non un semplice bozzettista, come vuole Contini)61, e il beneaugurato espressionismo che diffonde una tinta ancora più fosca sulle facce.62 E lo fa manifestando in pieno le istanze soggettive tipiche di quest’ultima. Se pure l’espressionismo, come l’espressione in genere, si carica di soggettività, lo fa però con due particolarità complementari tra loro: […] si esprime non l’io ma l’Io, con la maiuscola, il suo “dramma pronominale” dotato di estensione collettiva in una Viani (1980), pp. 164-165. Viani (1919), p. 211. 60 Cfr. in Lodoli (1971), pp. 317-318. 61 «E Viani […] affiancò alla sua pittura dialettale una bozzettistica altrettanto dialettale» (Contini [2013], p. 266); ma cfr. supra la n. 55 con il giudizio di Pancrazi. 62 È spinta ad ammetterlo anche Lonzi che pure giudica del tutto «decadente» l’opera di Viani, vedi Lonzi (1969). 58 59 25 proiezione sulla scena universale; nello stesso tempo, […] indica la dinamica verbale (e propria del “verbo”), il “linguaggio resistente e ruvido”, ovvero quella estenuazione della parola che coincide con l’essenzialità.63 La lingua di Viani infatti è dura e personale, con aperture peane al versiliese fin nei cardini della frase (pur restando, a mio avviso, nella centralità di un costrutto pienamente italiano). Il soggetto invece si somma a tanti altri per mostrare i tratti dei dannati: Viani compie di fatto un’identificazione profonda, di «anima», tra sé ed i miseri descritti, tra la loro Parigi e la propria, tra il proprio soggiorno e la loro vita in condizioni incredibilmente disumane. È un’identificazione sia letteraria sia biografica. E se anche se può apparire inconscia durante lo svolgimento del libro, è in realtà volontaria: dove le condizioni dei suoi «eroi» popolari sono usate per raccontare anche la propria, con un trapasso spesso sfumato, queste toccano la cima del «dramma pronominale» e della resistenza linguistica. Da cui si vede, ormai è chiaro, che i fini sono pienamente politici ed ideologici, oltreché compresenti nelle premesse di una scelta stilistica, in una fusione perfetta. Se l’espressione si presenta comunque come un appello che richiede ascolto, la domanda di riconoscimento non è compilata, nel caso dell’espressionismo, nella forma prestabilita dal modulo; è piuttosto una irruente pretesa di riconoscimento. Una protesta. 64 Conseguente ma anche originaria nella concezione è la tensione al plurilinguismo e al dialettalismo. Aprendo anche la scrittura, sia nelle formule sia rintracciando parole «tra le riserve del vocabolario»65; cercando di andare al di là dei «limiti della possibilità», cioè oltre una lingua sola che renda compatti e circoscritti, unitari e quindi inoffensivi questi umili; Viani compie un doppio movimento. Raggiunge un’adesione più vicina e partecipata agli «sfortunati» ed ai reietti; ma anche produce una fruizione che può saliere dal basso. Al nostro caso e al nostro stile, convengono parole ignoranti come fette di pane da cani, inesplicabili ma taglienti come tegoli caduti a coltello sul capo, ma italianissime anche se rozze e plebee accatastate tra le riserve del vocabolario… Se dipingendo possiamo allo stesso scopo, impastare il bitume col nero, con la lacca, il celeste col blu di Prussia, per ottenere l’evidenza delle figure; scrivendo possiamo impastare gergo dialetto lingua, ma la lingua e il dialetto e il gergo debbono, nell’impasto, creare un valore di tono dell’unità indissolubile dell’assieme.66 Questo «impastare gergo dialetto lingua» vuol dire nient’altro che politicamente e socialmente affratellare gli uomini, giungere ad una comunione anche stilistica e linguistica con loro. È in fondo la stessa operazione dello Muzzioli (2013), p. 29. Ibidem. 65 Vedi nota seguente. 66 Viani, Del gergo nella lingua, cit. in De Micheli (1987)a, pp. 126-127. 63 64 26 sguardo riproposta sulla lingua; è rendersi perciò vicini, farsi presso agli ultimi con partecipazione. Già nel 1913 aveva scritto: «Idealmente sono Bakunista. L’arte è un’inutile mollezza della vita se alle moltitudini oppresse non è dato goderne…».67 Parigi, infine, sfugge e si inselva all’ombra di un giudizio morale e politico, frutto dello sguardo e della passione dell’autore, e quindi anche artistico. Ciò che resta è l’impressione di un’«illusione» che apre alla salvezza di questi dimenticati; dimenticati da tutti ma non da Viani che in modo crudo e perturbante continuamente riporta agli occhi il rimosso, il marginalizzato e l’assimilato dalla società. La protesta che tenta di specificare, personalizzare e nell’individualismo di ognuno affratellare i personaggi masticati dalla metropoli, questa protesta erompe e prova ad allargare lo spazio di gioco. Cerca di far riappropriare degli spazi metropolitani chi, con tinte più scure e contemporaneamente più vivide, li abita. È qui la politica e «irruente pretesa di riconoscimento» di cui scrive Muzzioli: L'orrore di Parigi, la solitudine, le nequizie, le orride maschere degli uomini, i lunghi digiuni, le penitenze, non avevano ancora spento la fiaccola delle illusioni; un giorno gli uomini si sarebbero amati e, dimenticando, si sarebbero sentiti fratelli. 68 Mattia Caponi caponi.mattia@gmail.com 67 68 Id., Lettera autobiografica, cit. in Id., p. 119. Viani (1980), p. 119. 27 Riferimenti bibliografici Benjamin (2000) Walter Benjamin, Opere complete IX. I «passages» di Parigi, a cura di R. Tiedemann, ed. it. a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2000. Benjamin (2012)a Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tre versioni (1936-39), a cura di F. Desideri, Roma, Donzelli, 2012. Benjamin (2012)b Walter Benjamin, Aura e choc. 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Jouvet (1950) Jean-Pierre Jouvet, Parigi di Lorenzo Viani, in «La Fiera Letteraria», 7 maggio 1950, p. 4. 28 Lodoli (1971) Gabriella Lodoli, Studi su Lorenzo Viani, in «Aevum», a. XLV, n. 3-4, maggioagosto 1971, pp. 288-321. Lonzi (1969) Carla Lonzi, Una mostra di pittura e grafica di Lorenzo Viani, in «L’Approdo», a. XV, n. 1, gennaio-marzo 1969, pp. 151-153. Martini (2006) Francesca Martini, Quadro senza suggestioni: Lorenzo Viani ante guerra, in E. Dei (a cura di), Lorenzo Viani. Pittore e Scrittore Espressionista: Ancona, Mole Vanvitelliana. 1 dicembre 2006 -18 febbraio 2007, Milano, Silvana Editoriale, 2006, pp. 37-47. Muzzioli (2013) Francesco Muzzioli, Per una teoria sull’Espressionismo, in «L' illuminista», voll. XXXVII-XXXVIII-XXXIX, pp. 25-39. Pancrazi (1946) Pietro Pancrazi, Arte e stile di Lorenzo Viani, in Id., Scrittori d’oggi. Serie IV, Bari, Laterza, 1946, pp. 24-30. Pomilio (2002) Tommaso Pomilio, Asimmetrie del due. Di alcuni motivi scapigliati, Lecce, Manni, 2002. 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Also, it tries to investigate how the artist’s «linguaggio protestatario» (‘protester language’) is a form of politics, which consequences could be traces in «Parigi» and in Viani’s way of deformation. Starting from this, this paper studies how the fight and the «politicization of art» show themselves in «Parigi». Parole-chiave: Viani; Parigi; espressionismo; Soffici; città; autobiografia; pittura; anarchia. 30 SAMANTA CASALI, Ercole Luigi Morselli, scrittore e drammaturgo ribelle dall’anima inquieta Ercole Luigi Morselli nasce a Pesaro il 19 febbraio 1882 in Palazzo Marzetti di via San Domenico 17 (oggi n. 59 di via Giordano Bruno). Figlio legittimo di Antonio Morselli, ispettore demaniale, nativo del piacentino Castel San Giovanni, e Annetta Celli, maestra diplomata, originaria di Sant’Angelo in Lizzola. Al 1897 risale l’incontro con il coetaneo Papini. I due amici trascorrono interi pomeriggi e notti nell’accogliente studiolo di casa Morselli, in via della Mattonaia a Firenze declamando versi, dedicandosi all’ascolto della musica classica, immergendosi in interminabili discussioni che hanno per oggetto la comune passione per l’Arte.1 In prosa sono i primi, seri approcci morselliani con la pagina bianca ed è sorprendente che, tra i fogli dei suoi appunti non datati, ma certamente attribuibili all’inizio del 1900, vi sia un manoscritto che, in qualche modo, sembra già tracciare l’ambientazione del suo capolavoro, Glauco: Alcuni giovani nudi sulla riva sono intenti a trarre le grandi reti piene di pesca che fan turgere i muscoli fortissimi sotto la pelle bruna e bagnata che luce al sole come bronzo e seguono il ritmo lento del loro lavoro con un canto lento che loda i tesori del mare. Discosti dalla riva gruppi di uomini e di donne coperti di pelli di pecore sono intenti a raccogliere allegramente i frutti che dona la terra e cantano anch’essi, ma con un ritmo più concitato cantano le laudi della donante. E mai la terra e il mare mostrarono di comprendere così la parola degli uomini felici. 2 A conferma del precoce amore per il teatro vengono fuori, sempre negli stessi anni, un progetto di dramma in tre atti intitolato La trilogia di Jacopo del Monte (omaggio all’eroe foscoliano) ed alcune più affrettate tracce di azioni sceniche. Pressoché identici i soggetti, a sfondo dichiaratamente autobiografico: giovani artisti dissoluti e ribelli in aperto conflitto con famiglie borghesi e benpensanti, sorde alle loro esigenze spirituali. Ercole Luigi, durante la sua frequentazione letteraria con Papini, ha il piacere di conoscere altre due giovani ed inquiete intelligenze della cultura fiorentina: Cfr. Ferrati (2010), p. 14. Morselli, Appunti per una prosa, manoscritto inedito, non datato, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 2, fasc. 1, n. 5. 1 2 31 Giuseppe Prezzolini e Alfredo Mori. I quattro formano un sodalizio bohémienne, uniti dagli stessi interessi. Terminati gli studi liceali, Morselli si iscrive nel 1899 alla Facoltà di Medicina e Chirurgia nella stessa Firenze, scegliendo come specializzazione il ramo psichiatrico. Sia Papini che Morselli sono attratti dall’anatomia e scelgono di seguire le lezioni del professor Chiarughi, ritenuto uno dei più grandi artisti del bisturi, ed essi individuano nella sua figura una sorta di fratello in arte, poeta dissacratore che mette crudelmente a nudo le verità nascoste della vita.3 Di giorno è intento a studiare e mettere in pratica tutte le nozioni che un’istituzione, come l’università, può fornirgli, mentre la sera, Morselli e i suoi inseparabili amici danno vita ad animate discussioni. In una di queste, il 12 aprile 1900, nella cantina del futuro Giuliano il Sofista (pseudonimo del Prezzolini), i quattro compilano e sottoscrivono il 'Proclama degli Spiriti Liberi': Considerato che: - il fine naturale di ogni uomo è la felicità; - che la felicità consiste nel massimo numero di sensazioni piacevoli e nel minimo di sensazioni dolorose; - che le grandi fonti di piacere per l’uomo sono: la LIBERTÁ, l’AMORE, la SCIENZA e l’ARTE; - che nel mondo civile regnano invece la schiavitù sia materiale che spirituale (sotto le varie forme di autorità, di morale stabilita, di convenienze spirituali, ecc., ecc.), la lotta per la vita e la mediocrità intellettuale; - ma che d’altra parte l’uomo non può da solo procurarsi tutti quei piaceri. Noi spiriti liberi, abbiamo deciso: di unirci in un gruppo fraterno - facendo vita comune e unendo insieme i nostri cuori e i nostri beni, i nostri ideali e i nostri destini. Questo gruppo avrà per scopo: 1) di stabilire la massima libertà sia nelle relazioni fra i membri del gruppo stesso, sia in quelle del gruppo con il resto degli uomini. Questo scopo si otterrà abolendo ogni legame sia famigliare che civile e sociale - ogni cerimonia o convenienza tradizionale - e non riconoscendo nessun principio dogmatico sia religioso, filosofico, morale, ecc., ecc. Considerando che l’indipendenza economica è la considerazione vitale della libertà, il gruppo decide di procurarsela con due mezzi: a) ponendo in comune le sostanze che ciascuno possiede separatamente; b) ponendo in comune i frutti del lavoro individuale. 3 Cfr. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 18. 32 2) I componenti del gruppo si legheranno fra loro in tenera e tenace amicizia, che sarà basata sulla confidenza, sulla libertà, sulla sincerità e l’aiuto reciproco. Inoltre, ciascun membro può procurarsi, sia solo che in compagnia, tutti quei piaceri sessuali che la donna dà, purché non abbia per condizione o conseguenza il matrimonio, nel qual caso il membro sarà ignominiosamente scacciato dal gruppo. 3) Ogni membro del gruppo aumenterà con studi e letture la propria cultura, ma dovrà mettere in comune, per mezzo di comunicazioni, conversazioni, conferenze e scritti, ciò che ha imparato o sta imparando. 4) Tutti i membri riuniti si procureranno tutti quei piaceri che le arti posson dare, sia creando opere proprie o ammirando le altrui. La prima forma di piacere sarà ottenuta componendo, dipingendo, suonando, ecc., la seconda visitando gallerie, esposizioni – assistendo a concerti, rappresentazioni teatrali – leggendo libri, giornali, riviste. In apposito statuto saranno determinati i mezzi e i principii che serviranno a tradurre nella realtà i nostri propositi.4 Dopo due anni di infruttuosi studi nelle aule di Medicina e Chirurgia, Morselli si iscrive alla facoltà di Lettere. Ma non passerà molto tempo per capire che è proprio l’approccio con l’istituzione scolastica a smorzare i suoi più vivaci istinti di conoscenza.5 Papini disse che la bocciatura del Morselli fece sì che ci fosse un dottore in lettere in meno e un poeta di più.6 Nel suo Diario Prezzolini afferma: Ogni tanto facevamo fra noi un’inchiesta per vedere dove eravamo arrivati col nostro pensiero, e scrivevamo in colonna sotto i nomi di Papini, di Prezzolini, di Morselli, di Mori le più recenti opinioni sulla società, sull’uomo, sulla teoria della conoscenza, i nomi dei filosofi, dei pittori, dei poeti preferiti, e i nostri scrupoli scettici, sapendo come le nostre opinioni s’avvallavano e si sormontavano in un ondoso ripentimento e in un vorticoso tempestare di simpa-antipatie, ci portavano a segnar non soltanto l’anno, il mese e il giorno, ma persino l’ora e i minuti.7 All’interno del gruppo ognuno si ritaglia un ruolo specializzato – non solo nel programma di lavoro – con Papini filosofo della conoscenza, Prezzolini sociologo anarchico e Morselli scienziato – ma anche nella pratica epistolare, con Papini in qualità di pensatore e dialettico acerrimo, Morselli di lirico ed epico e Prezzolini di osservatore lucido e cinico.8 Prezzolini (1978), pp. 17-19. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p.19. 6 Papini (1921), p. 316. 7 Prezzolini (1978), p. 32. 8 Gentili-Menghetti (2003), p. XIV. 4 5 33 Le lettere del carteggio tra Papini e Prezzolini testimoniano questo assiduo studio e ricerca svolto da Giovanni e Luigi nella loro Firenze. Essi si preparavano studi comuni da approfondire. Noi poveri infelici, rimasti a vegetare in fondo a questa Misera Toscana, abbiamo ben poco da dirti. L’Arno scorre sempre lento e fangoso, il sole seguita implacabile a scottare le nostre schiene dorsali e noi continuiamo la nostra vita monotona di bohémes della scienza e dell’arte. Morselli sta studiando l’osso sfenoide del cercopiteco ed io speculo sull’obiettivazione del soggettivismo nel concetto dell’infinito relativo spiegato per mezzo della quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Tutti i giorni alle 5, ci troviamo insieme e ce n’andiamo al Vial de’ Colli chiacchierando e discutendo d’arte, di scienza, di filosofia – ricordando l’amico lontano e l’amico già morto. Io e Morselli, unici supersiti, abbiamo già fatto un programma di studi comuni (invertebrati - tedesco - storia dell’arte) e inoltre ognuno di noi lavora al volume assegnatogli per la nostra biblioteca scientifica. Morselli sta raccogliendo materiale per un suo libro sugli Avatismi.9 Durante il soggiorno a Parigi di Prezzolini, Papini continua i suoi studi scientifici e Morselli inizia le sue brevi gite in bicicletta, alla scoperta dei borghi Toscani, quali Lucca, Pistoia e Prato. Come ogni ribelle anima romantica, Luigi ama provocare ed ostenta un’immagine vistosa e sfrontata: capelli lunghi e sciolti sopra le spalle, mantellone nero, sciarpetta al collo annodata con noncuranza, tenebroso cappello a falde larghe. Papini e Prezzolini hanno una loro linea di pensiero e sono ormai lontani dall’inquietudine del loro compagno Gigi. La rottura fu definitiva e ognuno prese una strada diversa. Ieri verso le cinque del pomeriggio, in un’oscura viuzza presso piazza Santa Croce, Papini e io da una parte, Morselli e Mori dall’altra. Non ci vedremo più. Non ci conosceremo più. Loro verso la letteratura e noi verso la filosofia. Loro con i d’annunziani, noi per la nostra via. Loro con le chiacchiere, noi con il pensiero. Ci siamo scambiati poche e definitive parole. Non era possibile andare avanti. Ciò che ci ha tenuto vicini tanto tempo è finito.10 Essi non ammettono che l’amico si sia avvicinato all’ideale dannunziano e si dichiareranno ufficialmente 'nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea' e fautori di un programma filosofico che assegna al solo pensiero il compito di modificare il reale.11 Morselli rincontrerà i due amici solo anni più tardi; ma, né con l’uno, né con l’altro avrà più il tempo di ricucire il profondo e fraterno legame di giovinezza.12 Papini - Morselli, Lettera a Giuseppe Prezzolini, Firenze 5 luglio 1900, in Carteggio vol. I, p. 15. 10 Prezzolini (1978), p. 41. 11 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 37. 12 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 39. 9 34 Attività letteraria Le Favole per i re d’oggi vengono pubblicate per la prima volta dalle edizioni Bernardo Lux di Roma nel 1909 e appariranno nelle librerie dei principali librai di Firenze. La prefazione ricorda una graziosa favola di Ismailow, in cui c’è un re che scaccia come impudente la Verità dal suo palazzo, ma poi le fa buona accoglienza quand’ella si ripresenta vestita di una bella veste d’oro e stellata di gemme che s’era fatta donare dalla Fantasia. Il successo è immediato e da tutta Italia piovono gli elogi su questa prima opera a stampa del giovane autore: una sorta di 'bestiario morale' ad uso e consumo dei borghesi, che ha per protagonisti somari, aquilotti, tartarughe, ragni, serpenti, leoni ed ermellini. I re cui sono destinate le Favole, come afferma Morselli stesso, novello Esopo, non sono altro che il comune gregge dei contemporanei stracarichi di boria e di tutti gli altri peccati comuni ai re, perpetuamente illusi di nostra potenza così nelle battaglie dell’anima, come in quelle della vita. Le Favole del Morselli si intitolano per i re d’oggi perché forse hanno un remoto significato d’ammonimento sociale, ma in realtà sono per tutti perché sotto aspetti di pura invenzione nascondono invece solenni realtà. Morselli scrisse le Favole a 26 anni, dopo il viaggio che dall’Italia lo aveva portato in Africa e successivamente in America del sud, a contatto con persone e fatti di ogni genere, con pericoli reali ed immaginari. Morselli guarda alla società umana, alla vita in genere, con aperta ironia, convinto che si regga su un’incrinatura, che il bene e il male, il vizio e la virtù, spesso altro non sono che le due facce del medesimo pregiudizio. L’autore non rispettò i parametri critici allora in uso ma rovesciò certi contenuti, infatti le sue Favole non avevano un fine pedagogico o pratico. Egli cercò di sconvolgere un ordine morale sclerotico arrogante [sic!] in cui l’ipocrisia e la presunzione tenevano il posto della verità e della saggezza. Il vero compito dello scrittore è sempre quello di rovesciare i valori esistenti.13 Gli animali del Morselli scioperano, discutono e si organizzano; oppure filosofeggiano tristemente sulle vicissitudini umane; essi permettono nelle Favole di capire lo spirito morselliano e sono necessari ad esprimere il significato della vita umana in modo ironico, con quel tocco di verità ed entrando nella mente dell’autore, delineando il suo punto di vista sulla realtà delle cose. Apprendiamo da un titolo del Giornale d’Italia (1° aprile 1910) che Acqua sul fuoco fu il primo tentativo drammatico del Morselli. 13 Antognini (1975), p. 11. 35 Lo stesso autore nell’intervista concessa al Messaggero della domenica (1919) a chi gli chiede: «Come avete incominciato a scrivere per il teatro?», risponde «Con una commedia moderna di carattere pastorale, Acqua sul fuoco». Acqua sul fuoco, di cui la Biblioteca Oliveriana possiede il manoscritto14 non datato, ma sicuramente del 1905 o 1906, viene pubblicato nel 1920, in unico volume con La Prigione, dalla casa editrice Vitagliano nella collezione diretta da Renato Simoni.15 La commedia rimase nel cassetto per quattro anni e fu rappresentata per la prima volta a Roma, Teatro Argentina, la sera del 31 marzo 1910, a due settimane di distanza dal successo dell’Orione, dalla Compagnia di Nino Martoglio. L’opera è frutto di una felice ricerca morselliana soprattutto nel campo del realismo linguistico – gli attori in scena recitano in dialetto toscano – perfettamente realizzato con l’uso di espressioni tipiche (la capretta non mi piace punto, l’hanno a esser per iastera, zittatevi allora, così ne direte meno di grullerie, ecc).16 Una Croce tarlata è un’opera dattiloscritta, firmata e datata (1909) dall’autore.17 È un dramma marinaresco, definito così dallo stesso Morselli. La terminologia marinara è ricca, pertinente, erudita. Il verismo (le cucitrici di reti, il coltello insanguinato, il lessico tipico dei marinai) è come annacquato da un eccessivo sentimentalismo fatto di carezze, baci e parole consolatorie più intonate a un ambiente borghese alquanto sdolcinato che non ai personaggi del dramma.18 L’opera non risulta essere stata mai rappresentata mentre l’autore era in vita. La prima rappresentazione avviene postuma, il 28 maggio 1926 al Giardino d’Italia di Genova con la compagnia fiorentina, e il giornale Il Caffaro del giorno seguente ne riporta la notizia: Con pittoresco decoro scenico e l’intelligente cura così dei particolari come dell’insieme, la Compagnia fiorentina rappresentò la Croce Tarlata, un dramma di pescatori dell’autore di Orione e Glauco. I tre atti non hanno molto sviluppo e sembrano vogliano offrire più colori e motivi appena accennati, che non un’azione di largo respiro drammatico, nonostante la intensità di taluni momenti. Tuttavia, non mancano qua e là segni evidenti del robusto ingegno dell’autore, che forse pensava di dare a questo lavoro una maggiore estensione e diminuirne la uniformità talora eccessiva. Morselli, Acqua sul fuoco, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 11, fasc. 1. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 292. 16 Ferrati (2010), p. 39. 17 Morselli, Una croce tarlata, manoscritto inedito, 1909, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 9. 18 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 293. 14 15 36 I maggiori successi Orione è definito dall’autore il suo 'lavoro bello', e ad esso egli dedica tutte le sue energie. Ogni giorno Morselli si reca alla Biblioteca Oliveriana per reperire più materiale possibile intorno alle figure mitologiche da lui amate, e riempie di accurati appunti bibliografici e di citazioni, tratte da Virgilio, Omero e Apollodoro, interi block-notes. Con Orione, Morselli entra decisamente nel mito, ma anche nel dramma esistenziale che il mito stesso, secondo Morselli, contiene e che sembra appartenere all’intera umanità: perdere il nostro bene nel momento in cui lo stiamo ottenendo. Nell’ottobre del 1909 la tragicommedia è terminata. Entusiasta dell’esito ed impaziente di far risuonare l’omerica risata del semidio nelle orecchie del pubblico romano, Morselli organizza, una dietro l’altra, letture pubbliche della sua opera.19 La prima edizione di Orione con il sottotitolo di 'tragicomedia' fu pubblicata a Roma nel 1910 da Armani e Stein; la seconda, insieme al Glauco, pubblicata a Milano nel 1919 dai fratelli Treves. Il 17 marzo 1910 Orione debutta al teatro Argentina di Roma, nel cast Gualtiero Tumiati, Napoleone Masi, Ruggero Lupi e Ugo Farulli. Il primo atto piace assai, per la sua forma incisiva, immaginosa, spesso cruda: c’è dentro allegria quanto si vuole, c’è un fare alla diavola, impertinente esuberante, soprattutto giovanile. C’è anche, difetto di tutta l’opera, pochissima azione e, se vogliamo, nel primo atto azione non c’è per nulla: ma il pubblico a questo non bada: il dialogo l’ha contentato, quei tipi mitologici gli vanno a genio, fiuta la parodia e si mette di buon umore.20 Il successo è dovuto anche alle scene dipinte da Galileo Chini, oggi sfortunatamente scomparse, i costumi di Caramba e le musiche del Barone Rodolfo Kanzler.21 In suo onore viene allestita una festa nella terza saletta del Caffè Aragno da un folto gruppo di amici. Tra i presenti: Luigi Volpi, Ugo Folena, Nino Martoglio, Sem Benelli, Emanuele Modigliani e Jean Carrére, futura traduttrice di Orione in francese. Dopo la tournée – seguita personalmente da Gigi, Bianca e Liana a Milano, Firenze, Modena e Trieste – Orione senza un particolare motivo, come spesso accade in teatro, scompare dalle scene italiane.22 Ferrati - Bertoloni Meli (1993), p. 135. Oliva, Il Giornale d’Italia, Roma, 19 marzo 1910. 21 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 141. 22 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 143. 19 20 37 Nell’aprile 1915, la famiglia Morselli si trasferisce per breve tempo ad Ancona e durante quel mese di permanenza nel capoluogo marchigiano, Morselli scrive il suo capolavoro: Glauco. Morselli non riesce a convincere nessuno a mettere in scena Glauco poiché la maggior parte dei direttori teatrali rispondono che è un’opera troppo elevata e soprattutto troppo costosa perché una compagnia trovi il coraggio di rappresentarla.23 Il Glauco, dopo la tanta esitazione di Virgilio Talli, debutta al Teatro Argentina il 30 maggio 1919 con protagonisti Betrone, Valsecchi e Melato. I costumi sono di Caramba, le scenografie di Guido Galli e le musiche del Barone Rodolfo Kanzler. Il Resto del Carlino (31 maggio 1919), con l’articolo dal titolo Glauco di Ercole Luigi Morselli, ne riferisce così il successo: Glauco di Ercole Luigi Morselli, tragedia rappresentata al teatro Argentina dalla Compagnia Talli, è una tragedia ricchissima di motivi corali, alla quale manca nei momenti supremi, la musica per essere in tutto e per tutto greca. Morselli è giunto a concepire questo dramma, non per sforzi di erudizione ma per una sua innata gioia e felicità di creatore di miti antichi. Morselli ha contaminato il suo Glauco di diversi miti greci, come l’Ulisse infatti nel secondo atto, che ha per scena la Maga Circe, richiama alla memoria episodi omerici. Glauco è un umile pescatore che desidera la Gloria, che vuole diventare Re e Dio, non per la vanità propria o per proprio piacere, ma per offrire la gloria e la reggia alla sua amata, a Scilla, figlia di Forchis, pastore di molti armenti e di sordina avarizia. Invano ella gli dice che solo la virtù della donna e solo della donna l’amore possono mutare in reggia una capanna: il suo desiderio vince, e scilla medesima si sacrifica al sogno di Glauco, dandogli la chiave del ripostiglio dove il padre custodisce le lame perché egli le porti oltremare a venderle. È il primo atto: vario di belli episodi che si raccolgono e prorompono nel dialogo dei due amanti: pieno di accorata tenerezza e di selvaggio ardore. Il pubblico che ha ascoltato in gran silenzio, scatta in un lungo applauso, sei volte il Morselli deve presentarsi alla ribalta. Nel secondo atto vediamo la reggia di Circe: le tre parche filano le vite dei mortali sedute sui gradini del suo talamo: il mare tutto intorno ansima e canta. Cloto, Lachesi e Atropo, svolgendo il filo di Glauco narrano le sue gesta. Egli ha conquistato territori, sottomesso popoli, ha vinto eroi e semidei: è eroe, è semidio, sta per giungere alla reggia, così bello e così puro, che Circe stessa ne sarà vinta. Circe non vuole che Glauco approdi e salta in mezzo ad un cerchio incantato e con una verga scatena la tempesta. La nave dell’eroe è incagliata. La ciurma è sommersa, egli si salva. E poiché egli non desidera la gloria per sé ma per ghirlandarne la donna amata, vince gli inganni della maga e rapisce il bacio che fa divini e immortali e fugge sulla nave, che i tritoni disincagliano, verso la sua isola, da dove scilla disperata lo chiama mentre Circe, che spasima d’amore per lui, strappa a Lachesi, il filo della fanciulla amata da Glauco e lo spezza. Il pubblico prorompe in acclamazioni. Cinque chiamate. 23 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 166. 38 Il terzo atto ci riporta in Sicilia. Scilla scacciata dal padre, dopo una lunga e disperata attesa, si uccide. Mentre il suo corpo è portato sulla spiaggia, la nave di Glauco arriva sospinta a furia dai tritoni. L’eroe è giunto troppo tardi: non gli è valsa la ricchezza, la gloria e l’immortalità. Egli ha perduto quello che gli era offerto umilmente, la gloria dell’amore semplice e puro di una donna per un uomo. Si spoglia delle sue insegne, butta i suoi trofei, rompe la sua spada, e strettosi al petto la morta Scilla, si fa legare con le catene della nave al freddo corpo e col grave peso dell’ancora si fa precipitare nelle onde sicule. Il Dio che non può morire, parla dal fondo del mare ammonendo gli uomini che, solo nell’amore nella pace, è la felicità. È un atto lirico che persuade per la sua dolcezza accorata del canto. Chiusosi il velario, il Morselli è chiamato sette volte al proscenio. Un trionfo. Gli attori hanno recitato abbastanza bene, non benissimo: ebbero a volte accenti melodrammatici assolutamente fuori luogo, degni di lode il Betrone nella parte di Glauco e la Melato in quella di Circe. La signorina Valsecchi (Scilla) ebbe buoni momenti di soavità. Ottimi la messa in scena e i costumi. Per Glauco si registrarono ben settanta repliche al Teatro Argentina e una lunga tournée in Italia. Sempre riscuotendo notevoli consensi, Morselli vinse nel 1919 (nel 1918 lo aveva vinto per Orione) il premio ministeriale per la migliore opera drammatica rappresentata durante l’anno.24 Glauco successivamente ebbe molte rappresentazioni tra le quali: l’opera lirica di Alberto Franchetti, rappresentata al teatro San Carlo di Napoli l’8 aprile 1922, la traduzione pirandelliana Glaucu messa in scena da Giovanni Grasso Junior e Virginia Balestrieri al teatro del Giglio di Lucca il 31 marzo 1922 e ripresa per la regia di Andrea Camilleri al Teatro greco di Tindari nel 1970. Nel dicembre 1917 la famiglia Morselli sta attraversando un periodo di miseria dovuto alle difficoltà economiche. L’attore Gualtiero Tumiati, capitato a Genova per recitare, prega Luigi di scrivere una commedia e gli anticipa un po’ di denaro. Morselli in pochissimi giorni scrive Belfagor, arcidiavoleria in quattro atti.25 Il soggetto della commedia di Morselli mette in scena la vicenda del diavolo Belfagor, inviato in un piccolo borgo del litorale toscano a far esperienza delle faccende umane attraverso il matrimonio. Sua moglie Bianca racconta che mentre stava finendo di scrivere il III atto, Luigi comincia a sentire fenomeni di fortissimo esaurimento tanto da annebbiarglisi le idee e non poter continuare. Nonostante la stanchezza e la fatica, egli porta a termine il lavoro per cui aveva preso un anticipo di 200 lire da Tumiati. Tumiati non sembra persuaso dal lavoro e lo sconforto per l’ennesima delusione favorisce, già nel provato organismo del poeta, il risorgere di un 24 25 Ferrati (2010), p. 64. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 197. 39 vecchio asma bronchiale che provoca attacchi notturni talmente violenti da far temere più volte Bianca per la fine del marito.26 Fortuna vuole che Tumiati ci ripensi, si convinca a mettere in scena Belfagor e addirittura decide di fissare luogo e data della prima rappresentazione: Milano, Teatro dei Filodrammatici, 14 febbraio 1919. Morselli, insieme a Bianca e la figlia Liana, decide di seguire la compagnia nel capoluogo lombardo, ma la prima viene rimandata per problemi tecnici. Tumiati, molto preoccupato per la salute dell’amico, approfitta della forzata pausa per distoglierlo dall’insano proposito di seguire la compagnia in tutta la tournée e prende la decisione di abbandonare il progetto.27 Nell’aprile 1919 Claudio Guastalla incontra il drammaturgo e decide di collaborare con lui per ricavare un libretto dall’opera. Nel novembre 1919 Ottorino Respighi riceve dall’editore di Ricordi, Carlo Clausetti, l’incarico di comporre l’opera Belfagor su libretto di Guastalla. Nell’autunno dello stesso anno, Guastalla informa Respighi: Belfagor non va, ma proprio per niente. Manca la personalità del protagonista. Morselli ha dovuto autorizzarmi a fare un secondo atto per dare spessore a quel diavolone che è a mille miglia da ogni astuzia diabolica ed è persino un grande imbecille. 28 Il lavoro di composizione dura due anni e Morselli nel frattempo muore. Il 6 giugno 1922 Respighi annuncia finalmente al suo editore di aver ultimato il Belfagor. L’opera musicale è composta da un prologo, due atti e un epilogo (originalmente quattro atti nel Morselli) e prevista per la direzione del maestro Toscanini. La trama del libretto ripercorre alquanto fedelmente quella della commedia di Morselli e se sono presenti alcuni cambiamenti, anche nella maniera di descrivere i personaggi, ciò che colpisce immediatamente il lettore e l’ascoltatore è la maniera in cui costoro si esprimono. Respighi dedica l’opera a Morselli, già morto da qualche anno, e il cast della prima musicale, tenutasi alla Scala di Milano il 26 aprile 1923, comprende: Mariano Stabile (Belfagor), Margaret Sheridan (Candida), Francesco Merli (Baldo) e Toscanini, inizialmente previsto cede il posto al maestro Antonio Guarnieri. Il diavolo vestito da ricco mercante (baritono) e il padre della bella Candida, Mirocleto (basso), svolgono i ruoli grotteschi, tipici dei 'perdenti'; Candida (soprano) e il suo innamorato Baldo (tenore) incarnano le leggi vincitrici dell’amore con una delicata e quasi canzonettistica metodicità. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 198. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 199. 28 Bragaglia-Respighi (1978), p. 24. 26 27 40 Tra gli effetti più riusciti, nella realizzazione musicale della vicenda, sta il concerto di campane che segna la definitiva sconfitta del diavolo. Guastalla afferma: Quel periodo del Belfagor a Milano fu certamente uno dei peggiori della nostra vita di autori, ma l’accoglienza del pubblico, così spontanea e festosa e la conoscenza che l’opera fosse cosa degna e viva ci consolarono di tante amarezze.29 Filippo Tommaso Marinetti, sulle pagine del Popolo d’Italia, definì il Belfagor un’opera futurista. Walter Zidaric oggi afferma che Guastalla, influenzato dalla poesia dannunziana, travisò il tono sostanzialmente leggero e parodico del messaggio morselliano e, nel suo libretto, finì col compromettere l’unità stilistica necessaria che avrebbe potuto consentire a questo lavoro di riallacciarsi alla tradizione dell’opera buffa italiana.30 Il Belfagor viene pubblicato postumo dall’editore Treves nel 1930 e viene portato per la prima volta sulla scena al Teatro Valle di Roma il 19 maggio 1933 dalla compagnia Kiki Palmer. Ermanno Contini sul Il Messaggero del 20 aprile 1933 scrive: Spettacolo ammirevole per fasto e per fantasia, per varietà di colori e di toni: un sapore fiabesco e paesano, ad un tempo, ricco di quella ingenua malizia che è propria delle favole popolaresche e che seduce per la pittoresca, semplice vivacità dell’immaginazione […] Il successo fu caldo vibrante, unanime: cinque chiamate al primo atto, sei al secondo, sette al terzo, sei al quarto. Il Belfagor, dopo le repliche al Valle, è rappresentato al Politeama di Napoli, a La Pergola di Firenze e all’Arena Lido di Pesaro e, come in precedenza altri lavori morselliani, è stato presto dimenticato e tolto dal repertorio del teatro italiano di fantasia. La Critica Secondo Angelo Della Massea, l’opera morselliana è divisa nettamente in due tempi: quello che precede, prettamente materiale; quello che segue, prettamente spirituale. Il primo si riferisce al tempo dell’osservazione diretta, fatta accuratamente nei lunghi viaggi, nelle soste volute o inaspettate; l’altro si riallaccia alle calme considerazioni dopo il suo ritorno in patria.31 Quaderni di Guastalla in Il teatro di Respighi. Zidaric (2006), p. 199. 31 Della Massea (1928), p. 84. 29 30 41 Per De Michelis il teatro di Morselli nasce dalle figure che popolavano le Favole, animali alberi e cose parlanti, fuori, nonché dall’acredine, dalla puntuale personificazione che era loro affidata.32 De Robertis aveva lodato nel Morselli «non dirò un costruttore, ma disegnatore di scene, con una maniera franca di colorista, che va riportata a quel suo gusto impetuoso per certi effetti allegri dove a volte batte il ritmo d’una fantasia giovanile»33. Il Gobetti avvertiva che nell’Orione «l’unità elementare dell’azione è la scena, successione di episodi in cui il grottesco nasce dal realismo per euritmia fantastica, non per una vendetta autobiografica di cattivo gusto».34 Il Glauco di Morselli fu criticato dallo stesso Gobetti per l’abbandono di ogni 'mediatezza ironica' verso i miti classici. L’opera rappresenta lo sforzo più coraggioso dell’autore per confrontarsi con il suo tempo, contrapponendosi come può, dolorosamente, ai miti più pericolosi in esso già radicati: l’avventura e la guerra. La tradizione morale, che s’oppone all’avventura, non possiede ormai di fatto vitalità e perciò anch’essa si esprime in moduli che appaiono convenzionali, vuoti e stantii.35 Sempre il Gobetti scrive: non ci sono più veri eroi in questo teatro di poesia, non ci sono autentici e nuovi valori per cui combattere in un senso o nell’altro: la tragedia si spezza subito, fin dalla partenza di Glauco 'perché i personaggi non si comunicano': il falso eroe e la falsa eroina 'nulla hanno in comune'. Si lasciano in silenzio […] Scilla non è una persona: è la giovinezza di Glauco, il suo sorriso d’ingenuità. Diventano dominanti il simbolo e la morale della favola: si cerca la felicità lontana mentre la si poteva trovare vicina.36 Certo Morselli era partito forse da premesse più avanzate rispetto alla forma del suo teatro: il mito, la trasfigurazione fantastica della realtà, era divenuto nelle sue mani lo strumento valido per attualizzare la sua polemica contro il mondo contemporaneo; anche per l’intonazione lirico-satirica che ne caratterizzava l’espressione drammaturgica.37 Galletti notava che il Morselli, avvertito dai sintomi di un male incurabile che la sua vita sarebbe stata breve e senza speranze, fece coll’immaginazione vendetta allegra del suo destino, beffandosi dell’inesorabile Natura e della sua creatrice e struggitrice cecità in un dramma mitologico, Orione, ove il protagonista, figlio della Terra, gigantesco e istintivo come certi eroi del Folegno De Michelis (1952), p. 80. De Robertis, Nuovo Giornale, Firenze, 15 dicembre 1919. 34 Gobetti (1974), p. 697. 35 Barsotti Frattali (1986), p. 118. 36 Gobetti (1974), pp. 699-700. 37 Barsotti Frattali (1986), p. 119. 32 33 42 o del Rabelais, lussurioso e vorace come l’Eracle della commedia attica e non meno di lui prode ed invincibile, muore da ultimo, in modo poco diverso dal Morgante del Pulci, per la puntura di un piccolo scorpione. Nel dramma Glauco, Morselli versò tutte le nostalgie e le tristezze della sua anima generosa e dolente: il ricordo delle giovanili audacie, il sentimento dell’eterna vanità dei desideri e dei sogni, il rimpianto della vita che illude e della felicità che irride; ma con tanta sincerità e tanto ardore, così con una vivida intuizione delle armonie segrete che agitano la natura spiritualizzandola, da infondere in ogni scena del dramma una singolare malìa poetica.38 Infine, Tilgher afferma circa le opere di Morselli: In Orione egli trasporta sopra un piano di pagana carnalità e dissolve con l'ironia l'intuizione dannunziana della vita, incarnando nel semidio Orione la volontà di vita piena e intensa che si butta sul mondo come una tempesta a farne sua preda, ma che la puntura di uno scorpioncello basta a far crollare a terra di colpo. In Glauco egli canta malinconicamente la vanità della volontà di potenza e di vita superiore, che, spiccatasi dal focolare domestico a inseguire pel mondo i fantasmi d'imperio di ricchezza di gloria, quando vi ritorna per gettare i conquistati tesori ai piedi di colei che è rimasta ad attenderlo e per la quale soltanto ha combattuto e vinto, trova il focolare freddo e spenta l'aspettante, e con lei s'inabissa nei gorghi del mare a piangervi in eterno il suo infinito dolore. In Morselli la nostalgia della vita come slancio di eterno autosuperamento e, insieme, l'impotenza a viverla si esprimono artisticamente nella forma di gracili idilli fiabeschi, tutti soffusi di tremante malinconia. 39 Ercole Lugi Morselli muore nella notte fra il 15 e il 16 marzo 1921 nella clinica Kinesiterapica “Giovan Battista Morgagni” di Roma a soli 39 anni. Vincenzo Cardarelli, in un articolo apparso in Il Tevere del 20 marzo 1925, dichiara: Occorreva che il male e la sinistra miseria lo fiaccassero, che si oscurasse alquanto quel suo giovanile spirito spavaldo troppo dorato per il gusto borghese dei nostri tempi, perché dalle corde indebolite del suo cuore sorgesse un canto lugubre, antieroico e tripudiante di sentimentalismo, tale da conciliargli il favore del pubblico. Allora la rettorica indiscreta e l’immancabile cortigianeria assunsero il grave aspetto della critica e il volto radioso della gloria, ed egli ne ricevette il soffocante amplesso nel suo letto di morte. Conclusioni Ercole Luigi Morselli è stato un artista a tutto tondo, scrittore, drammaturgo e disegnatore. 38 39 Galletti (1967), pp. 437-438. Tilgher (1923), pp. 103-104. 43 L’incontro con le menti geniali di Papini e Prezzolini gli permise di approfondire la sua sete di conoscenza pura. Il viaggio assunse un ruolo molto importante nella sua vita; è la parte che lo cambierà e che influenzerà la sua scrittura fino alla morte. L’unica sfortuna dell’autore è stata quella di essere un contemporaneo di grandi scrittori come Gabriele D’Annunzio e drammaturghi a livello di Pirandello, il quale, durante il periodo di maggiore crisi e sofferenza del Morselli, tradusse il Glauco e ne fece una versione siciliana dal titolo Glaucu. Egli fu anche molto attaccato dalla critica ma il pubblico, alle fine delle rappresentazioni teatrali, era entusiasta di questo drammaturgo che aveva sempre qualche aspetto nuovo da dire e la sua arte era all’avanguardia. La morte prematura ha fatto sì che pian piano venisse dimenticato dalle generazioni successive e quei drammi scritti in un linguaggio arcaico e talvolta dialettale sono stati poco compresi, fino a scomparire dalle scene teatrali. Solo recentemente alcune compagnie hanno ritirato fuori questi pezzi della letteratura italiana del primo Novecento e si spera che Ercole Luigi Morselli sia di nuovo osannato come scrittore di prestigio e valenza. Pietro Pancrazi scrisse nel 1928: Al povero Morselli nocquero, in vita, forse ugualmente, il troppo clamoroso successo, e subito dopo, per due volte, la dimenticanza. Per dieci anni, la sua fortuna parve oscillare dall’uno all’altro eccesso: ora in una luce troppo viva, ora in un’ombra ingiusta.40 Mentre Alfredo Luzi oggi scrive: Ercole Luigi Morselli, come il suo grande contemporaneo Luigi Pirandello, ha mirato a liberare attraverso il teatro un sentimento della vita che ha il diritto di essere rappresentato. Egli ha inseguito un sogno, nella vita e nell’arte. Ma il successo artistico è stato distrutto dal suo dramma umano.41 Samanta Casali samycsl87@virgilio.it 40 41 Pancrazi (1967), p. 150. Luzi (2017), p. 19. 44 Riferimenti Bibliografici Antognini (1975) Carlo Antognini (a cura di), Introduzione, in E.L. Morselli, Favole per i re d’oggi, Ancona, Edizioni l’Astrogallo, 1975. Barsotti Frattali (1986) Anna Barsotti Frattali, D’Annunzio e il teatro di poesia, in Teatro contemporaneo, vol. I, Roma, Lucarini Editore, 1986. Bragaglia-Respighi (1978) Leonardo Bragaglia, Elsa Respighi, Il teatro di Respighi, Roma, Bulzoni, 1978. Della Massea (1928) Angelo Della Massea, Ercole Luigi Morselli, la vita e gli scritti, Foligno, Franco Campitelli, 1928. De Michelis (1952) Eurialo De Michelis, Narratori e antinarratori, Firenze, La Nuova Italia, 1952. Ferrati-Bertoloni Meli (1993) Lucia Ferrati-Vasili Bertoloni Meli, Ercole Luigi Morselli. Vita e Opera, Firenze, La nuova Italia, 1993. Ferrati (2010) Lucia Ferrati, Il poeta del teatro e della vita; Ercole Luigi Morselli, Pesaro, Metauro Edizioni, 2010. Galletti (1967) Adriano Galletti, Orione e Glauco di E. L. Morselli, in Storia Letteraria Italiana, Il Novecento, Milano, Vallardi, 1967. Gentili-Menghetti (2003) Sandro Gentili-Gloria Menghetti (a cura di), Giovanni Papini-Giuseppe Prezzolini, Carteggio I, 1900-1907, Dagli uomini liberi alla fine del Leonardo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003. Gobetti (1974) Piero Gobetti, Scritti di critica teatrale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1974. Luzi (2017) 45 Alfredo Luzi, Prefazione, in Walter Zidaric (a cura di), Tutto il teatro di Ercole Luigi Morselli, Roma, Universitalia, 2017. Pancrazi (1967) Pietro Pancrazi, Ragguagli del Parnaso, dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di Cesare Galimberti, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1967. Papini (1921) Giovanni Papini, Ercole Luigi Morselli, estratto da La lettura, 1921. Prezzolini (1978) Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi Editore, 1978. Tilgher (1923) Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, Roma, Libreria di scienze e lettere, 1923. Zidaric (2006) Walter Zidaric, Belfagor di Claudio Guastalla e Ottorino Respighi: la vena comica e nazionalistica nel melodramma italiano del primo ‘900, in «Chroniques italiennes», 3 (2006), pp. 175-200. Manoscritti editi Morselli, Acqua sul fuoco, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 11, fasc. 1. Manoscritti inediti Morselli, Una croce tarlata, manoscritto inedito, 1909, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 9. Morselli, Appunti per una prosa, manoscritto inedito, non datato, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 2, fasc. 1, n 5. Giornali Il Caffaro, 29 maggio 1926. Il Giornale d’Italia, 19 marzo 1910. Il Giornale d’Italia, 1° aprile 1910. Il Messaggero, 20 aprile 1933. Il Resto del Carlino, 31 maggio 1919. Il Tevere, 20 marzo 1925. 46 Ercole Luigi Morselli was a twentieth-century Italian writer. His history was full of successes and bad luck. The most famous novel he wrote was Glauco. His manusripts are stored in Biblioteca Oliveriana of Pesaro. Parole-chiave: drammaturgo; teatro; ribelle; critica; figure mitologiche e favolistiche 47 ANTONELLO FABIO CATERINO, Echi ‘petrosi’ nel Cinquecento italiano. Mario Colonna e le sue Pietre Madrigali: edizione, commento e disamina prosodica Un interessantissimo ma poco noto ciclo madrigalesco è trasmesso, alle pp. 5964, dall’edizione POESIE / TOSCANE / DELL’ILLVSTISS. / SIGN. MARIO / COLONNA, / ET DI M. PIETRO ANGELIO / CON L’EDIPO TIRANNO TRAGEDIA DI / SOFOCLE TRADOTTA DAL MEDE-/SIMO ANGELIO. / IN FIRENZE, / APPRESSO BARTOLOMEO SERMARTELLI./ M D LXXXIX, sotto il titolo di Pietre Madrigali.1 Si tratta di 13 madrigali di Mario Colonna2, elegante rimatore del secondo Cinquecento, imperniati su tema dantesco-petroso: ognuno di essi è caratterizzato da uno stile aspro, gelido e clous, oltre che dalla menzione di una pietra come referente di un amore difficile e sofferto. Come risulta evidente sin da una prima lettura, l’argomento e la prassi dantesca viene fatta propria dal poeta attraverso la mediazione figurativa dell’esperienza petrosa dello stesso Petrarca.3 Il risultato è una singolare rosa di testi che – seppur di pietra per durezza dei referenti e, di conseguenza, per gli affanni provocati – non mancano di raggiungere una straordinaria originalità e varietà ritmica e prosodica, fungendo essi stessi, a loro volta, da pietre preziose.4 I madrigali di Colonna non godono, come si diceva pocanzi, di grande fortuna critica in età contemporanea. Perplime non poco l’assenza totale del poeta nella recente disamina di Salvatore Ritrovato, Studi sul madrigale cinquecentesco, Roma, Salerno Editrice, 2015. Si fa menzione del ciclo, invece, in una splendida seppur velocissima presentazione del Colonna, nell’ottima antologia Anselmi-Elam-Forni-Monda (2004). 2 Una dettagliata biografia del Colonna (alla luce delle non abbondanti testimonianze rimasteci) è di Longo, (1982). La voce è disponibile online all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-colonna_(Dizionario-Biografico)/: ecco la ragione per cui non si citano in riferimento i numeri di pagina, con buona pace dei pedanti e del loro immancabile ipercorrettismo. 3 La bibliografia di riferimento sul Petrarca “petroso” è ampia. Rimando dunque all’ottima sintesi - funzionale a chiunque voglia orientarsi nella selva della presenza dell’esperienza dantesca petrosa in Petrarca - di Berra (2007, 99-116). 4 Il titolo Pietre madrigali consente di certo una doppia lettura: ‘madrigali petrosi’ e ‘madrigali preziosi’. Nel Vocabolario della Crusca del 1612, all’interno del lemma pietra, infatti, vi è anche questa definizione: «PIETRA. Terra indurita per l’evaporazion dell’umido, o per costrignimento di esso, e trovasene di varie, e diverse spezie, secondo la disposizione della lor materia, quand' elle si generano. Sasso. […] Pietra si dice anche alla gioia». 1 48 Giovanbattista Strozzi il Giovane, in una celebre sua lezione sui madrigali, tenuta nel 1574 di fronte all’Accademia Fiorentina5, riporta testimonianza di questo ciclo madrigalesco: […] il signor Mario Colonna, il quale in quei suoi quattordici madrigali, avendo da prima detto più volte pietra, se ne passò negli altri a dire selce, marmo e calamita […] N. I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII Incipit Nova pietra lucente Sì chiara e bella ogn’or si mostra Se ’n te, dolc’empia cote Fidato, almo sostegno Chiara selce, che ’l foco Con una pietra il fianco Sordo a’ lamenti altrui, rigido scoglio Qual selce in alto giogo Come la pietra ardita Or rubino, or topazio Non di porfido o marmo Se ben mia vista abbaglia Tra quanto ha bello e vago Che Strozzi stia parlando delle pietre madrigali è certo, nonostante il numero dei madrigali in nostro possesso, desunti dalla princeps, sia soltanto tredici (sembrerebbe un mero errore materiale di chi riporta la notizia). Il ciclo, dunque, non era certo sconosciuto agli uditori della lezione: ne consegue che l’esperienza madrigalistica di Colonna non era affatto marginale.6 Tutto parte da un’esperienza autobiografica: Mario Colonna era – come peraltro l’amico/rivale Angelio, col quale condivide l’edizione di cui sopra – un inquieto spasimante della nobildonna Fiammetta Soderini7, nota per la sua vita movimentata e costellata di numerosi amori nella Firenze di Cosimo I. È quindi altamente probabile che dietro i vari senhal petrosi si celi proprio la Soderini. Cfr. Strozzi (1635). Vale la pena qui sottolineare, però, come nessun madrigale di Colonna è stato messo in musica. È altamente probabile che lo stile petroso sia stato giudicato scarsamente cantabile, anche a fronte dell’originalità prosodica di cui si parlerà ampiamente a breve. Un’indagine accurata su questo frangente è stata condotta attraverso il REPIM, Repertorio della poesia italiana in musica, 1500-1700, a cura di Angelo Pompilio. 7 Informazioni su Fiammetta Soderini sono rintracciabili in Lotti (2018). 5 6 49 Segue l’incipitario dei testi, quindi integralmente i tredici madrigali8, preceduti da un breve cappello introduttivo9 e seguiti rispettivamente dagli apparati.10 I Il poeta si innamora di una nuova donna, bella come una pietra lucente e levigata. Non crede ai suoi occhi, e gli pare di sognare, tanto è intensa la bellezza che lo ha fatto definitivamente innamorare. Nuova PIETRA lucente, Sovra l’uso mortal pulita e tersa, In queste amene rive Vid’io di sì diversa Grazia, che sogno par quanto si scrive Del beato oriente, Da indi in qua per lei fatto possente. Di lei mi tiene Amore Negli occhi il lume e la virtù nel core. 5 1. Sin dal verso iniziale torna in mente un madrigale, altrettanto petroso, di Giovanbattista Strozzi il giovane: «A bronzi vita, e marmi / Tu dar sì lunga sai, / Che non questa un sol dì m’avvivi, e smarmi / PIETRA più bella assai? / PIETRA lucente di celesti rai? / PIETRA in sì nuova angelica sembianza? / Fin qui tu gli altri, hor deh te stesso avanzi» (Madrigali, 98). 2. Pulito e terso è, in Dante, il marmo (Purg. IX,95). L’espressione «sovra l’uso» compare già in Bembo (Stanza 43,8). 7. «Da indi in qua» è tessera petrarchesca (RVF 126,64 e 144,11). 9. Si noti la struttura chiastica. Nota al testo: traggo i madrigali dalla cinquecentina della quale si è prima parlato. Segnalo in apparato eventuali cambiamenti rispetto al testo originale. Provvedo ad eliminare le <h> etimologiche, nonché a ricondurre la punteggiatura secondo gli usi attuali. Conservo i maiuscoletti dell’edizione, che vanno ad enfatizzare i referenti petrosi. 9 Vorrei a questo punto fare una precisazione, che spero non risulti al lettore come una excusatio non petita: Non voglio in questa sede ricadere nel comune errore di dilungarsi a tal punto in cappelli introduttivi, da far quasi dimenticare il testo del poeta. Ricordo che si tratta di madrigali che – come a breve si vedrà – constano in media di 9-10 versi, con grande prevalenza del settenario, verso per eccellenza nobile ma breve. La brevità del cappello introduttivo è dunque figlia di una precisa scelta esegetica. 10 Per lo spoglio delle fonti si è usata la Biblioteca Italiana, e di conseguenza tutte le edizioni in essa digitalizzate. Fanno eccezione i riferimenti ad Antonio Brocardo, per cui si è tenuto conto dell’edizione curata da chi scrive (Antonio Brocardo, Rime, edizione critica e commento a cura di Antonello Fabio Caterino, Roma, Aracne, 2017). 8 50 II Il poeta descrive la sua donna come una selce che nasconde al suo interno una fiamma indicibile, capace di ledere gli occhi e l’anima di chi la guarda, ma anche di far bruciare di passione il cuore. Epperò la donna in questione è causa di non meglio specificati affanni per il poeta, poiché ella – se dentro arde – al di fuori è capace di riversare solo amarezza. L’amore, a quanto pare, è tutt’altro che corrisposto. Sì chiara e bella ogn’or si mostra e splende Questa mia nuova SELCE preziosa, E dentro tien sì viva fiamma ascosa Che ne gli occhi ferir l’anima offende. Indi lo cor s’accende, E accoglie in sé dolci faville Da lei, tante fuor versa amare stille; Né men però dov’ella arda e sfaville Tutti i pensier miei vanno Folli cercando posa ne l’affanno. 5 10 1. Molto simile l’espressione di Marino «mentr’arde e splende, / si mostra il sol» (Rime amorose 15,9-10). 3. Ricorda Serafino Aquilano: «porto una fiamma ascosa nel mio core» (incipit dello strambotto 82). 4. ‘Che nel ferire (scil. per la troppa luminosità) gli occhi reca danno anche all’anima’. 5. Cfr. Giusto: «e ’l cor s’accende a seguitar l’impresa» (La bella mano 202, 10). 6. Ricorda Petrarca: «Sì dolci stanno / nel mio cor le faville» (RVF 221,5-6). 7. Stille/sfaville è rima petrarchesca (RVF 322). III Il poeta spera di essere vendicato – a fronte dell’asprezza dell’amata – da Amore, ma nulla può scalfire la pietrosa durezza della donna amata, neppure il dio alato con le sue armi. Anche se il poeta gli chiedesse aiuto, Amore non avrebbe il solito vigore, perché di fronte a una dura cote – pietra che usa proprio per affilare i suoi strali – non si può fare poi molto. Se ’n te, dolc’empia COTE, Amor suoi strali affina, Onde l’alme trafigge, onde percuote, Come da la divina Faretra contro a te soccors’io spero? Già non rubello e rio 5 51 A’ suoi fedeli amici è ’l Signor mio. E se ’l volesse, è frale e non intero L’usato suo valore, Ché ’l tuo fermo rigore Punger piaga non può, noiar dolore. 10 1. Immediato il rimando a RVF 340 («sempr’aguzzando il giovenil desio / a l’empia cote» (vv. 34-35). 2. Estremamente petrarchesco anche questo secondo verso. Cfr. RVF 151, 8: «in che i suoi strali Amor dora et affina». 8-9. ‘La sua (di Amore) solita prestanza è fragile e non completa’. 9. «Usato valore» è tessera boccacciana (Teseida 10, 44, 10, 48; Filostrato 7, 79). 11. Degna di nota l’allitterazione di /p/, che contribuisce a dare all’epifonema un senso maggiormente conclusivo. Entrambi i verbi, nella loro forma infinita, sono tronchi, e ciò enfatizza i gruppi /ar/ ed /er/, che ritrovano in /or/ di dolore una meravigliosa eco, capace di enfatizzare non poco il senso generale di struggimento senza via di fuga. IV Il poeta si rivolge alla sua amata, sempre descrivendola come una pietra di rara bellezza e splendore, capace di sostenere il suo cuore. Ma – a suo dire – la bellezza di quest’ultima potrebbe essere moltiplicata se fossero minori gli affanni e i dolori da essa causati. Fidato, almo sostegno De lo stanco mio core, In cui del nobil regno Locato ha ’l seggio suo sovrano Amore, PIETRA, che di colore E di luce e di pregio Tra le più chiare sei gemma più chiara, Quanto saresti tu più bella e cara Se ’l tuo dolce splendore A chi sì t’ave in pregio Notte non fesse poi fosca e amara? 5 10 1. «Almo sostegno» compare in Bembo, Rime 135,5. 3-4. L’immagine è modellata a partire da RVF 140,1-2 («Amor, che nel penser mio vive et regna / e ’l suo seggio maggior nel mio cor tene»). 9. «Dolce splendore» è una tessera più volte adoperata dal Magnifico (92, 9; Altre rime 7, 11). 52 10. Sembra un’eco ariostesca: «Donne, e voi che le donne havete in pregio» (incipit del celebre canto XXVIII del Furioso). 11. Sembra una reminiscenza di RVF 332, 66 («a me fesse atre notti»). La coppia «fosca e amara» compare anche in Muzzarelli, Rime 48. V Il poeta ancora una volta si rivolge alla sua donna, simboleggiata da una selce che al suo interno ha il fuoco amoroso, che è per lui causa di struggimenti e lamenti continui. Eppure, nonostante la selce abbia al suo interno la face d’amore, vicino ad essa il poeta ghiaccia. Chiara SELCE, che ’l foco Conservi, onde la face Arde d’Amore eterna, Ond’io mi struggo e cuocio Senza trovar mai pace, E quand’il sol più scalda e quando verna, Deh, com’empio governa Amor tuo lume, e come apre la via A le faville tue la vista mia? E come poi vicino a te per nuova Meraviglia gel’io col ghiaccio a pruova. 5 10 5. «Senza trovar mai pace» è espressione altresì usata dal Coppetta, Rime 82,6. 6. La coppia scalda e verna appare già in Bernardo Tasso, all’interno dell’elegia terza a Bernardino Rota e in Amori 2, 49. VI Il poeta spera che l’atteggiamento altero dell’amata – fiera e impassibile di fronte alle pene del poeta – possa impietosirsi e placare le sue angosce, poiché la stessa morte è sorda alle sue preghiere. Ancora una volta il poeta identifica l’amata d’amore non corrisposto in una pietra, usata da Amore per ferirgli il fianco. Con una PIETRA il fianco Mi percosse e impiagommi Amor sì forte, Che di cosa cercar son fatto stanco, Che nel duol mi conforte. Deh, poi che sorda è morte Perch’io sempre languisca e mai non pera, Pietosa fatta a’ preghi, al pianto mio, Quanto già mi ferìo 5 53 Di lei mi sani or la virtute altera. 5. Il rimando a Petrarca è evidente: «pregate non mi sia più sorda Morte, / porto de le miserie et fin del pianto» (RVF 332, 69-70). 6. La coppia languisca e pera è già attestata in Bembo (Rime 34,5) e in Bernardo Tasso (Amori, 5 74,4 e 5 125,4). VII Il poeta vorrebbe impietosire la sua donna, dura e immobile come uno scoglio posto sulla gelida cima di una montagna altissima. Sordo a’ lamenti altrui, rigido SCOGLIO, Di gelid’alpe in cima, Com’uom falso s’estima, Render pietoso col mio pianger voglio. E, quanto a lui l’orgoglio, A me cresce umiltate, Né men l’incendio in me, che’ n lui beltate. Or s’ei più vago ogn’ or si mostra e duro, E s’ io d'altra non curo, Eguale il mio languire Fia lasso al mio desire. 5 10 2 «Gelida alpe» è usata – in ambito “petroso” (il poeta immagina l’amata trasformarsi in pietra) – anche da Della Casa (Rime 46,70). 3. La rima languire/desire risale al sonetto Anima sconsolata, a cui ti lasso?, attributo a Francesco Petrarca. 4. Un concetto molto simile è Girolamo Muzio: «Misero me, i' mi dolgo, e tuttavia / dilungando mi vo dal mio desio, / e per molto desio piango e languisco; / e fo col pianto mio col mio languire / pianger gli sterpi e fo pietosi i sassi» (Egloga La lontananza, dedicata a Tullia D’Aragona). VIII Il poeta – in questo testo particolarmente aspro ma finemente cesellato – paragona la sua amata a una pietra alpestre che, pur non preoccupandosi dell’inverno, gela ed è resa ancor più rigida dai freddi venti. Anche quando sembra voler essere compassionevole, in realtà resta sempre glaciale, come se davvero godesse di quei pianti e sospiri inutili. Qual SELCE in alto giogo, 54 Non sol verno non cura, Ma per Borea e per giel s’inaspra e ’ndura, Così la bella e dura PIETRA, qualor il duolo piangendo sfogo. Quanto par molle in vista De’ sospir miei, del pianto, al vento, a l’onde, Lasso, durezza acquista, Né già sperar saprei pietate altr’onde, Ma perch’a mano mano Di pianger goda e sospirar in vano. 5 10 1-5. ‘Come la selce in cima ai monti non si cura dell’inverno, eppure si irrigidisce e gela a causa del vento di Borea, così la mia amata, bella e dura pietra, quando sfogo i miei lamenti con mio pianto’. 2. La princeps riporta sol verno non curo, lezione che sintatticamente non regge (il soggetto non può essere il poeta). Si tratta chiaramente di un errore. Per di più Colonna dimostra negli altri madrigali di non amare le rime irrelate, e di permettere versi di seguito connessi dalla stessa rima. 3 Evidentissima la ripresa di RVF 70, 29: «onde, come nel cor m’induro e ’naspro». È interessante notare che il verso successivo nella canzone petrarchesca (caratterizzata dal versus cum auctoritate) è proprio la citazione della petrosa dantesca «così nel mio parlar voglio esser aspro». Ciò dimostra ancora che la ricezione del tema petroso dantesco avviene in Colonna un (inevitabile?) filtro petrarchesco. 5. «Piangendo sfogo» - modulazione dal «lacrimando sfogo» di RVF 129,57) è un’espressione presente anche in Tansillo (Poesie Liriche, Canzoni 3,6) e Coppetta (Rime 79.34). 6-8. ‘Acquista durezza al vento, all’onde, tanto quanto sembra che si impietosisca dei miei pianti e sospiri’. 7. Si nota la meravigliosa, seppur minima, rapportatio: vento e onde stanno alle perturbazioni climatiche come sospiri e pianto stanno al poeta. IX Il testo si ricollega al mito dei monti magnetici orientali, ed è sostanzialmente una variazione di RVF 135 16-30: «Una petra è sí ardita / là per l’indico mar, che da natura / tragge a sé il ferro e ’l fura / dal legno, in guisa che ’ navigi affonde. / Questo prov’io fra l’onde / d’amaro pianto, ché quel bello scoglio / à col suo duro argoglio / condutta ove affondar conven mia vita: / cosí l’alm’à sfornita / (furando ’l cor che fu già cosa dura, / et me tenne un, ch’or son diviso et sparso) / un sasso a trar piú scarso / carne che ferro. O cruda mia ventura, / che ’n carne essendo, veggio trarmi a riva / ad una viva dolce calamita!». Il poeta immagina che la sua 55 donna lo attrae come una calamita, ma con una particolarità: se questi se l’avvicina, quella immediatamente si allontana, al punto da causarne al poeta la morte. Come la PIETRA ardita Là, nel Mar d’Oriente, Alletta ’l ferro e tragge, La mia gelata mente E le mie voglie, ch’erano sì selvagge, Chiama, lusinga e ’nvita Questa mia nuova dolce Calamita. Ma s’io pur me l’appresso Si dilunga repente, Tal ch’io ne moro espresso. 5 10 4. «Gelata mente» è espressione petrarchesca (RVF 131,4). 8-10. ‘Ma se io me la avvicino, quella si allontana immediatamente, al punto da farmi morire di dolore immediatamente’. 10. Similmente Varchi: «Non vedi omai crudel ch’io moro espresso» (Rime 4 5,5) X Il poeta dapprima paragona l’amata a quattro diverse tipologie minerali – rubino, topazio, alabastro, perla – per poi accorgersi che in realtà si tratta di un diamante, l’elemento più duro in natura, e che invece il suo desiderio è fragile quanto un vetro. Or rubino, or topazio Or alabastro, or perla La PIETRA, ch’io mirar mai non mi sazio, Mi rassembra a vederla, Lasso. Ma se ’l pensier risguarda in dietro E se figura inante Quai fur, qual’esser denno i desir miei? E ’l mio sperar di vetro Esser comprendo, lei Saldissimo diamante. 5 10 1-2. L’amata ha labbra rosse come un rubino, occhi di un intenso azzurro come il topazio (RVF 30, 37), denti come perle (es. RVF 157,12) e una carnagione bianca come l’alabastro (RVF 325, 16). Colonna descrive con referenti petrarcheschi (ad eccezione del rubino, che mai compare nei RVF) in maniera assai sintetica l’aspetto della sua donna. 56 8-10 ‘E comprendo che le mie speranze sono come il vetro, ma lei come un durissimo diamante’. 10. Anche il diamante è referente petrarchesco, e vuol significare da una parte il candore e la ricercata bellezza ed eleganza dell’amata, ma dall’altra la sua invincibile durezza. Cfr. RVF 30, 24. XI Il poeta paragona l’amata a un marmo, una statua vivente, ma non scolpita da mano umana, bensì creata e animata da Amore. E proprio amore l’ha resa una contraddizione vivente, poiché ella ha modi ora gentilissimi, ora alteri. Non di porfido o marmo D’umano artista da le man sculpita La tua, vivo mio MARMO, Fu beltate infinita. Ma le die spirto e vita, E pur di neve ardente e fresche rose, Saggio Amor la compose. E ne’ vivaci lumi Pos’or feri, or angelici costumi? 5 1-4. ‘O mio vivo marmo, la tua bellezza fu infinita non perché scolpita dalla mano di un artista mortale, nel porfido o nel marmo’. 3. Cfr. il Della Casa (Rime 43,2): «Vivo mio scoglio e selce alpestra e dura, / le cui chiare faville il cor m'hanno arso; / freddo marmo d'amor» (contenente simili suggestioni “petrose”). 5-7. ‘Amore saggiamente la creò con neve ardente e fresche rose, e le diede spirito e vita’. L’espressione «neve ardente» è attestata anche nella madrigalistica di Giovanbattista Strozzi il Vecchio (Madrigali inediti 99,2). Invece la tessera «spirto e vita» compare in Giovanbattista Strozzi il Giovane (Madrigali 92 2,3). 8. Somiglia a un passo dell’Ercole del Cinzio: «che seranno amendue vivaci lumi / di nobili virtù, d'alti costumi» (Ercole, 9). 9. Gli «angelici costumi» sono già in RVF 156, 1. XII La luce dell’amata pietra – bella più dei mille tesori dispersi per i mari – è per il poeta fonte di vita e di orientamento nel suo viaggio. Dunque, lui la guarda e scruta come fa l’erba, afflitta. col sole. Se ben mia vista abbaglia 57 Il bel lume sereno De la PIETRA gentil, che sola agguaglia Quanti ha tesori il mar di seno in seno, S’il viver mio vien meno Senza l’almo suo raggio, Ché senza lui non aggio Chi luce o guida aver nel mio viaggio, Ond’io pur miro lui, sì come suole Languendo erbetta il sole. 5 10 2. Calco di RVF 37, 83 («’l bel guardo sereno»). 4. Vedi Pietro Bembo: «solcando tutto ’l mar di seno in seno» (Stanze 38,2). 6. Ricorda Bernardo Tasso: «già le fiorite piaggie e i verdi prati / chiamano il raggio tuo almo e sereno» (Amori 3 13,5-6). XIII Il poeta dichiara di essere l’unico a desiderare ardentemente di ammirare la luce emessa dalla sua amata. Se addirittura potesse sempre vederla, sarebbe totalmente cieco verso qualsiasi altra cosa. Il componimento termina – chiudendo peraltro il ciclo madrigalesco – con una nota di speranza: se la notte è troppo buia e triste, perché non permette al lume dell’amata di brillare, il sole si impietosirà e porterà un nuovo giorno. Tra quanto ha bello e vago L’uno e l’altro emisfero, Di quella PIETRA il chiaro lampo altero Son’io mirar sol vago, E ben contento e pago Cieco ver’ gli altri oggetti esser sarei Sol che de la sua vista Godesser gli occhi miei. E se la notte m’è noiosa e trista, E l’ombra, che l’adorno Lume mi chiude e cela, Il sol pietoso e ’l giorno Tosto l’apre e rivela. 5 10 3. «Chiaro lampo» è tessera petrarchesca (RVF 221,6). 10. La citazione della canzone delle metamorfosi (RVF 23, 85) riconferma il filtro petrarchesco al tema petroso. 11-12. «Adorno lume» è tessera già presente in altri cinquecenteschi quali Vittoria Colonna (es. Rime 19,6-7) e Antonio Brocardo (Rime, 46, 70-71). 58 N° madrigale I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII Schema metrico aBcbCaAdD N° totale di versi 9 N° di rime 4 Percentuale di endecasillabi11 44,4% Percentuale settenari12 55,6% ABBAaCCCdD 10 4 80% 20% abAbCdDCeeE 11 5 45,4% 54,6% abaBbcDDbcD 11 4 36,4% 63,6% abcabCcDDEE 11 5 45,4% 54,6% aBAbbCDdC 9 4 44,4% 55,6% AbbAcCDdee 10 5 40% 60% abBbAcDcDeE 11 5 45,4% 54,6% abcbCaAdbd 10 4 20% 80% abAbCdEced 10 5 30% 70% aBabbCcdD 9 4 33,3% 66,7% abABbccCDd 10 4 40% 60% abBaaCdcDefef 13 6 23% 77% Dal punto di vista prosodico, si tratta di madrigali variabili per lunghezza, schema metrico e numero di rime: si va dai 9 ai 13 versi, dalle 4 alle sei rime interne a ciascun testo. Eccezion fatta per il numero due, composto in maggioranza da endecasillabi, in tutti gli altri componimenti a prevalere è il settenario, che contribuisce a dare al ciclo un’impostazione prosodica snella e cantabile. Si tenga dunque presente il seguente schema. Mai due volte si ripete il medesimo schema metrico. Si possono però trovare affinità metriche tra testi: il madrigale I e il VI sono entrambi costituiti da 9 versi e 4 rime, e condividono lo stesso rapporto settenari/endecasillabi. Molto simile a questi due testi è il madrigale 11, che però presenta, a parità di numero di versi e rime, un endecasillabo in meno (tramutato in settenario). I madrigali III, V e VIII presentano tutti e tre 11 versi, 5 rime e il medesimo rapporto settenari/endecasillabi. La coppia II IX presenta - su 10 versi e 4 rime – un rapporto settenari/endecasillabi invertiti (rispettivamente 80/20 il primo e 20/80 il secondo). La coppia VII XII presenta, infine, nonostante un diverso numero di 11 12 Si approssima al primo decimale. Ut supra. 59 rime, parità di versi e di rapporto endecasillabi/settenari. Fa eccezione il madrigale 13, che resta uno schema a sé, perfetto per concludere il ciclo. Per quanto concerne – invece – lo schema rimico in relazione alla distribuzione del testo, è possibile delineare la seguente panoramica: N° madrigale I II III IV V VI VII VIII Schema metrico Commento prosodico aBcbCaAdD Per quanto il testo sia costituito da un unico, ampio periodo, la struttura metrica si articola in terzetti. Il madrigale di Michelangelo Questa mia donna è sì pronta e ardita ha uno schema quasi identico: ABBAaCccDD. I primi quattro versi sembrano la prima quartina di un sonetto. Segue un unico periodo di sei versi dall’andamento ternario. La struttura rimica è chiaramente binaria, salvo per l’endecasillabo finale, che funge da verso impari e va a chiudere il testo rimando col precedente distico. Si tratta di un unico periodo, questa volta però suddivisibile ritmicamente in distici, con l’eccezione dell’explicit, rimato con l’ultimo verso dell’ultimo distico. È il madrigale che ricorda maggiormente la stanza di una canzone. Si veda RVF 268 (AbCAbCcDdEE): le singole stanze differiscono dal madrigale in questione solo per dosaggio endecasillabi/settenari. Il testo può essere suddiviso in due sezioni, entrambe a loro volta di impianto binario. A cesura delle due parti è posto il quinto verso (b), che funge da chiave. Dopo un’evidente quartina iniziale (rafforzata anche da un unico blocco sintattico), il testo si sviluppa su base binaria (distici). L’articolazione sintattica del componimento fa pensare a un testo diviso anche prosodicamente in due sezioni: la prima è un’anomala struttura su base cinque, corrispondente a un quartetto in rima incrociata con l’aggiunta di un terzo elemento mediano; la seconda è una quartina ABBAaCCCdD abAbCdDCeeE abaBbcDDbcD abcabCcDDEE aBAbbCDdC AbbAcCDdee abBbAcDcDeE 60 IX X XI XII XIII abcbCaAdbd abAbCdEced aBabbCcdD abABbccCDd abBaaCdcDefef regolarmente costituita da due distici in rima alternata. Si tratta di un madrigale costituito da terzetti. Il verso settimo funge, dunque, da chiave. Il testo è ripartibile in due sezioni: la prima è costituita da un quartetto su base binaria, la seconda da due terzetti. Non ci sono chiavi. Trattati di un componimento costruito essenzialmente su base binaria. L’unità è dunque il distico, e il verso quinto (b) funge da chiave tra le due sezioni. Testo su due sezioni: la prima consta in un quartetto a rima alterna, mentre la seconda di due terzine. Componimento diviso – seguendo anche la distribuzione interna del testo – in due sezioni: la prima a sua volta è composta da tre terzine, la seconda da due distici. È il componimento che più di tutti somiglia a una ballata, senza però ripresa alcuna. Una simile duttilità prosodica rende questo piccolo sicuramente ciclo degno di nota (dando dunque ragione al Giovanbattista Strozzi), e come prova poetica di un petrarchismo che a un certo punto può finalmente essere adoperato non in modalità asfissiante, bensì come fondale su cui innestare altre tipologie di riprese e artifici (finanche di maniera), e come testimonianza di un genere – quello “petroso” – che non vuole saperne di uscire di scena dal panorama lirico italiano. Antonello Fabio Caterino Università degli Studi del Molise antonello.caterino@unimol.it 61 Riferimenti bibliografici Anselmi-Elam-Forni-Monda (2004) Gian Mario Anselmi - Keir Elam - Giorgio Forni - Davide Monda (a cura di), Lirici europei del Cinquecento, Milano, BUR, 2004. Berra (2007) Claudia Berra, Appunti per una cronologia del Petrarca ‘petroso’, in Estravaganti, disperse, apocrifi petrarcheschi, a cura di Claudia Berra - Paola Vecchi Galli, Milano, Cisalpino, 2007. Caterino (2017) Antonello Fabio Caterino (a cura di), Antonio Brocardo, Rime, edizione critica e commento, Roma, Aracne, 2017. Longo (1982) Nicola Longo, Mario Colonna, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XXVII, 1982. Lotti (2018) Laura Lotti, I castelli dei Malaspina in Lunigiana dal Medioevo al Settecento. Le dame, i cavalieri, le violenze, [s.l.] Regione Toscana, 2018. Strozzi (1635) Orazioni et altre prose del signor Giouambatista di Lorenzo Strozzi, Roma, nella stampa di Lodovico Grignani, 1635. The aim of this essay is to offer an edition of Mario Colonna’s madrigals, poet active in Cosimo I's Florence. Colonna's madrigals are "petrosi", i.e. full of references - alluding to his woman - from the mineral world. The article tries to put the texts in relation to the fortune of Dante and Petrarca in the sixteenth century, and wants to insert them correctly in the history of Renaissance madrigals. Parole-chiave: Mario Colonna; Cosimo I; Firenze; Madrigali; Petrosi. 62 GABRIELE D’ANGELI, L'uomo di Torino di Velso Mucci. Appunti per una lettura critica Quando, nel 1967, L'uomo di Torino di Velso Mucci venne pubblicato da Feltrinelli con l'introduzione di Valerio Riva, l'autore era già scomparso da tre anni. Nato a Napoli nel 19111, fu fondamentalmente un apolide o, meglio, un cosmopolita. La sua formazione giovanile e poi della maturità è segnata dalle figure poetiche, filosofiche e intellettuali di Lucrezio, Foscolo, Leopardi e poi di Croce, Vico, Hegel, Marx e Gramsci, passando così da un accostamento critico all'idealismo gentiliano a un'adesione intelligente, appassionata ma niente affatto schematica né ortodossa al materialismo e al marxismo. Fu collaboratore di riviste come Il Selvaggio di Mino Maccari (animatore di una fascismo 'rivoluzionario' e antiborghese la cui battaglia cominciò ben presto a impantanarsi nelle maglie delle sue stesse contraddizioni)2; fondò negli anni Quaranta prima il Concilium Litographicum e poi il Costume politico e letterario; fu corrispondente de L'Unità, traduttore3, saggista e filosofo impegnato, critico militante di letteratura e d'arte4, si interessò di De Chirico, De Pisis, Morandi, Maccari, Spazzapan, che conobbe personalmente e per i quali curò delle esposizioni nella sua piccola libreria antiquaria a Parigi, negli anni Trenta; curò un'Avvertenza alle Lettere non spedite di Vincenzo Cardarelli e una prefazione Notizie biografiche sull'autore vengono raccolte nel 1974 nel Dizionario generale degli autori italiani contemporanei, edito da Vallecchi (ad vocem), poi nel 1992 nel Dizionario della letteratura italiana del Novecento, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino (ad vocem). Per una biografia attenta e approfondita sull'autore è possibile leggere gli articoli che Pepi ha dedicato all'autore su Belfagor nel 1995 e nel saggio Mucci e l'«umana compagnia» come contributo al Convegno sull'autore tenutosi il 17 aprile 1982, ora stampato in volume dal titolo Ricordo di Velso Mucci e l'articolo di Lombardi Appunti per una biografia di Velso Mucci in Quest'uomo: Velso Mucci. Contributi sulla figura e l'opera, Cosenza, 1974. Infine, un'ampia ed esaustiva bibliografia di e su Mucci è raccolta nel sito dedicato all'autore, http://velsomucci.altervista.org/. 2 Confronta a questo proposito Catalano (1979), pp. 87-93. 3 La sua attività di traduttore e diffusore in Italia della poesia di Hikmet è stata recentemente ricordata nel volume di Giacomo D'Angelo, Cantastorie della rivoluzione. Nâzim Hikmet, Joyce Lussu, Velso Mucci, Solfanelli, Chieti, 2008. 4 La maggior parte degli interventi critici di Mucci sono stati raccolti e pubblicati postumi nel volume a cura di Mario Lunetta, L'azione letteraria, Editori Riuniti, Roma, 1977; recentemente sono stati editi alcuni scritti rari e inediti a cura di Alberti nel volume Mercato delle pulci. Scritti inediti e rari (1930-1963), Scalpendi, Milano, 2015. 1 63 all'edizione del 1946 a Prologhi, viaggi e favole dello stesso autore, del quale fu anche amico. Come critico d'arte si interessò a De Chirico, De Pisis, Morandi, Maccari, Spazzapan, che conobbe personalmente e per i quali curò delle esposizioni nella sua piccola libreria antiquaria a Parigi, negli anni Trenta; come poeta pubblicò due volumi tra il ‘53 e il ‘575 (L'umana compagnia e Oggi e domani, poi riunite in volume ne L'età della Terra, ampliata nell'edizione del 1968 col titolo di Carte in tavola) guadagnandosi l'attenzione di Natalino Sapegno e di Pier Paolo Pasolini, suo estimatore precoce. Col suo volume di poesie ottenne il premio Chianciano, ex aequo con le IX Ecloghe di Andrea Zanzotto. Nel 1963 pose mano alla stesura del suo romanzo che doveva essere probabilmente l'opera della vita, ma una trombosi coronarica lo stroncò a Londra il 5 settembre 1964. «Scompariva così un altro 'minore' del nostro Novecento, non solo letterario»6, uno degli autori più complessi del XX secolo italiano ed europeo tra i più colpiti «da una sorta di amnesia critica, se non da una vera e propria damnatio memoriae».7 Sebbene la figura di Mucci non sia nota ai più e i grandi nomi della critica ben poco se ne siano occupati, tuttavia si può dire che in realtà il dibattito intorno a questo autore e l'interesse per la sua opera non si siano mai interrotti, soprattutto grazie all'opera di alcuni scrittori, saggisti, amici come Mario Lunetta, Alberto Alberti e Renzo Pepi, il quale si è laureato con Franco Fortini con una tesi sul nostro. Completezza e frammentarietà del romanzo Velso Mucci è stato per lo più poeta, oltre che saggista, ma nella sua imponente attività poligrafica il romanzo L'uomo di Torino, rimasto in forma di abbozzo, doveva essere lo strumento con cui l'autore rimetteva ordine nella propria vita, facendo della propria vicenda autobiografica particolare un oggetto universale di rappresentazione condotto attraverso una tecnica narrativa del tutto inedita nell'Italia degli anni Sessanta. Cuore della vicenda è una cena organizzata da Leopoldo Falchinetti, liberale giolittiano, maestro di musica del Regio esercito, per festeggiare l'onoreficenza ricevuta della Croce dei Santi Maurizio e Lazzaro. In casa Falchinetti vivono anche sua moglie, Nina Rolione, e il piccolo Giovanni. Gli invitati sono il Nel 2009 è stata stampata un'antologia dell'opera poetica di Mucci a cura di Raffaeli dal titolo Tempo e maree. Poesie scelte (1930-1964), Fermenti, Roma. 6 Pepi (1995), p. 577. 7 Lunetta (2008), p. 1. 5 64 commendator Domenico Bey e consorte, contessa Elena Lavina di Padova, i figli Cesare e Claudio con relative mogli e i fratelli di Nina, Matteo, ricco industriale di pellami, Rocco, segretario politico del Fascio di Bra (adottiva cittadina cuneese di Mucci) e Luca, quest'ultimo marito di Maria Luisa Bey, figlia di Domenico. In tutto, tredici a tavola. La vicenda si svolge in un'unica serata «dalle 8 di sera del 7 novembre 1925 all'una e mezza seguente» in «20 metri quadrati di superficie d'Italia» e si presenta come un «abbozzo di antropologia storica».8 Evidente il richiamo a Joyce: uno dei protagonisti della vicenda ha lo stesso nome di Leopold Bloom dello Ulysses; la storia si svolge in uno spazio circoscritto in un tempo limitato, esattamente come nel romanzo del dublinese (in Mucci sono circa sei ore della sera del 7 novembre9 1925, in Joyce l'intera giornata del 16 giugno 1904); il racconto della giornata doveva essere, nelle intenzioni del nostro, un romanzo-fiume, ancor più voluminoso di quello di Joyce, ma soprattutto il romanzo doveva rappresentare, al pari dell'altro, un'«epopea alla rovescia, o rovescio dell'epopea borghese» che nell'italiano giunge a conclusioni politiche, poiché il rovescio dell'epopea della classe dominante «partorisce il fascismo».10 Quello di Mucci si presenta contemporaneamente come romanzo storico e realista, ma anche d'avanguardia (ricco di passaggi metanarrativi, spunti psicanalitici, riflessioni filosofiche, scomposizione di piani temporali, voci fuori campo) e autobiografico. I Falchinetti, infatti, non sono altro che i Mucci e il piccolo Giovanni è l'alter ego di Velso. La cerchia più stretta di amici e familiari chiama, infatti, l'autore 'Giovanni'. In una lettera di Augusto Guzzo indirizzata all'autore si legge, ad esempio: «Caro Giovanni, forse siamo i soli a chiamarti ancora così; o forse lo zio Bartolomeo».11 Renzo Pepi afferma che Velso continuerà a firmarsi col nome di Giovanni ancora negli anni Cinquanta «come se ci fosse una separatezza, un dissidio insanabile tra la sua storia personale e la sua vicenda pubblica».12 E sarà forse da questo dissidio, da questa scissione, che nascerà quella figura così potente del Giovanni bambino e adulto nel romanzo, la cui vicenda per Riva è forse «la chiave del romanzo tutto».13 L'uomo di Torino però, come si accennava, resta un romanzo non finito. Delle 1500 pagine previste, lo scrittore di Bra ne scriverà, in una corsa contro il tempo e la morte, solo 200. Valerio Riva, nella prefazione al medesimo volume, riporta UT (2012), p.109. D'ora in poi useremo l'abbreviazione UT (2012) per riferirci al testo. Tale data è densa di sgnificati per Mucci, poiché non solo è la ricorrenza della Rivoluzione d'Ottobre, ma anche il giorno d'inizio della stesura del romanzo. 