Num. 1/2019 (anno II)
Minimi, non minores
a cura di
Antonello Fabio Caterino
Alessandra Di Meglio
Francesca Favaro
Vanessa Iacoacci
Alessia Marini
Ururi
Al Segno di Fileta
MMXIX
Al Segno di Fileta editore in Ururi (CB)
www.keposrivista.it
ISSN 2611-6685, ISBN elettronico 9788832173024,
ANCE E247635
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Kepos – Semestrale di letteratura italiana
Direttori:
Antonello Fabio Caterino (Università degli Studi del Molise), Francesca
Favaro (Università degli Studi di Padova)
Comitato scientifico:
Giovanna Battaglino (Università degli Studi della Campania “Luigi
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Comitato redazionale:
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Campania “Luigi Vanvitelli”), Alessandra Di Meglio (Università di Napoli
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Supporto informatico:
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Col patrocinio della società Dante Alighieri, comitato di Bergamo, del dipartimento di
Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo” (DIRAAS), Università degli Studi di
Genova, del centro di ricerca “Lo stilo di Fileta” e del dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Trieste.
INDICE
FASCICOLO I ............................................................................................................ 7
EDITORIALE ............................................................................................................. 8
ANTONELLO FABIO CATERINO – FRANCESCA FAVARO, Minimi, non minores ..... 9
SAGGI ....................................................................................................................... 10
MATTIA CAPONI, Quale Parigi? Nota alla Parigi di Lorenzo Viani ............... 11
SAMANTA CASALI, Ercole Luigi Morselli, scrittore e drammaturgo ribelle
dall’anima inquieta .................................................................................................... 31
ANTONELLO FABIO CATERINO, Echi ‘petrosi’ nel Cinquecento italiano. Mario
Colonna e le sue Pietre Madrigali: edizione, commento e disamina prosodica
........................................................................................................................................ 48
GABRIELE D’ANGELI, L'uomo di Torino di Velso Mucci. Appunti per una
lettura critica ................................................................................................................ 63
FLAMINIO DI BIAGI, Vittorio Imbriani: tecniche s/compositive del romanzo90
CINZIA GALLO, Vestru di Serafino Amabile Guastella: un’importante prova
di un autore ‘minore’................................................................................................ 104
ALESSANDRA MARFOGLIA, Nella 'rete'. Società borghese, esercizio di potere,
diritto e consapevolezza tra XIX e XX sec.: Clarice Gouzy Tartufari racconta una
donna del suo tempo ................................................................................................ 116
PIER PAOLO PAVAROTTI, «Piuttosto mi adatterò in un grande angolino nella
produzione italiana»: la intermittente riscoperta di Mario La Cava, tra classicità
ed attualità.................................................................................................................. 137
CINZIA SACCOTELLI, La Mirtilla di Isabella Andreini ..................................... 158
ALESSANDRA TREVISAN, L’arte della gioia di Goliarda Sapienza: una
pubblicazione lunga vent’anni (1978-1998) ......................................................... 180
SIMONE TURCO, Qui d’infinito altrove. Appunti e spunti critici su Cristiana
Bortolotti, cantrice di ‘ciò che «resta»’ .................................................................. 208
FASCICOLO II ....................................................................................................... 222
VARIA .................................................................................................................... 223
ELEONORA CAVALLINI, «L'inutilità del suo peso avvilito»: riminiscenze
omeriche in una lettera di Giuseppe Ungaretti a Mario Puccini..................... 224
ALESSIA MARINI, I Giordano Bruno del XXI secolo: gli eretici delle DH.
Progetti, tecnologie e iniziative per comprendere la galassia dell’informatica
umanistica .................................................................................................................. 228
MOHAMMED NAGUIB, La crisi dell'intellettuale e il dramma di conversazione
ne La conversazione continuamente interrotta di Ennio Flaiano .................... 243
PAOLA PIZII, La scrittrice del respiro dell’anima: Neera ................................ 264
ISABELLA PROCACCI, «Me Venus artificem tenero praefecit Amori»: Ovidio e
Savioli, poeti d’Amori.............................................................................................. 282
MOHAMMED SALAH, Guareschi e le sentinelle del progresso ....................... 306
RECENSIONI ........................................................................................................ 319
ELENA BILANCIA, Recensione al Glossario di Informatica Umanistica
(GloDIUm), a cura di Antonello Fabio Caterino, Marcello Bolpagni, Marco
Petolicchio, Alessandra Di Meglio, Vincenzo Vozza, Ururi, Al Segno di Fileta,
2019 .............................................................................................................................. 320
ROSSANO DE LAURENTIIS, Recensione a Sergio Luzzatto, Max Fox o le relazioni
pericolose, Torino, Einaudi, 2019 ........................................................................... 322
FASCICOLO I
EDITORIALE
8
ANTONELLO FABIO CATERINO – FRANCESCA FAVARO,
Minimi, non minores
La storia in fin dei conti è imprevedibile. Fortuna e merito non sempre vanno
di pari passo: basti pensare a tutti i sapienti e gli scrittori ai quali il tempo non ha
concesso collettiva memoria. Si possono citare, a titolo d’esempio, i tanti eruditi
che nel Settecento si dedicarono, con paziente e sistematica operosità, a
catalogare e raccogliere materiali dei secoli precedenti; gli ermeneuti le cui
interpretazioni hanno costituito il fondamento di un diffuso costume critico; gli
scrittori le cui pagine, tralasciate da pubblico e critica, attendono una lettura più
attenta perché si sprigioni la loro voce di significato.
Il pregio di queste umbratili, evanescenti figure di dotti e di poeti è spesso
trascurato, o respinto ai margini, dai manuali di storia della letteratura italiana, e
si annida in rari contributi editi presso riviste scientifiche, quasi mai accessibili a
chi non sia uno specialista. Tuttavia, il frutto di tanto impegno, per quanto in
genere misconosciuto, rappresenta un lascito che non va trascurato.
Un adagio sentenzia: ad impossibilia nemo tenetur, ma un altro – altrettanto
incisivo – risponde: nihil dulcius quam ommia scire. Dare voce a tutti i ‘dimenticati’
è proposito di certo irrealizzabile, forse addirittura inappropriato: il tempo,
infatti, ha una sua imponderabile saggezza nello stabilire ciò che deve restare e
ciò che può disperdersi. Accade però – neppure troppo raramente, e a causa delle
infinite variabili e combinazioni della storia – che ‘il meccanismo s’inceppi’, e che
validi autori siano condannati a una sorta di confino ermeneutico solo perché un
ostacolo si è frapposto tra il loro merito e la fortuna che avrebbe dovuto
accompagnarlo. In alcuni casi è relativamente semplice esaminare in che cosa sia
consistito tale ostacolo; in altri casi più arduo.
Con questo numero non tentiamo di sondare l’insondabile. Più
modestamente, con questo numero vorremmo espandere la nostra conoscenza
spingendoci in alcuni anfratti oscuri, talvolta riscattando dall’oblio un nome,
un’occasione di cultura, talaltra evidenziando un episodio, un merito, una
peculiarità tematica o stilistica. Perché più si conosce, più – in un modo o
nell’altro – si offre un servizio. E l’intento di servire è insito in chiunque si
definisca studioso. Perché lo studio è desiderio, ma la scoperta è servizio.
9
SAGGI
10
MATTIA CAPONI, Quale Parigi? Nota alla Parigi di Lorenzo Viani
«Che anarchia… l’Arte… Non è vero?»
(L. Viani)
Se si guarda ad una città d’arte, attraversata da molti autori se non da tutti,
una delle immediate associazioni di certo è Parigi. La capitale francese si àncora
più saldamente, nell’immaginario, ad un periodo definito: è la capitale
dell’Ottocento. Eppure, da qualche tempo, ha anche avuto uno spostamento
d’interesse: una particolarizzazione fin de siècle e soprattutto primonovecentesca;
cioè verso un’epoca in cui pittori poeti e scultori d’ogni nazione vi entrarono,
quasi personaggi di una scrittura romanzesca, connettendosi in un rapporto
psicologico e soggettivo con uno degli spazi per eccellenza. A voler guardare
quindi con attenzione la memorialistica sul periodo prebellico, ognuno di quei
testi riflette la relazione con la realtà in cui è inserito l’artista. Una relazione
sicuramente autoriale, ma che in alcuni testi più ambigui e meno definibili si
presenta come personale: nei casi in cui la narrazione memorialistica è non per
nulla detta ‘romanzata’.
Un interessantissimo caso di ambiguità strutturale e soggettivazione
topologica è decisamente Parigi di Lorenzo Viani.1 Pittore, incisore e scrittore di
particolarissimo caso, la visione che esprime nei riguardi della capitale francese
è però spesso lasciata ai margini, non trovando la centralità dei successi altrui.
Un uso tipicamente strumentale, in funzione limitata all’autore, è invece la sorte
più frequente per questo testo.2
Volendone invece cercare il rapporto con la città, centrale fin dal titolo, si ha
una operazione di ricerca profonda; perché, se è sempre difficile raccogliere una
testimonianza sulla Parigi della Belle époque, è per lo più impossibile cercare di
disossarla, tanto da poter vedere finalmente la città reale stagliarsi davanti agli
occhi. Totalmente insostenibile è questo tipo di ricerca su un testo di Viani (che
pure però la città la racconta, a modo suo): per questi motivi, in questo articolo si
guarderà soltanto alla lente descrittiva dell’autore – un impasto tematico,
stilistico e persino politico, come si vedrà – la quale filtra la narrazione,
allontanando irresistibilmente Parigi dalla vista.
La nota scolarizzazione discontinua e varia di Viani lo aveva portato già ad
avere una conoscenza del disegno, mentre svolgeva l’apprendistato di barbiere
La prima ed. è Milano, Treves, 1925; qui si cita da Viani (1980).
Quando i suoi libri, come giustamente sottolinea Terzuoli, proprio non sono «ricordati
quasi come appendice aneddotica della feconda opera del pittore» (Terzuoli [1962], p. 193).
1
2
11
da Fortunato Primo Puccini e da Narciso Fontanini. Ed è appunto in quei
retrobottega viareggini che si era formato, leggendo e disegnando, tra il 1894 e il
1900.3 Queste piccole note, di certo insufficienti, in modo irresistibile cercano di
entrare nell’articolo; sono giustificate perché, senza troppa precisazione ma in
modo identico, Parigi comincia con la rievocazione del maestro e dei giorni di
scuola, dell’espulsione e del passaggio alla «barbitonsoria»:
A me capitò un padrone, garibaldino fanatico, giocatore di lotto e uomo caldo... diceva
lui. Questa parola la ripeteva sovente alla moglie onde giustificare certi gesti e certe
occhiate ghiotte che egli dava alle donne formose: «Lo sai, son caldo!».
La sua bottega era il ritrovo di tutti i reduci dalle Patrie Battaglie del paese, quasi tutti
caldi come lui, i quali, finito il furore delle armi, si scaldavano al fuoco di altri
arrembaggi; uscendo ripetevano in coro: «Siamo caldi!».
Lì, fui preso dalla smania di imparare.4
Soprattutto, sempre intorno all’inizio di secolo, sulla spinta avuta dalla
conoscenza di Plinio Nomellini era migliorato e aveva proseguito la sua strada
verso la pittura, anche tramite l’iscrizione all’Istituto lucchese di Belle arti, ai
viaggi per le città d’arte della toscana e oltre, fino all’Accademia delle arti e del
disegno di Firenze.5
Accumulata diversa produzione, «fra il 1904 e il 1906» Viani aveva organizzato
«le prime mostre personali (anche a Milano, in occasione dell’apertura del valico
del Sempione)», e nel 1907 aveva anche partecipato alla «VII Biennale veneziana
con due gruppi di disegni ispirati al tema de “I Dispersi” e de “Gli Ossessi”».6
In parallelo alla crescita artistica era corsa la sua adesione all’anarchismo,
affinato con le letture, instradato sempre da Fontanini, Nomellini e Roccataglia
Ceccardi, gonfiato dagli incontri anche di Andrea Costa e Pietro Gori, e culminato
con l’ingresso nel circolo «Delenda Carthago».7
«Sono nato a Viareggio il 1 di novembre del 1882 da genitori della lucchesia capitati qui ai
tempi di Maria Teresa [e Carlos Borbone] di cui erano servitori. Non ebbi mai passione per la
scuola. I miei genitori si struggevano che io conseguissi la licenza delle scuole comunali, o
almeno, come soleva spesso ripetere mia madre – analfabeta – imparassi a mettere in carta. Invece
non terminai che la seconda, allora mi instradarono ad un mestiere: il barbiere, che ho fatto fino
all’età di anni diciotto. Imparai a scrivere alla meglio. Poi mi detti allo studio» (lettera di Viani a
Giovanni Papini del 13 dicembre 1924, cit. in Martini [2006], pp. 37-38).
4 Viani (1980), pp. 60-61.
5 Cfr. ivi, p. 38 e Ciccuto (1980), p. 8.
6 Ciccuto (1980), p. 9.
7 Su ciò vedi: «Nel Casone fu costituita la Delenda, una società segreta che non lasciava
veruna traccia di scritti e di carteggio. Ogni affiliato diventava centro d’azione. […]. La stanza
dove si raccolsero non aveva finestre e vi si accedeva per una porta bassa come la chiudenda di
un forno. La Delenda proclamava la proprietà un furto, e il furto la rivendicazione dei propri
diritti. Patria, il mondo. Legge, la libertà. […] Quelli della Delenda odiavano i timorosi, i pavidi,
i calcolatori, i metafisici. Davano atto alle imprescindibili ragioni dell’istinto con il fatto e tra loro
si chiamavano i fattisti. L’umanità, sfrondata da tutte le pusillanimità della morale, da tutti i
3
12
Difatti, giustificando il precoce ingresso della scrittura rispetto ai fatti narrati,
la prima conoscenza di Parigi è tutta libresca e desunta dagli Ultimi giorni della
Comune, da Michelet e da Hugo:
«Parigi! "Nulla di più fantastico, tragico, stupendo. Per Cesare, città vettigale; per
Giuliano, villa; per Carlo Magno, scuola, dove richiama dotti di Alemagna e cantori
d'Italia e che Papa Leone III battezza col nome di Sorbona; per Ugo Capeto, palazzo
domestico; per Luigi IV, porto con pedaggio; per Filippo Augusto, fortezza; per San
Luigi, cappella; per Luigi il collerico, patibolo; per Carlo V, biblioteca; per Luigi XI,
stamperia; per Francesco I, bettola; per Richelieu, accademia; per Luigi XIX il luogo dei
letti di giustizia e delle camere ardenti; per Buonaparte, il gran crocicchio della
guerra!"»
«Non lo senti?» mi diceva ansante cogli occhi fuori del capo.
«Lo sento» ripetevo cupo «e allora?»
«La nostra città è Parigi! L'ho detto e lo ripeto. Poi tu non sai che è la città della
Comune!».8
Da questi dialoghi con Cesare, il figlio del maestro, Viani lascia derivare
romanzescamente la partenza e il suo «aberintarsi» (‘smarrirsi’ secondo il
glossario)9 per Parigi. D’altro canto, pare accertato, dice Marcello Ciccuto, che:
una prima presenza di Viani nella capitale sia registrabile per il periodo compreso fra il
gennaio del 1908 e la primavera dell’anno successivo (con una breve “rimpatriata”
nell’estate del 1908 e un rapido viaggio a Bruxelles nel dicembre del medesimo anno);
mentre un secondo viaggio con relativa permanenza è documentato per i mesi a cavallo
tra il 1911 e il 1912.10
Passando oltre a questi unici dati, le evidenze iniziano un po’ a scemare;
perché non si riesce a distinguere – né Viani sembra consentirlo – tra i due viaggi
che si fondono e confondono in un’unica esperienza, impedendo di dirimere le
scansioni temporali. Anche l’autore ne sembra cosciente quando nel romanzo
suggerisce le due linee temporali, ma eticamente e personalmente le sovrappone
– e così di conseguenza anche stilisticamente. Un esempio che valga per tutti lo
si trova nelle pagine dedicate a Picasso. Dopo averlo attaccato per aver
trasformato la sua arte in «tavole d’algebra, di ragion dura di calcolo, di calcolo
gelido»11 – già più che significativa dichiarazione di poetica –, Viani scrive: «Dopo
degli anni, ripassai da Parigi: “Sai, Picasso copia Ingres” mi disse un amico». 12
compromessi, da tutte le leggi, era il termine e l’ascensione suprema. Bestialità o umanità. Orgia
dionisiaca o mortificazione della carne e dello spirito. L’individualismo esasperato, sospinto alle
estreme conseguenze: Il deserto e la boscaglia o la città strepitosa dove può e deve signoreggiare
l’Io» (Viani [1929], pp. 85-86).
8 Viani (1980), pp. 61-62.
9 Cfr. Viani (1980), p. 197.
10 Ciccuto (1980), p. 21.
11 Viani (1980), p. 170
12 Ivi, p. 172.
13
Se da un lato, quel «dopo degli anni» distingue le due linee, la realtà generica
apre alla mancanza di sicurezze – e in un certo senso all’eternità di quel giudizio
su Picasso – lasciando il dubbio che una tale sovrapposizione temporale spesso
si affacci in questi ricordi, senza potersene accorgere.
In realtà, l’analisi si può avvalere di questa incertezza, scoprendone, come già
si poteva nelle opere italiane di fine Ottocento, un ponte di attraversamento del
testo. Ha scritto Tommaso Pomilio a proposito di certa narrazione scapigliata:
Se (per la topo-analisi fenomenologica di un Bachelard) lo spazio, “nei suoi mille
alveoli”, può racchiudere e comprimere l’idea di tempo, è possibile che questa
contrazione del tempo (che è uno dei tratti più rappresentati, nella percezione della
metropoli ottocentesca) enuclei lo spazio (ossia, naturalmente, la percezione di esso)
attorno ad una serie instabile di epifanie. Il tempo umano opera, nella costruzione
mentale del proprio habitat, quello “spreco” d’immaginario, che (nel tempo moderno)
dà vita all’ingranaggio choc-epifania (o è generato da esso); a ciò ancora si opponeva
(nell’ultima persistenza dei suburbi non ancora urbanizzati, seppure soggetti a
progressiva corrosione), la dilatazione del tempo naturale, la ciclicità stagionale e
meccanica: il grande flusso, contro l’illuminazione fuggitiva.13
Non è difficile trovare questa dinamica nella descrizione vianesca di Parigi. La
percezione della città, proprio dove si dilata o cede il tempo, cinge i luoghi
attraverso la presenza vagabonda del pittore. La narrazione procede sempre per
blocchi più o meno lunghi e collegati dai salti che solo la processione di una
memoria di più di quindici anni prima (Parigi fu pubblicato nel 1925) o di una
serie d’epifanie possono dare. Una fusione temporale che invece non intacca i
luoghi, sempre riconosciuti, e infine giudicati, come ad esempio il Pantheon che
diviene «gran cisternone»14 oppure Notre-Dame il «vascello in perdizione».15
Ancora Pomilio produce osservazioni utili per sciogliere alcuni nodi di questa
percezione:
Lo spazio si circoscrive, si circostanzia, s’incastra in una topografia fisica e mentale
(anch’esso si comprime), sempre più si riduce il campo dell’esperienza durativa (e così,
degl’incontri casuali e ineluttabili, quasi stagliantisi su un paesaggio immenso e
disponibile), cedendo il campo all’immediatezza irriflessa e consumabile dell’esperienza
vissuta. All’eclissi di questa geografia, fa però riscontro un dilatarsi della topografia
cittadina, sino al punto che è possibile si conformi una sorta di fantastique urbano; o
che, invece, si susciti una pura contemplazione del turbinìo metropolitano, sino alla
perdita d’orientamento e alla sua fascinazione angosciante. 16
E sulla scorta di queste considerazioni di matrice benjaminiana, si può
aggiungere un ultimo aggancio, utile a mettere a sistema il corpo di Parigi.
L’«immediatezza irriflessa e consumabile dell’esperienza vissuta» in questo libro
Pomilio (2002), p. 10.
Viani (1980), p. 133.
15 Ivi, p. 177.
16 Pomilio (2002), p. 10.
13
14
14
prende forma, seppur ‘romanzata’ si è detto, dell’autobiografia, della
memorialistica. E perciò, al contrario di volersi fare «irriflessa e consumabile»,
l’esperienza di Viani tende eticamente a politicizzarsi in arte. Un solidarismo
umanitario, l’intento di distinguere tutta un’umanità reietta che popola la
capitale e tende ad essere schiacciata anche dalla morale cristiana.
«Les rapports commencent toujours dans la fiction de l’égalité, de la fraternité
chrétienne. Dans cette foule l’inférieur est déguisé en supérieur, et le supérieur en
inférieur. Moralement déguisés l’un et l’autre. Dans d’autres capitales le déguisement
ne dépasse guère l’apparence et les gens insistent, visiblement, sur leurs différences,
font un effort, de païens et de barbares, pour se trier. Ici, ils les effacent le plus qu’ils
peuvent. De là vient cette douceur du climat moral de la rue parisienne, le charme qui
fait passer sur la vulgarité, le laisser-aller, la monotonie de cette foule. C’est la grâce de
Paris, sa vertu: la charité. Foule vertueuse...».17
Questo è un passo di Valéry Larbaud sul «douceur du climat moral de la rue
parisienne», che Benjamin chiosa così: «È giusto inscrivere questo fenomeno
interamente nella virtù cristiana o, forse, non è qui all’opera l’ebbrezza di
assimilare, sovrapporre, comparare che nelle strade di questa città si mostra
superiore all’intento sociale di farsi valere?».18
Se è tanto vero che le strade parigine fagocitano tutte le classi sociali, le
travestono l’una nell’altra, quest’«ebbrezza» sottolineata da Benjamin pone in
gioco la frattura nell’ideale di Viani. Dalle letture sulla Comune e sull’epoca della
Rivoluzione, coscientemente messe in testa al libro come si è visto, nella
narrazione si passa ad una serie di ritratti dolorosi, realistici nei loro crudeli
dettagli. Prima di vedere come si sviluppino le descrizioni, è utile cogliere un
anticipo proprio di come la politicità di Parigi dia il senso a quei ritratti. Un
passaggio, decisamente aderente anche a quanto letto sopra, è questo:
Stazionavano i meschini presso un grande portone di color d'ombra; dal pietrone che
poggiava sui pilastri pendeva la bandiera della patria; il vessillo a tre colori nell'accidia
di quelle sere non alitate da vento, dense di una nebbia greve che respirandola lascia giù
per la gola il raschiore della caligine, pendeva immoto verso l'impietrato come un cencio
mézzo di lordura. Un lampione funebre era acceso sotto, la luce itterica illuminava le
parole Liberté Fraternité Egalité. Una porta più piccola si apriva nel portone, tanto
bassa che la gente per passare doveva umiliare la fronte verso il lastricato d'un cortile
color dell'inferno.19
La bandiera inerte e soprattutto il motto rivoluzionario offeso da una luce fioca
e malaticcia mostrano che gli ideali sono ancora dolorosamente irrealizzati,
Vedi nota seguente.
Benjamin (2000), pp. 467-468.
19 Viani (1980), p. 150.
17
18
15
perfino circondati da un’aura funerea.20 Sono indice di qualcosa che ha
immediate conseguenze testuali; nel giro di una frase appare il significato
profondo: umiliazione, specie per gli ultimi. Mario De Micheli più d’ogni altro
ha colto quanto questo avesse conseguenze per Viani:
Dipingeva così, religiosamente i «santi» dell’anarchia, i «poveri cristi», i «poveri di
spirito», i «dannati della terra», i «forzati della fame», come li aveva cantati Eugène
Pottier nell’Internazionale, che aveva scritto nei giorni dei massacri bianchi della
Comune di Parigi.21
Raccogliere i volti, i caratteri e gli atteggiamenti dei «forçats de la faim» è il
modo più diretto di politicizzare l’arte che mette in opera il viareggino.
Gran parte dell’esperienza parigina, fatta di vagabondaggi, fame e freddo, è
incentrata alla Ruche, l’alveare filantropico e cosmopolita ospitante tutti gli artisti
meno abbienti, e in cui anche Viani prende un atelier. Un luogo in cui erano
passati, fra i tantissimi, anche Chagall, Léger, Soutine, Archipenko, Modigliani e
Apollinaire, Cendrars, Jacob, Salmon.
Mi portai nel quartiere di Vaugirard, uno dei più popolosi alla periferia che si congiunge
al ventre di Parigi con la serpe lunga della via omonima. Vaugirard non ha come gli
altri quartieri, il suo cimitero. Nel passage Dantzing, un fondo si strada per il quale si
accede alla porta Versailles, c'era allora un quadrato di terra recintato di mura: terreno
aspro, in cui ai tempi dei tempi i pattumai rovesciavano le carra piene di immondizie.
Su quel terreno grasso impolpato di sostanze putrescenti, vegetavano alte le malerbe:
cicerbite, ingrassa- porci; ortica, gramigna e ruta selvatica. Sparpagliati ovunque
c'eran pentoli fessi, brocche di smalto schiacciate, padelle dal fondo crivellato, bricchi
smanicati, filtri sfondati, casseruole, barattoli, pentoli, tutta la scampanata che ruzzola
dalla garetta della lordura. Nel mezzo a quella sterpaia c'era una casa rotonda, qualcosa
che ricordava certe camere d'incenerimento; era invece una casa battezzata col vezzoso
nome della "Ruche": l'Alveare.22
La racconta come un posto vicino all’inferno, circondato da una discarica. Un
luogo costituito di privazioni e fatiche e da un’infinità d’anime perse catturate da
Parigi, questa Morgana divoratrice di noi sognatori. Tutti gli inquilini «per lo più
banditi dalle loro terre», per quanto ironicamente (a detta dell’autore) avessero
«passato il limite dell'onesto», sono torme di provocatori che ripetutamente
compongono «a caratteri vistosi» la scritta «La Ruche, Cimitero di Vaugirard».23
Compensano lo spazio che li circonda e cercano di riprenderne continuamente il
possesso. Infestatori che «quando erano installati dentro, non ce li levava più
Su questo si possono aggiungere le influenze ed il pessimismo dei garibaldini rientrati
nella vita comune dell’Italia postunitaria e «costretti a soffrirne l’involuzione», come giustamente
fa notare De Micheli, vedi De Micheli (1987)a, pp. 125 e segg.
21 Ivi, p. 123.
22 Viani (1980), p. 82.
23 Ivi p. 83.
20
16
nemmeno l'acqua bollente», tanto che «espulsi da una stanza si rintanavano in
un'altra, per poi, dopo poco tempo, ritornare in quella di prima».24
Eppure il nucleo centrale delle definizioni sulla Ruche volgono tutte intorno
alla storpiatura cimiteriale, ad una religiosità grottesca perfettamente indice dello
stile di Viani. La sacralità, se non proprio dell’arte, di un rifugio per gli artisti, si
rovescia, trasformando l’edificio in un inceneritore grigio e spaventoso. Boucher,
il «padrone di casa», mortificato dall’appellativo ormai comune di «cimitero» per
l’Alveare, entrando «vestito di nero com'era sempre, sembrava uno che andasse
a visitare i suoi poveri morti».25 Ma non sono soltanto le circostanze, anche gli
interni lo dimostrano: «Presi visione rapida della casa: le rampe delle scale erano
sette come i peccati mortali; con sette salti si poteva uscire all'aperto».26 E ancora:
Dalla parte che l'edificio crematorio guardava le scarpate delle fortificazioni, sembrava
il cimitero dei protestanti in un paesetto cattolico; erbe non falciate si avvilucchiavano
a plinti di pietra inverditi dall'umidità e su questi posavano le statue delle virtù
teologali: Fede, Speranza, Carità.27
La Ruche insomma è cimitero fuori con le tre statue e lo è dentro con i dannati
ed i loro carcerieri. Fra questi, a scoprire ancor di più la metafora infernale
dantesca, c’è la «concierge», che abita sotto una tettoia vicino al cancello. È «una
specie di cagna incatagnata in quel covile» con «occhi cupi come acqua torba,
bocca molle, naso in su dai cui fori si poteva veder le cervella, petto polpo, ventre
conciato come una pelle di tamburo, coscie divaricate, zampe di papera, la quale
urlava dietro a tutti gli inquilini improperi osceni».28 Cerbero e insieme Caronte
che conduce Viani al suo atelier e che svela finalmente il passaggio tra interno ed
esterno.
L’esperienza della città moderna segna infatti il debordare dalla nozione di “interno”;
il suo definitivo sconfinare, disperdersi in uno spazio allargato (senza più frontiere da
oltrepassare), che è al tempo stesso familiare e sconosciuto al soggetto: interno ed
esterno a esso. E qui che si corrode e apre lo spazio interiore, fisico (perché l’abitazione
non è più un rifugio, non è il luogo della familiarità, ma è il campo in cui –
nell’abbattersi della frontiera – il “perturbante” può sprigionarsi), o psicologico
(l’interiorità, o il Profondo, del soggetto): perché il soggetto conosce lo scollamento dalla
comunità a cui usava rapportarsi.29
Le riflessioni più salienti, come si è potuto capire, rompono in realtà la
frontiera tra interno ed esterno, trasportando il primo nel secondo e più a fondo
fino a comporre il paesaggio di Parigi. La questione è ancora una volta legata ai
Ibidem.
Ibidem.
26 Ivi, p. 84.
27 Ivi, p. 82.
28 Ivi, p. 83.
29 Pomilio (2002), p. 19.
24
25
17
personaggi che popolano le descrizioni: non soltanto Boucher o la «concierge»
della Ruche fanno parte di questo paesaggio, ma tutta una serie di uomini che
entrano per metonimia con testa, gambe o braccia levate. E in cui la difficoltà di
dirigere il distinguo tra la partecipazione e la somiglianza o il distacco da questa
ciurma di «damnés de la terre» o ancora di «santi maledetti» è dolorosamente
evidente. Quest’esperienza in ambiguità con la miseria la si può vedere
perfettamente riportata, in uno strumentale sguardo fuori dalla finestra:
Lo studio sembrava la cella di un carcere duro, il foro di presa della stufa pareva il
pertugio per il quale in segregazione apparisce la ciotola della zuppa […]. Per curiosare
mi avvicinai verso l'invetriata. Com'era desolata a quell'ora la tragica sterpaia:
rattristava il cuore. Invece che a Parigi ebbi la sensazione di essere in un villaggio
selvaggio: verso le mura c'era delle casette piccole come stallini di maiali, fatte di lattoni
rugginosi e di casse da petrolio, coperte di teloni incerati neri, uncinate a dei pioli
confitti nella terra. Trombe di stufa schiacciate, tenute in bilico da piramidi di fili di
ferro erano i fumaioli di quelle tane; a quell'ora da tutti i tubi filava fumo celeste, cani
magri uggiolavano a catena legati fuori, uomini intrisi di loja, con le braccia impastate
di polta e le scarpe marcie di fanga aggobbivano sotto dei sacchi colmi d'ossa e di stracci
e di pezze imbevute d'untume e cinciagliori. Erano i cercatori che rufolavano nelle
mucchia della lordura aiutati dai loro cani incimurriti. 30
È in dinamiche come questa, si diceva sopra con Pomilio, che si vede il
«dilatarsi della topografia cittadina»; che si mostra una sorta di «fascinazione
angosciante»31 ed un disorientamento all’interno di luoghi sempre più simili a
passi di Dante o di Dostoevskij. Poco sotto la descrizione dalla Ruche, il
circondario si allarga allo sguardo. Non è un caso, in questa percezione
deformante di Viani, siano proprio un casermone ed i suoi soldati ad essere che
senza scopo e senza posa. Una turbinante punizione eterna prosegue la rottura
della frontiera:
Di mezzo a un acquatrino che fumava come sotto vi ardesse un fuoco di stracci si
elevavano i tetri muraglioni del cortile di una caserma. L'immenso edificio anneriva
sulla luce del tramonto, dalle finestre aperte che in ordini uguali dilungavano sulla
facciata e ne aumentavano la tetraggine, si udiva un vocìo sconnesso come si ode
quando si passa di sotto le mura di un manicomio. La sentinella passeggiava come un
dannato davanti al portone, l'ufficiale sembrava un compasso piantato sulla terra, il
tricolore svaniva nel tramonto violetto. Dei soldati ramazzavano il cortile, un gruppo
di prigionieri erano ad arieggiare sopra una scarpata, contornati da altri soldati con le
bajonette innastate. Dei cavalli legnosi erano legati ai mozzi delle carrette celesti, altri
soldati poltrivano sui muriccioli di un fosso che tagliava il cortile a metà. La tromba
ogni minuto faceva il terribile lagno dei adunati, una corvé accendeva i lampioni fuori
delle mura. L'acre tanfo dolciastro e acuto delle esalazioni ammoniacali, il fetore degli
uomini accatastati, il bestino delle comunità appestava l'aria. I gesti insulsi, come quelli
30
31
Viani (1980), pp. 84-85.