10 Lunetta (1977), p. 11. 11 Lettera inedita di Augusto Guzzo a Velso Mucci, Torino, 11 novembre 1948, in Pepi (1995), p. 560. 12 Pepi (1995), p. 560. 13 Riva (1967), p. XVIII. 8 9 65 il piano dell'opera così come voluta dallo scrittore e pertanto sappiamo che solo i primi due capitoli sono certamente finiti, mentre tutti gli altri sono in stato di abbozzo e le ultime due pagine, che all'autore appaiono «straordinarie»14, dovevano chiudere il romanzo. Il resto del contenuto e, in parte, della struttura non può che essere lasciato alle congetture. «L'unica cosa certa è che il testo che ci è rimasto [...] è [...] un romanzo a sé, che il lettore avverte come qualcosa di compiuto, in realtà, o per lo meno quasi finito».15 Ed è questa la fortuna per noi lettori, poiché abbiamo la possibilità di cogliere nel suo insieme il tentativo di Mucci di dare un contributo alla narrativa italiana, sotto due aspetti importanti e intimamente connessi: quello del realismo e quello dell'alienazione. Il titolo ricorda anzitutto le espressioni utilizzate in antropologia come 'l'uomo di Cromagnon' o 'l'uomo di Neanderthal', quindi nel romanzo 'l'uomo di Torino' diventa una vera e propria categoria storico-antropologica, una tappa dell'evoluzione (o meglio dell'involuzione) umana. Così il pretesto letterario della cena (interessantissimo topos dai complessi significati sociali, come vedremo) diventa l'arena in cui si confrontano diversi tipi socio-cuturali, storici e con una precisa fisionomia politica. L'indagine antropologica di Mucci riguarda il male che affligge l'uomo che, nel XX secolo, in Italia, ha preso le sembianze del fascismo. La ricerca e la rappresentazione letteraria del 'male di vivere' è un classico della letteratura novecentesca, ma Mucci sa, tramite i suoi riferimenti culturali da Leopardi a Marx, che il male dell'uomo «non è genetico, ma storico»16 e dunque l'indagine non può che essere scientifica e materialistica. Di qui il lavoro preparatorio di Mucci che rilegge il Gramsci critico di costume della Torino della seconda metà degli anni Dieci nei suoi interventi di Sotto la Mole e che chiede a Paolo Spriano i suoi ormai classici libri sulla classe operaia torinese, che si documenta presso l'emeroteca del Brtitish Museum e che consulta i maggiori giornali dell'epoca sulle date del 4 e del 7 novembre 1925 facendo schizzi dei vestiti femminili di quegli anni. «Vuole dettagli, informazioni minuziose, si documenta con pazienza da certosino».17 Il lavoro preparatorio è certamente di carattere scientifico e ricorda certe modalità naturalistiche, ma l'assunto teorico e il risultato finale sono assai lontani dalle forme del tradizionale romanzo ottocentesco e, ancor più, da quelle della narrativa neorealista. Il romanzo di Mucci vuole fare i conti, infatti, con utta la Lettera di Velso Mucci a Dora Broussard, datata 12 febbraio 1964, in Riva (1967), p. XVII. Riva (1967), p. XVII. 16 Lunetta (2011). 17 Riva (1967), p. XI. 14 15 66 tradizione romanzesca europea e italiana e si propone come superamento della prima e come rifiuto della seconda. [...] egli stesso ha confidato a Natalino Sapegno che la sua ricerca, a proposito del romanzo, «si sarebbe svolta secondo una linea lontanissima dal tipo di certo realismo convenzionale e tradizionale, sarebbe stata una ricerca nuova, intesa ad assimilare, e insieme a distruggere nel loro contenuto decadente, gli esempi di Proust, Joyce e Kafka».18 Premesse e conseguenze del realismo mucciano Rifiuto della tradizione realistica italiana, assimilazione e distruzione della tradizione avanguardistica europea: un perfetto tracciato dialettico in cui il suo romanzo avrebbe dovuto rappresentare il punto di approdo di tutta questa linea narrativa. C'è stato un dibattito sulla ripresa nell'opera narrativa di Mucci dei maestri del romanzo del Novecento e sul loro superamento e sembra giudizio unanime 19 che in realtà il richiamo ai tre sia piuttosto rimasto programmatico e non abbia un contenuto reale. Tuttavia è da tenere presente che l'analisi che si sta conducendo è un abbozzo di romanzo e che dunque l'evoluzione del progetto è in stato larvale, sebbene «in generale, l'idea del romanzo c'è, in queste duecento pagine scarse, e c'è anche il romanzo realizzato».20 Risulta necessario, dunque, incrociare il dato teorico espresso nei suoi interventi critici e filosofici con quanto c'è di realizzato nel romanzo. Anzitutto il confronto con Joyce, Proust e Kafka va visto alla luce dei rapporti di Mucci con le esperienze dell'avanguardia europea. Generalmente i tre autori indicati dal nostro non vengono inseriti in correnti avanguardistiche, ma è un fatto che la loro produzione letteraria non solo si discosta notevalmente dalla tradizione ottocentesca del romanzo, ma fa propri certi temi e procedimenti che mirano a porre l'uomo in relazione diversa col tempo, lo spazio e la società rispetto a quanto accadeva nelle correnti realistiche europee del XIX secolo. Un interessante contributo teorico di Mucci potrebbe chiarire il suo rapporto con le avanguardie storiche e i rapporti con i tre maestri del romanzo del Novecento. In un articolo del 1960, apparso sulla rivista Il Contemporaneo e ora ne L'azione letteraria, Mucci affronta polemicamente il problema delle avanguardie storiche in relazione alla loro ripresa formalistica di quegli anni (si pensi Riva (1967), p. XII. Confronta Berardo (1989), Riva (1967) e Pepi (2012). 20 Riva (1967), p. XVIII. 18 19 67 all'esperienza dei Novissimi e del Gruppo 63 che sarebbero maturati di lì a poco) collegando poi il concetto di avanguardia a quello di realismo. Scrive Mucci: È avvenuto [...] che una parte considerevole della nostra cultura artistica e letteraria s'è trovata attratta da un miraggio di modernità, interessandosi a un'accademica e formalistica rievocazione delle «avanguardie», e perdendo di vista l'acquisizione più importante e vitale che fu propria delle esperienze avanguardistiche: la messa in luce, mediante la rottura e la distruzione dei valori formali tradizionali, dell'essenzialità dei contenuti reali come forze motrici nel processo di creazione dell'opera d'arte e nella produzione stessa delle forme. [...] Se non si capisce questo, si perde il tratto essenziale e l'unico elemento comune delle varie esperienze avanguardistiche, così diverse e spesso anche nemiche feroci l'una dell'altra.21 Ora, anche se Joyce, Proust e Kafka non possono essere inseriti propriamente in alcun gruppo delle avanguardie storiche del Novecento, è pur vero che la loro attività letteraria non solo risentiva del quadro generale in cui pure le avanguardie operavano, ma mirava, come quelle, a rappresentare il nuovo rapporto dell'uomo con lo spazio, il tempo, la società e il mondo dell'uomo nella crisi del XX secolo.22 Di qui il nuovo modo realistico di rappresentare la realtà, Mucci [1960], (1977), p. 205. A questo proposito, Romano Luperini utilizza il termine modernismo come categoria critica ampia in cui inserisce le esperienze di Joyce, Proust e Kafka e delle avanguardie. «Il modernismo non è una scuola né un movimento unitario. Non propone una unica poetica, ma poetiche diverse, talora tra loro alternative come accade nella letteratura inglese, in cui alle soluzioni più radicali dell’avanguardia (imagismo, vorticismo ecc.) e poi dello sperimentalismo di Joyce si oppongono quelle più moderate di Virginia Woolf e del circolo di Bloomsbury. E tuttavia, nonostante questa varietà di poetiche, il modernismo presenta alcune marche caratterizzanti che lo rendono indubbiamente riconoscibile. La cultura a cui si ispira è sostanzialmente unitaria: è la rivoluzione epistemologica prodotta, a cavallo fra i due secoli e all’inizio del nuovo, dalla rapidissima industrializzazione, dalla nuova percezione della condizione umana nel mondo, dalla diffusione del pensiero di Nietzsche, di Bergson e di Freud. Il concetto di tempo e di spazio, le leggi della fisica, l’idea di verità ne escono sconvolti: la rivelazione della relatività da un lato e del mondo dell’inconscio dall’altro, la messa in discussione della certezza dei postulati scientifici, la percezione nuova della velocità delle comunicazioni e della simultaneità delle sensazioni (è l’epoca dell’automobile, dell’aereo, del cinema, del telefono, della radio) mettono in crisi i parametri della visione del mondo predominante nella seconda età dell’Ottocento e del pensiero positivista che vi esercitava una indubbia egemonia. La seconda rivoluzione industriale che si sviluppa fra il 1895 e il 1913, la valorizzazione delle macchine, la introduzione del motore a scoppio e la diffusione dell’elettricità, l’aumento gigantesco della produzione, la formazione di grandi società per azioni, la rapidissima urbanizzazione, la massificazione dell’esistenza, l’esperienza della “guerra totale” fra il 1914 e il 1918 modificano il senso comune e logorano le basi del sistema dei valori e dello stesso individualismo ottocentesco. Siamo in presenza di un rapido cambiamento di paradigma e della nascita di una nuova cultura e persino di una nuova antropologia, che tendono inevitabilmente a sviluppare nuove forme artistiche. Debenedetti mostrerà in modo suggestivo la correlazione fra le nuove teorie dei quanti e del probabilismo scientifico e le trasformazioni che avvengono nella struttura del romanzo e nella figura del personaggio-uomo. E Virginia Woolf, riflettendo 21 22 68 poiché in Mucci, avanguardia e realismo sono intimamente connessi. Vediamo come si esprime a proposito delle avanguardie in URSS. In URSS le avanguardie, molto prima di poter essere «soppresse», avevano già compiuto l'intiero arco della loro esperienza e avevano saputo già estrarre, prima che in altri paesi, il nucleo essenziale di quella esperienza e creare quindi, nel crogiuolo della rivoluzione d'ottobre e dei primi anni della vita sovietica, opere d'un realismo nuovo, moderno, potentissimo. [...] Ciò che in seguito e per lunghi anni fu non soppresso, ma certamente infastidito e in certi casi anche avvilito, fu purtroppo proprio quel realismo nuovo, autenticamente moderno e socialista; e questa fu opera di un gusto indubbiamente mediocre, piccolo-borghese inalberato, provinciale, che opponeva al realismo nuovo i moduli e le convenzioni meschine di un realismo di riporto, «ottocento», falso.23 Qui avanguardia e realismo non vengono posti in antitesi, ma in relazione dialettica, facendo del realismo non un astratto procedimento formale o una categoria storico-letteraria, ma una tensione artistica che mira all'essenza dell'uomo, quale che sia il procedimento formale. Anzi, qui è il procedimento formale a scavare in direzione della ricerca dell'essenza umana. Ad esempio, a proposito del surrealismo, cui Mucci si avvicinò negli anni del suo soggiorno parigino, si chiarisce che in Italia l'ambizioso equivoco [sul concetto di surrealismo] è stato ancora esagerato dal fatto che il termine surréalisme fu assai male introdotto col termine «surrealismo», che è un piccolo mostro di filologia e conserva il suono ma tradisce maliziosamente il senso e l'idea di surréalisme, il quale si dovrebbe dire in italiano «superrealismo». Molti fascini malintesi si sarebbero così evitati presso gente orecchiante e poco e male informata.24 Dunque, 'surrealismo' come 'super-realismo', come capacità dell'avanguardia letteraria di distruggere la forma tradizionale per andare, contemporaneamente, alla ricerca dell'essenza dell'uomo in relazione col mondo. Si esprime così, ad esempio, nei confronti della poesia di Éluard. A volere, di una poesia letterale, diretta e grezza come quella di Paul Eluard, fare una ricreazione di gusto, formale, sottilmente estetica e raffinatissima di calcolo e di sottintesi espressivi, si rischia di non cogliere nemmen una delle grosse «relazioni tra la vita e il mondo, tra il sogno e l'amore, l'amore e la necessità» di cui è fatta [...] la sua involontaria e ininterrotta poesia.25 sull’effetto sconvolgente delle mostre di pittura postimpressionista, scriverà che intorno al 1910 «la natura umana cambiò». Se l’idea matura di moderno coincide, come vuole Jauss, con la coscienza di una radicale separazione dal passato, questo è appunto il momento in cui essa perentoriamente si definisce». Luperini (2014). 23 Mucci [1960], (1977), pp. 205-206. 24 Mucci [1946], (1977), p. 147, n. 14. 25 Mucci [1949], (1977), p. 109. 69 La capacità dell'avanguardia è quella di stabilire relazioni nuove in forme nuove per permettere alla realtà vera, essenziale, di essere adeguatamente rappresentata. Certo, non sfugge a Mucci che i movimenti di avanguardia, anche quelli più dichiaratamente progressisti, siano il lascito di un mondo borghese in crisi, ormai sul precipizio. Perché il «surrealismo» fu l'espressione, nel primo immediato dopoguerra, d'un caos spirituale borghese di Parigi, e come tale non pretendeva ma neanche ammetteva per sé riproduzioni lirico-estetiche. E anche quando si fu ridotto a scuola letteraria interessante, ebbe sempre il merito formale di cristallizzare letteralmente l'estrema crisi dell'intellettualismo europeo, che l'esistenzialismo francese tenta oggi di disgelare e tramutare in pantano.26 Il movimento d'avanguardia è comunque figlio della crisi della borghesia europea, ma dai suoi travagli è possibile ancora estrarre elementi di novità che pongano in positivo la ricerca formale e contenutistica della rappresentazione della realtà. D'altra parte, se il romanzo dell'Ottocento metteva in scena la decadenza della borghesia e le sue inquietudini, ora le avanguardie ne mostrano concretamente la fine e aprono a nuovi orizzonti, in modo manifesto, consapevole, rivolgendosi da un lato al movimento comunista, dall'altro proprio ai meccanismi dell'inconscio, come ha fatto il surrealismo. Così, mentre le avanguardie sono portatrici di un nuovo concetto di realismo, allo stesso modo viene denunciato come falso e formalistico proprio quel realismo ottocentesco che ha avuto una grande fortuna in Europa e che in URSS veniva ripreso come modello per lo zdanoviano 'realismo' socialista. In un saggio articolato in tre sezioni apparso sul Costume politico e letterario, tra il 1945 e il 1946, Mucci affronta il problema del rapporto tra poesia e realtà, indagando le origini del realismo ottocentesco, il quale si sarebbe sviluppato in contrapposizione al Romanticismo che avrebbe compromesso il concetto di natura con le idealità del soggetto. Preoccupati di liberare la natura dalle idealità che i romantici vi avevano infuse, i sedicenti realisti vollero ingenuamente trasformarsi in «macchine da presa», avendo della realtà un concetto inadeguato; così che si illusero di riprodurre fedelmente, e direi quasi, ciecamente una realtà, che era soltanto una visione della natura spoglia di ideali e di qualsiasi sentimento; e anche quando s'accorsero che nella loro realtà un ideale c'era (e vollero che fosse quello delle scienze e della sociologia), non perciò fu realtà la loro, ché realtà non è «natura idealizzata» come non è «natura bruta», ma sentimento dell'essere, anteriore e superiore a qualsiasi natura e a qualsiasi idea.27 26 27 Mucci [1949], (1977), pp. 106-107. Mucci [1945], (1977), pp. 145-146. 70 Per questo anche il suo giudizio sul realismo italiano è piuttosto negativo, affermando «la sua avversione per il neorealismo di maniera degli anni '50 in Italia», «brandendo Joyce e il suo esempio».28 Così ne L'uomo di Torino queste teorie vanno a concretizzarsi tentando di far tesoro di tutte le suggestioni ed esperienze letterarie precedenti. Scrive Lunetta: Da narratore costantemente vigile nel confronto con le grandi esperienze innovative e d'avanguardia europee, Mucci non cessa di privilegiare la significanza allegorica a scapito della verosimiglianza naturalistica, la dimensione della visionarietà onirica a scapito della resa documentaria. All'interno di questa strategia, il dettaglio crudelmente straniato ha un rilievo di estrema icasticità [...].29 Commenta Morano: Il rifiuto di operazioni mimetiche nel campo dell'arte, già visibile negli scritti giovanili [...] è il frutto della partecipazione attiva di Mucci alle esperienze avanguardistiche. Il che [...] gli impedirà, una volta approdato al materialismo dialiettico e alla militanza politica, di accettare la teoria del rispecchiamento meccanicistico e deterministico in arte con gli immancabili risvolti di 'populismo' e 'istanza sociale'.30 Natalino Sapegno può concludere: Proprio per aver rivissuto direttamente le esperienze dell'avanguardia europea, in tutte le sue istanze di sovvertimento anzitutto dei contenuti poetici, prima che dei mezzi espressivi, e non già attraverso l'interpretazione deformata e formalistica con cui quelle esperienze furono intese e fino a un certo punto assimilate dall'ermetismo nostrano; egli potrà da un lato guardare con occhio più libero e scaltro alla vicenda testé conclusa di una letteratura di altissima astrazione verbale [...]; dall'altro lato rifiutare con sicurezza gli equivoci di un ingenuo e sprovveduto populismo, tipo Politecnico, guardare con sospetto alla faciloneria delle poetiche neorealiste, trattare infine con tagliente ironia i presuntuosi giochetti dei nuovissimi sperimentalismi.31 In questo processo di assimilazione e distruzione Mucci riesce a far propria la lezione formale e d'avanguardia dei grandi romanzieri del Novecento superandola secondo una nuova prospettiva, grazie all'esperienza filosofica del marxismo che gli permette di far tesoro delle esperienze precedenti, ma anche di individuarne i limiti e di porre un punto di risoluzione laddove il romanzo borghese aveva posto solo il problema, sia in termini formali che contenutistici. Di qui il tema dell'alienazione, decisivo per l'esperienza del romanzo del XX secolo, ma posto sotto una nuova luce. Riva (1967), p. IX. Lunetta (2011). 30 Morano (1993), p. 87, n. 24. 31 Sapegno (1983), p. 33. 28 29 71 I modelli Joyce-Kafka-Proust e il concetto di alienazione come tema centrale del romanzo L'interesse per Joyce è esplicito nella formazione culturale dello scrittore. L'incontro con il dublinese si fa risalire al 1929, quando, al Caffè Nazionale di Torino, Edoardo Persico raggiunse il tavolo cui erano seduti Spazzapan, Amidei e lo stesso Mucci, brandendo un foglio, staccato da un pacco agganciato in un bagno, che sembrava la traduzione in francese dell'Ulisse: Mucci si alzò e si recò nel luogo in cui Persico rinvenne il foglio, prese il pacco e se lo portò a casa. Ma fu solo nel '63, dopo il suo viaggio a Dublino, che Mucci maturò l'idea del romanzo prendendo proprio a modello Joyce, compiendo così quella traiettoria che molti nel dopoguerra avevano compiuto dal verso alla prosa (si pensi ad esempio soltanto al caso di Cesare Pavese o a quello di Rocco Scotellaro, il quale confidò a Mucci stesso, pochi mesi prima di morire, l'idea di scrivere «un gran libro di narrativa, di lirica narrativa»32). Ma non è da escludere anche l'influenza che l'editore Mondadori esercitò sul panorama letterario e culturale italiano pubblicando per la prima volta in traduzione italiana l'Ulisse e cui Umberto Eco nel '62 dedicò ampio spazio nella sua Opera aperta. Nel romanzo di Mucci, come accennato più sopra, ci sono diverse risonanze formali che fanno pensare a Joyce (il nome 'Leopold' che ritorna in quello di 'Leopoldo', la rappresentazione dei fatti che si svolgono in uno spazio e un tempo assai circoscritti e anche certi aspetti legati al cibo, come ha giustamente evidenziato Cetta Berardo33), ma ciò che di fondamentale l'opera di Mucci accoglie da Joyce è proprio l'idea dell'epopea borghese alla rovescia. Solo che, come abbiamo detto, l'intenzione di Velso Mucci è quella di assimilare e superare l'opera dei predecessori, poiché l'opera di Joyce era arrivata a un punto della rappresentazione oltre il quale sarebbe stato impossibile, per un autore borghese come il dublinese, andare oltre. Nella pura rappresentazione dell'antieroe Bloom, Joyce non fa che prendere atto della crisi sia della forma del romanzo borghese sia della società che lo ha partorito, ma altro non può fare. Intuisce e rappresenta la crisi e l'alienazione dell'uomo, ma non può spiegarle. Così deve entrare in gioco Kafka. Anche qui è stato detto che il richiamo allo scrittore praghese sarebbe del tutto formale, perché comparirebbe di sfuggita e in modo confuso nel romanzo34, posto accanto a Marx, come autore dell'alienazione. Ma a ben guardare, il modello kafkiano è ben recepito innanzitutto nella metamorfosi animalesca, bestiale dei commensali come segno della loro alienazione. La degradazione dei convitati è una trasformazione Riva (1967), p. XV. Berardo (2012), pp. 81-88. 34 Confronta Riva (1967), p. XIII e Berardo (1989), p. VI. 32 33 72 alienante, ma mentre in Kafka vi è almeno consapevolezza della propria mostruosità (anche se non della causa), nei personaggi di Mucci, al contrario, vi è quasi perfetta identificazione tra animale e uomo senza che questo scomponga minimamente i personaggi. Così, se il procedimento straniante in Kafka mira a ridestare l'inquietudine nel dramma dell'uomo moderno, quello di Mucci punta apertamente alla degradazione satiresca per approdare al giudizio morale e politico. Ad esempio, il cavalier Rocco Rolione ha un olfatto sviluppatissimo, come un cane da caccia, essendosi fatto «sensibile ai rapporti che corrono tra gli odori e la produzione industriale di beni»35, rutta a tavola e cammina grasso e impettito, «farcito»36, come un tacchino, dei suoi operai e delle sue proprietà, superando in questo il suo antenato verghiano Mazzarò; Maria Luisa Rolione mangia come un animale, un ruminante, perché quando mangiava, e non stava mai zitta, aveva il difetto che la parola le s'impuntava; il che la spingeva, da un lato del tubo, a inghiottire in fretta il boccone e, dall'altro, a sputar fuori alcune scorie di cibo intrangugiabili, quali ossicini, semi, calletti, tutti insieme con le sillabe tritate che le si affollavano in gola. Quand'anche poi non avesse la bocca piena, s'era ormai viziata a tartagliare le parole nella precipitazione di espellerle.37 Oppure, il commendator Bey è un «bue»38, Rosina un'«oca», una «bestiola»39, la sorella della Nina è una «serpe di palude»40 e così via, fino alla reificazione finale, quando i figli del Bey diventano delle «forchette» e lui stesso un «otre»41. Infine, Proust. Mucci aveva conosciuto l'autore della Recherche negli anni Trenta per il tramite delle riviste Il Baretti e Solaria e nel 1936 gli aveva dedicato un saggio dal titolo Après «Combray» de Proust42. In questo scritto viene sottolineata, in particolare, la forza espressiva di Proust, del suo stile e del suo procedimento narrativo. Nel romanzo mucciano compaiono infatti delle illuminazioni della memoria che balenano e illuminano le storie dei personaggi, come la conversazione tra le due sorelle Rolione nella pasticceria. Tuttavia, sembra piuttosto evidente che il modello proustiano sia servito a Mucci per la riflessione sul tempo. L'uomo di Torino è, infatti, al pari della Recherche di Proust, una riflessione sul tempo esterno ed interno e sui loro rapporti reciproci, sulla necessità del recupero del tempo perduto e sulla capacità UT (2012), p. 63. UT (2012), p.64. 37 UT (2012), p. 70. 38 UT (2012), p. 9. 39 UT (2012), p. 13. 40 UT (2012), p. 42. 41 UT (2012), p. 96. 42 Il saggio è compreso nella raccolta Le carte e altri scritti, Il Selvaggio, 1940, con prefazione di Carlo Mollino. 35 36 73 dell'arte di fissare i momenti del passato inevitabilmente proiettati verso il presente nel loro largo fluire. Solo così è possibile la precisa valutazione della coscienza del vivere e degli accadimenti umani di contro all'«animalesco» avvertimento del senso del vago e indeterminato fluire del tempo e della vita. Tramite la coscienza del proprio esistere e delle reazioni avute di fronte agli «accidenti del mondo» che «urtano e intersecano la nostra persona», l'uomo scopre se stesso e la vita del cosmo, sfuggendo così al meschino giuoco di una monotona quanto assurda registrazione dei semplici cicli biologici. L'universo intero, allora, penetra in noi attraverso la coscienza umana nello stesso momento in cui reagisce con essa.43 È precisamente quello che non accade a ciascuno dei personaggi de L'uomo di Torino. Essi non dispongono di una precisa valutazione del proprio vivere, della propria essenza, poiché non hanno coscienza di nulla, se non del loro presente meschinamente valutato sull'immediato interesse, da quello più ingenuo di Nina Rolione a quello più sfacciatamente arrogante del fascista Rocco a quello calcolatore del commendator Matteo a quello inutile e piccolo-borghese di Leopoldo Falchinetti fino agli incubi familiari di Rita. Per tutti ci sarà un tempo perduto e mai più ritrovato, poiché nessuno ha coscienza di avvenimenti e 'accidenti' piccoli, grandi o immensi che ruotano attorno alle loro miserabili vite. L'unico tentativo di prendere coscienza di se stessi e rompere la catena dell'alienazione riappropriandosi del proprio tempo è quello di Giovannino Falchinetti, che deciderà nel corso del romanzo di allontanarsi dall'angusta stanzetta di 20 metri quadrati come gesto allegorico-figurale che lo porterà poi via dall'angusta Italietta. Si arriva così al cortocircuito tra vita reale e letteratura, in cui l'analisi sociologica e antropologica di una società si riversa nell'analisi autobiografica e viceversa, con interessantissimi spunti psicanalitici. Il risultato immediato è che tutto ciò che del «romanzo vivo» (cioè del romanzo della vita) è «vivacemente scritto, non è soltanto [...] trascritto o descritto, ma definitivamente creato: non è una copia, ma una realtà più completa e matura».44 L'alta consapevolezza di sé, del proprio tempo, dei propri rapporti con gli altri e col mondo, con l'universo, in questo afflato leopardiano, dovrà trovare un proprio stile, farsi strada tra i meccanismi formali più ingenuamente neorealistici e certe riprese formalistiche dell'avanguardia, alla ricerca di quell'«espressione autentica e schietta» che «presenta il vantaggio sostanziale di creare definitivamente il mondo ch'essa esprime».45 E lo troverà Mucci quel modo unico e così concreto e vero di esprimersi, quel modo così 'autentico e schietto' che sia nella poesia sia nella prosa farà di lui un autore assai originale nel panorama della letteratura italiana ed europea contemporanea. Si pensi solo, ad esempio, alla carica espressiva delle similitudini nel romanzo (assai presenti e caratterizzanti), Morano (1993), p. 70. Mucci (1940), pp. 82-83. 45 Mucci (1940), p. 82. 43 44 74 che riportano sempre il lettore alla dura materialità, alla dimensione corporea (così come il suo modello, Ulisse, è un'«epica del corpo umano»46, come Joyce stesso amava definire il suo romanzo): «La faccia della signora Guglielmi va illuminandosi, fila sopra fila di lampade fino al gran lampadario della cupola, come un teatro dell'opera alla fine di un atto»47; «l'imbuto del suo animo»48; «gonfio dei centocinquanta operai che aveva in corpo»49; «fossa degli incubi familiari»50, eccetera. Tornando ai modelli di Mucci, per il nostro autore Joyce, Kafka e Proust sono certamente i maestri del romanzo moderno borghese, che rompono con la tradizione ottocentesca, ma nel demolire l'impianto teorico e strutturale della forma narrativa tradizionale, pur individuando correttamente lo stato di crisi dell'uomo moderno, essi incappano nella contraddizione dell'insolubilità del problema dell'alienazione. Se questi scrittori infatti descrivono correttamente la crisi dell'uomo moderno occidentale nella forma dell'alienazione (Bloom e K. sono, infatti, gli emblemi di questa condizione), essi non riescono a individuare la soluzione a tale problema. Un'aporia che questi scrittori non possono risolvere, poiché organicamente inseriti nel quadro borghese. La soluzione di Mucci è quella di appropriarsi delle intuizioni dei maestri del romanzo moderno e di superarli attraverso gli strumenti che fornisce il marxismo, o meglio l'asse filosofico materialistico Vico-Leopardi-Gramsci. Scrive infatti Mario Lunetta nella prefazione a L'azione letteraria: L'asse della personalità intellettuale mucciana è ormai saldamente formato, e lavora su tre nodi fondamentali che si chiamano Vico, Leopardi e Gramsci. Quel Vico al quale, come dice Garin, «non sfuggivano le conseguenze di una storia tutta profana della società, senza leggi naturali», dal momeno che la «scienza nuova dell'uomo, [...] ha da spiegare l'umano con se stesso, senza reificarlo o isolarlo in una solitudine monastica, ma ritrovandone le dimensioni sociali e la natura storica», [...] quel Leopardi che fu in Italia «il solo che, educatosi ai lumi del materialismo francese del settecento, e rifacendo il processo della poesia italiana [...] abbia avuto la forza e la costanza, in tempi di restaurazione, di staccarsi decisamente da ogni premessa medievale [...] e di spingere lo sviluppo lirico delle sue emozioni vitali tanto oltre, da fissare tutto il suo occhio poetico senz'altro su quel vuoto»51 e infine quel Gramsci che con i Quaderni del carcere aveva proposto quella formula del 'nazional-popolare' così «ricca di potenzialità dialettiche e criticamente aperte sulla realtà italiana, poi impoverita e applicata Cfr. Melchiori (1984), p. 20. UT (2012), p. 39. 48 UT (2012), p. 47. 49 UT (2012), p. 65. 50 UT (2012), p. 115. 51 Lunetta (1977), p. 18. 46 47 75 riduttivamente da troppi epigoni all'interno della cultura di sinistra per tutti gli anni cinquanta».52 All'alienazione dei personaggi, dunque, Mucci accompagna la giusta critica al mondo borghese (alienante per definizione) e l'elemento attivo, intravedendo nel male dell'uomo un carattere storico, anziché naturale. Dal punto di vista formale, questa presa di posizione teorica si risolve nel romanzo introducendo una quarta dimensione, ovvero quella storica. Così, mentre «la Rita era già sprofondata nella fossa dei suoi incubi familiari»53, una serie di eventi storici si compie attorno al personaggio senza che questi ne sia consapevole: la rivolta antifrancese in Siria o il viaggio del maresciallo Pétain sul rapido Marsiglia-Parigi per rientrare dall'Africa del Nord. Oppure, mentre la conversazione delle tre famiglie torinesi riunite in casa Falchinetti cade sulla moda, il principe di Galles cade da cavallo, Aristide Molinari, custode del palazzo di Locarno, mostra ai suoi amici un certificato di benemerenza e rigraziamenti firmato da Mussolini, Streseman, Chamberlain e altri, datato Ottobre 1925, e in URSS Vorosilov è nominato commissario del popolo alla guerra, prendendo il posto di Frunze che aveva preso il posto di Trotzki, e intanto si combatteva 'la guerra dei generali' a Pechino. L'elenco di fatti conclude: Sul globo, all'incirca due miliardi di uomini, di ogni età e condizione, più o meno noti, più o meno nati o morti, si davano il turno di fuso orario, attraverso tutte le sfumature della notte e del giorno, a portare avanti la storia massacrante del genere umano; mentre il pianeta azzurrognolo, ancora nella sua terza epoca glaciale, si accostava al solstizio d'inverno, volando regolarmente nel buio intorno al Sole alla velocità di 18 miglia al secondo, trascinato dal Sole nella sua corsa in direzione d'un punto intermedio tra le costellazioni di Ercole e della Lira alla velocità di 12 miglia al secondo e nella rotazione del piatto della Galassia del diametro di 100 mila anni-luce intorno a un centro immaginario, da cui il sistema solare dista appena 28 mila anni-luce, alla velocità di 150 miglia al secondo, compiendo perciò la grande rivoluzione in 250 milioni di anni terrestri.54 Magistralmente la quarta dimensione comincia ad affacciarsi da semplici fatti di cronaca e curiosità di costume, si allunga ai fatti della Storia e poi si estende a spirale lungo l'asse di rotazione della galassia, in un giro vorticoso, così magnifico e maestoso, che le piccole beghe umane e gli incubi della signora Rita Rolione, sorella della Nina, appaiono in tutta la loro terrificante insignificanza, perché agli spiriti borghesi alienati non è concesso il privilegio della consapevolezza storica e ontologica. Lunetta (1977), p. 19. UT (2012), p. 115. 54 UT (2012), pp. 119-120. 52 53 76 In questo senso Mucci ribalta il tema del realismo in letteratura rifuggendo dagli schematismi del neorealismo, allargando la prospettiva all'orizzonte europeo sulla scorta delle migliori esperienze d'avanguardia, scartando tuttavia le esperienze più trite e puramente formalistiche. Non solo. Se nel romanzo borghese dell'Ottocento il ricorso alla dimensione storica «doveva essere [...] la legittimazione della società borghese quale era uscita dalla Rivoluzione [francese]»55, nell'opera di Mucci si arriva per forza di satira, di politica e di riflessioni storico-filosofiche alla delegittimazione della borghesia stessa: la cena organizzata in casa Falchinetti diventa metafora (sarebbe meglio dire, allegoria) della decadenza della classe dominante nel suo abbraccio mortifero col fascismo. La quarta dimensione però, oltre a estendere a spirale gli avvenimenti mettendo a nudo l'alienazione umana, si allunga fin nel privato. Il coraggioso esperimento mucciano è quello di collegare in un unico romanzo la grande Storia degli uomini e dell'universo con il proprio percorso autobiografico in una forma (per quel che ci è dato di leggere) del tutto originale, convinto che la propria esperienza privata e la riflessione su di essa non possano essere lette se non nella dialettica pubblico/privato, interno/esterno, storia/autobiografia. Da qui nascono le eccelse pagine in cui Giovanni Falchinetti/Velso Mucci fa i conti con se stesso, con la sua famiglia, con gli anni giovanili e traccia un bilancio della propria esperienza umana che ha fatto perno sulle esperienze pubbliche di tutta l'umanità, passando così dall'abbozzo antropologico all'abbozzo autobiografico. Ora, la lotta al concetto di alienazione borghese non avviene solo tramite l'acquisizione e il rovesciamento dei modelli romanzeschi in cui essa è centro tematico, ma anche attraverso una serrata battaglia ideologica al neoidealismo gentiliano che è stato stampella teorica del fascismo. Questa lotta, oltre a essere stata condotta su un piano teorico più ampio dal Mucci filosofo56, viene ingaggiata anche nelle pagine del romanzo ai danni di un personaggio che si affaccia di sfuggita nella narrazione, tale professor Alfonso Ruzzo 57, naturalmente amico del liberale giolittiano Leopoldo Falchinetti. Il terzo capitolo dello scritto mucciano si apre con la premonizione della morte di Nina Rolione, la protagonista femminile del romanzo58, accompagnata da una riflessione metanarrativa e di carattere filosofico e psicanalitico cui segue un ragionamento sul concetto di alienazione. Sulla scorta di quanto detto Petronio (2003), p. 61. Si vedano ad esempio gli scritti filosofici anticrociani e antigentiliani in V. Mucci, M. Lunetta (a cura di), L'azione letteraria, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 29-35 e pp. 37-44. 57 Dietro questa figura si cela Augusto Guzzo, accademico idealista che fu attivo tra il ‘24 e il ‘64 tra Torino e Pisa e che fu realmente amico del padre di Mucci, Ranieri. 58 Anche dietro questa figura va scorta la persona reale di Domenica Boglione, madre di Velso. 55 56 77 precedentemente, possiamo considerare il capitolo come una sorta di centro filosofico del romanzo. Qui si dà conto, infatti, del problema teorico e tutto umano dell'alienazione, passando in volata su Kafka e Marx per arrivare al professore di filosofia Ruzzo. Di lui si dice che era napoletano e cattolicissimo, era un fervente seguace dell'attualismo di Giovanni Gentile; e tutto il suo hegelismo, poiché di Feuerbach, Marx e Kafka aveva poco più che letto i nomi, si riduceva ormai a far combaciare la sintesi a priori con la Santissima Trinità e la dialettica idealistica con i disegni mirabili della divina Provvidenza; [...] di tutta la situazione impiastricciata di casa Falchinetti che poteva rappresentare per un filosofo un eccellente soggetto di analisi d'un caso di alienazione ribaltata, a doppio risvolto e a tre diramazioni, in un ambiente capitalistico giunto alle falde di un imperialismo piccolo-borghese, e quindi forngirgli anche l'estro d'essere utile ai suoi amici Falchinetti, distrincandoli un po' dal groviglio di luci e di tenebre in cui andavano naufragando senza respiro e con furori inespressi, capiva soltanto che vi regnava un certo clima di angosce e una turba di sguinzagliate tristezze, che si accordavano del resto assai bene con la sua idea della vita terrena quale magma di sofferenze e di doveri, che solo dalle visioni d'una vita ultraterrena avrebbe potuto ricevere qualche lumicino di moccolo.59 Qui la dura critica al neoidealismo e al gentilismo è condotta con le armi raffinate dell'ironia che sfociano man mano e apertamente nella satira. Anche il Ruzzo doveva far parte dei convitati, ma egli udito che razza di gente ci sarebbe stata a tavola, si schermì con un moto istintivo di pudicizia. Come se si fosse trattato di accedere a un banchetto sull'Olimpo e mescolarsi al pasto degli dei. A meno che non si voglia interpretare il contegno del Ruzzo, napoletano e attualista cattolico, come un'estrema finezza di malizie: evitare a se stesso la rottura di scatole di dover sedere rispettoso con gli dei in libera uscita e assistere per tre ore alle loro funzioni organiche, le quali avrebbero rischiato di provocare in lui perfino la perdita di illusioni che gli erano care e vitali.60 Questo professore gentiliano, questo seguace dell'attualismo, idealista fin nel midollo, che ha idealizzato la borghesia italiana e tutta la classe dirigente del bel paese, vuole evitare di assistere alla realtà, tragica e comica dei suoi dei olimpici, i cari borghesi fascisti, per evitare di perdere quelle illusioni che lo mantenevano in vita. Nel più classico degli schemi della filosofia idealistica, avrebbe dunque adattato la realtà all'idea e non il contrario. Così, il professore, l'intellettuale gentiliano, non potrà essere d'aiuto alla famiglia Falchinetti né del resto al genere umano né tantomeno a sè stesso essendo egli stesso un alienato felicissmo del proprio stato inconsapevole di alienazione, di cui, del resto, se mai avesse avuto sentore, sarebbe stato portato ad attribuire la colpa, anzi, la grazia all'Ente Supremo che gli aveva messo in corpo quell'anima bella.61 UT (2012), pp. 58-59. UT (2012), pp. 59-60. 61 UT (2012), p. 60. 59 60 78 L'archetipo della cena Se cuore tematico del romanzo è l'alienazione dell'uomo di Torino nella sua profonda incomprensione di se stesso e del male intorno a lui, suo centro narrativo è la cena organizzata dai Falchinetti. Abbiamo già elencato, più sopra, i convitati alla tavola: essi sono tredici, proprio come nell'ultima cena descritta dai Vangeli. In un intelligente articolo di Cetta Berardo su La metafora del cibo nel romanzo, riflettendo sui modelli e gli archetipi della cena nell'opera narrativa di Mucci, rifacendosi a uno scritto di Fernando Pessoa del 1907, si legge: «L'originalità della cena non consiste in quello che vi appare, ma in quello che significa, in quello che contiene».62 La cena diventa dunque luogo allegorico per antonomasia, in cui vengono catapultati personaggi con proprie fisionomie e messi a dialogare (come nei più antichi e celebri banchetti di Omero o Platone) ed è in quel momento che emerge tutta la loro essenza. La Cena mucciana è 'radiografia di una condizione esistenziale e sociale', graduale processo di degradazione dei personaggi, dove i commensali, snocciolati in metallica sequenza nell'incipit, in base ai loro titoli e possedimenti, i borghesi dell'Italietta dannunziana, che si ritrovano attorno ad una tavola per festeggiare un'onerficienza, sono fissati al loro ruolo immutabile, denudati nelle loro meschinità, legati a valori quali il denaro, il cibo, il sesso.63 In fondo anche ne I Buddenbrook di Thomas Mann, che Mucci avrebbe potuto leggere grazie alla sua conoscenza del tedesco, l'aspetto sociale del cibo e del banchetto sembra essere un aspetto caratterizzante. Qui, infatti, il cibo e la pratica conviviale dominano in tutto il corso della narrazione, tanto che l'opera di Mann è stata definita non a torto ‘iperfagica’64. Il testo manniano potrebbe essere stato di ispirazione per la rappresentazione sociale in una situazione borghese tipica, giacché è nei pranzi, cene e colazioni che avviene «la maggior parte degli scambi sociali del romanzo» 65 e non dobbiamo dimenticare anche che il sottotiolo dei Buddenbrook è Decadenza di una famiglia. Ora, se la cena è un archetipo conclamato, modello per Mucci non può che essere la Cena Trimalchionis, che certamente conosceva, dati i suoi studi classici al Pessoa [1907], (1995), p. 17. Berardo (2012), p. 83. 64 Bonifazio (2013), pp. 27-39. 65 Bonifazio (2013), p. 28. 62 63 79 liceo e che nella tradizione occidentale rappresenta il tipo di situazione in cui il profilo antropologico emerge con maggior chiarezza. La cena petroniana è modello sotto vari aspetti. Innanzitutto per la situazione dialogica che genera, poiché il dialogo è ciò che permette di mettere a nudo i profili antropologici dei convitati (oltre ai flashback e ai flashforward di cui è pieno il romanzo); in secondo luogo perché anche la vicenda narrata dall'Arbiter è una sorta di epopea rovesciata di un'intera società in declino. Scrive ad esempio Luca Canali: Il Satyricon è l'epopea di una truce civiltà che si espande con i suoi odori di cucina, d'unguenti, di concime, di danaro sudato, di vita intensa atterrita dalla morte, e insieme d'una civiltà al tramonto, quella dei quiriti e delle filosofie classiche, con i suoi ranghi rimescolati, la sua pulizia così suscettibile di contaminazione, i suoi filosofemi mutati in bolo di grossolano buonsenso, dal ruminare dei bisonti della ricchezza, la sua morte già consumata e tuttavia ancora famelica di vita.66 Ma non è questa una descrizione esatta della cena in casa Falchinetti? Gli odori sono onnipresenti, così come il cibo e il danaro e tutto sa di morte (e di fascismo); 'il grossolano buonsenso' dei convitati viene sputato dai commensali e ruminato insieme alle pietanze della signora Nina; la civiltà è al collasso eppure (o forse proprio per questo) c'è una famelicità spaventosa che tende ad ingurgitare tutto; e cosa sono le idee liberali di Leopoldo Falchinetti se non 'filosofie classiche' al tramonto? È, anche, il romanzo di Mucci, un rovesciamento del Simposio platonico in cui i discorsi filosofici sull'eros diventano discorsi lussuriosi sulla proprietà (stilisticamente rappresentata dalle ricorrenti e serrate liste di oggetti, azioni o persone elencati con doverosi 'a capo') di cui il cibo diviene metafora perfetta. In ultimo, ma non meno importante, l'aspetto del realismo. In Petronio, infatti, sono la figura del liberto, parvenu della classe dominante, e i suoi valori a essere rappresentati plasticamente, con forti tinte realistiche e ciò che Auerbach dice a proposito dell'autore del Satyricon può essere detto anche per Mucci a proposito del suo modo di rappresentazione: In primo luogo la forma del tutto soggettiva, poiché quella che ci viene presentata non è la cerchia di Trimalcione [leggi: dei Bey-Rolione] come realtà obiettiva, ma invece come immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di quella cerchia fa parte. [...] I banchettanti vengono giudicati col loro stesso metro; questo metro è condannato per il solo fatto che prende voce, e inoltre la qualità plebea di questi nuovi ricchi viene illuminata crudamente dal fatto che se ne possa parlare così, alla loro propria tavola.67 Affine il giudizio di Mario Lunetta sul romanzo di Mucci: 66 67 Canali (1981), p. 10. Auerbach [1946], (2000), pp. 32-33. 80 Il narratore non agisce da voce giudicante fuori campo: la miseria dei personaggi mette in scena sè stessa in una totalità assolutamente icastica, fiera della propria pochezza. La sua identificazione col sistema populistico-autoritario che il fascismo sta edificando è naturale e biologica. Non un rèfolo di scrupolo critico la sfiora: e qui appunto sta la sua forza animale, il buio della sua coscienza rovesciata.68 Ma come abbiamo visto, Mucci è in grado sempre di assimilare e superare i propri modelli, così se limite del realismo petroniano è la mancata rappresentazione delle forze sociali che sottostanno ai rapporti descritti e narrati, nel romanzo moderno di Mucci essi vivono in piena luce e vengono tracciati con precisione sociologica; anzi, la spiegazione del fascismo e, prima ancora, dei comportamenti sociali e delle fisionomie antropologiche dei commensali viene rappresentata nella discussione a tavola sul pericolo bolscevico del biennio rosso, sul comportamento di Giolitti e sulla risposta degli industriali. Alla cena dei Falchinetti, ogni convitato ha un preciso profilo antropologico. Purtroppo, l'incompletezza del romanzo non ci permette di osservarli tutti nella loro interezza (sembra infatti che Mucci avesse l'intenzione di dedicare a ciascun personaggio un capitolo specifico), tuttavia per alcuni di essi disponiamo di ritratti vivi, come ad esempio per Matteo Rolione. Scaltro industriale, borghese rapace, è uomo pacato, consapevole della traiettoria politica della sua classe che è passato armi e bagagli dalla parte del fascismo. A tavola ricorda gli eventi sconvolgenti del biennio rosso e dell'occupazione delle fabbriche a Torino, senza enfasi o agitazione, e ricorda al vecchio Falchinetti la condotta di Giolitti che avrebbe potuto gettare l'Italia nelle mani del bolscevismo. Per questo, ora, gli industriali si sentono più al sicuro sotto l'ombrello del fascismo. Si completa così la parabola discendente della borghesia italiana e la famiglia Rolione appare come un naturale sviluppo di due personaggi borghesi della letteratura italiana: Renzo Tramaglino e Zeno Cosini. Come il primo, hanno rilevato una filanda e sono partiti quasi dal nulla; come il secondo, hanno fatto grande fortuna grazie alla guerra con la loro impresa di pellami. Ma tanto l'onesta laboriosità, a tratti ingenua, del primo, quanto la lucidità critica del secondo nell'analizzare la crisi della società umana (e quindi della società borghese) si sono dissolte per far posto, nel percorso di completa alienazione, all'abbraccio mortale con il fascismo. Durante il periodo precedente [di ascesa della borghesia], la «democrazia» presentava molti vantaggi per il capitalismo. [...] Quando il banchetto è abbondante, si può tranquillamente lasciare che il popolo ne raccolga le briciole. Ma nel periodo attuale, nella fase di declino del capitalismo, la classe dominante tende a confrontare sulla bilancia i vantaggi e gli inconvenienti della «democrazia»; perplessa come l'asino di Buridano, esamina i due piatti ed esita. In taluni paesi e in date circostanze, le sembra che gli inconvenienti siano superiori ai vantaggi. [...] Per queste ragioni [...] la borghesia liquida la «democrazia» tradizionale e sollecita [...] uno Stato forte [...] che privi il popolo di tutti i suoi mezzi di difesa e che lo consegni, mani e piedi legati, a chi 68 Lunetta (2011). 81 vuol vuotarne le tasche. [...] Per le ragioni ora indicate, la borghesia, in taluni paesi quali la Germania e l'Italia, ha sovvenzionato il fascismo e l'ha messo al potere.69 Così, con voce fuori campo riportata in virgolettato, come sentimento corale di un'intera generazione di borghesi ipocriti, si commenta il sostegno al fascismo: «Il male che ha potuto fare all'umanità questa guerra! Lasciamo in pace i Caduti, che son caduti per la Patria, e gloria alle anime loro! Ma adesso questo comunismo che vien fuori un po' dappertutto, è peggio della guerra e della spagnola messe insieme». Così si finanzia la fondazione del Fascio di Bra.70 Ma Matteo Rolione è calmo, abile calcolatore, è l'asino di Buridano che alla fine ha scelto e non si è lasciato morire di fame e di sete, che lascia al suo collerico fratello Rocco, segretario del Fascio di Bra, trarre le conclusioni politiche dall'atteggiamento degli industriali: «la nostra Lega degli Indusrtiali inviò una delegazione a Bardonecchia, dove il Presidente del Consiglio era in villeggiatura. Gli esponemmo la gravità della situazione all'interno delle fabbriche; il danno che ne poteva derivare agl'impianti; il rischio che il movimento si estendesse fuori dalle fabbriche...» [...] «... la perdita incalcolabile di capitale e di lavoro utile per la Nazione. Gli chiedemmo di far intervenire la Forza, magari anche l'Esercito, finché eravamo in tempo. Trovammo un muro di sorriso...» [...] «era semplicemnte persuaso che il moto sarebbe rimasto all'interno delle fabbriche, e lì sarebbe finito, di morte naturale. E tanto gli bastava. La macchina dello Stato non ne avrebbe sofferto, a sentir lui. Come se l'industria non fosse il cuore della Nazione!» [...] Rocco Rolione, invece, si sentiva prudere i nervi e non stava fermo col sedere sulla sedia. Non vedeva il minuto che il fratello Matteo la facesse finita coi preamboli e arrivasse al punto: Giolitti era stato un incosciente pericoloso, che per poco non aveva precipitato il paese nel bolscevismo. Punto e basta. Ma non osando interrompere la piana autorità del fratello, cercava tuttavia d'incoraggiarlo con la tensione dei muscoli a imboccare al più presto la strada della conclusione [...].71 La serena lucidità della borghesia industriale cosciente della strada che sta imboccando, pur nella sua tragedia di alienazione assoluta dall'umanità, e l'idiota violenza del fascismo: tutti e due alla medesima tavola. All'altro capo del banchetto, la laica trinità dei Falchinetti che subiranno la sorte del Cristo alla loro ultima cena. Tutti e tre, infatti, subiranno una sorta di tradimento da parte dei rappresentanti della classe dominante invitata a cena. Nina Falchinetti, nella sua disarmante ingenuità, non comprenderà mai il senso della sua alienazione e le leggi inique e mostruose della società in cui vive, tanto da non comprendere ancora i meccanismi egoistici dell'avidità, sotto cui si celano quelli dell'accumulazione capitalistica. Guerin [1945], (1994), pp. 57-58. UT (2012), p. 17. 71 UT (2012), pp. 92-93. 69 70 82 Per Leopoldo Falchinetti, invece, vecchio liberale giolittiano, fedele al suo Re, perfetto uomo della macchina statale borghese, l'avvento del fascismo è un tradimento perpetrato dalla borghesia e dalla nobiltà e la sua sorte appare come una umiliante crocifissione senza redenzione. Approderà però poi al fascismo, rinnegando sè stesso, morendo così una seconda e definitiva volta. Mucci ce lo dice in uno dei non rari flashforward. Quando il Rolione, durante la cena, invita Leopoldo Falchinetti a iscriversi al partito fascista, giacché anche il suo amato Re ha di fatto aderito, egli “Mai!” asserì [...], profetizzando il futuro fino al 1927, anno in cui si iscrisse al Fascio di Bra rifiutando però la retrodatazione della tessera che gli era graziosamente offerta dal cognato Rocco.72 Così, mentre i rappresentanti delle due classi dirigenti del paese sono invitati a casa sua per celebrare le glorie di un vecchio militare dell'esercito Regio di passione liberale, mentre riempiono le loro bocche alla mensa del giolittiano, nobili e borghesi marcescenti trasformano la casa del Falchinetti in una latrina di odori e fumi e veleni e lo uccidono metaforicamente, così come il fascismo s'era dapprima seduto alla tavola dello stato liberale, invitato da lui stesso a sedersi e ingozzarsi, finirà poi per strozzarlo e costringerlo a sedersi alla sua mensa. Di fronte alla inarrestabile decadenza della sua Italia, della sua classe, del suo ridicole Re, che di fronte alle richieste di un pezzo dello stato liberale di ripristinare le libertà «contemplate e garantite dallo Statuto», rispose sereno ed elusivo «Mia figlia stamattina ha ucciso due quaglie», il vecchio liberale giolittiano, al termine del romanzo, non può che opporre uno sbadiglio, masticando un «Che schifo, Italia mia», quasi parafrasando in versione popolaresca il più nobile e dantesco «Ahi, serva Italia», per poi restare senza idee, «a tirar boccate di fumo nel silenzio».73 In quei fumi e in quei veleni di provincia, in quella stanzetta angusta, anche Giovannino Falchinetti, alter ego di Mucci, sarà l'unico a cercare la strada della redenzione, sua e dell'intera umanità: tradito dalla sua classe, così trita e acrimoniosa, divisa tra l'adesione ora convinta ora indifferente al fascismo e l'astensione senza idee e senza parole al regime mussoliniano, sarà lui stesso a tradirla da grande. Così, trentotto anni dopo, nel 1963, vediamo il piccolo Giovannino ad una distanza ormai incalcolabile nel tempo e nello spazio dalla sua infanzia. Ora la calvizie gli aveva quasi raschiato la cute; la piorrea alveolare demolito la bocca; un'ulcera rodens scorticato la punta del naso; e le insonnie trascorse a ricomporre età irreparabili o a farsi l'animo di fronte a situazioni insorgenti, gli avevano macchiato le 72 73 UT (2012), p. 129. UT (2012), p. 156. 83 orbite con gli inchiostri della stanchezza e della nevrastenia [...] La vita di quest'uomo era stata un precipizio precoce, continuo e costante.74 La redenzione di Giovanni, però, non è compiuta e nelle memorie del bambino vecchio è andata incontro a una disfatta. La ricerca di riscatto, di redenzione per sé e per gli altri sono naufragate. Si ritrova, così, simbolicamente, in un altro spazio angusto, «un trapezio di prato che si allunga dai bordi [...] dello stagno rotondo di Kensington Gardens fino alla cancellata di strada Bayswater, Londra W.2».75 La sua ambizione «di sfuggire alla condizione ufficiale dell'esistenza»76 è stata un fallimento, un'esperienza tutta sbagliata. All'inizio fu un modo obbligato per sradicarmi dal terreno franante dei miei genitori, buttandomi in braccio alle forze e ai disordini della natura. Ma poi, con gli anni e i decenni, è diventato un vizio. Calcolato; e fottuto...77 La lotta per la propria liberazione non può che incrociare i destini e le sorti dell'intera umanità: cambiare la condizione ufficiale dell'esistenza deve essere un'esperienza collettiva e non può che farsi azione e così diventa 'vizio' della politica, la passione fottuta per la storia del genere umano che cresce e afferma, col cervello e col sangue, nuove condizioni di vita sociale. Un vizio richioso che m'è costato i sacrifizi che tu sai, e ancora mi costa.78 All'immobilità silenziosa, seppur sdegnata, della borghesia liberale che poi infine capitolerà, non può che opporre un'azione (parola cara al Mucci), seppur dolorosa e carica di 'sacrifizi'. Così, durante la cena, Giovannino è l'unico ad allontanarsi da quei 20 metri quadrati di superficie d'Italia dove si consuma la tragedia del suo paese e, da grande, si allontanerà da quell'Italia stessa per abbracciare orizzonti più vasti. Ed è questa, a ben guardare, l'unica vera azione che mette in movimento un personaggio e lo porta a una seria trasformazione. Nel '47 Mucci aveva scritto: Sono [...] un parassita della classe che sfrutta la forza-lavoro altrui, sono un pidocchio della cute di poco venerabili capi d'industria. E va bene: pidocchio. Ma non segugio, né cane da guardia. E non vi sembri eccessivo ch'io voglia oggi restituire una goccia di quel sangue a coloro dai quali le sanguisughe lo succhiano a secchi: una goccia grigia di sangue, una manciata d'elemosine.79 UT (2012), p. 142. UT (2012), p. 141. 76 Ivi, p. 144. 77 Ibidem. 78 Ibidem. 79 Mercuri (1973), p. 68. 74 75 84 Forse il romanzo L'uomo di Torino, se non tutta la sua attività politica così carica di sofferenze e sacrifici in nome del riscatto dell'intera umanità, è quella goccia di sangue restituita a coloro ai quali è stata succhiata via dalla sua stessa classe. Gabriele D'Angeli gabrieledangeli@gmail.com 85 Riferimenti bibliografici Auerbach [1946], (2000) Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 2000. Berardo (1989) Cetta Berardo, Prefazione a L'uomo di Torino, Bra, Bra Sette, 1989. Berardo (2012) Cetta Berardo, La metafora del cibo nel romanzo. Comparazione e modelli, in Alberto Alberti (a cura di), Conoscete quest'uomo. 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L'uomo di Torino, his last unfinished work, is an evidence of this effort, beacuse the novel addresses realism and alienation in our contemporary society with a new point of view, taking over and overcoming the lessons of Joyce, Proust and Kafka. Parole-chiave: Velso Mucci; romanzo; cena; realismo; alienazione. 89 FLAMINIO DI BIAGI, Vittorio Imbriani: tecniche s/compositive del romanzo Libro molto particolare e di un genere tutto suo, Dio ne scampi dagli Orsenigo, di Vittorio Imbriani (1876), appare veramente, come è stato suggerito, l’opera di un ‘irregolare’ della nostra letteratura.1 La storia singolare e paradossale di due amanti che a null’altro aspirano che a togliersi dalla scomodissima posizione di amanti non sembra certo appartenere all’ortodossia letteraria dell’Ottocento, anche se di un Ottocento che comincia ormai a trarsi fuori dalle melme romantiche. Audacemente racchiuso tra un’iniziale affermazione che è poi la tesi stessa del romanzo («una relazione è, quasi sempre, più pesante del matrimonio») e una soluzione finale provocatoria e quantomeno sconcertante («della sorella dell’Almerinda narrerò un’altra volta»), il libro dell’Imbriani presenta la specifica struttura compositiva della negazione: la scomposizione, ovvero, dei modelli narrativi convenzionali del romanzo borghese ottocentesco. Se l’amante è per tradizione appassionato, quello d’Imbriani è non solo affatto innamorato, ma addirittura intollerante delle pastoie amorose e dei fastidi che gliene derivano. Se i nomi dei personaggi, tra romanticismo e decadentismo, si fanno per lo più indicazione divina e prefigurazione del sublime (o anche convinta e realistica mimesi individuativa), in Imbriani precipitano nel grottesco della funzione caricaturale. Se la vicenda, nel romanzo tradizionale, possiede uno svolgimento logico e armonico – presentandosi il testo come organismo ben congeniato anche laddove l’autore (come in Verga) tenderà a scomparire del tutto – Imbriani lacera il tessuto narrativo stracciandolo da più parti (stile, digressioni, interventi, montaggio), quasi avendo cura di mostrarne il meccanismo. Se, infine, Tordi (1978): Irregolari e isolati del secondo Ottocento. Vittorio Imbriani (Napoli 1840-1886) nacque da famiglia di patrioti risorgimentali (la madre era sorella di Carlo Poerio) e crebbe in esilio. Attivo lui stesso politicamente, fu volontario nel 1859, e con Garibaldi nel 1866, studiò a Zurigo (dove conobbe De Sanctis) e a Berlino. Svolse poi a Roma e a Napoli attività letteraria, di critico, di giornalista politico. Insegnò all’università di Napoli Letteratura Italiana e Estetica. Malato, morì subito dopo aver vinto la cattedra. Spirito generoso ma intransigente. Noto per la sua attività di ricercatore sulla letteratura popolare (con Pitrè) e di critico viscerale, polemico e guerrigliero (Uno sguaiato Giosuè, 1868, Fame usurpate, 1877, Studi danteschi, raccolti 1891), ardito manipolatore della lingua, capace di neologismi, infrazioni, contaminazioni, e di ironia corrosiva. Oltre al romanzo semi-sperimentale Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876), scrisse altri racconti lunghi che sono tra le opere più atipiche e oltranziste del panorama letterario dell’Ottocento (Mastr’Impicca, 1874; Le tre maruzze, 1875; La bella bionda, 1876; La novella del Vivicomburio, 1877; Per questo cristo ebbi a farmi turco, 1883). 1 90 il lettore borghese ottocentesco viene solitamente blandito e coccolato, quello malcapitato d’Imbriani è irriso e decisamente maltrattato. Dunque, una pratica narrativa antinomica, basata polemicamente sul rovesciamento di quanto letterariamente corrente (e corrivo), e i cui tratti caratteristici appaiono ben individuabili. Parente alquanto degenerata della digressione manzoniana, la digressione di Imbriani chiarisce «quanto sia più importante non la storia in sé ma il discorso critico che sulla stessa viene portato avanti».2 Le digressioni dell’autore «frenano il corso dell’azione, svolgono funzione provocatoria».3 In Manzoni la pratica digressiva viene giustificata dalla funzione di supporto alla narrazione: il racconto viene coonestato dal ricorso a fatti che gli sono propriamente estranei, ma che risultano corroboranti, esplicativi, certamente complementari. Perfino quando lo scrittore abusa dello strumento, come nel caso famoso della Monaca di Monza (avviando una sorta di romanzo, o studio storico, parallelo), il suo allontanamento si conserva serio e compunto, e mai si potrebbe sospettarne un’intenzione parodica o semplicemente critica. E non è che Manzoni difetti d’ironia. Imbriani, al contrario, utilizza la digressione con un piglio sarcastico e perfino brutale: «Diecimila lire di mancia, a chi scavizzola un tanghero, che sdegni l’invito di una bella donna...» [p. 76] (e via con una tirata sull’ipocrisia del vocabolario amoroso).4 Sostenuta da un lessico colorito e franco, la sua personalissima digressione interrompe lo svolgimento dell’azione romanzesca senza riguardi: la fluidità del narrare viene ignorata, il protrarsi dell’interruzione è a totale discrezione dell’autore, perfino l’eventuale pertinenza al testo appare elemento trascurabile.5 Un tipo tutto particolare di tecnica digressiva è poi visibile in quelle storie nella storia che l’Imbriani tende ad inserire, con un processo dal sapore dotto e insieme popolareggiante: piccoli aneddoti per lo più assurdi ed estranianti, non si capisce bene fino a che punto inventati o frutto della sua effettiva erudizione e conoscenza dettagliata della novellistica cinquesecentesca e popolare (Basile in testa). Come la storia grottesca (e pseudomorale) dell’inglesina sedicenne, sposatasi per calcolo con un sessagenario che le sopravvive con prole numerosa dopo trent’anni di matrimonio, invece di morire in fretta lasciandola erede [p. 16]. O come le notizie di cronaca lette dal povero Spera (1975), p. 9. A questa edizione fanno sempre riferimento, da qui in avanti, i numeri di pagina tra parentesi quadre che seguono la citazione. 3 Tordi (1978), p. 83. 4 Imbriani (1975), p. 76. Ristampe precedenti del Dio ne scampi sono quelle a cura di Aldo Camerino (Firenze: LeMonnier, 1956) e di Luigi Baldacci (Firenze: Vallecchi, 1972). Molte quelle successive, a testimonianza della promozione a piccolo classico; ultime: Ravenna: Allori, 2004 (cura di Siriana Sgavicchia); Milano: Garzanti, 2006 (cura di Fabio Pusterla); Napoli: D’Auria, 2011 (cura di Sandra Carapezza). 5 Nel romanzo «il punto di vista è assolutamente unico, ed è quello dello scrittore», Barberi Squarotti (1990), p. 14. 2 91 marito ‘minotaurizzato’ della protagonista Radegonda nel tentativo di ravvederla (la moglie traditrice avvolta nelle lenzuola e buttata dalla finestra [pp. 80-81]; la vendetta del marito tradito che costringe l’amante della moglie a pagarla [pp. 81-82]). O come la citazione del «personaggio del Goldoni, che odiava, tanto, il Can de’ Tartari, da non poter più veder cani» [p. 99]; del «ceffone, che il general Damiano Assanti inflisse al volto del sedicente barone Giovanni Nicotera» [p. 139]; degli «spazzolini curvi che indispettirono, tanto, Giangiacomo Rousseau, da Ginevra, contro Melchiorre Grimm, da Ratisbona» [p.146]. Personaggi storici o letterari, noti o attinti dalla cronaca minore, compaiono nelle pagine del romanzo, a prova semiseria di quanto affermato dall’autore; e al di là della credibilità del ‘Re d’Algarvia’ [p. 107] o del ‘generale Nostitz’ [p. 11], vale constatare come anche questa curiosa predilezione dell’Imbriani, vera tecnica della cripto-citazione, serva a scardinare dall’interno le regole del romanzo a lui contemporaneo.6 Il rapporto col lettore è un altro luogo privilegiato della scrittura di Imbriani. Un rapporto in cui chi scrive chiarisce di avere il coltello dalla parte del manico, e il lettore si trova costretto a subire i capricci e la prepotenza dell’autore. Basti ricordare la scena in cui il capitano Della-Morte abborda due ‘tose’ milanesi, che è tutto un dialogo (o battibecco) tra il narratore e il pubblico come immaginato da quello: Ciò, che accadde, non saprei narrarlo, per lo minuto: ché non mi invitarono a salire, con loro, nella casa, in cui entrarono, un pajo di strade più in là. "Chi? chi entrarono insieme?" Chi? Maurizio e una delle belle tose. "Oh, che orrore! Come, lui, che ci vorrebbe far credere tanto preoccupato, sempre, dell’Almerinda?" Molti personaggi citati da Imbriani appartengono alle basse sfere della letteratura o della cultura, altri, sono presi dalle cronache delle gazzette del tempo. Immaginarsi la frustrazione o il senso di inadeguatezza del lettore di quei tempi, non munito di motori di ricerca internet, per rintracciarli o per ricordare che ‘Nostitz’ è il nome di un generale prussiano dato da Imbriani per amante del Granduca Costantino Romanov, che il ‘Re d’Algarve’ (oltre al marito gabbato della novella di Alatiel [Decameron, II, 7], già riscritta da Imbriani nel 1877 [La novella del Vivicomburio]) può riferirsi al progetto napoleonico di spartizione del Portogallo, che ‘Melchiorre Grimm’ fu scrittore in sentita polemica con Rousseau, e via così citando. Altro che il Carneade manzoniano, qui i semi-sconosciuti sono decine. In questo atteggiamento di Imbriani c’è la stessa ironia (non più garbata, ma centuplicata) di Manzoni verso il proprio lettore; lo sfottò nei suoi confronti si riflette nell’istruzione incerta e lacunosa di Don Abbondio e nell’incapacità di distinguere figure influenti da quelle marginali che affligge gli eruditi dogmatici come Don Ferrante. Tuttavia, è inevitabile che lo scherzo, insistito, conferisca alla prosa di Imbriani un tono pedante. Sulla poetica della citazione e sulla rete di citazioni palesi o nascoste del romanzo i contributi sono ormai numerosi; vedi, tra i più significativi: Carapezza (2015); la studiosa, tra le citazioni presenti nel libro, ne conta 34 solo tra quelle esplicite. 6 92 Ebbene, cosa fa? Appunto, perché, amava e soffriva, merita, forse, indulgenza maggiore, se cercava distrarsi: circostanza attenuante! E poi, [...] la ragazza, con cui salì, l’era tanto bellina! [...] "E ce le viene a raccontare, queste sue belle gesta? E lo loda?" Io? Dio me ne liberi! Io sono istorico: narro, non giudico; lascio questa cura a Lei Signorìa. "E come si chiamava colei?" Anche questo ho a dirle? Si chiamava l’Ermenegilda Trabattoni. "Ed abitava, propriamente, dove?" Beh! che mestiere crede, V.S., che io faccia? [...] "E l’altra bella tosa?" Niente paura... [pp. 63-64]. Questo immaginario lettore orripilato e scandalizzato scopre non solo il proprio moralismo ipocrita, ma soprattutto tradisce una volgare curiosità pettegola che si fa in fondo piuttosto compiacente e, a ben guardare, interessata (il buttar là casualmente quel ‘dove?’). Lo stesso atteggiamento da ‘storico’ dell’Imbriani («narro, non giudico») suona smaccatamente falso e quasi a canzonatura del romanzo naturalista e dei ‘documenti’ veristi ‘fatti-da-sé’ che pure cominciavano a circolare (la Nedda del Verga era apparsa un paio d’anni prima, nel 1874). Anche Imbriani accampa qua e là un’apparente teoria del documento umano («Noti il lettore, per carità, ch’io, fedelmente, riferisco [...] non parlo, mica, in nome mio proprio» [p. 69]; «io narro e non giudico» [p. 103]; «Sono istorico» [p. 117]), ma, alla pari del suo presunto uditorio, mente sapendo di mentire: bara così spudoratamente da lasciare spuntare le carte nascoste nei polsini. Al malcapitato lettore viene rinfacciata la noia e disattenzione («Che! lettore, sbadiglia?» [p. 70]). Viene rimproverato per la sua ignoranza («un bel verso di Baldassarre Olimpio degli Alessandri da Sassoferrato, poetucolo del cinquecento, che Vossignoria, lettore, non avrà, mai, inteso nominare, ch’io creda» [p. 73]) e gli si attribuisce invece una chiara conoscenza dei ‘moccoli’ e ‘parolacce’ pronunciati dal Della-Morte e non riportati dall’autore («Suppliscan le Eccellenze de’ miei pratici lettori; ristabiliscan Loro il testo schietto» [p. 61]). Gli viene bellamente dato dell’ubriacone («Ma siamo stati ubbriachi, anch’io, qualche volta, e Lei, forse, spesso, m’immagino, caro lettore» [p. 117]). Viene insomma persistentemente burlato («Caro lettore, sappia Vossignoria Illustrissima...» [p. 95]), solleticato («Se l’ipotetico mio lettore, volesse e sapesse insegnarmi questo come, io gli sarei, proprio, riconoscentissimo» [p. 95]) e preso in giro («la Ermenegilda Trabattoni, via: non so se Lei se ne ricorda, Lettore!» [p. 95]), fino alla solenne beffa finale di quella conclusione elusiva: «Della sorella dell’Almerinda, Berenice, e di quel, che le avvenne, osservandissimi lettori e lettrici, narrerò – un’altra volta, con comodo, quandochessia.» [p. 158]. Per tutto il libro Imbriani si prende gioco della sua ipotesi di lettore, negandoglisi continuamente: «non ho coraggio di riprodurre, più oltre» [p. 117]; «non posso dirvi e precisare cosa facesse [...] non ero in camera, lì, presente» [p. 119]; «Io, 93 queste amenità [...] non le registro» [p. 61]; «Fu supposto che [...] Ed io non vo’ crederlo» [p. 110]. Appare chiaro allora come in Dio ne scampi si realizzi qualcosa di ben lontano dalla discreta complicità instaurata dal Manzoni con i propri ‘venticinque lettori’. Ne I promessi sposi il lettore è assunto come attento ed accorto («Don Abbondio – il lettore se n’è già avveduto – non era nato con un cuor di leone.»)7 e viene confortato e reso partecipe. In Imbriani lo spettatore, non meno dei personaggi, è messo a nudo e, quasi, la sua funzione messa in dubbio dal sarcasmo. Ed è facile comprendere l’imbarazzo e l’irritazione del pubblico all’apparire di un’opera condotta in modo così inusuale e conflittuale, come è in parte giustificabile il frettoloso sbarazzarsene della critica grazie all’etichetta sbrigativa e cauterizzante di «spirito bizzarro e dispettoso» (evitando, cioè, l’indagine sulle profonde motivazioni destrutturanti del lavoro del napoletano)8. La scrittura è tutta un florilegio di giochi di parole («piace a’ mici, piace a’ micci, l’esser lisciati» [p. 72]), di luoghi comuni surrealisticamente rivoltati («Che Cairo d’Egitto?» [p. 91]), di quasi futuristiche onomatopee reiterate («Tra! Tra! Tra! Tra! Una carrozza [...] Una scampanellata; drin! drin! drin! Il grave passo [...] pacch! pacch! pacch! Una voce tenue femminile: zizì! zizì! zizì! [...] un picchiare [...] all’uscio: tocch! tocch! tocch! [...] più forte: tocch-tacch! tocch-tacch! tocchtacch!» [pp. 43-44]), di paradossali formule chimiche derivate dai nomi dei personaggi («ravvicinamento del Radegondato di serenità con l’Almerinduro di passione» [p. 55]), di espressioni ricercate («sul pelago della vita» [p. 30]), erudite («sinderesi» [p. 20]), latineggianti («intascherebbe i quibus» [p. 123]), napoletane («le varrate de cecate» [p. 95]), milanesi («bej tosânn» [p. 63]), di verbi o proverbi francesi («Coeur qui soupir, n’a pas ce qu’il désire» [p. 28]), di forme arcaiche («erano suti» [p. 74]), colloquiali («paffete! [...] puffete!» [p. 70]) e insieme comicoauliche («inussorarsi» [p. 79]). Di insulti c’è un vero vocabolario (tanghero, babbuasso, dappocaccio), soprattutto a spese della protagonista femminile come definita dall’amante: pinzocheraccia, dottoressa, Quacchera o Squacchera, gesuitessa, ruffiana alla rovescia, pettegola, vescicante, subdola e volpina, mummia greca, gatta morta, falsa, brutta jettatrice, stregaccia, tribolatrice, furia d’inferno, Megera! Imbriani irride i toscanismi di derivazione manzoniana, lo stile contraffatto e affettato degli epigoni che il Carducci aveva stigmatizzato con «manzonismo degli stenterelli»9, riproducendo qua e là mimeticamente il tono di quella ancora attualissima moda letteraria: Cara donnina quella su’ moglie! piccola, con un par d’occhioni di que’ neri neri; pallida, con lunghi capelli, con un sorriso, che ti andava al cuore e ti mostrava una dentaturina, Manzoni (1970), p. 19. La definizione si legge in: Russo (1958). 9 La sintonia con Giosuè Carducci, che pure Imbriani non amava affatto, si legge in Davanti a San Guido (del 1874): «la favella toscana, ch’è sì sciocca / nel manzonismo de gli stenterelli» [vv.83-84]; in Carducci (1955), p. 689. 7 8 94 bianca al pari dell’avorio; con un pieducciolo, che avrei tutto raccolto nella palma della manaccia mia. [...] Carina tanto, anche, quella figliuoletta! fanciullaccia, che parlacchiava il meneghino con invidiabil purezza... [p. 23], dove l’ironia dell’operazione consiste in quell’abuso di diminutivi e in quel rifare il verso (più che alla parlantina frizzante e sboccata di Stenterello) al tipico parlare salottiero e pettegolo da Signora-bene, magari divoratrice di romanzi. Altro sintomo della polemica anti-fiorentina di Imbriani è contenuto nella parlata dello sfidante a duello: il marchese Barberinucci da Firenze. Con la grafia corrispondente alla fonetica peculiare del fiorentino più becero, scrive: «La ti hosta un occhio d’iccapo, e, p’immomento... ‘un vogghi’ offenderti... ma sembra, che ti troi, un po’, imbarazzaco» [p. 138]. E poco prima: «Chi ha fortuna in amore ’un giôchi a carte», seguito dal secco commento dell’Imbriani: «’Un giòchi, goffaggine fiorentina delle più sconce, per non giuochi» [p. 136]. In questo scoppiettare ben poco ‘deamicisiano’ del tono narrativo, la lingua del romanzo si piega a qualsiasi esigenza, perfino quella particolare della scienza medica: l’amputazione della mano del protagonista viene descritta con una raccapricciante minuziosità tecnica: L’Acquarone, sostenendo, con la sinistra, la mano ferita, con un amputante a lama stretta, incise, circolarmente, la cute, poco meno di due dita trasverse, innanzi alla linea articolare. Ed il Prezzemolini la stirò, in alto. Poi, il cerusico ne favorì la retrazione, incidendo i filamenti cellulosi, che la tenevan congiunta, a’ tessuti sottoposti. Appresso, troncò i tendini flessori ed estensori e gli altri tessuti molli, a livello della cute retratta, ossia dell’articolazione. Quindi, penetrò, in questa, per uno de’ lati, prendendo, per guida, l’apofisi stiloidea corrispondente; e diresse il gammautte, nel senso della linea articolare, descrivendo una curva a convessità posteriore; trascorse l’intera superficie articolare ed asportò la mano [p. 150]. Un pezzo di bravura, ma, insieme a certo accademismo da filologo stizzito, si coglie, ancora una volta, qualcosa di provocatorio e polemico, in questa programmatica accuratezza scientifica. È un rifare il verso al Pellico di «Quegli [il medico] prese la rosa e pianse»10, o all’analoga scena dell’operazione a un piede che il dottor Bovary compie (maldestramente) nel romanzo di Flaubert?11 L’intento più palesemente parodistico, tuttavia, l’Imbriani lo esplicita nei nomi dei personaggi, i quali veramente stabiliscono il tono da commedia delle parti e individuano una funzione. In letteratura i nomi sono spesso funzionali alle teorie letterarie adottate e, certamente, ’Ntoni o Malpelo stanno al verismo come Stelio Silvio Pellico, Le mie prigioni (1832), Capitolo LXXXVII, dove si descrive con simile tono asciutto l’amputazione della gamba di Pietro Maroncelli, operata peraltro da un ‘chirurgo’ che di fatto è un vecchio barbiere; il brano era famoso e immancabile nelle antologie scolastiche postrisorgimentali. 11 In Madame Bovary (1857), di Gustave Flaubert, al Capitolo XI della Parte 2ª, l’incapace dottor Charles Bovary opera uno stalliere ad un piede, ma con risultati disastrosi, che costringono il malcapitato all’amputazione totale. 10 95 Effrena o Andrea Sperelli stanno al decadentismo. Ma in designazioni del tipo ‘Ermenegilda Trabattoni’ (per indicare una ragazza con l’inclinazione a battere il marciapiede), lo sberleffo e la satira si spingono volutamente a rasentare la banale pericolosità della goliardia. Con Chiarastella Parascandolo si individua la madre un po’ ingenua (chiara-stella) e disposta a coprire le malefatte mondane (parascandalo) del figlio. In Don Liborio Ruglia si stigmatizzano le tendenze dell’inutile marito e magistrato sonnolento: ‘Liborio’, come libare, libagione, nome quasi da ubriacone; ‘Ruglia’, come ‘colui che russa, rumina, rimugina’ (o ‘raglia’?). A volte lo scrittore semplicemente si diverte, e abbiamo l’inglese Whata-fair-foot (che-bel-piede!) o la nonna Teresa Cazzaniga negli Averoldi. A volte lascia divertire i suoi personaggi, ed è lo stesso Maurizio a smontare il nome della futura amante, Salmoiraghi, in Salamoia-ed-Aghi. L’etimologia metaforica dei nomi degli amici perdigiorno è ben chiara: il marchese Barberinucci, il cavalier Bacherini, il tenente Vermaleone. L’insipienza professionale dei dottori è lampante nella loro denominazione: Egisto Acquarone, Oreste Prezzemolini. Il gioco, per quanto ovvio, non è né inutile, né troppo insistito.12 Gli stessi nomi da romanzetto romantico delle protagoniste, Almerinda e Radegonda (con quella beffarda, deviante consonanza: inda-onda) rispondono a una precisa intenzione satirica del bovarismo di cui soffrono entrambe le donne, anche se in misura e in circostanze diverse. Ma l’appellativo più felice è forse quello assegnato al protagonista maschile: Maurizio Della-Morte, per quella vera morte amorosa da cui a poco a poco viene soggiogato e ridotto all’impotenza («Questa donna m’ama a morte; checché faccia non giungerò a demeritarne l’affetto mortifero» [p. 100]). Il pesce, incastratosi nella rete, muore lentamente, strozzandosi da solo nel tentativo di liberarsi. Una relazione, parrebbe, non solo lega le mani, ma, seppure con asetticità da sala operatoria, le taglia. La coppia tradizionale Amore e Morte, ossessione romantica, viene qui intesa da Imbriani nel senso più ribaldo e truffaldino possibile: Amore è Morte. Alla lunga, però, la temeraria posizione di bastian contrario, l’espressività su di giri del linguaggio adottato, possono finire per stancare. E certamente sia lo stile, sia gli assunti teorico-letterari di Imbriani mostrano facilmente il lato nascosto della loro medaglia. Sotto la consapevole spinta al rovesciamento dei canoni convenzionali, lo scrittore napoletano tende a strafare: esagera; si perde nell’eccessivamente colloquiale e, al contempo, nella pedanteria (vedi l’uso parossistico della punteggiatura, così rigonfia di virgole, punti e virgola, pause estenuanti); indulge alle battutine che ne tradiscono il rigoroso moralismo. La satira sociale e quella letteraria appaiono in buona parte dettate da uno spirito profondamente reazionario e intollerabilmente misogino (l’intero libro si scopre Si parla, a proposito di questi nomi, di esemplarità, ma anche di «banalità esasperante»: Tordi (1978), p. 86. 12 96 programmatica dimostrazione della pericolosità della donna nelle molteplici funzioni di moglie, di madre, di amante, di educatrice). La critica ha bene puntualizzato i limiti del Dio ne scampi. Rosita Tordi nota come le intenzioni satiriche possano risultare d’impaccio e avverte del pericolo di finire «nella spirale di un divertissement arido e fine a se stesso».13 Prima di lei, il Flora aveva colto la possibilità concreta per l’Imbriani di rimanere vittima del proprio stile argutamente audace e scherzoso: «se vuol esprimere toni affettuosi, casalinghi, pietosi, non sai bene se dica sul serio o se scherzi: allora diventa illeggibile e noioso».14 E prima ancora il Croce poneva in risalto che la storia raccontata «non ha niente di buffo: è pietosa, anzi straziante. Una donna colpevole, tormentata dal rimorso; un giovane che si vede strappare l’amata; un’altra, onestissima e di carattere fiero, che è investita dalle fiamme che voleva spegnere; la degradazione di un uomo per effetto di una situazione irregolare; l’estrema devozione e la gratitudine di una donna non riamata, ma amante».15 Croce sottolinea come i personaggi e i motivi siano ‘serissimi’ nonostante la feroce intonazione del racconto. Ma questo, dopotutto, è un pregio. Dunque, il grottesco, l’ironia, il sarcasmo, la negazione, il linguaggio quasi sperimentale, tutti gli strumenti adoperati da Imbriani si possono rivelare un’arma a doppio taglio. L’attualità di questo dispettoso (ma notevole) distruttore è stata riproposta da Gianfranco Contini, che ne paragona l’esperienza a quella di un Carlo Emilio Gadda: e situa così la sua modernità principalmente sul versante della sperimentazione linguistica.16 È vero che l’Imbriani soffra di un disagio relativo al linguaggio, «strumento decorativo e compromettente»17, ma esiste anche un suo disagio nei confronti delle componenti tematico-strutturali, che lo colloca allo stesso tempo più verso il Novecento che nel secolo da lui bistrattato. All’interno del testo, vi sono continui interventi sul racconto: l’autore esprime il suo disprezzo per i propri personaggi: è il primo a porli in discussione scavandone le motivazioni più recondite e inconfessabili. Si gioca in pratica una commedia degli equivoci: nel libro tutti credono o pretendono di amare qualcuno, mentre le due donne si scambiano addirittura le parti. Si appare in un modo pur essendo in un altro. Molte, e nessuna meno valida dell’altra, sono le verità. L’autore cuce la tragica farsa avendo cura di mostrarsi e di mostrare cosa accade dietro il proscenio delle coscienze, tira in ballo il lettore, gli svela ripetutamente che si tratta di un congegno (persino un po’ macchinoso). Il protagonista, convinto di controllare la situazione, si scopre in realtà in balia degli eventi e di una donna Ivi, p. 89. Flora (1940), p. 443. 