Pomilio (2002), p. 10.
18
dei galeotti e dei pazzi, quell'andare e venire senza guida d'una volontà, quel trapano
d'ottone, martirizzavano l'anima.32
L’antimilitarismo, cardine dell’anarchia e che sarà interrotto da Viani sono con
la partecipazione volontaria alla Grande Guerra33, è uno dei princìpi deformanti
di questo passo. Ma, a maggior ragione, vedersi circondato da «gesti insulsi,
come quelli dei galeotti e dei pazzi» e da «quell'andare e venire senza guida d'una
volontà» non possono far altro che «martirizzare l’anima» del pittore. Infatti
aveva detto Benjamin che la città per il flâneur «si scinde nei suoi poli dialettici.
Gli si apre come paesaggio e lo racchiude come stanza». 34 Così l’insensatezza di
ciò che si mostra e la clausura della Ruche hanno la stessa espressione e durezza,
la stessa mancanza di scopo e di volontà.
Il martirio dell’anima, nella deformazione piena e drammatica della visione
metropolitana, coglie l’io delle descrizioni di Viani, supera e integra la
dilatazione degli spazi; aprendo a nuove formazioni che gonfiano l’emozione
fino a parametri irrazionali che, si vedrà più avanti, possono entrare nella
definizione di espressionismo35:
Fuori, uno strizzone di freddo mi accoppiò il costato. In un attimo gelai fino alla cima
dei capelli, una serpiggine di aghi mi corse per tutto il corpo. Quando la porta si chiuse
pesante dietro alle mie spalle, mi sentii come precipitare nella notte eterna; mi pareva
che una spaventosa cateratta fosse stata calata fra me e la vita. Mi voltai dissensato. Sul
portone ingigantito dalla mia disperazione vidi una lucciola verde. Era il buco della
chiave, poi anche quello fu inghiottito dalla notte. Ripresi la via della Ruche con
un'andatura cadenzata e con lo sguardo rivolto contro di me. Uomini e cose si
frantumavano nel vortice dei miei pensieri. Una di quell'ore in cui si invocano
spaventosi cataclismi, l'esplosione della terra, la caduta dei mondi, l'orrendo silenzio
del nulla.
Come tramutato dal freddo feci qualche chilometro e alle tre varcavo la soglia della
Ruche.36
L’angosciosa traversata dei caratteri dalla città all’«anima» si mostra, infine, in
un passo molto personale, in cui i tormenti sono dovuti anche agli elementi più
naturali del paesaggio osservato, fino a rovesciare espressionisticamente il
contenuto corporeo e la sua densità:
Viani (1980), p. 85.
Vedi Viani (1929), la cui struttura si compone anche delle motivazioni all’interventismo di
Viani. Sul suo antimilitarismo e pacifismo è importante ricordare i disegni per l’album Alla gloria
della guerra!, composto e ideato proprio nel secondo viaggio parigino, e pubblicato con le note
illustrative di Alceste De Ambris nel 1912 dalla Camera del Lavoro di Parma; su cui vedi De
Micheli (1987)b, Cirillo (2016), p. 33 e Martini (2006), p. 44.
34 Benjamin (2000), p. 466.
35 Per ora basti dire che mi riferisco a Muzzioli (2013).
36 Viani (1980), pp.162-163.
32
33
19
Terribili sere, quando siamo vuoti e un tocco di campana rintrona nella nostra testa e
tutto il corpo sembra sonoro, i fischi degli uccelli e gli uccelli medesimi con lieve fruscìo
d'ali par che entrino dal foro di un orecchio e riescano dall'altro sciamando, quando i
capelli sembrano erba verde alitata dal vento e i battiti del cuore, le fitte martellate di
un fabbro sopra un'incudine di acciaio, quando siamo più del mondo di là che di qua e
l'amicizie sono vaghi ricordi color di terra, i parenti favole, il padre e la madre nebbie
dipanate dai secoli; quando il cielo fa celeste il sangue medesimo. 37
Si potrebbe anche portare, pietra di paragone, la ricostruzione – si noti bene,
qui anche più tarda di quella vianesca – fatta da un altro toscano: Ardengo Soffici.
Nel Salto vitale, ripercorrendo i suoi trascorsi del periodo francese, ricorda anche
i suoi momenti alla Ruche:
Quando vi arrivai io, la Ruche era piena zeppa, come la vidi poi sempre, di ogni
generazione di artisti, di bohèmes, e anche d’artigiani arrenativisi da ogni parte del
mondo: piena come un uovo. V’erano pittori e scrittori francesi, scandinavi, russi,
spagnoli; scultori e musicisti tedeschi; dilettanti inglesi e americani; formatori italiani;
incisori del quartiere, falsificatori di statuette gotiche; qualche avventuriero balcanico,
sudamericano, o del prossimo Oriente: tutti, quale con la moglie, quale con l’amante,
quale solo, – come finalmente ero io. Fra tutto questo caravanserraglio, il mio studio,
posto in uno dei fabbricati minori, consisteva in una giusta stanza con la solita larga
vetrata nella parete esterna, lucernario a spiovenza, una soupente, o soppalco, da
dormirvi sopra un sommier, un piano di legno su due caprette, un cavalletto, un paio
di seggiole e una stufa di ghisa. Né altro mi occorreva per il mio uso e il mio lavoro:
difatti mi misi subito all’opera.38
Si deve però tenere a mente ciò che Mario Richter riesce a mettere a fuoco,
nella sua ottima ricostruzione de La formazione francese di Ardengo Soffici, e cioè
che Soffici ha in certi punti soprattutto la preoccupazione di dare coerenza alle
sue convinzioni, cercando di mostrare di aver assimilato e rifuso la cultura
francese. Per non dire appunto che la realtà descritta è ancora una volta soggetta,
anche se in modo diverso da Viani, ad una «trama narrativa fortemente
compromessa dalla presenza dell’autore» non solo in quanto «direttamente
interessato»39, come accennato, ma appunto per la costruzione narrativizzata.
L’utilità del parallelo si mostra nella differenza di approccio. Con l’Autoritratto
d’artista italiano nel quadro del suo tempo, il poggese tenta di ricostruire un’aura alla
sua esperienza artistica. Riducendo lo spazio di gioco, lanciandosi in disamine
moderate che tendono a superare ogni momento di questa memorialistica,
cercando di agganciare uno stile unitario e mono-linguistico per quanto possibile,
lavora nel senso opposto di Viani. Infatti per Soffici, la Ruche fu un’istituzione
Ivi, p. 184.
Soffici (1968), p. 365.
39 «L’Autoritratto diventa uno strumento alquanto infido, utile soltanto nella misura in cui
sia possibile di volta in volta riconoscere, entro una trama narrativa fortemente compromessa
dalla presenza dell’autore direttamente interessato (nonostante l’obiettività di fondo, si è visto);
alcuni motivi, alcuni atteggiamenti rivelatori, magari soltanto di riflesso» (Richter [1969]), p. 15.
37
38
20
un po’ borghese che non corrisponde, per esplicita citazione, a quella del
viareggino:
La Ruche descritta romanticamente da Lorenzo Viani nel suo Parigi come una sorta di
dostojewskiana [sic] Casa dei Morti, o d’inferno, non era, almeno a quel tempo, nulla
di tutto questo. Essa era al contrario l’istituzione più bonacciona, più borghese, più,
persino, conciliativa che la mente di un filantropo repubblicano ottocentesco potesse
immaginare.40
E non c’è da dimenticare che Soffici ebbe vita relativamente più facile a Parigi
entrando quasi subito nelle cerchie de «La Plume», «Gil Blas», «Froufrou»,
«L’Europe Artiste» ed altre, divenendo presto integrato e apprezzato
collaboratore. Viani invece «qualche soldo racimolava facendo caricature e
schizzi per i libri di Gorkij e Richepin, o per riviste d’avanguardia»41 come pure
lo stesso «Gil Blas». Mentre se si guarda alle esposizioni di Viani ci sono la galleria
di Georges Petit per la Comédie humaine, non molto spinta nella ricerca, e
l’associazione al Salon d’Automne, che invece era terreno abituale di critici e di
artisti non solo parigini.42 Di quest’ultima ricordava nel 1919 che gli era giunta
principalmente grazie all’esclusione del suo trittico I taciturni dalla Biennale di
Venezia.43
Sfruttando un’ultima volta il parallelo con Soffici, si può indicare ancora un
luogo mancante. Al Salon des Indépendants, dove in quel periodo si incontrano
i presenti e futuri protagonisti della pittura, il poggese espone già nel 1902 e di
nuovo nel 1905 e nel 1907, quando ancora doveva iniziare o stava iniziando il suo
slancio per divincolarsi da un gusto di tipo preraffaellita e genericamente
simbolista.44 Viani invece non riesce ad entrare ed esibire i suoi disegni o i suoi
quadri agli Indepéndants.
È solo l’intrico diverso di conoscenze che differenza le due esperienze? Non
sembra: semmai distingue i due esiti e quindi ricordi. Scriverà Viani a Nomellini,
considerando appunto l’esperienza fatta: «Ti confesso, come a un padre, per te è
bene non esserlo effettivamente, che la gita a Parigi è stata un buco nell’acqua,
ma ormai il fatto è compiuto e bisogna tirarne quello che si può sia bene sia
male».45 E il discreto insuccesso costringe Viani a sofferenze estreme come molti
altri infelici che incontra, lasciando così che il giudizio su Parigi si componga; e
anche perché è da ricordare romanticamente con Jouvet che «un letterato e un
Soffici (1968), p. 364.
Cirillo (2016), p. 39.
42 Su cui anche Martini (2006).
43 Cfr. Viani (1919), p. 211.
44 Vedi almeno Richter (1969), pp. 16 e segg.
45 Cit. in Ciccuto (1980), p. 11.
40
41
21
accademico possono essere tolstoiani o picassiani, un artista che dimora alla
Ruche può essere soltanto se stesso».46
La formazione socialista e anarchica di Viani – se non pure l’esperienza
familiare47 – lo spingerà alla ricerca dei soggetti più derelitti della società e si
vedranno nelle prime opere di narrativa – ad es. Gli ubriachi (1923) e I Vàgeri
(1926) – e nelle figure protagoniste dei suoi disegni. L’«ebbrezza di assimilare,
sovrapporre, comparare» che con Benjamin si è vista essere presente «nelle
strade» di Parigi è un tentativo di indifferenziazione che provoca l’annullamento
delle istanze di lotta, perfino «l’intento sociale di farsi valere». Il «linguaggio
protestatario»48 di Viani si costituisce in dialettica col paesaggio in Parigi,
cercando di scuotere il lettore e porre al centro quei sottoproletari, meschini o
dannati che altrimenti non avrebbero voce né coscienza. La comunione con loro
permette al testo di portare il rapporto con lo spazio da questi personaggi fino
all’io di Viani. L’aureola con cui appaiono nella loro miseria, il modo con cui sono
inquadrati nei loro ritratti – un vero compendio si ha nei disegni di Viani – si
compone inoltre di «contaminazioni romantiche»49, modi appassionati e
drammatici.
L'arte è per me l'esaltazione dell'impossibilità della rivolta, della eccessività e, se volete,
della follia. Visitando l’opera mia per meglio penetrarne lo spirito, è necessario sapere
l’identità effettiva di anima che io sento di avere coi vagabondi, coi deplacé, la
comunanza di vita che io ho col popolo, il quale mi espresse dalle sue viscere e da cui
non mi sono mai, mai staccato, perché in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con
amore i miei eroi!50
Jouvet (1950), p. 4.
«Subito dopo il licenziamento, mio padre, senza arte né parte, girottolava per i canti delle
darsene, senza veruna speranza. Gli occhi riflettevano la desolazione. Piano piano egli si scarnì,
sulle spalle ricurve le scapole sembravano due pietre che lo gravassero verso la terra. Il pane perse
il colore e il profumo, divenne un pastone pesante e del colore della terra argilla. Ingozzato che
s'era faceva piastrone sullo stomaco come aver mangiato pastone da mattoni. Mia madre si spolpò
e ingiallì. Tutti ci cominciarono a negare. Il fornaio voleva vedere i soldi sulle mani, il macellaro
dava cincigliori di ciccia da cane. Rivedo mio padre vergognoso rasentare il muro della mia
strada, con sotto il cappotto un cavolo infradicito, un chilo di farina di granturco e una cartatina
di sale. Mia madre non si mise mai lo scialle sulla testa come facevano quasi tutte le altre donne
del vicinato né andò mendica di uscio in uscio. Si mise invece a lavare i bucati. La vedo ancora
nei tristissimi inverni uscire di sulle pietre del fosso e tornare a casa come un'affogata a cui Dio
avesse concesso di rivedere i figli per l'ultima volta. Non avendo panni di che mutarsi, si nudava
nel canto del fuoco e si faceva asciuttare pelle e vestimenta dalle fiammate. Per tutto il giorno
tremava come una bimba. Così intirizzita andava a far legna nel bosco e ritornava tutta
sanguinante. La sera non si accendeva più il lume. Si stava nel canto del fuoco come gatti» (Viani
[1930], pp. 124-5).
48 La definizione è di De Micheli, v. De Micheli (1987)a.
49 Viani, Gli incantatori di serpenti, cit. in Id., p. 121.
50 Id., Testi inediti e rari, cit. in Cirillo (2016), p. 36.
46
47
22
Per Viani Parigi ha sùbito l’impatto di una somma di «sgalerati», miserabili e
dimenticati che continua a cercare e trovare, ad osservare e raccontare; e si
vedono presto «l’empito della sincerità umana e della passione umanitaria, il
senso altissimo della pietas e la violenza della denuncia, la coscienza
dell’umiliata e offesa condizione del reietto e del povero, l’humor tagliente e
affettuoso verso la commedia umana, il sentimento mistico e panico per la
solennità della natura».51 Ne viene fuori la descrizione di una città di grande buio
e inquietante silenzio, perlustrata da un flâneur attentissimo, in cui ogni essere
che la popola sprofonda nella lordura, nel gelo, nella fame, nella follia e nel
delirio, come anche Viani stesso. Il suo occhio implacabile ne esprime
continuamente un giudizio severissimo – che è poi quel che resta alla fine del
libro dei tanti miseri che si affastellano uno dopo l’altro. Le stesse strutture, lo si
è visto negli esempi sulla Ruche, che dovrebbero accogliere tante di queste
persone finiscono per subire deformazioni infere e punitive.
E se pure, come Betocchi, si vuol vedere le figure e gli aneddoti come
«provinciali, negati all’universale», non si può tralasciare di ammettere che «una
partecipazione reale, popolaresca, alla vita di questi personaggi resiste sempre»;
non si può in fondo non dire che «i suoi personaggi sembra averli sottratti,
appunto, a un clima più effimero, di superficie, per portarli in zone più
profonde».52 Si veda per questo il colloquio avuto col Mohammed Sceab, cantato
anche da Ungaretti, che Viani ritrae prima del suicidio, «malinconico come una
pecora», mentre «impoveriva il suo gagliardo sangue arabo a Parigi»53:
Quel corpo così bene attagliato nelle rivolte del barracano, umiliato nella tragedia di
quei vestiti di bordatino e il capo in cui un tempo aveva rosseggiato il tarbuscio rosso,
ora ricalcato dentro lo chapeau Melon, mi fecero dirgli disperato: «Ma perché sei venuto
a Parigi?».
Egli mi guardò stupito, vidi ne' suoi occhi di mussulmano che la Mecca era stata
sostituita da questa città dove singhiozzano i violini.
«Vous savez, monsieur Viani, Paris est Paris».
Il vento faceva svettare le rame degli alberi e parevano tante verghe di metallo, la gente
rincasava infreddolita, delle nuvole cariche di verde poggiavano sui tetti; mentre
s'andava là là pensosi, sentii che sul mio viso si scioglievano degli stracci di neve. «Ci
mancavi anche te» dissi e scossi i ciuffi dei capelli. Ceab [sic] guardò il cielo con lo
stupore di un giudeo quando vide che Cristo avea scoperchiato l'avello.
Ceab [sic] guardò la terra, si scosse le maniche della giubba: «Che cos'è questo?» e gli
tremava il cuore e le mani. «Che cos'è questo?» richiese supplichevole.
«È neve» gli risposi.
«Viani,» mi disse timido «sono venuto a Parigi per vedere la neve: sì, la neve, la neve:
scusatemi, gradirei godere da solo questo spettacolo».54
Russoli, cit. in Ciccuto (1980), p. 29.
Betocchi (1954), p. 38.
53 Viani (1980), p. 142.
54 Ivi p. 144.
51
52
23
L’«impossibilità della rivolta», che l’arte dovrebbe «esaltare», come dice Viani,
trova a soggetto tutti di deplacé, come Sceab, e ancora una volta i miseri. Va ora
aggiunta a ciò una annotazione di discrimine. Si diceva prima che Viani usa verso
i suoi personaggi «pietas» e «violenza di denuncia» – non pietà – in aperta
differenza dai veristi. Ha scritto Pietro Pancrazi che «i nostri veristi […] dai loro
poveri diavoli esprimevano anche libertà umana, poesia, li facevano anche
cantare. E, sempre, la loro arte volle essere umanamente e socialmente pietosa».
Viani invece i suoi miserabili «per il colore e nel colore, piuttosto li salda e
ribadisce nella loro pena e miseria»55 Aveva scritto infatti già nel 1907:
Arte sociale… e tutti i deficienti e gl’insipienti si gettarono sulle tele, […] con il
cristiano intento di suscitare pietà, o, peregrina intenzione, la rivolta; ne abbiamo visti
tanti di quei lavoratori sfibrati e cadenti, di emigranti sconsolati e affamati, carne lacera
e spezzata, mal resa, mal costituita, immonda; e se un senso di rivolta sentimmo fu
contro coloro i quali tentarono di farci ingoiare l’amara pillora [sic] nell’ostia dell’arte
sociale.56
Perché sempre l’«impossibilità della rivolta» ha poi, dichiaratamente, per
oggetto quella «rappresentazione inesorabile dello sfasciamento mostruoso di
esseri umani» che per molti vale l’«impossibilità della sua arte».57 Un raffronto
diretto con tanti di questi artisti «sociali» forse potrebbe aiutare a coglierne la
distanza anche ideale di Viani. Un passaggio esauriente su questo è proprio il
ricordo dell’esposizione alla Galerie di Petit:
Dopo due giorni ricevei l'avviso di portare i miei disegni alla Galleria di Georges Petit,
quella dove fu esposto il ritratto di Dorian Gray. Era lusinghevole per me […].
Malgrado il titolo corrosivo, la "Commedia Umana" accampata nelle auree sale di
Georges Petit era un sinedrio di scettici, di lepidi e di servizievoli, apparati sotto il bel
nome come un branco di cenciosi sotto una grondaia: i giardinetti svenevoli di Semoff,
gli aborti ventruti di Weber, i quadri normali di Raffaelli, le vesciche slabbrate di
Herman Paul, le rotondità obese e tagliuzzate di Léandre, i titillamenti di Abel Faivre
e i bozzetti di quel galantuomo di Zandomeneghi: tutta roba che sarebbe crollata sotto
uno scroscio di risa di Daumier.
In mezzo a quelle pareti ambrate, insaponate di lampone, dai toni di pisello, i miei
disegni di gente pietosa, brutale, avvinazzata sembravano un ponce zincato rovesciato
sopra una tovaglia apparecchiata per un agape di filosofi astemii.
Pancrazi (1946), p. 28. E prosegue giustamente distanziandolo anche Fucini: «Va da sé che
i “vageri” non somigliano neppure ai contadini e popolani e vagabondi del tradizionale bozzetto
toscano: questi, tutti stemperati nel loro paesaggio, quasi figure e voci della natura; quelli, ciascun
per sé, isolati e rattratti nella natura come punti o grumi d’ombra. Empoli e Viareggio stan vicino;
ma il Fucini e Viani sono lontani che più non potrebbero» (ibidem).
56 Viani, L’esposizione internazionale di Venezia, cit. in De Micheli (1987)a, p. 125.
57 «Quella rappresentazione inesorabile dello sfasciamento mostruoso di esseri umani, fece
gridare alcuni alla impossibilità della mia arte» (Viani [1919], p. 211).
55
24
Ma in questa città, che è raggio per quelli che son lontani, gli indumenti e i nomi sono
nei primi piani. La "Commedia Umana" si poteva ben chiamare lo sposalizio di
Ciuccianespole.58
Non essendo adatto o adattato al clima artistico e politico che mostra la
Comédie humaine da Petit, la sua arte appare impossibile. Con una vicinanza più
esplicita a Daumier per il fine di lotta politica e di riconoscimento delle condizioni
sociali (si pensi proprio al giustamente celebre Le Wagon de troisième classe), le
maschere dipinte da Viani sono inservibili, come un «ponce zincato» per «filosofi
astemii».
Perché molti circoscrivono l’arte nei limiti della possibilità, io penso che le unità
realistiche debbono essere soggiogate al concetto informatore di un’opera.
Il quadro (io sono reazionario di concetto) deve essere un’impostazione monumentale
dei gruppi, la deformazione coscente [sic] delle parti alla linea passionale e drammatica.
Se un’opera manca di passione manca di umanità, quindi è antinaturale, disumana,
cinica, accademica.59
Con questo passo del 1919 si può utilmente chiosare l’opinione di Viani alla
vista di quello «sposalizio di Ciuccianespole». La struttura «monumentale»,
romantica se non già vicina ai modi di Fattori, e in un certo senso eroica dei
gruppi su una tela, non fanno forse al caso di Parigi, se non si osserva che tutto il
testo è questa «impostazione». Contro l’accademismo cinico delle altre narrazioni
si oppone l’umanità tutta dei «dannati della terra». La «deformazione coscente
delle parti alla linea passionale e drammatica» è proprio l’angoscioso
accostamento tra tutti gli individui raccontati, ognuno col suo carattere, di cui si
fa però carico l’io di Viani che subisce la passione della metropoli come flâneur
moderno.
Ed è così che lo stile, per coordinarsi a questi temi, si crea in una fusione tra un
impressionismo (Falqui ha parlato di «impressionismo vociano» per
accentuazioni e contorni delle descrizioni)60 che ha lontano alle spalle la
bozzettistica (e non un semplice bozzettista, come vuole Contini)61, e il
beneaugurato espressionismo che diffonde una tinta ancora più fosca sulle
facce.62 E lo fa manifestando in pieno le istanze soggettive tipiche di quest’ultima.
Se pure l’espressionismo, come l’espressione in genere, si carica di soggettività, lo fa
però con due particolarità complementari tra loro: […] si esprime non l’io ma l’Io, con
la maiuscola, il suo “dramma pronominale” dotato di estensione collettiva in una
Viani (1980), pp. 164-165.
Viani (1919), p. 211.
60 Cfr. in Lodoli (1971), pp. 317-318.
61 «E Viani […] affiancò alla sua pittura dialettale una bozzettistica altrettanto dialettale»
(Contini [2013], p. 266); ma cfr. supra la n. 55 con il giudizio di Pancrazi.
62 È spinta ad ammetterlo anche Lonzi che pure giudica del tutto «decadente» l’opera di
Viani, vedi Lonzi (1969).
58
59
25
proiezione sulla scena universale; nello stesso tempo, […] indica la dinamica verbale (e
propria del “verbo”), il “linguaggio resistente e ruvido”, ovvero quella estenuazione
della parola che coincide con l’essenzialità.63
La lingua di Viani infatti è dura e personale, con aperture peane al versiliese
fin nei cardini della frase (pur restando, a mio avviso, nella centralità di un
costrutto pienamente italiano). Il soggetto invece si somma a tanti altri per
mostrare i tratti dei dannati: Viani compie di fatto un’identificazione profonda,
di «anima», tra sé ed i miseri descritti, tra la loro Parigi e la propria, tra il proprio
soggiorno e la loro vita in condizioni incredibilmente disumane. È
un’identificazione sia letteraria sia biografica. E se anche se può apparire
inconscia durante lo svolgimento del libro, è in realtà volontaria: dove le
condizioni dei suoi «eroi» popolari sono usate per raccontare anche la propria,
con un trapasso spesso sfumato, queste toccano la cima del «dramma
pronominale» e della resistenza linguistica. Da cui si vede, ormai è chiaro, che i
fini sono pienamente politici ed ideologici, oltreché compresenti nelle premesse
di una scelta stilistica, in una fusione perfetta.
Se l’espressione si presenta comunque come un appello che richiede ascolto, la domanda
di riconoscimento non è compilata, nel caso dell’espressionismo, nella forma prestabilita
dal modulo; è piuttosto una irruente pretesa di riconoscimento. Una protesta. 64
Conseguente ma anche originaria nella concezione è la tensione al
plurilinguismo e al dialettalismo. Aprendo anche la scrittura, sia nelle formule
sia rintracciando parole «tra le riserve del vocabolario»65; cercando di andare al
di là dei «limiti della possibilità», cioè oltre una lingua sola che renda compatti e
circoscritti, unitari e quindi inoffensivi questi umili; Viani compie un doppio
movimento. Raggiunge un’adesione più vicina e partecipata agli «sfortunati» ed
ai reietti; ma anche produce una fruizione che può saliere dal basso.
Al nostro caso e al nostro stile, convengono parole ignoranti come fette di pane da cani,
inesplicabili ma taglienti come tegoli caduti a coltello sul capo, ma italianissime anche
se rozze e plebee accatastate tra le riserve del vocabolario… Se dipingendo possiamo allo
stesso scopo, impastare il bitume col nero, con la lacca, il celeste col blu di Prussia, per
ottenere l’evidenza delle figure; scrivendo possiamo impastare gergo dialetto lingua, ma
la lingua e il dialetto e il gergo debbono, nell’impasto, creare un valore di tono dell’unità
indissolubile dell’assieme.66
Questo «impastare gergo dialetto lingua» vuol dire nient’altro che
politicamente e socialmente affratellare gli uomini, giungere ad una comunione
anche stilistica e linguistica con loro. È in fondo la stessa operazione dello
Muzzioli (2013), p. 29.
Ibidem.
65 Vedi nota seguente.
66 Viani, Del gergo nella lingua, cit. in De Micheli (1987)a, pp. 126-127.
63
64
26
sguardo riproposta sulla lingua; è rendersi perciò vicini, farsi presso agli ultimi
con partecipazione. Già nel 1913 aveva scritto: «Idealmente sono Bakunista.
L’arte è un’inutile mollezza della vita se alle moltitudini oppresse non è dato
goderne…».67
Parigi, infine, sfugge e si inselva all’ombra di un giudizio morale e politico,
frutto dello sguardo e della passione dell’autore, e quindi anche artistico. Ciò che
resta è l’impressione di un’«illusione» che apre alla salvezza di questi
dimenticati; dimenticati da tutti ma non da Viani che in modo crudo e
perturbante continuamente riporta agli occhi il rimosso, il marginalizzato e
l’assimilato dalla società. La protesta che tenta di specificare, personalizzare e
nell’individualismo di ognuno affratellare i personaggi masticati dalla metropoli,
questa protesta erompe e prova ad allargare lo spazio di gioco. Cerca di far
riappropriare degli spazi metropolitani chi, con tinte più scure e
contemporaneamente più vivide, li abita. È qui la politica e «irruente pretesa di
riconoscimento» di cui scrive Muzzioli:
L'orrore di Parigi, la solitudine, le nequizie, le orride maschere degli uomini, i lunghi
digiuni, le penitenze, non avevano ancora spento la fiaccola delle illusioni; un giorno
gli uomini si sarebbero amati e, dimenticando, si sarebbero sentiti fratelli. 68
Mattia Caponi
caponi.mattia@gmail.com
67
68
Id., Lettera autobiografica, cit. in Id., p. 119.
Viani (1980), p. 119.
27
Riferimenti bibliografici
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ed. it. a cura di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2000.
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(1936-39), a cura di F. Desideri, Roma, Donzelli, 2012.
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Walter Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A.
Somaini, Torino, Einaudi, 2012.
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1954, pp. 36-45.
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Mondadori, 1980, pp. 5-56.
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surrealismo italiano (flâneurs, visionari, sognatori), Padova, Esedra, 2016, pp. 27-68.
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Gianfranco Contini, Espressionismo letterario, in «L' illuminista», voll. XXXVIIXXXVIII-XXXIX, 2013, pp. 251-280.
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dell'arte, Genova, Marietti, 1987, pp. 116-128.
De Micheli (1987)b
Mario De Micheli, Viani, De Ambris e la guerra di Libia, in Id., Le circostanze dell'arte
cit., pp. 129-135.
Jouvet (1950)
Jean-Pierre Jouvet, Parigi di Lorenzo Viani, in «La Fiera Letteraria», 7 maggio 1950,
p. 4.
28
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Lonzi (1969)
Carla Lonzi, Una mostra di pittura e grafica di Lorenzo Viani, in «L’Approdo», a. XV,
n. 1, gennaio-marzo 1969, pp. 151-153.
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Francesca Martini, Quadro senza suggestioni: Lorenzo Viani ante guerra, in E. Dei (a
cura di), Lorenzo Viani. Pittore e Scrittore Espressionista: Ancona, Mole Vanvitelliana.
1 dicembre 2006 -18 febbraio 2007, Milano, Silvana Editoriale, 2006, pp. 37-47.
Muzzioli (2013)
Francesco Muzzioli, Per una teoria sull’Espressionismo, in «L' illuminista», voll.