15 Croce (1973), p. 183. 16 Contini (1974). 17 Tordi (1978), p. 75. Ma vedi anche: Contini (1974), Paladino (1976), Spera (1976), Alfieri (1990), Cenati (2004). 13 14 97 (la quale forse non sa bene quello che fa, e in ogni caso lo fa tramite una suggestione letteraria come quella dell’epistolario amoroso letto di nascosto): il Della-Morte è costretto a recitare il ruolo dell’amante controvoglia, fino al punto di rischiare la vita e perdere una mano (per non perdere la faccia). Tutti questi elementi; il palesare (dissestandolo) l’impianto del romanzo; il fare i conti col pubblico (per di più a base d’insulti); la vicenda in cui il paradosso, l’assurdo e il senso della parte interpretata tentano di prevalere; la fine aperta o in sospeso e senza soluzione della storia; indicano, pur senza voler forzare la lettura, una significativa propensione novecentesca. Ovvero a tematiche e modi che diverranno tipici nel Novecento. L’estrema consapevolezza linguistica, il conflitto coi personaggi, la frammentazione, l’utilizzo della citazione (se non dell’autocitazione), la mimesi stilistica di autori del passato o contemporanei, il ridiscusso e controverso rapporto con il lettore, il latente decostruzionismo, la meta-narrazione, la parodia, il senso del fasullo e della menzogna, il paradosso, l’inattendibilità del narratore, l’ironia, il complotto, l’ingranaggio, la presenza in scena dell’autore, le digressioni metaletterarie... saranno tutti elementi della letteratura del secolo successivo a Imbriani, in particolare quella definita ‘post-moderna’. Imbriani aveva già assimilato la lezione dei ‘maledetti’ o della ‘scapigliatura’, ma per certi aspetti siamo addirittura di fronte a prefigurazioni pirandelliane (se è vero che il testo gioca con le identità ed è disseminato di dubbi: chi ama chi? nelle vesti di chi? e, soprattutto, perché?); non siamo poi così distanti dal pastiche di Gadda, dal ‘posticcio’ di Gozzano, dal plurilinguismo di Pound, dalle cripto-traduzioni di Eliot, dalle nevrosi letterarie del Gruppo 63, da un Arbasino che rielabora quasi ossessivamente i suoi testi e li ripubblica, dall’assemblage di Sanguineti, dalla funambolica poetica dello scandalo di un Manganelli, dal decostruzionismo dell’ultimo Calvino (che parla dello scrittore come «forzato della letteratura», di «lettori vampiri», e giunge alla paranoia di dichiarare «come scriverei bene se non ci fossi!»18), dalla consapevolezza ironica di un Kundera (che nel battezzare i propri personaggi disquisisce ‘imbrianiamente’ col lettore del proprio disagio: «sono sempre in imbarazzo quando devo andare a unirmi a questa innumerevole folla di Giovanni Battisti. Ma che fare? Devo pur dare un nome ai miei personaggi.»)19. Naturalmente, senza esagerare. Che la letteratura si alimenti di letteratura non è una scoperta dei nostri ipersensibili anni o del brulichio di avanguardie novecentesche. Lo faceva già Dante. Ai tempi di Imbriani, era stato Baudelaire a ricollocare in soffitta il mito romantico dell’ispirazione, parlando del poeta come un farceur che si nutre di artificio e maquillage, e demistificando il ‘lettore ipocrita’ 18 19 Calvino (1979), p. 171. Kundera (1980), p. 89. 98 in quanto speculare controparte dell’autore.20 E prima del francese (prima di maledettismi o di Kundera, di piani di lettura multipli o di intertestualità, di Eco o delle Finzioni di Borges), si trovano ‘trascurati’ come Washington Irving: l’americano aveva già inscenato, con la giunta di un alter-ego, avventure libresche, divertissement letterari, falsi documenti storici, metodi di riciclaggio letterario e conversazioni immaginarie in biblioteca con polverosi tomi parlanti.21 E il dialogo col lettore immaginario e l’escamotage del presunto ritrovamento di uno scartafaccio manoscritto in italiano secentesco sono manipolazioni che tutto sommato accadono persino nel purista Manzoni (modello, in teoria, che Imbriani vorrebbe scardinare). Eppure, qualcosa ha nuociuto alla fama del libro. Non basta essere in anticipo. Fosse stato Dio ne scampi dagli Orsenigo un tantino più rifinito e l’autore meno semplicemente trascinato dalla polemica (acida, costante, misantropa), e poco più strutturato, non saremmo di fronte a un ‘caso’ – che è comunque già abbastanza – ma a un ‘grande evento’ letterario. Per parafrasare Cletto Arrighi (contemporaneo del nostro e anche lui ‘eretico’ della letteratura, autore anche lui di un romanzo più farraginoso che eversivo)22: l’inquietudine, il travaglio, la turbolenza non necessariamente portano al genio della creatività, alle opere di ingegno, ma a morire in miseria e dimenticati. In fondo la punizione peggiore per gli eretici non è il rogo, ma l’oblio. Malgrado l’attenzione editoriale, la scoperta di inediti e le ristampe23, i dubbi della critica restano irrisolti: va bene la furia iconoclasta, va bene l’intransigenza, ma l’apocalittismo alla lunga si sfilaccia, si ripete, banalizza, diventa schema, irrita. Sorge l’ipotesi che Imbriani ci attragga tanto perché siamo, come lui, una società di ‘scontenti’. E la nemesi, o il contrappasso, per il romanzo è arrivata nel 2008, quasi un secolo e mezzo dopo: quando un esponente contemporaneo della famiglia Orsenigo, per di più anche lui di nome Vittorio, ha scritto il libro Dio ne scampi dagli Imbriani, come risposta Au Lecteur è la poesia il cui famoso verso finale («Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon frère!») fa da prefazione ai Fiori del male dell’edizione del 1861. Tra le innumerevoli analisi, vedi: Booth (2015). 21 Irving (1819); la versione italiana di riferimento resta: Il libro degli schizzi, trad. Nora Gyarto e Beatrice Boffito, Milano: Rizzoli, 1959. Irving è autore dimenticato, ma – alla pari di Imbriani – moderno, ricco di trovate, di effetti; leggero ma percorso da angosce e multi-livello nei significati; misogino, ironico ma anche caustico; un grande osservatore. 22 Si tratta di Gli sposi non promessi, pubblicato nel 1895: non una semplice parodia del testo manzoniano, ma un ‘ribaltamento eversivo’ (il sottotitolo lo definisce una «parafrasi a contrapposti»). Il romanzo non ebbe alcuna risonanza. È stato ristampato recentemente: v. Arrighi (2018). 23 Non ultimo il diario romano Passeggiate romane (a cura di Giuseppe Iannaccone, Roma: Salerno, 2007), che il curatore definisce «enciclopedia dell’ingiuria» per la visione rabbiosa che Imbriani rende dei primi anni (1871-1877) della capitale del nuovo regno, come ‘cloaca’ dove annega l’utopia risorgimentale. 20 99 alle ‘diffamazioni’ del napoletano.24 Pseudo-romanzo anch’esso d’amore, tra divagazioni e ricordi autobiografici, invece che a Milano ambientato ai tropici; ma soprattutto romanzo dove l’ironia è capace di auto-ironia, virtù invece piuttosto sconosciuta all’altro Vittorio. Di Biagi Flaminio fdibiag@luc.edu Loyola University Chicago 24 Orsenigo (2008). 100 Riferimenti bibliografici Alfieri (1990) Gabriella Alfieri, La lingua ‘sconciata’: espressionismo ed espressivismo in Vittorio Imbriani, Napoli, Liguori, 1990. Arrighi (2018) Cletto Arrighi, Gli sposi non promessi, Milano, Otto/Novecento, 2018. 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This paper is a brief analysis on the narrative devices in Vittorio Imbriani’s most significant novel – Dio ne scampi dagli Orsenigo. In terms of linguistic choices, cultural references, narrative approaches, relationship with one’s own reader, Imbriani’s work seems truly unusual for its times, and astonishingly modern: it seems to blaze the trail to several literary strategies of the Twentieth century. The paper aims to underline some of these strategies, however it also discusses some of the boundaries of a programmatically aggressive and unwieldy presence of the writer within the narration. Parole-chiave: Imbriani; romanzo; Manzoni; citazione; contratto col lettore. 103 CINZIA GALLO, Vestru di Serafino Amabile Guastella: un’importante prova di un autore ‘minore’ «Guastella [...] è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra sacca di resistenza culturale»1: così Vincenzo Consolo definisce Serafino Amabile Guastella2, uno dei più rinomati fra gli autori siciliani ‘minori’ di secondo Ottocento. Il giudizio di Consolo trova conferma nell’indole polemica del nostro autore, che osteggia i titoli accademici (non si laurea) e critica fortemente i sistemi scolastici chiusi e retrivi di Chiaramonte Gulfi, dove nasce nel 1819. È a Palermo, invece, che Guastella ha la possibilità di costruirsi una solida cultura. Alla conoscenza dei classici, egli abbina gli apporti della cultura illuminista francese, dell’empirismo inglese, le letture di scrittori moderni ed antichi, sia italiani che stranieri. Il profondo radicamento e l’interesse per l’ambiente locale3 lo portano, comunque, a collaborare ad alcuni periodici: «Il Vapore», in cui pubblica due componimenti poetici, e «Il Giornale di Scienze, lettere ed arti per la Sicilia», in cui dà alle stampe Vittore Hugo, un saggio piuttosto importante, in quanto Guastella sostiene che è necessario creare personaggi veri e reali, che nascano dall’osservazione diretta dell’esperienza storica e sociale, da cui soltanto l’arte può trarre la sua utilità morale e civile. Deriva di qui l’esigenza guastelliana di una letteratura realistica, che sia specchio dei vizi e dei mali della società. Si spiega, così, la composizione del periodico «Fra Rocco»4 e delle altre opere, in cui Guastella, fondendo i suoi interessi letterari con quelli di antropologo e di demopsicologo, ricostruisce lucidamente l’ambiente del suo tempo, portando avanti una serrata critica contro ogni forma di superstizione, di pregiudizio, e di servilismo. L’habitus del letterato è però prevalente, per cui non tutte condivisibili appaiono, oggi, alcune opinioni di Guastella, certo attardate (ma è un ritardo non suo, individuale, ma dell’ambiente in cui si trova a vivere - Consolo (2000). Per un’approfondita conoscenza della vita e delle opere di Guastella, sono molto utili Brafa (1999) e Guastella (2017). 3 Secondo Giovanni Criscione, Guastella sarebbe stato, rispetto alle frange progressiste moderate della sua città, un «intellettuale “organico”» (2010, p. 4): lo dimostrerebbe la sua amicizia con il deputato liberale Carlo Papa, che gli affida l’incarico di scrivere un saggio su Tommaso Campailla (Tommaso Campailla e i suoi tempi), ritenuto il «vessillo della battaglia [...] contro il monopolio ecclesiastico dell’istruzione» (Criscione [2010], p. 3). 4 Importante, su questa rivista, lo studio di Giuseppe Barone (1979). 1 2 104 come ha osservato Corrado Dollo -), nei confronti della contemporanea cultura europea.5 Particolarmente significative, e note, tra le sue opere, sono, comunque, L’antico carnevale della contea di Modica e Le parità e le storie morali dei nostri villani, in quanto Guastella vi sperimenterebbe il «modulo inventivo che gli sarà più proprio: saggio psicologico, indagine sociologica, racconto e, tutt’ insieme, fabula tragicomica, invenzione intellettuale».6 Non grande considerazione, invece, ha avuto il poemetto Vestru, che in realtà risulta, ad una lettura attenta, interessante per vari motivi. Esso, apparso nel 1882, costituisce, intanto, dopo la raccolta giovanile La religione del cuore, la sola opera creativa in versi scritta da Guastella, che dichiara, nell’Introduzione, di aver utilizzato, per ritrarre «costumi, credenze, e affetti vivissimi nelle nostre montagne sino al 1860»7, la vera parlata di Chiaramonte. Esplicita è, cioè, la polemica contro la tradizione precedente dei poeti dialettali, colpevoli, agli occhi di Guastella, di aver usato una lingua «sicilianizzata» anzichè «siciliana».8 Guastella è invece convinto che il popolo abbia una sua naturale attitudine ad una lingua letteraria, differente da quella parlata. Egli, in sostanza, si pone il problema di una ‘questione della lingua’, schierandosi contro i fautori della teoria manzoniana. Dice, infatti: Non cadendo dubbio sulla preferenza da usarsi verso la lingua viva, non può cader dubbio, nemmeno sul metodo più acconcio ad apprenderlo, dacché, per noi, non ci sia bisogno di andarla a pescare fra le acque dell’Arno, trovandola un po’ disadorna, egli è vero, ma bella e gentile sulla bocca delle nostre trecche e dei nostri villani.9 Tali affermazioni egli ripeterà nel 1876, nei Canti popolari del Circondario di Modica, a proposito della poesia popolare siciliana. Egli vi scorge la possibilità di rinnovare la nostra tradizione poetica, piena di espressioni trite e convenzionali e, soprattutto, il siciliano gli sembra essere il dialetto più vicino ai modi schietti e spontanei di cui è pieno il fiorentino, anche se poi si accorge che molte immagini, simili nei siciliani e nei toscani, sono, nei primi, «frutti spontanei del linguaggio», nei secondi «sembrano che ci stiano messi a pigione».10 Non a caso, perciò, Guastella, delle opere letterarie di Tommaso Campailla, considera libera dall’influsso negativo ricevuto dal Secentismo e dall’Arcadia, solo «la canzone dialettale, un prodotto genuinamente popolare che esprimeva con spontaneità e immediatezza gli “affetti del Volgo”».11 Dollo (1979). Tedesco (1974), p. 16. 7 Guastella (1973), p. 5. Tutte le citazioni dal poemetto si riferiscono a questa edizione. 8 Guastella (1973), p. 5. 9 Guastella (1863), p. 23. 10 Guastella (1876), p. XXXV. 11 Criscione (2010), p. 11. 5 6 105 La predisposizione che Guastella ritiene il popolo abbia della poesia lo porta a delineare, nei Canti popolari, le caratteristiche di una Metrica popolare mentre nella Introduzione a Vestru egli dà degli esempi concreti delle differenze, riguardo la pronunzia, i vocaboli, le locuzioni, i costrutti, fra la lingua usata dal popolo nella quotidianità e quella adoperata nella poesia. Le cinquantanove sestine del poemetto presentano una costruzione letteraria. In primo luogo, i versi sono tutti endecasillabi, con rima alternata nei primi quattro e baciata negli ultimi due. Numerose sono poi le figure retoriche. Si riscontrano soprattutto anafore, che ben raggiungono lo scopo di sottolineare efficacemente un concetto, un’immagine: Sempre scuntenti, sempri lastimusa [da notare anche l’allitterazione della s] (sest. 6). R’allura ca trasìu ni la mè casa, / Trasìu lu ‘nfiernu, trasìu la rruina, / Pasqua si ll’ammizzìggia e ssi la vasa. / E rrosa sempri ‘ngrata e llivantina. / Pasqua si cci fa ttera ppi ddavanti, / E Rrosa sempre ccu la nasca tranti (sest. 7). Sugn’arriruttu ‘n pupu, ‘n strummuluni, / Sugnu ‘mmienzu ru’ fuoddi, e ‘unn aiu testa, [...] Or’ ha li vranchi, ed ora la ‘stirìa, / Un piezzu cianci, ‘n piezzu scaccanìa (sest.8). Quantu ti mànciu! Quantu mi sazzìu! (sest. 9). Senz’arti, senza parti e ssenza luocu (sest. 13). Mancu ‘na scava!... mancu ‘na criata! (sest 18). Batt tri bboti, e bbatti li rinòccia (sest. 20). Tutta si vrucculia, tutta s’arrizza (sest. 25). Vestru, cci vo’ lu strattu ppi lu sucu... / - / Vestru, ‘n cc’è uòggiu... - Vestru, ‘n cc’è sapuni... / Vestru, ‘n cc’è ffraschi... [...] / Vestru, viri ca cc’è la lavannera... - / Mièggiu la furca! Mièggiu la jialèra! (sest. 33). Nnu strìnciri! - Te’ cca, puorcu ffuttutu! / Nnu strìnciri! - Te’ crozza ri lignami (sest. 36). Passa lu friddu e mmanni lu pitittu, / Passa la frevi, e mmanni la mazziata (sest. 42). Va, scava terra, va, testa ri jizza (sest. 51). Ma sta dduttrina mia nu nciuv’ a nenti, / Sta duttrina ‘n mi lleva ri li vai (sest. 59). 106 Frequenti sono anche altre figure della ripetizione. Si notano, in particolare, delle epanalessi12 e delle anadiplosi13 mentre sono più rare le ripetizioni triplici 14 e le epifore.15 L’accurata elaborazione formale è confermata dagli enjambements16, dai chiasmi17, dalle anastrofi18, dagli iperbati19, dai paragoni20, dalle interrogative retoriche, che contribuiscono, insieme alle esclamazioni, ad accrescere la vivacità del discorso: e ddà cchi ttruovu? (sest. 15). Ora ppi quattru comu po’ bbastari? (sest. 16). Ma cchi llievu? C’accurzu? Ccgu rrarugnu? / Lievu l’uòggiu, li fraschi o li sapuni? / Lievu?... CChi llievu?... (sest. 38). Questa impalcatura letteraria non è in contrasto con alcune espressioni particolarmente colorite e perfino volgari, ma ammesse da Guastella in quanto proprie del popolo. E, d’altra parte, pure per questo Guastella poteva guardare agli esempi forniti, nella nostra tradizione letteraria, da tutta una corrente di poesia popolare, elaborata da poeti colti e padroni dei propri mezzi espressivi. Strettamente legato al linguaggio è l’argomento trattato, la vicenda di un uomo, Vestru, abbreviativo di Silvestro, che si trova a vivere in estrema miseria, senza alcuna speranza di poter cambiare la sua condizione. Sin dall’inizio del poemetto balzano in primo piano alcuni temi che saranno tipici di Guastella, e cioè il tema economico, in primis, e quello della ‘tinturìa’, ovvero di quell’ inerzia ed incapacità di agire che Guastella condannerà in altre sue opere (Fra Rocco, Padre Leonardo, Due mesi in Polisella), attribuendone le cause ora ai singoli individui ora al cattivo governo della Sicilia. L’inerzia coinvolge tutti i ceti: 12 «E Pasqua mura mura po’ ìmpicari» (sest. 16); «Vasa la terra, e ggrira: Iesu, Iesu!» (sest. 20); «Propria pròpria ‘n cci pienzi a lu vattìu?» (sest. 26); «A la sira mi curcu ‘mpizzu ‘mpizzu» (sest. 34); - «Fu’ mmalatu, e ‘n li sacciu bbuoni bbuoni» (sest. 47); «La notti va curriennu luna luna» (sest. 55). 13 «- Rosa, cu’ spunta? - Spunta ‘n cucuzzuni» (sest. 12); «La sira m’arriquòggiu, e ddà cchi ttruovu? / Truovu li sona, e tutti li vicini» (sest. 15); «E ddè cchi ttruovu? Truovu ‘na rruina» (sest. 32); «- Li casi quantu su’? - Su cciù ri cientu» (sest. 48); «E dduttrineddi ora ni sacci’ assai / Sacciu ca lu Signuri ha ‘n marzapanu» (sest. 52-53). 14 «Mamà, mamà, mamà...» (sest. 12); «Talè, talè, talè!» (sest. 34). 15 «Nu nzugnu nenti, ‘n m’arrinèssci nenti» (sest. 37). 16 «vera simenza / Ri nanni e rritinanni affamatizzi» (sest. 1). 17 «Nun aiu figgi e cciànciu li niputi» (sest. 1). 18 «Di dda gran tinturìa la quintassenza» (sest. 1); «Ca crìsciri mi fa» (sest. 32). 19 «Ri fàricci vattiare ti cunzìggiu» (sest. 5); «C’a sdari mi piggiau la me furtuna» (sest. 36). 20 «E Blasi sparma comu ‘n puorcuspinu» (sest. 13); «La rrobba veni e bba comu lu vientu» (sest. 21); «E pparru sulu comu li spirdati» (sest. 41). 107 [...] il fatto dei fatti gli è che l’accidia ci mangia vivi. [...] Domandatene ai nostri villici [...] se qualcuno di essi che per grassa mercede o per guadagni onesti e inonesti si trova in serbo una decina di piastre, non ha il ticchio di gettarle in fondo alle taverne, alle biscazze e all’altro che vien di seguito, pria che abbia voglia di rimettersi alla fatica. Domandatene ai nostri artigiani [...] se l’artigiano invece di badare amorosamente e assiduamente alla lesina, al rasoio, alla pialla, all’incudine, e alla cazzuola, non ami meglio di far un buco in ogni suo giorno di lavoro, e introdurvi bel vello la frullatina della chitarra, lo studio della cabala di Rutilio, la graziosa scampagnata, o la graziosissima zecchinetta. Domandatene ai nostri reverendi [...] Domandatene ai nostri ricchi [...] e troverete che l’accidia sembra il genio domestico [...] Domandatene alle nostre donne [...] Non è forse vero che in Chiaramonte potrebbero esistere e pure non esiste un’industria? [...] Non è forse vero che il territorio essendo fertile di vini, di olii, di biade, di mele, di cera, di caci, di lane, e via discorrendo, non ci è alcuno fra noi che si mova a specularci, di sopra [...].21 Poi, anche se nell’articolo La natura e la Sicilia22 la responsabilità dell’apatia in cui versa la Sicilia viene attribuita alla cattiva amministrazione cui l’isola è stata sottoposta, nel romanzo Due mesi in Polisella l’accento è posto, nuovamente, sui singoli individui: In Sicilia [...] ci è [...] una inimicizia ardente, ostinata, incurabile fra l’uomo e la natura. La natura [...] gli largì la più bella parte dell’orizzonte, il sole più lucido, le stelle più splendide, il mare più azzurro, le campagne più amene, e pare gli abbia detto: Sii artista: colora, scolpisci, armonizza! Ma l’uomo gli voltò bruscamente le spalle e si diede invece ad oziare. Se non artista, sii almeno industrioso, gli replicò la natura. [...] Sii industrioso, e sarai novamente un gran popolo. Ma per far ciò, rispose l’uomo, è forse uopo che io lavori? Vorresti di no? Allora tienti in tasca l’industria, replicò l’uomo sbadigliando, e si contentò piuttosto esser cantastorie. O romita, o polacco, o cerretano, anziché agricoltore, o commerciante, o marino. Almeno sii uomo di scienza, rincalzò la natura quasi piangendo, più che per altro, io ti avea destinato per questo. [...] Va per la tua strada, replicò l’uomo stringendosi nelle spalle; o se mi hai affetto davvero, insegnami piuttosto qualche cabala per vincere al lotto!».23 Allo stesso modo è intesa l’inerzia in Padre Leonardo. Il frate la rimprovera al nipote: «Torna di nuovo al lavoro... Torna di nuovo all’onestà della vita... Che cosa farai coi tuoi vizi?... con l’inerzia che ti rode? coi desideri insaziabili?».24 In Vestru, la ‘tinturìa’ comincia a manifestarsi nelle parole del padre del protagonista, nella terza sestina, che svela, perciò, la vocazione teatrale del poemetto, confermata dai discorsi diretti degli altri personaggi. Il padre attribuisce la sua povertà a «li disgrazzi e li rra lliti» (sest. 3): allude, cioè, ad una perdita del patrimonio in conseguenza di rovesci di fortuna e, molto probabilmente, di litigi per motivi economici; consiglia perciò al figlio di sposare una donna, Pasqua, che ha un ricco amante. Comincia in tal modo a configurarsi Guastella (1976), pp. 203-204. Guastella (1976), pp. 10-12. 23 Guastella (2000), p. 274. 24 Guastella (2001), p. 195. 21 22 108 una società basata su un’etica molto discutibile, su comportamenti amorali, e in cui tutto è subordinato all’utile individuale: preannuncio, questa situazione, di un sistema di valori più organicamente descritto nelle Parità e le storie morali dei nostri villani. La ‘tinturìa’ di Vestru consiste nell’ incapacità di fronteggiare o di modificare tale mondo, per cui egli diventa vittima della moglie che aveva sposato, paradossalmente, per sistemarsi e prefigura tutti quegli inetti di cui pullula la letteratura del Novecento. La vicenda familiare di Vestru è, quindi, molto diversa da quella delineata nelle Parità, in cui, invece, il marito è il capo assoluto e la moglie una sua proprietà25 e, semmai, si riallaccia a varie figure letterarie di mariti tiranneggiati dalle mogli. Tutte le scelte e le decisioni della moglie si rivelano così deleterie per Vestru: l’adozione di una figlia, il suo matrimonio con don Blasi, anche lui in preda all’inerzia e quindi assolutamente privo di voglia di lavorare, per cui Vestru, che rimpiange i tempi in cui era vivo don Gnanu, l’amante di Pasqua, si trova nella necessità di provvedere ad un’altra bocca da sfamare. Egli conduce una vita di espedienti, come molti popolani delle Parità: d’estate confeziona, in modo da poterli vendere, aquiloni per i bambini, a Carnevale maschere, in primavera costruisce gabbie per i cardellini, in Quaresima trottole, a Natale prepara immagini del Bambino Gesù. Per altri aspetti, però, i rapporti che si instaurano fra Vestru, la moglie e la figlia ricalcano situazioni delle Parità, in particolare la vicenda di zio Clemente: come lui, Vestru è circondato da mille attenzioni quando porta a casa molti soldi, è maltrattato quando non riesce a racimolare abbastanza. Oltre alla preminenza del danaro, possiamo notare, in Vestru, una religiosità mista alla superstizione: quando la figlia Rosa smania perché vuole un marito, Pasqua dapprima promette di andare a piedi scalzi fino a Melilli, presso il santuario di S. Sebastiano, poi una vecchia le suggerisce la ricetta per una pozione da far bere al primo uomo che vedrà passare, per farlo interessare a Rosa. Così avviene. Successivamente, quando Pasqua inveisce contro il marito, prega Dio di mandargli ogni tipo di maledizioni. Per questi temi ci richiamiamo alla terza Parità, in cui è messa in evidenza la diffidenza dei villani per i medici e, al contrario, la loro fiducia nelle virtù magiche e terapeutiche di alcune popolane. E nei Canti popolari del circondario di Modica, il capitolo quinto, intitolato Le Superstizioni, illustra quanta parte abbiano le credenze popolari, le superstizioni, nella religione professata dai villani. Lo stesso concetto Guastella ha sostenuto nel 1861, nell’articolo intitolato La tolleranza dei culti, in «Fra Rocco». Intanto Vestru, alle prese con i problemi della sopravvivenza quotidiana, non riuscendo a risolvere il dilemma: «Lievu l’uoòggiu, li fraschi o lu sapuni?» (sest. Ricordiamo la seconda Parità, in cui la moglie è collocata, nella scala dei valori del villano, più in basso dell’asino, e la quarta, in cui sono esplicitamente descritti i rapporti di sudditanza della moglie nei confronti del marito. 25 109 38), tutti e tre considerati indispensabili, attribuisce la resposanbilità delle sue disgrazie alla sorte, che lo perseguita nonostante egli non abbia fatto del male ad alcuno e si prodighi per tutti i suoi amici. Emerge perciò la convinzione di una profonda ingiustizia della vita. Ma se Vestru si sente indadeguato ad affrontare la quotidianità, riconosce la sua propensione alla lettura, pur avendo abbandonato la scuola a meno di tredici anni a causa delle punizioni corporali a lui inflitte. La rievocazione che Vestru compie degli anni passati a scuola, del suo maestro, del suo metodo di insegnamento, costituisce un duro atto di accusa di Guastella nei confronti del sistema scolastico del suo tempo: argomento, questo, sempre molto caro per Guastella che lo sviluppa anche in altre opere. 26 Osservazioni polemiche riguardo il sistema scolastico dell’epoca puntellano, infatti, sia «Fra Rocco» che Due mesi in Polisella e Padre Leonardo. Il 21 marzo 1861, per esempio, Fra Rocco asserisce che l’«istruzione pubblica è maladettamente trascurata da Palermo a Torino. Le Università del Regno sembran poi più caverne che università» (Un progetto, in Fra Rocco cit., p.97); il 7 maggio 1862 denunzia la situazione di Chiaramonte: Scuole [...] ce ne son quattro: una per femmine, e tre per maschi. La maestra femminile è una delle più brave che ci sieno in Sicilia, tranne il piccolo difettuccio di leggere con qualche stento, e di non sapere scrivere affatto: [...] i due maestri dell’elementare son bravi ambedue, ma le loro sciole sono simili alle posados della Mancia, ove il viaggiatore [...] è costretto a recer con sé il letto, la sedia, il pitale, il cibo da cuocere, e la pentola ove cuocerlo. [...] gli scolari di Chiaramote, oltre all’acculacciarsi sul pavimento, non hanno arredi di sorta, che pure il regolamento dell’istruzione pubblica ha creduto indispensabili per le pubbliche scuole.27 Ecco, quindi, come viene rievocata la formazione di Eustachio, in Due mesi in Polisella: [...] fu menato a scuola, e [...] dall’abbiccì passò alla grammatica, e dalla grammatica alla umanità. [...] Si trascinò così per sette od ott’anni, sapendo a menadito le battaglie dei Romani coi Cartaginesi, e quelle dei Messenii con gli Spartani: ma ignorando compiutamente la storia del proprio paese: sapendo che l’aglio è un’erba odorosa, gicché l’ha asserito Virgilio; e il finocchio un’erba corroborativa dei vecchi, gicché l’ha affermato Aristofane; ma ignorando compiutamente come si semina il grano, e come si spremono l’uve.28 E padre Zaccaria, in Padre Leonardo, ricorda le violenze fisiche inflitte dal maestro, il suo dispotismo, l’obbligo di parlare in latino. Conosciamo, del resto, l’attività di Guastella come insegnante, il suo impegno per «urgenti e concrete Utile, per conoscere l’opinione di Guastella sul tipo di istruzione impartito dai religiosi nei primi decenni dell’Ottocento, che egli stesso ebbe modo di sperimentare, è il Ricordo necrologico di Ignazio Ottaviano (Ragusa, 1881). 27 Guastella (1976), p. 214. 28 Guastella (2000), p. 308. 26 110 riforme di programma e di concetti pedagogici»29 che lo ha portato a pubblicare, nel 1863, Dei ginnasii di Sicilia e dei metodi più opportuni. Ricollegandosi a queste convinzioni, Guastella afferma, nelle sestine finali del poemetto, l’esigenza di un sapere utile, che fornisca, cioè, delle risposte ai problemi dell’uomo. Vestru, difatti, asserisce di aver acquisito, lasciata la scuola, delle conoscenze, di cui dà un saggio nelle sestine 53-58: si tratta, però, di leggende, di concetti frutto di tradizioni popolari, e non a caso si riferiscono a questi versi ben metà delle note esplicative, che riportano, come vedremo, i racconti di popolani da cui Guastella ha ricavato i concetti esposti da Vestru. Questi arriva alla conclusione che tali conoscenze non gli sono di nessun aiuto e che egli non ha scampo nella sua vita. Il poemetto si conclude così nel più cupo pessimismo. Seguono le ventiquattro note esplicative in cui Guastella trascrive abitudini, costumi del popolo come gli sono stati raccontati, annotando pure i nomi delle persone che glieli hanno riferito. È questa la parte in cui più si avvertono i riflessi degli interessi e dell’attività di Guastella quale studioso delle tradizioni popolari e in cui il materiale raccolto non è ancora considerato come una base da sottoporre ad una rielaborazione personale. Un grande interesse per gli studi demologici Guastella aveva già dimostrato nei Canti popolari del Circondario di Modica, la cui introduzione, soprattutto, è utilissima come punto di partenza per tratteggiare l’evolversi dell’atteggiamento di Guastella nei confronti di questa disciplina. Difatti, nei capitoli III (I costumi della contea), IV (Le feste religiose), V (Le superstizioni) Guastella fornisce un quadro completo del carattere, delle abitudini, dei costumi degli abitanti della contea di Modica, ponendosi molto vicino al Pitrè30 degli Usi e costumi del popolo siciliano. A proposito, però, della sua raccolta di canti, Guastella prende le distanze dai contemporanei studi di demopsicologia, mostrandosi più attento agli esiti estetici, ai valori artistici: So benissimo che gli studi intorno al dialetto son divenuti scienza arditissima d’investigazioni, e che la etnografia, la filologia, le religioni, le credenze, i costumi vi attingono a piene mani: ma io ho voluto attenermi invece alla sola bellezza dei nostri canti, che per molti aspetti è maravigliosa, ho voluto attenermi alle somiglianze del nostro linguaggio col toscano del primo secolo, e, ove si è offerta l’occasione, anche ai confronti dei canti consimili degli altri dialetti della Penisola. Chi volesse cercare nella mia raccolta intendimenti più vasti s’ingannerebbe.31 Questi due aspetti della sua personalità, quello dell’artista e quello dello studioso di tradizioni popolari, tendono a fondersi nelle sue opere più mature, in 29 30 Lo Nigro (1979), p. 29. L’amicizia tra Guastella e Pitrè è attestata dalla loro corrispondenza epistolare. Cfr. Brafa (2003). 31 Guastella (1876), p. XXXVII. 111 cui il patrimonio popolare è rielaborato artisticamente, e la fusione perfetta è realizzata nelle Parità. Sotto questo punto di vista, Vestru rappresenta perciò una fase di passaggio ma che anticipa aspetti importanti della letteratura del Novecento. Cinzia Gallo cinziagll@virgilio.it 112 Riferimenti bibliografici Barone (1979) Giuseppe Barone, Ideologia e politica nel Fra’ Rocco (1860 - 1862), in «Serafino Amabile Guastella e la cultura contadina nel Modicano», Atti del Convegno (Modica Chiaramonte Gulfi, 13-16 marzo 1975), «Archivio storico per la Sicilia orientale», a. LXXV, fasc. I, 1979. Brafa (1999) Giorgio Brafa, Serafino Amabile Guastella, Catania, Prova d’Autore, 1999. 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Guastella most neglected by critics highlighting some very interesting aspects: Guastella plays there deals with a sort of language questions, as he criticizes the previous Sicilian poets for having used a Sicilian rather than Sicilian language. Instead, the people have a natural aptitude for a literary language, capable of renewing our poetic tradition, full of trite and conventional expressions. The “tinturìa” of the protagonist, then, that is his inertia and inability to act, seems to anticipate the analogous themes of twentieth - century literature. The poem ends with twenty - four explanatory notes, in which Guastella transcribes the uses and customs of the Sicilian people, including the names of the people who told them about them. It thus bears witness to the two souls of Guastella, that of the scholar of popular traditions and that of the artist. Parole-chiave: Guastella; realismo; popolo; lingua; tinturìa. 115 ALESSANDRA MARFOGLIA, Nella 'rete'. Società borghese, esercizio di potere, diritto e consapevolezza tra XIX e XX sec.: Clarice Gouzy Tartufari racconta una donna del suo tempo Adesso lo comprendeva, le considerazioni di suo padre, generiche in apparenza, si erano avanzate adagio, simili a una marea che salga, ed ella era rientrata in casa coll'impressione non ben definita di trovarsi prigioniera sopra uno scoglio a contemplarvi, per il suo avvenire, un orizzonte determinato.1 Clarice Gouzy Tartufari (1868-1933), autrice prolifica2, tradotta all'estero e nota alla critica letteraria a lei contemporanea (ma pressoché inesistente nei manuali di letteratura di ieri e di oggi), nei suoi testi mette nero su bianco una realtà nota a tutti ma riconosciuta da pochi: la completa insussistenza della persona-donna all'interno di un sistema relazionale fondato su rapporti di sudditanza. Cosa intendo per persona-donna: una individua che esiste e agisce consapevolmente e in piena autonomia, e che è riconosciuta come soggetto attivo sul piano sociale, istituzionale e giuridico. Tartufari racconta questa condizione e l'acquisizione di consapevolezza (prevalentemente acritica) di tale condizione. In Rete d'acciaio, romanzo pubblicato nel 1919, l'autrice dispiega la tragica parabola di due sposi dell'alta borghesia: una donna che accetta in tutto la volontà del padre prima e del marito poi; e un uomo gelosissimo che tenta di salvare la moglie dalla propria aggressività decidendo di vivere lontano da lei. L'esito sarà comunque tragico. Ma la morte di Ilaria, questo il nome della protagonista, rappresenta l'annientamento fisico di un corpo che durante la sua esistenza non le è mai appartenuto. Come già altri scrittori e scrittrici (penso a Roberto Bracco, Luigi Pirandello, Pia Rimini, Luigi Chiarelli), Tartufari mette il lettore al cospetto di una società fortemente coattiva sia per gli uomini che per le donne. Nei loro testi, infatti, entrambi sono indotti a ripetere modelli già predefiniti e, istituzionalmente e giuridicamente, avallati.3 Tuttavia la 'parte' che sembra essere assegnata alla Tartufari, (1919) p. 16. Tartufari ha pubblicato due libri di poesie, due di novelle, diciassette romanzi, nove drammi teatrali, e numerose novelle in riviste. 3 Un esempio da Luigi Pirandello: «Come tutte le donne di quell'odiato paese [...], Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l'unica rosa lì tra le spine, s'era invece acconciata subito, senza rammarico, come d'intesa, alla parte modesta di badare alla casa [...]. Entrambi a forza erano stati spinti a lasciar la propria via», in Formalità, Pirandello (2011), p. 99. Questi autori, mettendo in 1 2 116 donna, è quasi sempre secondaria, subordinata a qualcuno o qualcosa, il che significa in primis che c'è una differenza qualitativa nei rispettivi diritti.4 Ma le motivazioni di tale disparità, non sono semplicemente ascrivibili a un generico sistema comportamentale comunemente condiviso.5 Che ci fossero, soprattutto, motivazioni legate alla difesa di posizioni e di interessi precisi, era già noto e reso noto allora6, e non solo da esponenti dell'attività politica o dei nascenti partiti, ma proprio da scrittori e scrittrici. È verosimile affermare, infatti, che tra la fine il XIX e il XX secolo, la popolazione apprendesse non solo la storia, ma soprattutto il presente, attraverso romanzi, novelle, testi teatrali, film, e tutto ciò che oggi definiremmo 'produzione finzionale'.7 Ed è proprio in questo stesso periodo che quella disparità venne giuridicamente legittimata nel territorio italiano, e al 'diritto' e alle leggi in vigore, l'autrice fa diretto riferimento anche in questo romanzo. La società 'nuova' Michel Foucault ha sostenuto che la fisionomia della società occidentale moderna avrebbe iniziato a prendere forma a partire dal XVII sec., quando la evidenza un condizionamento sociale latente (che non riguarda l'inconscio dell'individuo - allora oggetto di indagine soprattutto in campo medico con la psicanalisi -, ma un livello della coscienza che si rivela però passivo), hanno precorso le riflessioni che gli studiosi di sociologia porranno all'attenzione nella seconda metà del XX sec. Cfr. Berger-Luckmann (1966) in cui gli autori descrivono i ruoli sociali in questi termini: essi «rappresentano l'oggettivazione pratica della struttura della società» (p. 113), per cui: «secondo la propria specificità, ciascun ruolo porta con sé un annesso di conoscenza socialmente definito». Gli individui, quindi, uniformiamo la loro «condotta» (p. 84) a «modelli prestabiliti» fissati, di volta in volta, dalle istituzioni, e attraverso cui queste la «incanalano», cioè esercitano il «controllo» sociale, (p. 84). 4 Per una chiara analisi e ricostruzione storica dell'origine ed evoluzione della 'questione femminile' in Italia, cfr. Bortolotti (1974; 1975). Per quanto riguarda in che modo scrittori e scrittrici del primo Novecento, abbiano restituito nei loro testi la condizione della donna, non sono ancora stati fatti studi sistematici ed esaustivi. Diverse e ricche, sono le raccolte di testi dedicate alle scrittrici dell'epoca. Alcune, però inseriscono l'attività di queste autrici all'interno di una visione che resta parziale, e il più delle volte ricondotta a un non precisato discorso 'femminista', riducendone la portata, e trascurandone le intenzioni politiche e sociali. Non è oggetto di questa riflessione il rapporto di Clarice Gouzy Tartufari con il femminismo (o forse sarebbe meglio dire con 'i femminismi'). A partire dai testi dell'autrice, dalle parole che ella ha scelto di utilizzare, cercherò di porre l'attenzione al contesto giuridico e istituzionale, proprio perché è l'autrice stessa a far riferimento ad esso nel raccontare le vicende e le vite di uomini e donne a lei contemporanei. 5 Cfr. Balestracci (2015). 6 Bortolotti (1974), p. 19. 7 Estendo qui un concetto contenuto in Balestracci (2015), p. 99, secondo il quale, a metà del XIX sec.: «buona parte degli italiani meno acculturati quel poco di storia che conoscono l'hanno appresa non dagli storici, ma dai romanzieri». 117 classe borghese incominciò a sostituirsi alla monarchia come classe dirigente.8 Nei due secoli successivi, la classe borghese, per garantire la propria sopravvivenza attuò una sempre maggiore 'normalizzazione' dei corpi prima, e delle popolazioni poi (subordinando i primi e controllando i secondi); cioè istituzionalizzò e normalizzò il suo sistema di potere, facendo della sessualità uno dei principali meccanismi del suo esercizio, e della donna il suo primo bersaglio e strumento9: Le personnage qui a été d'abord investi par le dispositif de sexualité, un des premiers à avoir été ''sexualisé'', il ne faut pas oublier que ce fut la femme ''oisive'', aux limites du ''monde'' où elle devait toujours figurer come valeur, et de la famille où on lui assignait un lot nouveau d'obligations conjugales et parentales: ainsi est apparue la femme ''nerveuse'', la femme atteinte de ''vapeurs''; là l'hystérisation de la femme a trouvé son point d'ancrage. (pp. 159-160) La famiglia borghese, afferma Foucault, dal XIX sec. divenne «instance de contrôle et point de saturation sexuelle» (p. 159), principalmente attraverso la normalizzazione dell'istituto del matrimonio, istituto attraverso cui la nuova classe dirigente voleva e poteva garantire la propria discendenza e la sopravvivenza del suo patrimonio. Nella pratica, questo significò la restaurazione di alcune strategie di potere che nel periodo rivoluzionario di fine XVIII sec. si era tentato di superare. Nel «diritto rivoluzionario»10, attesta Daniela Lombardi, il matrimonio era stato oggetto di importanti modifiche giuridiche, in quanto era considerato «la base di una società nuova» (p. 199). Per questo esso venne sottratto alla giurisdizione ecclesiastica (introducendo l'obbligo del consenso dei genitori per i minori di 21 anni), per questo venne introdotto il divorzio (anche per ragioni di incompatibilità caratteriale); «la potestà paterna venne abolita e sostituita dalla tutela esercitata da entrambi i genitori nell'interesse dei figli» (p. 196); «venne promulgata la legge che aboliva qualsiasi distinzione tra i figli: di nascita, di sesso e di età» (p. 198). Ma tale rivoluzione sociale incominciò subito a subire le spinte di forze restauratrici, in tutto il territorio europeo, e particolarmente in quello italiano. Basti citare l'art. 213 del codice civile francese del 1804 (noto come Codice Le radici risalirebbero al XIII sec. (con la regolamentazione del sacramento della penitenza da parte del Concilio Laterano del 1215), fino al diritto greco - passando per quello romano -, che aveva esteso la pratica dell'accoppiamento tortura/confessione, cfr. Foucault (1976), p. 78 e n. 1, p. 79, e pp. 161-163. 9 Sostiene Foucault che le strategie, messe in atto dalla classe borghese, non hanno determinato una repressione della sessualità, bensì ne hanno alimentato «le savoir», «les discours», facendone oggetto di rigida regolamentazione e analisi. 10 La ricostruzione storica e le prossime citazioni sono tratte da Lombardi (2008), p. 194, a cui rimando per i riferimenti bibliografici relativi all'argomento. Per un esempio dell'importanza, che rivestiva la questione relativa all'istituzione matrimoniale, durante gli anni della Rivoluzione Francese (1789-1799), crf. Desan (2006). 8 118 Napoleone), preso come riferimento in tutto il territorio europeo: «il marito deve a sua moglie protezione e la moglie deve a suo marito obbedienza» (p. 203). Il divorzio fu mantenuto, ma non fu più ammesso quello per incompatibilità di carattere, e «venne sottoposto a una serie di condizioni che lo resero poco praticabile»; venne ripristinata la patria potestà e «il consenso dei genitori al matrimonio venne richiesto fino a venticinque anni per i figli maschi (quindi oltre la maggiore età) e fino a ventuno per le figlie» (p. 121). Tra il XIX e il XX sec. tutte le spinte egualitarie, quindi, vennero ridimensionate, e venne istituzionalizzata la funzione utilitaristica e marginale della donna. Ancor di più col «diritto all'amplesso a fini procreativi»11, propugnato dal diritto canonico otto-novecentesco, che, afferma Marco Cavina, se da un lato predicava «una potestà maritale moderata e amorevole» (nel tentativo di limitare i fenomeni di violenza fisica tra coniugi), dall'altro riconosceva «il debito coniugale quale fulcro del rapporto coniugale» (p. 185).12 Di fatto, veniva legittimato lo stupro coniugale e il diritto sul corpo: la donna in quanto moglie doveva garantire la discendenza. Non a caso l'origine del termine matrimonio deriva da matris (genitivo di mater: madre) e munus: dovere, compito; quindi la finalità procreativa dell'istituzione è evidente (e così patrimonio deriva da patris, genitivo di pater: padre, e munus, per cui il dovere del padre, continua ad essere per la società borghese, quello del sostentamento della famiglia, della gestione dei beni). La condizione di liminità della donna, quindi, venne sempre più istituzionalizzata e, soprattutto, divulgata come 'naturale': «L'uomo è uomo. Se oggi uno mi volesse sposare e mi chiudesse dentro una prigione, io ci starei, e se mi offendesse anche senza ragione, io mi umilierei. Ricordati, figlia mia, che l'amore è l'amore». Leonetta taceva, incerta dubitosa di sé, non pervenendo a discernere se avesse ragione lei con la sua fierezza o avessero ragione gli altri coi loro argomenti accomodativi.13 Tali e tanti sono gli esempi di sottomissione della donna, che Leonetta, la ribelle protagonista di All'uscita del labirinto, arriva a dubitare del suo punto di La ricostruzione storica e le prossime citazioni sono tratte da Cavina (2011), p. 185. Cosi recita il Codex Iuris Canonici, del 1917: «Can. 1081: 2. Consensus matrimonialis est actus voluntatis quo utraque pars tradit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem». E se «il matrimonio civile», afferma Lombardi, «era in realtà il risultato di un lungo processo di espropriazione dei poteri ecclesiastici avviato fin dal XVI sec.», ancora nel XX sec. continuava a essere oggetto di contesa tra giurisdizione secolare e giurisdizione ecclesiastica, Lombardi (2008), p. 194. 13 Tartufari (1914), pp. 113-114. Per una riflessione sulle ragioni che si possono nascondere dietro questa accettazione femminile, cfr. Nochlin (1971), p. 204: «il loro è l'unico tra i gruppi o le caste oppresse da cui i padroni pretendano non soltanto la sottomissione, ma anche l'affetto incondizionato»; e per il concetto di amore, cfr. Millet (1970), p. 56. 11 12 119 vista; e lei stessa, quando è innamorata, sembra anelare alla sottomissione. Queste le parole che la ragazza rivolge al suo 'primo amore': – Perché mi rispondi così? Non sei tu che mi tiranneggi; sono io che desidero ubbidirti – E la tua ostinazione? La tua volontà? – [...] – Io non voglio essere più ostinata; della mia volontà non so che farmene. Mi basta la tua. (p. 359) La volontà della donna è considerata un nulla, ella esiste solo in virtù dell'uomo che le sta vicino. Condizione ampiamente testimoniata dal linguaggio istituzionale, che non solo era coniugato prevalentemente al maschile, ma rivelava di essere frutto di una volontà e di una concezione del mondo in cui l'uomo era il punto di riferimento. I codici civili e penali erano scritti in funzione dello status dell'uomo: art. 4 del Codice Civile del Regno d'Italia, 1865: «È cittadino il figlio di padre cittadino», lo status delle donne, quindi, era subordinato a quello del padre/marito, e raramente queste vengono denominate 'cittadine', mentre vengono menzionate in quanto 'mogli' e 'figlie'. Ancora più spesso erano date per sottointese. Traggo qualche esempio da un'istituzione socialmente rivelante: quella scolastica. Legge n° 3961 del 15 luglio 1877, se nel primo articolo si fa riferimento a 'fanciulli' e 'fanciulle', già nel secondo non è più così, rischiando di generare anche incomprensione: Obbligo scolastico. Art. 1. I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuta l'età di sei anni, e ai quali i genitori o quelli che ne tengono il luogo non procaccino la necessaria istruzione, [...] dovranno essere inviati alla scuola elementare del comune […]. Art. 2. L'obbligo di cui all'articolo 1 [...] comprende le prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino [...]; può cessare anche prima se il fanciullo... (Legge n 3961 del 15 luglio 1877) I termini fanciulla/fanciulle, non compaiono più, dobbiamo quindi, intenderli come sottointesi. Non siamo molto lontani dal 1833, quando la Società fiorentina dell'istruzione elementare indisse un premio finalizzato a «diffondere la morale e le cognizioni indispensabili al maggior numero de fanciulli italiani»14, con le seguenti intenzioni: Lo scopo della Società è quello di diffondere l'istruzione elementare specialmente nella bassa classe del popolo; i fanciulli debbono approfittare delle richieste letture dai sei ai dodici anni. Essa bramerebbe, che in quel periodo fossero i giovinetti iniziati a tutti quei doveri, che l’uomo dabbene debbe poi adempiere nel progresso della vita.15 In Parravicini (1842), p. 3. Vinse il premio il testo Giannetto, di Luigi Alessandro Parravicini, protagonista un maschietto che frequenta una scuola maschile. Testi di formazione come saranno poi, tra i più noti, Pinocchio (1881) di Carlo Collodi, e Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, in cui l'elemento femminile è pur presente e merita un'analisi approfondita. Per i testi di formazione destinati alle fanciulle cfr. Argenziano (2016). 15 In Parravicini (1842), p. 3. 14 120 Negli anni a seguire, di riforma in riforma, ciò che pertiene al maschile e ciò che pertiene al femminile, saranno sì più distinti, ma perché sessualmente connotati. Fino alla riforma della scuola elementare del 1923 che prevedeva: Art. 11. In tutte le scuole femminili si aggiungerà per tutte le classi il lavoro donnesco, e, per le classi superiori, l’economia domestica accompagnata da opportune esperienze. […] (Dal R.D. n° 2185 del 01/10/1923; Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell'istruzione elementare; G.U. n° 250 del 24/10/1923) Nella 'rete' 131. II marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza. (Codice Civile del Regno d'Italia, 1865) La vicenda narrata in Rete d'acciaio, inizia quando Ilaria è già sposa. Sono passati venti mesi da quando la giovane conobbe l'uomo che sarebbe diventato suo marito, e siamo all'anniversario del primo anno di matrimonio. Dopo un incipit dallo stile 'arcaico':16 Mentre il nuovo anno, trascinato da Oriente, sopra un carro di nuvole accese, entrava nella stanza dei giovani sposi, portando loro in dono lo stormire delle foglie, ... (p. 1) L'autrice fa subito introdurre l'argomento, che sarà il perno di tutto il testo, direttamente dalla protagonista, che con cristallina evidenza afferma: – È il primo giorno del primo anno che io ti appartengo, non è vero, Ippolito? (p. 1) E il nodo è qui: nell'appartenenza e nell'accettazione acritica di essa.17 Tutte le relazioni descritte nel romanzo prevedono una proprietà. Prendiamo il rapporto che intercorre tra Ilaria e Vaga (che potremmo definire come servetta privata): In passato la madre d'Ilaria, di famiglia patrizia siciliana, aveva raccolto l'orfanella di certi suoi coloni e l'aveva portata con sé, a Roma, donandola all'unica bimba sua [...]. Cfr. Morandini (1980), p. 23. Non è ancora stato fatto uno studio critico sull'opera di Clarice Gouzy Tartufari. Tuttavia, in questo e in altri romanzi, si evidenzia un doppio registro, e proprio alla doppiezza stilistica sembra finalizzata la intentio dell'autrice. Difatti, l'autrice sferza affermazioni lucidissime facendole irrompere da un contesto narrativo quasi manieristico. A una ‘apparenza’ rigogliosa e vivace, corrisponde sempre una realtà semplice ma fortemente condizionata. E proprio un mondo fatto di 'apparenza' è quello che viene messo in luce. In questo romanzo, oltre le evidenze che caratterizzano i protagonisti (ricchezza, bellezza, amore), emerge chiaramente il rapporto di sudditanza (psicologica e giuridica) che lega moglie e marito. 17 E in questa frase l'appartenenza è solo in una direzione: lei appartiene a lui. Non è un’appartenenza reciproca. 16 121 E Ilaria, purtroppo aveva fatto presto ad accorgersi che cosa significasse possedere una compagna fida. (p. 5) La società di riferimento di Ilaria prevede la proprietà del corpo18, e l'autrice lo evidenzia spesso nei suoi testi. In “Ti porto via!” Tartufari fa dire, durante un processo, all'avvocato che difende un marito che ha assassinato il presunto amante della moglie, queste parole: «Ma un uomo, con nervi e sangue, introducendo una donna nella sua casa e nella sua vita, non ha il diritto di esigerne l'anima oltreché il corpo?».19 Che il marito, col matrimonio, acquisisca il 'diritto al corpo' della moglie, quindi, è già dato di fatto (per questo è lecito esigerne l'anima). E per Ilaria, fino a quel giorno, era percepito come un fatto 'naturale'. Ma dopo l'ennesima improvvisa «ombra di un sospetto» (p. 3), che fa del marito un «tiranno indagatore» (p. 3), Ilaria avvia un processo di rielaborazione del suo fidanzamento-matrimonio. La rievocazione del passato la induce a riflettere sui fatti, per cui, l'iniziale impressione che quei fatti appartenessero a un libro che lei aveva «saputo scrivere» (p. 15), si scioglie, e, rielaborazione dopo rielaborazione, in lei si fa salda la certezza di essere stata fatta «prigioniera» (p. 16): Così una mattina [...] il padre l'aveva pregata, purché ella non avesse nulla da opporre, di lasciarsi baciare da Ippolito Basco lì presente [...], un segno bruciante come un suggello [...]; comunque, ecco che si era fidanzata [...], ella si era trovata sposa [...]. Intorno, a custodia del giardino incantato, le due famiglie avevano fatto catena, intrecciando voti. (pp. 16-17) Solo dopo tempo, e in seguito alla pressione esercitata dal comportamento geloso del marito, Ilaria avvia un processo di decostruzione e ricostruzione del passato, che le consente di acquisire consapevolezza dell'effettivo percorso che l'ha portata a essere sposa. Fino a quel momento, aveva vissuto come una 'viaggiatrice sonnolenta'.20 Ora è consapevole di essere «prigioniera»; che dal Nel XIX sec., sostiene Ágnes Heller, si è affermata una società basata sulla proprietà. La stima di sé, l'affermazione di sé, non verrebbe ricercata nella propria individualità (come incomincerà ad affermarsi negli anni Sessanta del XX sec. determinando importanti scontri sociali), bensì nel possesso, quindi in qualcosa di esterno e materiale, cfr. Heller (1978), pp. 170172; 174. 19 Tartufari (1933), p. 33. 20 Rosita, protagonista di ''Ti porto via!'', viene presentata dall'autrice in questo modo: «Percorreva di su e in giù, con andatura di sonnambula, il corridoio dell'appartamento, all'ultimo piano di un palazzo in piazza Campitelli.Vi era entrata da dieci anni, sposa indifferente di Alfonso, indifferente altrettanto, e ci aveva vissuto, ora per ora, viaggiatrice sonnolenta in una carrozza polverosa», Tartufari (1933), p. 6. Luigi Pirandello racconta così, nella novella Con altri occhi, l'acquisizione di consapevolezza di una donna: «Da tre anni forse, dal momento in cui era partita dalla casa paterna, ella era in quel vuoto, di cui ora soltanto cominciava ad assumere coscienza. Non se n'era accorta prima, perché lo aveva riempito solo di sé, del suo amore, quel 18 122 padre al marito, la proprietà, con l'atto del matrimonio, è stata ceduta. Ma pur consapevole, Ilaria non si oppone alla sua condizione di moglie, una condizione che non le consente molte alternative. Il romanzo, infatti, esce nel 1919, proprio di quell'anno è la legge n. 1176 del 17 luglio, ''Norme circa la capacità giuridica della donna''. Con questa legge vennero abrogati alcuni articoli, tra cui il n. 134 del Codice Civile, che recitava: La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali costituirsi sicurtà né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza autorizzazione del marito. Ma anche se per «tali atti», una moglie non aveva più bisogno dell'«autorizzazione del marito», tuttavia non essendo stato abrogato l'articolo 133, gli effetti sarebbero risultati limitati: Art. 133. L'obbligazione del marito di somministrare gli alimenti alla moglie cessa quando la moglie, allontanatasi senza giusta causa dal domicilio coniugale ricusi di ritornarvi. Può inoltre l'autorità giudiziaria secondo le circostanze ordinare a profitto del marito e della prole il sequestro temporaneo di parte delle rendite parafernali della moglie. Quindi, alla donna che restava nel profilo giuridico di 'moglie', venne sicuramente riconosciuto un diritto. Tuttavia, questo stesso diritto poteva in parte essere negato alle donne che avessero lasciato il tetto coniugale. L'art. 133, infatti, continuava a consentire al marito di ricorrere al giudice per usufruire delle rendite parafernali della moglie, ovvero di quei beni che non rientravano nella convenzione matrimoniale e di cui la moglie aveva piena disponibilità. Inoltre, restavano ancora in vigore tutti gli articoli, del Codice Civile, dedicati alla comunione dei beni e quelli che disciplinavano la definizione e la gestione della dote, di cui il «solo marito» restava amministratore (art. 1399). Per cui, seppur la 'donna' vedeva riconosciuto un diritto, in quanto 'moglie' difficilmente poteva vederlo garantito, perché nel contratto matrimoniale che aveva stipulato col marito, ella poteva avergli accordato pieni poteri nella gestione dei beni (condivisi o meno). Questa, una delle maglie, in un cui una moglie borghese come Ilaria, veniva a trovarsi stretta.21 vuoto; se ne accorgeva ora, perché in tutto quel giorno aveva tenuto quasi sospeso il suo amore, per vedere, per osservare, per giudicare», in Pirandello (2011), p. 476. 21 Un altro esempio letterario di allora, pubblicato la prima volta nel 1906, racconta di una situazione speculare, quindi opposta: Una donna di Sibilla Aleramo. Cfr. Aleramo (1921), in questo romanzo (autobiografico), la protagonista decide di allontanarsi dal marito, ma dovrà subire le conseguenze che il sistema giuridico impone. Non essendo previsto il divorzio, resterà 'moglie' con tutto ciò che il sistema istituzionale prevede: non avendo la patria potestà sul figlio dovrà rinunciare a vederlo; anche i suoi beni resteranno in possesso del marito; e nel caso iniziasse una relazione amorosa con un uomo, potrebbe comunque essere condannata alla prigione per 123 Ilaria dunque non penserà mai di separarsi da Ippolito, il quale continuerà a tiranneggiarla. Avranno un figlio; il marito sta fuori casa tutto il giorno per lavoro: «Per sentirmi relativamente libero, devo starti lontano» (p. 23); ma ciò non preoccupa Ilaria: «Giacché si compiace di trascurarmi, io ne sono felice! Almeno respiro» (p. 30). Egli, sempre per gelosia, uccide il cugino di lei, il processo si conclude con «verdetto assolutorio per vizio parziale di mente» (p. 84).22 Riprendono la loro vita coniugale, Ilaria non accenna mai a liberarsi dalla prigionia, e cerca l'evasione solo nella fantasia: «A lei interessava solo supporsi felice con Ippolito che fosse Ippolito senza l'orrore delle sue gelosie» (p. 90). Ma, paradossalmente (e qui Tartufari porta la situazione al limite), è proprio la non reattività della moglie a disarmare il marito: Mi sono rovinato per lei; sì, rovinato. Sono libero, sono assolto, sono ricco, energico [...], ma sono rovinato per lei. Ebbene, se qualcuno mi provasse che si tratta di un sogno, che quella donna non esiste, io mi sentirei rinato [...]. Se almeno si ribellasse, per me sarebbe una valvola; potrei reagire! (p. 99) Ippolito decide di vivere distante dalla moglie portando con sé il figlio23, la separazione sarà solo di comodo. Ilaria resterà moglie e madre, affidata allo sguardo del padre di lei. Ippolito non le concede, quindi, libertà. Inizia così, per la giovane protagonista di Rete d'acciaio, una vita solitaria, in una sorta di libertà vigilata. Avrà una breve relazione con un uomo. Dopo circa 15 anni il marito le chiede di raggiungerlo «Ti ringrazio di essere venuta. Del resto, non avresti potuto esimerti; ero nel mio diritto» (p. 213). Diritto che la stessa Ilaria difende, (come difende i suoi ruoli di moglie e madre), facendo allibire «di stupore» (p. 190) Manuele, un suo spasimante, le cui parole rivelano con chiarezza che si tratta di un 'diritto' declinato al maschile: – Che intendo fare? È inutile domandarlo. Si tratta di mio marito che torna e mi rivuole. Non siamo divisi. – Già, infatti, la legge è per lui, – disse Manuele con amarezza. – Ti abbandona per anni, senza ombra di colpa da parte tua, ti lascia, ti ripiglia e la legge è per lui. – Tacque, buttò sul tavolo i guanti che teneva in mano e con ira soggiunse: – Tu dovresti ribellarti. Una creatura umana non è il foglio bollato di un contratto che si tiene in un forziere per tirarlo fuori e valersene quando fa comodo. adulterio. Entrambe le protagoniste, quindi, vedono la loro esistenza fortemente condizionata dalle leggi in vigore. 22 «I periti psichiatri, di perfetto accordo, dichiararono di avere riscontrato nell'ingegnere Basco chiari sintomi di anomalie psichiche, in parte ereditarie in parte acquisite. Certo la sua gelosia aveva caratteristiche evidenti di morbosità», Tartufari (1933), p. 84. Che le ragioni del comportamento violento di Ippolito siano motivate da cause: comportamentali, psicanalitiche, biologiche, genetiche, ecc., è sì degno di nota, ma lo è ancor di più che questo sia giustificato e supinamente accettato dalla principale vittima e dal gruppo sociale a cui appartiene. 23 Allora la patria potestà era ancora esercitata dal solo padre, alla moglie spettava solo il diritto alla tutela legale della prole in caso di morte del marito. 124 Ilaria, crucciata, eresse fieramente il capo e gli rispose: – Mio marito non m'ha tenuta dentro un forziere; sono certa che mi ha tenuta dentro il suo cuore, né io sono il foglio bollato di un contratto: per Ippolito sono sua moglie, per Mario sono sua madre. Egli, allibito di stupore per una simile logica, provò un desiderio furioso di buttarsi sul tappeto bocconi, a braccia spalancate e urlare il suo spasimo. (p. 190) I due sposi, dunque, tornano a vivere insieme. L'amore, e anche la gelosia, sembrano non aver risentito del tempo trascorso, e quando, per puro caso, Ippolito trova una foto di un uomo con una dedica rivolta alla moglie, accecato dall'odio, prende una pistola che, questa volta, rivolge contro se stesso; Ilaria tenta di fermarlo e nella lotta scomposta parte un colpo che la ferisce a morte. Siamo giunti alla fine del romanzo. Dal testo deduciamo che Ippolito si è subito suicidato, perché «i due spiriti affannati si ritrovarono, si congiunsero» (p. 289), mentre «il lavoro umano» continuava indifferente e rumoroso. 'Diritto di vita e diritto di morte' Forse è una 'meteorite di un vecchio ordine'24 o forse 'l'idea che rimane anche se la minaccia effettiva può mancare',25 fatto sta che Ippolito sembra comportarsi come un sovrano che esercita il 'diritto di vita e di morte', diritto che, pur in una forma «considérablement atténuée», afferma Foucault «sans-doute dérivait-il formellement de la veille patria potestas».26 Un potere (quello del sovrano) che: «y était avant tout droit de prise; sur les choses, le temps, les corps et finalement la vie; il culminait dans le privilège de s'en emparer puor la supprimer».27 Ippolito si è impadronito di Ilaria, e suo rammarico, sembra, è il non riuscire a sopprimerla definitivamente (e qui, Ilaria, capovolge la situazione: è lei a esercitare un potere, pur in una condizione di sudditanza). Eppure, come Alfonso, il protagonista di ''Ti porto via!'', anche Ippolito avrebbe potuto rendersi libero, ottenendo la separazione in territorio estero. Ma questa possibilità non viene mai contemplata. Egli non rinuncia al suo dominio, al controllo, al potere che ha sulla donna (e che l'istituzione legge gli garantisce). E sempre in ''Ti porto via!'', Alfonso (marito omicida di un presunto amante della moglie), pur avendo cacciato di casa la donna, e convivendo con quella che era già da tempo sua amante, ha difficoltà a concedere il divorzio (che nel Regno d'Italia non era Cfr. Cavina (2011), p. XIV. Cfr. Mitchell (1976), p. 85. 26 Foucault (1976), p. 177. 27 Ivi, p. 179. Un 'diritto di morte', che, a partire dal XVII si sarebbe sempre più trasformato in 'potere sulla vita' la cui organizzazione si sarebbe sviluppata intorno ai due poli della disciplina del corpo e delle regolazioni della popolazione, cfr., ivi, p. 183. 24 25 125 previsto e che quindi si sarebbe celebrato a Budapest, in cambio di una forte somma di denaro) perché spesso: Si addormentava col prurito di non volerla dare vinta alla moglie e di obbligarla, col nodo scorsoio del codice, a rientrare nel domicilio coniugale. (p. 88) Il suo esercizio di potere, dunque, non consiste tanto nell'avere la legge dalla sua parte (che viene chiamata in causa per giustificare e motivare il comportamento), quanto nel far valere la sua autorità.28 Un'autorità che coincide con un 'io' che è sempre declinato al maschile, come pretende Vittore, il padre di Leonetta in All'uscita del labirinto: Dunque, secondo le tue teorie, un uomo, sul punto di diventar marito, non ha il sacrosanto diritto di far valere la sua autorità? così sragionano le femministe, ma spero che non saremo ancora arrivati a tanto. Naturalmente il padrone sono io qui dentro, ma per questo, perché io, che sono il padrone, ho ceduto mia figlia a un onesto giovane, lui può comandare e gli si deve ubbidire». (p. 113) L'opposizione è chiara: da una parte (quella della ragione) 'un uomo' con la 'sua autorità', all'opposto le 'femministe' che 'sragionano'. Il mondo è uomo (non dimentichiamo, che la donna viene da una sua costola): esso viene raccontato, scritto e legittimato a 'sua immagine'. 29 L'uomo è padrone, e a lui si deve ubbidienza, anche solo per soddisfare un 'prurito'. Nel romanzo Il miracolo, Vanna, la protagonista (nobile donna orvietana, giovane vedova), quando scopre che si vocifera sulla sua relazione con un professore tedesco, reagisce ergendosi fortemente a difesa della onorabilità del «nome suo nobile».30 Ella si identifica con la nobile casata di appartenenza, e, Alla fine, sarà lui a voler cedere alla 'superiorità economica' della nuova coppia che si va formando. Non è quindi il diritto che rende assoggettati (altrimenti i due sposi non avrebbero potuto comunque divorziare), ma la strategia attuata. 29E non è da sottovalutare la continua sostituzione e compenetrazione delle due visioni del mondo: secolare e ecclesiastica le cui comuni radici risiedono nell'esperienza patriarcale di affermazione romana (e di derivazione greca). Afferma Adriana Valerio che ancora nella fine del XX sec.: «La funzione della madre di Gesù è stata verbalizzata all'interno di una impostazione patriarcale che ha messo a fuoco il punto di vista delle prerogative maschili [...]. La Madonna rimane sempre subordinata a una controparte divina (Padre, Figlio e Spirito Santo) rappresentata al maschile. L'asimmetria sociale tra uomo e donna, propria dello schema androcentrico, e la conseguente dipendenza femminile si riflettono sia nei rapporti tra il divino e il femminile, sia nella costruzione dell'immagine di Maria, vergine e madre, funzionale alla cultura del clero maschile che l'ha sostenuta nei secoli, non mutando, oltretutto, nelle Chiese che la venerano, la condizione di subordinazione delle donne», in Valerio (2017), pp. 84-85. E proprio nel XVIII sec. aumentarono significativamente i fenomeni di «devozione popolare» e «la produzione di trattati teologici volti ad esaltare la figura della Vergine» (p. 73). Maria sarebbe stata sempre più imposta come modello di riferimento: Madre e Vergine (e anche 'bella': «la sua bellezza diventò un topos della letteratura devozionale e dell'arte», p. 40). 30 Tartufari (1925), p. 118. E a tal fine la inducono a comportarsi le parole del monsignore, sua guida spirituale: «– Oh! la mamma [...]. Non c'è sacrificio che ella compirebbe per te, per il 28 126 facendo le veci del marito deceduto pochi anni prima, agirà sempre 'in suo nome'. Non si farà scrupoli a «offrire in olocausto al Signore» il proprio figlio per ottenere «la remissione dei peccati» (la relazione con il professore tedesco, p. 137). Ella, infatti, convincerà il figlio tredicenne ad entrare in seminario per iniziare la carriera ecclesiastica. Utilizzando parole persuasive, anche Vanna esercita la sua autorità sul figlio, ma lo fa non in quanto donna, bensì nelle veci della casata a cui appartiene. Anche quando sembra essere soggetto attivo, in realtà, è la donna stessa a farsi testimone della propria inesistenza al di là della relazione con l'autorità di riferimento (che è sempre di matrice maschile, e nel caso di Vanna si tratta o di Dio o del suo nome). Anche lei, nell'esercizio della 'non sua' autorità, ne cerca una continua conferma, anche perché altrimenti rischierebbe di essere sovvertita (o, per dirla con le parole di Heller: perderebbe la stima di sé, cioè l'affermazione del proprio - supposto - sé); come sa Vittore, il padre di Leonetta in All'uscita del labirinto: Si trattava per lui di un dovere imperioso schiacciare nella figlia i germi di una ribellione latente e costante. (p. 37)31 Egli 'sa' che suo 'dovere' è: 'schiacciare i germi della ribellione'; e 'sa' di essere legittimato ad usare la violenza: sia psicologia (egli «impartiva ordini» che dovevano essere eseguiti «passivamente», p. 8), che fisica (continuamente ostentata o minacciata). Elemento comune, in tutte queste vicende narrate da Tartufari, è l'annichilimento dell'altro nell'esercizio/affermazione di una autorità. Un'autorità, quindi, che si rivela sempre violenta, qualunque sia la strategia utilizzata: dalla parola alla spada.32 Alfonso e Ippolito privano della vita due uomini perché convinti che siano stati gli amanti delle rispettive mogli. Essi stanno esercitando il loro diritto di proprietà sul corpo delle 'loro' donne, e sono legittimati a farlo: Art. 353. L'adulterio commesso dalla moglie è l'adulterio vero e proprio; l'adulterio commesso dal marito è quello che la dottrina chiama concubinato. (Codice Penale del Regno d'Italia, 1889)33 decoro del tuo nome, che è nobile, illustre nella storia, e che non va macchiato. Ricordati, Ermanno, il nome che si riceve in custodia dagli altri è un deposito sacro; non va macchiato. Chi non ne ha stretta cura manca ai suoi doveri di cristiano, turba le leggi del consorzio civile e dovrà renderne poi conto agli uomini in questa vita, al Signore nell'altra», ivi, p. 120. 31 Il romanzo si conclude con la giovane che sta conquistandosi una dipendenza economica grazie al lavoro. 32 Cfr. Foucault (1976), pp. 189 e 190. Dal XVIII sec., afferma Foucault, il 'diritto alla vita' ha sempre più sostituito 'il diritto alla morte', per cui le funzioni della legge sono state affidate alle norme che avrebbero sostituito la spada. Norme fortemente regolatrici, che controllano e organizzano meticolosamente ogni aspetto della vita degli individui: dalla nascita alla morte. 33 Cfr. Il Codice penale per il Regno d'Italia (1889), p. 126. 127 E la distinzione tra l'adulterio della moglie e quello del marito resterà giuridicamente invariata per decenni. Art. 559 (Adulterio) La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. / Con la stessa pena è punito il correo dell'adultera. / La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. / Il delitto è punibile a querela del marito. (Codice Penale del Regno d'Italia, 1930) Questo il testo integrale dell'articolo dedicato al reato di adulterio. Non ci sono articoli dedicati al marito adultero; egli resta condannabile solo per concubinato (art. 560). Tartufari racconta la società in cui viveva, una società fatta di leggi e comportamenti che incidevano con prepotenza sulla vita delle persone.34 L'annientamento fisico/esistenziale di cui le sue protagoniste sono vittime, dunque, è il sintomo, è l'espressione più feroce di un sistema comportamentale basato sulla sottomissione, condiviso e promosso da scelte giuridiche e istituzionali. Parafrasando Heller si può affermare che, ancora nel XX sec.: l'annichilimento dell'altro era un «comportamento socialmente importante» che non contraddiceva «le abitudini o le norme [...] accettate e incarnate nelle oggettivazioni sociali» (p. 31).35 Ginevra, la protagonista di Maestra (il racconto più noto dell'autrice), trova nel matrimonio, e quindi nel diventare 'moglie', la salvezza finale dal destino di povertà a cui il sistema (comportamentale/giuridico/istituzionale) l'avrebbe condannata. Ginevra si sposa per sopravvivere, perché non solo in quanto 'moglie', ma la donna in quanto tale, è privata del libero uso del suo corpo, della sua anima e della sua volontà. E il matrimonio di Ginevra solo apparentemente può sembrare il risultato di un adattamento alla morale corrente. Leggendo la conclusione del racconto, le ombre che aleggiano dietro una relazione di convenienza, sono rese con evidenza dall'autrice, che, anche in questo caso, rivela la sua presenza: Carlo e Ginevra sono maritati da tre anni ed hanno un amore di bambina che adorano entrambi. In apparenza la loro vita scorre adesso serena e tranquilla, ma non credo che siano completamente felici. L'amarezza della situazione è inserita in un contesto descrittivo quasi idilliaco: «Carlo e Ginevra sono maritati da tre anni ed hanno un amore di bambina che Nel corpo del romanzo ''Ti porto via!'', dichiarando la sua presenza autoriale, l'autrice svela: «Ma io racconto fatti invece di favole e non ho l'abitudine di dare la caccia alle invenzioni tra le siepi delle nuvole: vado piuttosto a sradicarle dalle zolle della realtà, assai più ricca d'impreviste bizzarrìe che non i ghirigori messi a posto con la penna», Tartufari (1933), p. 99. 35 Secondo Heller oggettivare fuori da sé la propria affermazione, e quindi 'bloccare' l'autosviluppo della propria personalità, genererebbe una frustrazione che è all'origine dell'istinto aggressivo, cfr. Heller (1978). 34 128 adorano entrambi», ma subito dopo viene introdotto il rovesciamento: «In apparenza». E la descrizione continua raccontandoci le 'ombre' ricorrendo a parole che dovrebbero ispirare armonia: serena, tranquilla, felici, dorati sogni, dolcezza, amore. Anche la povera Ginevra, dunque, si è 'acconciata' alla 'parte modesta'36 che il sistema imponeva alla donna, e lo ha fatto consapevolmente. Altro destino può profilarsi per Leonetta di All'uscita del labirinto, la quale può contare su una condizione economica meno precaria di Ginevra. Orfana di entrambi i genitori, e liberatasi da ogni legame sentimentale, alla sicurezza e alla protezione che all'epoca sembrava garantire il matrimonio, ella preferisce un lavoro: E spingendo un foglio bianco entro la macchina, comprese che era sola nella vita, ma libera, padrona del suo destino.37 Una libertà anche questa 'di legge'. Solo dopo il decesso del padre, la ragazza può finalmente sentirsi libera. Solo così, infatti, Leonetta si trova sciolta da quella 'potestà' che non le consentiva, fino a quel momento, alcuna scelta autonoma. In tutti questi testi i riferimenti alle leggi e ai condizionamenti sociali non sono pretesti letterari, ma piuttosto costituiscono il motore dell'agire dei personaggi. Il 'mondo' da cui è stata 'estrapolata la loro 'finzione narrativa'38 si distingue per l'affermazione di nuove strategie di potere39, tese principalmente alla difesa degli interessi di un gruppo sociale definito: quello di uomini benestanti; a danno, quindi, di altri gruppi sociali: le persone non benestanti, e, principalmente, le donne. Per cui gli scritti di Clarice Gouzy Tartufari sembrano fornire una conferma alla ricostruzione storica di Foucault, per il quale (nella sua ricerca finalizzata alla comprensione dei fenomeni che riguardavano «le società occidentali moderne»)40, la classe dominante, per preservare il proprio 'corpo' sociale, avrebbe sempre più esercitato il controllo del 'corpo' della donna attraverso tecniche di cui le norme giuridiche sono una delle espressioni. 41 La scrittrice ci fornisce, dunque, uno strumento utile per meglio approfondire un processo storico per molti aspetti ancora poco esplorato: l'istituzionalizzazione Cfr. ivi, n. 3. Tartufari (1914), p. 412. 38 Cfr. Bruner (2019), p. 107. 39 Cfr. Foucault (1976), pp. 121-122: «Par pouvoir, il me semble qu'il faut comprendre d'abord la multiplicité des rapports de force qui sont immanents au domaine où ils s'exercent, et sont constitutifs de leur organisation; le jeu qui par voie de luttes et d'affrontements incessants les transforme, les renforce, les inverse; les appuis que ces rapports de force trouvent les uns dans les autre, de manière à former chaîne ou système, ou, au contraire, les décalages, les contradictions qui les isolent les uns des autres; les stratégies enfin dans lesquelles ils prennent effet, et dont le dessin général ou la cristallisation institutionelle prennent corps dans les appareils étatiques, dans la formulation de la loi, dans les hégémonies sociales». 40 Foucault (2017), p. 8. 41 Foucault (1976), p. 159. 36 37 129 della disparità di genere. E comprendere l'origine, l'evoluzione, e le modalità di tale processo ci può aiutare a capire (e superare) la sopravvivenza di quelle dinamiche relazionali uomo/donna, fondate sulla disparità, il possesso e la violenza, ancora molto diffuse nelle 'società occidentali moderne' agli inizi di questo XXI sec. Pensate con quanta difficoltà gli uomini si decidono a ribellarsi! Per loro è sempre un'avventura, devono aprire e percorrere nuove strade, mentre ancora stanno al potere non solo i potenti, ma anche le loro idee. (Bertolt Brecht, Studio della prima scena del ''Coriolano'' di Shakespeare) Alessandra Marfoglia alessandra.marfoglia@uniroma1.it 130 Riferimenti bibliografici Testi Aleramo (1921) Sibilla Aleramo, Una donna (1906), Firenze, R. Bemporad & figlio Editori, 1921, <https://www.gutenberg.org/ebooks/47786>. Bracco (1905) Roberto Bracco, Maschere, Milano, Sandron, 1905. Bracco (1906) Roberto Bracco, Nel mondo della donna. 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Honour killing in Italy have only recently been delegitimized. However, “social meteorites from the old order continue to fall on our legislation” (my translation of Cavina, 2011). Gender-related killing of women and girls is, indeed, a deeply rooted historical phenomenon. It is related to the institutionalized notion of marriage as a heritage, according to which a woman is a future mother, hence a good. For this reason, marriage, be it institutionalized or not, is the relation between a possessor and a possessed. This relation implies the loss of the latter as a self, a body, a person. This short paper analyzes some texts by Clarice Gouzy Tartufari (1868-1933) and in particular her novel ''Rete d'Acciaio'' (The Steel Network), where she tells the story of a married couple who seems heading towards a fatal destiny. The husband tries to defend his wife from his own possessiveness, but he will end up killing her. Tartufari talks here about a body and a person being annihilated. Hence her focus is neither on the physical side of it nor on the husband. Rather, it is on the social and cultural context the character belongs to, which deprives her of her own self, because she is a ’female’. Parole-chiave: Novecento. Femminicidio; consapevolezza; Codice Civile; scrittrici; 136 PIER PAOLO PAVAROTTI, «Piuttosto mi adatterò in un grande angolino nella produzione italiana»: la intermittente riscoperta di Mario La Cava, tra classicità ed attualità In memoriam Leonardo Sciascia, custode inflessibile del proprio giardino (1921-1989) Oggetto precoce delle attenzioni di alcuni dei maggiori critici italiani negli anni ’40-’60, trascurato quanto alla produzione narrativa per le due decadi successive1 benché collaboratore di importanti quotidiani nazionali (dal Corriere alla Stampa, dal Giorno al Mattino), Mario La Cava (1908-1988 Bovalino) ricomincia dopo la morte, ma con significative intermittenze cronologicoeditoriali, a tornare – non al centro, quantomeno all’interno ‒ nel dibattito letterario e culturale italiano. Prima di esporne i motivi e gli sviluppi, ragione di questo contributo su un ‘minimo non minore’ della letteratura contemporanea2, è utile offrire un breve profilo bio-bibliografico di questo autore calabrese tra i più prolifici, rigorosi e penetranti del dopoguerra italiano. Di estrazione piccolo-borghese, con un discreto retroterra culturale (padre insegnante, madre casalinga poi memorialista3), La Cava dopo gli studi classici al liceo di Bovalino sale a Roma per frequentare la facoltà di medicina e quindi a Siena per laurearsi in giurisprudenza nel 1931. Presto stancatosi della mondanità del continente, torna a Bovalino e vi resta tutta la vita tra carte ed affetti.4 Il carico emotivo ed economico della famiglia traspare a tratti ossessivamente nei numerosi carteggi con editori e scrittori, in primis con Leonardo Sciascia, che Lettera di La Cava a Sciascia datata Bovalino 26 gennaio 1972 raccolta in LC (2018), pp. 461: «Se non riesco come narratore a persuadere i consulenti degli editori, vedrò se potrò persuaderli con le mie critiche». Lettera da Bovalino non datata (ma ottobre-novembre 1984) in LC (2018), pp. 476: «Dal 1980 non è uscito più nulla di mio». 2 Il titolo è preso dalla lettera datata Bovalino, 4 agosto 1987 in LC (2018), pp. 481-482. 3 Marianna Procopio, Diario e altri scritti, con prefazione di Piero Chiara, Rebellato, Cittadella (PD), 1962. Primi stralci in «Letteratura», a cura di Alessandro Bonsanti [= Procopio (1937)]. 4 Amici (2004), ad vocem. Emblematica nella sua rispondenza con l’amico Sciascia la lettera datata Bovalino, 13 luglio 1951 in LC (2018), p. 8: «pensavo a te, ritirato in un paese di Sicilia, al pari di me che ho sempre vissuto in Calabria». 1 137 sempre gli manifestò una stima ed un calore non facilmente eguagliati per corrispondenti ben più influenti ed affermati.5 Dedicatosi subito all’attività letteraria, esordisce con Il matrimonio di Caterina (1932, seminedito poi Scheiwiller, 1977)6 e viene consacrato da Caratteri («L’italiano», Longanesi, 1935, poi Le Monnier, 1939; Einaudi, 1953-1980; Donzelli, 1999)7. Recuperati dalla produzione degli anni ’30 sparsa per riviste e giornali sono i Racconti di Bovalino (Rubettino, 2008). Ispirati all’esperienza di affido famigliare, escono poi i Colloqui con Antonuzza (Sciascia, 1954; Einaudi, 1958; Donzelli, 2000), e ad un fatto di sangue degli anni ’20 il romanzo ‘brancatiano’ Mimì Cafiero (Parenti, 1958 poi Rubettino, 2006). Quasi sperimentale il libro-intervista Le memorie del vecchio maresciallo (Einaudi, 1958; Donzelli, 2000; Comune di Bovalino, 2017), mentre è di nuovo centrata sul ritratto d’ambiente, morale e psicologico Vita di Stefano (Sciascia, 1962 poi Rubettino, 2006). Due romanzi sulla figura femminile ed uno storico sui tentativi di rivolta contadina impegnano La Cava negli anni ’70: Una storia d’amore (1966, inedito poi Einaudi, 1973), La ragazza del vicolo scuro (Editori Riuniti, 1977) ed I fatti di Casignana (Einaudi, 1974). Il ritorno alla misura breve nell’ultimo decennio è caratteristico delle favole per la scuola di Terra Dura (Logos, 1980) e Tre racconti (Edizioni della Cometa, 1987). L’apertura culturale e l’attitudine alla compartecipazione descrittiva sono testimoniate in Viaggio in Israele (Fazzi, 1967; Brenner, 1985; Edicampus, 2011), Viaggio in Lucania (L’Arco, 1980) e Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti (Scheiwiller, 1986). Chiudono la sua attività il rievocativo Una stagione a Siena (Managò, 1988), la raccolta delle Opere teatrali (Brenner, 1988) e La melagrana matura (anni ’40 poi Donzelli, 1999). Postumi anche l’atto unico Il dottor Pesarino (Arti grafiche, 2001) e la pubblicazione della tesi di laurea La Repubblica Cisalpina. Appunti sulla Costituzione e sull'attività legislativa (Città del Sole, 2008). La prima fase dell’attività giornalistica tra la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50 si riscopre ne I misteri della Calabria (Casa Editrice Meridionale, 1952 poi Jaca Si veda per esempio la lettera datata Bovalino, 9 setembre 1954 in LC (2018), pp. 183-184: «La questione fondamentale che per ora mi impedisce di partire è quella dei soldi: non intendo più chiederli a casa [...] Ma prima dovrei far continuare la cura dei denti a mia moglie e comprarle un vestito invernale [...] ma il bambino è ammalato (penicillina, etc.)». Oppure la lettera datata Palermo, 3 gennaio 1972 in LC (2018), p. 460: «Carissimo Mario, appena capiterò a Milano, parlerò di te a Spadolini [...] (tu sai quanto ti voglio bene e quanto amore ho alle tue cose). Questo nostro paese è incredibile: conta sempre meno quello che si è, e sempre più quello che si dice di essere. E se ti attenti a scoprire una verità, sono guai». 