XXXVII-XXXVIII-XXXIX, pp. 25-39.
Pancrazi (1946)
Pietro Pancrazi, Arte e stile di Lorenzo Viani, in Id., Scrittori d’oggi. Serie IV, Bari,
Laterza, 1946, pp. 24-30.
Pomilio (2002)
Tommaso Pomilio, Asimmetrie del due. Di alcuni motivi scapigliati, Lecce, Manni,
2002.
Richter (1969)
Mario Richter, La formazione francese di Ardengo Soffici (1900-1914), Milano, Vita e
Pensiero, 1969.
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Ardengo Soffici, Il salto vitale. Autoritratto d'artista italiano nel quadro del suo tempo
III, in Id., Opere, vol. VII**, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 5-446.
Terzuoli (1962)
Gian Carlo Terzuoli, Lorenzo Viani scrittore (1882-1936), in «Belfagor», a. XVII, n.
2, 31 marzo 1962, pp. 193-205.
Viani (1919)
Lorenzo Viani, La mia arte, in «Ardita», a. I, vol. IV, 15 giugno 1919, pp. 208-211.
Viani (1929)
29
Lorenzo Viani, Ritorno alla patria, Milano, Alpes, 1929.
Viani (1930)
Lorenzo Viani, Il figlio del pastore, Milano, Alpes, 1930.
Viani (1980)
Lorenzo Viani, Parigi, a cura di M. Ciccuto, Milano, Mondadori, 1980.
The paper tries to describe the idea of space in Lorenzo Viani’s book «Parigi». It aims
to collect a number of critical references to show how the topological relations effect
Viani’s point of view.
Also, it tries to investigate how the artist’s «linguaggio protestatario» (‘protester
language’) is a form of politics, which consequences could be traces in «Parigi» and in
Viani’s way of deformation. Starting from this, this paper studies how the fight and the
«politicization of art» show themselves in «Parigi».
Parole-chiave: Viani; Parigi; espressionismo; Soffici; città; autobiografia; pittura;
anarchia.
30
SAMANTA CASALI, Ercole Luigi Morselli, scrittore e drammaturgo
ribelle dall’anima inquieta
Ercole Luigi Morselli nasce a Pesaro il 19 febbraio 1882 in Palazzo Marzetti di
via San Domenico 17 (oggi n. 59 di via Giordano Bruno).
Figlio legittimo di Antonio Morselli, ispettore demaniale, nativo del piacentino
Castel San Giovanni, e Annetta Celli, maestra diplomata, originaria di
Sant’Angelo in Lizzola.
Al 1897 risale l’incontro con il coetaneo Papini. I due amici trascorrono interi
pomeriggi e notti nell’accogliente studiolo di casa Morselli, in via della Mattonaia
a Firenze declamando versi, dedicandosi all’ascolto della musica classica,
immergendosi in interminabili discussioni che hanno per oggetto la comune
passione per l’Arte.1
In prosa sono i primi, seri approcci morselliani con la pagina bianca ed è
sorprendente che, tra i fogli dei suoi appunti non datati, ma certamente
attribuibili all’inizio del 1900, vi sia un manoscritto che, in qualche modo, sembra
già tracciare l’ambientazione del suo capolavoro, Glauco:
Alcuni giovani nudi sulla riva sono intenti a trarre le grandi reti piene di pesca che fan
turgere i muscoli fortissimi sotto la pelle bruna e bagnata che luce al sole come bronzo
e seguono il ritmo lento del loro lavoro con un canto lento che loda i tesori del mare.
Discosti dalla riva gruppi di uomini e di donne coperti di pelli di pecore sono intenti a
raccogliere allegramente i frutti che dona la terra e cantano anch’essi, ma con un ritmo
più concitato cantano le laudi della donante. E mai la terra e il mare mostrarono di
comprendere così la parola degli uomini felici. 2
A conferma del precoce amore per il teatro vengono fuori, sempre negli stessi
anni, un progetto di dramma in tre atti intitolato La trilogia di Jacopo del Monte
(omaggio all’eroe foscoliano) ed alcune più affrettate tracce di azioni sceniche.
Pressoché identici i soggetti, a sfondo dichiaratamente autobiografico: giovani
artisti dissoluti e ribelli in aperto conflitto con famiglie borghesi e benpensanti,
sorde alle loro esigenze spirituali.
Ercole Luigi, durante la sua frequentazione letteraria con Papini, ha il piacere
di conoscere altre due giovani ed inquiete intelligenze della cultura fiorentina:
Cfr. Ferrati (2010), p. 14.
Morselli, Appunti per una prosa, manoscritto inedito, non datato, B.O., Fondo Morselli, Op.
c. 2, fasc. 1, n. 5.
1
2
31
Giuseppe Prezzolini e Alfredo Mori. I quattro formano un sodalizio bohémienne,
uniti dagli stessi interessi.
Terminati gli studi liceali, Morselli si iscrive nel 1899 alla Facoltà di Medicina
e Chirurgia nella stessa Firenze, scegliendo come specializzazione il ramo
psichiatrico.
Sia Papini che Morselli sono attratti dall’anatomia e scelgono di seguire le
lezioni del professor Chiarughi, ritenuto uno dei più grandi artisti del bisturi, ed
essi individuano nella sua figura una sorta di fratello in arte, poeta dissacratore
che mette crudelmente a nudo le verità nascoste della vita.3
Di giorno è intento a studiare e mettere in pratica tutte le nozioni che
un’istituzione, come l’università, può fornirgli, mentre la sera, Morselli e i suoi
inseparabili amici danno vita ad animate discussioni.
In una di queste, il 12 aprile 1900, nella cantina del futuro Giuliano il Sofista
(pseudonimo del Prezzolini), i quattro compilano e sottoscrivono il 'Proclama
degli Spiriti Liberi':
Considerato che:
- il fine naturale di ogni uomo è la felicità;
- che la felicità consiste nel massimo numero di sensazioni piacevoli e nel
minimo di sensazioni dolorose;
- che le grandi fonti di piacere per l’uomo sono: la LIBERTÁ, l’AMORE, la
SCIENZA e l’ARTE;
- che nel mondo civile regnano invece la schiavitù sia materiale che spirituale
(sotto le varie forme di autorità, di morale stabilita, di convenienze spirituali, ecc.,
ecc.), la lotta per la vita e la mediocrità intellettuale;
- ma che d’altra parte l’uomo non può da solo procurarsi tutti quei piaceri.
Noi spiriti liberi, abbiamo deciso:
di unirci in un gruppo fraterno - facendo vita comune e unendo insieme i
nostri cuori e i nostri beni, i nostri ideali e i nostri destini.
Questo gruppo avrà per scopo:
1) di stabilire la massima libertà sia nelle relazioni fra i membri del gruppo
stesso, sia in quelle del gruppo con il resto degli uomini. Questo scopo si
otterrà abolendo ogni legame sia famigliare che civile e sociale - ogni
cerimonia o convenienza tradizionale - e non riconoscendo nessun principio
dogmatico sia religioso, filosofico, morale, ecc., ecc. Considerando che
l’indipendenza economica è la considerazione vitale della libertà, il gruppo
decide di procurarsela con due mezzi:
a) ponendo in comune le sostanze che ciascuno possiede separatamente;
b) ponendo in comune i frutti del lavoro individuale.
3
Cfr. Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 18.
32
2) I componenti del gruppo si legheranno fra loro in tenera e tenace amicizia,
che sarà basata sulla confidenza, sulla libertà, sulla sincerità e l’aiuto
reciproco. Inoltre, ciascun membro può procurarsi, sia solo che in
compagnia, tutti quei piaceri sessuali che la donna dà, purché non abbia per
condizione o conseguenza il matrimonio, nel qual caso il membro sarà
ignominiosamente scacciato dal gruppo.
3) Ogni membro del gruppo aumenterà con studi e letture la propria cultura,
ma dovrà mettere in comune, per mezzo di comunicazioni, conversazioni,
conferenze e scritti, ciò che ha imparato o sta imparando.
4) Tutti i membri riuniti si procureranno tutti quei piaceri che le arti posson
dare, sia creando opere proprie o ammirando le altrui. La prima forma di
piacere sarà ottenuta componendo, dipingendo, suonando, ecc., la seconda
visitando gallerie, esposizioni – assistendo a concerti, rappresentazioni
teatrali – leggendo libri, giornali, riviste.
In apposito statuto saranno determinati i mezzi e i principii che serviranno a
tradurre nella realtà i nostri propositi.4
Dopo due anni di infruttuosi studi nelle aule di Medicina e Chirurgia, Morselli
si iscrive alla facoltà di Lettere. Ma non passerà molto tempo per capire che è
proprio l’approccio con l’istituzione scolastica a smorzare i suoi più vivaci istinti
di conoscenza.5
Papini disse che la bocciatura del Morselli fece sì che ci fosse un dottore in
lettere in meno e un poeta di più.6
Nel suo Diario Prezzolini afferma:
Ogni tanto facevamo fra noi un’inchiesta per vedere dove eravamo arrivati col
nostro pensiero, e scrivevamo in colonna sotto i nomi di Papini, di Prezzolini, di
Morselli, di Mori le più recenti opinioni sulla società, sull’uomo, sulla teoria della
conoscenza, i nomi dei filosofi, dei pittori, dei poeti preferiti, e i nostri scrupoli scettici,
sapendo come le nostre opinioni s’avvallavano e si sormontavano in un ondoso
ripentimento e in un vorticoso tempestare di simpa-antipatie, ci portavano a segnar
non soltanto l’anno, il mese e il giorno, ma persino l’ora e i minuti.7
All’interno del gruppo ognuno si ritaglia un ruolo specializzato – non solo nel
programma di lavoro – con Papini filosofo della conoscenza, Prezzolini sociologo
anarchico e Morselli scienziato – ma anche nella pratica epistolare, con Papini in
qualità di pensatore e dialettico acerrimo, Morselli di lirico ed epico e Prezzolini
di osservatore lucido e cinico.8
Prezzolini (1978), pp. 17-19.
Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p.19.
6 Papini (1921), p. 316.
7 Prezzolini (1978), p. 32.
8 Gentili-Menghetti (2003), p. XIV.
4
5
33
Le lettere del carteggio tra Papini e Prezzolini testimoniano questo assiduo
studio e ricerca svolto da Giovanni e Luigi nella loro Firenze. Essi si preparavano
studi comuni da approfondire.
Noi poveri infelici, rimasti a vegetare in fondo a questa Misera Toscana, abbiamo ben
poco da dirti. L’Arno scorre sempre lento e fangoso, il sole seguita implacabile a scottare
le nostre schiene dorsali e noi continuiamo la nostra vita monotona di bohémes della
scienza e dell’arte. Morselli sta studiando l’osso sfenoide del cercopiteco ed io speculo
sull’obiettivazione del soggettivismo nel concetto dell’infinito relativo spiegato per
mezzo della quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Tutti i giorni alle 5,
ci troviamo insieme e ce n’andiamo al Vial de’ Colli chiacchierando e discutendo d’arte,
di scienza, di filosofia – ricordando l’amico lontano e l’amico già morto. Io e Morselli,
unici supersiti, abbiamo già fatto un programma di studi comuni (invertebrati - tedesco
- storia dell’arte) e inoltre ognuno di noi lavora al volume assegnatogli per la nostra
biblioteca scientifica. Morselli sta raccogliendo materiale per un suo libro sugli
Avatismi.9
Durante il soggiorno a Parigi di Prezzolini, Papini continua i suoi studi
scientifici e Morselli inizia le sue brevi gite in bicicletta, alla scoperta dei borghi
Toscani, quali Lucca, Pistoia e Prato.
Come ogni ribelle anima romantica, Luigi ama provocare ed ostenta
un’immagine vistosa e sfrontata: capelli lunghi e sciolti sopra le spalle,
mantellone nero, sciarpetta al collo annodata con noncuranza, tenebroso cappello
a falde larghe.
Papini e Prezzolini hanno una loro linea di pensiero e sono ormai lontani
dall’inquietudine del loro compagno Gigi. La rottura fu definitiva e ognuno prese
una strada diversa.
Ieri verso le cinque del pomeriggio, in un’oscura viuzza presso piazza Santa Croce,
Papini e io da una parte, Morselli e Mori dall’altra. Non ci vedremo più. Non ci
conosceremo più. Loro verso la letteratura e noi verso la filosofia. Loro con i
d’annunziani, noi per la nostra via. Loro con le chiacchiere, noi con il pensiero. Ci siamo
scambiati poche e definitive parole. Non era possibile andare avanti. Ciò che ci ha tenuto
vicini tanto tempo è finito.10
Essi non ammettono che l’amico si sia avvicinato all’ideale dannunziano e si
dichiareranno ufficialmente 'nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di
servitù plebea' e fautori di un programma filosofico che assegna al solo pensiero
il compito di modificare il reale.11
Morselli rincontrerà i due amici solo anni più tardi; ma, né con l’uno, né con
l’altro avrà più il tempo di ricucire il profondo e fraterno legame di giovinezza.12
Papini - Morselli, Lettera a Giuseppe Prezzolini, Firenze 5 luglio 1900, in Carteggio vol. I,
p. 15.
10 Prezzolini (1978), p. 41.
11 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 37.
12 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 39.
9
34
Attività letteraria
Le Favole per i re d’oggi vengono pubblicate per la prima volta dalle edizioni
Bernardo Lux di Roma nel 1909 e appariranno nelle librerie dei principali librai
di Firenze.
La prefazione ricorda una graziosa favola di Ismailow, in cui c’è un re che
scaccia come impudente la Verità dal suo palazzo, ma poi le fa buona accoglienza
quand’ella si ripresenta vestita di una bella veste d’oro e stellata di gemme che
s’era fatta donare dalla Fantasia.
Il successo è immediato e da tutta Italia piovono gli elogi su questa prima
opera a stampa del giovane autore: una sorta di 'bestiario morale' ad uso e
consumo dei borghesi, che ha per protagonisti somari, aquilotti, tartarughe,
ragni, serpenti, leoni ed ermellini.
I re cui sono destinate le Favole, come afferma Morselli stesso, novello Esopo,
non sono altro che il comune gregge dei contemporanei stracarichi di boria e di
tutti gli altri peccati comuni ai re, perpetuamente illusi di nostra potenza così
nelle battaglie dell’anima, come in quelle della vita.
Le Favole del Morselli si intitolano per i re d’oggi perché forse hanno un remoto
significato d’ammonimento sociale, ma in realtà sono per tutti perché sotto aspetti
di pura invenzione nascondono invece solenni realtà.
Morselli scrisse le Favole a 26 anni, dopo il viaggio che dall’Italia lo aveva
portato in Africa e successivamente in America del sud, a contatto con persone e
fatti di ogni genere, con pericoli reali ed immaginari.
Morselli guarda alla società umana, alla vita in genere, con aperta ironia,
convinto che si regga su un’incrinatura, che il bene e il male, il vizio e la virtù,
spesso altro non sono che le due facce del medesimo pregiudizio.
L’autore non rispettò i parametri critici allora in uso ma rovesciò certi
contenuti, infatti le sue Favole non avevano un fine pedagogico o pratico.
Egli cercò di sconvolgere un ordine morale sclerotico arrogante [sic!] in cui
l’ipocrisia e la presunzione tenevano il posto della verità e della saggezza.
Il vero compito dello scrittore è sempre quello di rovesciare i valori esistenti.13
Gli animali del Morselli scioperano, discutono e si organizzano; oppure
filosofeggiano tristemente sulle vicissitudini umane; essi permettono nelle Favole
di capire lo spirito morselliano e sono necessari ad esprimere il significato della
vita umana in modo ironico, con quel tocco di verità ed entrando nella mente
dell’autore, delineando il suo punto di vista sulla realtà delle cose.