6 Nel 1983 ne venne tratto un film per la televisione da Luigi Comencini, con Stefano Madia e Anna Melato come protagonisti e musiche di Manuel De Sica. Il regista ne apprezzò la capacità di penetrazione emotiva di stampo flaubertiano, il respiro universale e la lingua, senza concessioni al dialetto: Comencini (1983), s.i.p. 7 Costituendo parte integrante della fortuna di La Cava, si lasciano i riferimenti editoriali nel corpus del testo ma senza indicazione di luogo per facilità di lettura. 5 138 Book, 2003), in Lettere da Reggio Calabria (Barbaro, 2015) e in Corrispondenze dal Sud Italia (Città del Sole, 2010) per gli anni appena successivi (1953-1956); la fase matura dedicata all’Affaire Moro è raccolta in Omissione di soccorso (Barbaro, 2015), in cui La Cava affianca Sciascia a favore della trattativa Stato-BR. Oltre al citato carteggio con quest’ultimo, fonte privilegiata per la ricostruzione della vicenda letteraria ed umana del poligrafo calabrese, si può leggere quello col cugino Francesco Perri, intellettuale antifascista ed irrequieto polemista compaesano di Bovalino.8 Ragioni di/per una riscoperta Prima di rendere conto sinteticamente della riscoperta critica di La Cava, si intende suggerire piste per una effettiva (prima) lettura della sua opera, nella consapevolezza che sia a tutt’oggi senz’altro prima da leggere che riscoprire. Senza alcuna pretesa di completezza, ma legati alle intenzioni esposte nel titolo di questo contributo, si selezionano qui soltanto due titoli tra quelli 9 che giustificano il merito di tale (ri)scoperta dello scrittore di Bovalino: Caratteri e Viaggio in Israele. Cui seguirà una sezione metacritica ed un (motivato) auspicio letterario a mo’ di conclusione. Caratteri: Archiloco come inedita rasura del palinsesto. La vicenda editoriale di questo testo d’ispirazione realista è assai singolare. Uscito in estratti su «L’Italiano» di Leo Longanesi (1936-1937), maestro non dogmatico di libertà, poi presso Le Monnier (1939), prosciugato della metà per timore di incorrere nei rigori della censura fascista, finalmente Einaudi lo ripubblica nei «Gettoni» (1953)10 ideati da Vittorini ‒ sarà giunto ormai il tempo di una completa riabilitazione del Vittorini editore post affaire Gattopardo? ‒ non soltanto nella dimensione originale bensì accresciuto negli anni. Lo stesso Einaudi («Nuovi Coralli» 282) ne procura una terza edizione (1980) con tagli (sedici caratteri in meno) e sostituzioni (nove).11 Bisognerà attendere la quarta edizione con Donzelli Perri (1993), ultimo scritto di La Cava, curato dalla figlia Marianna. Al cugino Perri è dedicato il romanzo I fatti di Casignana. 9 Alla ripresa di un romanzo storico come I fatti di Casignana, probabilmente il primo dedicato alle lotte sociali dei contadini meridionali, è dedicata la monografia di Alex Bardasciani che si riprenderà nella sezione successiva. 10 Sul mercato librario le poche copie disponibili della princeps quotano stabilmente attorno a 120€, la editio altera 60-70€. 11 Un ‘carattere’ della princeps va a sostituire il n. 40 della editio altera. I ‘caratteri’ 54 106, 114, 132 136, 152, 214, 218 sono sostituiti. Gli ultimi tre caratteri dell’edizione einaudiana del 1953 si trovano in quella del 1980 (qui utilizzata) dopo il n. 332; ritoccato il n. 246. Infine, quello intitolato Il fiore rosso è rimasto escluso come nella Einaudi 1953. La Cava stesso, adducendo ragioni di maggior accessibilità ai lettori contemporanei, compone la Nota alla presente edizione (Bovalino, maggio 1980), qui riassunta. 8 139 (1999, ormai rinvenibile soltanto in una ventina di biblioteche italiane) per la reintegrazione e restaurazione del testo originale. La revisione intercorsa dalla seconda alla terza edizione forse ancora per autocensura politica, a quarant’anni dalla prima, resta di fatto insoluta. Ne risulta comunque un’opera-palinsesto assai attuale nella sua composizione perennemente in fieri. Per un’opera tanto originale nel panorama letterario italiano dell’epoca – gli scritti aforistici di Ennio Flaiano12 e Guido Ceronetti, i ritratti di Alberto Arbasino e Giorgio Manganelli sono di là da venire ‒ diviene presto evidente per la ricerca delle fonti.13 Da una parte è l’autore stesso a chiamare in causa i precedenti illustri di Teofrasto e Jean de La Bruyère14, altri parlano di Edgar Lee Masters15 o del conterraneo Corrado Alvaro. Spontaneo anche l’accostamento alla misura breve ed alla pagina diaristica della madre, che il figlio medesimo avvicina con finezza di linguista ai lirici greci per l’incrocio di sentimento e dialetto.16 Grazie anche a questa chiave di lettura viene da proporre come inedita l’influenza di Archiloco che, considerando l’impronta classicista della rivista, si vuol qui mettere in luce. Il poeta-guerriero ciclade del VII secolo a. C., primo dei lirici greci, nobile di nascita ed impoverito negli anni, non avrebbe mai immaginato – come La Cava ai tempi in cui deve averlo studiato al liceo ‒ di doversi preoccupare per denaro. Il suo influsso è rinvenibile nei Caratteri del calabrese per la misura breve, lo stile asciutto, l’introduzione di figure fittizie d’impronta realista (veri e propri ‘caratteri’)17 e le tematiche naturalistiche, per cui Archiloco si mostra iniziatore assoluto della focalizzazione sul particolare, che diviene espressione universale dell’unicità di ogni irripetibile esistenza.18 Alcuni brani paralleli possono esemplificare questa relazione. Anche Ennio Flaiano scrisse un reportage su Israele nel 1967 per «L’Europeo». Elementi di parentela letteraria (comunque posteriore), cui andrebbe dedicato uno studio a sé, si possono tracciare fra l’esordio di La Cava e due libri di ‘maggiori’ del secondo dopoguerra anch’essi meritevoli di riscoperta, quello di Sciascia (Favole della dittatura, Roma, Bardi, 1950) e di Gadda (Il primo libro delle favole, Venezia, Neri Pozza, 1952). 14 Oltre all’edizioni bilingue di Teofrasto (1994), si è voluto segnalare la prima edizione congiunta dei classici greco e francese in La Bruyère (1668), linguisticamente e cronologicamente accessibile a La Cava. La lezione dei classici e la predilezione per lo stile asciutto, lontano da sperimentalismi in La Cava sarà poi messa in evidenza sulla stampa nazionale da Ajello (1975), Augias (1999), Magris (2008). Il moralista francese – citato direttamente nel n. 303 dei Caratteri (1980), pp. 152-153 ‒ torna nella pronta recensione a Sciascia nel contesto affronta tutti i mostri del potere politico, in «Gazzetta del Popolo», 2 marzo 1972. 15 Interessante l’incrocio possibile col calco inglese Characters (personaggi), che – lungi dal costituire qui un mero false friend ‒ di fatto esprime altrettanto bene il contenuto dell’opera. 16 Mario La Cava, «L’Unità», 4 dicembre 1962: «Così come accadeva ai lirici dell’età classica, quando ognuno creava con il dialetto della sua gente, la lingua della sua poesia». 17 L’onomastica lacaviana è mutuata da quella classica, soprattutto greca, con chiaro intendimento universalizzante. Ma il contesto è calato nella polis bovese: Sposato (2014), p. 44. 18 Archiloco (1994), pp. 47-48. 12 13 140 Ora invece Leofilo comanda, il potere è nelle mani di Leofilo, tutto dipende da Leofilo, si dà ascolto soltanto a Leofilo nu/n de. Lew,filoj me. a;rxei Lewfi,lou d’evpikratei/ Lewfi,lwi de. ta,nta kei/tai Lewfi,lon d’a;koue (fr. 115) [Archiloco (1994), p. 117] Recando un pasto letale, lo pose dinanzi ai piccoli prou,qhke paisi. dei/tnon aivhne.j fe,ron (frammento 179) [Archiloco (1994), p. 133] Con una mano recava acqua / tessendo inganni, e con l’altra fuoco th/i me.n u;dwr evfo,rei dolofrone,ousa ceiri,, qh.te,rhi de. pu/r (fr. 184) [Archiloco (1994), p. 135] Sono un punteggiatore delle parole altrui, del libero pensiero, un tagliatore di scritti, un uomo grande! [...] Ognuno ha il suo genio, io il mio [...] Mi semplicemente dato all’azione vivace, alla pratica, e raggiunto per combinazione il potere, ho provveduto a mantenerlo e a rafforzarlo per mezzo della trasformazione delle parole [...] Mi dispiacerebbe tanto se esso dovesse cadere nel pessimismo, diventare preda di coloro che dicono o fanno capire quanto grande è il suo dolore [...] E volesse il cielo che non ci fosse bisogno di stimolo, di correzione o di arbitrio per indurlo a fare quello per cui è nato: vivere e morire per me! [...] E mi volesse benedire e pregare, come Iddio, per quello che faccio, tanto più colpito a sangue che esso fosse, tanto più avvilito e disfatto (n. 175) [Caratteri (1980), pp. 87-88] Qui sono tre gli ambiti interessati, quello politico-militare, quello famigliarecomunitario e quello gnomico. Del primo Archiloco tratteggia con efficace poliptoto l’atteggiamento tipico del/verso il dittatore di turno, tra gregarismo, paternalismo, doppiezza.19 La Cava sembra affiancarlo con un breve apologo chiaramente allusivo del regime fascista. Del secondo ambito, relativamente al secondo frammento dell’epodo archilocheo, è nota la vicenda di sfondo – la promessa poi il rifiuto da parte di Licambe di dare in sposa la figlia Neobule ‒ che li lega in un maledicum carmen in cui trova posto la favola della volpe e dell’aquila. Il rapace, dopo aver ingannato il canide, subisce la giusta punizione offrendo ai piccoli cibo sottratto al sacrificio senza avvedersi della brace incendiaria ancora attaccata.20 Qui però, sciolto dal contesto, si sposa agli intenti ingannatori dell’idealtipico dittatore, di cui peraltro si fornisce altrove una versione paragonabile dell’ingloriosa fine.21 Il terzo ambito, in realtà di insoluta definizione, offre un frammento di epodo assai incerto quanto all’interpretazione. Ciò consente dunque di affiancarlo con pertinenza, e senza Il sitz im leben potrebbe riferirsi al generale menzionato nel frammento successivo (West) o ad un dittatore eletto dai concittadini del poeta (Bonnard). Commento in Archiloco (1994), p. 204. 20 La favola riporta naturalmente al di.kaia pa,scw di esopiana (e ginnasiale) memoria, condivisa senza dubbio anche da La Cava. Commento in Archiloco (1994), pp. 220-225. 21 «Un tiranno è stato ucciso. La notizia vola col vento. – Era la sua fine! – dice Carlo» (n. 42): Caratteri (1980), p. 17. Cfr. Barberi Squarotti (1991), pp. 227-229. 19 141 tema di indebita appropriazione, al ‘carattere’ lacaviano per il portato evidente di una condotta ingannevole premeditata. Una differenza fondamentale d’atteggiamento intercorre però fra Archiloco e La Cava; nel secondo è assente l’invettiva corrosiva e vendicativa che il primo dedica innanzitutto alla già promessa sposa Neobule ed alla sua famiglia (costretta al suicidio per la vergogna). Un estremo punto di contatto sul continuum mobile tra ironia, denuncia sociale, sarcasmo ed invettiva senza quartiere si può rinvenire nel verso preso a prestito anche da Plutarco: Non ti cospargeresti di profumo vecchia quale sei ouvk a]n mu,roisi grhu/hj evou/s’hlei,fo (frammento 205) [Archiloco (1994), p. 148-149] Una zitella brutta e gialla fece ricorso al Comune perché l’acqua di scarico dì una vicina produceva malaria. – L’acqua la toglierò, sí, ‒ le disse la donna avversaria, ch’era maritata e madre di figli. – Ma non per questo dovrai credere di acquistare colore, brutta megera! (n. 219) [Caratteri (1980), p. 112] Non rappresenta la voce dell’autore22 bensì una tranche de vie di paese questo ‘carattere’. L’amara riflessione di La Cava riemerge invece nel ‘carattere’ 12 dal tema simile: «La brutta signora di paese vuole un pensierino nell’album, dal poeta in vacanza. - Si concentri un poco. Io vado di là e la lascio solo -. Il poeta si concentra e scrive»23. La disinvoltura (forse ora censurabile) con cui nei Caratteri, come nel Viaggio in Israele tanto per restare alle opere citate, si appellano ‘belle’ e ‘ben fatte’, oppure ‘brutte’, ‘grasse’ e ‘vecchie’ le donne, non significa snobismo o sessismo, entrambi atteggiamenti sempre fustigati dalla penna lacaviana, bensì testimoniano la naturalezza – talora spietata certo ‒ con cui il mondo contadino e provinciale si esprimeva, la rassegnazione ed il rispetto con cui quel mondo guardava al dato reale. Viaggio in Israele: una innocente lungimiranza. Questo curioso libro, frutto di un soggiorno di un mese come ospite per l’intercessione di un dirigente italiano dell’ufficio di emigrazione ebraica, scritto a Bovalino tra il 20 settembre 1961 ed il 31 agosto 1965, definito dagli unici recensori del tempo «romanzo-reportage» e dall’autore stesso un «clamoroso insuccesso»24, è probabilmente unico nel suo Come congettura Lassere, pur senza certezza, per Archiloco, ancora nell’atto di inveire contro l’ex promessa sposa Neobule. Cfr. Archiloco (1994), p. 241. 23 Caratteri (1980), p. 6. A seguito del frammento archilocheo e del carattere lacaviano, la memoria corre alla celebre scena del belletto nel saggio pirandelliano L’umorismo (1908), p. 135. 24 Si tratta di Pasquino Crupi e Michele Abbate, in VI (1985), p. 3. Ben diverse le aspettative all’uscita, registrate in LC (2018), 430: «Spero [...] possa servire a far ricordare il mio nome a quanti se lo sono dimenticati. Ho bisogno di affermarmi, per guadagnare qualcosa, sono con l’acqua alla gola». In un corsivo introduttivo La Cava annuncia al lettore l’avvenuta restituzione degli pseudonimi utilizzati per la prima edizione del libro ai loro nomi reali. 22 142 genere a trattare la realtà israelo-palestinese in quel periodo. Dell’opera, la cui fedeltà descrittiva è riscontrabile anche a distanza di decenni, a rimarcare lo spessore naturalistico di La Cava, sono essenzialmente due i passaggi che si vogliono rimettere sotto la lente d’osservazione: Capitolo Introduttivo (Bovalino, 14 gennaio 1985) e Il processo di Eichmann.25 Del primo sono rimarchevoli sia quella forma di innocente osservazione che traspare dalle pagine26, sia la precoce registrazione del progressivo schierarsi (almeno apparente) su posizioni filo-palestinesi dell’intellighenzia italiana.27 La Cava, per la prima volta usando la prima persona singolare, registra i successi degli Ebrei in svariati campi tecnico-scientifici e militari, la «invidia forsennata» dei capi Arabi come motivo dell’inimicizia tra i due popoli, la necessità (sofferta) di una difesa armata da parte dei vincitori della guerra civile28, la necessità storica della fondazione dello stato d’Israele. Sottolinea che tutto ciò non ha diminuito la sua precedente simpatia per gli Arabi in Israele, paragonati ai calabresi per le difficili condizioni di vita. Anticipando la trattazione del processo, confessa che – come la maggior parte degli Ebrei ‒ «non avrei mai accettato di fare il giudice in processi così gravi». Nega che il potere politico abbia corrotto gli Ebrei nel loro stato e considera il ponte aereo realizzato con l’Etiopia a favore dei Falascià (19841991) in seguito alla terribile carestia del 1977 come semplice dimostrazione del loro senso di fratellanza senza confini. Lamenta l’atteggiamento degli intellettuali amici, timorosi di comunicare per lettere le impressioni sull’opera «quasi che io avessi potuto cogliere l’occasione della loro eventuale tolleranza, per comprometterli dinanzi all’opinione pubblica più impegnata», succube di «un antisemitismo non più religioso, risorgente tuttavia dalla profondità di sentimenti occulti». Certamente a distanza di quarant’anni, dopo le vicende della Rispettivamente VI (1985), pp. 3-6 e pp. 77-88. Non va esente questo diario in forma narrata da qualche edulcorata ingenuità, ad esempio nella descrizione dei mendicanti nelle città: «Essi sapevano che con la loro esistenza, dando occasione dalla carità degli altri, contribuivano al perfezionamento morale dei loro benefattori»: VI (1985), p. 95. Cfr. Sposato (2014), p. 123. Altrove però l’ironia riesce dove uno dei pregiudizi più inveterati trova terreno fertile: «”È sempre un ebreo...” mi dicevo. “Saprà fare coi greci”. I greci lo imbrogliarono ch’era una meraviglia, nell’acquisto delle cartoline, delle sigarette, delle bibite, delle medicine, nel pagamento del taxi, benché tutto avvenisse coi miei soldi, dato che egli aveva dimenticato oil portafogli in cabina: ma io non ero capace di altro che di esprimere il mio stupore: la fiducia in lui rimaneva intatta, anzi aumentava»: VI (1985), p. 9-10. 27 Testimonia questa tendenza ed il nodo concettuale irrisolto la nascita (contestata) dell’associazione Sinistra per Israele, presieduta dall’intellettuale e politico Furio Colombo. Per uno sguardo diacronico sul tema si vedano Colombo (1991) e Colombo (2007). 28 «Le tre guerre dal 1967 fino ad oggi [...] Pareva a tali contraddittori che fosse necessario perderle, perché risplendesse in tutta la sua luce l’ideale umano. L’uso stesso della tecnica più avanzata nella condotta delle guerre sembrava una soverchieria a danno dei perdenti, non un segno di valore dei vincitori, se il fine delle guerre è quello di vincerle, non di perderle» VI (1985), p. 4. 25 26 143 prima (1987-1993) e seconda Intifada (2000-2005), con l’abbandono di Gaza e la progressiva estensione degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, la situazione è mutata. Ma non la necessità di guardare a quella realtà senza eccessivi schematismi ideologici premasticati, evitando quelle polarizzazioni che rendevano i Palestinesi ‘tutti terroristi’ negli anni ’70-’80 e gli Israeliani ‘tutti fascisti’ dagli anni ‘90. Il capitolo sul processo di Eichmann ha già di per sé un indiscutibile pregio, ovvero offrire al lettore un punto di vista alternativo a quello divenuto ormai canonico di Hannah Arendt, come lui accreditata come giornalista alle sedute. Nei confronti della sua opera più nota29 si è passati infatti dalle citazioni degli anni ’60-’70, all’ossequio dei decenni Ottanta e Novanta sino all’attuale saccheggio (come Se questo è un uomo di Primo Levi), complice anche la gestione scolastica talora pigra delle Giornate della Memoria. Mentre la pensatrice tedesca, certamente molto più attrezzata culturalmente e personalmente coinvolta, ha lasciato del gerarca nazista il noto ritratto di un uomo assolutamente normale, amorevole quanto alla famiglia, sempre frustrato ed ambizioso quanto alla carriera, senza alcun furore ideologico né esplicito sentimento antisemita, ‘semplicemente’ dedito ciecamente al suo Fürher, La Cava disegna una figura diversa. Già la precisa ékfrasis iniziale (assente nella Arendt), dalla buona complessione generale («e veniva da pensare che per virtù sua sarebbe vissuto cent’anni») ai particolari anatomici30, dagli eleganti modi militareschi31 alla prontezza nelle risposte32, dall’abito sartoriale al cambio degli occhiali («con sveltezza da intellettuale»), induce ad una maggior considerazione del personaggio. Diversamente da quanto notato dalla pensatrice tedesca, La Cava non si riferisce all’avvocato Servatius con l’appellativo ‘dottor’. Così l’imputato risulta disinvoltamente bugiardo, ma non per meschino attaccamento alla propria vita come da altri descritto, quanto perché piuttosto «dotato di Arendt (1964). Si utilizza questa edizione in quanto l’unica disponibile in italiano all’epoca della composizione di VI (1967). La traduzione di Piero Bernardini è peraltro rimasta alla base di tutte le successive. In appendice la risposta della Arendt alla polemica suscitata dalle sue corrispondenze sul New Yorker, non meno interessante del reportage medesimo. 30 «La pelle della sua faccia [...] conciata e tirata sulle ossa, come se tale fosse stata resa dall’indifferenza dell’animo e dall’esercizio costante della volontà malvagia. Aveva labbra sottili, taglienti come le pinze falsamente delicate di certi insetti [...] di chi non aveva mai sorriso ad alcuno [...] mai pianto con alcuno»: VI (1985), 80. 31 «All’annunzio dell’arrivo del tribunale, scattò in piedi con moto di militaresca eleganza e precisione. Poi si sedette, svelto e preciso»: VI (1985), 7. 32 «...una prontezza e una precisione da lasciarmi ogni volta stupefatto [...] Eichmann sembrava non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento»: VI (1985), 80. 29 144 un’astuzia diabolica»33. Tutt’altro che ‘banale’ è sempre la considerazione che La Cava di Eichmann ricava dagli interrogatori.34 Una nuova stagione critica La Cava ha condiviso con buona parte del meglio della cultura italiana del dopoguerra (Gadda, Pasolini, Sciascia) il sentimento ambivalente di amarezza e tuttavia ancora di commovente fiducia nei confronti dell’importanza della letteratura e della critica in Italia. Quest’ultima ha contraccambiato con generosità e curiosità nella prima fase della produzione lacaviana, poi come anticipato – anche a seguito del venir meno della forza propulsiva del neorealismo, sotto la cui ottica riduttiva la critica aveva cristallizzato lo scrittore di Bovalino ‒ se ne è allontanata, fino a provocare le tribolazioni e le laconiche dichiarazioni dell’autore citate nelle pagine precedenti. Un primo concreto antesignano passo verso la sua rivalutazione si è avuto con la raccolta di interventi critici da parte di Pasquino Crupi e col convengo romano dedicato a La Cava nel 2000 a cura di Renato Nisticò, curatore delle riedizioni per Donzelli.35 Ma volendo restare alla decade corrente si segnalano tre monografie di studiosi calabresi, dandone conto senza alcuna pretesa di esaustività. Il saggio di Gianni Carteri (1952-2019), Come nasce uno scrittore: omaggio a Mario La Cava, ha nel titolo la sua ragione principale e dell’omaggio conserva tutte le caratteristiche, oltre che compositive, si direbbe ‘affettive’.36 Il libro è frutto di una decennale ricerca e riflessione, nonché della frequentazione personale con lo scrittore di Bovalino, come testimonia Vincenzo Consolo nella prefazione. Anche la prima parte del titolo offre la giusta chiave di lettura, riferendosi infatti nella sua parte più interessante e meglio documentata alla non facile formazione giovanile di La Cava. Due sono gli incontri che prima introducono poi Cfr. Arendt (1964), p. 34: «Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un “bugiardo” – e così trascurarono il più importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso». E nell’imminenza dell’esecuzione, Arendt (1985), p. 259: Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole». 34 «Eichmann fu un uomo che mise la sua malvagità a servizio di una causa politica. Le ragioni politiche scatenarono i suoi istinti di belva. L’ideologia nazista, alla quale credette come tutti i tedeschi, fu semplicemente il terreno più adatto per le sue imprese.»: VI (1985), p. 83. La riflessione di La Cava sviluppa nel romanzo anche qualche (modesta) riflessione più generale ed in parziale contraddizione con la descrizione iniziale: «Ma Eichmann non è un semplice serpente velenoso, non è una mosca molesta: è un uomo come noi, purtroppo, un uomo incatenato alla sua volontà malvagia. Non è un’ipocrisia dire che bisogna liberarlo con la morte»: VI (1985), p. 88. 35 In bibliografia rispettivamente come Crupi (1991) e Convegno (2000). 36 Si legga anche l’intervista di Ida Nucera a Carteri in occasione dell’uscita del saggio: «Nostro Tempo» (2012), p. 15. 33 145 accompagnano la sua attività letteraria, col sacerdote e storico ‘modernista’ Ernesto Bonaiuti37, rimosso dalla cattedra dallo stato fascista e sospeso a divinis dall’autorità ecclesiastica, e col pastore evangelico fiorentino Gino Roberto.38 Col primo avvia un colloquio personale poi epistolare favorito dalla permanenza dello storico romano presso l’abitazione dello zio, accademico anch’egli e medico personale di Bonaiuti, il clinico Francesco La Cava. La comprensione della personalità lacaviana39 e l’incoraggiamento del sacerdote sono fondamentali. Col pastore Roberto il rapporto è piuttosto di scambio culturale e soprattutto di approfondimento di quel lato spirituale e cristiano lasciato dapprima in ombra dal laico La Cava. La ricerca della verità e la pietas verso i vinti portano il giovane scrittore a contatto col sacro e col mistero. Del capitolo40 sul romanzo-reportage Viaggio in Israele è interessante la sottolineatura dell’attenzione con cui l’inviato guarda al riposo settimanale dello Shabbat, che si rivela oggi (h24-7/7 open market & always connected people) più che mai lungimirante se non si vuole scomodare il qualificativo ‘profetico’. Chiude il saggio una rassegna di «compagni di processione» di La Cava (tra cui Sciascia e Consolo), di cui la parte principale è riservata allo scrittore Bernardo Zappone ed alla loro amicizia negli anni Cinquanta, testimoniata da alcune lettere inedite.41 Ne esce la figura di un letterato raffinato, intimista nel tratto quanto ritirato nel suo autoesilio calabrese, e di uomo signorile e generoso fino all’ingenuità, dedito con esclusiva fedeltà alla scrittura. Le analisi letterarie occupano invece poco spazio e si risolvono in sprazzi quasi occasionali, dove le comparazioni con altri scrittori sono più esposte che provate. La monografia di Eleonora Sposato è frutto degli studi dottorali in Calabria e si presenta come la più corposa e sistematicamente attrezzata tra quelle dedicate recentemente allo scrittore jonico. L’impianto dell’opera prevede una scansione tripartita che muove dagli anni della formazione universitaria e dell’apprendistato letterario, unitamente all’analisi dell’opera di esordio, si sofferma nel capitolo centrale e più ampio sull’attività pubblicistica e sulle opere di respiro civile e meridionalista, per concludersi con l’esame della (s)fortuna della narrativa maggiore di La Cava.42 Prendendo in considerazione i Caratteri Carteri (2011), pp. 13-25. A questi anni data già la curiosità per il patrimonio orale bovese. Carteri (2011), pp. 29-45. 39 Parlando delle critiche in procinto di inviare a Tobino, La Cava riconosce a Sciascia la capacità, ereditata dagli ascendenti arabi, di menare terribili fendenti e ricorda del giudizio di Bonaiuti quando lo diceva a sua volta crudele per il sangue normanno: lettera datata Bovalino, 10 maggio 1954 in LC (2018), pp. 155-156. 40 Carteri (2011), pp. 47-56. 41 Carteri (2011), pp. 103-116. 42 Rispettivamente Sposato (2014), pp. 15-56; 57-161; 163-222. Bibliografia e indici: pp. 223254 37 38 146 come vera opera prima rivelatrice43, la giovane studiosa calabrese ne ricapitola le fonti, i temi (mondo vegetale, animale, umano) e lo stile (classico, misurato, gnomico). Ai nomi già noti dalla critica militante di Teofrasto, di cui porta l’osservazione (icastica ma spettatrice) dei tipi umani nei territori della critica sociale, La Bruyère, di cui si fa portatore della carica parenetica, ed Alvaro, si affiancano quelli del Tozzi del Bestiario, del Kafka degli aforismi-favole, del Lanza dei Mimi, financo quello del Leopardi curioso di La Bruyère dello Zibaldone.44 Ma è l’eredità della tradizione orale a legare fonti, temi e stile. Lo stile che informa i Caratteri e gran parte della produzione successiva, così come il panorama naturale e sociale in cui si incarnano, e parte delle fonti cui si devono, attinge (anche) ad un patrimonio di oralità della Locride che la Sposato riprende da Carteri e valorizza nella prospettiva di questa triplice valenza. Così come viene attentamente rilevato che – in una visione diacronica ‒ la sobrietà classica lacaviana, nutrita del raffinato fraseggio rondista (come in Sciascia), risponde, nella giovinezza, ad un bisogno reattivo verso la roboante retorica dannunziano-fascista e, similmente nella maturità, verso l’artata sofisticatezza della narrativa industriale di successo, centrata sulle nevrosi neocapitaliste.45 Il corpo centrale del saggio è dedicato a due temi di notevole interesse, uno sinora poco studiato e l’altro già toccato qui sopra. Nei primi anni Cinquanta, prima di allestire la seconda edizione dei Caratteri per Einaudi, La Cava si dedica alla raccolta di scritti giornalistici di impegno civile sulla questione meridionale (1945-1949). Si tratta delle inchieste raccolte nei I misteri della Calabria, in cui il taglio sociologico sul lavoro e sulla questione agraria si sposa ad una riflessione antropologica sull’identità dei suoi conterranei, lontani dai centri nevralgici dell’Italia produttiva e dell’Europa postbellica, ma ad esse indissolubilmente appartenente in quanto depositari dell’ineludibile eredità della Magna Grecia.46 Questa fase pubblicistica ha un inserto polemico sul «Mondo» di Bonsanti nientemeno che con Montale e Gadda (1945-1946). I quali si scontrano ‒ senza addivenire ad una sintesi condivisa ‒ sulla questione meridionale a proposito di temi drammatici del recente passato bellico (impiego in prima linea della leva meridionale) e dell’agenda politica nazionale (malgoverno sabaudo e fascista, incapacità imprenditoriale, astrattezza del tipo meridionale, sottoimpiego delle risorse e della forza lavoro), sull’onda di un supposto separatismo siciliano.47 La Grazie alla ricca e preziosa appendice bibliografica della Sposato si apprende che curiosamente è proprio sulla rivista Caratteri, fondata da Mario Pannunzio e Antonio Delfini, che nel maggio 1935 l’autore pubblica Due favole (anno I, n. 3) e poco dopo la prima parte de Il matrimonio di Caterina (anno I, n. 4, giugno-luglio, pp. 257-271). 44 Sposato (2014), pp. 39-43. Appena sfiorato il tema della lacunosa terza edizione (ivi, p. 46). 45 Sposato (2014), pp. 52-56.169. 46 Sposato (2014), pp. 58-66. 47 Sposato (2014), pp. 66-84. Considerando i limiti di questo contributo e la ricchezza dei riscontri offerti dalla dissertazione della Sposato, si rimanda senza ulteriore commento alla sua 43 147 parte conclusiva della sezione centrale del saggio è dedicata a due opere accostate, nella intelligente disposizione della Sposato, al corpus degli scritti giornalistici raccolto nel 1952 dal comune interesse alla ricostruzione ‒ non certo freddamente socio-antropologica ma quasi mitologico-testimoniale ‒ della tradizione orale della cittadina-polis bovese: Colloqui con Antonuzza (1954) e Le memorie del vecchio maresciallo (1958)48. Di quest’ultimo viene anche offerto un sintetico ma puntuale rilievo di alcune caratteristiche retorico-formali, a verificarne l’impegno dello scrittore nella trasmissione mimetico-testimoniale anche sul fronte stilistico.49 L’altro aspetto dell’opera lacaviana trattato in questa sezione della tesi50 cui si sceglie di guardare è, parallelamente al saggio di Cartieri, il romanzo-reportage Viaggio in Israele del 1967. La studiosa anche qui sceglie intelligentemente il percorso comparatistico, affiancando in due tempi l’opera diaristica di Giorgio Voghera51 ed il celebre saggio della Arendt.52 Col primo si confronta la descrizione/trasformazione del paesaggio e la tradizione del costume locale, condividendone i tratti salienti (varietà degli scenari naturalistici, contrasto fra la storia millenaria ed il presente tecnologico) nonostante la grande differenza di orizzonte temporale: un mese di soggiorno per La Cava, dieci anni per Voghera. Con la seconda il paragone va ovviamente al caso Eichmann, ma si tratta di un brevissimo passaggio, evidentemente proporzionale al piccolo spazio (un capitolo su quattordici) che la Sposato è sorpresa di leggere dedicato nel «racconto a sfondo autobiografico». La trattazione è in quattro punti: condizione sui generis dell’autore come spettatore semiprofessionista, ekfrasis della scena come teatro della tragedia, descrizione del castello difensivo ed interpretazione della personalità dell’imputato come redditio in se ipsum sulla questione del male. La dispositio circolare della giovane studiosa è felice, nonostante la stringatezza dei passaggi di cerniera tra le citazioni dirette, ed il primo punto mostra una certa profondità interpretativa. Ma all’ultimo punto è forse rinvenibile la volontà di non mettere in contrasto la lettura lacaviana di Eichmann con quella arendtiana. Con l’ultima citazione si punta infatti a far convergere in extremis il giudizio lettura. Così per la successiva collaborazione al «Mondo» di Pannunzio (1949-1954) e la lettura del carteggio con Sciascia, oggetto di ormai rilevanti e interventi della critica (ivi, pp. 84-120). 48 Rispettivamente Sposato (2014), pp. 131-154 (con relativa nota storico-editoriale) e 154161. 49 Sposato (2014), pp. 152-154: paratassi, che polivalente, intensivanti, frasale tenere, onomatopea. 50 Sposato (2014), pp. 121-131. 51 Sposato (2014), pp. 121-128. Trattasi del toccante affresco Quaderno d’Israele (1985) ripubblicato contemporaneamente (già Scheiwiller, 1967 e Mondadori, 1980) e citato nel capitolo introduttivo di VI (1985), p. 4. Uno sguardo alle due opere parallele si può leggere in Magris (2008). 52 Sposato (2014), pp. 129-131. Segue l’analisi delle Memorie e dei Colloqui con Antonuzza. 148 improntato ad eccezionalità, più volte emerso da La Cava, col motivo della «banality» della Arendt. Senza convincere. Il terzo capitolo della dissertazione è dedicato a La Cava romanziere, ovvero alla sua scarsa fortuna editoriale, dovuta principalmente al rifiuto/incapacità di adeguarsi alle nuove tendenze della narrativa contemporanea. E qui la disamina dello stile lacaviano trova di nuovo uno spazio più ampio. Il «classicismo programmato» e la «tipologia narrativa orale-anedottica», elementi fondamentali dell’impianto del grande romanzo ottocentesco secondo l’autore, con la variante personale dell’impiego di forme dialettale, risulterebbero depotenziati nel passaggio dalla forma breve del carattere/racconto a quella lunga del romanzo. Anche la fissità del ‘cronotopo lacaviano’ – il fascismo della provincia calabrese nel suo decorso storico ‒ non gioverebbe al successo editoriale.53 Ma di una di queste opere si sarebbe occupato largamente un altro giovane conterraneo della Sposato, e da un’ottica piuttosto differente. La monografia di Alex Bardascino, giovane di origini calabresi (n. 1988) con studi a Liegi, è dedicata con piglio documentario e convinzione critica ad un’opera eccentrica rispetto alle coordinate consuete di La Cava, e concentra nel composito titolo citazione, commento e definizione, tradendo l’influenza di Borges (nonché la moda recente in fatto di titoli compositi): «Il ricordo pietoso dei vinti»: impegno e realismo in “I fatti di Casignana”. Un’approssimazione a Mario La Cava». La puntuale ricostruzione dell’opera come romanzo storico che supera il neorealismo appiccicato a La Cava sin dai Caratteri, restituisce I fatti di Casignana alle opere capaci di sostenere con successo la riscoperta dello scrittore jonico. Soltanto per questo si è deciso di non inserirla nella sezione precedente, riconoscendo a Bardascino onori ed oneri del lavoro compiuto.54 Nel quale si Sposato (2014), pp. 174-177. Segue l’analisi dei romanzi degli anni Sessanta e Settanta. Il giovane studioso si avvale frequentemente del saggio della Sposato e per lo più con giudizi assai positivi. Tuttavia, diversa è l’impostazione diacronica della Sposato, che considera con maggior attenzione la sperimentazione nelle prove narrative di memorialistica degli anni Cinquanta in ordine alla rivalutazione dell’opera lacaviana ben prima de I fatti di Casignana. Ciò non vale per Mimì Cafiero, pur risalente come primo abbozzo al 1949 e pubblicato dieci anni più tardi, prova poco riuscita che però resta rilevante come passaggio alla misura del romanzo: Sposato (2014), pp. 163-168. Talora infine emerge qualche forzatura critica, come quando viene cassata senza appello l’ipotesi dello zio di La Cava, Francesco, come modello del protagonista del romanzo, il medico Filippo Zanco (ivi, p. 190). Pur basandosi su di un’intervista dello stesso autore, che lo identifica invece nel sindaco Francesco Ceravolo, sindaco di Casignana ai tempi della strage, Bardascino sottovaluta (pur elencandoli) gli evidenti elementi in comune tra quelle due figure. L’ipotesi della Sposato necessita di rilievi testuali per essere rigettata completamente in quanto l’influenza di un modello sul personaggio può rivelarsi altrettanto profonda di quanto un esplicito consapevole riferimento possa svelare. Interviste ed autocommenti sono spesso autorevoli ma non esauriscono il compito dell’esegesi e della critica. 53 54 149 analizzano le fonti storiche e testimoniali utilizzate esplicitamente55 da La Cava e la sua maggior consapevolezza storico-culturale – a differenziarlo dall’opera apripista del cugino Perri ‒ connettendo però assai sbrigativamente questo unicum alla sua bibliografia precedente. D’altronde il leitmotiv, più ironico che provocatorio, del saggio è che I fatti di Casignana non siano un’opera del cantore di Bovalino.56 Il romanzo viene infatti messo a confronto con due opere rilevanti, benché anteriori: Fontamara di Ignazio Silone (1933) e Le terre del Sacramento di Jovine (postumo, 1950). Il collante dei tre libri viene individuato nella «compartecipazione ad una letteratura meridionalista capace per la prima volta di andare oltre sè stessa, di narrare – malgrado la sconfitta del popolo ‒ un processo di crescita collettiva»57. Ma La Cava andrebbe oltre, mostrando le dinamiche socio-politiche conseguenti alla restaurazione locale, così come all’affermazione nazionale del movimento fascista. La narrazione corale, sviluppo inedito della poetica lacaviana, viene inoltre giudicata positivamente in equilibrio con le vicende singolari ed intime dei protagonisti maggiori, soprattutto dell’antieroe Zanco, che seguono il loro destino secondo un più ampio disegno storico di classe. Il terzo ed ultimo capitolo58 è dedicato al rapporto tra la critica letteraria nazionale e l’autore calabrese. Viene dunque di nuovo rimarcato il divario tra un’accoglienza generalmente positiva sulla stampa (tra cui Del Giudice, Giannessi, Magris, Piromalli, Saponaro, Scrivano) ed un modesto successo di pubblico, forse imputabile anche alla dislocazione dei media più potenti al nord e quindi meno disponibili alle voci meridionali. Così come viene rivendicata al romanzo la presa di distanza dal sorpassato neorealismo di marca meridionalista, il superamento dell’intimismo dolorista ed autoflagellatorio e la sua apertura ad un maturo realismo impegnato a svelare i macromovimenti di classe, di stringente attualità anche al tempo dell’uscita del romanzo-documento Bardascino (2012), pp. 23-46. Le fonti principali sono un saggio storico di Fernando Cordova, con ampia documentazione archivistica (I fatti di Casignana del 1922 e l’attentato all’On. Bottai, in «Historica», Reggio Calabria, 1965); l’articolo di Gaetano Cingari in cui, a partire dalla testimonianza della vedova di uno dei protagonisti, si portano gli eventi ad exemplum antesignano delle lotte agrarie meridionali (I fatti di Casignana e i moti contadini del primo dopoguerra, in «Proposte critiche. Centenario della nascita di Mario La Cava», anno II, n. 1-2, gennaio-dicembre 2008, Cosenza, Pellegrini, pp. 169-179); la testimonianza di lotta politica nonché la preziosa documentazione politico-amministrativa del sindacalista ed ex deputato Enzo Misefari, in cui viene svelata la macchinazione preordinata degli eventi da parte delle autorità fasciste (Le lotte contadine in Calabria nel periodo 1914-1922, Milano, Jaca Book, 1972). 56 Bardascino (2012), p. 7. «unicum del sistema letterario lacaviano» già in Sposato (2014), p. 188. 57 Bardascino (2012), p. 49. Cfr. Scrivano (1991), pp. 157-159. 58 Bardascino (2012), pp. 121-131. 55 150 (Scrivano) dello scrittore bovese. La lettura lukacsiana59, punto di forza dell’analisi socio-letteraria di Bardascino, con la conseguente centralità della lotta di classe, è però probabilmente un motivo di parziale debolezza per la riscoperta del romanzo lacaviano. Il materialismo storico non pare categoria attualmente beneaugurante per un romanzo e la sua coralità non sembra mostrare un appeal sufficiente in questo tempo di narcisismo imperante. Ancora latita una completa recensione dell’aspetto stilistico-narratologico, non soltanto per I fatti di Casignana ma per tutta l’opera di La Cava. Mentre la critica francese aveva inaugurato lo studio di questi ambiti in Sciascia, portando l’italiana ad adeguarvisi, per l’amico di Bovalino ciò è ancora agli inizi. Conclusione Il percorso compiuto sembra corroborare l’ipotesi di partenza a favore di una (ri)scoperta della produzione di Mario La Cava, considerata anche la risonanza determinante provocata dal corposo carteggio con Sciascia, capillarmente recensito ed apprezzato. Sia opere maturate nella compartecipazione al destino della propria terra ed ormai classiche, e che dai classici mutuano originalmente, come Caratteri o un unicum storico-romanzesco come I fatti di Casignana (ispirato proprio dal sodale siciliano)60, sia libri d’occasione come Viaggio in Israele col suo approccio fresco e non (programmaticamente) ideologico alla questione mediorientale, lo confermano.61 Molti altri sarebbero gli spunti di approfondimento riguardo a questi od altri scritti (senza dimenticarne la pubblicistica) ma è un testimone che per ora si passa ad altri e ad altra sede. Senza però aver prima espresso il seguente auspicio. Senza nulla togliere al lavoro encomiabile di riscoperta da parte di piccoli e medi editori, coadiuvati dalla passione e dall’acribia di curatori come Pasquino Crupi, Renato Nisticò, Walter Vecellio e più recentemente Milly Curcio e Luigi Tassoni, ormai è oltremodo matura nonché necessaria la consacrazione definitiva con la pubblicazione in collana dell’opera omnia (compreso l’epistolario Il nome di Lukacs era già stato fatto ma per il Bildungsroman, di tre lustri anteriore, Vita di Stefano (1962): Sposato (2014), p. 179. La Cava peraltro si è sempre posizionato fra i terzaforzisti. 60 La genesi remota di quest’opera si legge nella lettera datata Bovalino 21 ottobre e nella risposta da Racalmuto, 11 novembre 1969 in LC (2012), pp. 448-450. 61 Alla Shoah lo scrittore jonico si dedicherà pure in ambito giornalistico, pubblicando un articolo sul «Corriere della Sera» del 13 febbraio 1984 a proposito del campo di concentramento di Ferramonti (Tarsia, Calabria). L’umanità del comandante reggino maresciallo Marrari, ormai di 93 anni, venne premiata dal governo israeliano su proposta dei sopravissuti e grazie all’articolo. Lettera datata presumibilmente Bovalino, inverno 1984 (LC, 477). 59 151 inedito)62 da parte di un editore coraggioso quanto lungimirante. Alla ripubblicazione delle singole opere (alcune già di nuovo esaurite), cui attendono in questi anni soprattutto Donzelli ed alcuni editori calabresi63, andrebbe affiancata o semmai fatta seguire la disponibilità del corpus integrale sull’esempio dell’edizione sciasciana curata da Paolo Squillaccioti (peraltro calabrese) per Adelphi, per non scomodare il ‘Tutto Gadda’ di Dante Isella. La bibliografia meticolosamente ordinata della Sposato ne rapprenderebbe già una solida base documentale. Sperando che anche il cantore di Bovalino trovi (e a sua volta sia consacrato) come Sciascia il ‘suo’ Ambroise, se non come Montale il ‘suo’ Contini od Ungaretti il ‘suo’ Ossola. Ed insomma anche il messaggio trovi il suo (giusto) mezzo. Perché, parafrasando proprio La Cava, per stare al centro anche «un grande angolino» ha il suo prezzo. Pier Paolo Pavarotti Liceo Mario Allegretti – Vignola (Mo) pierpaolo.pavarotti@iisparadisi.istruzioneer.it Questo esito non è garanzia per sé del risultato, si veda ad esempio la scelta drastica (mai più ampliata) cui è stata sottoposta Grazia Deledda (premio Nobel 1926) per i Meridiani da Natalino Sapegno. 63 Va segnalato il bel sito internet dedicato all’autore (www.mariolacava.it), curato dall’associazione «Caffè letterario Mario La Cava» di Bovalino, con introduzione alle opere, rassegna della critica, materiale audio-video, iniziative culturali. 62 152 Riferimenti bibliografici Ajello (1999) Nello Ajello, I peccatori della Magna Grecia, recensione a I caratteri, in «La Repubblica», 1 novembre 1999. 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Interesting results about his moral strictness and classical style, suggest the opportunity of a critical complete new edition, also reassembling the scattered correspondence beyond his narrative, dramatic, critical and journalistic production. 156 Parole-chiave: La Cava; Archiloco; Arendt, Caratteri; Viaggio in Israele. 157 CINZIA SACCOTELLI, La Mirtilla di Isabella Andreini Lo scrittore francese Théophile Gautier, nell’opera Les Grotesques, afferma che: «Une étude charmante et curieuse, c’est l’étude des poëtes du second ordre: d’abord, comme ils sont moins connus et moins fréquentés, on y fait plus de trouvailles, et puis l’on n’a pas pour chaque mot saillant un jugement tout fait ; l’on est délivré des extases convenues, et l’on n’est pas obligé de se pâmer et de trépigner d’aise à de certains endroits, comme cela est indispensable pour les poètes devenus classiques»1 e continua affermando che la lettura di questi poeti di second’ordine sia più ricreativa, essendoci nelle loro opere più originalità ed eccentricità. Mi avvalgo delle parole di Gautier per introdurre l’analisi della favola pastorale di Isabella Andreini, donna apprezzata e rinomata in campo artistico e meno studiata in quello letterario, sebbene le sue opere siano degne di attenzione. Isabella Canali2 (Padova, 1562 – Lione, 10 giugno 1604), meglio nota come Isabella Andreini, è stata attrice, comica gelosa, accademica intenta e poetessa italiana. Giovanissima, entra a far parte della Compagnia dei Gelosi, la più celebre – per l’elevata professionalità – della Commedia dell’Arte. Assieme al marito Francesco Andreini (attore anch’egli nel ruolo di Capitan Spaventa di Vall’Inferna) dirige la compagnia e numerose saranno le tournée che li vedranno protagonisti nelle varie città italiane (Roma, Napoli, Genova, Firenze, Bologna, Mantova, Milano) sino a giungere alla corte del re di Francia, Enrico IV. Lodata per il suo fascino e per la sua bellezza, oltre che per la sua erudizione, dai più grandi poeti italiani (Tasso, Marino e Chiabrera), si cimentò lei stessa nella produzione letteraria con la pubblicazione di opere di vario genere. Isabella nobilitò, con la sua virtù, la professione di attrice e nel 1585 Tommaso Garzoni la elogia con le seguenti parole: La gratiosa Isabellla, decoro delle scene, ornamento dei theatri, spettacolo superbo non meno di virtù, che di bellezza, ha illustrato ancora lei questa professione, in modo che, Gautier (1856), p. 1. Per uno studio più approfondito sulla figura di Isabella rimando a L’arte dei comici. Omaggio a Isabella Andreini nel quarto centenario della morte 1604-2004, a cura di Gerardo Guccini, «Culture teatrali», 10, 2004; Isabella Andreini, una letterata in scena a cura di Carlo Manfio, Padova, Il Poligrafo, 2014; La divina Isabella: vita straordinaria di una donna del Cinquecento, di Francesca Romana de’ Angelis, Sansoni editore, 1991. 1 2 158 mentre il mondo durarà, mentre staranno i secoli, mentre havran vita gli ordini, e i tempi, ogni voce, ogni lingua, ogni grido risuonarà il celebre nome d’Isabella.3 Tra le varie rappresentazioni che la videro protagonista4, di grande importanza, per il nostro studio, è la messa in scena, il 31 luglio 1573 a Belvedere, di un testo d’autore come l’Aminta di Torquato Tasso, nella quale lei stessa interpretava la figura maschile dell’omonimo protagonista, dando prova della sua versatilità e del grande rigore scenico che la contraddistingueva. Nel 1601 Isabella pubblica le Rime (una raccolta di sonetti, ecloghe, madrigali, sestine, canzonette e scherzi) e nel sonetto introduttivo sottolinea la sua poliedricità: «E come ne’ teatri or donna ed ora / uom fei rappresentando in vario stile / quanto volle insegnar Natura ed Arte».5 La sua interpretazione dell’Aminta viene ricordata e lodata anche da Gherardo Borgogni che dirà: Or Aminta si mostra et ora Clori Or sembra Amore con la faccia ardente Fra comici, fra Ninfe e fra pastori. Or con fronte serena, or con dolente, In tragico sermon appar di fuori. Or pianto versa, ed or minaccia morte, Con nobil arte e con maniere accorte.6 Questo permette all’Andreini di addentrarsi nel mondo della favola pastorale, di lunga tradizione e fiorente fortuna, tanto da scrivere e pubblicare lei stessa una pastorale nel 1588, la Mirtilla.7 Garzoni (1585), p. 901. Di grande rilevanza è la rappresentazione della Pazzia, definita “commedia d’Isabella commediante”, il 13 maggio 1589, in occasione delle nozze di Ferdinando de’ Medici con la principessa francese Cristina di Lorena, di cui ci dà testimonianza Giuseppe Pavoni, nel suo Diario (1589): «L’Isabella in tanto trovandosi ingannata dall’insidie di Flavio […] si diede del tutto in preda al dolore, e così vinta dalla passione e lasciandosi superare alla rabbia, ed al furore uscì fuori di se stessa, e come pazza ne n’andava scorrendo per la Cittade, fermando hor questo, e hora quello, e parlando hora in spagnuolo, hora in greco, hora in italiano, e molti altri linguaggi, ma tutti fuori di proposito [...]. Si mise poi ad imitare li linguaggi di tutti li suoi Comici, come del Pantalone, del Gratiano, del Zanni [...] tanto naturalmente, e con tanti dispropositi, che non è possibile il poter con lingua narrare il valore, e la virtù di questa donna. Finalmente per Fintione d’arte Magica, con certe acque, che le furono date à bere, ritornò nel suo primo essere, e quivi con elegante, e dotto stile esplicando le passioni d'amore, ed i travagli, che provano quelli, che si trovano in simil panie involti, si fece fine alla Comedia; mostrando nel recitar questa Pazzia il suo sano, e dotto intelletto; lasciando l’Isabella tal mormorio, e meraviglia ne gli ascoltatori, che mentre durerà il mondo, sempre sarà lodata la sua bella eloquenza, e valore». 5 Andreini (1601) sonetto proemiale, vv. 9-11, p. 1. 6 Borgogni (1599), p. 134, stanza 11. 7 Mirtilla, favola pastorale della Signora Isabella Andreini, dedicata all’Illustrissima et Eccellentissima Sig. Donna Lavina della Rovere, marchesa del Vasto, In Verona, per Sebastiano delle Donne e Camillo Franceschi compagni, 1588. 3 4 159 Nella lettera dedicatoria alla Marchesa del Vasto, Isabella Andreini afferma che la Mirtilla è «la prima fatica […] che sia venuta in luce»: si tratta di una favola boschereccia in cinque atti pubblicata a Verona quando Isabella aveva ventisei anni8 e persino tradotta in francese.9 La fortuna della Mirtilla è sancita anche da una moderna edizione inglese.10 Opera di successo immediato, tanto da essere ristampata11 e riproposta più volte tra la fine del Cinquecento e nel Seicento, ricalcava la pastorale tassiana dell’Aminta, mettendo però in scena due protagoniste femminili: Mirtilla e Fillide. Nel Cinquecento l’Aminta, valutata dai contemporanei come opera innovativa, fu elevata al rango di modello e si diffuse, nuovamente, il genere drammatico pastorale, caro alla tradizione classica (si pensi a Teocrito e Virgilio). Numerosi saranno i drammi pastorali scritti e pubblicati in questo secolo tra cui citiamo il Pastor fido di Guarino, l’Egle di Giraldi Cinzio, la Danza di Venere di Angelo Ingegneri e il Sacrificio di Agostino Beccari. All’interno di questo filone letterario12 si inserisce Isabella Andreini con la sua Mirtilla e Angelo Ingegneri, teorico della drammaturgia, nella sua opera Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, consacra l’opera Sebbene sia stata composta molto tempo prima; infatti nella lettera dedicatoria a Carlo Emanuele I di Savoia del libro delle Lettere si legge: «appena sapei leggere (per dir così) che io, al meglio, che seppi, mi diedi a comporre la mia Mirtilla favola boschereccia, che se n’uscì per le porte della stampa». 9 L’opera fu tradotta due volte in Francia: un’inedita traduzione in prosa di Roland du Jardin Sieur des Roches, Amours des Bergers (posseduta dalla Bibliothèque Nationale de Paris, Ms. FR 25483) e la Myrtille, Bergerie, mise en françois, Paris, M. Guillemot, 1602. 10 Mirtilla. Pastoral, edited and translated by Julie D. Campbell, Eastern Illinois University, 2002. 11 Mirtilla. Pastorale d’Isabella Andreini comica gelosa, In Verona, appresso Girolamo Discepolo, 1588; Mirtilla. Pastorale, In Ferrara, appresso Vittorio Baldini, 1590; Mirtilla pastorale. D’Isabella Andreini comica gelosa, In Mantoua, per Francesco Osanna stampator ducale, 1590; La Mirtilla. Pastorale della signora Isabella Andreini comica Gelosa. Di nuouo dall'istessa riueduta, et in molti luoghi abbellita. In Bergamo, per Comin Ventura, 1594; Mirtilla. Pastorale d’Isabella Andreini comica Gelosa. Nouamente ristampata, Venetia, appresso Marc’Antonio Bonibelli, 1598; La Mirtilla. Fauola pastorale della signora Isabella Andreini. Comica gelosa. Di nuouo dall’istessa riueduta, et in molti luoghi abbellita. In Verona, per Francesco dalle Donne, & Scipione Vargnano suo genero, 1599; Mirtilla pastorale di Isabella Andreini, Comica Gelosa, nuovamente corretta e ristampata, Venezia, Lucio Spineda, 1602; Mirtilla. Pastorale, in Milano, per Girolamo Bordoni and Pietromartire Locarni, 1605; Mirtilla. Pastorale, in Venezia, per Ghirardo Imberti, 1616; Mirtilla. Pastorale, in Venezia, per Ghirardo Imberti, 1620. 12 Per un approfondimento sulla Mirtilla ispirata all’Aminta tassiana rimando a F. Vazzoler, Le pastorali dei comici dell’Arte, la ‘Mirtilla’ di Isabella Andreini, in Sviluppi della drammaturgia pastorale nell’Europa del Cinque-Seicento, atti del convegno di studi (Roma, 23-26 maggio 1991), a cura di M. Chiabò, F. Doglio, Viterbo, Union Printing Editrice, 1992; L. Ricco, «Ben mille pastorali». L’itinerario dell’Ingegneri da Tasso a Guarini e oltre, Roma, Bulzoni, 2004. 8 160 dell’Andreini accanto alle opere «dei più celebrati ingegni» e dei più «qualificati autori nel campo della poesia scenica».13 Persino il nome della pastorale non è casuale, ma scelto con cura: Isabella riteneva che «colui, che si propone di comporre una commedia [deve] prima considerar ben bene tutta la favola, la quale (come vuole il filosofo) è l’anima del Poeta, et quella tutta come in un corpo ridotta darle un titolo conveniente» 14; in un altro passo dei Fragmenti scriverà «io mi son compiaciuta di leggere, e di rilegger più volte la Poetica d’Aristotele, come principale di tutte l’altre poetiche, et ho trovato, che il titolo si debbe pigliare dal nome della persona principale, intorno al quale è il soggetto di tutta la commedia».15 Sin dalla dedicatoria, Isabella ritiene la pubblicazione della sua opera «avventura troppo ardita» e allo stesso tempo afferma che cominciò «quasi da scherzo […] ad attendere agli studi della Poesia» trovando così tanto diletto da non poter più trattenersi «da sì fatti intrattenimenti». Tra i nomi presenti nell’elenco degli interlocutori, con cui si apre la pastorale, è evidente il richiamo alla tradizione classica del genere pastorale in Coridone e Tirsi e la presenza del Satiro rinvia alle prime pastorali ferraresi. Su modello tassiano, la Mirtilla16 si apre con un prologo in cui si mette in scena il dialogo tra Venere e Amore, nel quale la madre si chiede come mai «alte querele s’odono» contro il suo amato figlio spesso definito «tiranno, micidiale, empio e fallace», riprendendo una serie di «infami e disonesti avvenimenti» a carattere mitologico. Difatti v’è un lungo elenco di amori infelici, ripresi dalle Metamorfosi di Ovidio, come – per citarne alcuni – Piramo e Tisbe (Met. IV, 55-166), Alcione e Ceice (Met. XI, 440-748), Mirra innamorata del padre Cinira (Met. X, 298-518) e altri amori «miseri e dolenti» ripresi dalle Heroides ovidiane come Filli e Demofonte (Her. II) o Bibli e Canace (Her. XI); esibisce, così, tutti i possibili amori da quelli solitari a quelli che ricorrono agli inganni sino a quelli che portano inevitabilmente alla rovina. Isabella sceglie di riprendere e mettere in scena un universo femminile composto di ninfe, divinità e donne sottoposte al capriccio e alla violenza di uomini e dei. Figure, quasi tutte vittime, che si agitano nello spazio compromesso di un amore respinto o sul quale vige un divieto.17 Ma Amore si difende dalle accuse rivoltegli distinguendo se stesso da «quel malvagio, che di me prendendo / la forma, ogn’ora gli inganna», il furore è la forza che muove gli infelici, «egli si finge Amore per ingannar le genti» e «in ogni Ingegneri (1989), n. 35, p. 4. Andreini (1627), pp. 59-60. 15 Ibidem. 16 Per le citazioni della Mirtilla, l’edizione di riferimento è Doglio (1995). 17 de’ Angelis (1991), p. 96. 13 14 161 cosa / mente la mia figura» e sotto «larve mentite» promette pace e conforto a chi lo segue, avvolgendolo di «piacer falso». In risposta, Venere contrappone la verità, la prudenza, la fede, il timore, l’onore, il vero contento, la pace, l’onestà e la sicurezza - veri «seguaci» d’Amore - agli «abominevoli seguaci» del furore come errori, furori, odii, disdegni, rabbia, fraude, menzogna, pazzia, sfrenato ardire, disperazione, inganno, guerra e morte. Amore, allora, continua anticipando il contenuto della favola pastorale che, sebbene cominci con amori disperati e infelici, si concluderà con un ritorno all’ordine e il trionfo dell’Amore «vero custode delle genti e donator di gioia e di piacere». A differenza dell’Aminta, Isabella mette in scena tre coppie intrecciando le loro storie: il pastore Uranio, innamorato della ninfa Ardelia, sarà inseguito dalle ninfe Mirtilla e Fillide; tuttavia Ardelia si confessa, sin da subito, seguace di Diana e ricusa ogni proposta di Uranio lasciandolo triste e amareggiato. Il pastore Tirsi, invece, è fermo oppositore d’amore, ma si riscoprirà innamorato di Mirtilla. Infine, il pastore Igilio, sin dalle prime scene, è innamorato di Fillide, che non ricambia il suo sentimento. Attraverso peripezie e scontri la favola si conclude con il trionfo di amore e l’unione di Uranio con Ardelia, Filli con Igilio e Tirsi con Mirtilla. Analizziamo ora in maniera più approfondita l’intera pastorale, cercando di evidenziare somiglianze o differenze con il genere nel quale si inseriva. L’atto primo si apre con un dialogo tra i pastori Uranio e Tirsi, che si configura come una diatriba tra sentimento e ragione. Uranio, infatti, è perdutamente innamorato di Ardelia, che non ricambia il suo amore provocando così «tante miserie» nel pastore che vorrebbe avere più controllo sui propri sentimenti e dichiara, malinconicamente, che «troppo felice è quel pastor, che puote / amare e non amar quand’egli vuole»; ma il razionale Tirsi lo rimprovera perché «chi consente del suo mal […] / sol di se stesso, e non d’altrui si doglia» e solennemente afferma che «libero è il voler nostro, e può volere / pur, malgrado d’Amor, quel ch’egli vuole» professandosi così libero dal potere e vincolo d’amore e sancendo il primato della volontà. Uranio replica considerando come poco vale il nostro voler quando si è soggiogati dalla forza dell’Amore, da cui è difficile liberarsi e Tirsi lo esorta a fuggire poiché «co ‘l fuggir si vince Amore». Ma Uranio sa che il suo destino è quello di andare «tra i dannati spiriti» perché non può eludere Amore che lo troverebbe ovunque e non risparmia nessuno. A questo punto Tirsi si lancia in un’invettiva contro Amore con parole piene di amarezza: Amore altro non è che furor cieco, un ben dannoso, un malsicuro appoggio, 162 tiranno ingiusto al fin de’ vostri cori. Il ben, ch’egli v’addita è finto, e ‘l male purtroppo vero; e s’egli pur talvolta promette qualche ben, tosto vi toglie la speme di fruirlo: onde maggiore si fa la doglia, e più cresce l’affanno. Questi sono i piaceri, questi i contenti, che voi provate amando, per un lieve piacere, mille gravi tormenti, e per poca dolcezza tanto amaro; né mai provate un bene, senza tormenti e pene: onde ben posso dir ch’ogni piacere, ch’Amor vi fa gustare, altro non sia, che diletto fugace e dolor fermo, dubbio ben, certo male, onor celato e disonor palese fede perfida e frale, sollecito furor tenace e saldo, pigra ragion, senso veloce e presto, incertissima gioia, e certissima noia. A queste parole, Uranio non può che sottolineare la potenza dell’amore e la cecità del suo interlocutore nel non riconoscere il «possente Nume»; così Tirsi lo invita a ricambiare il sentimento di Filli, piuttosto che seguire chi lo fugge. Come replica, Uranio inizia una lunga e ricca descrizione di Ardelia, all’interno della quale si possono riconoscere elementi cari alla tradizione lirica amorosa che va dal Petrarca al Tasso. Notevole è il richiamo tassiano, come emerge dalla seguente descrizione del seno di Ardelia. Che seco il latte perde; il seno è fatto Di schietto avorio con due poma acerbe, che tremolar si veggon sotto un velo (Mirtilla, atto I, scena I, vv. 361-363) Scopria sue fresche rose, ch’or tiene nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude. (Aminta, atto I, scena II, vv. 690-692) Uranio non può sottrarsi a questo giogo, a questo laccio da cui egli è avvinto a tal punto da pensare che possa essere vittima di un incantesimo; evidente è la ripresa di un tema di lunga tradizione: Che fascino, baleno Arte maga, invid’occhio. (Mirtilla, atto I, scena I, vv. 451452) Udimmi Mopso poscia, e con maligno Guardo mirando affascinommi. (Aminta, atto I, scena II, vv. 644-645) Nescio quis teneros oculus mihi fascinat agnos. (Bucoliche, III ecloga, v. 103) 163 Con l’alternarsi di endecasillabi e settenari, Isabella presenta un gioco colmo di figure retoriche, antitesi, ripetizioni, ossimori e metafore e inizia a dipanare i vari intrecci d’amore presentando nella seconda scena un monologo di Fillide (personaggio rappresentato in scena da Isabella Andreini) che denuncia il suo tormento, la sua disperazione che la induce «a desiar la morte»: invano chiama Uranio e spera di esser da lui ricambiata e il suo monologo è colmo di tristezza tanto che afferma che «quanto ha di dolore il mondo / tutto in quest’alma misera s’annidi». Subito dopo, l’Andreini introduce la terza scena tra Igilio pastore, perdutamente innamorato di Fillide tanto da invidiare «l’erbe, i sassi, i fiori, le frondi, / che son tocche da lei» e voler tramutarsi panicamente, divenendo pianta come il Platano che fece ombra ad Europa e Giove (Ovidio, Met. II, 832-875) e la stessa Filli, che seppur non ricambi il sentimento di Igilio, non si presenta altera e scostante, ma comprensiva e gentile. Piene di dolcezza e pietà sono, infatti, le parole con le quali Filli rifiuta l’amore di Igilio: Se da l’opere nostre, si può vedere il core, credo che tu conosca, Igilio, quanto mi spiaccia e mi rincresca non poterti dare del tuo servir giusta mercede; ma non posso dispor di quelle cose, che per colpa d’Amor non son più mie. Io d’altrui sono e non posso essere tua Che mia né anco sono. Igilio si chiede allora come sia possibile che «essendo amor comune / non sia comune ancor quel desiderio / ch’egli con la sua face accende in noi» e Filli, piena di sofferenza, sente dolore non potendolo ricambiare. Il secondo atto è occupato dalla figura di Ardelia, antagonista di Filli e amata da Uranio, la quale esordisce dichiarandosi libera e devota solo «a quella casta Diva / che co ‘l bel lume suo rischiara l’ombre, et inargenta le campagne, e i boschi / a lei sacrati». La seconda scena è animata dal dialogo tra Ardelia e Mirtilla, che confessa il suo amore per Uranio e la sua sofferenza dovuta proprio all’amore «d’ogni mal radice»; alla sofferente e malinconica Mirtilla si contrappone Ardelia, che si lancia in un invettiva contro l’«empio figlio» di Venere che conduce gli amanti alla disperazione e li dispregia tutti tanto da affermare aspramente che «senza intelletto / giudico chi lo segue»; ma Mirtilla la esorta a non essere così sicura perché potrebbe un giorno divenire serva di Amore. Ardelia, allora, con un adynaton, marca la sua fiera opposizione all’amore: «più tosto tornerà l’antico Caos / che in me s’annidi mai pensier d’Amore» e si affida alla casta Diana; in risposta Mirtilla le ricorda che proprio quella «casta Diva» è 164 stata vittima e serva dell’amore e richiama le vicende amorose della dea con Endimione e Pan. Lungi dal considerare Ardelia una rivale in amore, Mirtilla le propone di nascondersi all’ombra della Quercia per udire Uranio che stava per giungere, ma quello che odono è una dichiarazione dello stesso per Ardelia poiché «di lei prigioniero e da lei vinto». La terza scena del secondo atto, così, si configura come un triplice dialogo ove, con una modalità da devinalh, si intrecciano le vane dichiarazioni d’amore di Mirtilla a quelle piene d’odio di Ardelia con le risposte di Uranio. Mirtilla: Deh Uranio ascolta me, che t’amo quanto amano l’alghe e l’onde i muti pesci. Uranio: Deh Ardelia ascolta me, che t’amo quanto aman l’api ingegnose i vaghi fiori. Ardelia: Pastor lasciami star, ch’io t’odio quanto odiano il lupo le belanti agnelle. Uranio: Ninfa lasciami star, ch’io t’odio quanto odian gli augelli le viscose panie. Mirtilla: Non ha tanti colori Primavera, quanti sono i martiri che tormentano per te l’anima mia. Uranio: Non risplendono nel ciel tante fiammelle la notte, quanti sono i mali che per te patisco ognora. Ardelia: Tanti augelli non van per l’aria a volo, quante sono le noie che per te sento quando t’odo e veggio. Uranio: Tanti strai non aventa il crudo Amore, quanti sono i tormenti che con l’odiata tua vista mi dai. E su questa falsariga continuano le battute tra i tre interlocutori e, riprendendo la tradizione bucolica, ciascuno promette all’altro qualcosa in cambio d’amore. Mirtilla: Se m’accetti per tua, donar ti voglio un velo ove vedrai con bel lavoro del miserello Adon la fiera morte: e Venere vedrai, che infuriata, per far vendetta del suo bene estinto, manda a le selve i pargoletti Amori, e par che dica: - Qui presa menate 165 la dispietata belva, acciò ch’io possa sfogar contra di lei l’irato core-. Uranio: Se mi accetti per tuo, leggiadra ninfa, donar ti voglio un arco d’or fregiato ove vedrai la dotta mano impresso, di varii fiori e persa coronato Imeneo con polita e bella guancia, che tien nella sinistra un vel purpureo e nella destra una facella accesa, e lo vedrai sì bello e ben composto, che sembra spirto aver voce e favella. Ardelia: Se tu mi lasci stare Uranio omai, donar ti voglio il mio Torrente fido, che tra quanti mi tengo amati cani, questo m’è assai più caro e più gradito, il quale con ragione invero porta di veloce torrente il nome altero; poiché fiera non è per questi boschi, sia pur quando si vuol fugace e presta ch’egli correndo non la fermi o prenda, o sia nel bosco o corra ‘l monte o ‘l piano. Ciascuno promette all’altro un dono e, come nella poesia ellenistica e in particolare in Teocrito (cfr. la descrizione del vaso nella bucolica Tirsi o la canzone), con la tecnica dell’ἔκϕρασις descrivono il dono che si arricchisce di storie e rimandi mitologici. Mirtilla vorrebbe donare ad Uranio un velo che raffigura il triste e infelice amore tra Venere e Adone e la disperazione della dea dopo la sua «fiera morte», quasi a sottolineare la sofferenza che lei stessa prova nei suoi confronti. Uranio, invece, offre come dono un arco d’oro, intriso di fiori, con Imene rappresentato, come nell’antichità, coronato di fiori che tiene una torcia nella mano destra e un velo da sposa nella sinistra; questo dono è un chiaro segno del tipo di relazione che Uranio vorrebbe instaurare con Ardelia, un amore coniugale, sancito e consacrato dal dio che, nell’antichità, proteggeva il rito del matrimonio. Questi versi richiamano alcuni dell’epitalamio (confluito nella raccolta dell’Amor coniugale), che Giovanni Pontano scrisse nel 1483 per le nozze della figlia Aurelia e recitano così: Felice di delizie, o letto, e di cari sussurri, trovasi in te contento l’uno dell’altro sposo. Pane congiunge le canne, ma Imene congiunge gli amanti ed ama Pan, le canne dolce Imeneo gli suona: 166 Imen cui piacciono il velo nuziale e dei giovani i baci, Imeneo che la pace del comun letto brama.18 Uranio promette un dono anche per Mirtilla «se di noiarmi omai resti» e cioè un vaso con raffigurate storie tratte dalle Metamorfosi ovidiane che rappresentavano le diverse trasformazioni di Giove in cigno, in aquila e in pioggia d’oro. Uranio: Se di noiarmi omai resti, Mirtilla, donar ti voglio un vaso ove vedrai, Giove da un canto trasformato in cigno, che sta lieto nel sen de la sua Leda; e da l’altro il vedrai che per Calisto ha preso di Diana il viso e i panni, per il bel Ganimede il vedrai poscia da l’altra parte in Aquila cangiato, e per Danae da l’altra in pioggia d’oro. La scena si conclude con una serie di domande senza risposta di Mirtilla costruite con la doppia ratio della ripetizione e dell’antitesi. Deh perché segui, Uranio, chi ti fugge? De perché fuggi, Uranio, chi ti segue? Perché ami tu chi t’odia? Perché odii tu chi t’ama? Deh perché prezzi tu, misero amante, una donna crudel che ti disprezza? Deh perché sprezzi, discortese amato, una fedele amante che ti prezza? Deh, fuggi chi ti fugge, sprezza chi ti disprezza, accogli chi ti segue, rendi amor per amor, odio per odio. Nell’atto terzo, invece, si allarga la catena d’amore e nella prima scena è protagonista il Satiro che invano ama la «cruda Filli» e mentre «sotto le piante / scherzano a l’ombra le leggiadre Ninfe, / co’ lascivi Silvani, e co’ Pastori», Filli gli sfugge; così il satiro pensa di usare «l’inganno» e prenderla con la forza e nella seconda scena, palesandosi a Filli che continua a negarglisi, svela la sua intenzione: «ingrata / voglio nuda legarti a quella dura Quercia, / ove con strazio finirai tua vita». Ma Fillide gioca d’astuzia e finge inizialmente di accondiscendere al suo amore e, mentre nell’Aminta tassiana Silvia – sempre nella terza scena – riesce a liberarsi dall’abuso del satiro grazie all’intervento di Aminta, nella Mirtilla dell’Andreini, Filli rappresenta la donna forte e capace di 18 Pontano (1920), libro III, vv. 57-62. 167 risolvere le situazioni con le proprie forze e risorse tanto da dire «or hai pur finalmente conosciuto, / ch’io mi beffo di te qual Donna mai». Nella scena di Filli che lega lentamente il Satiro e continua a ritardare ad arte il momento del bacio, la Andreini riscrive antichi topoi misogini sulle malizie delle donne e insinua fremiti di sensualità nel graduale crescendo degli atti della ninfa sul Satiro legato.19 Fillide: Tu sai che ‘l timore è proprio degli amanti, e non vorrei invece d’acquistarmi la grazia tua, privarmene per sempre. Satiro: Ah non temer di quello di che temer non déi. Fillide: Di questo mi rallegro; ma, cor mio, tu sei sì grande ch’io non posso aggiungere al ben desiderato; ed è bisogno, che con ambe le mani m’appigli un tratto a la tua bella barba: in questo modo, china bene il capo. Satrio: Ohimè fà piano, che ti pensi fare? Tu mi strappi la barba; ferma, ferma. Fillide: Eccomi ferma; ma tu non ti muovere, acciò, ch’io possa darti mille baci: o corna mie, voi mi feristi il core. Satiro: Ohimè non far sì forte; non mi torcere il collo, ohimè, da ver, che mi fai male. Fillide: Perdonami cor mio, ch’io non credeva di farti male; o che mammelle morbide. Satiro: Non pizzicar sì forte, ohimè, non fare. Fillide: Infine non mi posso contenere d’accarezzarti. Satiro: O che belle carezze! Fillide: Almen non ti sdegnar, vita mia cara. Satiro: Baciami presto, che farem la pace; e se tu non mi baci, voglio darti cattiva vita, e troverommi un’altra ninfa amorosa. Fillide: Chiudi quella bocca, se non vuoi ch’io mi muoia di dolore. Satiro: Non dar sì forte, ora che insania è questa che sempre mi fai male? Fillide: Ah discortese dimmi ond’avvien ch’ogni cosa t’offende di quel ch’io fo? E pur n’è testimonio il ciel che tutto vien da troppo Amore. 19 Doglio (1995), p. 12. 168 Filli non solo riuscirà a legare il Satiro, ma si farà beffe di lui lasciandolo preda dei lupi affamati. Dopo aver invertito i ruoli, sottolineando la superiorità della donna sul satiro, Isabella, nella scena terza, presenta un personaggio comico come il Gorgo Capraio che farà un vero e proprio elogio «al mangiar e al bere», piaceri superiori a quelli dell’amore e della caccia, e, avvalendosi dei cinque sensi, esalterà la voluttà gastronomica. Subito dopo, introduce una scena tra Filli e Mirtilla ed entrambe si riconoscono innamorate – e non ricambiate – di Uranio, ma la loro discordia non sfocia in litigio, bensì decidono di dirimere le loro «amorose contese» alla presenza di Opico e sfidarsi in un canto amebeo. L’ultima scena del terzo atto, infatti, vede protagonista il vecchio pastore Opico in qualità di giudice della gara di canto tra Mirtilla e Fillide. Forte è il richiamo alla terza ecloga virgiliana nella quale Dameta e Menalca si sfidano con uno “stornello” alternato in presenza di Palemone. Opico: Or tu comincia Filli, e poi segui Mirtilla; cantate dunque a prova, che ‘l cantar a vicenda aman le Muse. Palaemon: Incipe, Damoeta; tu deinde sequere, Menalca. Alternis dicetis: amant alterna Camoenae. Filli: Quattro e sei pomi accolti in un sol ramo serbo a la mia capanna e gli destino al mio vago pastor che cotant’amo. Menalcas: Quot potui, puero, silvestri ex arbore lecta, aurea mala decem misi: cras altera mittam. Mirtilla: Una fromba da me con bel lavoro fatta di seta e di fin or contesta, sarà don di colui che amo e adoro. Damoetas: Parta meae Veneri sunt munera; namque notavi ipse locum, aëriae quo congressere palumbes. Filli: L’empir il ciel di strida, ohimè che vale E ‘l crescer acqua co ‘l mio pianto a l’acqua, se non m’acquista fede al mio gran male? Menalcas: Quid prodest me ipse animo non Spernis, Amynta, si, dum tu sectaris apros, ego retia servo. Filli: La neve al sole si dilegua, e ‘l foco strugge la cera, e a me lo sdegno e l’ira d’Uranio il cor consuma a poco a poco. Damoetas: Triste lupus stabulis, maturis Frugibus imbres, Arboribus venti, Amaryllidis irae. Mirtilla: Giovan l’erbe agli agnelli, a l’api i fiori; a me sol giova contemplar d’Uranio nel vago viso i bei vivi colori. Menalcas: Dulce satis umor, depulsis Arbutus haedis, Lenta salix feto pecori, mihi solus Amyntas. Nella parte finale della contesa, come da tradizione bucolica (cfr. la terza ecloga di Virgilio), le ninfe si sfidano a colpi di indovinelli. Fillide: Dimmi, ninfa, qual è quell’animale, che ne l’acqua si crea, poi vive in fiamma, Damoetas: Dic quibus in terries (et eris mihi magnus Apollo) 169 e tuo farà questo dorato strale. Tres pateat caeli spatium non amplius ulnas. Mirtilla: Dimmi qual pesce in ocean s’asconde che tremar face chi lo tocca a pena e due caprette avrai bianche e feconde. (Mirtilla, III atto, vv. 17778- 1783) Menalcas: Dic quibus in terries inscripti nomina regum Nascantur flores, et Phyllida solus habeto. (Virgilio, Ecloga terza, vv. 104-107) Fillide chiede quale sia quell’animale che si genera in acqua e poi vive in fiamma e, a mio parere, si riferisce alla salamandra, un anfibio che, secondo una credenza diffusa già nell’antichità e tramandatasi nella cultura medievale europea, può vivere nel fuoco e spegnere la fiamma. Quest’animale, simbolicamente, rappresentava anche la fede che non cede a tentazioni e il coraggio di fronte alle sofferenze e si potrebbe ravvisare una somiglianza con la perseverante fede di Fillide. Mirtilla, invece, si riferisce alla torpedine: un animale che vive nei fondali dell’Oceano Atlantico dotato di un particolare organo definito organo elettrogeno in grado di produrre un campo elettrico. Il canto amebeo, come in Virgilio, si conclude con il riconoscimento, da parte di Opico, della «parità di valore» tra Fillide e Mirtilla e l’esortazione a non litigare tra loro, a smettere d’amare chi non le ama ed essere amiche e non rivali. Il quarto atto inizia con un dialogo tra i pastori Tirsi e Opico nel quale il razionale Tirsi manifesta quelli che sono i piaceri che «nel cacciar si provano» denunciando la triste e sofferta condizione di Uranio, posseduto da Amore; ma Opico lo ammonisce dicendogli che «chi teme del mal più, che non deve/ invece di fuggirlo, alcuna volta nel peggio intoppa». Tirsi, nel quale prevale la ragione, sprezza l’Amore e si sente superiore ad esso tanto da affermare che quest’arco che mi diede in dono la dea del primo cielo, non mi mancheran mai piaceri e giochi: quest’è quell’Arco onde non osa Amore accostarmisi punto, che teme rimaner ferito, invece di ferir me. Opico gli ricorda che non deve esser tanto ardito perché «soverchio ardir conduce altrui sovente a morte». La seconda scena si articola col dialogo tra Tirsi e Coridone, il quale ama riamato Nisa. Coridone, avendo udito il fiero e ardito discorso di Tirsi, gli risponde che «diporti piacevoli e soavi / sono quei de la caccia; ma rispetto / a piaceri amorosi / son’ombra, fumo, sogno, nebbia e vento» e con un discorso pieno di elementi pastorali sottolinea come tutto è attraversato dall’amore, che la sapienza e la ricchezza non bastano per essere felici e per rafforzare quest’idea fa l’esempio di 170 Paride che tra Giunone, Pallade e Venere «più prezzò di bella Donna, / gli abbracciamenti, e l’amorose gioie, / che ‘l profondo sapere e le ricchezze». Queste parole, per Tirsi, sono una vera e propria rivelazione e lui, che prima riteneva l’amore «peste de’ mortali», cambia idea e il suo cuore ostinato comincia ad addolcirsi. Isabella Andreini, tramite Coridone, affronta il tema dell’amore «maritale», la gioia e il diletto che provano gli amanti che «s’aman l’un l’altro» e, con una serie di rimandi ai poemi didascalici sulla caccia e sulla coltivazione, Coridone mostra come anche in natura le piante e gli animali sentano «d’amor l’alta possanza» e «le ritorte / viti s’abbraccian volentieri a l’olmo, / e al pioppo suoi cari mariti; il mirto / ama la bianca oliva» e prosegue con gli esempi - quasi facendone un poemetto didascalico - concludendo il suo discorso con un inno alla felicità «di due cuore amanti / cui marital ‘amor lega e congiunge». Mosso dalle parole di Coridone, il duro cuore di Tirsi si intenerisce e scopre di essere innamorato di Mirtilla e riesce, nella terza scena, a discorrere con lei, dichiarandole il suo amore e offrendole dei doni; ma Mirtilla le rivela il suo amore non corrisposto per Uranio e alla richiesta di Tirsi , che suona come un refrain paremiografico, di «ama chi t’ama», Mirtilla risponde scardinando l’idea della civiltà cortese, veicolata dal libro sulla natura dell’amore di Andrea Cappellano, che rivendicava l’autenticità del sentimento amoroso e la legge d’amore che non consente che chi è amato non riami, ma afferma «ah s’ogni amato riamar dovesse, / per natural costume, io non sarei / come tu vedi afflitta, e mal contenta». La quarta scena è centrale e topica dell’intera favola boschereccia: compare Ardelia che, specchiandosi nelle acque, si innamora di stessa e l’Andreini capovolge al femminile il mito di Narciso. Ardelia, devota a Diana e sdegnosa dell’Amore, si riscopre innamorata della propria immagine, sente un «focoso desio» di possedere se stessa e le sue parole sono piene di voluttà e desiderio. Scoprirà i piaceri e i conseguenti dolori provocati dall’amore e dirà «amo un’ombra e un’ombra invan desio». È sconvolta da un amore narcisistico tanto da affermare «avvampo e ardo di me stessa, e solo / posseder bramo, quel che più posseggo». Nell’Aminta di Tasso Dafne racconta di aver visto Silvia «vagheggiar se medesma» nel lago limpido acconciare i capelli e chieder consiglio alle acque, ma il suo era un cedere alla vanità della sua bellezza e preoccupazione di piacere, infatti «bella si vide ancor che incolta», mentre per Ardelia è vera passione: ella è inondata da un amore impossibile, quello per se stessa «incendio tal, che l’onda, ove egli nacque, / estinguer no ‘l potria». Ardelia rappresenta l’amore infelice e perseverante: si innamora di un’immagine che non potrà mai avere e che diventa parte di sé tanto da divenire prigioniera di se stessa. 171 Nell’ultimo atto tutti gli intricati intrecci delle storie d’amore saranno dipanati e, come già preannunciato da Amore nel prologo, gli amori infelici avranno «felice e lieto fine». Infatti, la favola pastorale non fa altro che moltiplicare gli amori infelici per esaltare la pluralità asimmetrica dell’inizio e l’ordine restaurato alla fine dell’opera. La prima scena è occupata dalla coppia Tirsi e Mirtilla e nella seconda e terza scena troviamo Igilio e Fillide. Sia Tirsi che Igilio, considerando la fierezza e crudeltà delle loro amanti annunciano di voler togliersi la vita, Tirsi gettandosi da un dirupo e Igilio uccidendosi con un coltello. A questa morte, solo annunciata, nel cuore di Mirtilla «vien pietade» e decide di seguirlo; Fillide invece ferma Igilio, pronto ad uccidersi, e si dichiara al pastore «io mi ti dono, togliendomi a colui, che indegnamente mi tenne un tempo in duri lacci avvolta» e all’incredulità di Igilio continua «A te che sei tutto il mio bene, Igilio / io, che sono Filli tua, venuta sono / per farti a pien dell’amor mio contento». Anche queste scene, confrontate con l’Aminta tassiana, sottolineano una differenza sostanziale: nella favola andreiniana la morte è solo accennata e tanto basta a far mutare opinione e sentimento; in quella tassiana, invece, Aminta alla falsa notizia dell’uccisione di Silvia, si suicida e solo per miracolo si salva e la morte sfiorata porta Silvia a ricambiare l’amore tanto da affermare «Oh potess’io con l’amor mio comprar la vita sua; anzi pur con la mia la vita sua, s’egli è pur morto!». La quarta scena è occupata da Uranio che, con un breve dialogo, si interroga sulla dura legge dell’Amore che lo induce a seguire chi fugge e fuggire da chi lo segue, un concetto di matrice ovidiana. Da chi mi segue Amor, fuggir mi fai, e seguir chi mi fugge, (La Mirtilla, IV scena, vv. 2819-2820) Quod sequitur fugio; quod fugit ipse sequor. (Ovidio, Amores, II, 20, vv. 36) Seguirà la quinta scena con l’arrivo di Ardelia e il dialogo col pastore Uranio, che sentendola afflitta per amor di se stessa, la esorta a comprendere le pene che prova per lei che non ricambia il suo amore e la invita a non aspettare che «l’inferma vecchiezza a te ne venga», perché «il pentirsi da sezzo nulla giova» ma deve cogliere il frutto dell’amore che lui le porge. Queste parole si rivelano illuminanti per Ardelia che decide di mutare «voglia» e amare il corpo di Uranio e non la falsa ombra di se stessa. Uranio, a questo punto, ringrazia ogni elemento della natura per quest’amore e nella sesta scena anche Mirtilla dichiara il suo amore ad Igilio, pronto a gettarsi da un dirupo, affermando «ch’io non sarò mai d’altro, / ma sono e sarò tua mentre ch’io viva». 172 Le ultime due scene vedono protagoniste tutte le coppie dinanzi al tempo di Ciprigna per ringraziare «l’alma Dea d’Amore» e le offrono in dono «purpuree rose», una corona di fiori, «verde mortella», «pura colomba» e candido velo; alle tre coppie si affiancano anche Coridone, corrisposto dalla «bella Nisa», e Gorgo Capraio che decide di donare «di Cerere e Bacco i frutti amati» e si congeda dalle ninfe e pastori per tornare alle delizie del palato. Uranio, allora, esalta questa felice condizione in cui versano tutti e si augura che «il cielo arrida sempre questi ameni campi, / e che zefiro spiri eternamente fra questi verdi frondi / e la sua bella Flora ogn’ora infiori / le valli, i colli, e le campagne, e i prati» e Ardelia continua augurandosi che mai neve o ghiaccio ricopra i fiumi, che le acque siano sempre limpide tanto che «specchio sien sempre a le più belle Ninfe», Igilio spera che «scorga sempre il duro agricoltore di Cerere biondeggiar le bionde chiome», Fillide auspica che «conceda mai sempre la natura / eterna primavera a questo loco», Tirsi chiede al dio Apollo di rendere sempre «festoso e ameno» il paese inondandolo con i suoi raggi e infine Mirtilla conclude quest’auspicata età dell’oro con l’augurio che «sia perpetuamente in questo loco / fior, fronde, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi», ricalcando un noto verso petrarchesco.20 A differenza della quarta bucolica virgiliana che preannuncia una nuova età dell’oro posticipata nel futuro, nella quale «omnis feret omnia tellus» e del coro del primo atto dell’Aminta che rimpiange elegiacamente un’età dell’oro passata nella quale «in primavera eterna, ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; né porto peregrino o guerra o merce a gli altrui lidi il pino», Isabella Andreini colloca la felice età dell’oro nel presente, nell’amore ricambiato, nella felicità di donarsi e amarsi e a pronunciare queste parole sono gli stessi protagonisti che vivono questa bella età; non si avvale, come Tasso, di un coro, di una voce fuori campo, ma ciascuno si fa portavoce di questa realtà. In un’altra sua opera, le Lettere, Andreini, a proposito dell’età dell’oro, dirà: Perche pensate voi, che fosse tanto felice l’età dell’oro? certo non per altro se non perch’ella era lontana dalla speranza, e dal timore: ma benché questo sia secolo di ferro, chi toglie à noi, che nol facciam d’oro? ogniun per se stesso può farlo. Il viver fà l’età, e non l’età il vivere. […] basta à me di veder poi vari, e gratiosi colori della ridente Primavera, vero tesoro de’ prati, e mi basta veder l’oro pretioso, che la benigna Cerere sparge ne’ miei fertili campi, alla cui vista allegrasi le gratiose e leggiadre Pastorelle, ch’altro non fanno, che danzare, cantar, e correre […].21 La favola, allora, si conclude con un inno all’Amore da parte di Coridone: Andiam lodando Amore, e la sua bella madre, Ripresa del v. 5 del sonetto «Amor, che meco al buon tempo ti stavi» contenuto nel Rerum vulgarium fragmenta. 21 Andreini (1607), Lettera CXXXVII, «Delle lodi della Villa», 138r. 20 173 poiché, la lor mercé, tante sventure hanno avuto felice e lieto fine e sia propizio sempre a questo sito il fato, e i rosignuoli fra questi verdi rami temprino a prova lascivette note e con nuove vaghezze cantin sempre d’Amor l’alte dolcezze. Ciò che differenzia la Mirtilla da tutte le altre produzioni pastorali in voga nel Cinquecento è il mancato riferimento alla realtà; di solito dietro gli abiti pastorali, sin dai tempi di Virgilio, si celavano ben note figure appartenenti all’ambiente di corte che ospitava il poeta; i personaggi della Mirtilla invece non nascondevano nessuno, forse perché Isabella non aveva radici in nessuna corte, ma nomade e vagabonda, come la compagnia a cui apparteneva, era libera da vincoli di servizio e fedeltà e assecondò solo la sua vena artistica e poetica, creando una favola nella quale ciascuno potesse identificarsi e rispecchiarsi. Nell’ecloga IV “Amaranta” delle sue Rime, Isabella coglie l’occasione per ricordare che un unico destino accomuna tutti gli uomini, servi e nobili e che ciascuno può identificarsi nei pastori: […] perché Pastor noi siamo e qual è al Mondo Re sì possente che l’origin prima da qualche servo o da Pastor non abbia? E qual è servo o Pastorel sì vile che ‘n qualche tempo anch’egli del suo legnaggio antico non possa raccontare corone e scettri? Tutti siamo, Amaranta, frondi d’una sol pianta22 […] Non manca, però, all’interno dell’opera il richiamo virgiliano, tassiano, ovidiano ma anche elementi della poetica a lei contemporanea dal Beccari al Guarini. Sebbene non sia compiuta e perfetta come l’Aminta tassiana, la Mirtilla è degna di essere annoverata all’interno del filone bucolico cinquecentesco e di essere studiata al pari delle altre opere; inoltre è la prima pastorale scritta da una donna. Nella dedicatoria a Carlo Emanuele di Savoia, nelle Lettere, Isabella afferma amaramente che la sua Mirtilla «si fece vedere nel Teatro del Mondo molto male in affetto, per colpa di proprio sapere (io non lo nego) ma per mancamento ancora d’altrui cortesia (e non v’ha dubbio)» riconoscendo sia la propria inferiorità intellettuale rispetto ad altri grandi autori del tempo, ma anche il mancato 22 Andreini (1601), p. 464, ecloga IV, vv. 110-118. 174 appoggio dei principi delle varie corti che lei, con la sua compagnia, dilettava con scenari e rappresentazioni. Un’opera che ha come modello forte il Tasso, poeta e drammaturgo, ma che rinnova i motivi del dramma a partire da una diversa concezione della vita: con la Mirtilla Isabella s’inserisce nel teatro pastorale sulla scia del maestro, ma introduce una nuova forza dei personaggi femminili. Forte e caratterizzante, infatti, è la presenza delle donne che non sono solo oggetti del desiderio dei pastori, oggetti passivi, ma per la prima volta sono soggetti attivi, protagoniste, in grado di gestire le situazioni (come Fillide con il Satiro) senza l’aiuto maschile, bensì sfruttando le proprie risorse, capacità e mostrando la propria intelligenza. Isabella, nelle numerose rappresentazioni della Mirtilla nelle varie corti italiane, interpretava Filli, personaggio di ascendenza tassiana, che univa alla gentilezza e alla comprensione grazia e intelligenza. Finucci, alla voce su Isabella Andreini, nell’Encyclopedia of Italian Literary Studies, in merito alla Mirtilla dirà quanto segue: The lyric effusions of the pastoral were typical of the genre, and Andreini lavished in her play even more artificiality than usual to conform to public expectations. But in the thematic change of the scene most often repeated in any pastoral play—the threatened ravishment of a nymph (as in Tasso’s Aminta)—Andreini shows forcefully how much the presence of women as playwrights and actresses ultimately was changing the stage. Responding to the implied violence against women of contemporary plays that often staged the topos of the damsel in distress in titillating ways, Andreini cast lyricism aside and constructed instead a scene in which female shrewdness and ingenuity— practical virtues—overcome male strength and crassness and save the day. Mirtilla concludes with a hymn to female friendship and implies that women can surmount the pains of unrequited love by constructing a world of togetherness and sharing.23 La Mirtilla si configura come la prima prova letteraria di una donna che fatica per far emergere la sua voce e la sua condizione di donna virtuosa (sebbene sia un’attrice) e il suo forte desiderio di durare per mezzo della scrittura, quel suo costante ricercare la fama eterna come scriverà in una canzone a Gabriello Chiabrera: Di tentar fama io mai non sarà stanca Perché il mio nome invido oblio non copra Benche m’avveggia, che sudando à l’opra Divien pallido il volto, e ’l crin s’imbianca. 24 23 24 Finucci (2007), p. 39. Andreini (1601), p. 21, Canzonetta morale I, vv. 37-38. 175 Cinzia Saccotelli Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’ cinzia.saccotelli@uniba.it 176 Riferimenti bibliografici Andreini (1601) Rime d’Isabella Andreini Padovana comica gelosa, dedicate all’Illustrissimo e Reverendissimo sig. Cardinal S. Giorgio Aldobrandini, Milano, appresso Girolamo Bordone e Pietromartire Locarni compagni, 1601. Andreini (1607) Lettere, d’Isabella Andreini padovana comica Gelosa, Venezia, Marc’Antonio Zaltieri, 1607. Andreini (1627) Fragmenti di alcune scritture della signora Isabella Andreini, Comica Gelosa et Academica Intenta. Raccolti da Francesco Andreini Comico Geloso, detto il Capitano Spavento, e dati in luce da Flaminio Scala Comico e da lui dedicati all’Illustrissimo sig. Filippo Capponi, Venezia, presso Gio. Battista Combi, 1627. Borgogni (1599) Gherardo Borgogni, Corona di stanze alla Signora Isabella Andreini comica eccellente, in Rime di diversi illustri poeti de’ nostri tempi, di nuovo poste in luce da Gherardo Borgogni d’Alba Pompea, l’Errante academico Inquieto di Milano, Venezia, presso la Minima Compagnia, 1599. de’ Angelis (1991) Francesca Romana de’ Angelis, La divina Isabella: vita straordinaria di una donna del Cinquecento, Firenze, Sansoni Editore, 1991. Doglio (1995) Maria Luisa Doglio (a cura di), Isabella Andreini, La Mirtilla, Lucca, Pacini Fazzi Editore, 1995. Finucci (2007) Valeria Finucci, Isabella Canali Andreini, in G. Marrone-P. Puppa (a cura di), Encyclopedia of Italian Literary Studies, vol. I (A-J), New York-Londra, Routledge, 2007. Garzoni (1585) Tommaso Garzoni, La Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), a cura di G. B. Bronzini con la collaborazione di P. De Meo e L. Carcereri, Firenze, Olschki, 1996, 2 tt., II. 177 Gautier (1856) Théophile Gautier, Les Grotesques, Paris, par Michel Lévy frères, Libraireséditeurs, 1856. Ingegneri (1989) Ingegneri Angelo, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Ferrara, Istituto di Studi RinascimentaliModena, Panini, 1989. Ovidio (1983) Ovidio, Amores, traduzione dal latino a cura di Ferruccio Bertini, Garzanti Editori, Milano, 1983. Pavoni (1589) Giuseppe Pavoni, Diario delle feste celebrate nelle solennissime nozze delli serenissimi sposi, il sig. Don Ferdinando Medici e la sig. Donna Christina di Lorena Gran Duchi di Toscana, Bologna, Rossi, 1589. Pontano (1920) Giovanni Pontano, L'amor coniugale e le poesie d'argomento affine, traduzione di Adriano Gimorri, Lanciano, Carabba, 1920. Tasso (2015) Tasso, Aminta, a cura di Marco Corradini, Rizzoli Editori, Milano, 2015. Virgilio (1978) Virgilio, Bucoliche, a cura di Luca Canali, Edizioni Bur, 1978. Isabella Andreini était une actrice, une comédienne jalouse, une academica intenta et une poète italienne. Très jeune elle a rejoint la Compagnia dei Gelosi et elle a agi dans diverses cours italiennes et également à la cour du roi de France Henri VIII. Une de ses grandes interprétations est la partie masculine d’Aminta, une fable pastorale de Torquato Tasso, en 1573. Après quelques années, Isabella écrivit et publia une œuvre pastorale, sur le modèle du Tasse, Mirtilla, qui fût réimprimé plusieurs fois et même traduit en français. Celle-ci s’ouvre sur un dialogue entre l’Amour et Vénus, le trame principale voit se développer des intrigues entre des bergers et des nymphes qui se poursuivent et qui se plaignent de leur condition d’amants désespérés. En suivant les règles classiques de la 178 fable pastorale, Isabella Andreini entremêle les différentes histoires d’amour et les dissout dans la dernière partie, faisant triompher l’amour. La présence décisive de femmes qui guident et dirigent l’histoire est fondamentale. Parole-chiave: Andreini; Mirtilla; pastorale; Aminta; amore. 179 ALESSANDRA TREVISAN, L’arte della gioia di Goliarda Sapienza: una pubblicazione lunga vent’anni (1978-1998) Nessuno può derubarci della gioia la nostra gioia sotterranea come tenera acqua come vena di roccia Lalla Romano, in Giovane è il tempo (Torino, Einaudi, 1974) Alla lunga gestazione del romanzo di Goliarda Sapienza più indagato e noto al pubblico di lettori – non solo italiani ma dei ventotto paesi in cui L’arte della gioia è stato tradotto – seguì un lungo periodo di ‘tentata pubblicazione’ attestato in Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’Arte della gioia (2016) dal vedovo dell’autrice Angelo Maria Pellegrino, custode dell’archivio privato. Iniziata nel 1967 e conclusa il 21 ottobre 1976, l’opera era pronta «all’inizio dell’estate del 1978»1 nella versione destinata agli editori. La critica odierna si è misurata sul testo analizzando da diversi punti di vista i contenuti ed anche interpretando le ragioni che possano riguardare la mancata diffusione in vita del romanzo integrale, pubblicato postumo a spese dell’erede nel 1998 grazie a Marcello Baraghini di Stampa Alternativa. Quella che è stata a lungo definita da Pellegrino una ‘censura ideologica’ trova radici nella Cronistoria e in disamine approfondite di alcuni studiosi; Domenico Scarpa si è infatti esposto in tal senso accludendo all’edizione Einaudi del 2008 una postfazione al testo2 che si accordava al successo delle traduzioni in Germania, Spagna e Francia3, la nazione che ha ‘adottato’ l’autrice e in cui il corpus sta avendo successo e riscontri da parte della critica dal 2005 a oggi. La casa editrice torinese ha Sapienza-Pellegrino (2016), p. 12. Cfr. Venturini (2017), pp. 540-542; Scarfone (2018), pp. 61-68. 3 A tal proposito si segnalano: In den Himmel stürzen (“L’arte della gioia”), trad. in tedesco a c. di C. Neumann, Berlin, Aufbau-Verlag, 2005; L’Art de la joie (“L’arte della gioia”), trad. in francese a c. di N. Castagné, Paris, Éditions Viviane Hamy, 2005 cui seguì L’Art de la joie, trad. in francese a c. di N. Castagné, Éd. France Loisirs, 2006; Die Signora, trad. in tedesco a c. di E. Hansen, Berlin, Aufbau-Verlag, 2006; El arte del placer (“L’arte della gioia”), trad. in spagnolo a c. di J. R. Monreal, Barcelona, Lumen, 2007; L’art de viure, trad. in spagnolo a c. di A. Casassas, Barcelona, La Campana, 2007. L’edizione statunitense riservata al mercato anglofono arriverà diversi anni dopo: The Art of Joy, trad. in inglese a cura di A. Milano Appel, USA, New York, Farrar, Straus and Giroux, 2013. 1 2 180 inserito il titolo di Sapienza dapprima nella collana Supercoralli e poi nei Super ET, dove ha conosciuto sinora diverse ristampe. L’inclusione dell’autrice nel canone è ormai avviata e limitatamente risolta, così come lo sono l’esplorazione di temi e motivi del testo specialmente legati ai Gender Studies e ai Queer Studies. Nell’ultimo decennio diverse voci, per lo più in ambiente anglosassone e italiano, si sono misurate con il testo creando un tessuto di ‘concrezioni critiche’ che guardano ai filoni citati, alimentando così il dibattito sull’opera. In particolare, il quadro di lettura del pionieristico volume La porta è aperta di Giovanna Providenti (2010) è stato ampliato ulteriormente a partire dal Convegno londinese del 2013, di cui oggi si possono leggere gli Atti Goliarda Sapienza in context per Farleigh Dickinson University Press (2016) a cura di Alberica Bazzoni, Emma Bond e Katrin Wheling-Giorgi. L’attenzione rivolta a L’arte della gioia4 con esclusività si rintraccia in miscellanee e monografie recenti, in particolare quelle di Maria Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il tempo della gioia per Carocci (2018), di Alberica Bazzoni per Peter Lang Writing for freedom: Body, Identity and Power in Goliarda Sapienza’s Narrative (2018) e di Gloria Scarfone, Un’autrice ai margini del sistema letterario per Transeuropa (2018). Pur considerando alcuni degli studi editi, in questa sede si intende esporre la problematicità della mancata edizione in vita dell’intero romanzo servendosi di documenti non ancora vagliati. Le ragioni ideologiche ‘pure’ (conosciute sino a oggi) non giustificherebbero infatti l’esclusione del volume dal mercato coevo. L’anarchismo, la sessualità, il lesbismo, l’anticlericarismo, gli omicidi e altri dei temi di AdG non forniscono un’argomentazione solida in grado di risolvere la complessità della vicenda editoriale nata attorno al libro. Grazie al raffronto tra materiali editi e inediti si verificheranno congruenze e possibili incoerenze d’archivio, che permettono di avanzare alcune tesi circa la fattibilità di pubblicazione del romanzo nel panorama editoriale dell’epoca in comparazione con quello che si affaccia dopo la scomparsa di Sapienza (nata nel 1924 e venuta a mancare nel 1996). L’esigenza di ridisegnare il contesto in cui lei e altre autrici affini pubblicavano negli stessi anni porterà inoltre a proporre alcune ipotesi circa l’adeguatezza o meno della destinazione editoriale scelta in vita. Questo genere di approccio ai margini del testo segue un articolo apparso su «Diacritica» nel 20185 in cui si delineava il contesto storico, editoriale e di ricezione critica de L’università di Rebibbia (Rizzoli 1983), invitando a una riflessione sul romanzo nel momento dell’accoglimento dello stesso da parte di Sergio Pautasso – allora riferimento per la casa editrice pocanzi citata – nonché dagli ambienti del femminismo romano e milanese. Scegliendo di affrancarsi in 4 5 D’ora in avanti AdG secondo il modello della legenda di Providenti (2010). Trevisan (20182). 181 parte dalla materia e dalla trama, si è proposto un inquadramento di argomenti che fecero rientrare Sapienza in un filone in auge a seguito della riforma carceraria del 1975 – di fatto avvenuta in piena stesura di AdG – ossia quello della letteratura penitenziaria, categoria che si affiancava a quella medico-psicanalitica de Il filo di mezzogiorno (Garzanti 1969). La posizione laterale da cui si affronterà l’esplorazione del percorso di AdG prova la necessità di rivedere alcuni passaggi attraverso i quali il dattiloscritto giunse alle case editrici che lo scartarono, incoraggiando domande e ‘dubbi’ (termine caro a Sapienza) sull’iter che portò ai rifiuti, tra il 1979 e il 1985, e sul gradimento che invece un certo ambiente aveva concesso al testo: ci si riferisce a una cerchia ristretta ed eterogenea, composta da voci amiche non tutte schierate. Tra esse spicca quella di Adele Cambria, che sarà tra le frequentazioni più importanti da fine anni Settanta in avanti. Il suo nome si ritrova non solo nei Taccuini editi da Einaudi (2011 e 2013) ma è presenza determinante anche in altre occasioni, a sostegno dei volumi pubblicati negli anni Ottanta; ciò è confermato in un altro articolo del 2018, in cui si è trattato del ‘giornalismo militante’ di Sapienza.6 Questo rapporto si affianca a contatti altrettanto importanti, tra cui si hanno quelli con Natalia Ginzburg, Cesare Garboli e le autrici del Gruppo di scrittura fondato da Elena Gianini Belotti, che l’autrice frequentò insieme a Cambria, Simona Weller, Francesca Sanvitale, Lucia Drudi Demby7 e altre scrittrici tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, periodo che fu per lei di sostegno anche al Partito Radicale.8 Sarà tuttavia opportuno ora procedere per gradi nella revisione del percorso di pubblicazione di AdG, tentando una ricognizione avvalorante delle tesi presentate. 1. ‘senza alterare niente’: passaggi e lettere tra 1978 e un cruciale 1979 In attesa di leggere l’epistolario di Sapienza è legittimo segnalare che la Cronistoria raccoglie soltanto un numero esiguo di rifiuti rivolti ad AdG: essi riguardano Rizzoli, Einaudi, Feltrinelli, Editori Riuniti, Mondadori, Rusconi e il coinvolgimento di diversi soggetti tra autori, direttori di collane, esponenti politici e altri con ruoli di responsabilità com’è stato analizzato già, oltre che da Scarpa, anche da Giovanna Providenti (2012). Il momento indicato nel titolo si colloca a cavallo tra la scrittura di Io, Jean Gabin nel 1979 – secondo la datazione critica largamente condivisa del romanzo postumo, edito da Einaudi nel 2010 – e Trevisan (2018). Si veda la voce pubblicata sull’«Enciclopedia italiana delle donne» nel 2019: http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/lucia-drudi-demby/ 8 Trevisan (2016), p. 54, n. 36. 6 7 182 l’esperienza carceraria dell’ottobre 1980, atta a creare «un caso massmediatico»9 per pubblicare AdG. La Cronistoria rimanda all’Archivio privato SapienzaPellegrino, da cui provengono alcuni documenti che saranno portati all’attenzione; altri, invece, si possono reperire in Fondi d’autore, al fine di dare una nuova struttura al dibattito in corso. Figure chiave di questo percorso sono state Enzo Siciliano e Sergio Pautasso, entrambi legati – in un rapporto triangolare o quadrangolare – a Sapienza e Pellegrino. Si è già riferito che AdG era pronto per l’invio agli editori all’inizio dell’estate del ’78. In una prima lettera manoscritta e senza data pubblicata nella Cronistoria, si conosce che Sapienza lo trasmetterà a Enzo Siciliano affinché l’editor dei suoi primi romanzi per Garzanti lo legga ed esprima una propria opinione: Enzo caro, sono felice di poter finalmente mandarti il mio lavoro, anche se questa felicità è inclinata dal fatto che è lungo... Ma so anche che tu [...] ami leggere e che la quantità delle pagine è annullata dalle tante “avventure” che la mia protagonista affronta [...] è un ritoesorcismo perché non dimenticherò mai – e sempre ti sarò grata – di avermi fatto pubblicare L. A. che so oggi, a 11 anni di distanza [...] senza di te non sarebbe mai stata data alle stampe.10 Questa missiva, che risalirebbe al 1978, non è presente nel Fondo Enzo Siciliano dell’Archivio del Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux né nell’Archivio Fondo Rizzoli, entrambi di riferimento in questa sede.11 Si può notare, tuttavia, considerando le lettere di quegli anni conservate nel Fondo Siciliano, che Sapienza e l’amico erano in contatto sia durante la scrittura del romanzo, tra fine anni Sessanta e primi Settanta, sia nel biennio 1978-1979. Il 20 febbraio 1979, ancora seguendo la Cronistoria, il dattiloscritto di AdG veniva indirizzato da Siciliano a Pautasso, accompagnato da alcune righe dattiloscritte: Caro Sergio, ti spedisco il “romanzone” di Goliarda Sapienza del quale, se ricordi, ti parlai a voce. A me sembra, ti ripeto, cosa di rilievo. Da un lato il contenuto: lo spirito laico e libertino che intride una vicenda che ha respiro di storia […] una sorta di inusitato epos italiano. Dall’altro la forma – che è tutta risolta in una serrata narratività spontanea. Sapienza-Pellegrino (2016), p. 9; lettera manoscritta e senza data con firma autografa. Ivi, p. 13. Si ricordi che, nell’autunno di quell’anno, i coniugi affrontavano un viaggio sulla Transiberiana per visitare l’URSS e la Cina, come attestano i Taccuini editi nel 2011. 11 Per completezza: Fondo Enzo Siciliano all’interno dell’Archivio del Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”. Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze, abbreviato d’ora in avanti in ACGV, e Archivio Fondo Rizzoli – Fondazione Corriere della Sera di Milano; per la consultazione di quest’ultimo ringrazio la Dott.ssa Francesca Tramma. 9 10 183 A me sembra d’aver davanti un libro aperto a una straordinaria leggibilità. 12 Il giudizio dell’autore-editor non appare nei Fondi indicati. Providenti cita una minuta di lettera non datata risalente allo stesso periodo in cui, con una sorta di captatio, Sapienza si rivolgeva a Pautasso in questi termini: Caro Sergio, ti spedisco la lettera della quale ti ho parlato. Mi dispiace darti questa noia ma, purtroppo, non ho nessun ritaglio di giornale che parli del mio lavoro (mancanza di “ambizione” – come dicono i miei amici – o ambizione così profonda da fare a meno delle lodi e stroncature degli altri? Chi lo sa? Probabilmente tutte e due le cose) e… Bene. Scusa la parentesi e ancora grazie di tutto e grazie. Goliarda.13 Il tono confidenziale dell’autrice pare conseguire l’intercessione di Siciliano presso Rizzoli. La studiosa distinguerà infatti il successivo cambio di tono dal ‘tu’ al ‘lei’ di Sapienza come una presa di distanza. È forse utile puntualizzare che l’autrice conservava nel proprio Archivio recensioni e lettere riguardanti i romanzi Garzanti, molte delle quali a sostegno del suo lavoro; non è chiaro, dunque, per quale motivo – come segnala Providenti – in questa lettera ricca di incisi (l’originale) non sia certa di voler pubblicare l’opera e – apparentemente – si sottragga dall’esibire i documenti che invece attestano la qualità della sua scrittura. È probabile che quella ‘mancanza d’ambizione’ copra l’esigenza che il testo parli da sé – almeno per il momento. Nel marzo dello stesso anno Pier Maria Pasinetti, già in stretti rapporti con l’agente letterario Erich Linder, consigliava questo nome a Sapienza affinché l’appoggiasse presso Rizzoli. Né la Fondazione Mondadori di Milano né il Fondo Pasinetti conservato al CISVe di Venezia danno traccia del suggerimento.14 Lo scambio dell’autrice con Pautasso si concentra nella primavera mentre lei ancora intrattiene rapporti epistolari con Siciliano e Attilio Bertolucci. Nelle lettere del Fondo Siciliano di quel periodo inviate da Gaeta – luogo in cui lei si rifugiava spesso allontanandosi da Roma – come si conosce da Elogio del bar (Elliot 2014) – non si hanno cenni alla presenza di Linder. Il rifiuto da Rizzoli giungerà tuttavia a maggio ’79.15 Il 6 settembre Adele Cambria intitolava un suo articolo pubblicato su «Il Giorno» Dopo l’Orca arriva la Gattoparda. Lì non emergono solo alcune Sapienza-Pellegrino (2016), p. 15. Cfr. Scarpa (2008), p. 524; Providenti (2012), p. 292, n4. Quest’ultima ha lavorato nell’Archivio privato Sapienza-Pellegrino, da cui provengono i documenti citati. 13 Providenti (2012), p. 292. La lettera è trascritta soltanto in parte e non se ne ha copia nell’Archivio Fondo Rizzoli. 14 Per completezza: Fondo Pier Maria Pasinetti facente parte dell’Archivio “Carte del Contemporaneo” all’interno del Centro Interuniversitario di Studi Veneti CISVe. Per queste indicazioni ringrazio Silvana Tamiozzo Goldmann e Samuela Simion del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari. 15 Ivi, p. 22. 12 184 significative comparazioni con Brancati, Patti, Sciascia, Lampedusa, D’Arrigo nonché con Virginia Woolf e il suo Orlando, ma si evidenzia come il femminismo non allineato di Sapienza fosse nutrito dalla letteratura e acquisisse da essa le proprie fonti; si sottolinea dunque come l’arte della scrittura sovrastasse l’impegno istituzionale.16 Soprattutto: si segnalava pubblicamente per la prima volta – e in anticipo sulla rassegna stampa che riguarderà Rebibbia – l’esistenza del romanzo.17 Il pezzo veniva spedito a Pautasso a mezzo espresso il 7 settembre18 mentre Pellegrino si occupava di inviare a Linder il romanzo della moglie.19 Il 14 settembre la risposta del primo raggiungeva Sapienza: in poche righe comunicava alla ‘Gattoparda’ di aver preso atto della «sottile vendetta» seguita al rifiuto, come si legge nella Cronistoria.20 Qui si prova anche l’invio di una lettera dattiloscritta datata 21 settembre dell’autrice a Pautasso che, tuttavia, nel Fondo Rizzoli porta una datazione posteriore; il testo presenta qualche variazione: Gentile Pautasso, non capisco perché lei si rivolga a me lamentandosi. La lettera con ritaglio del giornale non era anonima dato che sul retro c’era il nome di mio marito (e il nostro indirizzo) che non ha inteso vendicarsi ma solamente rispondere ad una sua affermazione che le ricordo, lei mi disse al telefono e poi a voce, che nel mio romanzo i temi non sentivano fuori. Questa affermazione rivela che lei non ha letto il romanzo e, come dice Cooper, [è] o un semi-analfabeta politico o qualcuno che non accettando le idee che lo serpeggiano, le ha rimosse all’istante. Oppure, ancora: la Rizzoli non è che una succursale della ben nota “Famiglia Cristiana” (infatti io avevo confidato in lei sapendolo un erede delle idee di Vittorini). Questo qualcuno comunque non è lei niente non ha letto una vita del mio manoscritto, e la posso capire. Ho visto quale inferno è il suo ufficio-galera a Milano... si legga la mia modesta quando potrà. Forse prenderà la forza di non essere più il forzato del suo lavoro, o del suo talento o del suo dovere... Senza rancore ma con molta pietà per la sua condizione di maschietto (legga “Maschio per obbligo” della Carla Ravaioli edito da Bompiani e che sicuramente il suo staff non avrebbe mai preso in considerazione) plagiato sin dall’infanzia quasi altrettanto della sottoscritta donna, sì, ma senza artigli. Saluti cari Goliarda Sapienza. Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 23-25. Per ciò che concerne le anticipazioni di Cambria: cfr. Trevisan (2018). 18 La busta originale e il ritaglio sono ancora conservati presso l’Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.1 “Varie – S/Se”, Segnatura: 338RIZ. Cfr. Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 23-25. 19 Sapienza-Pellegrino (2016), p. 25. 20 Ivi, pp. 28-29. Cfr. Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.1 “Varie – S/Se”, Segnatura: 338RIZ; questo documento è l’originale ricevuto dall’autrice. Cfr. Providenti (2012), p. 293. 16 17 185 Roma – 29-10-’7921 Si rilevi che risulta improbabile la presenza di una lettera diversa dall’originale presso l’Archivio Fondo Rizzoli. Si può presumere, dunque, che Sapienza abbia battuto a macchina la bozza della lettera ma l’abbia inviata, con trascrizione a mano, diverso tempo dopo (il mese seguente). Considerando la seconda collocazione temporale, a questo livello è auspicabile intervenire sulla cronologia presentando un breve scambio intercorso tra Siciliano e Pautasso, che modifica due volte la lettura del ‘rifiuto’. Il primo faceva pervenire questa lettera: 26 sett. ‘79 Caro Sergio, ti mando il romanzo di Francesca Sanvitale. Spero non faccia la fine di quello della Sapienza. Nel librone della Sapienza c’era, a mio avviso, un romanzo di duecentocinquanta pagine molto singolare molto violento: - tutto stava a cavarcelo, lavorandoci un po’ su, schiarendo, sotto questa prosa tutto colore, il personaggio di quella maledetta, tutta bistro opaco, carica di una feroce, losca (e laica) vitalità. Con il romanzo di Francesca siamo all’opposto, nel senso che non c’è niente da toccare. L’equilibrio è trovato, ed è privo di incrinature. “Madre e figlia”, ti ho detto. Ma il romanzo è un vero romanzo d’avventura; tessuto di materiali che sembrano, a riassumerli, venire da chissa [sic] quale sepolta narrativa ottocentesca. Invece sono tutti veri, e vissuti; e, poiché madre della poesia è la memoria, se la memoria funziona in senso espressivo, riscatta tutto e tutto rinnova. A me questo libro sembra molto originale, libero nella struttura e “commovente”. Ti dicevo al telefono che possiede un ottimo tasso di comunicatività: - insisto su questo, poichè [sic.] credo che la letteratura debba più che mai uscire fuori dal proprio guscio. Lo affido a te, e non a un lettor qualsiasi. Altre volte ti ho mandato manoscritti per “dovere”. Stavolta ti mando un vero romanzo, un romanzo che non capita spesso di incontrare. Cosa aggiungerti? Il caro saluto del tuo.22 Dal testo emerge la distanza espressa da Siciliano circa il romanzo di Sapienza e un paragone con quello di Francesca Sanvitale: non si tratta soltanto di una differenza di tipo editoriale ma che riguarda la materia e lo stile. Madre e figlia fu Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.1 “Varie – S/Se”, Segnatura: 338RIZ. Alla quinta riga quel «lei non» nella Cronistoria è sostituito da «chi», che muta il soggetto. Cfr. Scarpa (2008), p. 529 e Providenti (2012), p. 294, riprese entrambe dal documento dattiloscritto e non dall’Archivio Fondo Rizzoli. 22 Copia carbone (velina) di lettera ds. non f.ta su carta intestata personale di colore arancione in Fondo Enzo Siciliano, ACGV, segnatura: ES.I.1360.33 a. Ringrazio gli eredi Flaminia Petrucci Siciliano e Andrea Guido Pautasso, e la Direttrice dell’Archivio, la Dott.ssa Gloria Manghetti, per il permesso accordatomi alla riproduzione del documento. In particolare, il testo presenta correzioni autografe: r4 ha espunto «originale» in favore di «singolare»; r6 ha aggiunge «losca»; r9 ha espunto «lo trovo» dopo «è»; r13 ha virgolettato «commovente»; r14 ha espunto «anche» dopo «possiede». 21 186 inoltre spedito per scelta mentre AdG fu presentato su richiesta. La risposta non tardò ad arrivare: Milano, 8 ottobre 1979 Caro Enzo, ti ringrazio per il romanzo della Sanvitale. Nonostante la rottura di Francoforte cercherò di vederlo presto come mi chiedi. Ricordo l’altro suo romanzo come uno dei significativi di quegli anni e son sicuro che questo non sarà da meno. Vediamo se e come si può incastrare qui. Quanto alla Goliarda il discorso è un po’ diverso: perfettamente d’accordo che si poteva ricavare un romanzo di 250 pagine, ma se lei non voleva, come era possibile? È stata anche qui e gliel’ho detto: così no, ma la conditio era prendere o lasciare e ho preferito lasciare. Muoio di gran lavoro. Ciao. Sergio Pautasso23 Appare dunque chiaro che Pautasso e Siciliano avessero preso una comune posizione circa AdG, senza probabilità di ripensamenti – o quasi. I documenti sino a oggi inediti rivelano la necessità di smarcarsi da un caso editoriale complesso e inattuabile ma, non per questo, la ‘chiusura’ della Rizzoli nei confronti dell’autrice a nuove proposte, come convalidato da Providenti24, aspetto su cui si ritornerà. In quel momento il romanzo fu inviato il 4 ottobre ’79 al direttore della sede romana di Einaudi Paolo Terni, il quale rispondeva il 19 ottobre riportando un giudizio non favorevole a cura dei consulenti editoriali.25 Lo stesso giorno (19.10.’79) Sapienza inviava a Siciliano l’articolo di Cambria con, allegata, una lettera senza data riportata nella Cronistoria: Enzo caro, ti mando l’articolo della Cambria, che, lo confesso, mi ha reso felice. Temevo molto che le “nostre” fraintendessero l'amore che la mia Modesta ha per gli uomini, ma se Adele ha capito che è odio razzista quello che oggi impronta un certo movimento femminista, anche le altre lo capiranno. Avevo scelto Adele come assaggio proprio perché non fa parte delle mie amiche. Tu dirai perché tanta gioia? Perché proprio per lottare questo odio-malattia infantile del femminismo (nato tardi, purtroppo, e da quello americano invece che dalla matrice vera e ricca delle femminilissime voci della Kollontaj, della Woolf e di mia madre stessa) presi a scrivere delle avventure di Modesta dieci anni fa a costo di mettermi contro di loro. Le donne – come tu sai – sono il mio pianeta e la mia ricerca, il mio unico “partito” e forse, oltre all’amicizia, il mio unico scopo della vita Lettera dattiloscritta con firma autografa di Pautasso a penna in Fondo Enzo Siciliano, ACGV, segnatura: IT ACGV ES. I. 1360. 33 (a - b)/b. Ringrazio l’erede Andrea Guido Pautasso e la Dott.ssa Manghetti per il permesso accordatomi alla riproduzione del documento. L’originale non firmato si trova in Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.3 “Siciliano Enzo”, Segnatura: 754RIZ. 24 Cfr. Providenti (2012), pp. 295-297. 25 Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 34-37. 23 187 [...] È stato duro per me – in questi ultimi dieci anni – assistere all’insano neofitismo che come un veleno (sicuramente istillato dal potere: dividere l’uomo dalla donna per sconfiggerli entrambi, tecnica antica usata anche per le razze, i lavoratori ecc.), mi costringeva a contrastarle dentro e fuori di me. Sempre lotterò per l’amicizia fra l’uomo e la donna, pianeti così diversi e così simili, bisognosi l’uno della diversità dell’altro. L’armonia dei contrari, diceva Giordano Bruno, e così deve essere, ripeteva mia madre, a dispetto del potere che vorrebbe vederci tutti uguali. Ma una spina ho nel cuore (come dicono i contadini) l’averti dovuto sottrarre il manoscritto per cause finanziarie. Ora ho molte copie […] 26 Domenico Scarpa data la lettera come appare anche nel Fondo Enzo Siciliano 19.10.1979. Si tratta, come verificato, di un documento ‘successivo’ al dialogo fra l’editor e Pautasso, che sembra testimoniare una fase complessa da affrontare e senza riuscita. Se quanto tracciato aveva trovato fondamento nella Cronistoria, l’aggiornata cronologia intende notificare le coordinate del passaggio antecedente, di cui l’autrice non era con tutta probabilità a conoscenza. Il 6 dicembre ’79, a causa di ragioni personali, Linder restituiva il manoscritto di AdG27 senza averlo letto né aver avuto l’opportunità di proporlo ad alcun editore. L’operazione-Rizzoli sembrava essersi conclusa. 2. 1979 e 1980: tra Bertolucci, il favore di Pertini e il ritorno a Rizzoli Nell’estate del 1979 anche Attilio Bertolucci, colui il quale, insieme a Siciliano, sostenne Sapienza nella pubblicazione di Lettera aperta nel 1967 presso Garzanti – e la candidò con Natalia Ginzburg allo Strega nello stesso anno – ricevette il manoscritto di AdG. Ciò è stato ripercorso da Providenti, la quale data una cartolina autografa del poeta al 26 luglio ’79 in cui lui ringrazia per l’opera giuntagli. In due lettere dell’Archivio Sapienza-Pellegrino, una spedita e l’altra inedita che la studiosa data post quem 26 luglio 1979 e ante quem primi mesi del 1980, ancora Sapienza si rivolgeva al poeta come interlocutore privilegiato per la lettura del suo lavoro, dal quale desiderava ottenere un parere di lettura da ‘padre’.28 Nella Cronistoria si percorrono alcune pagine che dimostrano diversi passaggi ulteriori nella vicenda editoriale del romanzo, non accennando affatto a Bertolucci che, invece, emerge come ‘personaggio-chiave’ in un punto delicato e complicato del percorso. Cfr. Sapienza-Pellegrino (2016), p. 33. La lettera è stata ribattuta a computer e non presenta indicazione di data né firma autografa. 27 Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 38-39. 28 Providenti (2012), p. 299. È rilevante indicare che, dopo alcune ricerche, non è stato possibile rintracciare l’Archivio privato di Bertolucci contenente questi documenti e il manoscritto di Sapienza; si indica solo il Fondo omonimo presente all’Archivio di Stato di Parma. 26 188 Si segua nuovamente la cronologia. Nel volume del 2016 si riferisce di un primo contatto risalente al 14 gennaio 1980 con l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che fu amico della madre di Sapienza: Maria Giudice.29 Mentre il testo era giunto «nelle mani di Inge Feltrinelli grazie a un’amica» dell’autrice30 quest’ultima scriveva nuovamente a Pertini esponendo la situazione che gravava sui tentativi di pubblicazione, chiedendogli una mediazione presso la casa editrice milanese31 che, proprio nel gennaio 1980, aveva pubblicato Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, volume citato da Bazzoni e che Barbara Kornacka mette in relazione con L’università di Rebibbia.32 Dato ciò, la proposta amicale sopraccitata può rientrare nel quadro di una continuità di ricerca, tra contenuto ed editoria. Si è tuttavia a conoscenza di una frequentazione assidua tra Sapienza, il regista Citto Maselli, Giangiacomo Feltrinelli e sua moglie negli anni Sessanta; ci si chiede pertanto se la memoria di quel tempo non potesse già da sola validare l’opportunità di presentazione del manoscritto alla casa editrice – nonostante la morte del fondatore nel 1972.33 È evidente che l’(auto)esclusione dell’autrice dagli ambienti frequentati negli anni Sessanta le nega un’assiduità con il mondo dell’editoria; i suoi contatti personali sbilanciati, perciò, vogliono la prova costante di una ‘presenza esterna’ (Pertini come Siciliano o Linder) d’appoggio alla pubblicazione. In quel momento Angelo Pellegrino si rivolgeva a Siciliano con una lettera datata 1/2/’80, nella quale riassumeva la posizione indignata di Pertini nei confronti della circostanza e aggiungeva alcune righe importanti che riguardavano la possibilità di rivedere la lunghezza di AdG, prima di allora mai valutata: «Enzo caro, ho parlato con Goliarda. La disponibilità a ridurre il romanzo, come ti ho detto, ci sarebbe. Potremmo consegnare un manoscritto di circa 500 cartelle (da mille che sono)».34 Antonio Ghirelli, capo del Servizio Stampa del Presidente della Repubblica, veniva allora incaricato da quest’ultimo di esporsi con Pautasso. Nella lettera che Ghirelli spediva poi a Sapienza si ribadiva la «difficile collocazione del manoscritto»35 secondo Rizzoli e la necessità di «ridurlo drasticamente»36, invitando l’autrice a comunicare in via diretta con l’editore per proseguire l’iter Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 40-41. Lettera di Sandro Pertini su carta intestata, dattiloscritta e con firma autografa; la data è stata inserita con un timbro. 30 Ivi, p. 42. 31 Ivi, pp. 43-45; lettera dattiloscritta senza data né firma di Sapienza. 32 Cfr. Kornacka (2017) e Trevisan (20182); inoltre Bazzoni (2018), p. 274, in cui si definisce l’autore tra gli odierni «LGBT writers». 33 A proposito della vicinanza con Giangiacomo Feltrinelli si legga Maselli (2007). 34 Sapienza-Pellegrino (2016), p. 47; lettera dattiloscritta con data manoscritta e senza firma autografa. 35 Ivi, p. 49; lettera con data, dattiloscritta e su carta intestata con firma autografa. 36 Ibidem. 29 189 della pubblicazione. Un’apertura al dialogo, dunque, era stata favorita dall’intervento di Pertini, e tuttavia Sapienza il 5/2/’80 gli riferiva di non aver ricevuto alcuna risposta da Feltrinelli e di essere stata consigliata da Siciliano di mettere in contatto il Presidente con Angelo Rizzoli in persona.37 Entrambe le spinte verso le case editrici milanesi appaiono in un orizzonte di contrattazione che presenta dei lati oscuri: l’attesa da parte di Feltrinelli – come ipotesi aperta – non pareggerebbe la trattativa riaperta con Rizzoli. Sembra inoltre non vi sia traccia di lettere relative a questo nuovo appello su suggerimento di Enzo Siciliano né all’interno del Fondo omonimo, né nell’Archivio Fondo Rizzoli, né Domenico Scarpa e Giovanna Providenti ricostruiscono questo andirivieni. Si può presumere che la complessità del caso fossa stata mitigata dalla presenza del Presidente e tuttavia non risolta. Mancando controverifiche d’archivio esterne a quello privato SapienzaPellegrino, da cui appunto la Cronistoria trae le proprie fonti, si avanzano alcune domande: l’autrice era certa di voler tagliare parte del testo pur di pubblicarlo? E i soggetti implicati dal punto di vista editoriale avevano messo in discussione concretamente le loro antecedenti posizioni? Come si è già appurato, Pautasso e Siciliano mantenevano a quel tempo una costante comunicazione lavorativa epistolare; oltretutto il secondo uscirà ben presto ‘di scena’. Si può ipotizzare dunque che quanto riassunto anche nella Cronistoria sia passato dapprima attraverso le maglie di un processo ufficioso e, in seconda battuta, le fila del percorso siano state riprese in carico secondo modalità ‘ufficiali’. Angelo Pellegrino, infatti, scriverà di nuovo a Pautasso il 2 marzo chiedendogli conferma circa la disponibilità da parte sua di «un diretto interessamento nella lettura»38 del manoscritto ridotto; il 19 marzo 1980 Pautasso risponderà facendo riferimento sia alla forma sia al contenuto: andrebbe abbondantemente sfoltito e reso più secco. Non è tanto questione di passare da 1000 a 500 pagine, ma di trovare una linea e una sostanza che narrativamente lo giustifichino meglio che non ora. Se sua moglie ritiene di dover prendere in considerazione un’idea strettamente personale qual è quella che esprimo, non abbiamo nulla in contrario a riesaminare, senza alcun impegno, il testo sperando che possa andar bene.39 Il parallelo Rizzoli-Feltrinelli si concluderà di lì a breve. Pertini contatterà Inge Feltrinelli, la quale gli riferirà di aver sottoposto l’opera alla commissione interna a Roma da cui era in attesa di un giudizio; quest’ultima comunicherà (attraverso la propria segreteria) la rinuncia alla pubblicazione, Ivi, p. 51; lettera a Sandro Pertini dattiloscritta e senza firma. Ivi, p. 53; lettera dattiloscritta datata 2/3/’80. 39 Ivi, p. 55; lettera dattiloscritta con firma autografa. Neanche questo documento pare conservato nell’Archivio Fondo Rizzoli. 37 38 190 suggerendo altre destinazioni editoriali più appropriate a ospitare opere di narrativa: «Mondadori, Mursia, Sonzogno».40 La ricerca di una ‘casa’ per AdG è collocata, a quel tempo, nella città di Milano. A ben vedere il sistema che soggiace all’opera di Sapienza poggia sull’asse RomaMilano come ha evidenziato Fabio Michieli41 con, da un lato, Enzo Siciliano e il suo apporto ai volumi Garzanti, in seguito indirizzato alla Rizzoli dove lavoravano sia lui sia Pautasso. Avanzando nella cronologia varrà la pena riportare il testo di una missiva collocata tra aprile e maggio 1980, destinata ancora ad Attilio Bertolucci: Ho tentato, o meglio amici mi hanno offerto l’occasione di sottoporre il romanzo sia a Rizzoli che a Feltrinelli e ne ho avuto delle risposte così bizzarre: per uno il romanzo è troppo sperimentale (Pautasso) per l’altro troppo tradizionale... che mi hanno messo una grande curiosità sul come è su chi legge i manoscritti. Ma questa curiosità è durata poco e non ho nessuna intenzione di cercare un editore: il mio dovere di rendere pubblico il mio lavoro l’ho fatto e ora chiudo con questo ennesimo “dovere” che tutti si affannano a buttarmi addosso. Devi sapere che sono stata letteralmente processata per la mia insufficienza nel “sostenere il mio lavoro” “annullarlo” ecc. Bene. Questo perché tu sappia.42 Non è del tutto comprensibile la ragione di questa presa di posizione (o di ‘rinuncia’) di Sapienza nei confronti del proprio romanzo; se la datazione di Providenti risultasse corretta si tratterebbe di un abbandono ingiustificato. Non v’è inoltre accenno qui all’urgenza di adattare il libro alla richiesta di Rizzoli. Si può postulare l’esistenza di ulteriori documenti in cui si verifichi la difficoltà di lavorare al testo: l’autrice aveva deciso di non ridurlo affatto o di non operare tagli più consistenti? Né il Fondo Enzo Siciliano né l’Archivio Fondo Rizzoli rispondono a quest’apparente sospensione del percorso. Nel 1981 Pautasso riceverà copia de L’università di Rebibbia. Providenti sostiene che nell’epistolario inedito siano conservate alcune lettere a lui indirizzate in cui risulta chiara una rinnovata variazione di tono: Caro Pautasso, come avrà saputo l’anno scorso la “sua Gattoparda”, dopo l’amarezza ingoiata male (male, lo confesso, ma oggi le posso dire il perché: ero senza una lira…) è finita in prigione. Fra le tante motivazioni che mi hanno spinto in quel posto, alcune sono state comprese (ad esempio: Costantini su “Il Messaggero”), le altre ci vorrebbe un Pirandello per andarle a scovare una per una. Il Pirandello che c’è in me ha capito – a posteriori – che cercavo un funerale, cosa che ho avuto in pieno. Non fa male morire qualche volta, rigenera il senso dell’umorismo. Ma non voglio tediarla con fatti Ivi, p. 57; lettera dattiloscritta datata 22 aprile 1980 con firma autografa da parte di un membro della segreteria. 41 Cfr. Trevisan (2016), pp. 135-136 e Toscano, Trevisan, Michieli (2016), pp. 22-27. L’analisi dello studioso riguarda soprattutto le valide ragioni editoriali della mancata pubblicazione in vita della raccolta poetica Ancestrale (2013), in questa sede estese alla prosa. 42 Providenti (2012), pp. 297-298. 40 191 personali, anche se mi piacerebbe molto parlarne con lei che come “contrario” mi sarebbe sicuramente più utile di tanti miei “simili”, come dice Shakespeare. 43 Se Sapienza mantiene alta l’attenzione sull’esperienza carceraria non va rinunciando a cercare un sostegno per AdG. La Cronistoria menziona un invio ad Alcide Paolini di Mondadori (il 4 giugno 1981) cui seguirà un rifiuto nell’ottobre dello stesso anno44; prende poi forma un ultimo triangolo d’interesse: è quello disegnato da Elena Gianini Belotti che, nell’estate dell’81, sembra trovare in «Noi Donne» un tramite per l’approdo di AdG alla casa editrice romana Editori Riuniti. Sarà tuttavia Maria Luisa Ombra, redattrice della rivista, a informare l’autrice dell’inversione di rotta dell’editore circa la proposta.45 Nonostante il rifiuto di Paolini, Sapienza gli proporrà anche L’università di Rebibbia con una lettera del 28/10/1981, ottenendo un nuovo ‘no’.46 È ipotizzabile, dunque, che la trattativa con Rizzoli per questo volume sia iniziata poco dopo il rigetto di Mondadori, come si ricorda tra gli editori suggeriti da Feltrinelli. È noto che Pautasso avesse accolto favorevolmente il primo romanzo sul carcere; i movimenti attorno a esso si ripercorrono grazie a materiali dell’Archivio Fondo Rizzoli (essi risalgono ai primi mesi del 1982). 47 Nel settembre dell’82 l’autrice riferirà al suo interlocutore che la lettera poco prima ricevuta le aveva «dato molta tranquillità: tranquillità che mi ha permesso di andare avanti nella prima stesura del “dopo Rebibbia” che in due mesi dovrei essere in grado di finire […] Ricordo il suo viso quando mi disse di sapere che per Rebibbia c’era la necessità di uscire il più presto possibile». 48 L’allusione alla prima stesura de Le certezze del dubbio (1987) include anche un’apertura della stessa casa editrice nei confronti del quarto romanzo edito in vita? L’ipotesi si scopre plausibile tanto che, come si vedrà, la mancata pubblicazione di AdG porta con sé un ripensamento del faticoso compito di promozione degli altri volumi. Se con Editori Riuniti si tornava nell’ambiente romano, con Mondadori prima e poi con Rusconi si rientrava in area milanese. Ancora Antonio Ghirelli spedirà AdG a quest’ultimo editore e il direttore editoriale, Ferruccio Viviani, lo rifiuterà Ivi, p. 295; minuta di lettera datata 27 febbraio 1981. Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 62-67. Tutte le lettere sono dattiloscritte con firme autografe; quella di rifiuto data 8 ottobre 1981. Si noti come, nella lettera del 4 giugno, Sapienza scelga di accludere alcune recensioni ai propri libri diversamente da quanto aveva fatto con Pautasso; si veda la n13. 45 Ivi, pp. 59-61; lettera dattiloscritta datata 14/7/1981 con firma autografa della Ombra. Legge coerentemente Scarpa (2008) il «costo proibitivo» della stampa di AdG. 46 Ivi, pp. 68-69. 47 Nell’articolo Trevisan (2018 2) si articolano le tappe editoriali dimostrate dai documenti ivi presenti e si interpreta la coeva ricezione dell’opera. 48 Providenti (2012), p. 296; la minuta di data 28/9/1982; quella antecedente di Pautasso non è citata. 43 44 192 il 4 marzo del 1985.49 Immediatamente Sapienza candiderà La ragazza di Rebibbia, primo titolo de Le certezze del dubbio, senza trovare riscontro.50 Nel 1987 la Pellicanolibri di Beppe Costa stamperà il romanzo grazie al sostegno di Marta Marzotto. 3. Dalla TV a un inospitale mercato editoriale Sulla scorta della visibilità derivatale dall’esposizione mediatica post-Rebibbia – non priva di conseguenze –, Sapienza affidò il dattiloscritto di AdG anche ad Adele Cambria e Lu Leone, tra le prime attive esponenti del Teatro della Maddalena. Queste – nel 1982 secondo la datazione di Pellegrino – lo inviarono a Vittorio Bonicelli della Rai, per tentare di ricavarne uno sceneggiato che, ieri come oggi, avrebbe potuto mutare le sorti del testo. Non vi riuscirono sottomettendosi a una censura certa51 e, come segnalato, il romanzo uscì poi con una selezione di capitoli soltanto nel 1994 – si tratta della prima di quattro parti. La dimensione sociale per Sapienza era allora molto mutata. A quel tempo aveva un impiego al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma52 e la sua vita era stata messa alla prova, come narra nei Taccuini editi, da altre imprese e progetti di romanzo. Non sarà improprio ricordare che i nove anni di lavoro su Una donna del Novecento – questo il titolo che Angelo Pellegrino menziona parlando di AdG nella postfazione alle Certezze del dubbio dell’87 – avevano causato considerevoli difficoltà economiche all’autrice, e che scegliendo lei radicalmente di non scendere a patti con l’imposizione dell’editoria coeva pregiudicò i quindici anni successivi, fino alla sua scomparsa nel 1996. Le ragioni ideologiche che fermarono l’uscita di AdG sostenute da Pellegrino si compensano, secondo questo percorso, con una resistenza antidogmatica dell’autrice nei confronti del sistema con il quale doveva confrontarsi. Si configura un’opposizione necessaria alle logiche antecedenti, quelle accettate con la pubblicazione dei primi due romanzi Garzanti, e una scelta di ‘marginalità Cfr. Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 70-79. La lettera di Viviani, dattiloscritta e autografa come le altre, proviene dalla divisione romana. 50 Ivi, p. 80. 51 Ciò è accennato in Sapienza-Pellegrino (2016), p. 9, e confermato nel discorso con cui Adele Cambria presentò L’arte della gioia presso la Fondazione Olivetti di Roma il 26 settembre 2006, anticipato in un articolo su «l’Unità» apparso lo stesso giorno in cui si riportano le parole di Bonicelli: «Noi sopravviviamo, carissime, nelle pieghe della distrazione del potere […] Ma che volete? Far saltare la Rai?». Si ricorda tuttavia che, nel 1982, Sapienza stava collaborando con la radio come autrice di un radiodramma: Tra Čechov e Gorkij. Quasi un carteggio d’amore, due puntate, regia di Ida Bassignano, in «Rai Radio 3», 16/05/82 e 23/05/82 (attori: Ferruccio De Ceresa, Giacomo Piperno, Vera Venturini). 52 Cfr. Gobbato (2011), grazie a Lina Wertmüller. 49 193 etica’ – testimoniata a più riprese dal vedovo nel suo Ritratto di Goliarda Sapienza (La Vita Felice 2019) – che, tuttavia, pare sfamata da una forma ‘d’ambizione’53 malcelata. In altri termini: non è possibile indicare una sola motivazione in grado di definire il fallimento della pubblicazione di AdG tra anni Settanta e Ottanta; esso è alimentato da una somma di concause che muovono da posizioni diverse e concorrono a produrre teorie e interpretazioni attorno all’opera. Sino a qui non si è tentata una speculazione compilativa ma un’esposizione argomentativa che rende dialettiche le ipotesi iniziali. Queste interpretano la vicenda editoriale dal punto di vista del ‘transito’ ma è solo tenendo assieme contenuto e forma, destinazione e distribuzione – ossia argomenti diversi – fra loro che si può esaminare da ogni lato questo ‘caso editoriale’, distinguendo il passato dal presente in cui ha raggiunto la fortuna di lettori e critica. Prima di approdare agli ultimi movimenti significativi del libro si formulano alcune questioni d’interesse che saranno esposte in questo e nel successivo paragrafo: - la forma e il genere di appartenenza di AdG nel proprio tempo – gli anni Settanta fino agli anni Ottanta; la verifica della produzione di autrici coeve (nazionali e in traduzione) nel suddetto panorama, limitatamente affrontata dalla critica; il contesto di frequentazioni dell’autrice sino agli anni Novanta; il mercato editoriale in cui esce l’opera ridotta (1994); il sistema che ha accolto il romanzo dopo (1998 e metà anni Duemila). Per una prima ricognizione attorno a questi punti critici, si legga quanto espresso da Cesare Garboli nel documentario di Loredana Rotondo: Nella storia letteraria di Goliarda va considerato un fattore ‘tempi storici’: quando lei è esplosa, la società letteraria italiana era più adatta ad accogliere un libro come Lettera aperta. Gli anni sono passati e, dagli anni Settanta in poi, la società letteraria italiana ha prediletto i successi commerciali. E non c’era più tanto spazio per una letteratura così sulla pelle.54 È pur vero che nel 2000 (quindi a posteriori) Garboli non parlava di ‘romanzo’ (e si guardava dal farlo) né per ciò che concerne i primi libri né per AdG; durante l’ultimo decennio la critica sta cercando una nuova definizione per quest’opera, fuori dalla formula del ‘romanzo della tradizione’. Tra anni Sessanta e Settanta il dibattito su romanzo e anti-romanzo poteva considerarsi infatti vivo e aperto; gli editori sceglievano altre rotte ma continuavano a proporre narrativa e non soltanto quella di consumo, anche se leggendo i cataloghi il mercato poteva dirsi trasformato. Eppure, se si 53 54 Cfr. Providenti (2012), p. 291. Cfr. Rotondo (2000); Trevisan (2016), pp. 93-94. 194 considerano le lettere esaminate, la definizione ‘romanzo’ ritorna sia nelle parole di Pellegrino e Sapienza, sia in quelle di Siciliano (‘romanzone’ e poi ‘librone’) e Pautasso. È pur vero che, nel periodo di conclusione di AdG, erano state pubblicate due opere di successo con trame in cui la sessualità risultava esplicita: nel 1975, infatti, era uscito Paura di volare di Erica Jong per Bompiani (con traduzione di Marisa Caramella) e, nel 1976, Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice per Savelli; si tratta di due libri che intercettavano un pubblico giovane e una ‘corrente principale’, il secondo prima dell’avvento di Tondelli e della letteratura giovanile. Considerando il catalogo di Savelli – così come quello di Feltrinelli in quegli anni – si può pensare che fosse il taglio giornalistico e d’inchiesta, talvolta politico e militante, con una preponderanza per la saggistica quello prediletto da entrambi.55 Il caso di Bompiani può essere emblematico alla luce del commento di Sapienza a Pautasso nella lettera inviatagli il 29 ottobre 1979. Nel 1977, infatti, la casa editrice pubblicava Città del tabacco di Laudomia Bonanni, raccogliendo lì alcune prose brevi di taglio femminista, già apparse in riviste e giornali e con protagoniste donne; come con il precedente Vietato ai minori (1974), l’autrice si imponeva con racconti d’impegno, dedicati a temi sociali, iscrivendosi in una nicchia di mercato che accoglieva favorevolmente la dimensione delle sue narrazioni. L’appoggio dell’editore milanese resisterà anche con Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile (1979) e Le droghe (1982), romanzi brevi, ma non con La rappresaglia (uscito postumo per Textus nel 2003 a cura di Carlo De Matteis). Per Bompiani Carla Ravaioli (citata da Sapienza) affrontava le sue inchieste sul ruolo delle donne all’interno nel Partito Comunista (in La questione femminile: intervista col PCI, 1976), Giuliana Morandini pubblicava le proprie sul manicomio prima della legge Basaglia in E allora mi hanno rinchiusa: testimonianze dal manicomio femminile (1977) e Angela Bianchini, nel 1979, dava alle stampe lo studio Voce donna sull’emancipazione femminile. Le italiane, dunque, parevano essere quasi escluse dall’operazione-romanzo: si vedano i casi di Fernanda Pivano, traduttrice e curatrice, e Rossana Rossanda, che si stava occupando in quegli anni di raccogliere alcune conversazioni radiofoniche su Radiotre incentrate su diversi temi sociali, dalla politica al femminismo e oltre. In quel panorama si affacciavano le esordienti Leila Baiardo con L’inseguimento (1976)56 presentato da Cesare Zavattini, e Francesca Di Martino con il best seller Foemina Ludens (1977). Anche Beatrice Solinas Longhi – autrice che dedicò la Prima Samonà e Savelli poi Savelli – La nuova sinistra è stato un editore punto di riferimento per la sinistra extraparlamentare sostenuto, tra gli altri, anche da Giangiacomo Feltrinelli. Chiudeva nel 1982. 56 Defilata rispetto ad altre, la Baiardo fu attiva autrice di sceneggiature e collaboratrice di alcune riviste tra cui «Nuovi Argomenti», «Cronache», «Noi Donne» e «Vie Nuove». 55 195 maggior parte della propria vita alla letteratura per l’infanzia – pubblicava Gli sguardi (1982). Nessuno di questi volumi constava di 330 pagine circa, la lunghezza della prima edizione di AdG del 1998. Rispetto alle autrici nazionali, le logiche dell’editore milanese circa le scrittrici straniere viravano verso corposi volumi record di vendite. Non considerando i titoli tascabili meno noti e cercando di tracciare un profilo coerente con il discorso sinora condotto – la ricezione di opere estere pare seguire logiche di mercato diverse –, aveva dato ampio spazio alla ristampa dei Diari in più volumi di Anaïs Nin (1977, con traduzione di Delfina Vezzoli), alla prima edizione di Intervista col vampiro di Anne Rice (1977, pp. 327), poi a Patricia Highsmith con Diario di Edith (1979, trad. di Marisa Caramella, pp. 373), ancora a Erica Jong con Fanny, ovvero La veridica storia delle avventure di Fanny Hackabout-Jone (1980, pp. 507) e alle ristampe dei successi di Françoise Sagan, tra cui Un po’ di sole nell’acqua gelida (ristampato nel ’77 dopo l’uscita nel 1969 con trad. di Leonella Prato Caruso); quest’ultima era tra le autrici di punta di Bompiani e contesa da altri editori, tra cui Mondadori e Rizzoli. Non va dimenticato, tuttavia, che la stessa casa pubblicava anche le opere di Umberto Eco (Il nome della rosa è del 1980), di Zavattini e di Alberto Moravia; lì Dacia Maraini aveva ristampato, nel ’76, il romanzo breve (di 156 pagine) La vacanza, uscito nel 1962 per Lerici – che cessò la propria attività nel 1967. Bompiani pareva praticabile ma non si conosce se AdG avesse raggiunto quest’editore e il Fondo Valentino Bompiani del Centro Apice di Milano dà un riscontro negativo a tale supposizione. L’articolata ipotesi può essere applicata anche nel caso di Einaudi, presso cui Natalia Ginzburg pubblicava i propri romanzi; lì erano usciti La storia di Elsa Morante (1974)57 e numerosi volumi di Lalla Romano. Anche presso Mondadori, tuttavia, trovavano spazio i gialli di Agatha Christie ma anche Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli (1975) ed Essere di paese di Gina Marpillero (1980), due volumi autobiografici e di memorie, lontani dalla forma-romanzo tout court. Inoltre, si avevano i romanzi di Alba de Céspedes, ad esempio quello di ambientazione parigina Nel buio della notte (autotraduzione, 1976, pp. 380, dopo la prima edizione Sans autre lieu que la nuit, Seuil, 1973); un testo imponente, in cui la solitudine della vita in una megalopoli fagocita il quotidiano. Per Einaudi, Mondadori e Feltrinelli uscivano all’epoca anche i romanzi di Marguerite Duras, la cui esplicita sessualità poteva trovarsi in linea con quella di Goliarda Sapienza. I tre editori contattati dall’autrice rientrano in un sistema di accoglimento ammissibile. Per ciò che concerne il ‘canone letterario’ cfr. Fortini (2016), mentre Bazzoni (2016) riconosce nel modello de La storia e di Aracoeli (1982) alcune inferenze narratologiche e tematiche che AdG sembra cogliere da Morante anche in termini oppositivi, nella forma e nel sistema dei personaggi. 57 196 A ben vedere de Céspedes, Ginzburg, Morante e Romano, sono tuttavia autrici affermate e non appartate nel panorama editoriale. Se si pensa ancora a Mondadori, lo stesso editore stava ripubblicando Grazia Deledda, faceva uscire i romanzi di Luce d’Eramo – Deviazione (1979) e Nucleo Zero (1981) ma anche i successivi – e si contendeva con Feltrinelli le ripubblicazioni di Sibilla Aleramo. Tutt’altro panorama per quanto riguarda Sonzogno, sempre nel periodo che procede dal ’75 all’85, e che riproponeva i romanzi di Liala e Mura, i quali avrebbero collocato AdG in un catalogo di letteratura rosa, del tutto fuori asse rispetto alle aspirazioni di Sapienza. Mursia, invece, si dedicava ai profili letterari di autori nella collana Invito alla lettura. Rizzoli, di cui nel 2018 si erano fornite alcune direttrici che riguardavano le pubblicazioni tra saggistica e inchiesta di Armanda Guiducci e Anna Del Bo Boffino58, diffondeva i best seller di Oriana Fallaci Lettera a un bambino mai nato (1975, pp. 100) e Un uomo (1979, pp. 456), entrambi definibili in una dimensione esterna alla letteratura, tra riflessione e memoria. Pubblicava inoltre L’inferriata di Laura di Falco (1976, pp. 249) – autrice poi passata a Mondadori con Piazza delle quattro vie (1984, pp. 226) –, alcuni libri della giornalista Brunella Gasperini – che sosteneva dagli anni Sessanta – e Memorie di una dilettante di Rossana Ombres (1977, pp. 174) – anche lei divisa tra Feltrinelli, Mondadori e Einaudi, quest’ultimo anche editore di Althénopis di Fabrizia Ramondino (1981, pp. 268) e di altri suoi libri, come indicato da Domenico Scarpa59. Tutt’altro capitolo si aprirebbe nel confronto con le case editrici legate al movimento femminista: molte e, alla fine del 1978, già radicate. Si pensi, in particolare, a La Tartaruga di Laura Lepetit, circoscritta in ambiente milanese ma che, nel 1982, ripubblicava Nascita e morte della massaia di Paola Masino (pp. 282) già Bompiani (19451 e 19702), e soltanto nel 2003 riproporrà Il filo di mezzogiorno grazie all’interesse di Patrizia Zappa Mulas. Allo stesso modo le Edizioni delle Donne di Roma, che avevano pubblicato Zeta o le zie di Laura Lilli nel 1980 – un romanzo fortemente sperimentale –, avrebbero potuto accogliere il romanzo di Goliarda Sapienza; inoltre proprio quella realtà sarà poi sostenuta economicamente ancora da Marta Marzotto. A metà anni Ottanta anche la casa editrice foggiana Bastogi di Angelo Manuali, che aveva ospitato Jean, la “mite” compagna di Modigliani di Lucia Drudi Demby (nel 1984, p. 140), appariva come un altro ‘porto’ per Sapienza, e così la torinese La Rosa. La ‘naturale’ spinta verso Rusconi – ancora proposta nell’epistolario editoriale – pare essere in linea con altre pubblicazioni di quel periodo: si pensi ai romanzi di Milena Milani La rossa di Via Tadino (1980, p. 283) e Umori e amori (1982, p. 262) senza citare quelli degli anni Settanta. E appare logico pensare che anche 58 59 Trevisan (20182), n. 55. Cfr. Scarpa (2008); poi Trevisan (2012) e Ferro (2016), con due articoli di taglio tematico. 197 Longanesi, casa editrice che pubblicò nel 1964 La ragazza di nome Giulio (p. 297, per il quale Milani e l’editore subirono una condanna per censura) potesse essere una destinazione favorita da Sapienza tra il 1975 e il 1985; tuttavia, confrontando i titoli del catalogo, non risultano ivi presenti nomi di autrici degni di nota. Secondo questa ricostruzione le scrittrici italiane afferenti a una certa ‘nicchia di mercato’ nel decennio indicato sembravano già inquadrate dal punto di vista editoriale mentre le altre trovavano collocazioni diversificate, anche seguendo un percorso personale, legato a editori indipendenti e coraggiosi. In effetti è questo il caso di Anna Maria Ortese, che aveva pubblicato per Rizzoli Il porto di Toledo nel 1975 e Il cappello piumato per Mondadori nel 1979. L’autrice sembra condividere con Sapienza uno squilibrio nella propria vicenda editoriale soprattutto negli anni Ottanta, quando approderà alla casa editrice Pellicanolibri di Beppe Costa60, destino in comune con Adele Cambria e il suo Nudo di donna con rovine (1986) e con l’ultimo romanzo in vita di Sapienza, appunto Le certezze del dubbio dell’87. Ortese approderà ad Adelphi in quel periodo grazie anche all’intervento di Costa; quella stessa casa editrice aveva rifiutato anche AdG, come rivelava l’autrice nel 1983.61 Il repertorio presentato non acquista valore solamente tenendo conto del successo tardo di AdG (con uno sguardo a posteriori) ma anche nel contesto dei tentativi di pubblicazione da parte di Sapienza. Qui non si evidenziano solo i limiti riguardanti il ‘genere letterario’ del romanzo – secondo gli editori di difficile collocazione – o legati alla ‘materia testuale’ (dunque alle ragioni ideologiche avanzate da Pellegrino) quanto alla lunghezza e al costo di stampa dell’opera per una scrittrice lontana da ogni genere di adesione sia politica sia intellettuale, libera e misconosciuta, che potrebbe perciò non raggiungere un pubblico vasto. Ed è evidente che la generazione di ciascuna autrice possa aver condizionato anche l’appartenenza editoriale di Sapienza, la quale in prima battuta non aveva scelto la Einaudi della Morante (e della Ginzburg) ma la Rizzoli della Ortese, dove avevano infatti trovato spazio non solo Il porto di Toledo ma anche le ristampe di Poveri e semplici nel 1974 e de L’iguana nel 1978 (per la BUR).62 Due modelli di scrittrici nate nel decennio antecedente rispetto a Sapienza – Cfr. Trevisan (2019). Cfr. Trevisan (20182), n. 27. Tra 1975 e 1985 Adelphi pubblicava Karen Blixen, Colette, Katherine Mansfield, Simone Weil, e poi Elena Croce e Lucia Drudi Demby. 62 La connessione fra Morante, Sapienza e Ortese è riconosciuta tematicamente sotto la lente dell’assenza del padre in AdG da Laura Fortini (2011), dunque Laura Ferro (2016) tratta la coppia Ortese-Sapienza per ciò che concerne il contesto della narrazione dell’infanzia, di cui AdG si fa portatore. Le studiose non danno evidenza, tuttavia, dei probabili termini strettamente editoriali che coinvolgono le autrici menzionate. 60 61 198 Morante nel 1912, Ortese nel 1914 –, calate nell’immaginario63 e che tuttavia dividevano critica e pubblico. In particolare, alla seconda erano note le scarse vendite dei propri romanzi; inoltre riconosceva uno scarto nel mercato editoriale italiano dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta ma anche una trasformazione dell’orizzonte d’attesa nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, come rivelava a Beppe Costa in una dichiarazione del 1986.64 Questo fatto, in termini di ‘trasposizione critica’, pare determinare anche la posizione di svantaggio di Sapienza nei confronti di Rizzoli. 4. Un’anteprima ‘di Modesta’ e i documentari Dopo la scarcerazione e durante il periodo di promozione de L’università di Rebibbia, L’arte della gioia (come titolo) compariva su tutti i giornali, quasi in un’operazione di marketing che avrebbe preceduto il lancio del romanzo – e invece si rese utile solo per il volume Rizzoli. Negli anni tra l’87 e il ’92 circa erano ancora vicine a Goliarda Sapienza sia Adele Cambria sia Simona Weller, le più care amiche del Gruppo di scrittura; la prima, in particolare, aveva ricevuto il manoscritto di AdG già al Teatro La Maddalena con un appunto di Goliarda: «Ho voluto – mi disse – tentare la scommessa di una narrativa popolare di sinistra»65, prova che la metterebbe in relazione con la Morante, come ha evidenziato Scarfone a conclusione della sua analisi su AdG: Pur essendo […] un testo profondamente inserito nel suo tempo, L’arte della gioia ne è rimasto ai margini, e la sua mancata pubblicazione negli anni Settanta-Ottanta è l’indizio più sintomatico di questa marginalità, termine che d’altronde si è più volte rivelato produttivo nel definire la particolare posizione di Goliarda Sapienza. Marginalità all’interno di un ambiente culturale che l’ha vista attrice e scrittrice poco riconosciuta. Marginalità rispetto alle correnti femministe dominanti al suo tempo. Marginalità, soprattutto, rispetto al canone egemone e alle tendenze letterarie coeve: Sapienza rifiuta l’avanguardismo, il modernismo e il postmodernismo, senza nemmeno scegliere la via del romanzo ‘tradizionale’ sul modello della Storia di Elsa Morante. Come quest’ultima, però, tenta di creare un grande romanzo popolare, capace di rappresentare, senza mai metterla direttamente in scena, la Storia del suo tempo e, soprattutto, i fermenti e le idee che l’hanno attraversata. «Un vero romanzo popolare delle nostre idee» [nella Cronistoria a p. 43, n.d.r.] come lo definì l’autrice stessa, dove la componente ideologica sorregge un forte intento dimostrativo, dove erotismo e politica convivono senza confliggere, e dove modelli alti e bassi si uniscono senza ironia. Un’opera articolata e complessa ma al contempo smaccatamente melodrammatica, che Cfr. Trevisan (2016), pp. 60-61; qui si espone la posizione critica di Cesare Garboli a proposito della produzione di Elsa Morante «calata tutta nell’immaginario», definizione estendibile a Ortese. 64 Cfr. Trevisan (2019), p. 17. 65 Cambria (2006); nella Cronistoria, cit., p. 43. 63 199 negli anni ’70 non poteva, per vari motivi, ricevere una collocazione e che oggi invece sembra aver trovato il pubblico adatto ad accoglierla.66 Se i contenuti e lo stile paiono sempre definire la destinazione editoriale di un’opera – ciò non è stato del tutto confutato –, il percorso odierno presenta documenti anche inediti che portano a verificare come la ‘perifericità editoriale’ di Sapienza fu determinata da fattori diversi: i più validi sono l’accettazione delle regole (di mercato) di ciascuna casa editrice cui si propose e la continuità di pubblicazione richiesta alle autrici e agli autori. La ricerca d’archivio e la relazione tra materiali critici parlanti restituiscono alcune letture coerenti che riguardano l’opera calata nel proprio tempo, e dunque: dal passato al passato, non dal presente al passato. Ritornando alle frequentazioni: anche la Ginzburg e Garboli erano figure del mondo editoriale cui probabilmente Sapienza aveva chiesto alcuni consigli circa i suoi testi ma furono specialmente il circuito di autori attorno a Pellicanolibri, con Beppe Costa e altri, e poi gli studenti del CSC (alcuni affermatisi nel mondo del cinema contemporaneo) gli amici più presenti tra anni Ottanta e Novanta, veri punti di riferimento per lei. Conclusa l’esperienza del Gruppo di scrittura, che l’aveva tuttavia portata a pubblicare su «Tuttestorie» di Maria Rosa Cutrufelli67 si dedicherà – come anticipato – ad altre scritture a oggi inedite. Si dovrà attendere il 1994 per leggere L’arte della gioia come quarta pubblicazione del catalogo di Stampa Alternativa, in un’edizione ridotta alla prima parte del romanzo integrale (capitoli 1-39). La collana che ospitava il testo è la Millelire più, nata dallo sforzo di autori che rinunciarono alle proprie royalties per sostenere la casa editrice di Baraghini, come testimonia Marisa Rusconi (1994). La stessa giornalista dava notizia della qualità letteraria del libro di Sapienza affiancandolo ad altri titoli, tra cui Adele Cambria con i racconti di L’amore è cieco e Angelo Maria Pellegrino con Prendi.68 AdG sarà poi segnalato anche sulla rivista «Via Dogana», mantenendo un legame con l’ambiente del femminismo. Scarfone (2018). Gelosia (da Destino coatto) figurerà in «Tuttestorie», n. 2, giugno 1991, pp. 50-51; poi in Il pozzo segreto. 50 scrittrici italiane, strenna della rivista, Milano, Giunti, 1993. Quest’ultimo volume ritraccia un titolo della Ginzburg ma, per Sapienza, ha più a che fare con l’appartenenza al Gruppo che con un’aspirazione alla pubblicazione che preceda l’operazione di Stampa Alternativa. 68 Titolo che non trova alcuna corrispondenza nel catalogo SBN nazionale. Per Stampa Alternativa Pellegrino aveva già pubblicato il suo In Transiberiana nel 1991, nel 1993 Nel segreto di Palmarola e pubblicherà Verso oriente: pagine di viaggio di autori italiani (1995) due opere correlate (quest’ultima già edita presso l’Istituto della enciclopedia italiana nel 1985). 66 67 200 Considerate le condizioni di precarietà economica, la posizione assunta da Sapienza con Stampa Alternativa assumeva un significato etico e radicale.69 Sarà dello stesso anno il tentativo avviato da alcuni amici, tra cui (di nuovo) Adele Cambria e Beppe Costa, di far ottenere a Sapienza la Legge Bacchelli com’era avvenuto per Elsa Morante e Anna Maria Ortese70, cosa che non fu possibile a causa della fedina penale macchiata del furto che l’aveva condotta a Rebibbia. Anche per questa ragione, come rammenta Costa, fu istituito il Premio Casalotti attribuitole nel 1993.71 La contestualizzazione di AdG, fuori-norma e fuori-tempo, risultava pertanto mutata rispetto al decennio precedente, eppure eternata da un personaggio e da una quarta di copertina che ne descriveva i tratti principali: «La protagonista di questo romanzo […] forte di quella genialità primaria che (è noto) viaggia sempre a ridosso della criminalità, seguendo solo l’intelligenza delle cose, approda a ciò che tutti noi cerchiamo, la gioia»72, la stessa presente nella citazione ‘lirica’ da una poesia di Lalla Romano che apre questo studio. Nel 1994 si ricominciava a conoscere il nome dell’autrice grazie ai contributi di Virginia Onorato e Anna Amendola, che giravano il documentario Storie vere – Goliarda Sapienza (ora in «Rai Teche») mentre il CSC, grazie al desiderio di Paolo Franchi, varava un docufilm dal titolo frammenti di sapienza73, in cui Goliarda in persona leggeva anche le proprie poesie poi pubblicate in Ancestrale. In un panorama del tutto cambiato – anche dopo Tangentopoli e l’avvento di Forza Italia, mentre Sapienza era candidata coi Radicali nel 1994 come riportato in Una voce intertestuale – l’editoria ammetteva autori più giovani, sulla scorta dell’avvento dei Cannibali e delle antologie pubblicate in quegli anni da Tondelli, che fecero emergere Silvia Ballestra ed altre autrici. Si possono segnalare alcuni titoli del catalogo di Stampa Alternativa di quegli anni: nelle Millelire più uscivano Ali (1992, a c. di Tomoko Senoo) e Inquietudine d’amore (1993, trad. S. Bisacca) di Yukio Mishima, che sarà un autore prediletto da Sapienza, soprattutto nelle sue lezioni al CSC come rivela Gobbato (2011); poi usciva l’Apologo sulla felicità di Grace Paley (trad. di A. Cristofori), Gertrude Stein, Rosella Mancini e l’esordiente Francesca Lesnoni. Nella collana Piccola libreria Millelire, nel 1994, si pubblicavano Giacoma Limentani con Il più saggio e il più pazzo, Rosetta Loy con Walter Palmaran, Ippolita Avalli con Cattivi sentimenti e Susanna Tamaro con Chissene mentre Pellegrino traduceva Felicità di Katherine Mansfield. 70 Cfr. Trevisan (2019). 71 Cfr. Archivio privato Beppe Costa, Roma. 72 Sapienza (1994). 73 Cfr. (s.a.), Il Centro di cinema vara un mini-film, in «Corriere della Sera», 29 marzo 1994. Questo lavoro usciva a settembre 1995. 69 201 4. Conclusioni Come ricorda Angelo Pellegrino, nella primavera del 1996 si presentò la possibilità della pubblicazione dell’intero libro, a vent’anni dalla conclusione. Appuntava Sapienza: «Sono passati trent’anni dal primo appunto su Modesta. Attenta, Goliarda, a non cadere nel tranello dell’autocensura».74 Nel 1998, a due anni dalla scomparsa della scrittrice, il ‘romanzo anticlericale’ (questo il sottotitolo della prima edizione integrale edita da Pellegrino) veniva pubblicato da Stampa Alternativa. Adele Cambria riferiva ai microfoni di «Radio 3» che L’arte della gioia: racconta in termini contemporanei la solitudine dei sessi [ma anche] l’ascetismo rosso’, quello che io chiamai così. Lenin viveva con tre tazze da the in esilio a Londra e impedì alla moglie di fare figli, e vietò all’amante di suonare al pianoforte Chopin perché questo lo ammolliva come rivoluzionario. Ecco, questa cosa Goliarda la capiva del socialismo. E quando Modesta si innamora di un medico vengono fuori le viltà degli uomini […] [e anche] questo misticismo chiesastico.75 Proseguiva poi conferendogli una collocazione: Il libro si iscrive a pieno titolo in quel filone di narrativa meridionale nel quale includerei Elsa Morante, La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini e Passaggio in ombra della Di Lascia. Però di Goliarda questo è stato taciuto. La sua prosa [è] rutilante, così ferace com’è la Sicilia, così gravida di colori, di umori, di calore, di sontuosità […]. Goliarda è la persona più aliena, con la fobia di qualunque chiesa che io conosca. Il sottotitolo ‘romanzo anticlericale’ riduce le prospettive.76 È Cambria a interessarsi per prima ‘interstualmente’ al testo, e a farlo anche a trent’anni dalla conclusione della scrittura (il 1978) e vent’anni dopo (nel 1998), dedicando al libro un’attenzione costante, amicale e disinteressata. Per lei la collocazione è ‘narrativa’ – verrebbe da dire romanzesca – senza distinzioni. Il testo era finalmente uscito postumo ma avrebbe dovuto attendere il successo delle traduzioni – e l’esemplare lavoro di Nathalie Castagné in Francia – nonché il rilancio da parte di critici quali René De Ceccatty; con il titolo Sapienza, principesse hérétique su «Le Monde des livres» (16 settembre 2005) questo la definiva un ‘nuovo Gattopardo’, avendo come principale riferimento per il periodo della scrittura di AdG (1967-1976) il romanzo di Lampedusa che pare soltanto uno delle tante attinenze possibili, come si è analizzato aprendo ulteriormente ‘il campo’ della scrittura delle donne. Pellegrino (2008), p. VI. Cambria (1998). Cfr. Trevisan (2016), p. 155. 76 Cambria (1998). Cfr. Trevisan (2016), p. 156. 74 75 202 Alessandra, Trevisan alessandra.trevisan87@gmail.com 203 Riferimenti bibliografici Bazzoni (2016) Alberica Bazzoni, Agency and History in Sapienza’s L’arte della gioia e Morante’s La storia, in Alberica Bazzoni, Emma Bond e Katrin Wheling-Giorgi (a cura di), Goliarda Sapienza in context, Madison-Teaneck, Farleigh Dickinson University Press, 2016, pp. 147-162. Bazzoni (2018) Alberica Bazzoni, Writing for Freedom: Body, Identity and Power in Goliarda Sapienza’s Narrative, tesi di dottorato, Oriel College, University of Oxford, UK, 2018. Cambria (1998) Adele Cambria, Goliarda Sapienza, in Loredana Lipperini (a cura di), «Lampi di primavera», «Rai Radio 3», 16 maggio 1998. Cambria (2006) Adele Cambria, Goliarda Sapienza, la terribile arte della gioia, in «l’Unità», 26 settembre 2006. 