Apprendiamo da un titolo del Giornale d’Italia (1° aprile 1910) che Acqua sul
fuoco fu il primo tentativo drammatico del Morselli.
13
Antognini (1975), p. 11.
35
Lo stesso autore nell’intervista concessa al Messaggero della domenica (1919) a
chi gli chiede: «Come avete incominciato a scrivere per il teatro?», risponde «Con
una commedia moderna di carattere pastorale, Acqua sul fuoco».
Acqua sul fuoco, di cui la Biblioteca Oliveriana possiede il manoscritto14 non
datato, ma sicuramente del 1905 o 1906, viene pubblicato nel 1920, in unico
volume con La Prigione, dalla casa editrice Vitagliano nella collezione diretta da
Renato Simoni.15
La commedia rimase nel cassetto per quattro anni e fu rappresentata per la
prima volta a Roma, Teatro Argentina, la sera del 31 marzo 1910, a due settimane
di distanza dal successo dell’Orione, dalla Compagnia di Nino Martoglio.
L’opera è frutto di una felice ricerca morselliana soprattutto nel campo del
realismo linguistico – gli attori in scena recitano in dialetto toscano –
perfettamente realizzato con l’uso di espressioni tipiche (la capretta non mi piace
punto, l’hanno a esser per iastera, zittatevi allora, così ne direte meno di grullerie,
ecc).16
Una Croce tarlata è un’opera dattiloscritta, firmata e datata (1909) dall’autore.17
È un dramma marinaresco, definito così dallo stesso Morselli. La terminologia
marinara è ricca, pertinente, erudita. Il verismo (le cucitrici di reti, il coltello
insanguinato, il lessico tipico dei marinai) è come annacquato da un eccessivo
sentimentalismo fatto di carezze, baci e parole consolatorie più intonate a un
ambiente borghese alquanto sdolcinato che non ai personaggi del dramma.18
L’opera non risulta essere stata mai rappresentata mentre l’autore era in vita.
La prima rappresentazione avviene postuma, il 28 maggio 1926 al Giardino
d’Italia di Genova con la compagnia fiorentina, e il giornale Il Caffaro del giorno
seguente ne riporta la notizia:
Con pittoresco decoro scenico e l’intelligente cura così dei particolari come dell’insieme,
la Compagnia fiorentina rappresentò la Croce Tarlata, un dramma di pescatori
dell’autore di Orione e Glauco. I tre atti non hanno molto sviluppo e sembrano vogliano
offrire più colori e motivi appena accennati, che non un’azione di largo respiro
drammatico, nonostante la intensità di taluni momenti. Tuttavia, non mancano qua e
là segni evidenti del robusto ingegno dell’autore, che forse pensava di dare a questo
lavoro una maggiore estensione e diminuirne la uniformità talora eccessiva.
Morselli, Acqua sul fuoco, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 11, fasc. 1.
Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 292.
16 Ferrati (2010), p. 39.
17 Morselli, Una croce tarlata, manoscritto inedito, 1909, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 9.
18 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 293.
14
15
36
I maggiori successi
Orione è definito dall’autore il suo 'lavoro bello', e ad esso egli dedica tutte le
sue energie.
Ogni giorno Morselli si reca alla Biblioteca Oliveriana per reperire più
materiale possibile intorno alle figure mitologiche da lui amate, e riempie di
accurati appunti bibliografici e di citazioni, tratte da Virgilio, Omero e
Apollodoro, interi block-notes.
Con Orione, Morselli entra decisamente nel mito, ma anche nel dramma
esistenziale che il mito stesso, secondo Morselli, contiene e che sembra
appartenere all’intera umanità: perdere il nostro bene nel momento in cui lo
stiamo ottenendo.
Nell’ottobre del 1909 la tragicommedia è terminata. Entusiasta dell’esito ed
impaziente di far risuonare l’omerica risata del semidio nelle orecchie del
pubblico romano, Morselli organizza, una dietro l’altra, letture pubbliche della
sua opera.19
La prima edizione di Orione con il sottotitolo di 'tragicomedia' fu pubblicata a
Roma nel 1910 da Armani e Stein; la seconda, insieme al Glauco, pubblicata a
Milano nel 1919 dai fratelli Treves.
Il 17 marzo 1910 Orione debutta al teatro Argentina di Roma, nel cast Gualtiero
Tumiati, Napoleone Masi, Ruggero Lupi e Ugo Farulli.
Il primo atto piace assai, per la sua forma incisiva, immaginosa, spesso cruda:
c’è dentro allegria quanto si vuole, c’è un fare alla diavola, impertinente
esuberante, soprattutto giovanile. C’è anche, difetto di tutta l’opera, pochissima
azione e, se vogliamo, nel primo atto azione non c’è per nulla: ma il pubblico a
questo non bada: il dialogo l’ha contentato, quei tipi mitologici gli vanno a genio,
fiuta la parodia e si mette di buon umore.20
Il successo è dovuto anche alle scene dipinte da Galileo Chini, oggi
sfortunatamente scomparse, i costumi di Caramba e le musiche del Barone
Rodolfo Kanzler.21
In suo onore viene allestita una festa nella terza saletta del Caffè Aragno da un
folto gruppo di amici. Tra i presenti: Luigi Volpi, Ugo Folena, Nino Martoglio,
Sem Benelli, Emanuele Modigliani e Jean Carrére, futura traduttrice di Orione in
francese.
Dopo la tournée – seguita personalmente da Gigi, Bianca e Liana a Milano,
Firenze, Modena e Trieste – Orione senza un particolare motivo, come spesso
accade in teatro, scompare dalle scene italiane.22
Ferrati - Bertoloni Meli (1993), p. 135.
Oliva, Il Giornale d’Italia, Roma, 19 marzo 1910.
21 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 141.
22 Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 143.
19
20
37
Nell’aprile 1915, la famiglia Morselli si trasferisce per breve tempo ad Ancona
e durante quel mese di permanenza nel capoluogo marchigiano, Morselli scrive
il suo capolavoro: Glauco.
Morselli non riesce a convincere nessuno a mettere in scena Glauco poiché la
maggior parte dei direttori teatrali rispondono che è un’opera troppo elevata e
soprattutto troppo costosa perché una compagnia trovi il coraggio di
rappresentarla.23
Il Glauco, dopo la tanta esitazione di Virgilio Talli, debutta al Teatro Argentina
il 30 maggio 1919 con protagonisti Betrone, Valsecchi e Melato.
I costumi sono di Caramba, le scenografie di Guido Galli e le musiche del
Barone Rodolfo Kanzler.
Il Resto del Carlino (31 maggio 1919), con l’articolo dal titolo Glauco di Ercole
Luigi Morselli, ne riferisce così il successo:
Glauco di Ercole Luigi Morselli, tragedia rappresentata al teatro Argentina dalla
Compagnia Talli, è una tragedia ricchissima di motivi corali, alla quale manca nei
momenti supremi, la musica per essere in tutto e per tutto greca. Morselli è giunto a
concepire questo dramma, non per sforzi di erudizione ma per una sua innata gioia e
felicità di creatore di miti antichi.
Morselli ha contaminato il suo Glauco di diversi miti greci, come l’Ulisse infatti nel
secondo atto, che ha per scena la Maga Circe, richiama alla memoria episodi omerici.
Glauco è un umile pescatore che desidera la Gloria, che vuole diventare Re e Dio, non
per la vanità propria o per proprio piacere, ma per offrire la gloria e la reggia alla sua
amata, a Scilla, figlia di Forchis, pastore di molti armenti e di sordina avarizia.
Invano ella gli dice che solo la virtù della donna e solo della donna l’amore possono
mutare in reggia una capanna: il suo desiderio vince, e scilla medesima si sacrifica al
sogno di Glauco, dandogli la chiave del ripostiglio dove il padre custodisce le lame
perché egli le porti oltremare a venderle.
È il primo atto: vario di belli episodi che si raccolgono e prorompono nel dialogo dei due
amanti: pieno di accorata tenerezza e di selvaggio ardore. Il pubblico che ha ascoltato in
gran silenzio, scatta in un lungo applauso, sei volte il Morselli deve presentarsi alla
ribalta.
Nel secondo atto vediamo la reggia di Circe: le tre parche filano le vite dei mortali sedute
sui gradini del suo talamo: il mare tutto intorno ansima e canta. Cloto, Lachesi e
Atropo, svolgendo il filo di Glauco narrano le sue gesta. Egli ha conquistato territori,
sottomesso popoli, ha vinto eroi e semidei: è eroe, è semidio, sta per giungere alla reggia,
così bello e così puro, che Circe stessa ne sarà vinta.
Circe non vuole che Glauco approdi e salta in mezzo ad un cerchio incantato e con una
verga scatena la tempesta. La nave dell’eroe è incagliata. La ciurma è sommersa, egli si
salva. E poiché egli non desidera la gloria per sé ma per ghirlandarne la donna amata,
vince gli inganni della maga e rapisce il bacio che fa divini e immortali e fugge sulla
nave, che i tritoni disincagliano, verso la sua isola, da dove scilla disperata lo chiama
mentre Circe, che spasima d’amore per lui, strappa a Lachesi, il filo della fanciulla amata
da Glauco e lo spezza. Il pubblico prorompe in acclamazioni. Cinque chiamate.
23
Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 166.
38
Il terzo atto ci riporta in Sicilia. Scilla scacciata dal padre, dopo una lunga e disperata
attesa, si uccide. Mentre il suo corpo è portato sulla spiaggia, la nave di Glauco arriva
sospinta a furia dai tritoni. L’eroe è giunto troppo tardi: non gli è valsa la ricchezza, la
gloria e l’immortalità. Egli ha perduto quello che gli era offerto umilmente, la gloria
dell’amore semplice e puro di una donna per un uomo. Si spoglia delle sue insegne,
butta i suoi trofei, rompe la sua spada, e strettosi al petto la morta Scilla, si fa legare
con le catene della nave al freddo corpo e col grave peso dell’ancora si fa precipitare nelle
onde sicule. Il Dio che non può morire, parla dal fondo del mare ammonendo gli uomini
che, solo nell’amore nella pace, è la felicità.
È un atto lirico che persuade per la sua dolcezza accorata del canto. Chiusosi il velario,
il Morselli è chiamato sette volte al proscenio. Un trionfo. Gli attori hanno recitato
abbastanza bene, non benissimo: ebbero a volte accenti melodrammatici assolutamente
fuori luogo, degni di lode il Betrone nella parte di Glauco e la Melato in quella di Circe.
La signorina Valsecchi (Scilla) ebbe buoni momenti di soavità. Ottimi la messa in scena
e i costumi.
Per Glauco si registrarono ben settanta repliche al Teatro Argentina e una lunga
tournée in Italia. Sempre riscuotendo notevoli consensi, Morselli vinse nel 1919
(nel 1918 lo aveva vinto per Orione) il premio ministeriale per la migliore opera
drammatica rappresentata durante l’anno.24
Glauco successivamente ebbe molte rappresentazioni tra le quali: l’opera lirica
di Alberto Franchetti, rappresentata al teatro San Carlo di Napoli l’8 aprile 1922,
la traduzione pirandelliana Glaucu messa in scena da Giovanni Grasso Junior e
Virginia Balestrieri al teatro del Giglio di Lucca il 31 marzo 1922 e ripresa per la
regia di Andrea Camilleri al Teatro greco di Tindari nel 1970.
Nel dicembre 1917 la famiglia Morselli sta attraversando un periodo di miseria
dovuto alle difficoltà economiche.
L’attore Gualtiero Tumiati, capitato a Genova per recitare, prega Luigi di
scrivere una commedia e gli anticipa un po’ di denaro. Morselli in pochissimi
giorni scrive Belfagor, arcidiavoleria in quattro atti.25
Il soggetto della commedia di Morselli mette in scena la vicenda del diavolo
Belfagor, inviato in un piccolo borgo del litorale toscano a far esperienza delle
faccende umane attraverso il matrimonio.
Sua moglie Bianca racconta che mentre stava finendo di scrivere il III atto,
Luigi comincia a sentire fenomeni di fortissimo esaurimento tanto da
annebbiarglisi le idee e non poter continuare.
Nonostante la stanchezza e la fatica, egli porta a termine il lavoro per cui aveva
preso un anticipo di 200 lire da Tumiati.
Tumiati non sembra persuaso dal lavoro e lo sconforto per l’ennesima
delusione favorisce, già nel provato organismo del poeta, il risorgere di un
24
25
Ferrati (2010), p. 64.
Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 197.
39
vecchio asma bronchiale che provoca attacchi notturni talmente violenti da far
temere più volte Bianca per la fine del marito.26
Fortuna vuole che Tumiati ci ripensi, si convinca a mettere in scena Belfagor e
addirittura decide di fissare luogo e data della prima rappresentazione: Milano,
Teatro dei Filodrammatici, 14 febbraio 1919.
Morselli, insieme a Bianca e la figlia Liana, decide di seguire la compagnia nel
capoluogo lombardo, ma la prima viene rimandata per problemi tecnici.
Tumiati, molto preoccupato per la salute dell’amico, approfitta della forzata
pausa per distoglierlo dall’insano proposito di seguire la compagnia in tutta la
tournée e prende la decisione di abbandonare il progetto.27
Nell’aprile 1919 Claudio Guastalla incontra il drammaturgo e decide di
collaborare con lui per ricavare un libretto dall’opera.
Nel novembre 1919 Ottorino Respighi riceve dall’editore di Ricordi, Carlo
Clausetti, l’incarico di comporre l’opera Belfagor su libretto di Guastalla.
Nell’autunno dello stesso anno, Guastalla informa Respighi:
Belfagor non va, ma proprio per niente. Manca la personalità del protagonista. Morselli
ha dovuto autorizzarmi a fare un secondo atto per dare spessore a quel diavolone che è
a mille miglia da ogni astuzia diabolica ed è persino un grande imbecille. 28
Il lavoro di composizione dura due anni e Morselli nel frattempo muore.
Il 6 giugno 1922 Respighi annuncia finalmente al suo editore di aver ultimato
il Belfagor.
L’opera musicale è composta da un prologo, due atti e un epilogo
(originalmente quattro atti nel Morselli) e prevista per la direzione del maestro
Toscanini.
La trama del libretto ripercorre alquanto fedelmente quella della commedia di
Morselli e se sono presenti alcuni cambiamenti, anche nella maniera di descrivere
i personaggi, ciò che colpisce immediatamente il lettore e l’ascoltatore è la
maniera in cui costoro si esprimono.
Respighi dedica l’opera a Morselli, già morto da qualche anno, e il cast della
prima musicale, tenutasi alla Scala di Milano il 26 aprile 1923, comprende:
Mariano Stabile (Belfagor), Margaret Sheridan (Candida), Francesco Merli
(Baldo) e Toscanini, inizialmente previsto cede il posto al maestro Antonio
Guarnieri.
Il diavolo vestito da ricco mercante (baritono) e il padre della bella Candida,
Mirocleto (basso), svolgono i ruoli grotteschi, tipici dei 'perdenti'; Candida
(soprano) e il suo innamorato Baldo (tenore) incarnano le leggi vincitrici
dell’amore con una delicata e quasi canzonettistica metodicità.
Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 198.
Ferrati-Bertoloni Meli (1993), p. 199.
28 Bragaglia-Respighi (1978), p. 24.
26
27
40
Tra gli effetti più riusciti, nella realizzazione musicale della vicenda, sta il
concerto di campane che segna la definitiva sconfitta del diavolo.
Guastalla afferma:
Quel periodo del Belfagor a Milano fu certamente uno dei peggiori della nostra vita di
autori, ma l’accoglienza del pubblico, così spontanea e festosa e la conoscenza che l’opera
fosse cosa degna e viva ci consolarono di tante amarezze.29
Filippo Tommaso Marinetti, sulle pagine del Popolo d’Italia, definì il Belfagor
un’opera futurista.
Walter Zidaric oggi afferma che Guastalla, influenzato dalla poesia
dannunziana, travisò il tono sostanzialmente leggero e parodico del messaggio
morselliano e, nel suo libretto, finì col compromettere l’unità stilistica necessaria
che avrebbe potuto consentire a questo lavoro di riallacciarsi alla tradizione
dell’opera buffa italiana.30
Il Belfagor viene pubblicato postumo dall’editore Treves nel 1930 e viene
portato per la prima volta sulla scena al Teatro Valle di Roma il 19 maggio 1933
dalla compagnia Kiki Palmer.
Ermanno Contini sul Il Messaggero del 20 aprile 1933 scrive:
Spettacolo ammirevole per fasto e per fantasia, per varietà di colori e di toni: un sapore
fiabesco e paesano, ad un tempo, ricco di quella ingenua malizia che è propria delle
favole popolaresche e che seduce per la pittoresca, semplice vivacità dell’immaginazione
[…] Il successo fu caldo vibrante, unanime: cinque chiamate al primo atto, sei al
secondo, sette al terzo, sei al quarto.
Il Belfagor, dopo le repliche al Valle, è rappresentato al Politeama di Napoli, a
La Pergola di Firenze e all’Arena Lido di Pesaro e, come in precedenza altri lavori
morselliani, è stato presto dimenticato e tolto dal repertorio del teatro italiano di
fantasia.
La Critica
Secondo Angelo Della Massea, l’opera morselliana è divisa nettamente in due
tempi: quello che precede, prettamente materiale; quello che segue, prettamente
spirituale.
Il primo si riferisce al tempo dell’osservazione diretta, fatta accuratamente nei
lunghi viaggi, nelle soste volute o inaspettate; l’altro si riallaccia alle calme
considerazioni dopo il suo ritorno in patria.31
Quaderni di Guastalla in Il teatro di Respighi.
Zidaric (2006), p. 199.
31 Della Massea (1928), p. 84.
29
30
41
Per De Michelis il teatro di Morselli nasce dalle figure che popolavano le
Favole, animali alberi e cose parlanti, fuori, nonché dall’acredine, dalla puntuale
personificazione che era loro affidata.32
De Robertis aveva lodato nel Morselli «non dirò un costruttore, ma
disegnatore di scene, con una maniera franca di colorista, che va riportata a quel
suo gusto impetuoso per certi effetti allegri dove a volte batte il ritmo d’una
fantasia giovanile»33.
Il Gobetti avvertiva che nell’Orione «l’unità elementare dell’azione è la scena,
successione di episodi in cui il grottesco nasce dal realismo per euritmia
fantastica, non per una vendetta autobiografica di cattivo gusto».34
Il Glauco di Morselli fu criticato dallo stesso Gobetti per l’abbandono di ogni
'mediatezza ironica' verso i miti classici. L’opera rappresenta lo sforzo più
coraggioso dell’autore per confrontarsi con il suo tempo, contrapponendosi come
può, dolorosamente, ai miti più pericolosi in esso già radicati: l’avventura e la
guerra.
La tradizione morale, che s’oppone all’avventura, non possiede ormai di fatto
vitalità e perciò anch’essa si esprime in moduli che appaiono convenzionali, vuoti
e stantii.35
Sempre il Gobetti scrive:
non ci sono più veri eroi in questo teatro di poesia, non ci sono autentici e nuovi valori
per cui combattere in un senso o nell’altro: la tragedia si spezza subito, fin dalla
partenza di Glauco 'perché i personaggi non si comunicano': il falso eroe e la falsa
eroina 'nulla hanno in comune'. Si lasciano in silenzio […] Scilla non è una persona:
è la giovinezza di Glauco, il suo sorriso d’ingenuità. Diventano dominanti il simbolo e
la morale della favola: si cerca la felicità lontana mentre la si poteva trovare vicina.36
Certo Morselli era partito forse da premesse più avanzate rispetto alla forma
del suo teatro: il mito, la trasfigurazione fantastica della realtà, era divenuto nelle
sue mani lo strumento valido per attualizzare la sua polemica contro il mondo
contemporaneo; anche per l’intonazione lirico-satirica che ne caratterizzava
l’espressione drammaturgica.37
Galletti notava che il Morselli, avvertito dai sintomi di un male incurabile che
la sua vita sarebbe stata breve e senza speranze, fece coll’immaginazione
vendetta allegra del suo destino, beffandosi dell’inesorabile Natura e della sua
creatrice e struggitrice cecità in un dramma mitologico, Orione, ove il
protagonista, figlio della Terra, gigantesco e istintivo come certi eroi del Folegno
De Michelis (1952), p. 80.
De Robertis, Nuovo Giornale, Firenze, 15 dicembre 1919.
34 Gobetti (1974), p. 697.
35 Barsotti Frattali (1986), p. 118.
36 Gobetti (1974), pp. 699-700.
37 Barsotti Frattali (1986), p. 119.
32
33
42
o del Rabelais, lussurioso e vorace come l’Eracle della commedia attica e non
meno di lui prode ed invincibile, muore da ultimo, in modo poco diverso dal
Morgante del Pulci, per la puntura di un piccolo scorpione.
Nel dramma Glauco, Morselli versò tutte le nostalgie e le tristezze della sua
anima generosa e dolente: il ricordo delle giovanili audacie, il sentimento
dell’eterna vanità dei desideri e dei sogni, il rimpianto della vita che illude e della
felicità che irride; ma con tanta sincerità e tanto ardore, così con una vivida
intuizione delle armonie segrete che agitano la natura spiritualizzandola, da
infondere in ogni scena del dramma una singolare malìa poetica.38
Infine, Tilgher afferma circa le opere di Morselli:
In Orione egli trasporta sopra un piano di pagana carnalità e dissolve con l'ironia
l'intuizione dannunziana della vita, incarnando nel semidio Orione la volontà di vita
piena e intensa che si butta sul mondo come una tempesta a farne sua preda, ma che la
puntura di uno scorpioncello basta a far crollare a terra di colpo. In Glauco egli canta
malinconicamente la vanità della volontà di potenza e di vita superiore, che, spiccatasi
dal focolare domestico a inseguire pel mondo i fantasmi d'imperio di ricchezza di gloria,
quando vi ritorna per gettare i conquistati tesori ai piedi di colei che è rimasta ad
attenderlo e per la quale soltanto ha combattuto e vinto, trova il focolare freddo e spenta
l'aspettante, e con lei s'inabissa nei gorghi del mare a piangervi in eterno il suo infinito
dolore. In Morselli la nostalgia della vita come slancio di eterno autosuperamento e,
insieme, l'impotenza a viverla si esprimono artisticamente nella forma di gracili idilli
fiabeschi, tutti soffusi di tremante malinconia. 39
Ercole Lugi Morselli muore nella notte fra il 15 e il 16 marzo 1921 nella clinica
Kinesiterapica “Giovan Battista Morgagni” di Roma a soli 39 anni.
Vincenzo Cardarelli, in un articolo apparso in Il Tevere del 20 marzo 1925,
dichiara:
Occorreva che il male e la sinistra miseria lo fiaccassero, che si oscurasse alquanto quel
suo giovanile spirito spavaldo troppo dorato per il gusto borghese dei nostri tempi,
perché dalle corde indebolite del suo cuore sorgesse un canto lugubre, antieroico e
tripudiante di sentimentalismo, tale da conciliargli il favore del pubblico. Allora la
rettorica indiscreta e l’immancabile cortigianeria assunsero il grave aspetto della critica
e il volto radioso della gloria, ed egli ne ricevette il soffocante amplesso nel suo letto di
morte.
Conclusioni
Ercole Luigi Morselli è stato un artista a tutto tondo, scrittore, drammaturgo e
disegnatore.
38
39
Galletti (1967), pp. 437-438.
Tilgher (1923), pp. 103-104.
43
L’incontro con le menti geniali di Papini e Prezzolini gli permise di
approfondire la sua sete di conoscenza pura.
Il viaggio assunse un ruolo molto importante nella sua vita; è la parte che lo
cambierà e che influenzerà la sua scrittura fino alla morte.
L’unica sfortuna dell’autore è stata quella di essere un contemporaneo di
grandi scrittori come Gabriele D’Annunzio e drammaturghi a livello di
Pirandello, il quale, durante il periodo di maggiore crisi e sofferenza del Morselli,
tradusse il Glauco e ne fece una versione siciliana dal titolo Glaucu.
Egli fu anche molto attaccato dalla critica ma il pubblico, alle fine delle
rappresentazioni teatrali, era entusiasta di questo drammaturgo che aveva
sempre qualche aspetto nuovo da dire e la sua arte era all’avanguardia.
La morte prematura ha fatto sì che pian piano venisse dimenticato dalle
generazioni successive e quei drammi scritti in un linguaggio arcaico e talvolta
dialettale sono stati poco compresi, fino a scomparire dalle scene teatrali. Solo
recentemente alcune compagnie hanno ritirato fuori questi pezzi della letteratura
italiana del primo Novecento e si spera che Ercole Luigi Morselli sia di nuovo
osannato come scrittore di prestigio e valenza.
Pietro Pancrazi scrisse nel 1928:
Al povero Morselli nocquero, in vita, forse ugualmente, il troppo clamoroso successo,
e subito dopo, per due volte, la dimenticanza. Per dieci anni, la sua fortuna parve
oscillare dall’uno all’altro eccesso: ora in una luce troppo viva, ora in un’ombra
ingiusta.40
Mentre Alfredo Luzi oggi scrive:
Ercole Luigi Morselli, come il suo grande contemporaneo Luigi Pirandello, ha mirato a
liberare attraverso il teatro un sentimento della vita che ha il diritto di essere
rappresentato. Egli ha inseguito un sogno, nella vita e nell’arte. Ma il successo artistico
è stato distrutto dal suo dramma umano.41
Samanta Casali
samycsl87@virgilio.it
40
41
Pancrazi (1967), p. 150.
Luzi (2017), p. 19.
44
Riferimenti Bibliografici
Antognini (1975)
Carlo Antognini (a cura di), Introduzione, in E.L. Morselli, Favole per i re d’oggi,
Ancona, Edizioni l’Astrogallo, 1975.
Barsotti Frattali (1986)
Anna Barsotti Frattali, D’Annunzio e il teatro di poesia, in Teatro contemporaneo, vol.
I, Roma, Lucarini Editore, 1986.
Bragaglia-Respighi (1978)
Leonardo Bragaglia, Elsa Respighi, Il teatro di Respighi, Roma, Bulzoni, 1978.
Della Massea (1928)
Angelo Della Massea, Ercole Luigi Morselli, la vita e gli scritti, Foligno, Franco
Campitelli, 1928.
De Michelis (1952)
Eurialo De Michelis, Narratori e antinarratori, Firenze, La Nuova Italia, 1952.
Ferrati-Bertoloni Meli (1993)
Lucia Ferrati-Vasili Bertoloni Meli, Ercole Luigi Morselli. Vita e Opera, Firenze, La
nuova Italia, 1993.
Ferrati (2010)
Lucia Ferrati, Il poeta del teatro e della vita; Ercole Luigi Morselli, Pesaro, Metauro
Edizioni, 2010.
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Adriano Galletti, Orione e Glauco di E. L. Morselli, in Storia Letteraria Italiana, Il
Novecento, Milano, Vallardi, 1967.
Gentili-Menghetti (2003)
Sandro Gentili-Gloria Menghetti (a cura di), Giovanni Papini-Giuseppe
Prezzolini, Carteggio I, 1900-1907, Dagli uomini liberi alla fine del Leonardo, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2003.
Gobetti (1974)
Piero Gobetti, Scritti di critica teatrale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1974.
Luzi (2017)
45
Alfredo Luzi, Prefazione, in Walter Zidaric (a cura di), Tutto il teatro di Ercole Luigi
Morselli, Roma, Universitalia, 2017.
Pancrazi (1967)
Pietro Pancrazi, Ragguagli del Parnaso, dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di
Cesare Galimberti, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1967.
Papini (1921)
Giovanni Papini, Ercole Luigi Morselli, estratto da La lettura, 1921.
Prezzolini (1978)
Giuseppe Prezzolini, Diario 1900-1941, Milano, Rusconi Editore, 1978.
Tilgher (1923)
Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, Roma, Libreria di scienze e lettere,
1923.
Zidaric (2006)
Walter Zidaric, Belfagor di Claudio Guastalla e Ottorino Respighi: la vena comica e
nazionalistica nel melodramma italiano del primo ‘900, in «Chroniques italiennes», 3
(2006), pp. 175-200.
Manoscritti editi
Morselli, Acqua sul fuoco, B.O., Fondo Morselli, Op. c. 11, fasc. 1.
Manoscritti inediti
Morselli, Una croce tarlata, manoscritto inedito, 1909, B.O., Fondo Morselli, Op. c.
9.
Morselli, Appunti per una prosa, manoscritto inedito, non datato, B.O., Fondo
Morselli, Op. c. 2, fasc. 1, n 5.
Giornali
Il Caffaro, 29 maggio 1926.
Il Giornale d’Italia, 19 marzo 1910.
Il Giornale d’Italia, 1° aprile 1910.
Il Messaggero, 20 aprile 1933.
Il Resto del Carlino, 31 maggio 1919.
Il Tevere, 20 marzo 1925.
46
Ercole Luigi Morselli was a twentieth-century Italian writer. His history was full of
successes and bad luck. The most famous novel he wrote was Glauco. His manusripts are
stored in Biblioteca Oliveriana of Pesaro.
Parole-chiave: drammaturgo; teatro; ribelle; critica; figure mitologiche e
favolistiche
47
ANTONELLO FABIO CATERINO, Echi ‘petrosi’ nel Cinquecento
italiano. Mario Colonna e le sue Pietre Madrigali: edizione,
commento e disamina prosodica
Un interessantissimo ma poco noto ciclo madrigalesco è trasmesso, alle pp. 5964, dall’edizione POESIE / TOSCANE / DELL’ILLVSTISS. / SIGN. MARIO /
COLONNA, / ET DI M. PIETRO ANGELIO / CON L’EDIPO TIRANNO
TRAGEDIA DI / SOFOCLE TRADOTTA DAL MEDE-/SIMO ANGELIO. / IN
FIRENZE, / APPRESSO BARTOLOMEO SERMARTELLI./ M D LXXXIX, sotto il
titolo di Pietre Madrigali.1 Si tratta di 13 madrigali di Mario Colonna2, elegante
rimatore del secondo Cinquecento, imperniati su tema dantesco-petroso: ognuno
di essi è caratterizzato da uno stile aspro, gelido e clous, oltre che dalla menzione
di una pietra come referente di un amore difficile e sofferto. Come risulta
evidente sin da una prima lettura, l’argomento e la prassi dantesca viene fatta
propria dal poeta attraverso la mediazione figurativa dell’esperienza petrosa
dello stesso Petrarca.3 Il risultato è una singolare rosa di testi che – seppur di
pietra per durezza dei referenti e, di conseguenza, per gli affanni provocati – non
mancano di raggiungere una straordinaria originalità e varietà ritmica e
prosodica, fungendo essi stessi, a loro volta, da pietre preziose.4
I madrigali di Colonna non godono, come si diceva pocanzi, di grande fortuna critica in
età contemporanea. Perplime non poco l’assenza totale del poeta nella recente disamina di
Salvatore Ritrovato, Studi sul madrigale cinquecentesco, Roma, Salerno Editrice, 2015. Si fa
menzione del ciclo, invece, in una splendida seppur velocissima presentazione del Colonna,
nell’ottima antologia Anselmi-Elam-Forni-Monda (2004).