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In parte ciò è senz’altro dovuto alla collocazione editoriale di nicchia, cui è corrisposta una circolazione relativamente ridotta delle sue raccolte. Tuttavia, questo non implica un giudizio di valore, dato che spesso la poca penetrazione d’un dato autore presso il pubblico nulla ha a che fare con il reale valore dell’autore e dell’opera. Si tratta, in molti casi, di mera casualità, cioè di circostanze più o meno favorevoli. In realtà, specialmente agli esordi, l’opera bortolottiana suscitò un certo interesse in àmbito critico; si ricordino a titolo d’esempio i saggi, incorporati nelle varie raccolte, a firma rispettivamente di Silvio Endrighi, Giuseppe Nasillo, Enrica Salvaneschi, Paolo Valesio. Ciò nonostante, la Bortolotti resta un’autrice da scoprire, più che da riscoprire. Diverse sono le raccolte che scandiscono il suo canto: Il gioco dell’aquilegia (1994), Munus (2001), Tâw (2007), e quelle che ci sentiamo di chiamare se non maggiori almeno centrali, La ruggine e la rosa (1998) e Euridice (2007), nelle quali la maturazione autoriale è visibile e definita. Con questo breve saggio, senza la pretesa d’essere esaustivi, si mira a dare dell’autrice un profilo critico più sistematico e definito sulla base de La ruggine e la rosa, profilo che si spera ispiratore d’ulteriori indagini. Si può dunque cominciare direttamente dal testo che fa da incipit a La ruggine e la rosa, e che è intitolato Ad Amelia Rosselli, recante ad esergo l’«11 febbraio 1996», data della morte della Rosselli (si è mantenuto il corsivo dell’originale): Resta che vita irruente grappolo di carnevali è sul graspo quaresimale e rara d’un sorso si trangugia altrimenti se ne distilla il diamante se in agguato giace il buio che dilania la mente come flato come alma della grotta millenaria di cristalli; 5 10 208 resta che un diritto ti serba, l’orto dei padri quel tonfo sul guardo riverso mirino, che tendesti piú terso… tonfo d’un grumo tra quelli recessi, frale, umorale e grato sul tuo nastro di brina indistricabile fra testo e ruina. E quando alla pupilla cupo nodo, il sole mostra nella verde tresca la ramura di becchi irta e di rossura il cortile s’adira su fronte di ragazzo scroscia e fresca tuona improperio celeste e viola. 15 20 25 30 35 Qui d’infinito altrove resta, alla pietà di me che ti svaporo per truogoli della tua mirra gravi come meste secchie e da lor carrucole al grido sfrena di quei grembi alla catena ove la petra d’acqua tua garrula ride e non trema. 40 45 Sulla base di questo specimen, sarebbe facile etichettare la Bortolotti come autrice difficile; forse sarebbe più giusto definirla, con una concatenazione semantica, ardua e ardita. È musicale, come mostrano le corrispondenze assonanti e consonanti delle coppie di versi e i punti di rottura degli enjambements. Del resto, la natura musical-corale del verso è tradita, in primis, dalla dedica alla Rosselli, autrice che sul verso musicale fonda anche teoricamente la propria opera e che alla relativa orecchiabilità del canto associa però un’effettiva difficoltà dal punto di vista semantico e, talvolta, lessicale. 209 Musicalità e, diremmo con un termine che la critica ha spesso usato in senso quasi denigratorio, preziosità delle scelte lessicali formano la struttura teorica su cui si costruisce man mano il canto della Bortolotti, la cui dedica alla Rosselli, seppur indicativa, non ne rivela del tutto la prospettiva poetica. Il terzo perno significativo è infatti l’elemento mitopoietico, che assume una valenza essenziale anche solo considerando le scelte tematiche delle varie raccolte. Tâw, ad esempio, affonda le radici in letture e suggestioni veterotestamentarie; Euridice, nel rapporto e dialogo costante con i testi classici; La ruggine e la rosa (antecedente a Euridice di quasi un decennio) mostra una fase al contempo apicale e intermedia, un mélange nel quale l’esperienza antichistica si arricchisce attraverso componimenti a tema libero, cioè meno legati a una scelta tematica univoca (come, appunto, in Euridice). La ruggine e la rosa, che è anche il titolo d’un componimento interno alla raccolta, evoca un’ambientazione tra il naturale e il fiabesco, e si spinge nella direzione eliotiana o montaliana del correlativo oggettivo puro nel quale significante e significato dovrebbero tendere asintoticamente alla completa sovrapposizione. Così è infatti nel componimento emblematico che si è riportato sopra. A fungere da correlativi oggettivi sono alternativamente due tipi di composti: in primo luogo quelli formati da aggettivo e sostantivo, in ordine anche inverso (irruente grappolo, v. 2; graspo quaresimale, v. 4; guardo riverso, v. 18; cupo nodo, v. 29; improperio celeste e viola, v. 37), nei quali spicca un uso originalissimo e sistematico della sinestesia; in secondo luogo quelli formati da complementi di specificazione, dal forte legame genitivo (alma della grotta, v. 13; orto dei padri, v. 16; tonfo d’un grumo, v. 21; nastro di brina, v.25; petra d’acqua, v. 47), affiancati da complementi aventi la medesima struttura morfologica ma di segno e significato diverso (millenaria di cristalli, v. 14; ramura / di becchi irta, vv. 31-32; di rossura / il cortile s’adira, vv. 33-34; fronte di ragazzo, v. 35; pietà di me, v. 39), di qualità e di termine. Tale impiego dei correlativi in forma sinestesica aumenta la forza evocativa dell’insieme, e contribuisce a darne un’immagine che non è né classica né moderna, ma certamente anti-contemporanea. Anche la scelta lessicale, infatti, va controcorrente rispetto al gusto per la frammentazione o infinitezza sintattica e per la facilità terminologica che caratterizza tanta poesia odierna. Pare un canone inverso fortemente meditato, che gioca sulle difficoltà del verso mediante un meccanismo di attrazione-repulsione e che, in armonia con la virtù musicale cui s’è accennato, fa del suono il primo e principale elemento con il quale il fruitore del canto si trova a fare i conti. Sono i suoni a essere interiorizzati ancor prima dei significati, cosicché spiccano le consonanze aspre delle r e le relative combinazioni dr e tr, che aumentano l’attrito fra testo e lettore. A livello di assonanze, dominano i dittonghi e le vocali lunghe, in special modo la a, la cui profondità fonica funge da antagonista ritmico allo stridore delle consonanze. 210 La breve analisi fonetico-formale che si è presentata vale per gran parte dell’opera della Bortolotti, divenendo quasi un aspetto tipico che accomuna l’autrice al Montale degli Ossi. Come Montale, la Bortolotti attua una ricerca delle essenze che mette in relazione suono e contenuto in un continuum senza soluzione. La metafora montaliana è, tra le altre cose, espressione del tentativo di guardare ciò che sta sotto l’apparenza dell’oggetto1; per attuare tale processo è necessario ‘essiccare’ e ‘scarnificare’, ovvero togliere gli strati superficiali anche a costo di scoprire un’aridità dell’essere così ben incarnata dall’osso di seppia.2 L’oggetto da indagare poeticamente in questo modo è a sua volta espresso dalla parola, e Montale in effetti sceglie, nella prima raccolta in particolare, un lessico i cui suoni costitutivi rimandino all’operazione di levigatura dell’idea soggiacente all’oggetto stesso. La Bortolotti fa di tale scarnificazione un constant feature, un marchio che pare tendere nella direzione filosofica della tradizione montaliana e, in parte, ermetica, dalla quale in ogni caso Montale in parte si discosterà.3 La Bortolotti, autrice vivente nel momento in cui vengono scritte queste pagine, non ha ancora deviato da tale corso. Esistono tuttavia, a parte il linguaggio, delle differenze notevoli tra l’impostazione degli ermetici ed esistenzialisti italiani (si aggiungano a Montale Ungaretti, Quasimodo, forse Zanzotto e Sereni, e sicuramente la Spaziani e la Campo) e le prospettive cui tende l’autrice. Se nell’universo montaliano – portando avanti il conveniente confronto con l’osso di seppia – una volta terminato il processo di spoliazione di oggetto e parola poco rimane di vero e sostanziale, in quello bortolottiano non si ravvisa un’assoluta annichilazione dell’essere. In altri termini, si tratta d’un destratificare che non arriva mai a una fine, a ‘un’ fine, a una determinazione essenziale. Pare invece che sia il processo a dover essere considerato, ‘socraticamente’, determinazione e oggetto dell’indagine. Non esiste, cioè, un osso di seppia finale e dirimente che pur contrastando con la pienezza della vita ne predichi la caducità anche in termini metafisici.4 Nei versi dedicati alla Rosselli la spoliazione della parola si spiega come alternanza tra l’irruente grappolo della vita, che ne mostra la pienezza, la rapidità (il sorso, v. 5, o fugace flato, v. 12) con cui si consuma, e il distillato ch’essa lascia dietro di sé (diamante, v. 8; cristalli, v. 14; grumo, v. 21). È uno sfogliarsi che ne Nel Montale maturo, il correlativo oggettivo diviene una sorta di ‘correlativo soggettivo’; si vedano Grignani-Luperini (1988), pp. 424-sgg. 2 Un (relativamente) recente ed esaustivo studio della nozione di aridità e secchezza negli Ossi di seppia è quello della Ott (2006, ma 2003 nell’originale tedesco), che peraltro vede nell’iopoeta montaliano la lotta con «una natura impenetrabile, arida, segnata dal continuo dissolvimento delle forme» (p. 86). Ciò è ben lontano dalla nozione bortolottiana, nella quale è il disfacimento stesso a cagionare il canto e a fornire la ragione soggiacente all’esperienza vitale. 3 Sull’evoluzione del rapporto di Montale con la materialità si veda Biasucci (2010). 4 Cfr. Ott (2006), pp. 129-130. 1 211 chiarisce il senso (guardo riverso, v. 18, che s’accoppia col mirare terso, vv. 19-20) ma al contempo ne pietrifica l’agire e ne disperde il significato più recondito, come è evocato dall’immagine dello svaporarsi e del truogolo dal quale arduamente s’attinge con meste secchie un’acqua pesante e presto asciugata (vv. 40-44). Ciò fa da contrappunto alla serie di versi precedenti, in cui appare la proposizione scroscia e fresca tuona (v. 36) relativo alla verde tresca (v. 30) che il sole mostra al ragazzo tra la ramura di becchi (vv. 31-32). Si può riconoscere qui una complessa allegoria delle età rispettivamente giovanile e avanzata, in cui alla facile freschezza, e verdezza, iniziale viene contrapposta la difficoltà del vecchio nel quale la vita va seccandosi di cogliere anche attraverso il ricordo la gaiezza dell’età prima. Ciò nonostante, pur nella predicazione di tale inaridimento, il ricordo comunque trionfa, se si interpretano gli ultimi versi sul ‘ridere e non tremare’ in termini positivi.5 Il tremare riferito alla vecchiaia è espressione del Qoèlet xii, 3, posta nell’amplissima allegoria sull’età avanzata che prende spunto a sua volta da elementi di vita umana e naturale (la bacca di cappero scoppiata, che rappresenta il capo incanutito; le donne che guardano alle finestre e in realtà non vedono, che rappresentano gli occhi, e così via)6. Nel testo biblico la narrazione proverbiale mira a sottolineare il concetto espresso nel versetto finale del capitolo (xii, 13, 14), che conclude anche il libro e che equivale a una sorta di monito dossologico: vista la fine terrena dell’uomo, il suo scopo è temere Dio e osservare i suoi comandamenti. Il testo bortolottiano non ha la medesima funzione, né la stessa forma. Eppure s’intuisce una certa affinità, se non altro nel ritmo concatenato delle immagini che si susseguono e che più che fornire una morale servono a fare da sfondo a un preciso impianto teorico, non metafisico bensì immanente. Come il capitolo dodicesimo del Qoèlet tira le somme del distillato di vita di Salomone mediante un’allegoria descrittiva dell’ultima età dell’uomo, così la poesia d’apertura de La ruggine e la rosa impiega una serie ordinata e coordinata di simboli descriventi il medesimo processo di maturazione e decadenza ponendo però come fulcro la pienezza del ricordo. La chiave per la comprensione della poesia e della raccolta intera è presente come spia vedetta già nel primo verso: Resta, reiterato all’inizio della seconda e poi dell’ultima lassa, è cifra distintiva di ciò che seguirà. In un Un sintagma simile si ritrova in un’opera quasi certamente ignota all’autrice, una raccolta di commenti sull’Antico Testamento del religioso Gioacchino Ventura, Le bellezze della fede (1842), p. 184, dove è il demonio a ridere senza tremare alla vista dell’armatura dell’uomo. È curioso che un tale concetto emerga in un testo dedicato alla fede e d’ispirazione veterotestamentaria, ma di segno del tutto inverso rispetto al tenore spirituale, ma non fideistico, della poesia della Bortolotti. Si potrebbe quasi inferire un approdo su sponde speculari e contrarie da parte rispettivamente del Ventura e della poetessa sollecitato da una medesima nozione di riso e tremore d’impronta biblica. 6 Per l’esegesi rabbinica cfr. Della Rocca (2006), pp. 154-157. 5 212 contesto in cui si canta la consumazione della forza vitale, del suo progressivo disfacimento, viene dunque predicato un ‘restare’, un rimanere assoluto che, rifacendoci a Enrica Salvaneschi, che ha curato una postilla critica alla raccolta, e a Silvio Endrighi (che insieme con la Salvaneschi ha intitolato al «Resto» il primo volume della vasta serie del Libro linteo), si può dire esito aspettuale del divenire. La nozione del restare è insita in quella del ricordare, che è però legata, anche nella Bortolotti, alla sussistenza dell’io esperienziale e poetante, e si colloca a metà fra il cupio vivendi nietzschiano e lo heideggeriano essere-per-la-morte. Chi vive, seppur nella vecchiaia, ancora ricorda e in parte contrasta, col rimembrare, l’aridità e asperità del tempo presente e avanzato. In senso assoluto, il ricordo è affidatario dell’essere, o dell’‘essere stati’. In questo discorso poetico, a differenza che nel testo biblico, la morte viene presentita ma testualmente obliterata; affidatario della vita è, per l’Ecclesiaste, Dio stesso, che sta ovviamente fuori dal contesto immanente. A Dio va lo spirito vitale, ed è Dio che scrive un ‘libro di memorie’7 per coloro che sono morti, i quali, di per sé, nulla possono ricordare e talvolta vengono dimenticati. L’accento è pertanto logicamente sulla vita etica e su ciò che, dei morti, verrà ricuperato nella risurrezione futura. Il restare di chi invecchia e muore è un permanere teologicamente concreto, ma umanamente astratto, nella mente divina. Nel testo bortolottiano tutto si gioca tra nascita e morte e nella pura espressione, nonostante la caducità che pervade il divenire, della virtù arricchente della vita. Il piano teologico non viene sconfessato, ma neppure sviluppato o elaborato, sebbene tra le ultime due lasse sia posto, quale stacco grafico e concettuale, l’inciso solitario Qui d’infinito altrove: gli antitetici Qui e altrove convergono in un infinito, che essendo specificazione di altrove ne esalta il contrasto rispetto al suo antonimo Qui; allo stesso tempo, il sintagma appare segno di una decisa lontananza dal contesto dei criptocredenti e invece indice di altrettanto deciso agnosticismo. Dualità e antitesi si ripropongono anche nel titolo della raccolta. Ne La ruggine e la rosa si leggono gli antipodi simbolici del canto poetico, che dalla tradizione occidentale arrivano sino alla forma ch’essa assume nell’autrice. La rosa (simbolo tanto falsamente scontato quanto lo sono ‘sole’ e ‘cuore’) rappresenta un’allegoria declinabile in molti modi, e che si presta a molti significati. Per mantenere il fuoco sulla struttura che si è finora evidenziata, è bene sottolineare che la ruggine è elemento corrompente del ‘fior dei fiori’, che lo macchia e lo sciupa. Pertanto, la rosa in questione non è una sorta di rosa mistica dantesca; certo è che ne condivide ormai poeticamente i caratteri, se non altro a livello evocativo. ‘Rosa’ si associa quasi immediatamente all’incorruttibilità paradisiaca, all’amore, alla donna (soprattutto vergine) e alla purezza sia fisica sia estetica. Parimenti 7 Mal. iii, 16. 213 evocativa è la ruggine, che in natura può attaccare la rosa e conferirle una colorazione scarlatta.8 L’associazione di ruggine e rosa, nella confusione dei significati traslati e contrastanti che evoca, lascia pertanto spazio (e volutamente) a una congerie d’interpretazioni possibili, che prescindono dal valore di ‘bene’ o ‘male’ che si voglia attribuire ai suoi elementi. Se, in senso classico, una rosa macchiata di ruggine dovrebbe esser considerata imbruttita, è pur vero che difficilmente una vera rosa, quindi non una rosa teologale, resterebbe perpetuamente priva di ruggine, poiché prima o poi si corromperebbe. Questa visione realistica contrasta con la «rosa fresca aulentissima» che rappresentò l’estrema idealizzazione d’una virtù corporale angelicata ed erotizzata a un tempo, e il massimo emblema del tentativo di esprimere sinteticamente l’amore terreno, in tutte le sue accezioni, per tramite di termini teologici. È forse questo il significato più prossimo a quello autentico, che va poi nella direzione che si è indicata sopra: il canto proposto è canto di vita, vita in quanto fascio di contraddizioni tra freschezza e aridità, giovinezza e vecchiaia, rosa e ruggine, le quali ‘assieme divenendo’ formano la vera essenza del ricordo, ossia l’unico modo autentico dell’essere, che è un restare. Questo restare sarebbe, privo della sua ‘ruggine’, qualcosa di indivenuto, e dunque un non essere forse anche esteticamente poco valevole. Il canto della Bortolotti è, in tal senso, un canto di ricerca e predicazione dell’indistruttibile, che precisamente nella virtù destruente del tempo (scandito dalle età dell’uomo, ma anche dal disfarsi del fiore) trova la propria essenza. Si tratta d’un indistruttibile che consiste non di annichilazione ma di memoria, perpetuata anche attraverso testo e ruina (v. 27) intesi come tessitura di parole e violenza dell’esperienza fisica e materiale. La pregnanza filosofica di tale poetica è immensa, allorché rimanda al dibattito costante sopra la nozione ontologica degli universali.9 La Bortolotti resta abilmente fuori da tale diatriba, dal momento che il varco metafisico cui aspira si risolve nel qui e nell’ora; ciò nondimeno, il fatto che il suo io poetante si tenga quasi ostentatamente al di qua della terra desolata dell’essere, e non si amareggi per il destino nullificante che caratterizza l’esperienza umana, ne accentua il tratto esistenziale laddove si carichi di tutta la gamma espressiva delle esperienze poetiche precedenti, antiche e moderne, creando una lingua e uno stile unici e A meno di non considerare una possibile altra facies – omografa ma non omofona – di rosa come rósa, così da far risultare il sintagma come «la ruggine e la rósa», cioè colei che è stata erosa subendo l’effetto ossidante della ruggine. Si tratterebbe d’una interpretazione ardita e sostenibile solo con difficoltà, sebbene non aliena, in linea di principio, dalla virtù logopoietica dell’autrice. Osserva Enrica Salvaneschi che lo strumento principe della Bortolotti è rappresentato da «un’ardua, talora inaudita scelta lessicale», Bortolotti (1998), p. 114. 9 Tra realisti (tra cui Anselmo) e nominalisti (come il Roscellino); per un’originalissima disamina del problema nella teoria poetica, si veda Kövecses (2018), pp. 154-168. 8 214 difficilmente comparabili ad altri contemporanei. Enrica Salvaneschi ha definito il risultato percettivo di tale operato poetico-poietico «una sinestesia continua e continuata fra corpo e mondo. […] non allegoria, non simbolo, non metafora – e dunque, non analogia»10. Dato il percorso tracciato, che si spera foriero d’ulteriori e più incisivi interventi, pensiamo sia opportuno citare anche il complesso poemetto dal titolo La ruggine e la rosa, che si riporta qui integralmente: La ruggine e la rosa questo fui nella rugiada qui ove una lebbra purpurina arde quel ferro che piú flavo divien via via che sfarina e agl’orti rende il proprio nerbo qui mentre sul tallo mocida lucea la piaga d’una età già mencia e vaga qui fu, ove tutto strusse o vagí all’opra d’una brina che per lagrimi Saturno nel buior che gualcisce l’agave supina per risorger irta qual silfide ialina a nidiar in turpi alcove e con argentini artigli a ricamar ardui giacigli e gremir cardini rauchi e di campane vani glauchi e se ancor si levi pasqua riè con ella sugli arnesi a sfar la rubbia crosta e sovra a durir la boccia mansa e fresca che piú smunta roseto desti nel fragorío di venti casti che spian nell’urna de’ sue frali vesti se alcuna alma mai non sosti. 10 5 10 15 20 25 30 Bortolotti (1998), p. 118. 215 Non s’intende fare una disamina puntuale d’ogni verso, bensì collocarlo nel quadro della presente trattazione. S’assiste qui a un’ulteriore dicotomia dell’io poetante, normalmente di per sé unificato, che si mostra in due elementi definiti: esso incarna la ruggine e la rosa, separatamente eppur unitamente, il che conferma in parte l’interpretazione che si è data circa la sostanziale coesione di freschezza e corruzione nella medesima esperienza. Alla ruggine corrisponde la piaga corrompente della lebbra purpurina; il contesto è dunque quello della generale decomposizione, come indicato da ‘sfarinare’ e ‘sfare’, ‘struggere’, e da smunta e frali vesti. Il poema tiene in singolare equilibrio la forte tentazione d’autocompiacimento decadente e un moderato erotismo, evocato soprattutto dalla suggestione della rosa sgualcita, come donna offerta in scarne vesti. L’erotismo è smorzato anche dalla non immediata comprensione del lessico e della sintassi, che hanno l’effetto di nascondere abilmente, nella furia del verso, il significato soggiacente. È questo un emblema della tensione fonosimbolica che pervade l’opera, che come si è accennato va a incidere di primo acchito sul piano evocativo-fonico del significante. Il voluto accostamento e ricupero di termini antichi e desueti causa uno straniamento che riesce a trasportare il lettore in un àmbito altro rispetto a quello della contemporaneità. L’esperimento in questione non è nuovo; antecedente immediato è senz’altro il Pascoli de Il ciocco, al quale si deve l’aver riportato in vita un’intera gamma lemmatica antica e specialistica già in parte superata nell’epoca sua, con il risultato che il suo linguaggio può essere considerato aulico per l’alterità che suscita, pur provenendo in larga misura dalla compagine lessicale contadina. Vero è che persino nelle composizioni più brevi, e in special modo nei Canti di Castelvecchio – di cui peraltro Il ciocco fa parte – l’impiego di lemmi così stranianti diviene inseparabile dal complesso sintattico, tanto da incidere sul ritmo spesso allitterante del verso. Qualcosa di simile, mutatis mutandis, si osserva nella poesia della Bortolotti, costituita da concatenazioni di sintagmi contenenti forme verbali, sostantivali o aggettivali volutamente poco perspicue, laddove a forme più comuni vengano sistematicamente preferite le corrispondenti più antiche (opre, alma …). L’accostamento col Pascoli, e col suo Ciocco in particolare, è rilevante anche nel merito dei contenuti e delle intenzioni autoriali. La prospettiva in cui si muove Pascoli è di natura mitico-simbolica. Con Il ciocco egli cerca di portare a compimento un’epica popolare che ribalti il sistema tipico dell’epica classica basato sulla materia mitica.11 Dèi ed eroi vengono sostituiti con gli uomini visti come dèi; gli uomini, con gli insetti; la problematica esistenziale concernente 11 Scartozzi (2015), p. 108. 216 dolore e destino viene espressa mediante il riferimento parallelo, da una parte, al mondo al di fuori del ciocco e dalla percezione che ne hanno le formiche e, dall’altra, alla narrazione astrale fatta intorno al fuoco. Dal fuoco si passa alle stelle, e dalle stelle all’oltre indeterminato, che gli uomini-dèi stessi percepiscono come misterioso perché legato a forze ignote, come le forze del Fato che neppure agli dèi propriamente detti è dato di conoscere appieno. Si tratta d’un sistema infinito di rimandi in cui la narrazione contadinesca si fa epos, con un corrispondente lessico ricercatissimo, specialistico e pur popolare – ma desueto – che nel contesto presente risulta stranamente aulico.12 Il ritmo del canto bortolottiano segue una simile modalità, solo che, almeno ne La ruggine e la rosa, l’io lirico prevale su quello epico, che risorge però, in altra forma e con esplicito riferimento tematico alla classicità, nell’Euridice. In ogni caso è evidente l’intenzione mitopoietica, vale a dire la volontà di far rivivere il mito su basi che valgano per il presente ma che siano comunque universali (si veda il riferimento a Saturno, come pure gli echi stilnovistico-cavallereschi presentibili nel titolo). Ciò risulta in un implicito rifiuto della relativa facilità o immediatezza di comprensione, simile a un minimalismo poetico, cui va incontro lo sperimentalismo contemporaneista. Anzi, la preziosità, in questa singolare querelle des anciens et des modernes, è forse intesa come strumento di anticonformismo. Dal punto di vista strutturale, il componimento che s’è riprodotto sopra si potrebbe riportare addirittura a modelli sei-settecenteschi; si pensi ad esempio al miglior Filicaja, o, con falcata più ampia, al Leopardi de La ginestra, in cui la ricezione della classicità si coniuga con la riflessione puntuale sulla teoria letteraria e sul genio della lingua. Un discorso a parte andrebbe fatto per gli influssi stranieri, più ardui da riconoscere perché ben nascosti in una – sia detto positivamente – genuina italianità. S’è menzionato T.S. Eliot, ma quale tappa quasi scontata nella weltliterarische Bildung d’ogni poeta moderno. Meno scontato ma espresso – e qui il cerchio si chiude – è il rapporto con la Rosselli, la cui dedica apre la raccolta che s’è cercato di illustrare e i cui rapporti con la Bortolotti si è volutamente scelto, sin qui, di ‘trascurare’. Un motivo è che il componimento, almeno agli occhi del lettore ancorché criticamente preparato, pare solo pretestuosamente dedicata alla poetessa italoinglese; è infatti difficile leggervi un puntuale riferimento all’opera della Rosselli, essendo i contenuti riguardanti la potenza del ricordo applicabili teoricamente a ogni ‘perdita’, a ogni ‘restare’ della rimembranza, fissata nel testo dopo che la vita s’è estinta e possibile epitaffio a ogni morte. Innegabile è però la carica emotiva che vi si scorge, nonché la forza che essa imprime alla raccolta e che assume essendo posta a esergo della raccolta stessa; 12 Per una trattazione si veda Turco (2018), pp. 217-238. 217 il che è spia dell’importanza che il confronto con la Rosselli deve aver giocato nella formazione di Cristiana Bortolotti. Senza affrontare un’analisi comparativa delle due autrici, cosa che richiederebbe uno spazio e una riflessione molto maggiori, è però possibile incardinare in questo frangente la questione degli influssi stranieri sull’opera della Bortolotti. Amelia Rosselli, bilingue, poliglotta, direttamente influenzata, per biografia e scambi culturali, dall’internazionalità, è stata crocevia di istanze poi distillate e propagate attraverso la sua poesia.13 È forse dalla Rosselli quale intermédiaire d’elezione o ‘d’affinità’ che sarebbe opportuno partire per delineare un quadro della Bortolotti come auteur fort; non soltanto – come abbiamo cercato di fare in poche pagine – in àmbito italiano, bensì in una prospettiva più ampia, sintetica, sincretica e non da ‘minore’, che tenda piuttosto alla sua legittima collocazione entro la Weltliteratur. Simone Turco Università degli Studi di Genova simone.turco@edu.unige.it Si veda Visciola-Limone (2005). Si suggeriscono al proposito – compiutamente segnalati in bibliografia – due volumi propedeutici alla messa a fuoco dei rapporti letterari necessari a individuare e comprendere i fasci d’influenze descritti sopra: Deidier (2008) e Deidier (20143). 13 218 Riferimenti bibliografici Biasucci (2010) Luigi Biasucci, Gli oggetti di Montale, Milano, Ledizioni, 2010. Bortolotti (1994) Cristiana Bortolotti, Il gioco dell’aquilegia, Potenza, Il Salice, 1994. Bortolotti (1998) Cristiana Bortolotti, La ruggine e la rosa, Castel Maggiore (Bologna), Book Editore, 1998. Bortolotti (2001) Cristiana Bortolotti, Munus. Dieci monologhi a una vuota cavea, Torino, Pentarco, 2001. Bortolotti, Tâw (2007) Cristiana Bortolotti, Tâw. Deflazione dal silenzio in 12 stazioni, Torino, Pentarco, 2007. Bortolotti, Euridice (2007) Cristiana Bortolotti, Euridice, o ladra cantica delle parusíe perdute, Castel Maggiore (Bologna), Book Editore, 2007. Deidier (2008) Roberto Deidier, Da un luogo anteriore: poeti italiani del Novecento e oltre, Macerata, Quodlibet, 2008. Deidier (20143) Roberto Deidier, La fondazione del moderno. Percorsi della poesia occidentale, Carocci, Roma, 20143. Kövecses (2018) Zoltán Kövecses, Metaphor universals in literature in «ANTARES: Letras e Humanidades», 10, 20, 2018, pp. 154-168. Della Rocca (2006) Roberto Della Rocca, Caducità e felicità dell’uomo in Qohelet, in Enrico I. Rambaldi (a cura di), Qohelet: letture e prospettive, Milano, Franco Angeli, 2006. Grignani-Luperini (1988) 219 Maria Antonietta Grignani-Romano Luperini, Montale e il canone poetico del Novecento, Bari, Laterza, 1988. Ott (2006) Christine Ott, Montale e la parola riflessa. Dal disincanto linguistico degli Ossi, attraverso le incarnazioni poetiche della Bufera, alla lirica decostruttiva dei Diari, Milano, Franco Angeli, 2006. Salvaneschi-Endrighi (2009) Enrica Salvaneschi-Silvio Endrighi, Libro linteo. Titolo I: Il resto, Ro Ferrarese, Book Editore, 2009. Scartozzi (2015) Sergio Scartozzi, La lirica cosmica di Pascoli. Il ciocco e il corpus astrale: fonti, immagini e intertestualità della mitologia siderale in «Ticontre. Teoria, Testo, Traduzione», IV, 2015, p. 99-123. Turco (2018) Simone Turco, «…un popolo infinito / che ben sapeva l’ordine e la legge». Stilemi epici ed echi veterotestamentari ne Il ciocco di Giovanni Pascoli in «Lumina. Rivista di Linguistica storica e di Letteratura comparata», II, 1-2, 2018, pp. 217-238. Ventura (1842) Gioacchino Ventura, Le bellezze della fede (1842), Roma, Zampi, 1842. Visciola-Limone (2005) Simone Visciola-Giuseppe Limone, I Rosselli. Eresia creativa, eredità originale, Napoli, Guida, 2005. The paper aims at illustrating Cristiana Bortolotti’s poetry through the analysis of two poems from La ruggine e la rosa, one of her most emblematic collections. It is argued that the way Bortolotti handles the existential problem draws on Montale’s notion of dryness, but varies on the original concept of correlative objective so as to create a peculiar relationship between the word and the world. Bortolotti would have placed at the core of her poetry the notion of ‘remaining’ as the authentic and indestructible aspect of reality, with memory as one of its focuses. It is contended that her recovering a precious, hard-tograsp, and even estranging lexicon may be compared to Pascoli’s mode of re-creating 220 myth in the present. Finally, a hint is provided as to Bortolotti’s rapport with Amelia Rosselli, to be developed in further studies. Parole-chiave: Bortolotti; ruggine; rosa; restare; infinito. 221 FASCICOLO II 222 VARIA 223 ELEONORA CAVALLINI, «L'inutilità del suo peso avvilito»: riminiscenze omeriche in una lettera di Giuseppe Ungaretti a Mario Puccini Nel 2015, per i tipi di Archinto Editore, Francesco De Nicola pubblica per la prima volta alcune lettere di Giuseppe Ungaretti, indirizzate allo scrittore-editore Mario Puccini1 «tra il marzo e il dicembre 1917, anno cruciale per le vicende della Grande Guerra e culminato a fine ottobre con la ritirata di Caporetto»2. Come è noto, nel mese di luglio dell'anno successivo, dal fronte occidentale (bosco di Courton, Francia), dove era stato trasferito in seguito a Caporetto, Ungaretti avrebbe composto la poesia Soldati: Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie. Come osserva R. Pogue Harrison3, «l'uso di quell'impersonale "Si sta", invece che della prima persona singolare, fa pensare alla preistoria epica della similitudine poetica, una preistoria di cui Ungaretti era senza dubbio consapevole quando ha paragonato i soldati alle foglie sul punto di cadere a terra in autunno». Lo studioso prosegue ribadendo come la «genealogia» della lirica ungarettiana si inserisca nel solco della tradizione epica, in cui, a partire da Omero, ricorre l'immagine delle 'foglie' come metafora della caducità della vita umana. In Iliade VI 145-149, l'eroe licio Glauco così risponde a Diomede che, stupito dall'audacia dell'avversario, desidera conoscerne l'identità: «Magnanimo figlio di Tideo, perché mi chiedi la stirpe? Tal e quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini. Le foglie il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva altre ne germina, e torna l'ora della primavera; così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l'altra sfiorisce» (trad. G. Cerri). 4 Sul rapporto, non sempre idillico, fra Ungaretti e Puccini, specialmente nel periodo anteriore alla guerra, cfr. De Nicola (2015), pp. 6-14. Su vita e opere dello scrittore di Senigallia, cfr. la voce Puccini, Mario in http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-puccini_(DizionarioBiografico)/. 2 Così De Nicola (2015), p. 5. 3 Pogue Harrison (2004), p. 134. 4 Omero (1996), p. 385. 1 224 Di séguito, Glauco deciderà di soddisfare la richiesta di Diomede, ma, anziché rivelare il proprio nome, preferirà narrare dettagliatamente le gesta della propria famiglia, tanto da permettere all'avversario di riconoscerlo come nipote di Bellerofonte, già ospite di Oineo, a sia volta nonno di Diomede. La malinconica riflessione di Glauco sulla caducità delle cose rispecchia la sorte di tutta l'umanità, soggetta a un perpetuo avvicendarsi di prosperità e decadenza, di fama e di oblio. Diversamente, il componimento ungarettiano non contempla la selva fiorente in primavera, ma solo gli alberi autunnali le cui foglie possono cadere da un momento all'altro, precarie come le vite dei soldati al fronte. L'immagine delle foglie ritorna in Virgilio, Eneide VI 309-312: quam multa in silvis autumni frigore primo lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus trans pontum fugat et terris inmittit apricis, dove il paragone con le foglie che cadono in autunno si riferisce al gran numero di anime che si assembrano sulle rive di Acheronte. Il modello virgiliano sarà tenuto in considerazione da Dante, Inferno III112-117: Come d'autunno si levan le foglie l'una appresso all'altra, infin che il ramo vede alla terra tutte le sue spoglie; similemente il mal seme d'Adamo: gittansi di quel lito ad una ad una per cenni, come augel per suo richiamo. Nonostante il riferimento all' "autunno" sia presente sia in Virgilio che in Dante, l'ipotesto più vicino al componimento ungarettiano sembra essere il passo omerico, in quanto in entrambi i casi il tertium comparationis non è il numero sterminato delle anime accorrenti all'Ade, bensì la precarietà delle stirpi umane, provvisorie e caduche come le foglie.5 D'altra parte, proprio Omero, che Ungaretti non leggeva in lingua originale, ma di cui avrebbe realizzato molto più tardi, nel 1968, una traduzione di secondo grado per le sue introduzioni agli episodi del film televisivo Odissea di Franco Rossi (1968)6, era già presente nella memoria del poeta nel 1917, l'anno in cui inviava dal fronte orientale le missive a Mario Puccini. Frustrato e avvilito dall'andamento delle operazioni militari, in particolare dalla disfatta di Caporetto, Ungaretti scrive a Puccini queste accorate parole7: Per queste e ulteriori occorrenze dell'immagine delle 'foglie', cfr. Pogue Harrison (2204), pp. 133-150. 6 Sull'argomento, cfr. da ultimo Livi (in corso di stampa). 7 Cfr. De Nicola (2015), p. 55. 5 225 Ho seguito il pellegrinaggio, stordito, per il Vallone per il San Michele per Sdraussina lungo i cimiteri dove si lasciavano tanti morti che m'erano stati cari in vita, che avevo visto partire schiantati in piena speranza increduli della morte, sebbene docili, poveri compagni lontani. Stordito d'essere ancora, sulla terra, un uomo che sentiva il peso del suo corpo fragile. L'inutilità del suo peso avvilito. Mio Dio che cosa atroce e ossessionante portare così la propria vita viva, ebbene tanto stancata e logorata, quando tutto ci sembra morto, tutto allontanato e noi rimasti non in una Tebaide8, ma in uno smarrimento senza senso. Non sarà casuale la consonanza con Iliade XVIII 98-104, in cui Achille, rivolto alla madre Teti, confessa di non avere più desiderio di vivere, non essendo stato in grado di recare aiuto a Patrocolo, da poco morto per mano di Ettore: αὐτίκα τεθναίην ἐπεὶ οὐκ ἄρ᾽ ἔμελλον ἑταίρῳ κτεινομένῳ ἐπαμῦναι· ὃ μὲν μάλα τηλόθι πάτρης ἔφθιτ᾽ ἐμεῖο δὲ δῆσεν ἀρῆς ἀλκτῆρα γενέσθαι νῦν δ᾽ ἐπεὶ οὐ νέομαί γε φίλην ἐς πατρίδα γαῖαν οὐδέ τι Πατρόκλῳ γενόμην φάος οὐδ᾽ ἑτάροισι τοῖς ἄλλοις οἳ δὴ πολέες δάμεν Ἕκτορι δίῳ ἀλλ᾽ ἧμαι παρὰ νηυσὶν ἐτώσιον ἄχθος ἀρούρης Come Achille siede presso le navi, «inutile peso per la terra», così Ungaretti, «stordito» alla vista dei cimiteri ove giacciono tanti compagni periti in battaglia, si accorge «d'essere ancora, sulla terra, un uomo che sentiva il peso del suo corpo fragile. l'inutilità del suo peso avvilito». Due situazioni per molti aspetti simili, ma due sensibilità profondamente diverse: se Achille appare divorato del senso di colpa per non essere riuscito a soccorrere i suoi amici e commilitoni, Ungaretti, pervaso da una nuova e più universale cognizione del dolore, percepisce il peso del suo corpo, umano e vivente, come qualcosa di inutile, avvilito: eppure ancora, nonostante tutto, proiettato verso un futuro su cui Achille non avrebbe mai potuto contare. Eleonora Cavallini Università di Bologna eleonora.cavallini@unibo.it «Modo di dire per indicare un luogo desolato, deserto, dove si conduce un'esistenza ifficoltosa, solitaria e isolata» (così De Nicola (2015), p. 57 n. 7). Il riferimento è probabilmente al passo dei Promessi Sposi manzoniani in cui viene definito «una Tebaide» il Castello dell'Innominato dopo la conversione e la conseguente scelta, da parte dello stesso, di una condotta da anacoreta (http://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/tebaide/). 8 226 Riferimenti bibliografici De Nicola (2015) Francesco De Nicola, in G. Ungaretti, Lettere dal fronte a Mario Puccini, Milano, Archinto, 2015. Dizionario – Bibliografico Treccani Dizionario – Bibliografico, s.v. Puccini, Mario <http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-puccini_(Dizionario-Biografico)/. > Livi (in corso di stampa) François Livi, «Andavamo dove ci avevi detto / nobile Ulisse […]». Ungaretti traduttore di Omero, in M. Lanzillotta (a cura di), Scrittori che traducono scrittori. Traduzioni 'd'autore' da classici latini e greci nella letteratura italiana del Novecento. Seconda serie, «Levia Gravia» XX ("018), in corso di stampa. Omero (1996) Omero, Iliade, traduzione di G. Cerri, commento di A. Gostoli, con un saggio di W. Schadewaldt, testo greco a fronte, Milano, BUR, 1996. Pogue Harrison (2004) Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, trad. it., Roma, Fazi Editore, 2004. Some observations about a Homeric reminiscence in a letter by Giuseppe Ungaretti to his friend Mario Puccini (1917). Parole-chiave: Ungaretti; Puccini; Omero; peso; inutile. 227 ALESSIA MARINI, I Giordano Bruno del XXI secolo: gli eretici delle DH. Progetti, tecnologie e iniziative per comprendere la galassia dell’informatica umanistica Maiori forsam cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam.1 Cambiare, evolversi, mutare e adattarsi sono imperativi naturali che accomunano tutte le creature della natura. L’umanità non fa eccezione: esattamente come tutti gli animali, anche l’uomo è soggetto a continui cambiamenti. Si pensi solamente all’evoluzione, prima intellettiva, poi psicologica, spirituale, tecnica e osservazionale che l’animale uomo ha avuto nel corso dei millenni. Il cambiamento però non è solo qualcosa di indotto da condizioni esterne, ma è anche, e soprattutto, insito nell’animo umano: è un istinto primordiale inesplicabile, un’urgenza improrogabile che, prima o poi, ognuno avverte nel corso della vita. Non tutti gli esseri umani hanno però il coraggio o la lungimiranza di seguire questo istinto; i più ne sono spaventati, da sempre, e cercano di reprimerlo e seppellirlo nella parte più buia del loro animo, costringendosi a vivere in un ‘medioevo intellettuale’. In pochissimi, invece, hanno assecondato questa esigenza di andare oltre il tangibile, il canonico ed il visibile, lasciandosi guidare dal bisogno di domandarsi il perché delle cose, di tentare di spiegare i fenomeni, di riflettere ed interrogarsi su dogmi sovraimposti, di percorrere nuove strade, di evolversi, di cambiare. Questi pionieri hanno compiuto degli atti rivoluzionari pur restando consapevoli del contesto socioculturale che li circondava. Hanno proposto nuove idee pur sapendo che, appartenendo ad una minoranza, esse potevano essere stroncate sul nascere e ridotte al silenzio al pari dei loro ambasciatori. Casi di particolare crudeltà si sono avuti quando queste aberrazioni cognitive scardinavano o mettevano in dubbio gli insegnamenti culturali dell’istituzione più longeva e potente mai creata dall’uomo: la Chiesa cattolica. Corrotta e lontana dai suoi principi fondanti, la chiesa di Roma combatteva strenuamente contro l’intelletto umano, un nuovo nemico, più forte e spaventoso di qualsiasi sanguinario esercito straniero. Additare streghe ed eretici, portare avanti processi fittizi, bruciare innocenti in grandi piazze gremite di fedeli era un po’ la “moda 1 Schoppe (1921). 228 del momento”, un’usanza macabra e barbara agli occhi dei moderni che porta a considerare gli anni a cavallo tra la metà del XV e XVII secolo come uno dei periodi più bui della storia europea. Nonostante questo clima di chiusura, governato dalla Santa Inquisizione, risultava comunque impossibile mettere un freno al naturale evolversi della riflessione umana. Uno tra tutti, filosofo e religioso domenicano di origini partenopee, portò la riflessione teologica verso nuove frontiere: Giordano Bruno. Egli sostenne strenuamente la sua visione di Dio, del mondo e dell’Universo stesso, pensato come un unico infinito, uno spazio immenso composto da spazi ed oggetti via via più piccoli ma tutti creati da una stessa matrice e per questo indispensabili al Grande Disegno. Di maniera che non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo. Ma se infiniti sono i Mondi e le galassie, l’uomo non può essere il privilegiato del creato. Tantomeno lo è un unico popolo, appartenente alle molteplici e poliedriche razze umane.2 Queste parole, ed in particolare l’universalità che esprimono, devono essere state come un coltello che squarciava il telone dietro il quale era stata celata la riflessione scientifica. Ma i tempi non erano maturi e le sue innovative idee fruttarono a Bruno solamente una scomunica ed una vita da girovago, alla ricerca di qualcuno che potesse accettare e condividere la sua visione di quel Dio infinito e infinibile, che tanto amava. Nessuno gli offrì questa possibilità. Fu invece sbeffeggiato, insultato, umiliato e messo al bando in Francia così come in Svizzera, Germania e Inghilterra. Rientrato in Italia fu imprigionato a Venezia e poi portato a Roma dove, dopo torture indicibili, venne ‘processato’ e infine condannato a morte3. Bruno non abiurò mai le sue idee, non ritrattò mai, né si arrese: fino alla fine vi rimase fedele. Il 17 febbraio del 1600 in Campo dei Fiori a Roma, all’accendersi del rogo, egli si spense sotto lo sguardo sprezzante dei più. I testimoni oculari del suo processo e dell’esecuzione, ovvero gli intellettuali dell’epoca che ci hanno tramandato la vicenda, descrissero la morte dell’uomo di scienza con parole ricche di commozione. Se la vicenda di Bruno può insegnare qualcosa è che avere il coraggio di diffondere e difendere a qualunque costo le proprie idee soprattutto se si è consci della loro bontà e di quali benefici se ne potrebbe trarre, non è mai una strada facile. Non per questo non vale la pena percorrerla. 2 3 Bruno (1583). Berti (1868). 229 Certo è che il ventunesimo secolo non è il 1600: la Santa Inquisizione è sparita, le persone non vengono più arse sul rogo solo perché esprimono idee diverse e/o innovative, il mondo appare più ragionevole rispetto a quattrocento anni fa. Tuttavia, per quanto sia piacevole abbellire i nostri tempi con apparenze ed illusioni, la cruda verità è che purtroppo, quando si tratta di innovazione e di implementazione del nuovo in strutture ecdotiche preesistenti, si finisce sempre su un terreno grigio e paludoso fatto di scetticismo se non a volte, di totale chiusura. L’accademia italiana, soprattutto nell’ambito degli Studi Umanistici, tende ancora a guardare con sospetto tutto ciò che potrebbe essere minimamente accomunabile alle scienze matematiche, statistiche o computazionali. In questo atteggiamento è possibile rintracciare un doppio paradosso umano: il primo riguarda la generica ritrosia al voler utilizzare gli strumenti informatici per ampliare gli orizzonti e le possibilità della ricerca umanistica, quando tecnologie simili sono parte integrante del nostro quotidiano; il secondo è il constatare che una larga parte degli scettici proviene dalle ‘nuove leve’, come se la stessa generazione Y fosse spaventata dalla tecnologia. Sono proprio loro ad ergersi in difesa di metodologie canoniche restando sordi ai nuovi richiami; come una nuova inquisizione, sempre pronta ad accendere il rogo. Fortunatamente, per quante somiglianze sia ancora possibile rintracciare, non siamo più nel diciassettesimo secolo, perciò sono convinta che per smuovere gli scettici possa risultare utile un approfondimento orizzontale su tutto ciò che possiamo definire DH. Osservare cosa è già stato fatto, cosa si sta costruendo e quali potrebbero essere i nuovi sviluppi aiuterebbe a sciogliere i dubbi e ad allentare il sospetto a riguardo. Si parlava, in apertura, di evoluzione e cambiamento: è doverosa una precisazione che riesca quantomeno ad affievolire i timori e le paure degli ‘inquisitori’ delle DH: nessuna delle discipline informatico-umanistiche ha infatti lo scopo di scansare o distruggere le metodologie precedenti, bensì di utilizzarle come base per lo sviluppo di ambienti web, software e tools utili tanto alla didattica quanto alla ricerca accademica. “Infiniti mondi ed infiniti cieli”: così si presenta la ricerca monodisciplinare, una miriade di galassie sparse all’interno dell’universo del sapere, ognuna con le sue caratteristiche, le sue stelle, i suoi meccanismi; può capitare, però, che due galassie entrino in collisione4, mescolandosi e continuando a procedere insieme nel loro percorso spaziale. Un qualcosa di simile accade nel momento in cui materie come la linguistica, la filologia, la storia dell’arte e la storia entrano in contatto con il codice binario, le nuove tecnologie e i “multiversi” della rete, Quando avviene questo evento astronomico, si parla propriamente di galassie interagenti. Per un maggiore approfondimento sull’argomento: Gasparri (2010). 4 230 dando vita ad un ventaglio di infinite possibilità. Sono matrimoni strani, non convenzionali, ma che risultano, nella pratica, estremamente funzionali per lo sviluppo di nuove tecniche di insegnamento, apprendimento e ricerca. Entrando più nello specifico nella galassia delle DH, è possibile osservare più da vicino i suoi componenti: alcuni di essi riguardano i risultati che si hanno quando l’analisi testuale incontra la statistica, come nel caso del pacchetto STYLO, sviluppato da Maciej Eder, Jan Rybicki e Mike Kestemont, all’interno dell’ambiente R5. Come si legge nell’Abstract del loro saggio: Stylometry (computational stylistics) is concerned with the quantitative study of writing style, e.g. authorship verification, an application which has considerable potential in forensic context, as well as historical research6. Immaginiamo, quindi, di voler svolgere un’analisi stilistica delle maggiori opere della letteratura italiana selezionando, per brevità, solamente l’opera più conosciuta dei soli autori appartenenti al canone crociano; già con queste restrizioni la lista risulta estremamente corposa e probabilmente non sarebbe sufficiente una decade per portare a termine il progetto manualmente. Con l’ausilio del sopracitato pacchetto, l’analisi risulta infinitamente più precisa e celere. Maciej Eder, in un articolo del 20137, cerca di definire una lunghezza minima dei testi in esame, che oscilla tra le 2.500 parole per i testi in prosa latini e le 5.000 per i romanzieri europei, necessaria per avere dei risultati affidabili con una precisione oscillante tra l’80% e il 90%. Il programma riesce, quindi, a leggere e contare contemporaneamente tutte le parole contenute nei testi, stilando delle liste di Most Frequent Words che, comparate tra loro, danno dei Delta8 di distanza tra i testi: più questo valore è vicino allo zero, più ci sono somiglianze nello stile degli autori. Uno dei vantaggi di stylo risiede nell’offrire allo studioso, oltre ai dati numerici delle operazioni statistiche eseguite sui testi, anche varie interpretazioni grafiche degli stessi dati, che possono risultare più leggibili ed interpretabili anche a chi è poco avvezzo alle spiegazioni numeriche. Un software così sviluppato può risultare utile non solo in campo letterario, ma può dimostrarsi un prezioso strumento per l’analisi del linguaggio sui social network o dei cambiamenti del linguaggio politico negli anni; allo stesso tempo può aiutare a risolvere polemiche e diatribe sull’attribuzione autoriale di alcuni testi. Il campo in cui la stilometria viene maggiormente applicato resta quello dell’attribuzione autoriale: moltissimi sono, infatti, i contributi di ricerca che vertono su questo tema; un esempio calzante è il contributo di Carol E. Chaski9 The R Project for Statistical Compunting, ambiente per statistica computazionale e grafici. (https://www.r-project.org data di ultima consultazione 9/5/2019). 6 Eder-Rybicki-Kestemont (2016). 7 Eder (2015). 8 Burrows (2002). 9 Chaski (1997). 5 231 che già nel 1997 riflette sugli aspetti scientifici ed interpretativi dell’attribuzione autoriale. Esistono, ovviamente, anche alti contributi che approfondiscono altre tematiche legate alla stilometria, da questioni più tecniche ad altre più interpretative: una lista, parziale ma esaustiva, è stata messa a disposizione su GitHub10 da Christof Schöch11 e rappresenta un ottimo punto di partenza per chi si approccia per la prima volta a questo variegato mondo. Un esempio molto recente di come la stilometria può essere applicata oltre il campo dell’attribuzione autoriale è stato presentato durante la conferenza AIUCD del 2019 tenutasi ad Udine; Simone Rebora ha proposto uno studio, svolto in collaborazione con Massimo Salgaro12, circa il linguaggio delle book reviews di letteratura italiana selezionate tra quelle pubblicate in una piattaforma di social reading, in un giornale cartaceo e in tre riviste scientifiche. Già questi pochi esempi sono, quindi, in grado di dimostrare l’estrema versatilità della Textual Analysis. La computazione testuale automatizzata non è l’unico campo in cui le DH hanno dato frutti interessanti. Anche la filologia è entrata in contatto con l’informatica, dando luogo a diversi tipi di edizioni digitali e tools per la ricerca scientifica, quasi tutti basati sul linguaggio di codifica TEI13 (Text Encoding Iniziative), basato su XML (eXtesible Markup Language), la cui prima versione P1 risale al 199014. Già dai primi anni del 2000 hanno iniziato a svilupparsi progetti di messa a disposizione di materiali manoscritti sia in Italia che all’estero. Uno dei più “attempati” è la Augsburg Web Edition of Llull's Electoral Writings15 risalente al 2001 e creata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Amburgo sotto la direzione di Friedrich Pukelsheim: essa esibisce facsimili, trascrizioni e traduzioni in inglese, tedesco, spagnolo e catalano. Pur con i suoi limiti, principalmente legati alla grafica e all’organizzazione dei contenuti, l’edizione digitale degli scritti di Llull risulta un buon prodotto per l’esplorazione e lo studio del testo: accanto ad una scansione (che per la bassa risoluzione somiglia ad una fotocopia) del testo manoscritto originale, vengono messe a disposizione dell’utente sia la trascrizione in lingua latina che le traduzioni. Più o meno dello stesso periodo, se non antecedente, è il progetto italiano promosso dall’Università di Tor Vergata di Roma per la messa online di un autografo boccacciano: l’Edizione Critica Ipertestuale dello Zibaldone Laurenziano (Pluteo Servizio di hosting pensato appositamente per i software. La piattaforma permette agli sviluppatori di caricare i loro codici, renderli disponibili e condivisibili e soprattutto permette anche ad uno sviluppatore esterno di lavorare sullo stesso codice. GITHUB https://github.com. 11 Schöch (2017). 12 Salgaro-Rebora (2019). 13 TEI Consortium (2019). 14 Sperberg-McQueen-Burnard (1990). 15 The Augsburg Web Edition of Llull's Electoral Writings (2016). 10 232 XXIX.8) autografo di Giovanni Boccaccio 16, di cui è responsabile Raul Mordenti, parte dalla trascrizione del testo e collega ipertestualmente ogni sezione con l’immagine del facsimile. Anche questo progetto si presenta con un aspetto grafico molto semplice, ma è frutto di una profonda riflessione sulle possibilità di studio offerte da un’edizione ipertestuale17. Decisamente più recente è il progetto inglese Jane Austen’s Fiction Manuscripts18 diretto da Kathryn Sutherland, che utilizza gli strumenti informatici per creare un ambiente atto alla visualizzazione, lettura e consultazione di tutte le opere manoscritte della Austen, aiutando così l’utente nella ricostruzione dell’iter compositivo e dandogli la possibilità di visualizzare il testo ed il facsimile dello scartafaccio, con e senza cartiglio; l’edizione digitale della Austen si completa inoltre con la riproduzione delle opere edite a stampa della scrittrice inglese. A questo punto non si può non citare il Samuel Beckett Digital Manuscripts Project19, patrocinato dall’Università di Anversa, diretto da Dirk Van Hulle e Mark Nixon e online a partire dal 2011. Questa edizione digitale si basa su un caso di studio molto interessante: Beckett aveva l’abitudine di scrivere e correggere i suoi testi, sia in inglese che in francese. Il progetto perciò permette non solo di visualizzare edizioni e manoscritti delle opere di Beckett, ma riesce a rappresentare chiaramente l’usus scribendi dell’autore analizzando, tramite una minuziosa segmentazione del testo e codifica, ogni frase singolarmente e rintracciando ogni sua occorrenza nel materiale presente nell’ambiente. Spostandoci invece verso la vicina Francia possiamo trovare il Proust Prototype20 di Elena Pierazzo e Julie André, che oltre a visualizzare il facsimile dei quaderni proustiani permette di operare su di essi: cliccando sull’immagine compariranno in successione le zone di testo seguendo l’ordine di più probabile composizione e di lettura. Il progetto è, come indica già il nome, un prototipo per lo studio e la visualizzazione di alcune pagine dei quaderni proustiani; un primo passo per capire come rendere massivamente fruibili determinati materiali complessi, utilizzando gli strumenti informatici e, nel nostro caso specifico, la codifica XML-TEI. Altro interessante progetto francese è l’Atelier Bovary21, nel quale vengono indicizzati e riprodotti i manoscritti dell’opera flaubertiana riuscendo a ricreare una vera e propria edizione genetica online in grado di tenere conto di tutto il materiale impiegato nella composizione, dalle prime bozze alle ultime aggiunte; il tutto è consultabile Edizione Critica Ipertestuale dello Zibaldone Laurenziano (Pluteo XXIX.8) autografo di Giovanni Boccaccio (2001). 17 Mordenti (1998). 18 Jane Austen’s fiction manuscripts (2005). 19 Samuel Beckett Digital Manuscript Project (2011). 20 Autour d’une séquence et des notes du Cahier 46: enjeu du codage dans les brouillons de Proust Around a sequence and some notes of Notebook 46: encoding issues about Proust's drafts (2012). 21 Les manuscrits de Madame Bovary, edition intégrale sur le web (2008). 16 233 su un apposito visualizzatore che permette all’utente di fruire sia del facsimile dell’edizione di riferimento, che della sua trascrizione. Di tutt’altro tipo, ma sempre basato sulla codifica TEI come la maggior parte dei progetti menzionati prima, è EVT22, strumento sviluppato sotto la direzione di Roberto Rosselli Del Turco, utile alla visualizzazione e allo studio di edizioni critiche e diplomatiche. Con una conoscenza base della codifica XML-TEI è possibile, una volta scaricato gratuitamente il tool, creare il proprio file da inserire in EVT, toccando così con mano le potenzialità del tool e constatare quanto risulterebbe utile alla ricerca filologica. Philoeditor 2.023 è l’ultimo progetto di Digital Philology che verrà presentato: si tratta di un ambiente sviluppato da Fabio Vitali per l’Università di Bologna. Basato su I Promessi sposi, esso si occupa di riportare su un’interfaccia estremamente user friendly tutti i capitoli dell’opera in tutte le sue edizioni (1827, 1840 e altre edizioni successive) permettendo un confronto tra loro. Philoeditor 2.0 pertanto permette all’utente di esplorare il testo come più desidera, dandogli la possibilità di scegliere quali metodologie e/o categorie correttorie visualizzare sul testo. Passando dalla filologia all’archivistica arriviamo in una nuova galassia di possibilità: avere a disposizione uno spazio infinito quale è internet risulta utile soprattutto per le scienze archivistiche che troppo spesso, nel mondo fisico, si ritrovano ad avere a che fare con mancanza di spazio e deperibilità dei materiali. La creazione di archivi digitali permette di superare entrambe le problematiche, anche se ne sviluppa delle altre come l’indispensabilità di standard per la codifica dei materiali ed una corretta indicizzazione. In particolare, bisogna selezionare il formato elettronico più adatto alla conservazione, raccogliere le informazioni circa l’autenticità del materiale, utilizzare adeguati insiemi di metadati secondo schemi standard che garantiscano la interoperabilità a distanza di tempo e introdurre procedure che garantiscono la qualità del processo come quelle dello standard ISO 900024. Detto così potrebbe risultare un processo estremamente complesso ma, in realtà, non è molto dissimile dalle operazioni di archiviazione e gestione di un archivio fisico: le modalità di catalogazione utilizzano un linguaggio (o codifica) differente, ma le risorse e i materiali sono sempre gli stessi. Nella creazione di un archivio digitale, infatti, si parte sempre dall’analisi del materiale fisico a disposizione: a seconda di come esso è stato catalogato ed ordinato, ma anche seguendo il tipo di risorsa che ci si trova davanti, si crea un nuovo schema di indicizzazione. Online esistono diversi archivi digitali, sia EVT – Edition Visualization Tchnology (2006). Philoeditor 2.0 (2010). 24 Queste ed altre informazioni sui metodi di conservazione digitale sono disponibili online presso il sito del Centro di Eccellenza Italiano sulla Conservazione Digitale, Conservazione Digitale, http://www.conservazionedigitale.org/wp/. 22 23 234 internazionali - come il Wiley Digital Archives25 che contiene, tra le altre, le prestigiose collezioni della New York Accademy of Science e della Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, o come le Digital Collections della Biblioteca del Congresso Americano26 - sia italiane, tra cui vale la pena annoverare le collezioni digitali della Biblioteca Vaticana27 e quelle disponibili sul sito del Museo degli Uffizi di Firenze28. Può essere interessante soffermarsi un momento a riflettere sull’importanza dell’organizzazione della conoscenza: l’universo della rete, nel suo essere potenzialmente infinito, presenta il rovescio della medaglia, ovvero la facilità con cui le informazioni possono andare perdute senza una precisa categorizzazione. Proviamo a fare un esempio in termini più familiari e forse più comprensibili: immaginiamo di andare su Google o su un qualsiasi motore di ricerca e di scrivere la parola “Venere”, ottenendo così risultati che vanno dalle rappresentazioni pittoriche e scultoree della Dea greca alle immagini astronomiche del pianeta. Condurre una ricerca mirata fra queste informazioni ambigue risulta difficile e lungo, e snellire quest’operazione di cernita del materiale per arrivare ad un risultato il più preciso possibile è proprio uno degli scopi del Semantic Web o web semantico. Quello che si vuole costruire, attraverso l’utilizzo di ontologie29 e Open Data, è una vera e propria struttura dell’informazione tale che, associando ad ogni risorsa un URI (Uniform Resource Identifier), sia possibile creare delle triadi informative che leghino due risorse tramite un predicato, e che a loro volta possano essere legate ad altre risorse di altre triadi30. Questa concettualizzazione della conoscenza aumenterebbe esponenzialmente la puntualità delle ricerche e risulterebbe utile anche per un maggiore orientamento all’interno delle risorse informatiche. Con questo obiettivo lavora il progetto DARIAH, europeo di nascita che ogni anno sviluppa nuove sottosezioni nazionale: lo scopo è costituire un network utile sia all’insegnamento che alla ricerca nel campo degli studi umanistici e dell’arte: It develops, maintains and operates an infrastructure in support of ICT-based research practices and sustains researchers in using them to build, analyse and interpret digital resources. By working with communities of practice, DARIAH brings together individual state-of-the-art digital arts and humanities activities and scales their results to a European level. It preserves, provides access to and disseminates research that Wiley Digital Achives, https://www.wileydigitalarchives.com/index. Library of Congress, Digital Collections, https://www.loc.gov/collections/. 27 DIGIVATLIB, https://digi.vatlib.it. 28 Le Gallerie degli Uffizi, Digital Archives https://www.uffizi.it/en/pages/digital-archives. 29 “L'insieme dei termini basilari e delle relazioni, che costituiscono il vocabolario di un'area specifica, e delle regole per combinare termini e relazioni per determinare estensioni del vocabolario”, Neches - Fikes - Finin - Gruber - Patil - Senator - Swartout (1991). 30 Noia - De Virgilio - Di Sciascio - Donini (2013). 25 26 235 stems from these collaborations and ensures that best practices, methodological and technical standards are followed31. Nell’organizzazione della conoscenza online, quindi nello sviluppo del Web Semantico, c’è ancora molto da fare – i vari livelli di codifica che questo strumento richiede per essere affidabile risultano da un lavoro manuale, lungo e complesso – ma grazie agli sforzi collettivi, siamo sulla giusta strada. Accanto agli archivi digitali si trovano le cosiddette mostre virtuali: in quanto digitalizzazioni delle risorse di un museo o di una collezione specifica, esse somigliano concettualmente all’archivio, ma si differenziano da quest’ultimo sia per il modo di costruzione che per l’organizzazione e caricamento dei contenuti. Se per creare un Digital Archive è necessaria una conoscenza di standard, metodi di catalogazione e codifica EAD32 (Encoded Archival Description, basato su XML, necessita conseguentemente dell’utilizzo del foglio di stile XSLT per la resa in HTML), per le mostre virtuali, o biblioteche digitali, sono sufficienti alcuni software dedicati. I due più usati, per intuitività dell’interfaccia e resa finale, sono MOVIO33 e OMEKA34: entrambi hanno il pregio di essere progetti sostenuti da finanziamenti statali o fondi europei e possono perciò essere utilizzati anche da enti modesti. Questa libertà di utilizzo ha permesso una grande proliferazione online delle mostre virtuali poiché, proprio grazie a questi strumenti, anche piccoli archivi e biblioteche hanno la possibilità di valorizzare e rendere fruibili i loro materiali. Le mostre virtuali presenti sul sito del Museo Galileo35 di Firenze, che contiene sia vari percorsi basati sulla collezione fissa che approfondimenti sulle esposizioni temporanee, e quelle della BEIC36 sono solo due esempi di come vengono utilizzate le mostre virtuali applicate ad archivi o collezioni fisiche. Accanto a questi due progetti ve ne sono moltissimi altri e senza un aggregatore sarebbe complesso rintracciarli negli sterminati spazi della rete. Proprio per risolvere questo problema è nata Europeana37, un contenitore di mostre virtuali in grado di indicizzare i vari progetti esistenti suddivisi per area di interesse o tipologia dei materiali contenuti. Come si legge nel footer del loro sito, la sua missione è quella di trasformare il mondo con la cultura sviluppando una ricca eredità europea e facilitando l’uso da parte delle persone per lavoro, per studio o semplicemente per divertimento38. DARIAH ERIC: A network to enhance and support digitally enabled research and teaching across the Arts and Humanities, https://www.dariah.eu/about/dariah-in-nutshell/. 32 Pitti (1999). 33 MOVIO, https://www.movio.beniculturali.it/index.php?it/68/mostre-realizzate. 34 OMEKA, https://omeka.org. 35 Museo Galileo, Istituto e Museo di Storia della Scienza https://www.museogalileo.it/it/biblioteca-e-istituto-di-ricerca/progetti/mostre-virtuali.html. 36 BEIC, https://www.beic.it/it/articoli/mostre-virtuali. 37 Europeana Collections, https://www.europeana.eu/portal/it. 38 Ibidem. 31 236 L’esperienza museale o di un sito archeologico, così come una visita per una città d’arte, possono beneficiare anche delle tecnologie AR (Augmented Reality). Esistono già alcuni tool e app estremamente semplici da utilizzare sia per chi vuole creare l’ambiente della realtà aumentata e riempirlo di contenuti, sia per la persona che andrà ad usufruire del servizio. Metaio39 e Bepart40 sono due di questi strumenti: entrambi, previa acquisizione di una foto della porzione di spazio fisico, sono in grado di inserirvi elementi virtuali come approfondimenti sul bene culturale che si è preso in considerazione, file audio esplicativi, piccoli quiz, collegamenti a video e social networks e in generale tutto quello che può arricchire l’esperienza di fruizione. Per fare un rapido esempio, immaginiamo di essere all’ingresso di un museo in cui si tiene una mostra su Leonardo da Vinci implementata con la realtà aumentata; all’ingresso viene suggerito ai visitatori di scaricare un’app gratuita da utilizzare durante la visita: a quel punto sarà il visitatore stesso, una volta individuato il QR Code ad inquadrarlo con il suo device e a fruire delle risorse virtuali. Da qualche anno il Project Arm41 si occupa proprio di offrire questo servizio di digitalizzazione delle risorse e creazione del percorso in realtà aumentata ai musei: i professionisti di vari settori che collaborano con il progetto si fanno carico di tutto il processo, dall’acquisizione delle risorse al servizio di assistenza sul prodotto una volta finito ed installato. Il discorso portato avanti, nonostante le scoraggianti premesse iniziali, dimostra come il panorama accademico sia in realtà molto attivo sul fronte Digital Humanities. La disparità tra noi e l’estero è ancora tangibile, ma questo non significa che in un prossimo futuro non si possa migliorare. L’obiettivo, in fondo, è sempre quello della diffusione della conoscenza ed è una necessità primaria avvertita dalla comunità globale, tant’è che già da alcuni decenni esistono delle associazioni, internazionali e non, che lavorano in questo senso. Le prime due per rilevanza internazionale, numero di membri e portata delle iniziative sostenute (tra cui svariati progetti e conferenze annuali), sono l’EADH42 (European Associassion of Digital Humanities) e la più globale ADHO43 (Alliance of Digital Humanities Organization). La seconda ingloba la prima, essendoci, come è ovvio, una comunione di interessi ed intenti. L’EADH è quella che, in quanto europei, ci riguarda più da vicino: è essa ad occuparsi di riunire, coordinare ed in un certo senso organizzare tutte le associazioni nazionali di Digital Humanities. In Italia esiste l’AIUCD44 (Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale), i cui membri lavorano attivamente all’interno dell’accademia italiana, Software proprietario a pagamento, METAIO, https://bepart.net. BEPART, https://bepart.net. 41 PROJECT ARM, https://www.projectarm.com/it/. 42 EADH, http://eadh.org. 43 ADHO, http://adho.org. 44 AIUCD, http://www.aiucd.it. 39 40 237 da nord a sud, per promuovere le DH ed i frutti del loro decennale lavoro. Negli ultimi anni gli sforzi di questi pionieri iniziano a dare i propri frutti: in tutta la penisola si diffondono corsi di laurea triennale e magistrale, corsi di dottorato, master e summer school volte a creare una nuova generazione di esperti nel settore, in grado di sviluppare competenze umanistiche, basilari per qualsiasi ambito delle DH, ed informatiche; nuove leve che possano avere la lungimiranza di portare avanti e far crescere questo campo del sapere. Alessia Marini alessia_marini@outlook.it 238 Riferimenti bibliografici Berti (1868) Domenico Berti, Vita di Giordano Bruno da Nola, G. B. Paravia e Comp., FirenzeTorino-Milano, 1868 <https://books.google.it/books?id=9wMfYDTQLwC&ots=B1FbpiZz3i&dq=giordano%20bruno&lr&hl=it&pg=PP7#v =onepage&q=giordano%20bruno&f=false. > Bruno (1583) Giordano Bruno, De l’infinito, universo et mondi a l’illustrissimo Signor di Mauvissiero, stampato in Venezia, anno M.D.LXXXIIII, 1583. <https://www.liberliber.it/online/autori/autori-b/giordano-bruno/de-la-causaprincipio-et-uno/> Chaski (1997) Elisabeth Chaski Carole, Who Wrote It?: Steps Toward a Science of Authorship Identification, National Institute of Justice Journal, n. 233, 1997, pp. 15-24, <https://www.ncjrs.gov/App/publications/abstract.aspx?ID=184604.> Di Noia-De Virgilio-Di Sciascio-Donini (2013) Tommaso Di Noia - Roberto De Virgilio - Eugenio Di Sciascio - Francesco M. Donini, Semantic Web: Tra ontologie e Open Data, Milano, Apogeo, 2013. 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The reflection starts from the provocative comparison between the skepticism of the Church towards Giordano Bruno and that of the humanists about technological implementation. The paper therefore aims to try to loosen suspicions by illustrating where science and literature meet, without losing the ecdotic rigor. Parole-chiave: Giordano Bruno; Digital Humanities; informatica; Scienze umane; progetti. 242 MOHAMMED NAGUIB, La crisi dell'intellettuale e il dramma di conversazione ne La conversazione continuamente interrotta di Ennio Flaiano Flaiano e la crisi dell'intellettuale Le due guerre mondiali, l’era fascista, gli anni della ricostruzione e dello sviluppo. Sono questi gli eventi più significativi del ventesimo secolo in cui si è trovato ad operare l’intellettuale del dopoguerra. Gli inizi degli anni Sessanta sono un periodo di profondi cambiamenti sociali e di costume indotti dal boom: cancellare per sempre i valori, l'inopportunità espressiva degli autori, l'antipatia verso ogni segnaletica morale, tutto questo smascherava le debolezze di quel presente storico e le conseguenze di tanta vanagloriosa mediocrità; il tutto in un panorama grottesco e di cattivo gusto; un intero paese che cambia e non può fare nulla, se non aspettare di morire.1 Nel dopoguerra, le ansie di ricostruzione democratica prendono il sopravvento. Tutti gli intellettuali sono tentati dal cambiamento del loro status che è effetto e causa delle necessità di una industria culturale sempre più invadente: raccontano sè stessi perché non sono più in grado né di prospettare né tantomeno di preparare un cambiamento storico. La questione del ruolo dell’intellettuale nell’Italia del boom era molto sentita e certo non si può definire estranea a Flaiano satiro, ironico e disincantato. «La mia generazione che ha vissuto il fascismo e l’arco democratico è assai curiosa. L'idea della vita con cui siamo nati abbiamo dovuto cambiarla ogni momento. […] I rimedi noi non possiamo proporli, perché abbiamo contribuito a crearla questa situazione ridicola. Abbiamo creduto nella letteratura, nell'arte, nella vita, e oggi sappiamo che l’arte non esiste più, che i letterati festeggiano la morte della letteratura e i poeti quella della poesia. […]».2 Aragno, un vecchio collega del ‘Mondo’ di Pannunzio, di cui Flaiano era caporedattore, vent’anni dopo inviò all'amico questo amaro messaggio: «Ennio, non ti preoccupare, la letteratura è morta, la poesia è morta, l'arte è morta, il cinema è morto: ci manchi solo tu!».3 Ecco allora che l’intellettuale del dopoguerra, rifiutando di cedere alle lusinghe di una Tomei (2002), p. 51. Rosati (1972), pp. 1200-1201. 3 Ceccarini e Rasia (1994), p. 180. 1 2 243 letteratura persa nei meandri dell'irrazionalità, si trovava alle soglie del silenzio della scrittura, del suicidio intellettuale. Flaiano ha raccontato con furore e pazienza il male e il disagio culturale e esistenziale. Nel dopoguerra i testi di Flaiano parlano di figure al margine o protagoniste di avventure vissute nella periferia romana o in vagabonde peregrinazioni, viste e narrate con un atteggiamento oscillante tra l'affetto e l'ironia. Lungo tutta la sua carriera Flaiano ha trattato i temi dell’indecisione, della predeteminatezza del ruolo dell’intellettuale, e li ha trattati dal di dentro con attenzione e spesso con inquietante consapevolezza. Si potrebbe vedere in lui la personificazione della più ricorrente aporia dell’intellettuale del secondo dopoguerra. L'esempio più esaustivo di ciò è La conversazione continuamente interrotta, l’ultima opera teatrale di Flaiano, rappresentata pochi mesi prima di morire e considerata il suo testamento ideologico e artistico, che, in un confuso aggrovigliarsi di parole, sancisce proprio l’incapacità di rinvenire una logica comunicativa. In quest’opera, ci troviamo di fronte a creature autobiografiche che vogliono arrivare al fondo di una società sbagliata continuando a raccontarne i lati umoristici. Una contraddizione profondamente creativa: l’uomo che non sa decidere se rifiutarsi a tutto o provare ancora.4 Possiamo dire comunque che circola nelle opere degli autori del dopoguerra il sofferto distacco dalla realtà. «I miei sono stati quarantasei anni di ansiosa crescita, senza una vera famiglia e una vera società intorno a me. Sono cresciuto qua e là, in mano a parenti, estranei. In collegio. Ho attraversato due stupide guerre, e due dopoguerra, l’uno ridicolo da vincenti insoddisfatti, l’altro grottesco da perdenti soddisfatti. Avevo deciso di scrivere elzeviri, ma non sapevo per chi, né su chi; la gente era avida, non sapeva che farsene di un tale con la pretesa di interpretare la vita, volevano cose vere, notizie vere, simboli quotidiani su cui scaricare le responsabilità e le fatiche di fare. I totalitarismi irresponsabili non muoiono mica subito, creano vizi profondi e speranze tenaci. E molte nostalgie. Non vedevo che la soluzione di chiudersi, non leggere più i giornali, ma c’era il problema: l’esistenza quotidiana sempre più grave, e non potevo esimermi dall’affrontarla per la mia famiglia...».5 Flaiano era convinto di scrivere in un ambiente staccato dalla realtà. Da qui l’indipendenza, sia dalle regole dei generi e dalle correnti letterarie, sia dagli schieramenti ideologici intorno ai quali si è andata organizzando la maggior parte della produzione letteraria negli anni dal Quaranta al Settanta. Flaiano decise, dunque, di allontanarsi da un ambiente che sentiva lontano dalla realtà. Il distacco dal ‘Mondo’ giustifica il fatto che egli si autodefiniva scrittore che scriveva «per non essere incluso».6 Flaiano, interrogato sulle ragioni del suo distacco verso ogni Merli (1998), pp. 53-54. Ceccarini e Rasia (1994), p. 57. 6 Flaiano (1986), p. XIX. 4 5 244 coinvolgimento, replicò: «Tempo fa mi si rimproverava di non essermi identificato completamente con la mia vocazione. Ma la mia vocazione era proprio quella di non identificarmi...».7 Questo non toglie l’innegabile organicità di Flaiano al suo tempo. La lettura delle sue opere dimostra infatti che pochi scrittori riuscirono quanto Flaiano a essere così originalmente interpreti della complessità e della problematicità novecentesca. Ma Flaiano non maturò altre posizioni ideologiche al di fuori di un liberalismo illuministico, individualistico e interiore, tramite il quale testimoniò il suo disagio intellettuale e la sua avversione al fascismo come alla politica repubblicana attuata nel dopoguerra, manifestando la sua estraneità alle ragioni del socialismo e del comunismo. Egualmente si sentì lontano dal centrismo dei gruppi cattolici, responsabili ai suoi occhi di una nuova e caotica dominazione, altrettanto ingiusta e più ambigua di quella realizzata dal partito fascista. Flaiano fu, dunque, in perenne polemica con gli stili di destra e di sinistra, e, a mano a mano che nel dopoguerra si procedeva verso la ricostruzione, non aderì a nessuna parte politica, continuando a manifestare una completa idiosincrasia verso un Paese che gli appariva macchiato nel tempo sempre dalla stessa colpa, quella di non aver mai coltivato un autentico rispetto per la libertà.8 Si direbbe che Flaiano non è affatto morto e sta ancora prendendo appunti sul nostro presente. A comprova di ciò, soffermiamoci a ponderare alcune note del 1968 del Diario degli errori, nel quale Flaiano scrive: «… Sono offeso da come va il mondo – dalla volgarità delle masse. In Italia ‘Canzonissima’, ‘Sanremo’, campionato di calcio, la macchina nuova, nient’altro. Napoli, canzoni napulitane. Sicilia, mafia. Sardegna, brigantaggio. Milano, affari. Torino, macchine. Venezia, sta morendo. Firenze, deve essere salvata, etc.».9 Il vero tratto distintivo di Flaiano sta nell’essere uno scrittore di dubbi e di tormenti più che di certezze e convinzioni. Dalla prigione dove ha vissuto tredici anni, sotto l'antico regime, Flaiano aveva già scritto alla moglie: «All’origine delle mie disgrazie non c’è il mio modo di pensare, ma il modo di pensare degli altri».10 La lunga durata del suo scetticismo è dovuta principalmente al rifiuto di accettare l’assurdo della vita e al suo inequivocabile bisogno di andare al di là della politica e dei partiti. Questo può forse spiegarsi con il fatto che quasi tutte le opere teatrali flaianee, al di là della varietà dei soggetti e delle situazioni rappresentate, appaiono accomunate da intenti morali ed esprimono il risentimento dello scrittore di fronte a una società che sprofondava nell'assurdo e nella noia esistenziale, avvolgendosi in una mortificante banalità.11 Rosati (1972), p. 1201. Sergiacomo (1996), pp. 170-171. 9 Flaiano (2010)¹, pp. 1275-1276. 10 Flaiano (2010)², p. 172. 11 Sergiacomo (1996), p. 143. 7 8 245 In mezzo a questo clima, Ennio Flaiano, è bene ricordarlo, si sentiva inutile; inutile in una cultura, in una letteratura, in una critica che non si è abbastanza accorta di lui. Questo comportamento trascurante della critica nei confronti di Flaiano, nonostante il grande rigore professionale che richiedeva a se stesso, ha fatto sì che egli diventasse perennemente dubbioso ed incerto del valore letterario della sua arte. «Mi resta sempre il sospetto che non valga la pena occuparsi di me, sin da quando ho smesso di occuparmene io stesso».12 Indipendentemente da questo, Flaiano non si riteneva nato per fare lo scrittore. Perciò le sue preferenze sono andate alla satira. Non poteva farne a meno. In questo era perfettamente organico. «Scrivo poco perché non sempre ci riesco».13 Insieme al motivo della casualità e a quello del rifiuto c’era poi la tendenza a diminuire l’importanza di ciò che scriveva, l’insoddisfazione nei confronti di se stesso e del suo lavoro. Troviamo espresso chiaramente questo atteggiamento durante un’intervista di Carlo Mazzarella: «Non credere che scrivere mi piaccia, mi spaventa. È così difficile. Di tutto ciò che ho scritto ci saranno sì e no tre pagine che non mi disgustano […]».14 È evidente insomma che Flaiano era in preda sia al suo personale senso di stanchezza ad ogni nuova rappresentazione teatrale sia alla sua sfiducia nella possibilità di avere un teatro vivo. Egli definisce i propri lavori teatrali come «farse d’occasione»15, «scherzi»16 il cui unico scopo era «il puro, deplorevole divertimento».17 Eppure, l’amore per il teatro lo accompagnò per tutta la vita. Andando avanti negli anni si affievolisce la fede nella comunicazione, tanto che il sentimento esistenziale dell’inutilità trova il suo fulcro ne La conversazione continuamente interrotta [come si avrà occasione di rilevare]. A parte lo sconforto creativo derivante dalla sfiducia nel proprio ruolo di intellettuale, questo malessere, tuttavia, non è sempre riconducibile a dubbi o insicurezze proprie dell’autore. Alcune constatazioni nascono dal fallimento reale dei suoi sforzi creativi, come testimonia la fredda accoglienza riservata dalla critica alla versione teatrale di Un marziano a Roma nel 1960, nella quale aveva risposto grandi aspettative. Flaiano, pur essendo severo critico di se stesso, si offendeva molto vedendo un suo lavoro rifiutato. Questo lo spingeva a tutelare la sua dignità di scrittore. Basterebbe a provarlo la secca reazione di fronte alla scelta registica inopportuna, confermando il tradimento del testo da parte di Gassman: «Se penso agli equivoci di Gassman, alle scene, ai costumi… Io non Flaiano (1995), Lettera 230, 21 maggio 1964. Flaiano (1995), Lettera 381, 31 dicembre 1970. 14 Mazzarella (1990), p. 1197. 15 Flaiano (1990), p. 1164. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 12 13 246 darò mai più una commedia ad un regista per vedermela capovolta, imbrattata di fesserie, stonata».18 Inevitabile appare in Flaiano il ricorso al sarcasmo e all’autoironia, agli aspri sarcasmi e al grottesco che fungono da balsamo per le ferite, riportate nel corso di una carriera non sempre prodiga di soddisfazioni e legittimi riconoscimenti, specialmente in ambito teatrale e cinematografico. Questa renitenza a scrivere ha un fondo di verità ed è confermata nell’epistolario dai reiterati rifiuti di Flaiano verso chi voleva coinvolgerlo in qualche lavoro: a Giambattista Vicari che gli propone di scrivere sulla nuova rivista ‘Il Caffè’, a Longanesi che gli chiede altri libri da pubblicare, a Neri Pozza che vuole una raccolta dei pezzi editi sul ‘Mondo’, a Livio Garzanti e ad Alberto Mondadori che vogliono inserire Flaiano nei loro cataloghi, al fisico Emilio Segré che lo invita all’Università di Berkeley per tenere lezioni su un soggetto a sua scelta.19 Naturalmente, se Flaiano fosse stato coerente con queste considerazioni, non avrebbe continuato a scrivere, invece scrisse, e molto, testi compiuti e frammentari. Il disagio interiore dell’autore afferma la casualità della sua professione e delle sue opere. D’altronde, però, Flaiano ha rilasciato delle dichiarazioni, più rare, testimonianti la fiducia nella parola e nel senso dello scrivere. In linea con questo si pone la rivalutazione, in numerosi scritti giornalistici, della ragione, come unico strumento che ha la capacità di ribellarsi all’assalto della realtà, imponendo un filtro fra il bene ed il male.20 Non fa, dunque, meraviglia che i discordi e contraddittori umori dell’intellettuale Flaiano riflettino la figura di uno ‘straniero’.21 Ma questa era la sua condizione esistenziale, quella di essere un uomo del suo tempo e, nello stesso tempo, distaccato dal mondo, estraneo, disincantato e di sconcertante attualità nella denuncia.22 Nel complesso possiamo dire che Flaiano appartiene alla vasta area della letteratura della crisi che diviene letteratura in crisi.23 Probabilmente, il continuo alludere di Flaiano alla crisi della scrittura letteraria, non solo della sua, ma di tutta la letteratura, proveniva dal fatto che Flaiano scriveva pensando a un destinatario delle sue opere e non riusciva a individuarlo, sentendo l’assenza di un pubblico ideale. Fu questa sensazione che lo portò frequentemente a non riconoscersi come un vero scrittore e ad assegnare allo scrittore il solo ruolo di Flaiano (1995), Lettera 210, 26 dicembre 1961. Sergiacomo (1996), p. 183. 20 Gonnelli (1998), p. 112. 21 Iengo (1998), p. 118. 22 Antonucci (1998), p. 121. 23 Pampaloni (1989), p. 13. 18 19 247 sfogo, protesta solitaria, via di salvezza individuale affidata alla pagina, dove la ragione poteva ancora avere la meglio sulla follia e sul disordine della realtà.24 Siccome l’opera d’arte riflette sempre il suo tempo, per quel tanto che in esso c’è di slancio positivo e di vero, così Flaiano intende anche porre l’accento sulla mancanza d’identità, ma soprattutto di coraggio e responsabilità, della società italiana. Tra il 1944 e il 1945, la speranza che il teatro divenga «il vero parlamento di un popolo»25 si va perciò affievolendo sempre più. E l’indifferenza della platea che, nella delicatissima fase dell’immediato dopoguerra, si rifugia nel mondo evasionista della rivista, diventa quindi emblema di una società qualunquista, sostanzialmente incapace di fare i conti con la sua tragica storia recente. 26 Non a caso, nel 1945, Flaiano auspica invece polemicamente la necessità di un ‘pubblico stabile’, che generi un teatro «rispondente ai suoi interessi più sentiti e urgenti».27 E ancora, su ‘La città libera’, in un articolo dal titolo ‘La digestione dei fischiatori’, Flaiano esprime tutto il suo rammarico per un pubblico che non riesce a domandare al teatro «una soluzione per i suoi problemi».28 Eccolo a collegare fra loro le crisi dell’uomo, della società e del teatro, in un tutt’uno logico. La sfiducia nella possibilità di avere destinatari si trasformò così in sfiducia nell’atto creativo stesso. È per questi motivi, è radicata la convinzione che la matrice della scrittura flaianea è l’auto-comunicazione, che si risolve nell’autobiografismo diretto dei diari o dei versi. Ciononostante, Flaiano continua a credere nella letteratura con la elle maiuscola. Flaiano mentre progressivamente perdeva fiducia nelle capacità della letteratura di rappresentare il mondo, continuò però a scrivere storie che erano allegorie della condizione umana.29 Uno degli aforismi contenuti in ‘Frasario essenziale’ recita testualmente: «Scrivere è diventato inutile, a meno che non si scriva indecifrabilmente».30 Lo scrittore ha il compito di complicare la realtà, non di renderla più semplice e falsarla tacendone gli aspetti paradossali. La letteratura deve indagarne i punti oscuri ed uscirne stringendo saldamente in pugno ciò che ha trovato in quelle zone d’ombra e che può mostrarci sotto un’altra ottica i dati empirici più scontati e lapalissiani, altrimenti la letteratura verrebbe meno al suo compito di rappresentazione oggettiva, fornendo al lettore solo armi infide e compromissorie con la realtà. Lo scrittore vuole ammirare la realtà senza sconvolgerla, deve immergersi nella realtà e affogarci dentro, ma sempre assumendo un’ottica di pura contemplazione verso ciò che è tanto più grande di Sergiacomo (1996), p. 179. Flaiano (1944), pp. 133-135. 26 Rago (1998), pp. 90-91. 27 Flaiano (1996), pp. 136-138. 28 Flaiano (1996), pp. 153-154. 29 Sergiacomo (1996), pp. 179-180. 30 Flaiano (1986), p. 3. 24 25 248 noi. Flaiano porta alle estreme conseguenze l’istanza della razionalizzazione, che nel suo sforzo va dietro al più piccolo cavillo e rischia di impazzire, perché la ragione alla fine divora sempre sè stessa in un vortice di paradossi. L’intelletto positivo e razionale non ha la possibilità di scampo nella civiltà attuale e oseremmo dire in ogni civiltà. Di qui il pessimismo apparente dello scrittore e tipico di tanta letteratura illuminista e positivista che vede nel progresso l’esatta negazione di quei valori di ordine e razionalità tanto ambiti.31 Flaiano, da illuminista matura la convinzione dell’inutilità di rappresentare sulla scena la vita, che già costa tanta pena vivere nella realtà, e constata l’inefficacia delle nuove etiche. In realtà Flaiano unisce alla sfiducia nella funzione odierna della letteratura una fede nell’atto comunicativo in sè stesso. «Io credo soltanto nella parola […] la parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere».32 Solo questa fiducia nella parola giustifica la contraddizione che è alla base dell’opera di Flaiano che, pur essendo in perenne polemica con il suo mestiere, usa tutti gli strumenti che permettono la comunicazione attraverso la parola. Emerge in modo inconfutabile che Flaiano non è scrittore ‘sulla’ crisi contemporanea, né l’interprete critico della crisi, né un testimone documentario: ma è la personificazione della crisi, o, a dirla altrimenti, la personificazione dell’irriconoscibile uomo contemporaneo in cui è coinvolta l’irriconoscibilità di ciascuno.33 Per arrivare a tanto, Flaiano dovrebbe ‘transpersonalizzarsi’, diventare ‘altro’ tra gli altri, perdersi come autore e arrovellarsi a cercare [per riconoscere] l’autore di se stesso insieme agli spettatori, come fecero i leggendari sei personaggi pirandelliani. Ecco, insomma, Flaiano ‘personaggio in cerca d’autore’.34 A questo punto sarebbe lecito chiederci: se dovessimo leggere Flaiano nel suo contesto, cosa diremmo? Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe sapere che l’antifascismo di Flaiano appare culturalmente forte.35 Egli è troppo consapevole, da un lato, dell’invecchiamento della tradizione, ma dall’altro, della rapidità e fugacità di ogni movimento avanguardista.36 Io direi che se dovessi leggere Flaiano nel suo contesto lo leggerei come monaco eremita, come grande moralista37 che legge la crisi del mondo con i suoi valori morali contro la sbarcatura di tutte le ideologie di massa,38 contro il rischio di inglobamento, ma anche contro i riti massificati del ‘villaggio globale’ e la sua feconda superficialità Tomei (2002), pp. 12-13. Flaiano (1986), p. XVIII. 33 Pullini (1993), p. 10. 34 Ciarletta (1992), pp. 264-265. 35 Bandinelli (1993), p. 74. 36 Pullini (1993), p. 10. 37 Bandinelli (1993), pp. 74-75. 38 Pullini (1993), p. 75. 31 32 249 emotiva.39 «[…] Tutto viene preso sul serio in questo maledetto paese, eccetto le cose serie. E tutto finisce per addolorarmi, come se ci fossi dentro fino al collo e non potessi più uscirne […]».40 Questa citazione è di per sé una buona ragione per pensare che Flaiano sia uno scrittore molto più realista di quanto supponessero i neorealisti. Egli fa sua la dialettica di scetticismo e moralismo con cui si sostanzia la coscienza liberale. Il primo gli offre lo strumento per indagare lucidamente la realtà; il secondo gli permette di nutrire, malgrado tutto, la fede nella comunicazione intellettuale. La sua lucidità tende ad evolvere in scetticismo, dopo la delusione legata alla condizione dell’Italia postbellica. La fine del fascismo rappresenta per lui e per altri intellettuali, la possibilità di costruire un mondo diverso. Ma ben presto questo mondo viene costruendosi formalmente più libero e democratico, ma sostanzialmente non troppo differente dal precedente. Nel pensiero di Flaiano diviene sempre più netta la dicotomia fra arte e realtà: quest’ultima appare come dispensatrice di delusione, quella sembra essere l’ultimo baluardo della verità.41 Infatti, Flaiano si è messo in gioco autobiograficamente raccontando una crisi che è la sua crisi: il tema dell’intellettuale che non sa più esprimere il suo pensiero e che in fondo teme di non avere più nulla da dire, il disagio dell’uomo di cultura che rifiuta in blocco la cultura di massa e ciò che essa comporta in termini di commercio e anche di distorsione. Sono dei temi intorno al quale Flaiano si è esercitato lungo tutta la sua carriera. Egli ha trattato nelle sue opere la crisi intellettuale del secondo Novecento, pieno di dubbi su di sé e sul suo lavoro, bloccato nella scelta paralizzante tra cose già dette e cose da non dire, testimone inerte ma non innocente dei giochi delle amministrazioni politiche, [uno degli intenti di Flaiano drammaturgo era proprio, nelle sue parole, «vederela società che diventa più conservatrice e descriverla»42]. La conversazione continuamente interrotta analizza la condizione intellettuale di Flaiano satirico, il tema appunto dell’intellettuale in crisi, una crisi più globale; l’uomo contemporaneo di cui la letteratura non può più raccontare l’epopea, l’uomo che racconta autobiograficamente il suo male.43 Il dramma di conversazione ne La conversazione continuamente interrotta A dodici anni dal Marziano, Flaiano tornò al teatro con il suo ultimo lavoro La conversazione continuamente interrotta, pubblicato per la prima volta nel 1971 e rappresentato nel 1972 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, solo cinque mesi Costa (1993), p. 67. Ceccarini e Rasia (1994), p. 56. 41 Vecchio (1998), pp. 85-86. 42 Merli (1998), p. 52. 43 Merli (1998), pp. 52-54. 39 40 250 prima della sua scomparsa, con la regia di Vittorio Caprioli. Flaiano lavorò a La conversazione continuamente interrotta dal 1968 al 1971. Questa pièce si considera il testamento estetico, ideologico, morale, spirituale e artistico di Flaiano ed è anche da considerare il nucleo centrale di tutta la sua opera. È il capolavoro di Flaiano commediografo, «Una grande possibilità di teatralizzare la quotidianità. Una teatralità che ha solo come spunto la contemporaneità».44 In questa pièce, considerata il testo-sintesi di tutti i messaggi flaianei, lo scrittore è riuscito a scavare a fondo nella crisi di quell’epoca, mettendo in evidenza non solo il fallimento di una società culturale, ma anche la volgarità e il vuoto desolato di certa cultura contemporanea. A questo punto, è importante precisare che La conversazione continuamente interrotta nasce da una collocazione di brani rintracciabili in tutta l’opera di Flaiano. Ad esempio, il Quadro IV bis trova la sua origine nell’articolo Ritrattini pubblicato su ‘Il Mondo’ il 21 maggio 1957, cioè addirittura quindici anni prima, poi diventato con alcuni cambiamenti nel 1959 la prima parte del racconto L’ispirazione del mattino. Progetto di una farsa, pubblicato nel dicembre 1959 su ‘Illustrazione Igea’. In questo articolo Flaiano descrive tre ritratti, il primo dei quali è quello di un romanziere che, accingendosi a scrivere un testo, confessava di aver perso di vista i suoi personaggi. Il resto della commedia presenta dei brani che ritroviamo in altre opere, come ad esempio in Diario degli errori. Ma secondo la puntuale nota di Anna Longoni, nel 1960, «nel periodo in cui Luigi Pasciutti stava mettendo in scena Il caso Papaleo [secondo la testimonianza da lui stesso resa nelle pagine di ‘Carte segrete’ dove il racconto è stato pubblicato nel 1972], Flaiano gli fece leggere il testo, intenzionato a trarne una farsa. Il progetto allora non si realizzò, ma il racconto, mai del tutto dimenticato, viene ripreso proprio nel Quadro IV bis dell’ultima pièce teatrale».45 Insomma, tutto concorre a confermare che La conversazione continuamente interrotta ebbe una lunga elaborazione, ma che Flaiano pensò a essa come a un testo teatrale fin dal 1960, l’anno de Il caso Papaleo. La pièce, come s'è accennato, è una sintesi di tutti i temi cari a Flaiano: la noia esistenziale, la solitudine, l’impossibilità di uscirne, la consapevolezza di una banalità che avvolge e mortifica tutti. La conversazione continuamente interrotta è la storia di una storia che non riesce a nascere, è un gruppo di persone che si riunisce per cercare una storia, un soggetto, un argomento per un film o per il teatro, e parlano, si propongono idee, mentre la commedia va avanti e la storia non prende forma [è evidente il riferimento autobiografico al film di Fellini Otto e mezzo, che parte dallo stesso spunto dell’impotenza inventiva e nasce come film dell’impossibilità di fare un film]. Il tema centrale attorno al quale si imperniano 44 45 Geron (1995), p. 29. Flaiano (1988), pp. 1452-1453. 251 le storie narrate nella commedia è quello della crisi dell’artista odierno e l’ansia dell’incompiuto. Uno scrittore, assieme a un poeta e un Regista, cerca una storia per un film, perdendosi in un mare di chiacchiere e interrompendosi continuamente l’uno con l’altro. I personaggi parlano, progettano, chiacchierano, ipotizzano, ma non riescono a giungere a una conclusione da argomentare. Ricominciano e non riescono mai a concludere. Le decine di storie inventate iniziano tutte con «Un Tale incontra una Tale»46 e rimangono ineluttabilmente senza finale, affondando nella noia. Come è facile arguire, questi tre personaggi risentono della carica pirandelliana dei Sei personaggi in cerca d’autore. È un’opera senza soggetto, come la vita che scorre addosso e intorno alla gente, ingarbugliata in storie singole inenarrabili. In questa assenza apparente di soggetto, dialogano dei personaggi a noi familiari, banali nella loro assurdità prendono l’avvio dalla loro stessa incoscienza che ne detta le non regole. Ciononostante, sono dei personaggi quasi simbolici: un Poeta, uno Scrittore, un Regista, la Moglie dello Scrittore, l’Amica del Regista e altri minori che interferiscono e interrompono sempre la conversazione quando l’argomento comincia a prendere forma. Dieci sono i personaggi della ‘Conversazione’, ma in realtà tre soltanto sono i protagonisti: un Poeta di 45 anni, uno Scrittore di 40, un Regista di 35. Parti minime sono riservate al Dottore e al Giornalista, quest’ultimo l’unico ad avere un nome, ovvero un soprannome [Tavolino] oltre alla Cameriera, incinta e un po’ svanita, che porta il nome di Crimilde. Un nome è attribuito anche a uno dei due imbianchini che il suo compagno chiama ‘Cesare!’. Altrettanto poco rilievo hanno la moglie dello Scrittore e l’amica del regista. I tre personaggi protagonisti fungono, in un clima di stanchezza e di noia, da strumenti intercambiabili della conversazione. Il più autentico e il più saggio di loro è lo scrittore, che riflette in dose più massiccia la personalità e la sincerità dell’autore stesso. Il personaggio dello scrittore è un fedele stereotipo della categoria degli scrittori, sempre ossessionati dalla ricerca di spunti per una storia da raccontare, pressati dall'assillo di liberarsi dal conformismo di massa. Nel secondo quadro, lo Scrittore parla con uno psicanalista nel corso di un dialogo molto divertente che offre il pretesto a una parodia della psicanalisi [è il medico che vuole a tutti i costi raccontare le sue storie al suo paziente, e il cliente si rifiuta di ascoltarlo]. L’elemento elegiaco e l’ombra metafisica sembrano la corretta chiave di lettura dei sette quadri di questa pièce.47 Qui l’incapacità di concludere in qualche modo l’azione è vista come unica forma autentica di rapporto con la realtà considerata come una situazione sfuggente: non si riesce a concludere l’azione perché non si possono più accettare soluzioni schematiche. Non esiste quindi una separazione 46 47 Flaiano (1990), p. 1106. Geron (1995), p. 33. 252 tra reale e immaginario, tra vita e letteratura, tra ciò che si vive e ciò che si finge a teatro di vivere. A unire realtà e rappresentazione sono la banalità, la noia e lo squallore in cui si arenano sia gli incipit narrativi che i tre inventano per far decollare le loro trame, sia i rapporti umani veri e propri che essi intessono con altri personaggi: l’incomprensione tra lo Scrittore in crisi e la moglie insoddisfatta e sognatrice, il barcamenarsi del Regista tra la moglie ossessiva e l’amica incinta che si rifiuta di abortire, la girandola mondano-sentimentale dello squattrinato Poeta, che non riesce a scrivere più nemmeno in agosto, quanto rimane in città in forzata solitudine, e alla fine sposerà la Cameriera dello Scrittore, una semplice creatura, che aspetta un bambino, di cui si ignora il padre. Come ha ben visto Luciano Salce, che fu il regista della seconda edizione dell’opera, «solidissima [...]: un pezzo di teatro compatto, unitario, […] granitico: la trama è sotterranea, […] quasi invisibile ma presente sempre e attiva come certe apparentemente inconcludenti pagine di Cechov».48 Quel Cechov che, rifacendosi a una felice intuizione di Cesare Garboli, si ritrova in certe ‘atmosfere rarefatte e strazianti’ de La conversazione. Ma Salce aggiungeva che il mondo de La conversazione «è un inferno contemporaneo dove un poeta, uno scrittore e un regista non riescono a partorire che ottusi brandelli di banalità; e alla fine si ritrovano vittime e prigionieri della loro lucida disperazione. Proprio come in Cechov».49 Non c'è affatto da stupirsi che La conversazione è così ricca di echi e di suggestioni cechoviane: Cechov è stato uno degli autori preferiti di Flaiano e soprattutto uno di quelli che egli sentiva più moderni e più congeniali. Lo dimostra, fra l'altro, ciò che egli scrisse in occasione dell'edizione de Le tre sorelle di Giorgio De Lullo nell'interpretazione della Compagnia dei Giovani: «Cechov non è morto, è l'unico autore del XIX secolo che non si allontana nel tempo, che non diventa ‘classico’, ma che anzi continua a parlare di noi, perché era arrivato alle radici del dramma, l'incapacità dell'uomo di vivere nella sua condizione, gli sforzi che farà per uscirne, il crollo che si trascina addosso appena esige di vederci chiaro [...]. Cechov insomma aveva capito che l'uomo vive una brutta copia della sua vita e che la sua condanna è nel doversi continuamente giudicare. Vive nel suo inferno personale ed è il più esigente torturatore di sè stesso, per il semplice fatto che si conosce abbastanza».50 Da aggiungere però che in quest’opera c’è molta satira al costume: il sentimento esistenziale dell’inutilità, che trova il suo fulcro ne La conversazione continuamente interrotta, nega a Flaiano la fiducia creativa nell’impegno letterario e lo spinge alla distruzione dei canoni letterari tradizionali, al nonsenso che si lega a una filosofia scettica sulla vita, al rifiuto dei rituali di massa. «Flaiano trasforma quindi la propria difficoltà di costruire un'opera di ampio respiro e di Salce (1989), p. 101. Ibidem. 50 Flaiano (1983), pp. 256-257. 48 49 253 captare un rapporto con la realtà esterna, in una rinuncia dolorosa sì ma sincera, non programmatica ma necessaria. In luogo di bandire nuove poetiche fingendo di credere in nuove prospettive, e non riuscendo più a far proprie le poetiche antiche, preferisce vivere la propria crisi di uomo anche come crisi delle soluzioni espressive».51 Perciò la conversazione telefonica continuamente interrotta è una sorta di disperante messaggio esistenziale con squarci di satira feroce all’ambiente dell’intellettualità romana per cui il lavoro è chiacchiera continua, impegno rinviato di continuo, quel senso di chiacchiera senza altro esito se non l’implacabile autoflagellazione in fondo consolatoria. «[…] fatta di giorni, una media di ventimila giorni, e di cui il succo si coglie soltanto alla fine, e non sempre! Noi chiediamo agli altri, quello che gli altri chiedono esattamente a noi, una storia. … E copiarsi, che mal di testa».52 La lunga parabola della noia e il senso di frustrazione si fanno progressivamente strada tra le vacuità verbali dei sette quadri de La conversazione continuamente interrotta. Già nel primo quadro ci sono le idee fondamentali: il rimpianto del teatro di un tempo [lo esprime il poeta: «A me piaceva il teatro, quello di una volta, un po' miserabile ma pieno d'orgoglio [...] con le scene di carta, le quinte, le porte che si gonfiavano come vele, il precipitare del sipario. E le luci della ribalta che schiacciavano la scena, niente luci psicologiche...».53 E ancora: «Il teatro allora viaggiava come un popolo nomade, carico di proposte esemplari, di vizi e virtù, di esistenze eroiche, di sogni folli e scadenti […]. Quella era vita!»54] e insieme la consapevolezza che, vecchio o nuovo, il teatro [e quindi l'arte in generale] non serve a niente e non ha mai cambiato il mondo [lo dice lo scrittore: «Sì, ma a che serve il teatro? Mio nonno entrò in un teatro cinque volte in tutta la sua vita, mio padre diciamo cinquanta, io ogni settimana, da anni. Eppure, abbiamo commesso tutti e tre gli stessi errori. Non sto a dirvi quali, ma gli stessi. E se penso a loro, li vedo più responsabili, più densi di me. Più uomini.»55]. Il problema dell'artista non è l'inaridimento della vena inventiva, ma l'inutilità di fare arte, letteratura, teatro, perché non hanno cambiato mai niente nella vita umana. Se tutto è già stato scritto, se di tutto si è parlato, a che cosa serve continuare a scrivere? «Scrivere è difficile, spesso inutile»56, «l’intellettuale deve proporsi la verità delle cose, dei fenomeni, delle leggi che agitano la massa e sè stesso»57, «Oggi si può continuare a scrivere solo a patto di essere Pullini (1996), p. 193. Flaiano (1990), p. 1160. 53 Flaiano (1990), p. 1101. 54 Flaiano (1990), p. 1102. 55 Ibidem. 56 Flaiano (1988), p. 64. 57 Flaiano (1988), p. 63. 51 52 254 illeggibile»58 sono solo chiacchiere a vuoto. Lo Scrittore sa bene che la verità sfugge ad ogni controllo, inutile trasferirla, inutile raccontare la propria crisi davanti al foglio bianco allo psicanalista, un medico ansioso a sua volta di raccontare le sue esperienze al paziente. All'arte non resta quindi che accostarsi alla vita per darne, non la cronaca, ma il respiro, e riceverne la struttura aperta, come dice il regista: «Non fidiamoci delle storie, non ci credo. La vita è fatta di scene non necessariamente legate tra di loro. Se l'idea è buona, impone da sé la costruzione. I personaggi allora parlano da soli. [...]».59 E il poeta aggiunge: «Non mi preoccuperei per ora di come finisce. I finali non esistono, li fa il tempo».60 Si osservi, inoltre, che nel corso delle battute, l’autobiografismo è più che un sospetto. La critica ha identificato lo stesso Flaiano nel personaggio dello Scrittore: «Vorrei arrivare al fondo del problema, descrivere una società merdosa che si crede libera, arrivare a una conclusione vuota, capisci? tragica, senza abbandonare il tono della pochade, l'unico che conviene a certa gente».61 «Oggi si può continuare a scrivere solo a patto di essere illeggibile».62 «Insomma [conclude lo scrittore difficile e contro corrente] scrivere è difficile, e spesso inutile».63 Nel personaggio dello Scrittore in crisi, si può intravedere la figura di Flaiano tramite una serie di tratti autobiografici quali l'aver visto la morte in faccia un anno prima, l’odio per il padre, la sfiducia nelle sue capacità di scrivere, e infine la sensazione che sempre ‘tutto’ sia già stato detto. Nel dialogo con lo psicanalista, lo scrittore fa il punto sul proprio dramma di impotenza creativa [e dice tante cose che Flaiano avrebbe voluto dire di sé]: «Ma non so scrivere. Qui è il punto. Non ho idee. Ho appena un po' d'immaginazione, una certa tendenza per l'ornato, ma non mi vengono mai grandi idee. Non ho la fantasia del creatore, del poeta».64 Flaiano ad un certo punto dice: «Se mi metto a pensare ad una storia non riesco a vedere nemmeno un personaggio, vedo sempre me stesso e siccome io mi annoio anche questo personaggio si annoia e non dice una parola, non si muove, non fa un gesto, e poi ho sempre la sensazione che tutto sia stato già detto».65 Proprio per questo, La conversazione continuamente interrotta si può definire un autore in cerca dei suoi personaggi. In questa commedia, prevale una poetica teatrale, che tende a sbarazzarsi dell’autore che da un lato cerca di mimetizzarsi e di mascherarsi, dall'altro parla di sè stesso. Ma quale sè stesso? Ci mette di fronte un sè stesso alienato, sfiduciato Ibidem. Flaiano (1990), p. 1102. 60 Flaiano (1990), p. 1107. 61 Ibidem. 62 Flaiano (1988), p. 63. 63 Flaiano (1988), p. 64. 64 Flaiano (1990), p. 1117. 65 Ibidem. 58 59 255 e impotente nella sua solitudine culturale, però il perno è sempre il personaggio Ennio Flaiano, un personaggio colto nel momento stesso in cui si scompone e si frantuma. Flaiano rappresenta, sempre tramite una risata scettica, i falsi miti del costume contemporaneo, il vuoto della condizione intellettuale. L'inespressività dell'arte proviene, quindi, da una crisi dei valori contemporanei, dalla sensazione che tutto ormai è stato già detto e si è quindi interrotta qualsiasi strada che porti novità [lo si vede palesemente nel dialogo tra lo Scrittore e il suo psicanalista o nell'intervista che fa allo Scrittore il giornalista Tavolino]. Ciò per un verso. Per l'altro Flaiano era sempre stato «il più sincero e direi il più sofferto, di questi intellettuali [...], il meno astuto e calcolatore, quello che ha portato con sé la propria biografia e che ha scelto in ogni aggettivo, dolorosamente, un simbolo della propria condizione della quale era il primo a dubitare»66, e mai come ne La conversazione l'ha dimostrato. Durante l'intervista fatta dal giornalista Tavolino allo Scrittore, si vede che il senso di noia che affligge l’anima dello Scrittore si trasmette ai personaggi e alle cose, il che definisce senza scampo la condizione dell'intellettuale, esattamente come l'uomo d'oggi che non riesce a proteggere la propria vita dall’invadenza altrui che ne sconvolge la tranquillità: «Ecco il mondo moderno e dimmi tu se l’intellettuale può vivere tra gente simile, che sembra avere il solo scopo di infastidirsi reciprocamente».67 Ecco allora la noia trasferirsi dalla vita al processo narrativo. Tutto si brucia presto nel ritmo della civiltà odierna. Questo lo afferma il Poeta, dal quale trapela Flaiano, che nega che la poesia sia una soluzione della realtà: è solo un rimedio, quindi una consolazione: «La poesia è una vita di scorta, come le ruote».68 In polemica con il neorealismo, il Poeta sostiene: «Avete voluto la realtà? Tenetevela! Vi si disfa nelle mani».69 Il poeta dunque qui parla per Flaiano: «la realtà che tu [il regista] vuoi sciogliere a me non interessa. Quella che voglio sciogliere io, riguarda me stesso. Una realtà individuale. Non ce ne sono altre. Per esempio, riuscire a capire se esisto, come, rispetto a che cosa e a chi, e perché sono qui, in questo momento. Con voi!».70 Flaiano trasforma quindi la propria difficoltà di costruire un'opera d’arte e di captare un rapporto con la realtà esterna, in una rinuncia dolorosa sì ma sincera. In questa commedia affascinante, che segue le leggi del teatro di conversazione, il testo viene svuotato di ogni contenuto profondo, si sorregge esclusivamente sulla forza salvifica della parola, in una apertura, dispersione e frammentazione del linguaggio, come ad esempio nel teatro di Jonesco [il quale attua una sistematica e totale distruzione del testo scenico]. Per Flaiano la parola è tutto ciò Antonucci (1992), p. 285. Flaiano (1990), p. 1136. 68 Flaiano (1990), p. 1153. 69 Flaiano (1990), p. 1158. 70 Flaiano (1990), p. 1153. 66 67 256 che rimane di un colossale naufragio, la sola cosa ancora a galla, tutto il resto non conta, come disse lo stesso Flaiano, in un’intervista ad Aldo Rosselli, spiegando il senso del titolo della commedia: «Io credo soltanto nella parola. Tutto il resto il gesto, il silenzio - fa parte di atteggiamenti di avanguardia [...] voler rifiutare la parola come mezzo di comunicazione è un errore, perché è il mezzo più semplice. Chiedete e vi sarà dato, parlate e sarete ascoltati. La parola è il messaggio stesso».71 Quello di Flaiano è un teatro in grado di darci tutte le sfumature e variazioni possibili del ‘quotidiano’. Il tratto che accomuna le nove scene di questo lavoro teatrale di Flaiano ai testi precedenti è la tendenza alla conversazione, al suo assoluto prevalere sull’azione. Poiché per una conversazione è difficile immaginare uno sviluppo preciso e una conclusione, l’autore definì la commedia «un’operina aperta ai due lati e al centro che può ampliarsi senza gravi danni, secondo appunto le leggi del teatro di conversazione, ed è probabile che continui».72 Tutto questo conferma la predilezione flaianea per il teatro di conversazione. Il dramma di conversazione, infatti, disegna la crisi di una società che non ha altro modo di rappresentarsi, e quindi può solo descrivere la situazione di stallo in cui è incastrata, raccontando la sua attesa, esattamente come i personaggi beckettiani che possono solo parlare aspettando qualcosa che potrebbe non arrivare mai, un po’ come la realizzazione dell’opera artistica, che è il problema di fondo dei tre protagonisti de La conversazione continuamente interrotta che parlano, analizzano, si confessano, in attesa che la creazione artistica si materializzi da sola sotto i loro occhi distratti. Quella chiacchierata apparentemente inconcludente rappresenta una sorta di forma mentale che lo scrittore Flaiano adotta per stabilire una comunicazione con gli altri. Certo è che essa possiede una teatralità non tradizionale, e più che alla vicenda si affida alla ‘chiacchiera’, sostituendo allo sviluppo la variante, intorno a un tema. Nel primo volume delle Opere complete si può leggere una pagina datata 1956 in cui Ennio si chiede: «Perché il teatro ‘in lingua’ non fa né ridere né piangere? Forse perché […] la realtà, così com’è, non può essere portata in palcoscenico se non in dialetto. […] A teatro ci andiamo convinti di rappresentare […] una società che agisce ‘in italiano’, mentre in realtà pensa in dialetto».73 Ne La conversazione l’innesto dialettale si limita alla reiterata botta e risposta tra un ‘Che voj?’ e qualche battutaccia romanesca dell’imbianchino burlone. Qui il ricorso al dialetto trova forse motivazione dal desiderio dell'autore di ricordare che l'azione dei sette quadri si svolge a Roma. Come s’è già detto, ne La conversazione continuamente interrotta, i tre personaggi, lo scrittore, il poeta e il regista intessono per sette quadri conversazioni, o semi Sergiacomo (1996), p. 167. Flaiano (1990), p. 1164. 73 Geron (1995), p. 31. 71 72 257 monologhi, che non terminano mai e che non sfociano in qualcosa di chiaro e logico perché vengono continuamente interrotte. Sono dialoghi senza ragioni, conversazioni che continuano ad interrompersi. Ognuno segue il filo dei propri pensieri e solo casualmente fa partecipe l’altro, con mozziconi di frasi e strascichi di idee che non troveranno una loro immagine compiuta. Nell’avventura conversazionaria dei protagonisti, prendono il sopravvento la noia e il fastidio di tutto. E da questo una tristezza, uno struggimento sempre composto e quasi sempre sorridente. Nel suo intervento su La conversazione continuamente interrotta, Gastone Geron ricostruisce la poetica di Flaiano drammaturgo, arrivando alla conclusione che ‘l’idea martellante’ della commedia è quella del work in progress, perché a Flaiano preme non la costruzione della storia da rappresentare, ma la possibilità di moltiplicare all'infinito, in un gioco di specchi deformanti, quella che lui ebbe a chiamare «l’esclusione dalla storia».74 Come dicevamo più su, La conversazione continuamente interrotta ha una struttura aperta, fondata solo sulle potenzialità espressive della ‘chiacchiera’. La struttura è orizzontale e potrebbe snodarsi all’infinito, come indica la battuta finale: «No, basta per oggi»75: domani, quindi, potrebbe ricominciare tutto daccapo. L'opera nasce come poetica di una impossibilità espressiva: più semplicemente, una lunga e svariata serie di conversazioni a ruota libera sul tema centrale che, anziché svolgersi, si sposta di continuo. Quest’opera flaianea, lo si è già ricordato, è aperta da ogni lato, sicché non le occorre davvero una conclusione, anzi sta bene così, aperta, tale che possa ricominciare quando si vuole, o continuare all'infinito, malinconicamente. A ciò si aggiunga che, in questa pièce, Flaiano riesce a conciliare la battuta folgorante e il ritratto articolato di costume, il gusto per la boutade e la satira per porsi come immagine di una condizione umana eterna.76 Quando l’ironia tace o si affievolisce, la commedia improvvisamente cede, perché non ha altra vera struttura che l’ironia. Le continue inversioni di rotta del vascello scenico sfiorano spesso lo scegliere dell'assurdo: ‘quadro secondo’. Il dottore che esamina lo Scrittore e lo rimprovera di dire troppe volte grazie. ‘Quadro terzo e quarto’: il Regista e il Poeta che confidano come si comportano con le donne. ‘Quadro quarto bis’: il giornalista che vuole il parere dello Scrittore sulla condizione dell'intellettuale nel mondo di oggi, la conversazione appunto continuamente interrotta dalle telefonate di una sconosciuta che chiede di suo marito ricoverato in clinica. L'annuncio registico che il suo intervento avrà per titolo «Il teatro non si può fare».77 Sergiacomo (1996), p. 203. Flaiano (1990), p. 1162. 76 Antonucci (1992), p. 284. 77 Flaiano (1990), p. 1139. 74 75 258 Conclusioni Come è facile arguire, la metafora di questa commedia sta proprio nell’incapacità di pensare e d’intuire dell’uomo d’oggi, nel suo progressivo abbandonarsi al sonno della coscienza. Perciò occorre infine riconoscere e sottolineare con chiarezza che la volontà dello scrittore, pur tenendosi ancora un passo indietro, fu quella di razionalizzare di fronte ad una realtà che appare irriducibile ad un approccio totalizzante da parte dell'arte. «A Flaiano importava riconoscere l’involgarimento progressivo del mito nel mondo moderno, anzi l'aspetto non più reversibile di tale volgarità».78 Da quanto si è detto risulta evidente che Flaiano si riferisce ad una purezza ormai perduta dalla civiltà moderna occidentale, e così si riallaccia a tutta quella tradizione dell'arte contemporanea che cerca nelle tradizioni dei popoli indigeni spunti per continuare a creare. La Conversazione, come si è già visto, è la rivendicazione di una teatralità fondata solo sulla suggestione della ‘chiacchiera’ e della sua straordinaria potenzialità espressiva. Flaiano nega, questa volta, qualsiasi costruzione scenica affidandosi tutto all'opera «aperta […] secondo le leggi del teatro di conversazione»79. La conversazione continuamente interrotta è un testo irrepetibile nel suo equilibrio di allegria e di amarezza, di amore e di odio, di disperazione e di speranza. Sebbene continuamente interrotta, la conversazione dei personaggi continua, aperta al centro e ai due lati. Nonostante il tono doloroso della commedia, c’è in essa, infatti, la speranza nella possibilità di un riscatto morale. In Flaiano c'è un fondo di speranza che nasce da un'intima consapevolezza del valore dell'intelligenza umana. In una delle ultime interviste, risponde: «L'uomo è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la mia fede. Forse l'unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo del mondo»80. Una speranza di civiltà nella stupidità dei conflitti e nelle contraddizioni che dominano l'uomo. La conversazione continuamente interrotta non è, perciò, mai definitivamente interrompibile. Mohamed, Naguib Università di Ain Shams, il Cairo, Egitto. Mail privata: mohammad.naguib@yahoo.com Mail istituzionale: mohamed_nagib_salem@alsun.asu.edu.eg Sergiacomo (1996), p. 198. Flaiano (1990), p. 1164. 80 Antonucci (1986), p. 199. 78 79 259 Riferimenti bibliografici Antonucci (1986) Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, Roma, Studium, 1986. Antonucci (1992) Giovanni Antonucci, Ennio Flaiano e la commedia di costume, in AA.VV., La critica e Flaiano, Lucilla Sergiacomo (a cura di), Pescara, Associazione cultutrale Ennio Flaiano, Ediars, 1992. Antonucci (1998) Giovanni Antonucci, Conclusioni, in AA.VV., Flaiano negli studi universitari. Convegno nazionale, 9-10 ottobre 1998, Associazione cultutrale Ennio Flaiano, Ediars, Pescara, 1998. Bandinelli (1993) Angiolo Bandinelli, Discussione, in AA.VV., Flaiano. 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These are the most significant events of the twentieth century in which the post-war intellectual suffered greatly. In the midst of this climate, Flaiano felt useless; useless in a culture, in a literature, in a criticism that has not sufficiently noticed him. In Flaiano seems inevitable the recourse to sarcasm and self-irony that act as a balm for wounds reported during a career not always full of satisfaction and recognition. Flaiano has inserted autobiographically himself into ‘The Conversation Continuously Interrupted’, the masterpiece of Flaiano as a dramatist, by talking about the intellectual crisis of the postwar period (a crisis that is his crisis). It is evident that in Flaiano there is a profound hope that comes from an intimate awareness of the value of human intelligence. A hope of civilization in the stupidity of conflicts and the contradictions that dominate the humanity. Parole-chiave: Flaiano; crisis; intellectual; the post-war period; conversation. 263 PAOLA PIZII, La scrittrice del respiro dell’anima: Neera Accanto agli autori eminenti, una schiera più estesa di loro contemporanei ha compiuto una più oscura opera di mediazione, spesso accogliendo e trasmettendo la lezione dei maestri, talvolta influenzando autori più giovani ma destinati a diventare punti di riferimento per le generazioni successive. In alcuni casi, gli autori classificati come minori sono stati i rappresentanti di linee o poetiche perdenti oppure schiacciate sulle più forti personalità artistiche dei «maggiori» emersi subito dopo. Tutti in ogni caso, hanno prodotto opere che, secondo le modalità proprie di ciascun secolo o periodo, sono entrate in un sistema di circolazione e ricezione fatto di copisti e editori, lettori colti e profani, filologi e recensori.1 Così si legge in un recente lavoro di Scaffai con il quale si decide di aprire il presente lavoro su minimi non minores. La prima riflessione è però di natura terminologica e filosofica: il minimus esiste solo in relazione ad un maximus, in un continuo ed inevitabile equilibrio empedocleo tra gli opposti. Ebbene, a sancire l’appartenenza all’una o all’altra categoria è principalmente il tempo: ci sarà sempre qualcuno che supererà in fama il predecessore, un po’ come asserito già da Dante nei celebri versi del canto XI del Purgatorio. Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura. Così ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido.2 Scelte politico-culturali, somiglianze tematiche o anche la semplice non appartenenza al genere maschile, infatti, sono fattori che spesso hanno contribuito ad eclissare alcuni autori (anche se famosi) e a metterne in luce altri. È un po’ ciò che è accaduto (anche se in modo non particolarmente rilevante) a Guicciardini nei confronti di Machiavelli, a Capuana rispetto a Verga3, autori molto importanti, che però, in un certo qual modo, sono sempre vissuti all’ombra Scaffai (2005), pp. 6-7. Dante, Pg. XI, vv. 94-99. 3 A tal proposito dice il Croce: «le teorie artistiche del Capuana e la sua propaganda del verismo e naturalismo, valsero a spingere il Verga più oltre sulla via nella quale era entrato. Il che non vuol dire (anzi, se mai, dice appunto il contrario) che l’uno scrittore sia derivato dall’altro: ciascuno dei due ha particolari attitudini e presenta una propria fisionomia. […] Se il Verga è debole e impacciato ragionatore, il Capuana è polemista lucido e sicuro. Nel primo è maggiore spontaneità: nel secondo, maggiore riflessione e coltura» (Croce, 1905, pp. 341-342). 1 2 264 di altri, pur con le loro specificità e grandezze letterarie. E ciò si acuisce nell’ambito della letteratura italiana femminile, sicuramente a causa dell’assenza delle donne dai luoghi ufficiali dell’istruzione e dai salotti intellettuali. A tal proposito Patrizia Zambon afferma che [...] un lungo oblio, marcato da un fraintendimento «in rosa» tanto tenace e immotivato nella sua genericità da apparire più che incomprensibile lievemente sospetto, ha sospinto per decenni nell’assenza questo grande settore della nostra civiltà letteraria. 4 Generalmente nel Novecento si ricorda Grazia Deledda, in quanto premio Nobel nel 1926 per la Letteratura; più all’ombra (ma comunque note) sono Sibilla Aleramo e Matilde Serao; ignorata5 quasi del tutto dalla stragrande maggioranza delle crestomazie scolastiche è Neera (al secolo Anna Radius Zuccari), che comunque è uno dei grandi nomi del panorama letterario femminile, autrice di più di quaranta tra romanzi e novelle, saggi critici, giornalista delle maggiori testate dell’epoca («Corriere del mattino», «Corriere della Sera», «Corriere di Napoli», «Fanfulla», «Marzocco», «Nuova Antologia» etc..) e co-fondatrice della rivista «Vita intima» (1890). Lo stesso Marinetti le scrisse perché prendesse «in considerazione questo nuovo Manifesto del Futurismo che riassume le aspirazioni audacissime ma sincere della miglior parte della gioventù intellettuale d’Italia»6 e scrivesse un articolo sul «Marzocco», invito che Neera cordialmente declinò, definendo le idee di Marinetti così lontane dalle sue, da richiedere «uno sforzo acrobatico; e l’acrobatismo può andar bene a Lei che è giovane, non a me che sono nonna»7. Le case editrici la corteggiavano, i lettori l’amavano, godeva della stima anche di grandi come Capuana, Verga, Croce, con i quali ebbe un intenso scambio di carteggi8 (nell’archivio delle sue corrispondenze c’è anche una lettera di Pirandello dell’Aprile 1898). E sarò io tanto ingrata da dimenticare l’argomento più persuasivo, l’amore de’ miei lettori? Tra le soddisfazioni più vive della mia carriera letteraria devo pure annoverare la larga onda di simpatia che mi venne, non dalla critica ufficiale, ma dal mondo ignorato invisibile e lontano delle anime che mi amarono attraverso l’anima mia. 9 Neera conobbe Verga e Capuana a Milano presso il famoso salotto letterario di Clara Maffei. Scrive Capuana: un bel giorno fui molto sorpreso di incontrarmi nella Neera in carne ed ossa, una giovane signora vestita con elegante semplicità [...]. Il pseudonimo di una signora, Zambon (2004), p. 95. La stessa tesi è dimostrata in Ramsey-Portolano (2004). 6 Arslan (1982), p. 115. 7 Ivi, p. 116. 8 Per le corrispondenze edite, cfr. di Arslan, la voce Neera in Il Dizionario critico della Letteratura italiana (Branca 1986). 9 Neera (1919), p. 12. 4 5 265 soprattutto, significa: -Badate! Io voglio essere due persone: una, la donna -fanciulla, madre di famiglia, zitellona, -che vive pei parenti e pegli amici, che non isdegna nessuno dei suoi doveri domestici, previdente, massaia, infermiera [...]. L'altra, la scrittrice che mette fuori ogni anno dei volumi composti non si sa quando, nei momenti rubati al sonno e alle preoccupazioni della vita giornaliera. 10 Risale al 1884-1911 lo scambio epistolare11 con Verga, più intenso nel 1884, in occasione della rappresentazione di Maura (l’unica opera teatrale della Zuccari): la scrittrice pregava Verga di presentarla alla grande Eleonora Duse per proporle la parte, ma la cosa non ebbe felice esito. Croce la definì addirittura «antitesi quasi completa» di Capuana, in quanto, in lei, erano «sovrabbondanti tutte le qualità che scarseggiano nel Capuana»12. Il Capuana non ha idee, non ha sentimenti dominanti e trascinanti, offre spesso i fatti bruti per quella sola importanza che un fatto ha come fatto: Neera è passionale, sentimentale, moralista, meditativa, e non vede il fatto se non attraverso l’ideale. Il Capuana fa desiderare la lirica: Neera è tutta lirica. Il Capuana studia la finitezza artistica, e non evita sempre l’artificio; Neera si contenta spesso dell’abbozzo e del press’a poco, e va sino alla negligenza […]. Il Capuana è stato uno dei primi a presentare Neera ai lettori italiani e ne ha lodato l’ingegno artistico […] ed a Capuana Neera ha dedicato le confessioni sulla sua vita e sulla sua arte.13 Al centenario della sua morte (avvenuta il 19 Luglio 1918) non ci sono state celebrazioni (come invece è accaduto per altri autori) e ciò testimonia come ancora oggi sia un’autrice, per così dire, non di massa. La si sceglie dunque come minima (ma sicuramente non minor!) per la contrastante opinione della critica, per la scarsa fortuna che ebbe se confrontata con i suoi contemporanei, per non aver dunque avuto dai posteri la gloria che forse avrebbe meritato.14 Quella di Neera fu una personalità piuttosto complessa. In lei si riflessero gli sbandamenti, le incertezze e le perplessità, ma anche e soprattutto la forza di tutte le donne che, tra l’Ottocento e il Novecento, si affacciavano sul panorama della letteratura in veste di scrittrici. I loro tratti comuni erano quelli di portare sulla scena un nuovo punto di vista, quello femminile appunto, tanto nella caratterizzazione dei personaggi quanto nella selezione degli argomenti.15 Nonostante il presente contributo si apra anche ad un confronto tematicostilistico tra alcuni loci zuccariani e passi di autori più noti e apprezzati dalla Capuana (1882), pp. 146-147. Arslan-Verdirame (1978). 12 Croce (1905), p. 354. 13 Ivi, p. 354. 14 Le opere della scrittrice sono state in gran parte digitalizzate, affinché Neera possa tornare ad essere letta e apprezzata dai lettori attuali: il progetto Di.Re della Biblioteca Nazionale Braidense si è occupato dei romanzi, mentre la banca dati sulle autrici femminili dell’Università di Chicago si è concentrata sui racconti. 15 Pucello (2007), p. 2. 10 11 266 critica (d’Annunzio e Verga in particolar modo), al fine di mostrare la sensibilità narrativa dell’autrice, scopo principale del saggio sarà l’analisi delle parole che i grandi personaggi dell’epoca spesero per la Zuccari, soprattutto negli scambi epistolari. Se infatti sono note le lettere tra Verga e Capuana ad esempio sulla stesura, le tecniche e i contenuti de I Malavoglia, nonché la recensione al capolavoro verghiano pubblicata da Capuana sul Fanfulla della domenica nel 1881, assolutamente meno nota è invece la loro corrispondenza epistolare con Neera. Scrive ad esempio Capuana a Neera, relativamente alla sua Giacinta (1889): Quanto durò questo lavoro di fantasticheria, di ripensamento, d’organazione interiore, per cui avviene che il personaggio reale giunga ad elevarsi alla dignità di personaggio dell’arte? Più di due anni Amica mia. […] Pur che io fossi riuscito a renderla tal quale la vedevo e la sentivo nella immaginazione e nel cuore! Il problema era lì. E subito sopravvennero gli scoraggiamenti, le ansie. La forma! la forma! Avevo qualche coscienza della grande inesperienza mia, ma anche parecchia presunzione, e molto entusiasmo, e moltissima fede. […] Coloro che entrano oggi nel campo dell’arte ignorano il tormentosissimo stato di chi dovette provarsi il primo, senza tradizioni, quasi senza guida. Probabilmente, se lo sapessero, sarebbero più benigni verso chi non ebbe e non poteva avere i larghi aiuti di studi e di educazione letteraria ora alla mano di tutti. In quel tempo (è già tanto lontano) certe questioni apparivano così ardue, che lo stesso proporsele diventava un atto d’incredibile audacia. […] Ma perché vi confesso questa miseria? Oh, non per trarne vanto, Amica mia; ma per scusarmene presso coloro che me n’hanno fatto carico […]. E questo vi dimostri che forse soltanto noi, benché innanzi con gli anni e con tanta trista esperienza della vita, soltanto noi, in mezzo alla nuova generazione precocemente nauseata d’ideali, serbiamo ancora fede, a dispetto di tutto, alla feconda illusione che è l’arte letteraria in Italia. (24 Giugno 1889).16 È un registro intimo e confidenziale quello usato dall’autore, il quale sente evidentemente che Neera gli è empatica. Ella stessa, del resto, dice che ha capito troppo tardi «quanta forza l’aggiustatezza del periodo e la scelta della parola aggiungano all’idea»17. “Mi si rimprovera (mi [a Croce] diceva un giorno Neera) che non scrivo bene, che pel pensier trascuro la forma. Da che dipende? Da mancanza di studi giovanili? Come dovrei fare per correggermi?” E io le rispondeva: “Non si tratta di tecnica dello scrivere, di grammatica e di lessico; si tratta di atteggiamento dell’animo”. Ed ora ella stessa, in queste memorie autobiografiche, con la consueta intelligenza e schiettezza, definisce quale fosse veramente la manchevolezza che era in lei, e richiama un detto di suo padre, il quale, un giorno che ella cantava da sola, la ammonì:” Tu non ti ascolti quando canti: prova a ascoltarti”.18 Neera è uno spirito passionale, autodidatta, affascinata da Sterne, Foscolo e Byron, da coloro, cioè, che «avevano fortemente amato e scritto d’amore. […] Capuana (1889). Neera (1919), p. 68. 18 Ivi, p. 7. 16 17 267 Scrivevo non pensando a scrivere; all’amore invece pensavo sempre» 19. Se Deledda aveva ottenuto il Nobel «per la sua potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale, e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano», Neera, inizialmente vicina allo stile di Verga, non si concentra sul racconto di costumi, ma contamina la sua narrazione anche con elementi idealisti e simbolisti. Ne è un esempio la novella Paesaggio tratta dalla raccolta Voci della notte del 1893, nella quale la penna dell’autrice crea in modo sensibile, delicato e gentile un quadro naturale fatto da alberi, foglie e fiori, descritti in modo simbolico. Il vero protagonista del racconto è difatti il paesaggio, apparentemente silente, ma in realtà estremamente vivo. Nonostante non ci siano «un passo, non una voce, nemmeno il più lieve rumore», «le lucciole, piccole anime silenziose, alitavano tra i cespugli» e ovunque c’è la sensazione di corpi invisibili respiranti nella notte, di ali urtantisi senza rumore, di lunghe carezze di felci, di baci lievi e tenaci d’edere salenti all’amplesso della quercia […]. Dovunque la vita occulta della natura, il fermento delle piante, l’amore degli insetti, la fecondazione della terra […]. Tutto passa! sussurrava l’antico castano le cui fronde albergavano tanti ricordi. Tutto rinasce! diceva il frusto eretto della giovane betulla, guardando il cielo. […] Nella assenza degli uomini, parlava l’anima delle cose. Sembra quasi di leggere l’Ur in prosa de La pioggia nel Pineto, la famosa lirica di Alcyone che d’Annunzio compose una decina di anni dopo la novella (nell’estate tra il 1902 e il 1903). In entrambi i testi, gli alberi parlano, sussurrano, ognuno a modo proprio: E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, stromenti diversi sotto innumerevoli dita. E immersi noi siam nello spirto silvestre, d’arborea vita viventi. (vv. 46-55) Il poeta è più incisivo, musicale, virtuosistico e totalizzante rispetto a Neera, ma entrambi riescono a trasportare il lettore in una dimensione altra e panica. Nella novella, non è l’uomo a ‘naturalizzarsi’, ad immergersi con i «volti silvani» (vv. 20-21) come succede nelle strofe d’annunziane, ma è la Natura stessa ad ‘umanizzarsi’, sprofondando in se stessa, a partire da prati e campi che «avevano l’aria di riposare all’ombra delle montagne»: i rami degli alberi sono «fatti immobili a guisa di membra raccolte per il sonno», le corolle «si chiudevano quasi 19 Ivi, p. 68. 268 esauste, ubbidienti al destino», i fiori dormivano «e dormendo, sognavano? Di chi sognava la margherita, fior delle fanciulle? Di chi la rosa fiore dei talami?». Così, la «pioggia di raggi siderei che rompevano l’oscurità» trova corrispondenza ne «L’argentea pioggia» de La pioggia nel pineto (v. 83); ugualmente, l’espressione «voci umane non erano» sembra anticipare i celebri versi «non odo/ parole che dici/ umane; ma odo/ parole più nuove/ che parlano gocciole e foglie» (vv. 2-6). In una fitta rete di suggestioni simboliste e decadenti, il paesaggio diviene dunque metafora dell’animo umano, come esplicita la chiusa: quale onda confusa veniva dall’orizzonte, su dalla valle, dai lontani abituri? Erano i cuori spezzati che gemono in silenzio, le piccole anime volanti nella purezza, le grandi anime passionali incatenate alla colpa? Erano gli amori uccisi sul nascere, gli amori incompresi, sdegnati, gli amori oscuri e profondi, orgogliosamente chiusi? O gli spiriti sciolti, i pensieri agitati, i dubbi, i sarcasmi? Le idee che sorgono, le idee che muoiono? Ah! Tutte le miserie e tutte le grandezze della terra esalano nella notte i loro sospiri. L’aria umida, palpitante, era pregna di lagrime. Ciò dimostra quanto asserito da Muscariello, la quale afferma che Neera non abiurò la lezione del naturalismo, ma si predispose ad adattarla alle esigenze di un’arte fortemente intrisa di “bellezza morale”. Come a dire che le sue ‘finestre’ aperte sul mondo necessitavano, all’altezza degli anni ’90, di essere chiuse perché l’osservazione del ‘reale’ potesse trasformarsi, attraverso la penna, in una costellazione di immagini ‘ideali’.20 Nonostante la reciproca stima tra Verga e Neera, i due stili sono molto diversi: nelle pagine dell’autrice non si avverte la regressione verghiana, non c’è l’impersonalità, il linguaggio non è intriso di proverbi ed espressioni dialettali che possano ritrarre meglio le realtà raccontate. Eppure, al pari di Verga, anche la Zuccari coinvolge il lettore che si arrende alla sua forza espressiva e plastica, non badando alla forma. Del resto, come afferma la stessa autrice nelle sue Confessioni letterarie del 1881 la forma, dico il vero, non è mai stata la mia maggiore preoccupazione. Ora lo diventa, ma per servire meglio il pensiero. Non posso essere dell’opinione di Flaubert, per il quale la forma era tutto. Certo mi piace […] ma forse ciò basta? Che cos’è la forma senza l’idea? È appunto la carne senza l’anima.21 Le opere di Neera non hanno nulla da invidiare a quelle dei ‘grandi’ a lei contemporanei. Si confrontino ad esempio due novelle che (ironia della sorte) hanno lo stesso titolo, ma sicuramente non la stessa notorietà: La roba, dalle Novelle rusticane di Verga (1883) e La roba tratta dalla già citata raccolta Voci della notte (1893). Nel primo caso l’accumulazione sintattica presente già dalle prime righe contribuisce a delineare pian piano la figura del protagonista Mazzarò, il 20 21 Muscariello (2013), pp. X-XI. Croce (1942), p. 891. 269 self-made man che con le sue sole forze, «colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera» (rr. 74-75) è riuscito a scalare la piramide sociale e a sostituire tutti i valori genuini del mondo rurale con l’ideologia religiosa della ‘roba’. Il tutto è raccontato prima attraverso la prospettiva di un ipotetico viandante e poi, secondo la tecnica usuale verghiana, tramite la regressione: lo straniamento rovesciato fa sì che l’apparente elogio delle virtù intellettive del protagonista lasci spazio, invece, ad una profonda critica a tale attaccamento materiale, senza però che l’autore intervenga dall’esterno. Ciò rende la figura di Mazzarò plasticamente ben nitida nella mente del lettore, una sorta di Titano che ha lottato epicamente e che neppure la Morte sembra poter sconfiggere. Diversa è invece la novella zuccariana: anche qui si trova la tecnica dell’accumulazione, che però non è prodromica alla presentazione indiretta del protagonista, bensì a quantificare l’importanza dell’eredità da contendersi. Il morto non doveva lasciare molti denari, ma della roba ne aveva e fina, deposito di una intera generazione di gente economa e massaia, antichi contadini arricchiti. La sorella meglio che tutti conosceva il numero e la qualità delle lenzuola, le coperte di filugello tessute in casa, gli asciugamani lunghi un metro e mezzo, le tovaglie di puro lino col disegno a dama. E le maioliche vecchie? i piattini col campanile, cogli alberi, colle mele che parevano vere? le chicchere dipinte a uccelletti? la zuppiera enorme coi manichi arabescati, col piatto di sopporto frastagliato come una trina? Posate d'argento ce ne dovevano essere almeno sei o quattro o tre. Infatti la storia inizia in medias res con la constatazione da parte di un medico che il paziente (un vecchio signore benestante) è morto. Al suo capezzale ci sono «la figlioccia», la sorella del defunto e il fratello Marco. Apparentemente sembrano tutti provati dalla perdita, ma basta la lettura di poche righe per scoprire una realtà fatta di ipocrisie e di rancori: «il fatto è che si detestavano, ognuno dal canto loro, cordialmente e si guardavano di traverso come belve attirate intorno alla stessa preda». Come in Verga, è presente anche qui la ‘religione della roba’, così forte da soppiantare l’amore familiare, il rispetto, la veglia religiosa: «Mi viene, mi viene [in riferimento ai beni da avere in eredità]: continuava a borbottare tra un requiem e l’altro». Tutti i personaggi sembrano essere impermeabili al lutto e alle emozioni: Tutti e tre volevano giustificarsi davanti al dottore per averlo lasciato morire così, come un cane. Ma il dottore sembrava indifferente alla cosa. Aveva un solo pensiero: tornare a casa più che in fretta per riattaccare il sonno perduto. La focalizzazione zero adottata dal narratore fa sì che il lettore si muova attraverso i loro pensieri più reconditi: Anche nella sua mente passava la visione delle lenzuola fine, delle posate, delle maioliche, del vecchio anello a castone con una miniatura sopra smalto azzurro; e li desiderava; ma il suo era un desiderio fine, intelligente, una intuizione che tutta quella 270 roba in mano di villani era, come dire, perle gettate ai porci. Per nient’altro la desiderava. Eppure tutti si alleano (apparentemente) per cercare il testamento, frugando qua e là per le stanze, noncuranti della salma: «in questa lotta coperta, i volti indurivano, prendendo una tinta terrea sotto il lume vacillante della candela; le pupille scintillavano di cupidigia repressa; le mani tremavano». Chi lo avrebbe trovato per prima? — Ho trovato il testamento! — gridò sollevando in alto un rettangolo bianco. Fu un momento di angoscia indescrivibile. Tre cuori sospesero per un istante le loro pulsazioni, tre vite si concentrarono in uno sguardo acuto, assorbente, quasi feroce...Un raggio di sole entrava, obliquo, ad illuminare il letto dove il morto riposava, completamente staccato dalle miserie terrene. Con questa immagine malinconica, di accusa alla cupidigia terrena, si conclude ex abrupto la novella. Perfettamente coerenti appaiono i versi virgiliani dell’Eneide: «Quid non mortalia pectora cogis, /auri sacra fames?»22. Nel momento di Spannung, lo sguardo del lettore è placidamente accompagnato dal narratore sul volto del morto, solo, eppure finalmente sereno. La penna di Neera riesce davvero a dar voce all’inespresso e a ciò che è difficile tradurre in parola. Se ad esempio si legge la breve novella La morte del bimbo (tratta sempre da Voci della notte), si resta attoniti e commossi davanti al dialogo tra la Morte e il piccolo bambino, inerme, malato da giorni, ormai privo di forze: il suo corpicino era tutto un dolore; non respirava quasi più. Chiamò: Mamma! Così debolmente che la madre appena appisolata sulla sedia, affranta da dieci notti passate a quel modo, non udì neppure. Un altro udì, l’Alto, l’Invisibile, che rispose al bambino: Saluta tua madre, salutala lieve lieve intanto che dorme e vieni con me. – Come posso io venire se le gambine non mi reggono? – Vieni, ti porterò io. – Non voglio lasciare la mamma. – La mamma ti seguirà poi. - Non voglio lasciare la mia bella culla bianca. La tua bella culla bianca diventerà fra poco un letto duro pieno di triboli. - Non voglio lasciare i miei balocchi. – I tuoi balocchi, fra alcuni anni, si chiameranno crucci, pensieri, contrarietà, fatiche. È un dialogo intimo, delicato e dal forte πάθος: sono parole che si adatterebbero anche al piccolo Raimondo, il neonato ‘innocente’, protagonista dell’omonimo romanzo di d’Annunzio del 1892, L’innocente. Frutto del tradimento della moglie Giuliana, il piccolo è odiato da Tullio, marito della donna, poiché la sua sola presenza gli ricorda costantemente la relazione extraconiugale: «nulla di più m’irritava quanto la voce, quanto quel miagolio ostinato che mi aveva ferito così crudamente la prima volta [...]. Era per i miei Verg., Aen., III, 56-57: «a che non costringi l’anima umana, o esecrabile fame d’oro?» (trad. R. Scarcia). 22 271 nervi un urto intollerabile» (cap. XXXVIII). In una gelida notte, dunque, prendendolo adagio, adagio […], tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l’esposi all’aria che doveva farlo morire. (cap. XLIV) Nella novella di Neera predomina la tenerezza delle candide parole dette dal piccolo, alle quali si contrappongono le lucide e sentenziose risposte della Morte. Nelle pagine d’annunziane, invece, tutta la narrazione è volta a sottolineare il livido piano criminale di Tullio, contrapposto alla purezza e all’innocenza del piccolo neonato, che se avesse saputo parlare, probabilmente avrebbe detto ciò che si legge in Neera. Il risultato è in entrambi i casi molto intenso: all’interno di un intreccio dal sapore dostoevskiano, d’Annunzio lascia che il lettore entri nella mente dell’assassino Tullio, mentre Neera fa sì che le sue immagini e i suoi personaggi arrivino dritti al cuore, uscendo dalla pagina per l’intensità delle loro caratterizzazioni. Sono personaggi spesso soli e ‘vinti’ dalla vita, al pari dei più noti esempi verghiani. Il Ciclo dei Vinti dell’autore catanese mira proprio a mostrare questa sconfitta dell’essere umano in tutte le classi sociali. Ugualmente, anche la Zuccari pensa ad un insieme di romanzi, il cosiddetto Ciclo della donna giovane, formato da Teresa (1886), Lydia (1887) e L’indomani (del 1889, lo stesso anno della pubblicazione di Mastro-don Gesualdo e de Il Piacere di d’Annunzio). Come i membri della famiglia Toscano, come Gesualdo e gli altri personaggi verghiani, anche Teresa, Lydia e Marta (le protagoniste dei tre romanzi ricordati), sono sole e oppresse dalla quotidianità delle loro esistenze. Secondo Croce, Teresa percorre intera la via crucis, fanciulla schiacciata dalla sua famiglia, dal padre imperioso, dal fratello al quale bisogna preparare un avvenire fortunato, dalle sorelle minori che bisogna allevare, non aiutata dalla madre, che sa soltanto piangere con lei.23 Dalla prefazione di Verga a I Malavoglia (19 gennaio 1881) si capisce quanto questo romanzo fosse in linea con le tendenze di ‘analisi’ del momento: l’autore afferma infatti di aver voluto realizzare lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; […] il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Il romanzo di Neera è invece assolutamente appassionato, non ‘scientifico’, legato a doppio filo con l’anima dell’autrice. Persino le scene corali sono delineate 23 Croce (1905), p. 360. 272 con colori diversi. Teresa si apre con la descrizione di tutto il paese riunito ed allarmato a causa di una probabile inondazione del Po. — Coraggio, figliuoli, coraggio. — Ne abbiamo, signor sindaco, ma la faccenda è brutta assai; temo l'abbia da andar male per tutti. Chi rispondeva così alla grande autorità del paese, era il vecchio Toni, l'anziano dei barcaiuoli, che di piene ne aveva vedute parecchie, e crollava il testone grigio arruffato, sul quale stava in permanenza il tradizionale berretto rosso dei paroni del Po. — Noi facciamo il nostro dovere, Toni, e il resto alla provvidenza. Toni non rispose; si rimise al lavoro, insieme agli altri barcaiuoli e operai; tutti intenti a trasportare fascine, sacchi di terra, cocci, mattoni, ciottoli per far argine al fiume. — Santo Iddio! — esclamò il sindaco, con un accento metà di bestemmia e metà di preghiera — guardando il fiume che ingrossava sempre. La notte era nera, con un cielo minaccioso, gravido di pioggia. Era piovuto tutto il giorno — pioveva da trentaquattro giorni. La pietra sulla quale erano segnati i gradi d'altezza delle precedenti inondazioni, era già tutta coperta. Il fiume saliva con una lentezza implacabile, colla calma feroce di un mostro che è sicuro della sua preda. Aveva invaso l'argine basso; ora toccava l’orlo dell'argine superiore, spumeggiando, con un brontolìo sordo. Il gran pericolo era che l'acqua minasse l'argine al disotto. Da quarantotto ore si lavorava senza posa, atterrando alberi e vecchie case, le più vicine al fiume, quelle in maggior pericolo; gli abitanti di tali casupole, quasi tutti poveri, fuggivano trasportando le masserizie — e non erano ancora fuori che già il piccone dei muratori risuonava sui muri, facendo rimbalzare i calcinacci, alla luce scialba delle torce a vento portate dai ragazzi. Una vecchia ottuagenaria, alla quale avevano tolto il letto per trasportarlo in un posto più sicuro, si avvicinò agli uomini che sorreggevano quel povero mobile tarlato, e disse loro piangendo: —Gettatelo dentro anch'esso, tanto domani io non vi potrò più dormire. — Sì, gettatelo, — aggiunse il sindaco — ne farò dare un altro a questa povera donna. Il letto della vecchia sparve subito nelle onde ingorde che salivano, salivano. Il sottoprefetto e il tenente dei carabinieri giungevano insieme dalla parte dei boschi, dove erano andati ad ispezionare la sicurezza delle rive.24 Ne I Malavoglia la scena corale è molto più dettagliata ed analitica, ricca di espressioni vernacolari, proverbiali e soprannomi. Il sabato in cui parte la Provvidenza, il paese è animato e si lascia andare a commenti (non sempre positivi) sulla decisione della Famiglia Toscano. Per tutto il paese non si parlava d'altro che del negozio dei lupini, e come la Longa se ne tornava a casa colla Lia in collo, le comari si affacciavano sull'uscio per vederla passare. — Un affar d'oro! — vociava Piedipapera, arrancando colla gamba storta dietro a padron 'Ntoni, il quale era andato a sedersi sugli scalini della chiesa, accanto a padron Fortunato Cipolla, e al fratello di Menico della Locca che stavano a prendere il fresco. […] Dopo la mezzanotte il vento s'era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, ea scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant'Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell'anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. […] le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro. Maruzza la Longa non diceva 24 Neera (1886), cap. I. 273 nulla, com'era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l'uovo. Gli uomini erano all'osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini. — Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! diceva stringendosi nelle spalle; e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza. […]. La Santuzza, all'ultimo tocco di campana, aveva affidata l'osteria a suo padre, e se n'era andata in chiesa, tirandosi dietro gli avventori. […] — Ci sono i diavoli per aria! diceva la Santuzza facendosi la croce coll'acqua santa. — Una giornata da far peccati! La Zuppidda, lì vicino, abburattava avemarie, seduta sulle calcagna, e saettava occhiatacce di qua e di là, che pareva ce l'avesse con tutto il paese, e a quelli che volevano sentirla ripeteva: — Comare la Longa non ci viene in chiesa, eppure ci ha il marito in mare con questo tempaccio! Poi non bisogna stare a cercare perché il Signore ci castiga! — Persino la madre di Menico stava in chiesa, sebbene non sapesse far altro che veder volare le mosche! — Bisogna pregare anche pei peccatori; rispondeva la Santuzza; le anime buone ci sono per questo […] Fra un'avemaria e l'altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli. (capp. II-III) È una coralità vista dall’alto, diversa da quella di Teresa: pur parlando tutti del mare in burrasca e della sorte dei Toscano, non sono tutti riuniti in un unico luogo: come al solito, le donne sono in chiesa, gli uomini in osteria, altri a casa; «sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza». Verga delinea in modo magistrale le abitudini statiche del paese, fa trapelare le critiche nei confronti di chi ha deciso di portare una novità in un luogo nel quale la legge imperante è la ripetizione quotidiana delle azioni, caratterizza gli abitanti con i loro soprannomi parlanti e realizza in definitiva un quadro fedele, rendendo «la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere» (come dice nella già citata Prefazione al romanzo). Neera è invece più lirica e sentimentale, come testimonia la stessa immagine finale della vecchia signora ottantenne che piange davanti al letto tarlato, risucchiato dal fiume. A differenza della scrittrice, infatti, Verga presenta i fatti dall’esterno attraverso l’ottica deformata degli abitanti del villaggio, incuriositi dal dramma ma sostanzialmente indifferenti, e non permette dunque al lettore di entrare a fondo nell’intimo di Padron ‘Ntoni, che resta da solo sulla riva. Sola è anche Teresa, della quale la Zuccari dice che una che si chiamava veramente Teresa mi bastò vederla una volta sola. Pallida e mesta, seduta in disparte dalle sue sorelle, che giovani ed allegre scherzavano tra loro, cuciva una camicia per il fidanzato lontano, fidanzato già da dieci anni, il quale non veniva mai, ed al quale ella pensava sempre. Queste due antitesi, l’indifferenza di lui, la 274 costanza di lei: ecco il romanzo sorto in un attimo intero e vitale. […] era il dramma di tante anime femminili che si era ripercosso attraverso la deviazione di un’anima sulla speciale sensibilità dell’anima mia.25 Come la Gertrude manzoniana o la giovane Maria di Storia di una capinera (1871), anche Teresa è un’anima fragile, bisognosa di affetto. Ma, per tutte, l’amore è dolore: il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella pelle. Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d’anni le si fosse aggravato sopra; aveva pensieri mesti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto. Si toccava l’abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere. All’ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non potè quasi ingoiare cibo. – Va’ a coricarti, poverina, sei stanca. Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a doversi frenare davanti agli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera col novo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor Cecchino.26 Più struggenti e romanticamente sofferte sono le parole dell’indifesa Maria: io lo amo! io lo amo! Pietà! pietà di me! Non mi disprezzare! son molto infelice! perdonami! Mio Dio! perché questo castigo così duro? Ecco che bestemmio! Oh, mio Dio! ... quanto ho pianto! Oh! Dio mio... vi ha una donna più sciagurata di me? ... L'amo! È un'orribile parola! è un peccato! è un delitto! ma è inutile dissimularlo a me stessa. Il peccato è più forte. Ho tentato di sfuggirgli, esso mi ha abbrancato, mi tiene in ginocchio sul petto, mi calpesta la faccia nel fango. Tutto il mio essere è pieno di quell'uomo: la mia testa, il mio cuore, il mio sangue. L'ho dinnanzi agli occhi in questo momento che ti scrivo, nei sogni, nella preghiera. Non posso pensare ad alto; mi pare che ad ogni istante il suo nome mi venga sulle labbra, che ogni parola che profferisco si trasformi nel nome di lui; allorché lo ascolto son felice; quando mi guarda tremo; vorrei stargli vicina ad ogni momento e lo fuggo; vorrei morire per lui. Tutto ciò che sento per quell'uomo è nuovo, è strano, è spaventoso... è più ardente dell'amore che porto a mio padre; è più forte di quello che porto a mio padre; è più forte di quello che porto al mio Dio! ... Questo è quello che al mondo chiamano amore... l'ho conosciuto; lo veggo... È orribile! è orribile! ... È il castigo di Dio, la perdizione, la bestemmia! Marianna, io son perduta! Marianna, prega per me! (Lettera del 20 Novembre) Maria ha diciannove anni; Teresa, sedici. Entrambe giungono alla scoperta dell’amore in seguito ad un viaggio per così dire ‘iniziatico’: Teresa soggiorna presso la casa degli zii a Macaria; per via del colera, Maria è costretta a lasciare per qualche mese il convento di Catania e a trasferirsi a Monte Ilice, nella casa del padre. Ma mentre Maria conquista la totale consapevolezza del suo sentimento, Teresa avrà bisogno continuamente di chi la guidi, conservando quella ingenuità propria di chi conduce un’esistenza reclusa in casa, ignara del mondo. La 25 26 Neera (1919), p. 70. Neera (1886), cap. VI. 275 sofferenza è una prerogativa anche di Lydia Valdora e di Marta Oldofredi, le protagoniste degli altri due romanzi del Ciclo. La prima è l’anti-Teresa, ricca, viziata e superficiale, non simpatica persino all’autrice: […] ella era cresciuta libera in una società dove tutto è vincolo e finzione; accettando il bello naturalmente perché non aveva bisogno di spiegazioni, e ignorando in modo assoluto tutto ciò che non aveva un rapporto diretto coi sensi. Era figlia de’ suoi tempi; aveva il sangue misto, parte di decadenza aristocratica e parte di insolenza borghese arrivata in alto. Molto intelligente, chiudeva in sé i germi del bene e del male, ma nessuno sviluppato, nessuno dominante. La superficialità della sua educazione soffocava in lei ogni tendenza individuale. Con tutto questo era persuasa d’essere, oltre che la più bella, la più buona delle fanciulle.27 Giunge al suicidio dopo aver trascorso la sua vita nella continua attesa del vero amore, unica fonte di felicità. Marta, la protagonista de L’indomani (1890), il terzo romanzo del ciclo, è fin dall’inizio una donna sposata. Avendo raggiunto il matrimonio (tanto agognato sia da Teresa che da Lydia) dovrebbe essere felice, invece anche lei soffre: è lontana dalla casa paterna ed è sposata con un uomo che in realtà non conosce bene e che si sforza (e si illude) di poter scandagliare fin nel profondo, cosa che in realtà non riesce a fare. Così anche l’ultimo romanzo è perfettamente in linea con l’idea del Ciclo: mostrare i risvolti psicologici delle protagoniste che, seppur in condizioni diverse, ‘lottano’ da sole per tutta la loro vita, nella speranza di ottenere un riscatto non economico (come nel Ciclo di Verga) ma sentimentale. E sola come le sue eroine fu anche Neera. Come il contemporaneo Pascoli, restò orfana da piccola: a dieci anni morì la madre; a venti perse anche il padre. Io scontrosa, acerba, non avendo vicina neppure una bimba della mia età, portata dal temperamento e dalle circostanze a ripiegarmi su me stessa; […] fra le compagne cercavo affetto, ma difficile riusciva l’accordo assoluto, perché fin da allora avvertii quell’ostacolo, quella specie di malinteso fra me e i miei simili che doveva fare di me una solitaria.28 Riuscì ad essere arguta come la ninfa oraziana dell’Ode III, 14, 21 da cui trasse lo pseudonimo29, dando voce alla psiche, alle aspirazioni e ai problemi delle Neera (1887), cap. III. Neera (1919), pp. 17-18. 29 Come altre sue colleghe (la stessa Aleramo si chiamava in realtà Rina Pierangeli Faccio; la Marchesa Colombi, Maria Antonietta Torriani Viollier), aveva infatti fatto ricorso ad un senhal, la cui eziologia è palesata dalla scrittrice stessa nella sua autobiografia Una giovinezza del XIX secolo: «[…] quantunque il bellissimo nome scorto in un libro scolastico delle Odi di Orazio mi avesse già colpita in modo straordinario e così tenace che allorquando, più tardi, volli scegliere uno pseudonimo non tentai neppure di cercarne un altro; per il momento solo l’armonico congiungimento delle sillabe mi attrasse, stringendomi nel fascino di una nota musicale, ben lungi dal sospettare che una nota personalità fosse già sorta in me». Neera (1919), p. 71. 27 28 276 donne con sottigliezza e acume, senza essere né femminista, né antifemminista30 (cosa di cui invece fu accusata), ma semplicemente ‘rivoluzionaria’. Nell’introduzione al saggio Le idee di una donna (1903), Neera chiarisce il suo concetto di ‘femminismo’, dicendo che nella mia modesta opera ho sempre studiato i desideri e le aspirazioni della donna, la nobiltà delle sue attitudini e della sua missione, i suoi amori, i suoi dolori, i suoi disinganni, i suoi trionfi … I capitoli che raccolgo in questo volume mi vennero suggeriti osservando e ascoltando l’onda del femminismo che si avanza e nel quale non ravviso affatto il mio ideale di progredita femminilità. È troppo maschile per essere del femminismo sincero. Gli sforzi che si fanno per uguagliare l’uomo mostrano chiaramente che la donna non si riconosce più nella integrità del proprio valore, ed è questo valore suo che difendo con schietto ardore, dedicando i miei sforzi alle donne che accettano con semplicità e nobilmente la loro grande missione, facendo cioè del femminismo vero.31 La sua ‘arguzia’ si mostrò anche nei commenti che si permise di fare su altri autori o case editrici. In una lettera a Cannizzaro, datata 9 Luglio 1889, definisce Il Piacere di D’Annunzio un libro con «belle pagine e ricchissimi colori ma che non lascia nulla nell’anima»32; sei giorni dopo, parlando de Il Cuore di De Amicis, dice che è «un lavoro privo di originalità e di forza, ebbe un successo immenso ma...cecità del pubblico!», aggiungendo anche aspre considerazioni per alcuni editori e giornalisti. Se sapeste quanta stizza mi fanno tutti questi imbrattacarte vanesi, strumenti senza corde, teste senza criterio e corpi senz’anima! Sono quarant’anni che mi logoro per il sentimento e ciò mi dà diritto di essere un po’ severa per questa stupida generazione che non sa né amare né soffrire e che pretende di scrivere. […] Chiesa è povero, si fa avanti a spinte sui guadagni del negozio […] Treves è un briccone, un vero ebreo, figlio di Giuda e villano per giunta […]. C’è Hoepli, ricco ma che paga poco. C’è Barbera di Firenze che dorme sugli allori e lascia marcire ogni libro […]. Lo stesso dicasi di Casanova di Torino e di Zanichelli di Bologna. (Lettera 15 Luglio 1889) A Neera invece bastava aprire le chiuse dell’anima perché ne prorompesse un’onda copiosa e calda, che non si inaridiva mai, non mai aveva bisogno di essere artificialmente eccitata, e, meno che mai, simulata con espedienti e industrie letterarie. Sentiva e meditava come respirava, e scriveva allo stesso modo, senza sforzo. 33 Lesse e narrò infatti l’intimità profonda delle donne, con una freschezza ed una naturalezza che colpirono Croce, il quale si occupò proprio della prefazione della sua autobiografia Una giovinezza del XIX secolo. Basta citarne alcuni passaggi Per approfondimenti, si legga Pierobon (1966), pp. 24-36. Sanvitale (1977), pp. 37-38. 32 Lettera a Tommaso Cannizzaro, 9 Luglio 1889 in Verdirame (2009), p. 17. 33 Neera (1919), prefazione di B. Croce, p. 7. 30 31 277 per comprendere la profonda stima che lo legava a lei, nonché la consapevolezza che già allora la critica, invece, non la osannasse. Quanta abbondanza di pensieri e di affetti nei libri di Neera! […] nella quale due tratti erano, che voglio notare fra gli altri […]. Primo l’amore per la vita, e non già pei diletti e le voluttà che essa talora elargisce, ma per la vita nella sua interezza, come vivere e morire, gioire e soffrire, amare e aborrire, sognare e risvegliarsi, per la vita sublime ed umile, ampia e ristretta, per la piccola ed immensa vita di ciascuno di noi che, così com’è, è fonte inesausta di palpiti, di meditazioni, di ricordi, di tenerezze, di amarezze pur dolci […]. È questo il buono e sano, sebbene inconscio e non teorizzato, “misticismo” di Neera, che ella celebrava col bramoso profondarsi in se stessa, col trovarsi sempre benissimo da sola […]. L’altro tratto era la costante tendenza ad abolire ogni dualismo di materia e spirito, corpo e anima, senso e ragione.34 Alla luce di ciò, dunque, per i temi trattati, per la sua verve narrativa, per il suo essere estremamente poliedrica, nonché per la stima che ebbe da parte dei ‘grandi’ dell’epoca, Neera meriterebbe forse di essere reinserita quantomeno nei programmi scolastici, in modo da non essere più minima, ma tornare a quella notorietà di cui in passato ha goduto: non so quanti punti mi darà in definitiva la critica; ma so che i miei lettori mi amano, so che ho fatto del bene a molti cuori titubanti, a molte anime in pena, ed è una così grande dolcezza quando lo penso! […] De claritate in claritatem è la gloria dei grandi; sia il dovere dei piccoli: A tenebris in lucem.35 Prof.ssa Paola Pizii Liceo Scientifico Statale “L. Pasteur” paola.pizii@istruzione.it 34 35 Ivi, pp. 7-8. Neera (1919), pp. 70-71. 278 Riferimenti bibliografici Arslan (1982) Antonia Arslan, Marinetti e Neera: un curioso scambio di lettere, in «Forum italicum», XVI, 1-2, 1982, pp. 113-118. Arslan (1983) Antonia Arslan, Luigi Capuana a Neera: corrispondenza inedita 1881-1885, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca. V. Indagini Otto-Novecentesche, Firenze, Olschki, 1983, pp. 161-185. Arslan-Folli (1989) Antonia Arslan- Anna Folli (a cura di), Il concetto che ne informa: Benedetto Croce e Neera corrispondenza 1903/1917, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1989. Arslan-Verdirame (1978) Antonia Arslan-Rita Verdirame (a cura di), Giovanni Verga e Neera: un carteggio (con due lettere di Eleonora Duse), in «Quaderni di Filologia e Letteratura siciliana», VI, 5, 1978, pp. 27-42. Baldacci (1976) Luigi Baldacci (a cura di) Teresa, Torino, Einaudi, 1976. Branca (1986) Vittore Branca (a cura di), Il Dizionario critico della Letteratura italiana, Torino, UTET, 1986. 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Parole-chiave: Neera; Anna Radius Zuccari; Letteratura femminile; Ottocento; Verismo. 281 ISABELLA PROCACCI, «Me Venus artificem tenero praefecit Amori»: Ovidio e Savioli, poeti d’Amori A partire dal 1740, l’ottimistica fiducia, diffusa a livello europeo, nelle potenzialità di una scrittura poetica sempre più colta e raffinata investe anche i poeti bolognesi (quali Savioli, Casali, Taruffi e Zanotti1), disposti ad abbandonare la rustica veste pastorale per preferire il garbo e l’eleganza di quella cittadina.2 Posto che l’antico continui a rappresentare un costante punto di riferimento e di confronto, si fa sempre più chiara la consapevolezza che prerogativa dei moderni sia quella di riproporne temi e stili adeguandoli alle esigenze più mosse e articolate della sensibilità contemporanea.3 Se la prima Arcadia aveva prediletto il modello lirico petrarchesco e tassiano delle rime amorose, celebrative e sacre 4, i poeti bolognesi, a partire dalla seconda metà del Settecento, valorizzano l’esempio dei lirici greci e degli elegiaci latini, guardano con ammirazione alla raffinata società augustea e si riconoscono nell’esperienza letteraria di Catullo e Ovidio.5 La maniera di concepire l’amore cambia: diviene equilibrata, quasi idonea a risanare gli scompensi e le irrequietezze della soggettività.6 Il piacere si allontana È lo stesso Zanotti a dichiarare di preferire «un’arte di verseggiare per fine di diletto» che fosse, al tempo stesso, «un’arte e bella, e utile, e necessaria» (Zanotti 1768, pp. 5, 13, 32). Cfr., al riguardo, Campana (2018), pp. 7-9. 2 Come riflette Assunto, per questi poeti la bellezza si rinviene nella «finitezza e semplice mondanità dell’uomo» (Assunto 1967, p. 16). Per un quadro della vita bolognese in questi anni si veda Masi (1878), pp. 62-86. 3 Già Pier Jacopo Martello ne Il Davide in corte si era interrogato, con grande delicatezza, sulla possibilità di sostituire il sobrio costume pastorale con la raffinata vita cittadina attraverso le figure di Micol e Abner. Cfr. Martello (1981). 4 Cfr., relativamente ai modelli della prima Arcadia, Binni (1968a), pp. 73-95; Graziosi (1988), pp. 71-225; Nicoletti (2006), pp. 31-66; Baragetti (2012); Doglio-Stocchi (2013). 5 Cfr., al riguardo, Savoca (1973); Magnani Campanacci (1988); Beniscelli-Tatti (2016), pp. 613. Nel 1698 Eustachio Manfredi, Pier Jacopo Martello e altri due arcadi bolognesi, sul modello dell’Ars amandi, avevano composto un’Arte dell’amar Dio, ma l’opera ovidiana fu tradotta integralmente almeno tre volte a partire dalla seconda metà del secolo. Cfr. Mari 1988, n. 13, p. 46. 6 Nella prima Arcadia la morale letteraria cattolica influenza la trattazione della materia amorosa, modulandola o nell’accezione platonica o dell’innocenza nativa dell’età dell’oro. Lo stesso Crescimbeni concorda per la moralizzazione e predilige una versione dell’amore «ingenua, aurorale, di semplicità ed innocenza» (cfr. Accorsi 1999, pp. 57-60). All’idealismo platonico – sostenuto, tra gli altri, da Salvini che nel discorso CLXI Se chi ama debba essere necessariamente 1 282 dalla quiete pastorale e si nutre di memoria, immaginazione, attesa e nostalgia. Il sonetto sembra trasformarsi in un dialogo a una voce in cui la resistenza, le esitazioni, le remore della donna si percepiscono tramite piccoli gesti e movimenti. La prima strategia amorosa è trasmettere alla donna un desiderio ignoto che inneschi la passione, resa viva dal ricordo e dall’attesa. La struttura metrica diventa più sciolta; i versi non hanno confini precisi e regolari e sono caratterizzati dall’enjambement. Si sperimentano nuovi mezzi espressivi che possano soddisfare il piacere dell’orecchio.7 Ne deriva che i generi trovano una loro specifica distintività non in base alla forma, ma alla tipologia di sentimento che li anima. Ad esempio, per ode anacreontica si intende un componimento che, indipendentemente dalla forma, presenti la tenera sensibilità anacreontica.8 Gli Amori savioliani sono assimilati per stile e temi alle liriche di Anacreonte9, ma la poesia di quest’ultimo è quasi sempre un inno spensierato e festoso alla vita e alla bellezza che fuggono, mentre Savioli non ha la stessa ‘leggerezza’ anacreontea: l’amore gli provoca moti dell’animo (quali lotte, gelosie, furori), assenti nel poeta eolico. Il maggiore promotore di questa nuova scuola di pensiero, che dà vita ad una fortunata stagione poetica, è il medico e poeta bolognese Angelo Michele Rota, il quale compone una raccolta autografa di Rime, che comprende più di trecento componimenti di vario genere (amorosi, pastorali, ditirambici, morali, epitalamici), in cui rientrano anche alcuni sonetti ed egloghe di Savioli e di Casali datati fra il 1746 e il 1749.10 Lo stesso Rota pubblica nel 1746, in occasione delle nozze del conte Albicini di Forlì con la contessa Sanvitale di Parma, un epitalamio il cui incipit è Indarno di papaveri. Esso incontra grande fortuna presso il pubblico, soprattutto per la scelta metrica: una quartina di settenari con il primo e terzo verso sdruccioli e sciolti, il secondo e il quarto piani e rimati.11 Questa soluzione pare ai giovani poeti contemporanei più adeguata a tradurre gli elegiaci latini di quanto lo sia la riamato afferma che «nella materia d’amore […] il vero ed il giusto sia non si partire dalla dottrina di Platone, il quale ne trattò sopra ogni altro ampiamente ed oltre a ciò divinissimamente» (Salvini 1822, p. 68) – si sostituisce progressivamente una concezione pubblica e sociale dell’amore. Cfr. Mari (1988), pp. 15-96. 7 Cfr. Fubini (1959), pp. XLII-XLIII. 8 Cfr., relativamente alla rinnovata attenzione ai temi e al sentimento della poesia di Anacreonte, Batteux (1755); Romano Cervone (1993). 9 Si vedano, in particolare, Sismonde de Sismondi (1813), p. 66; Affò (1824), p. 102; Monti (1831), p. 123; Natali (1939), pp. 105-110. La lezione di Anacreonte, insieme a quella di Catullo, raggiunge una delle sue massime espressioni arcadiche per chiarezza ed equilibrio fra grazia e voluttà nell’opera di Paolo Rolli, a partire dal quale si sviluppa una tradizione pittoricominiaturistica che, attraverso la mediazione degli Amori savioliani, approda al neoclassico. Cfr. Mari 1988, pp. 131-134. 10 Cfr. Carrer (1837). 11 Cfr. Rota (1759). 283 canzone. Così Rota, Savioli e Casali, che privilegiavano le elegie degli Amores, tentano di tradurle in quel metro, ma resisi conto della difficoltà e della pericolosità dell’impresa - i cui risultati non si ritengono adeguati alla formazione dei giovani - preferiscono abbandonarla.12 Delle traduzioni di Rota e Casali si è conservata qualche attestazione – Casali allega alle sue poesie la parafrasi dell’elegia I, 13 degli Amores -, mentre nessuna di Savioli. Tuttavia, nella prima redazione di una delle sue canzonette, Il passeggio, lo stesso poeta rende noto che suo obiettivo prioritario è poter tradurre al meglio in italiano le vicende amorose ovidiane. Inoltre, alcuni suoi contemporanei, come Rota, attestano la fedeltà e l’accuratezza con le quali egli tradusse le elegie ovidiane.13 Constatata la difficoltà delle traduzioni dal latino, Savioli pensa di utilizzare quel metro per provare a riprodurre il sentimento amoroso secondo le cadenze di Ovidio.14 Il giornale Novelle letterarie del Lami, nell’anno 1759, nella rubrica Bologna, annuncia la pubblicazione delle prime dodici canzonette di Savioli, curate dall’editore Taruffi, dedicate all’amico Gregorio Casali. Esse sono realizzate dalla stamperia di Remondini, nel ‘58 a Venezia. Il motto riportato sul frontespizio della prima edizione del ‘58 è «Scribere iussit Amor» (Ovidio, Heroides, Ep. IV).15 Le canzonette crescono a ventiquattro nella stampa di Lucca del 1765 per i tipi dell’editore Riccomini, nella quale figurano con il titolo classico di Amori. Questa edizione reca sul frontespizio il motto ovidiano «Me Venus artificem tenero praefecit Amori» e un elegante medaglione «all’antica» con una figura femminile graziosa, ma severa.16 La veste iconografica è ormai neoclassica.17 Cfr. Bolognini Amorini (1818). Cfr. Rota (1759), p. 315. 14 Cfr. Carducci (1868), p. 50: da quelle traduzioni «trasse il primo eccitamento a comporre nel metro stesso quelle sue eccellenti ed originali canzonette che fanno tant'onore all'italiana poesia». 15 L’incisione sul frontespizio ritrae il poeta in una situazione campestre, con un libro e con la cetra ai suoi piedi, assorto a comporre versi. Venere e un amorino che sembrano usciti da un dipinto o da un'incisione di Boucher o di Oudry assistono all'opera. L'asimmetria della scena, l'impianto obliquo, le foglie in movimento sulla destra e la città pittoresca e cinta di mura sul fondale a sinistra, la tenera malizia e sensualità di Venere richiamano il gusto rococò. Cfr., al riguardo, Magnani Campanacci (1988), pp. 252-260 e, relativamente al legame pittura-poesia nell’Arcadia bolognese, Campana (2018), pp. 1-9. 16 Nella prefazione all’edizione del 1765 a Vittoria Corsini, Savioli esprime coraggiosamente la scelta di una poesia come puro diletto: «Io sono nato in un secolo, in cui gli impegni e gli studi degli uomini sono rivolti all’utilità. La filosofia, l’agricoltura, le arti, il commercio acquistano tuttodì nuovi lumi dalle ricerche dei saggi: il voler farsi un altro nome tentando di dilettare, quand’altri vi aspira con più giustizia giovando, è impresa dura e difficile. Ho dunque scritto non ad un altro oggetto che di esprimere quel ch’io sentiva e mi sono tranquillamente disposto a non essere letto». Cfr. Binni (1968a), p. 213. 17 Per approfondimenti si vedano Cillario (1902), Cillario (1907), Baccolini (1922), Momigliano (1945), pp. 9-30, Binni (1968b). 12 13 284 Savioli abolisce la finzione pastorale, sceglie il modello ovidiano e con tono vario e brillante narra le sue avventure galanti18, venate di passione, traendo spunto da situazioni reali e inserendole in una cornice mitologica.19 Il punto di partenza è certamente l’eccelso modello latino20: Savioli ripercorre i principali episodi degli Amores, infondendo nelle liriche, come afferma Carducci, l’«animo» e il «fasto romano».21 Sin dall’inizio, nella seconda canzonetta, Il passeggio, il poeta si rivolge ad Ovidio come maestro: La tua, gran padre Ovidio, scorrea difficil arte, pascendo i guardi, e l’animo sulle maestre carte.22 Nella canzonetta Il passeggio il poeta, mentre è intento alla lettura di Ovidio, sente dietro le spalle il rumore di una carrozza ed è costretto ad arrestarsi perché rapito da una donna («men donna assai che Dea»23). Il fascino sprigionato dalla dama è reso da colori e materiali che nell’immaginario si collegano alla seduzione. Ovidio riconosce la supremazia di Amore, dio potentissimo e invincibile al quale è inutile tentare di sottrarsi, e si abbandona totalmente al suo oggetto d’amore. Nell’elegia I, 1 degli Amores, Amore ricorre ai suoi dardi per vincere la resistenza del poeta («Me miserum! certas habuit puer ille sagittas: / uror, et in vacuo pectore regnat Amor»24); nell’elegia I, 2, invece, il poeta non sa come comportarsi, oscilla tra cedimento e resistenza, ma finisce per riconoscersi schiavo d’Amore, il quale da saettatore diviene praedator («Cedimus, an subitum luctando accendimus ignem? / Cedamus: leve fit, quod bene fertur, onus»25; «En ego, confiteor, tua sum nova praeda, Cupido; / porrigimus victas ad tua iura manus» 26). Savioli, nella suddetta canzonetta, ricorre al lessico militare: da subito appare L’aggettivo «galante» è sempre più frequente nella descrizione delle passioni amorose poiché la galanteria è intesa come forma «moderna» dell’amore. Tuttavia, molti autori, soprattutto appartenenti al filone «morale», denunciano la galanteria come fenomeno separato dall’amore. Relativamente a tale polemica si veda Mari (1988), pp. 58-68. 19 Cfr., al riguardo, Cardella (1817), pp. 433-434, Renda-Operti (1952), p. 1020, Fubini (1959), pp. XL-XLVII, Binni (1968a), pp. 212-221. 20 Il primo ad individuare l’interessante parallelismo fra Savioli e Ovidio è Rovani (1857), pp. 85-86. 21 Carducci (1868), p. 47. 22 Savioli (1795), p. 6. 23 Ibidem. 24 Ovidio (2008), p. 8 (vv. 25-26). 25 Ibidem (vv. 9-10). 26 Ibidem (vv. 19-20). 18 285 chiaro che la soluzione del conflitto sarà a favore d’Amore e il poeta non può fare altro che accettarlo.27 Uno sconosciuto fuoco interiore lo rende inerme: Amor, di tua vittoria come vorrei lagnarmi? chi mai dovea resistere, potendo, a tue bell’armi?28 […] Come potrei ripetere quel ch’a me udir fu dato? dal novo foco insolito troppo era il cor turbato.29 La metafora dell’incendio provocato da Amore30 ritorna nell’incipit di un’altra canzonetta di Savioli, La Felicità: Dunque gli Dii non volsero le mie speranze in gioco: te dunque ancorchè tacita pur arse il nostro fuoco.31 In questa canzonetta ritroviamo un altro topos dell’elegia amorosa: gli occhi come veicolo d’amore.32 Al riguardo va specificato che la tematica dello sguardo riveste una notevole centralità e una sua specifica rilevanza in ogni secolo. Alcuni autori settecenteschi rappresentano le manifestazioni dell’interiorità e della soggettività dell’individuo attraverso un esame diretto delle evidenze somatopsichiche: nel primo romanzo verriano, ad esempio, lo sguardo è sempre in primo piano e lascia intravedere i sentimenti della protagonista, la quale in presenza di passioni ‘estreme’ abbassa lo sguardo oppure nasconde l’intero volto col suo velo. Nell’Ars amatoria (I, v. 573), Ovidio rivela l’importanza dell’incrocio di sguardi che permette di comunicare senza parole («Atque oculos oculis spectare L’unica possibilità di affrontare l’amore è quella di abbandonarsi ad esso, non nel senso romantico di dedizione ad una potenza che trascende l’intelletto, ma nel senso edonistico settecentesco di consapevole rinuncia a tutto ciò che potrebbe arrecare turbamento. Mari parla di «politica dello struzzo», facendo riferimento ad una modalità diffusa in tutto l’arco del secolo. Cfr. Mari (1988), pp. 120-153. 28 Savioli (1795), p. 8. 29 Savioli (1795), p. 9. 30 Negli esordi della XV epistola ovidiana delle Heroides, la protagonista pronuncia il verbo uror in riferimento alle pene provocate dal sentimento d’amore non corrisposto. La fonte ovidiana è ideale modello di riferimento del romanzo d’esordio di Alessandro Verri, Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene, incentrato su una passione d’amore cogente, fortemente distruttiva per la giovane protagonista della vicenda. Cfr. Cotrone (2014), pp. 47-67. 31 Savioli (1795), p. 27. 32 Cfr., relativamente alla trattazione della tematica amorosa nei poeti elegiaci, Alfonso (1990), pp. 1-37. 27 286 fatentibus ignem. / Saepe tacens vocem, verbaque vultus habet»33). Qui Savioli invita l’amica a ricercare per prima gli occhi dell’amato: Escan sinceri e liberi i tuoi sospir dal core: quegli occhi i miei ricerchino, e in lor gli arresti Amore.34 Tuttavia, in Savioli l’esperienza amorosa non è totalizzante, come per Tibullo e Properzio, è un lusus, come per Ovidio.35 Anche quando, come in questa canzonetta, ottiene il consenso della donna che da tanto tempo rincorre, rimane tranquillo e composto a tal punto che subito ricorda alla dama che egli ha lasciato un’altra donna pronta a darsi a lui: Se te destin contrario dal fianco mio non parte, con pace sia di Venere: lei non invidio a Marte. Me Amor di novo imperio non graverà ch’io creda, egli, che ad altra tolsemi, onde foss’io tua preda.36 Questa raffigurazione dell’amore, istintuale e spensierata, ne esclude ogni possibile serietà e gravitas. L’unica consapevolezza che rimane è la caducità di tutte le cose e quindi anche dell’amore, ma questa non fa altro che dare maggiore risalto alla gioiosa pienezza dell’eros. Il poeta si augura che possa vivere gli ultimi anni della sua vita in compagnia della sua amata. Ancora una volta il pensiero è ovidiano (Amores, I, 3): «tecum, quos dederint annos mihi fila sororum, / vivere contingat teque dolente mori».37 Pochi la Parca indocile anni mi lasci omai; se teco possa io viverli sarò vissuto assai.38 Ovidio (1999a), p. 198 (v. 573). Savioli (1795), p. 28. 35 Anche Tommaso Crudeli, ne L’arte di piacere alle donne (scritta nel 1740, ma edita postuma nel 1762), sostiene che l’amore, per non causare dolore, debba alleggerirsi e sottrarsi a qualsiasi responsabilità fino a diventare ‘divertimento’ («giacché gli uomini sono in società conviene che procurino di goderne. I due cardini sopra i quali si regge il piacere sono l’amicizia, e l’amore»). Cfr. Mari (1988), pp. 40-43. 36 Savioli (1795), pp. 28-29. 37 Ovidio (2008), p. 12 (vv. 17-18). 38 Savioli (1795), p. 29. 33 34 287 Familiari all’elegia antica sono i motivi delle canzonette All’amica che lascia la città e All’amica lontana. Nella prima l’eleganza classica si fonde con il piccolo realismo di salotto: il poeta si lamenta che l’amica, noncurante del suo amore, si allontani dalla città ed è preso da gelosia, la stessa che assale Ovidio e Properzio quando le loro donne sono lontane.39 In Amores, I, 11, Ovidio cerca di convincere l’amica a rinunciare a intraprendere un viaggio per mare, ma, non riuscendo a fermarla, la prega di ricordarsi di lui e le augura che i venti siano propizi: «Vade memor nostri, vento reditura secundo».40 Così Savioli: Qual nova cura estrania, quai pensier gravi e foschi te innanzi tempo guidano della cittate ai boschi?41 [...] Qual è più cieco e livido di gelosia sospetto, lui mio malgrado accogliere dovrò, te lunge, in petto.42 Nell’altra, All’amica lontana, il poeta si dispera a causa della forzata lontananza, dovuta a ragioni di prudenza, e nel suo raffigurare il dolore sul volto dell’amata al momento del distacco è rintracciabile la diretta filiazione nei confronti del gran padre (Amores, I, 7): «Astitit illa amens albo et sine sanguine vultu, / caeduntur Pariis qualia saxa iugis».43 Te chiamo, e i boschi rendono mesti la nuda voce; lenti i miei giorni passano, vola il pensier veloce. Tutto perì: memoria D’esca al desìo soccorre: Ed io potei colpevole L’addio funesto imporre? Vidi il dolor, che pallido A te sul volto uscia, Alle nascenti lagrime Chiudea rossor la via.44 Cfr., al riguardo, Binni (1968b), p. 72. Ovidio (2008), p. 96 (v. 37). 41 Savioli (1795), p. 36. 42 Savioli (1795), p. 38. 43 Ovidio (2008), p. 28, (vv. 51-52). 44 Savioli (1795), pp. 41-42. 39 40 288 Ovidio, in Amores, III, 14, non chiede alla donna di essere casta e fedele, ma gli basta che ella nasconda i suoi tradimenti: «Nec te nostra iubet fieri censura pudicam, / sed tamen ut temptes dissimulare rogat. / Non peccat quaecumque potest peccasse negare / solaque famosam culpa professa facit».45 Allo stesso modo si esprime Savioli46: Oh de’ corrotti secoli tardi esecrato errore! tutte le leggi perano che non impose Amore. Ah! che diss’io? la gloria serba d’intatta fama; tu ‘l déi: di te sollecita risplendi a un tempo, ed ama. Ama; e l’arcano adombrisi d’impenetrabil velo. Così pudiche apparvero Giuno, e Minerva in cielo.47 Ovidio, sul finire dell’elegia I, 2, si augura che l’amata lo chiami a sé: «Hoc habeat scriptum tota tabella «Veni!».48 Anche il nostro poeta, nella quartina finale, rimessi i panni dell’innamorato che si strugge per la mancanza dell’amata, spera che la donna lo inviti presto ad andare: Tu scrivi intanto, e all’animo la speme sua mantieni. Oh i cupid’occhi trovino scritto una volta: Vieni.49 Per la canzonetta All’amica inferma Savioli sceglie il modello ovidiano delle ultime due lettere delle Heroides come ideale punto di riferimento: qui il poeta latino espone la vicenda di Aconzio e Cidippe. La malattia che colpisce la fanciulla si rivela un castigo della dea Diana, essendo Cidippe venuta meno al giuramento, fatto nel tempo di Delo, di sposare Aconzio.50 Nella nostra canzonetta il poeta ci fa credere che la malattia della fanciulla sia una punizione delle Furie – che ora vegliano sulla soglia della porta – per la sua crudeltà in amore. Inutili appaiono i tentativi di cura: l’unica soluzione per sfuggire alla Ovidio (2008), p. 28, (vv. 51-52). Relativamente al tema dell’infedeltà si veda Mari (1988), pp. 140- 143. 47 Savioli (1795), p. 42. 48 Ovidio (2008), p. 46. (v. 24). 49 Savioli (1795), p. 44. 50 Cfr. Ovidio (1999b), pp. 536-561. 45 46 289 morte e al «Tartaro» è sposare il poeta, come sarà costretta a fare la stessa Cidippe: Odi, i momenti volano, odi una volta, e cedi. Ohimè! gli Dii ti perdono se in Esculapio credi. E l’erbe indarno, e i farmachi in tuo favor prepara; tue labbra indarno chieggono la pia corteccia amara. Lasso! una Furia immobile veglia alle porte, e grida; l’altre d’infami aconiti colman la tazza infida. Morte l’offerta vittima impaziente affretta. Trema: il tuo capo, o misera, è sacro alla vendetta.51 […] Altro giurasti: intesero per danno tuo gli Dei. Lo sa Diana. Il Tartaro t’avrà, se mia non sei.52 Nella lirica Alla nudrice Savioli rivolge una serie di scongiuri e imprecazioni all’incorruttibile donna perché gli apra la porta e gli permetta di ricongiungersi con l’amica. Ovidio avanza la stessa richiesta al portinaio in Amores, I, 6. Nell’incipit il poeta latino cerca di ingraziarsi la benevolenza dell’uomo, mostrandogli dapprima il proprio disappunto relativamente alla sua condizione di schiavo, poi puntando sulla sua magrezza, causata dall’amore, che gli consentirà di chiedergli di aprire solo leggermente la porta affinché riesca a passare: Ianitor (indignum) dura religate catena, difficilem moto cardine pande forem. Quod precor exiguum est: aditu fac ianua parvo obliquum capiat semiadaperta latus. Longus amor tales corpus tenuavit in usus aptaque subducto pondere membra dedit.53 Savioli (1795), pp. 89-90. Savioli (1795), p. 90. 53 Ovidio (2008), p. 20 (vv. 1-6). 51 52 290 Savioli, sin da subito, mette in luce l’ostilità dell’anziana donna alle preghiere del poeta innamorato (in Ovidio solo ai vv. 61-62), raffigurato in piedi sulla soglia della porta. La bellezza della fanciulla non merita di perdersi in un lento torpore e questa rigida custodia non è adatta a lei, come non lo è quella del portinaio per la fanciulla ovidiana («Non te formosae decuit servare puellae / limina: sollicito carcere dignus eras»54): E tu pur giaci immobile, tu a’ voti miei nemica sovra le piume tacite posi la guancia antica. Sorgi, che stai? me misero tien la notturna soglia; essa ai miei prieghi cedere non può, se tu nol voglia. Forse all’amata giovane bellezza il ciel concesse, ond’anni freddi in carcere senza amator traesse? Sorgi: disdice a tenera fanciulla aspra nudrice: sì rigida custodia e ad essa, e a te disdice.55 Inoltre, nell’elegia ovidiana l’amata non compare mai e a piangere è l’amante: «Aspice (uti videas, inmitia claustra relaxa!) / uda sit ut lacrimis ianua facta meis».56 Nella canzonetta di Savioli, invece, la fanciulla si affaccia al balcone, piange inconsolabilmente57, tende le braccia all’amante e, ignorando il mal tempo, si precipita verso di lui con il seno scoperto58: Ecco di te dolendosi ella al balcon s’affaccia ella si strugge in lagrime, e tende a me le braccia: Ovidio (2008), p. 24 (vv. 63-64). Savioli (1795), pp. 94-95. 56 Ovidio (2008), p. 22 (vv. 17-18). 57 «[…], le lagrime non sono più sentite e rappresentate come segno di disarmonia, ma all’opposto come elemento di fascino, quasi epifania iridescente della femminilità» (Mari 1988, p. 124). 58 Eludendo la totalità dell’amore, il poeta indugia su particolari che celebrano non tutto l’amore ma un solo gesto (un bacio, una carezza), non tutto il corpo ma solo una parte (il seno, la bocca), distinguendosi così tanto dai poeti d’amore ottocenteschi quanto dai petrarchisti. Cfr. Mari (1988), p. 146. 54 55 291 Né la sgomenta l’impeto di freddo vento, o pioggia, e sulla pietra rigida il nudo seno appoggia.59 Dopo aver speso vane parole, Ovidio minaccia il portinaio di incendiargli la casa («aut ego iam ferroque ignique paratior ipse, / quem face sustineo, tecta superba petam»60). Il nostro poeta, dopo aver riportato i classici esempi di vinti ribelli d’Amore (Fedra, Mirra, Pasifae), augura all’anziana donna che Amore la punisca con una giusta vendetta: Con peggior pena ei cerchiti Amor, se ‘l prendi a gioco, le antiche membra: ei t’agiti con scellerato foco. Nè l’onda tutta estinguere de l’oceano il possa: ardi nud’ombra, ed ardano il cener freddo e l’ossa.61 Nella canzonetta Alla propria immagine il modello è quello ovidiano dell’elegia II, 15. Ovidio si rivolge all’anello inviato in dono all’amante («Anule, formosae digitum vincture puellae, / in quo censendum nil nisi dantis amor, / munus eas gratum; te laeta mente receptum / protinus articulis induat illa suis»62), come Savioli al suo ritratto63: Tu, mentre andrai sollecita alla fanciulla in dono, dirai: nessuno offendami: per la più bella io sono. Vanne al richiesto uffizio per via spedita e breve, né in altra man riposati, che in quella man di neve.64 Savioli (1795), p. 97. Ovidio (2008), p. 24 (vv. 55-56). 61 Savioli (1795), p. 99. 62 Ovidio (2008), p 104 (vv. 1-4). 63 Ricorrente nella lirica erotica settecentesca è la tendenza alla reificazione dell’amore in una serie di oggetti e di segni dei quali ci si serve per sviluppare l’intero discorso amoroso. A differenza di quanto avveniva nella lirica barocca, nella quale si conferiva alle piccole cose un rilievo mitopoietico, gli oggetti della lirica settecentesca divengono mezzi necessari ad esprimere ciò che non è più dicibile se non attraverso l’allusione. Cfr. Mari (1988), p. 135. 64 Savioli (1795), p. 46. 59 60 292 Nella quartina successiva il poeta sottolinea, come fa in più luoghi, la forza d’Amore, in grado di far attraversare all’amante monti, fiumi e altre asperità (come in Amores, I, 9: «ibit in adversos montes duplicataque nimbo / flumina, congestas exteret ille nives»65), dio temuto non solo dagli uomini ma anche dagli altri numi (Ovidio, Heroides, IV: «[…] Amor […] / Regnat, et in dominos jus habet ille deos»66). Amor ti scorga: ei rapido trapassa i monti, e i fiumi: ei regna ovunque; e il temono temuti in terra i Numi.67 Nelle quartine successive Savioli ritrae Corinna piangente per la lontananza dell’amato Nasone con in mano un suo ritratto che le sfugge, indizio dell’amore che la travolge. La stessa situazione immagina possa accadere al suo ritratto: Piangea Corinna i taciti furtivi amor svelati, mentre Nason traevano al freddo Ponto i fati; E la rimasta immagine dell’amator lontano cadde all’afflitta giovane dalla smarrita mano. Cadi tu pure. Indizio sarà che tu sei cara. Non dee tua sorte increscere, non dee parerti amara. Quai te ripari aspettano della sventura avuta! Ben puossi a prezzo simile Comprar la tua caduta.68 Ovidio prova una profonda invidia verso il suo anello a tal punto da volersi identificare con esso («Felix a domina tractaberis, anule, nostra: / invideo doni iam miser ipse meis. / O utinam fieri subito mea munera possem / artibus Aeaeae Carpathiive senis!»69), mentre Savioli si rivolge quasi narcisisticamente al suo ritratto, sottolineando l’impossibilità che la donna si stanchi d’ammirarlo: Gli occhi da te rimovere pur cercherà talora, Ovidio (2008), p. 38 (vv. 11-12). Ovidio (1999b), p. 384 (vv. 11-12). 67 Ovidio (2008), p. 38 (vv. 11-12). 68 Savioli (1795), pp. 47-48. 69 Ovidio (2008), p. 104 (vv. 7-10). 65 66 293 poi di mirar non sazia vorrà mirarti ancora.70 Savioli conclude la canzonetta riprendendo due vicende tratte dal mito, come frequentemente accade nell’opera, mentre Ovidio con un addio conforme all’intera elegia («[…] Parvum proficiscere manus: / illa datam tecum sentiat esse fidem»71): Salmace ardita Najade là nel paterno rivo non strinse a sen più candido il giovin freddo e schivo. Nasso cagion di lagrime più bianco sen non vide, poiché Teseo portarono le sorde vele infide.72 A differenza di Ovidio che compone un’elegia contro l’Aurora che si leva presto a disturbare gli amanti (Amores, I, 13: «Iam super oceanum venit a seniore marito / flava pruinoso quae vehit axe diem. / […] / Quo properas ingrata viris, ingrata puellis?»73), Savioli le dedica una canzonetta – che disegna con immagini ricche di grazia figurativa – perché con i suoi raggi fa cedere l’amata, mossa a pietà, quando lo vede pallido e supplicante74: Sorgi aspettata: il roseo destriero alato imbriglia: stanca è la notte e pallidi son gli astri, o Dea vermiglia.75 […] Tu al scintillar di Fosforo uscivi intanto, o Dea, e un raggio tuo sollecito sul mio dolor splendea. Mi vide, e allo spettacolo impallidì la fera: pietate e orror sorpresero l’alma ostinata, altera. Tre volte i labbri schiudere Savioli (1795), p. 48. Ovidio (2008), p. 106 (vv. 27-28). 72 Savioli (1795), p. 49. 73 Ovidio (2008), p. 50 (vv. 1-2, 9). 74 Cfr. Levi-Malvano (1908), pp. 112-113: la stessa idea ha Dorat in Les baisers; si veda, al riguardo, Savoca (1973), pp. 354-356. 75 Savioli (1795), p. 106. 70 71 294 e cominciar le piacque; tre sospirò; scendeano i pianti in copia, e tacque.76 Nella canzonetta La Solitudine Savioli rimpiange i tempi antichi di cui invidia semplicità e ingenuità e ricorda con nostalgia la pace dei boschi e le fanciulle che concedono il loro amore solo a coloro che combattono valorosamente per la patria. Di qui l’invito a lasciare la città, dominata da fasto, apparenze e inganno, e a privilegiare la solitudine della campagna: Chi v’ha rapito, o secoli degni d’eterna lode? Tutto svanì. Trionfano Fasto, avarizia, e frode. Fuggiamo, o cara, involati dalla città fallace: meco ne’ boschi annidati, chè sol ne’ boschi è pace.77 […] Vieni: te vuoti aspettano da cure i dì beati: te pure notti e placide, madri di sogni aurati.78 Ovidio, in Amores, II, 16, descrive dettagliatamente il suo paese natale al fine di invogliare la donna a raggiungerlo: Pars me Sulmo tenet Paeligni tertia ruris, parva, sed inriguis ora salubris aquis. Sol licet admoto tellurem sidere findat et micet Icarii stella proterva canis, arva pererrantur Paeligna liquentibus undis et viret in tenero fertilis herba solo. Terra ferax Cereris multoque feracior uvis, dat quoque baciferam Pallada rarus ager perque resurgentes rivis labentibus herbas gramineus madidam caespes obumbrat humum.79 Nella canzonetta Il teatro80, parallela ad Amores, III, 2 e ai vv. 135-164 del primo libro dell’Ars amatoria, il poeta si trova immerso in un quadretto di vita galante nella società italiana del Settecento, come Ovidio nella fastosa società romana sotto Augusto. Già a partire dalla seconda quartina, nella quale il nostro poeta Savioli (1795), p. 108. Savioli (1795), pp. 17-18. 78 Savioli (1795), p. 20. 79 Ovidio (2008), p. 106 (vv. 1-10). 80 Cfr., al riguardo, Giornale letterario (1798), pp. 16-29. 76 77 295 invita la donna a curare il proprio aspetto senza affrettarsi, si snoda un mosaico di riprese ovidiane: Componi i crini: adornati, e il fido specchio ascolta: non t’affrettar; sollecita esser non dei, ma colta.81 Così Ovidio nell’elegia I, 7: «pone recompositas in statione comas»82; riguardo l’importanza di ‘consultare’ lo specchio prima di uscire, il poeta latino si esprime nell’Ars amatoria: «Nec genus ornatus unum est: quod quamque decebit, / elegat et speculum consulat ante suum»83; infine, gli ultimi due versi sottendono tale riflessione presente nei Remedia amoris (v. 343): «Auferimur cultu; gemmis auroque teguntur / omnia; pars minima est ipsa puella sui».84 Entrambi i poeti si recano a teatro per corteggiare le loro amate: Ovidio siede accanto alla fanciulla («ut loquerer tecum veni tecumque sederem»85), Savioli di fronte («[…]; io sederotti in faccia»86). Il poeta latino, in Amores, III, 2, parla in prima persona, volendo rendere partecipe il suo lettore, e utilizza il circo solo come mezzo per sedurre l’amata; nell’Ars (I, vv. 90-162), invece, indirizza al lettore consigli su come conquistare una donna a teatro.87 Nella sua canzonetta Savioli si rivolge direttamente alla sua donna, suggerendole il galateo da osservare, un codice di comportamento che gli è dettato da amore e gelosia: Rendi i saluti: il vogliono giustizia e cortesia; ma il tuo saluto augurio felice altrui non sia. Abuso i baci or tollera sulla femminea mano. Chiesta una volta ottengasi: si chieggia un’altra invano. Né ai baci, o freddi o fervidi, riso gentil risponda; e loderà che l’invido guanto le mani asconda. Se mai, che i Dii nol soffrano Savioli (1795), p. 50. Ovidio (2008), p. 30 (v. 68). 83 Ovidio (1999a), p. 264 (vv. 135-136). 84 Ovidio (1999c), p. 332 (vv. 343-344). 85 Ovidio (2008), p. 126 (v. 3). 86 Savioli (1795), p. 51. 87 Cfr. Ovidio (1999a), pp. 170-175. 81 82 296 vicino alcun ti siede, le vesti tue nol coprano, e a te raccogli il piede.88 Savioli veste i panni di praeceptor anche nella canzonetta All’Ancella, così come Ovidio rivolgendosi a Bagoo, custode della sua amata in Amores II, 2 («Quem penes est dominam servandi cura, Bagoa, / dum perago tecum pauca, sed apta, vaca»89). Così Savioli nella prima quartina: Poiché a carriera insolita tu movi i passi incerti, io guida volontaria mi t’offro: odimi, e avverti.90 Le Fortune è una lirica piena di scetticismo in cui passato e presente, mito e seduzione si fondono attraverso un linguaggio caratterizzato da equilibrio e morbida musicalità. Il poeta vuole rendere nota la sua fortuna con le donne perché sa che è un forte strumento di seduzione. La configurazione del poeta come desultor amoris si ritrova in due elegie ovidiane (Amores, I, 3; II, 4). Nel carme I, 3 Ovidio tratteggia il personaggio convenzionale dell’innamorato, schiavo d’Amore, votato alla fedeltà sempiterna verso un’unica donna, con lo scopo di conquistare l’amata. L’augurio finale rivolto alla propria donna di poter godere della stessa fama che ebbero Io, Leda ed Europa consente di istituire un parallelo tra il poeta e Giove, unico loro amante, desultor amoris per eccellenza.91 Nell’elegia II, 4 il poeta latino non ricorre più al lusus letterario, ma confessa l’impossibilità di resistere al fascino femminile («denique quas tota quisquam probat Urbe puellas, / noster in has omnis ambitiosus amor»92). Savioli, come Ovidio nell’elegia I, 3, vuole ottenere l’amore della donna e le ricorda come vano sia il tentativo di sottrarsi al volere della dea Venere: Invan t’opponi: a Venere i voti miei fur cari; pace l’udii promettere dagli abbracciati altari. Pietosa Dea di lagrime bagnò le offerte rose, e della mia vittoria la cura al figlio impose. Savioli (1795), pp. 53-54. Ovidio (2008), p. 66 (vv. 1-2). 90 Savioli (1795), p. 62. 91 Cfr., relativamente alla configurazione del poeta come desultor amoris, Dimundo (2000); Colafrancesco (2004). 92 Ovidio (2008), p. 74 (vv. 47-48). 88 89 297 Cedi: timor consigliano le conosciute prove. Chi puote a lui resistere, se la sua madre il move?93 Dopo aver narrato le sue avventure amorose, come già fatto da Ovidio nell’elegia II, 4, Savioli conclude sottolineando la sua prudenza di uomo di mondo che gli consente di evitare scandali e scenate: Non precedeva i rapidi piacer la giusta pena, i brevi dì bastavano alle conquiste appena. De’ miei trionfi il numero vidi, e noiarmi osai: timore al cor m’indussero d’Orfeo la sorte e i guai. [...] Ma i tempi nostri ispirano consigli assai più miti, e un novo amor le vendica de’ vecchi amor traditi.94 Nell’ultima quartina il poeta ricorre al topos dello sguardo come veicolo di comunicazione più efficace della parola, che ritroviamo anche nei versi finali dell’elegia ovidiana III, 2 («Risit et argutis quiddam promisit ocellis»95): Per quel color purpureo che il tuo bel viso ha tinto, per gli occhi tuoi, che languidi.... Ma tu sorridi? Ho vinto.96 Ovidio e Savioli, fedeli servitori d’Amore, giocosi amatori di sensi, raffinati compositori di graziose amenità e leggeri turbamenti – come si è avuto modo di constatare in questo parziale confronto che prende avvio dalle riflessioni di E. Levi Malvano97 – cantarono i loro Amori conformandosi al proprio tempo. Leggendo, traducendo, commentando gli Amores, Savioli – contrariamente a quanto afferma Croce98 – conforma con inimitabile delicatezza il proprio modo Savioli (1795), p. 84. Savioli (1795), pp. 87-88. 95 Ovidio (2008), p. 132 (v. 83). 96 Savioli (1795), p. 88. 97 Cfr. Levi-Malvano (1908). Circa il confronto tra Ovidio e Savioli si veda Antologia Romana (1796-1797). 98 Croce (1944), p. 75: «invocare Ovidio come gran padre, chiamare maestre le sue pagine, e, segnatamente, difficile la sua arte, è un po’ troppo, e fa pensare che questi versi non siano molto pensati». 93 94 298 di pensare a quello del suo gran padre e, adattandolo alla vezzosa galanteria settecentesca, dà vita a componimenti che per la loro grazia, per la schiettezza dei sentimenti, per la soave musicalità possono legittimamente essere annoverati fra i migliori esempi di poesia settecentesca.99 Isabella Procacci Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” isabella.procacci@uniba.it 99 Sulla fortuna critica di Savioli si veda Benedetti (2014), pp. 608-642. 299 Riferimenti bibliografici Accorsi (1999) Maria Grazia Accorsi, Pastori e teatro. Poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi, 1999. 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We went on to illustrate the arrival of Savioli to the Ovidian elegies and his attempts to translate and adapt them to his times. In the face of the aforementioned comparison, we have noted an extraordinary Saviolian capability to adapt his line of thought to that of Ovid, with a unique refinement, grace and musicality. Parole-chiave: Ovidio; Savioli; Amori; poesia; filiazione. 305 MOHAMMED SALAH, Guareschi e le sentinelle del progresso Uno degli argomenti che hanno interessato molto il nostro autore e l'hanno fatto meditare lungamente è stato quello del progresso, quel progresso materiale cioè che si è avviato lentamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per procedere dopo a passi veloci, avvolgendo tutti gli aspetti della vita. Il passaggio da un tipo di vita all'altro segna senza nessun dubbio tanti cambiamenti nel modo di vivere e di solito di pensare della gente. Tali cambiamenti possono anche toccare elementi che certe persone considerano dei principi saldi da conservare, come per esempio, la famiglia, la religione, con tutti i concetti concernenti. Lo scrittore, vissute appieno le condizioni della sua nazione, capiva fino in fondo la portata di quei cambiamenti, il che lo spinse ad analizzarli, mettendoli al setaccio dei suoi principi, per capire quali sarebbero stati soprattutto pericolosi e, quindi, da combattere per scansare il loro danno e quali potevano far bene alla società. Guareschi, sempre in trincea fin dal 1942, sembrava che non riuscisse mai ad uscirne e, finita la prigionia in Germania, continuò a combattere la sua lotta a favore dei valori umanitari in cui credette per tutelare almeno le essenziali fondamenta perché la società continuasse a reggersi in piedi: Dio, Patria, Famiglia. Guareschi denunciava due essenziali aspetti del progresso e non il progresso in quanto tale. Il primo è quello dell'affrettarsi a materializzare la vita delle persone, facendo della macchina il mito di tale vita, il che la rendeva frenetica, cupa e opprimente. Analizzando le idee dello scrittore, vediamo come lui, da sempre, è contro tutto quello che rendeva complessa la vita della gente in modo da stordirla e distrarla dalla missione spirituale che doveva promuovere. Questa nuova distrazione avrebbe sconvolto veramente la vita della gente facendola deviarsi dalla vita normale, vissuta per i valori da conservare e non per consumare quanto le viene preparato di bello e nuovo e ciò che preoccupava lo scrittore. Leggendo le parole di Walter Muto che parla di tale preoccupazione, quasi avverata, vediamo quanto lo scrittore è stato profetico parlando del progresso in atto: «Questa tendenza prepara pericolosamente il terreno a una generazione che cancellerà la presenza di Dio e del trascendente, e che diventerà perciò facile preda della televisione e del consumismo, la nuova religione. Vedendo, quarant'anni dopo, l'affollamento dei 306 centri commerciali la domenica mattina si comprende quanto Giovannino fosse avanti con la sua visuale, quanto intuisse le conseguenze da quei primi sintomi». 1 Lo scrittore si sentiva arrabbiato quando vedeva che tutta la produzione del progresso con tutti i suoi mezzi che si facevano sempre più giganteschi, furono rivolti a complicare la vita dell'uomo semplice che, in una vignetta di Guareschi, stordito dalle complicazioni della segnaletica stradale, fu costretto a scegliere la strada del manicomio di Colorno come unica via d'uscita! Guareschi, dalla fede salda, spiegò comunque che l'eccessivo progresso avrebbe guidato a una presa di coscienza da parte dell'uomo della sua totale incapacità di varcare i limiti, prestabiliti da Dio e che lui stesso avrebbe rinunciato a questa vita fatta complicata con le sue stesse mani: «Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno, quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico, e allora l’uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull’infinito, e nell’infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita. E odierà le macchine che hanno ridotto il mondo a una manciata di numeri e le distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà del tempo ancora, don Camillo».2 Su un altro versante, si deve esaminare la posizione di Guareschi nei confronti del conformismo o dell'anticonformismo, che si trova in stretto rapporto con quello del progresso. Guareschi sta molto attento, infatti, a questa nozione del conformismo per non essere lusingato dai suoi intrighi, perché esso non significa sempre la conservazione dei valori del passato, ma ormai è confuso con la conservazione di quei valori, quei componenti, che costituiscono i principi reggenti di un regime o di una cultura che vorrebbe diffondersi o essere egemone su una determinata società. Capendo bene questo, potremmo identificare la posizione di Guareschi nei confronti di questa importante idea che occupa sempre largo spazio nel dibattito culturale di qualsiasi epoca. Guareschi, vivendo pienamente quanto si correva in quel periodo, cerca di posizionarsi in modo da favorire sia la conservazione dei valori del passato sia il rifiuto, se non la denuncia delle nuove concezioni che volevano ergersi da unici valori della società sorpassando quelli ‘vecchi’, il che avrebbe favorito il pensiero unico, il ‘collettivismo’: «Guareschi si accorge della nascita della forma forse peggiore, più greve e più intollerabile di conformismo: spaventoso, becero, pesante, rozzo. Il «pensiero unico» delle sinistre negli anni del «cattocomunismo». Basta prendere in mano i testi scolastici di storia per capire cos'era questo conformismo. Nessun paese civile al mondo ha avuto libri di storia menzogneri, largamente falsi e spesso copiati l'uno dall'altro come l'Italia. Quando Guareschi si accorge di tutto ciò, è naturale che anche lui divenga anticonformista. Al riguardo amava dire: «Sono un reazionario». Scriveva sul 1 2 Muto (2012), p. 118. Guareschi (1955), pp. 220-221. 307 «Candido» dell'epoca: «Sono un reazionario perché mi oppongo al progresso e voglio far rivivere le cose del passato».3 Questa posizione di Guareschi lo porterà ad adottare una altra via, lontana sia dal conformismo che dall’anticonformismo, per schierarsi a favore della tradizione che non significa altro che "portare avanti". Spiega questo concetto Gianfranco Morra: «Guareschi veste l'abito dell'anticonformista. Ma sa che troppo spesso l'anticonformismo è solo un conformismo rovesciato. La vera antitesi del conformismo non è l'anticonformismo, ma il recupero della tradizione. Il termine tradizione, proibito per trent'anni, -guai a usare questa parola! da dove deriva? Dal latino. E il latino tradere che cosa vuol dire? Significa guardare indietro? No, al contrario significa portare avanti. Ma non si porta avanti qualcosa se non sulla base di qualcosa che preesiste. Questa è la posizione di Guareschi». 4 Questa opinione sull'importanza di portare avanti ciò che ha costituito finora la propria ricchezza, il proprio bagaglio morale, viene affermato da un'altra critica che, alla luce della sua lettura della narrativa di Guareschi, può estrarne quanto c'è di originale, lontano da approssimazioni culturali che non hanno a che fare con l'opera, nonché con la vita dello scrittore emiliano. Scrive Daniela Marchesi infatti: «Tutto questo grazie a una convinzione semplicissima: proprio perché il progresso oggi viaggia così veloce, occorre investire sul passato. Ecco qual è stata l’autentica operazione d’avanguardia di Guareschi: investire sul passato. Che non è un’operazione inerte, ma una scommessa sul futuro. Il rischio è altissimo, e Guareschi ne ha pagato il prezzo nella vita come nell’opera. L’esperienza del lager prima, la galera postbellica per la nota accusa a De Gasperi poi, hanno fatto il resto».5 Guareschi vide che il progresso ha trascinato con sé infatti tante delle pessime abitudini che costituirono da una parte le fondamenta di tale progresso e il suo perno reggente, ma, d'altra parte, le sue disgrazie contro l'uomo nonché tutta l'umanità. Il progresso appena nato si è presto sposato con il potere e il capitalismo in molti paesi, il che ne ha fatto uno strumento per controllare i popoli, “la massa”, al fine di assicurare l'evoluzione nonché l'eternità di questi regimi politico- economici. Uno delle facce più svelate della strumentalizzazione del progresso da parte del capitalismo e del potere fu il consumismo che veniva man mano insinuandosi nelle vene della gente per prendere il posto e l'importanza dell'ossigeno, cioè di qualsiasi altra cosa più importante e necessaria in verità per la vita della gente e lo sviluppo etico e spirituale delle società. Così Morra (2003), p. 45. Ibidem. 5 Marcheschi (2009), p. 67. 3 4 308 la società evoluta diventò subito il sinonimo della città dei consumi, i cui membri sono tormentati dall'ossessione di avere questo e quest'altro prodotto per sentirsi appagati, un sentimento che non arriva quasi mai perché le sentinelle del consumismo sono sempre pronte con i loro nuovi prodotti. Così il povero uomo della società “progredita” è sempre in cerca di nuove comodità senza nemmeno pensare quanto ci mette di fatica e perdita dei propri giorni per procurarsi una stufa o un'aspirapolvere, il che gli ruba ogni felicità, finché non gli rubi la vita stessa. Qua lo scrittore ci insegna che la maggior parte di tali bisogni, ma fasulli, creati proprio per non lasciar nessun spazio all'uomo a pensare ad altro che quello che gli viene dettato. E il consumismo qua si serve della maggiore invenzione del progresso per coinvolgere tutti quanti, cioè la Tv. La Tv con le sue pratiche potenti assume questo ruolo per manipolare il pensiero del bersaglio come ce lo spiegò molto precocemente Guareschi: «La pubblicità martellante impedisce la libera scelta dell'individuo. La letteratura, il cinema, la stampa, il teatro, la musica leggera, tutti marcianti sul binario del conformismo, hanno portato via all'uomo tutto il suo tempo libero. Unica scappatoia erano i cosiddetti hobbies. Ma, con la civiltà dei consumi, gli hobbies sono diventati investimento, speculazione».6 Guareschi cercò da sempre di smascherare la strategia con cui l'appena nascente mezzo mediatico, controllato da quelli del "progresso", avrebbe controllato gli umori delle persone per insinuare le proprie idee: «La TV col suo incessante martellare, condito con piacevoli musichette e divertenti spettacoli di varietà, crea nelle famiglie problemi, bisogni o, addirittura, necessità praticamente inesistenti. Così come crea dal nulla dei valori e degli idoli. Crea una mentalità, un costume, un linguaggio. Per la TV, il «telespettatore- campione» è il più «depresso» tanto che il motto della TV potrebbe essere: «Camminate col passo del più lento per essere seguiti da tutti». Di qui il successo smisurato della TV: col risultato trascinato al livello del tonto. Quindi generale abbassamento del livello intellettuale e spirituale della massa».7 La televisione, nel suo scopo di controllare i cervelli della gente, a favore dei padroni del progresso, spezza anche i rapporti familiari e ostacola quindi il tramandamento delle esperienze fra le generazioni e proprio questo è uno degli svantaggi più pericolosi del nuovo mezzo di media come lo spiega Lugaresi, citando le parole di Guareschi: «Ce n’è anche per la televisione, che “insinua nelle case e crea una cortina d’acciaio fra i componenti della famiglia [...]” E anche qui la denuncia guareschiana nasceva in tempi non sospetti. Lo scrittore aveva già previsto i guasti della televisione, che, 6 7 Guareschi (1993), p. 635. Ivi, p. 634. 309 veramente, e oggi lo constatiamo più che mai (anche Papa Giovanni Paolo II lo aveva sottolineato ai suoi tempi), è elemento di disunione della famiglia. La quale, quando si trova, per esempio, a tavola, un tempo, luogo e occasione di conversari, scambio di esperienze e di opinioni, rivolge le proprie attenzioni a quell’apparecchio, chiusa in un mutismo deprimente, ma eloquente di un modo di stare (o meglio, di non stare) insieme... ».8 In questo ambito che si deve collocare l'emarginazione praticata nei confronti di Guareschi, una voce indesiderabile, perché osava parlare di tutto quello che certa gente non voleva ascoltare. Lo chiarisce meglio Montanelli: «È stato veramente un grande soldato della libertà e nessuno glielo volle riconoscere, nessuno, perché questo è un Paese di pecore, che stanno sempre o in un gregge o in un altro, ma sempre in un gregge. E quindi non possono ammettere né concepire che ci sia qualcuno che nel gregge non ci sta. Ecco, questo dovevo dire di Guareschi».9 In una società come quella dell'Italia del dopoguerra, della "ricostruzione", andava molto, per alcuni, tappare le bocche a certe persone, quelle cioè che osavano parlare del male verso cui stava correndo, trascinando con sé tutti, il ceto dominante. Creando dei desideri fasulli e spargendo la paura di pericoli inesistenti era in verità il più efficace strumento usato per controllare i cervelli e, quindi, le sorti della gente cui era assegnato solamente il compito di "obbedir tacendo". E sono veramente questi gli strumenti più usati finora per realizzare comodamente gli stessi scopi, malgrado il livello sempre più alto di coscienza, raggiunto dalla gente. Qua si ricorda di George Orwell e la sua profezia, nel suo romanzo 1986, sul modo con cui i poteri tenderanno a controllare i loro popoli. Una veloce occhiata a questo romanzo basta per spiegarci come lo scrittore emiliano è stato molto abile nel prevedere quanto preparavano i detentori del potere mondiale per controllare tutto il mondo. E forse per questo che tanti tentarono tutto per zittire Guareschi, come spiega Guido Conti: «Lotta contro le potenti lobby dei partiti che lo vogliono zitto, contro la politica affarona e spregiudicata che in cambio del benessere e della ricchezza ha barattato valori religiosi e secolari del mondo contadino, riducendo l'uomo a semplice consumatore e il paesaggio di questo meraviglioso Paese a uno scarico industriale».10 Guareschi capì fino in fondo che l'uomo della società, detta moderna, beneficiario di tutti i prodotti del progresso, non è libero veramente, al contrario il progresso gli ha sottratto qualsiasi tipo di scelta personale legandolo, attraverso il giogo del consumismo, alle sorti di tutti gli altri. Guareschi ne evidenziò la sostanza e il pericolo ricorrente: Lugaresi (2002), pp. 133-134. Montanelli (2002), p. 182. 10 Conti (2008), p. 6. 8 9 310 «La società dei consumi, grazie a una organizzazione politico- pubblicitaria di terrificante potenza, ha creato bisogni e necessità fasullissimi che rubano all'individuo ogni tempo libero. Non esiste libertà nella società dei consumi, che concede all'individuo la sola libertà di fare ciò che fanno tutti gli altri. Per me tempo libero significa andarmene da solo a spasso lungo la riva d'un fosso in primavera, girar di notte, in compagnia di qualche vecchio amico, per la città deserta. Tempo libero è sfogliare le vecchie raccolte della Domenica del Corriere ripassando la propria vita, o andando a caccia dei ricordi o dei pensieri annidati fra le pagine ingiallite. O semplicemente pensare. Pensare al passato e all'avvenire. Riempire lo zaino nella riserva spirituale del passato e, saltati sul cavallo della fantasia, galoppare verso l'avvenire».11 Quell’atteggiamento di mettere le mani sull’uomo in tutti i suoi casi e momenti, quell’atteggiamento cioè di controllare l’uomo ha la cattiva conseguenza, secondo Guareschi, di uccidere, diciamolo così, l'intraprendenza, l'iniziativa personale, la volontà di ogni persona di agire e fare solamente quello che gli piace veramente e lo trova idoneo senza dettami da terzi. Così volendo, secondo Guareschi, il suddetto progresso distruggeva il significato stesso della vita, creando solamente delle esemplari mummie che imitano ma non creano. Alle lettere al postero, Guareschi spiegò quel suo parere: «Sono un reazionario, postero mio diletto, perché mi oppongo al progresso e voglio far rivivere le cose del passato. Ma un reazionario molto relativo, perché il vero bieco reazionario è chi, in nome del progresso e dell’uguaglianza sociale, vuole farci retrocedere fino alla selvaggia era delle caverne e poter così dominare una massa di bruti progrediti ma incivili».12 Ciò che indusse veramente lo scrittore della Bassa a scrivere e trattare così profondamente tali idee, fu la sua volontà, sempre forte, a difendere la libertà personale che si considera veramente un filo conduttore dell'opera guareschiana. Già sul «Candido», n. 5, del 30 gennaio 1949, parlando dell'uomo nella società "del progresso", scrisse: «Egli non sfruttava la società: non aveva accettato niente del sudicio progresso: aveva accettato soltanto quello che Dio diede all'uomo: la libertà e la fede. Perché doveva essere uomo di gran fede se trovava di che rallegrarsi in questa sua meravigliosa povertà. Adesso la civiltà lo ha "catturato": doveva diventare cattivo, ipocrita, bestemmiatore. Dovrà odiare, dovrà lottare col suo simile per arraffare un pezzo di pane. Dovrà uccidere, se la civiltà lo vuole. Dovrà rovinarsi lo stomaco e avvelenarsi il sangue. Dovrà iscriversi a un sindacato, girare con cartelli in spalla, scioperare. Dicono i giornali che Attilio Rizzo assomigliava a una bestia. Invece, più di tutti gli altri assomigliava a un uomo».13 Guareschi (1993), p. 635. Guareschi (1949)², p. 14. 13 Guareschi (1949)¹, p. 4. 11 12 311 Queste stesse idee dello scrittore emiliano venivano esposte anche da altri scrittori e pensatori dell'epoca che provavano lo stesso sentimento di Guareschi nei confronti dell'egemone progresso con i suoi vari strumenti. Romano Guardini, filosofo e teologo tedesco, scrive: «Ho l’impressione che il nostro patrimonio sia stato preso tra gli ingranaggi di una macchina mostruosa capace di triturare tutto. Diventiamo poveri, sempre più poveri! (...) Devastate le cose, le parole, le forme. Rovinati anche gli uomini».14 Con i suoi sforzi di smascherare le insidie del cosiddetto progresso, Guareschi vuole soprattutto difendere quelle che lui considera le fondamenta della società, cioè Dio, patria, Famiglia. Lo scrittore vede che tali fondamenta sono in pericolo a causa del “finto” progresso e la cultura del consumismo che spinse la donna a lavorare per appagare dei bisogni fasulli, sempre più crescenti, il che rende vuoto il focolare familiare in cui da una parte i bimbi ricevono una educazione debole per la mancanza da casa per tanto tempo di entrambi i genitori e influenza la crescita demografica perché non si vuole tanto di fare bambini. Analizzando un po’ i dati sulle nascite in Italia e sul modo con cui vengono educati i bambini, si capisce quanto abbia potuto prevedere lo scrittore le conseguenze di una simile cultura. Anche la Chiesa, la vita spirituale dell’uomo, all’era del progresso materiale, è presa di mira. La chiesa, una volta modificata e "aggiornata" ai bisogni della vita frenetica del progresso, verrà a mancare alla sua funzione spirituale. Questo argomento ha ricevuto molto interesse da parte dello scrittore della Bassa, che cercava di smascherare i tentativi continui e potenti del nuovo potere politico- economico nel paese di corrompere la Chiesa dentro la quale, purtroppo, c'erano veramente coloro che hanno accettato o, lusingati dal progresso e da possibili occasioni di usufruirsene a favore della fede, ci sono cascati promuovendo la tesi che ha finito con il Compromesso storico con tutti i suoi antecedenti e precedenti conseguenze sulla fede cristiana. Guareschi esaminò tale idea in tanti dei suoi racconti. Ne spiega il concetto Alessandro Gnocchi: «Aprirsi senza riserve a una cultura simile, diceva lo scrittore emiliano, significava perdere vecchi fedeli senza imbarcarne di nuovi. Lo faceva ripetere mille volte da don Camillo al testardo don Chichì. L'unica via possibile al dialogo col mondo moderno era quella di rafforzare l'identità cristiana. Era quella di mostrare che criticare quest'epoca e la sua cultura non significava chiudersi al mondo e all'uomo. Che, anzi, era l'unico 14 Gnocchi (1998), p. 20. 312 modo di salvarli. Essere antimoderni diveniva l'atto d'amore più grande per l'uomo di oggi e per il suo mondo».15 Quello che avvertiva Guareschi fu appunto l'inadeguatezza del progresso con i comandamenti della Chiesa, perché quest'ultima richiede il rinuncio a una parte della propria comodità personale, a una parte del benessere e della vita agiata a favore della propria tranquillità spirituale e sembrava che molti non fossero disposti a farlo. Appunto per questo motivo che lo scrittore della Bassa voleva mettere in guardia sia la Chiesa di aggrapparsi alle sue fonti e non lasciarsi trascinare dalle correnti della sinistra, sia la società di ragionare di più sui vari aspetti del progresso e di accettare solamente quelli che sono in sintonia con gli eterni valori della società. Lo riassume in infatti don Camillo con questa frase emblematica: «Lei, invece, non ha capito che il suo "progresso" ha preso il posto di Dio nell'anima di troppa gente e il demonio, quando passa nelle strade degli uomini, non lascia più puzza di zolfo ma di benzina. E che il Pater noster non dovrebbe più dire "liberaci dal male" ma "liberaci dal benessere"».16 Guareschi voleva chiarire come la Chiesa cattolica è caduta nella palude della artificiosità, dell'ipocrisia e si interessava quasi solamente delle apparenze. Questo rifletteva la crisi spirituale che si stava allora allargando in Europa e che cresceva con la diffusione del progresso. Egli ci raccontò quell'episodio sull'altare e il crocifisso cui teneva molto don Camillo, che, cacciati fuori prima per ordine del Vescovo in rispetto del cosiddetto aggiornamento della Chiesa, un giorno arrivò il vice vescovo in persona alla canonica per intimare il loro immediato rientro. Vediamone il motivo: «Reverendo, lei, dunque, non si stanca di combinare dei guai! Dove sono il Cristo e l'altare di cui parlano i giornali? «Voi ci avete ordinato di rimuovere tutto e tutto è stato rimosso» rispose don Camillo con calma. «Anzi, doppoiché noi non eseguivamo i vostri ordini con sufficiente sollecitudine, ci avete mandato un commissario politico per accelerare le operazioni.» «Lei doveva farci presente che si trattava d'una importante opera d'arte!» obiettò il segretario. «Non lo sapevamo né potevamo nemmeno sospettarlo, data la nostra profonda ignoranza di povero parroco di campagna. A ogni buon conto, abbiamo messo al sicuro altare e crocifisso.» «Meno male!» si rallegrò il segretario. «Ricuperi immediatamente altare e crocifisso. Li imballi con estrema cura e, non appena sarà tutto pronto, ci telefoni. Provvederemo a venire a ritirarli per portarli in vescovado dove troveranno degna sistemazione.» Don Camillo abbassò il capo in segno di obbedienza.17 Ivi, p. 290. Guareschi (2001), pp. 97- 98. 17 Ivi, p. 100. 15 16 313 Anche se, al primo sguardo, si potrebbe capire che Guareschi è pro o contro lo sgombro dell'altare e del crocifisso dalla chiesa, però quando arriva la voce del Cristo, si capisce che Guareschi crede in fondo che tutto questo dibattito riguardante cose simili sia purtroppo i primi sintomi di tale crisi spirituale che induce all'aggrapparsi a quello o quell'altro arnese. Ecco come ce lo spiega la voce della coscienza guareschiana: «Signore» replicò umilmente don Camillo «però sono la tradizione, il ricordo, il sentimento, la poesia.» «Tutte bellissime cose che non hanno niente a che vedere con la fede. Don Camillo: tu ami queste cose perché ricordano il tuo passato, e perciò le senti tue, quasi parte di te. La vera umiltà è rinunciare alle cose che più si amano.» Don Camillo chinò il capo e disse: «Obbedisco, signore». Ma il Cristo sorrise perché leggeva nel cuore di don Camillo.18 Uno delle maggiori sfide a cui fu costretta a sottoporsi la Chiesa fu la questione del cosiddetto "Concilio" che prevedeva l'aggiornamento della chiesa per volontà delle nuove esigenze della società del progresso, il che implicava l'adeguarsi che significava senz'altro venire meno ad alcuni principi basilari della fede anche se questo sarebbe dovuto succedere nell'arco di non pochi anni. Guareschi previde quanto sarebbe successo al Concilio Vaticano II con vari articoli su «Candido», pubblicati nel 1954, esprimendo coraggiosamente il suo parere a proposito. Analizza tale parere Muto: «Già qui è chiaro il punto di vista di Guareschi, che come sempre si esprime attraverso la voce del Cristo che parla a don Camillo. E la visuale di Guareschi è semplice: l'aggiornamento è impossibile, anzi, pernicioso. Adeguare il metodo ai tempi porta fuori strada, annacqua l'annuncio, confonde il messaggio di Cristo, che invece è semplice e per tutti».19 Lo stesso Paolo VI che diede il via libera al Concilio, espresse questo parere dello scrittore della Bassa, annotando allo stesso tempo la perdita di importanza della Chiesa nella società: [Sembra che] da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. Non ci si fida più della Chiesa, ci si fida del primo profano che viene a parlarci da qualche giornale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita [...] Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l'ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli.20 Ivi, p. 16. Muto (2012), p. 106. 20 Papa Paolo VI (1972). 18 19 314 Salah Mohammed salah_moh@yahoo.com 315 Riferimenti bibliogafici AA.VV., Atti del convegno «Mondo piccolo», grande schermo. La fortuna internazionale di Giovannino Guareschi tra cinema e letteratura, a cura di Enrico Mannucci e Paolo Mereghetti, Milano, organizzato dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 22 settembre 2009. AA.VV., “Il «Mondo piccolo»” Un paesaggio d’autore: Fontanelle, Guareschi, Faraboli, catalogo del Museo omonimo di Fontanelle, Parma, MUP Editore, 2008, info@mupeditore.it. Conti (2008) Guido Conti, Giovannino Guareschi- Biografia di uno scrittore, Milano, Rizzoli, 2008. Gnocchi (1998) Alessandro Gnocchi, Giovannino Guareschi. Una storia italiana, Milano, Rizzoli, 1998. Guareschi (1949)¹ Giovannino Guareschi, in «Candido», 4, 30 gennaio 1949, pp. 4-6. Guareschi (1949)² Giovannino Guareschi, Lettere al postero, in «Candido», 14, 3 aprile 1949, pp. 1417. Guareschi (1955) Giovannino Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo, 31a ed., Milano, Rizzoli, 1955. Guareschi (1993) Giovannino Guareschi, Chi sogna nuovi gerani!, a cura di Alberto e Carlotta Guareschi, Milano, Rizzoli, 1993. Guareschi (2001) Giovannino Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo e don Chichì, («Don Camillo e i giovani d'oggi»), 2a Ed., Milano, SuperBur, 2001. Lugaresi (2010) Giovanni Lugaresi, Guareschi fede e libertà, Parma, MUP Editore, 2010. Marcheschi (2009) 316 Daniela Marcheschi, Guareschi e il romanzo, in AA. VV., Letteratura, cinema, Giornalismo, Grafica, Atti del Convegno internazionale 100 anni di Guareschi, Parma, 21-22 novembre 2008, a cura di Alice Bergogni, Parma, MUP Editore, 2009, 27-43. Montanelli (2002) Indro Montanelli, in AA.VV., Un «Candido» nell’Italia provvisoria – Giovannino Guareschi e l’Italia del «Mondo piccolo», a cura di Giuseppe Parlato, Fondazione Ugo Spirito, Roma, 2002, pp. 181-188. Morra (2003) Gianfranco Morra, in Flory Massimiliano Finazzer (a cura di), Conformismi e Anticonformismi. Einaudi, Guareschi, Gadda, Longanesi, Sturzo, Prezzolini. Ri-lettura di un secolo attraverso i contrasti, le voci, i libri, Marsilio, Venezia, 2003, pp. 41-51. Muto (2012) Walter Muto, Guareschi l’umorismo e la speranza- Piccola antologia commentata dell’opera di Giovannino Guareschi, Milano, Marietti 1820, 2012. Papa Paolo VI (1972) Papa Paolo VI, Omelia in occasione della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, vatican.va, 29 giugno 1972. The present essay studies the literary work of Guareschi to know his opinion towards the sentinels of progress, or rather the pitfalls of that "fake" progress that he would like, married to power, to control people's lives, manipulating their needs and desires to deliver it easy prey to consumerism, right hand of fake progress. Returning from the concentration camp, Guareschi feels again responsible towards his homeland, therefore, founded «Candido», he contributed effectively to defend personal freedom as an indispensable way for any real "reconstruction". He therefore sees in Communism an evil to be avoided, because, according to Guareschi, he tends to create brains that must follow his directives without thinking. Guareschi wanted to defend above all what he always considered as the foundations of society, that is, God, Fatherland, Family. For this reason, he warns society of the evils of "following silence", because this means giving up the divine gift of thinking, of using one's own brain, in favor of political currents that did not want to create mummies that imitate, but never creates. The Italians, according to the writer of the Bassa, must present a different education to their children, more responsible, not leaving them in the hands of TV, the new medium 317 that takes on the task of standardizing people's brains to make them easy to control. The "very fathers of the church" also remain on their guard, because with their reasoning and the consequent approach to the left they do not serve to remove the old faithful from the fold, without being able to bring new ones. Guareschi's ideas regarding the sentinels of the left were so original and pioneering that so many of his concerns have been fulfilled over time: it is enough to see hypermarkets on Sunday morning to understand more. Parole-chiave: Mondo piccolo; sinistra; progresso; consumismo; TV; Dio; patria; famiglia. 318 RECENSIONI 319 ELENA BILANCIA, Recensione al Glossario di Informatica Umanistica (GloDIUm), a cura di Antonello Fabio Caterino, Marcello Bolpagni, Marco Petolicchio, Alessandra Di Meglio, Vincenzo Vozza, Ururi, Al Segno di Fileta, 2019 Il Glossario di Informatica Umanistica (GloDIUm), progetto inerente al carnet de recherche “Filologia Risorse Informatiche”, offre uno strumento online dedicato al lessico delle Digital Humanities. Del glossario è stata recentemente stampata un’edizione cartacea, costituita da circa cinquanta voci e corredata dalle introduzioni di Antonello Fabio Caterino e Marco Petolicchio.1 Il progetto è in continua evoluzione ed espansione, proponendo un modello di piattaforma collaborativa cui possono prendere parte studiosi provenienti dai diversi campi delle scienze umane, uniti dall’interesse per i rapporti ormai profondamente radicati tra quest’ultime e l’informatica. Nonostante la sua natura in fieri, il GloDIUm copre una gamma di nozioni fondamentali e rappresenta un’ottima propedeutica per chi voglia approcciarsi all’Informatica Umanistica. Ogni voce è descritta da una scheda sintetica, seguita da bibliografia e sitografia relative. Molto utili sono le schede concernenti i concetti generali della disciplina, a partire dalle definizioni fondamentali di “Informatica Umanistica”, “Filologia Digitale”, “Public History” e “Big Data”, fino alle nozioni meno consuete di “Digital Dark Age”, “Digital Death”, “Gold, Green Open Access”. Le voci comprendono anche zone più marcatamente tecniche, relative ad esempio ai linguaggi di programmazione (CSS), di scripting (PHP), e di markup (HTML, XML, SGML), per percorrere solo alcune delle attuali declinazioni del glossario. Fra teoria e prassi degli studi umanistici nell’era digitale, il GloDIUm rappresenta senz’altro un agile prontuario, duttile, nella sua versione online, agli sviluppi costanti e transdisciplinari dell’Informatica Umanistica. A livello più ampio inoltre, il progetto suggerisce diversi spunti di riflessione riguardo la carenza di definizioni sistematiche per le nuove strumentazioni e metodologie di ricerca messe a disposizione dalle Digital Humanities, le quali in Italia forse più che altrove faticano a ricevere una legittimazione statutaria e didattica. GLODIUM. Glossario di Informatica Umanistica, a cura di A. F. Caterino, M. Bolpagni, M. Petolicchio, A. Di Meglio, V. Vozza, Ururi, Al segno di Fileta, 2019. 1 320 Elena Bilancia bilanciaelena@gmail.com 321 ROSSANO DE LAURENTIIS, Recensione a Sergio Luzzatto, Max Fox o le relazioni pericolose, Torino, Einaudi, 2019 Il reportage di Sergio Luzzatto si presenta – secondo la definizione dell’autore – come un saggio di “histoire du présent”. Un genere quasi anti-statutario per uno storico poiché non è concesso il tempo di far decantare i fatti; non analizzabili sub specie documentaria, dato che gli archivi di persone e atti recenti non sono accessibili per legge prima di un certo numero di anni dopo gli avvenimenti. Un lasso di tempo che nell’informazione e nell’editoria scientifica viene chiamato “embargo”, dal verbo spagnolo che significa ‘sequestrare’ e ‘impedire’. Luzzatto infatti, pur dichiarando il lavoro come un non-libro-di-storia, tiene a trovare e ricordare le proprie stelle polari dal punto di vista del metodo: Marc Bloch («ditemi semplicemente chi è stato Robespierre», p. 8); o della narrazione: Javier Cercas, L'impostore (p. 33); Emmanuel Carrère, L’Avversario (p. 26). Ma aggiungerei anche alcuni titoli classici del genere “denuncia civile”: L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (1978); Il giudice e lo storico di Carlo Ginzburg (1991); L’ombra di Moro di Adriano Sofri (1991). Luzzatto fa al contempo il cronista e l’intervistatore attraverso delle sedute via skype di Marino Massimo De Caro, che usa il nickname Max Fox. Sceglie così di fidarsi di «quanto De Caro ha deciso di farmi credere», come le cosiddette “biografie autorizzate”. Chi recita quale parte tra il gatto e il topo? È il rischio del “chantaje del testigo”. L’ipotetico ricatto del testimone preso per scelta o per necessità quale fonte principale dell’accaduto, pur non essendo un procedimento da storico (p. 279). Il rischio paventato da alcuni osservatori – «Tieni presente che è un incredibile mentitore, un manipolatore, un mestatore pitonesco» (p. 28) – che Luzzatto finisse per offrire un monumento al suo interlocutore, sembra affacciarsi al cap. 20, quando prova ad accostare l’espiazione detentiva di De Caro con quella letteraria di Jean Valjean (Victor Hugo, Les Misérables): se «una volta commesso e confessato il fatto, il castigo non fosse stato feroce ed eccessivo» (p. 266). Ma fin dall’inizio Luzzatto, ammettendo «l’ombra dispettosa che qualunque impossibile storia del presente finisce per gettare sulla storia del passato, anche la più rispettabile» (p. 33), si premura di mettere le mani avanti, con se stesso e con il lettore: «lo storico, nella sua presunzione di verità, finisce per alimentare una finzione» (p. 295); ammette di avere «la responsabilità di creare lo spazio e il tempo. O di negarlo, o di contraffarlo» (p. 296). De Caro all’anagrafe si può ascrivere alla generazione ‘bamboccione’, classe 1973, proveniente da famiglia agiata con genitori della Sinistra impegnata nel 322 sindacato e nella storia della cultura, cresciuto con i programmi della rampante e ipnotica tv berlusconiana. Una precoce esperienza di portaborse al séguito di un senatore a Roma, deve avergli fatto conoscere quel mondo di politica “politicante e affarista”, intercambiabile tra gli schieramenti; quel ‘brodo di coltura’ per l’indifferenza e il cinismo da cui sarebbe scaturito un Fregoli aduso ai mercanteggiamenti e alle manovre sottobanco, con interlocutori dai quattro angoli del mondo e di tutte le specie (politici, cardinali, uomini d’affari, antiquari di alto livello). È così che lo ritroviamo quale ammiratore del bibliofilo raffinato Marcello Dell’Utri, uomo forte del polo del centro-destra, conosciuto alla Fiera campionaria di Milano, nel 2001, ideatore dell’annuale Mostra-mercato del libro antico e animatore della Fondazione di via Senato, con annessa biblioteca (http://www.bibliotecadiviasenato.it/ ; pp. 189-190). A un certo punto della girandola di situazioni e iniziative in cui si ritrova per caso o perché se le è andate a cercare – sapientemente scandite in capitoli da Luzzatto –, De Caro deve aver perso il controllo. A forza di indugiare nelle tentazioni e nelle azioni disinvolte, ha finito per sviluppare una dipendenza da collezionista e da faccendiere compulsivo, un «campione del nostro tempo» (p. 296) che valica la propria “linea d’ombra”. Alcune delle sue imprese hanno del rocambolesco, e spiegano la citazione di Brecht in epigrafe: «La storia senza umorismo è stomachevole». Non fa ridere l’arbitrarietà del perché e come il De Caro venisse nominato consulente speciale dal ministro Galan (Forza Italia), prima all’Agricoltura (dove era accreditato come un esperto di politiche energetiche alternative, con le mani bene in pasta) e poi traslocato con il protettore ai Beni Culturali; per giunta confermato dal subentrante ministro Ornaghi in quota cattolica. Un cursus honorum che dimostra due cose: l’indifferenza bipartisan verso la ‘zavorra’ del patrimonio bibliografico nazionale; e una carriera di successo prova palmare di come nel nostro paese la raccomandazione faccia prevalentemente aggio sulla competenza. Uno Zelig di provincia che finisce per trasformarsi in traffichino intercontinentale, tra le lontane Americhe di New York (vendita di un falso Galileo alla libreria antiquaria Martayan Lan) e di Buenos Aires (il complice e collega Daniel Pastore: «la sua libreria sembrava un racconto di Borges», De Caro, p. 102), e la vecchia Europa, in particolare l’Italia onusta di biblioteche colme di libri antichi. Con la cultura non si mangia – sostenne un brillante ministro del centro-destra. Ma con il cattivo esempio di De Caro ci si può arricchire indebitamente con frodi e spoliazioni di beni pubblici: «la Biblioteca dei Girolamini – bene culturale di primo piano – così come era stata costruita negli anni a partire dalle origini e incrementata dalle acquisizioni susseguitesi nei secoli, non esiste più né potrà mai essere ricostruita “come era”» (dalla ricognizione tecnica degli ispettori 323 ministeriali, p. 259). Peggio di un terremoto dunque, quando almeno la ricostruzione delle case “dove erano” fu resa possibile. De Caro è stato inizialmente un falsario di un paio di opere di Galileo, tra l’improvvisato (Le operazioni del compasso geometrico, 1606) e il geniale (Sidereus Nuncius, 1610): «ho voluto fare un Nuncius così simile all’originale, che secondo me è più bello dell’originale!» (p. 126). Si segnala la falsificazione compiuta con dei complici, quasi una nuova “banda degli onesti” artigiani del manufatto libro, quale possibile estratto ‘da manuale’ per la storia dei processi di stampa. Aprire la legatura della miscellanea seicentesca e scucire le pagine; scansione delle pagine di un originale; ripulitura con Photoshop delle lettere; fotopolimeri per trasformare le immagini digitali in matrici di stampa a rilievo da mandare al torchio a mano («una vecchia macchina dell’Ottocento», p. 111); carta di stracci filigranata ricreata more antiquo; invecchiamento dell’inchiostro di china ottenuto mettendo la carta disegnata in un forno da cucina un’ora per ogni secolo di età voluto; fino allo sberleffo della firma autografa di Galileo e del timbro dell’Accademia dei Lincei entrambi ricreati ex-novo (pp. 128-130). I luminari di storia della scienza e della tipografia chiamati a pronunciarsi decretarono la veridicità del manufatto, provvisto anche di una provenance abilmente posticcia. Un abbaglio forse spiegabile con l’avallo della legge della domanda-e-offerta nell’antiquariato librario internazionale, come se il falso fosse un “titolo tossico” necessario per ridare vitalità alle quotazioni di mercato. Il prezzo con cui la copia di laboratorio del Nuncius fu venduta a New York era «enormemente inferiore al suo valore di mercato, se davvero si fosse riusciti a dimostrare che si trattava di una copia appartenuta a Galileo in persona, e da lui personalmente decorata con cinque disegni delle lune» (p. 180); insomma un “incauto acquisto” fino a un certo punto. Tale mercato ormai rappresenta una vera realtà economica, con i cimeli bibliografici considerati alla stregua di beni rifugio, di commodities per collezionisti, investitori, antiquari e ovviamente criminali in una connection internazionale (p. 256). Un aspetto che Luzzatto fa bene a sottolineare riferendo di una giornata di studi su “Patrimonio culturale e tutela penale” destinata ai magistrati, tenuta a Castel Pulci, nei dintorni di Firenze, per fare il punto sul mercato spesso sommerso delle opere d’arte antiche (p. 256). Il “mostro dei Girolamini”, dal nome del luogo teatro del saccheggio sistematico della biblioteca di fronte al Duomo di Napoli, oltre che all’altro “tesoro” di San Gennaro, fa pensare con facile assonanza – è solo una mia impressione – a “Girolimoni il mostro”, il carnefice seriale di bambini nella Roma degli anni ’20 del Novecento (fatto di cronaca nera da cui fu tratto il film del 1972 con regia di Damiano Damiani, con Nino Manfredi e Gabriele Lavia interpreti). L’assimilazione dei libri trafugati ai bambini è suggerita tacitamente da Luzzatto in più punti del libro. I bambini ebrei sopravvissuti ai lager, il progetto di ricerca 324 poi diventato I bambini di Moshe (2018), sembrano paragonabili ai libri sepolti in polverosi scaffali, all’interno di anonime legature, che nessuno avrebbe mai sfogliato, se non fosse arrivata la bibliomania cleptomane di qualcuno a farli riemergere, quasi un’opera di salvataggio, o una strage?, verso creature innocenti ed anonime altrimenti destinate a una silenziosa e felice normalità. A questa “relazione pericolosa” fa pensare l’Istituto don Provolo per i sordomuti, ai margini del centro storico di Verona, nella cui biblioteca avvenne nel 1999 la prima sottrazione di suppellettile bibliografica, della quale «nessun libro era timbrato» (p. 76): «se voi volete vedere la biblioteca per... motivi di studio, [...] poi quello che voi fate là dentro a me non interessa», risponde l’economo permissivo, responsabile delle visite. Nel decennio successivo l’Istituto verrà investito da uno scandalo ben più grave, gli abusi sessuali che i preti avevano perpetrato in passato sui corpi e sulle menti dei bambini e ragazzi loro affidati (p. 75). Riferisce Luzzatto: «Con le sue [di De Caro] spiegazioni sull’obbligo – per il vero bibliofilo – di rubarli, i cosiddetti libri abbandonati, per sottrarli a un destino da bambini abbandonati» (p. 76). La storia delle biblioteche d’altronde è fatta anche da falsari, da ladri e da mercanti compiacenti o distratti. Nell’Ottocento il nobile fiorentino Guglielmo Libri riassume già nel nome il suo destino di bibliomane, e sembra anticipare De Caro nelle vicissitudini oltrefrontiera, impegnato in politica ai tempi dei moti rivoluzionari, con amici corrispondenti illustri quali Antonio Panizzi, il principal librarian della biblioteca del British Museum, e il francese Prosper Mérimée, ispettore dello Stato per gli archivi. L’eco internazionale dello scandalo penoso e istruttivo dei Girolamini è servita a ricordare «la fragilità strutturale dei fondi antichi presso le biblioteche ecclesiastiche d’Italia. La scarsa tutela garantita a libri anche preziosi, preziosissimi. Cinquecentine o seicentine malamente catalogate, o non catalogate affatto» (p. 75). Il degrado e abbandono dei molti rivoli del patrimonio bibliografico pubblico e statale, accresciutosi a dismisura dopo le confische del Settecento e le devoluzioni di chiese e monasteri dell’Ottocento post-unitario (“Conventi soppressi” è una segnatura della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze); con diversi istituti, soprattutto i fondi diocesani, abbandonati dall’amministrazione centrale dello Stato al loro destino di incuria: rami secchi di un sistema che, per mancanza di fondi e di personale, ha lasciato che venissero potati da predatori e saccheggiatori (a stare a un capo d’accusa contro De Caro) sotto le mentite spoglie di addetti alla tutela e conservazione; «un problema di lungo corso», che anche lo Stato del Vaticano si è trovato ad affrontare con una spoliazione che data dai primordi di queste acquisizioni, quando tra incuria, assenza di inventari, prefetti e direttori molto avanti negli anni e personale di custodia insufficiente o del tutto assente, hanno causato la tacita «sparizione dai suoi scaffali, sotto un pontificato o sotto un altro, di autentici tesori» (p. 278). 325 Il falsario dei Due Mondi, ora pentito, sconta la pena domicilare a Verona – città dove ha vissuto, e dove nel 2006 dalla Biblioteca Capitolare – dove studiò anche Dante – ha sottratto il Dialogo de Cecco di Ronchitti… in perpuosito de la stella nuova (1605; p. 140), attribuibile a Galileo. Postilla Luzzatto, «con l’amore che si riserva a un bambino abbandonato» (p. 286). Nella stessa città mosse i primi passi un altro appassionato di libri, Leo Samuel Olschki, dopo aver fondato nel 1886 una libreria antiquaria editrice. In séguito fondò «La Bibliofilìa», una «rivista di storia del libro e di bibliografia» (a Firenze, dal 1899). Da “mecenate”, quale Olschki indubbiamente fu, De Caro oggi (p. 79) progetta iniziative sullo stesso argomento che era stato all’origine del traviamento. Una mostra su “Galileo icona pop” organizzata con le scolaresche di Verona (p. 282). Resta il dubbio se De Caro provi ora la stessa gioia, “orgasmo” (p. 107), di quando assemblava un cimelio falso, truffava o svaligiava biblioteche: «avere quegli esemplari era una libidine». Rossano De Laurentiis rossano.delaurentiis@unifi.it 326