2 Una dettagliata biografia del Colonna (alla luce delle non abbondanti testimonianze
rimasteci) è di Longo, (1982). La voce è disponibile online all’indirizzo
http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-colonna_(Dizionario-Biografico)/: ecco la ragione per
cui non si citano in riferimento i numeri di pagina, con buona pace dei pedanti e del loro
immancabile ipercorrettismo.
3 La bibliografia di riferimento sul Petrarca “petroso” è ampia. Rimando dunque all’ottima
sintesi - funzionale a chiunque voglia orientarsi nella selva della presenza dell’esperienza
dantesca petrosa in Petrarca - di Berra (2007, 99-116).
4 Il titolo Pietre madrigali consente di certo una doppia lettura: ‘madrigali petrosi’ e ‘madrigali
preziosi’. Nel Vocabolario della Crusca del 1612, all’interno del lemma pietra, infatti, vi è anche
questa definizione: «PIETRA. Terra indurita per l’evaporazion dell’umido, o per costrignimento
di esso, e trovasene di varie, e diverse spezie, secondo la disposizione della lor materia, quand'
elle si generano. Sasso. […] Pietra si dice anche alla gioia».
1
48
Giovanbattista Strozzi il Giovane, in una celebre sua lezione sui madrigali,
tenuta nel 1574 di fronte all’Accademia Fiorentina5, riporta testimonianza di
questo ciclo madrigalesco:
[…] il signor Mario Colonna, il quale in quei suoi quattordici madrigali, avendo da
prima detto più volte pietra, se ne passò negli altri a dire selce, marmo e calamita […]
N.
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
Incipit
Nova pietra lucente
Sì chiara e bella ogn’or si mostra
Se ’n te, dolc’empia cote
Fidato, almo sostegno
Chiara selce, che ’l foco
Con una pietra il fianco
Sordo a’ lamenti altrui, rigido scoglio
Qual selce in alto giogo
Come la pietra ardita
Or rubino, or topazio
Non di porfido o marmo
Se ben mia vista abbaglia
Tra quanto ha bello e vago
Che Strozzi stia parlando delle pietre madrigali è certo, nonostante il numero
dei madrigali in nostro possesso, desunti dalla princeps, sia soltanto tredici
(sembrerebbe un mero errore materiale di chi riporta la notizia). Il ciclo, dunque,
non era certo sconosciuto agli uditori della lezione: ne consegue che l’esperienza
madrigalistica di Colonna non era affatto marginale.6
Tutto parte da un’esperienza autobiografica: Mario Colonna era – come
peraltro l’amico/rivale Angelio, col quale condivide l’edizione di cui sopra – un
inquieto spasimante della nobildonna Fiammetta Soderini7, nota per la sua vita
movimentata e costellata di numerosi amori nella Firenze di Cosimo I. È quindi
altamente probabile che dietro i vari senhal petrosi si celi proprio la Soderini.
Cfr. Strozzi (1635).
Vale la pena qui sottolineare, però, come nessun madrigale di Colonna è stato messo in
musica. È altamente probabile che lo stile petroso sia stato giudicato scarsamente cantabile, anche
a fronte dell’originalità prosodica di cui si parlerà ampiamente a breve. Un’indagine accurata su
questo frangente è stata condotta attraverso il REPIM, Repertorio della poesia italiana in musica,
1500-1700, a cura di Angelo Pompilio.
7 Informazioni su Fiammetta Soderini sono rintracciabili in Lotti (2018).
5
6
49
Segue l’incipitario dei testi, quindi integralmente i tredici madrigali8, preceduti
da un breve cappello introduttivo9 e seguiti rispettivamente dagli apparati.10
I
Il poeta si innamora di una nuova donna, bella come una pietra lucente e
levigata. Non crede ai suoi occhi, e gli pare di sognare, tanto è intensa la bellezza
che lo ha fatto definitivamente innamorare.
Nuova PIETRA lucente,
Sovra l’uso mortal pulita e tersa,
In queste amene rive
Vid’io di sì diversa
Grazia, che sogno par quanto si scrive
Del beato oriente,
Da indi in qua per lei fatto possente.
Di lei mi tiene Amore
Negli occhi il lume e la virtù nel core.
5
1. Sin dal verso iniziale torna in mente un madrigale, altrettanto petroso, di
Giovanbattista Strozzi il giovane: «A bronzi vita, e marmi / Tu dar sì lunga sai, /
Che non questa un sol dì m’avvivi, e smarmi / PIETRA più bella assai? /
PIETRA lucente di celesti rai? / PIETRA in sì nuova angelica sembianza? / Fin qui
tu gli altri, hor deh te stesso avanzi» (Madrigali, 98).
2. Pulito e terso è, in Dante, il marmo (Purg. IX,95). L’espressione «sovra l’uso»
compare già in Bembo (Stanza 43,8).
7. «Da indi in qua» è tessera petrarchesca (RVF 126,64 e 144,11).
9. Si noti la struttura chiastica.
Nota al testo: traggo i madrigali dalla cinquecentina della quale si è prima parlato. Segnalo
in apparato eventuali cambiamenti rispetto al testo originale. Provvedo ad eliminare le <h>
etimologiche, nonché a ricondurre la punteggiatura secondo gli usi attuali. Conservo i
maiuscoletti dell’edizione, che vanno ad enfatizzare i referenti petrosi.
9 Vorrei a questo punto fare una precisazione, che spero non risulti al lettore come una
excusatio non petita: Non voglio in questa sede ricadere nel comune errore di dilungarsi a tal punto
in cappelli introduttivi, da far quasi dimenticare il testo del poeta. Ricordo che si tratta di
madrigali che – come a breve si vedrà – constano in media di 9-10 versi, con grande prevalenza
del settenario, verso per eccellenza nobile ma breve. La brevità del cappello introduttivo è dunque
figlia di una precisa scelta esegetica.
10 Per lo spoglio delle fonti si è usata la Biblioteca Italiana, e di conseguenza tutte le edizioni
in essa digitalizzate. Fanno eccezione i riferimenti ad Antonio Brocardo, per cui si è tenuto conto
dell’edizione curata da chi scrive (Antonio Brocardo, Rime, edizione critica e commento a cura di
Antonello Fabio Caterino, Roma, Aracne, 2017).
8
50
II
Il poeta descrive la sua donna come una selce che nasconde al suo interno una
fiamma indicibile, capace di ledere gli occhi e l’anima di chi la guarda, ma anche
di far bruciare di passione il cuore. Epperò la donna in questione è causa di non
meglio specificati affanni per il poeta, poiché ella – se dentro arde – al di fuori è
capace di riversare solo amarezza. L’amore, a quanto pare, è tutt’altro che
corrisposto.
Sì chiara e bella ogn’or si mostra e splende
Questa mia nuova SELCE preziosa,
E dentro tien sì viva fiamma ascosa
Che ne gli occhi ferir l’anima offende.
Indi lo cor s’accende,
E accoglie in sé dolci faville
Da lei, tante fuor versa amare stille;
Né men però dov’ella arda e sfaville
Tutti i pensier miei vanno
Folli cercando posa ne l’affanno.
5
10
1. Molto simile l’espressione di Marino «mentr’arde e splende, / si mostra il
sol» (Rime amorose 15,9-10).
3. Ricorda Serafino Aquilano: «porto una fiamma ascosa nel mio core» (incipit
dello strambotto 82).
4. ‘Che nel ferire (scil. per la troppa luminosità) gli occhi reca danno anche
all’anima’.
5. Cfr. Giusto: «e ’l cor s’accende a seguitar l’impresa» (La bella mano 202, 10).
6. Ricorda Petrarca: «Sì dolci stanno / nel mio cor le faville» (RVF 221,5-6).
7. Stille/sfaville è rima petrarchesca (RVF 322).
III
Il poeta spera di essere vendicato – a fronte dell’asprezza dell’amata – da
Amore, ma nulla può scalfire la pietrosa durezza della donna amata, neppure il
dio alato con le sue armi. Anche se il poeta gli chiedesse aiuto, Amore non
avrebbe il solito vigore, perché di fronte a una dura cote – pietra che usa proprio
per affilare i suoi strali – non si può fare poi molto.
Se ’n te, dolc’empia COTE,
Amor suoi strali affina,
Onde l’alme trafigge, onde percuote,
Come da la divina
Faretra contro a te soccors’io spero?
Già non rubello e rio
5
51
A’ suoi fedeli amici è ’l Signor mio.
E se ’l volesse, è frale e non intero
L’usato suo valore,
Ché ’l tuo fermo rigore
Punger piaga non può, noiar dolore.
10
1. Immediato il rimando a RVF 340 («sempr’aguzzando il giovenil desio / a
l’empia cote» (vv. 34-35).
2. Estremamente petrarchesco anche questo secondo verso. Cfr. RVF 151, 8: «in
che i suoi strali Amor dora et affina».
8-9. ‘La sua (di Amore) solita prestanza è fragile e non completa’.
9. «Usato valore» è tessera boccacciana (Teseida 10, 44, 10, 48; Filostrato 7, 79).
11. Degna di nota l’allitterazione di /p/, che contribuisce a dare all’epifonema
un senso maggiormente conclusivo. Entrambi i verbi, nella loro forma infinita,
sono tronchi, e ciò enfatizza i gruppi /ar/ ed /er/, che ritrovano in /or/ di dolore
una meravigliosa eco, capace di enfatizzare non poco il senso generale di
struggimento senza via di fuga.
IV
Il poeta si rivolge alla sua amata, sempre descrivendola come una pietra di
rara bellezza e splendore, capace di sostenere il suo cuore. Ma – a suo dire – la
bellezza di quest’ultima potrebbe essere moltiplicata se fossero minori gli affanni
e i dolori da essa causati.
Fidato, almo sostegno
De lo stanco mio core,
In cui del nobil regno
Locato ha ’l seggio suo sovrano Amore,
PIETRA, che di colore
E di luce e di pregio
Tra le più chiare sei gemma più chiara,
Quanto saresti tu più bella e cara
Se ’l tuo dolce splendore
A chi sì t’ave in pregio
Notte non fesse poi fosca e amara?
5
10
1. «Almo sostegno» compare in Bembo, Rime 135,5.
3-4. L’immagine è modellata a partire da RVF 140,1-2 («Amor, che nel penser
mio vive et regna / e ’l suo seggio maggior nel mio cor tene»).
9. «Dolce splendore» è una tessera più volte adoperata dal Magnifico (92, 9;
Altre rime 7, 11).
52
10. Sembra un’eco ariostesca: «Donne, e voi che le donne havete in pregio»
(incipit del celebre canto XXVIII del Furioso).
11. Sembra una reminiscenza di RVF 332, 66 («a me fesse atre notti»). La coppia
«fosca e amara» compare anche in Muzzarelli, Rime 48.
V
Il poeta ancora una volta si rivolge alla sua donna, simboleggiata da una selce
che al suo interno ha il fuoco amoroso, che è per lui causa di struggimenti e
lamenti continui. Eppure, nonostante la selce abbia al suo interno la face d’amore,
vicino ad essa il poeta ghiaccia.
Chiara SELCE, che ’l foco
Conservi, onde la face
Arde d’Amore eterna,
Ond’io mi struggo e cuocio
Senza trovar mai pace,
E quand’il sol più scalda e quando verna,
Deh, com’empio governa
Amor tuo lume, e come apre la via
A le faville tue la vista mia?
E come poi vicino a te per nuova
Meraviglia gel’io col ghiaccio a pruova.
5
10
5. «Senza trovar mai pace» è espressione altresì usata dal Coppetta, Rime 82,6.
6. La coppia scalda e verna appare già in Bernardo Tasso, all’interno dell’elegia
terza a Bernardino Rota e in Amori 2, 49.
VI
Il poeta spera che l’atteggiamento altero dell’amata – fiera e impassibile di
fronte alle pene del poeta – possa impietosirsi e placare le sue angosce, poiché la
stessa morte è sorda alle sue preghiere. Ancora una volta il poeta identifica
l’amata d’amore non corrisposto in una pietra, usata da Amore per ferirgli il
fianco.
Con una PIETRA il fianco
Mi percosse e impiagommi Amor sì forte,
Che di cosa cercar son fatto stanco,
Che nel duol mi conforte.
Deh, poi che sorda è morte
Perch’io sempre languisca e mai non pera,
Pietosa fatta a’ preghi, al pianto mio,
Quanto già mi ferìo
5
53
Di lei mi sani or la virtute altera.
5. Il rimando a Petrarca è evidente: «pregate non mi sia più sorda Morte, /
porto de le miserie et fin del pianto» (RVF 332, 69-70).
6. La coppia languisca e pera è già attestata in Bembo (Rime 34,5) e in Bernardo
Tasso (Amori, 5 74,4 e 5 125,4).
VII
Il poeta vorrebbe impietosire la sua donna, dura e immobile come uno scoglio
posto sulla gelida cima di una montagna altissima.
Sordo a’ lamenti altrui, rigido SCOGLIO,
Di gelid’alpe in cima,
Com’uom falso s’estima,
Render pietoso col mio pianger voglio.
E, quanto a lui l’orgoglio,
A me cresce umiltate,
Né men l’incendio in me, che’ n lui beltate.
Or s’ei più vago ogn’ or si mostra e duro,
E s’ io d'altra non curo,
Eguale il mio languire
Fia lasso al mio desire.
5
10
2 «Gelida alpe» è usata – in ambito “petroso” (il poeta immagina l’amata
trasformarsi in pietra) – anche da Della Casa (Rime 46,70).
3. La rima languire/desire risale al sonetto Anima sconsolata, a cui ti lasso?,
attributo a Francesco Petrarca.
4. Un concetto molto simile è Girolamo Muzio: «Misero me, i' mi dolgo, e
tuttavia / dilungando mi vo dal mio desio, / e per molto desio piango e languisco;
/ e fo col pianto mio col mio languire / pianger gli sterpi e fo pietosi i sassi»
(Egloga La lontananza, dedicata a Tullia D’Aragona).
VIII
Il poeta – in questo testo particolarmente aspro ma finemente cesellato –
paragona la sua amata a una pietra alpestre che, pur non preoccupandosi
dell’inverno, gela ed è resa ancor più rigida dai freddi venti. Anche quando
sembra voler essere compassionevole, in realtà resta sempre glaciale, come se
davvero godesse di quei pianti e sospiri inutili.
Qual SELCE in alto giogo,
54
Non sol verno non cura,
Ma per Borea e per giel s’inaspra e ’ndura,
Così la bella e dura
PIETRA, qualor il duolo piangendo sfogo.
Quanto par molle in vista
De’ sospir miei, del pianto, al vento, a l’onde,
Lasso, durezza acquista,
Né già sperar saprei pietate altr’onde,
Ma perch’a mano mano
Di pianger goda e sospirar in vano.
5
10
1-5. ‘Come la selce in cima ai monti non si cura dell’inverno, eppure si
irrigidisce e gela a causa del vento di Borea, così la mia amata, bella e dura pietra,
quando sfogo i miei lamenti con mio pianto’.
2. La princeps riporta sol verno non curo, lezione che sintatticamente non regge
(il soggetto non può essere il poeta). Si tratta chiaramente di un errore. Per di più
Colonna dimostra negli altri madrigali di non amare le rime irrelate, e di
permettere versi di seguito connessi dalla stessa rima.
3 Evidentissima la ripresa di RVF 70, 29: «onde, come nel cor m’induro e
’naspro». È interessante notare che il verso successivo nella canzone petrarchesca
(caratterizzata dal versus cum auctoritate) è proprio la citazione della petrosa
dantesca «così nel mio parlar voglio esser aspro». Ciò dimostra ancora che la
ricezione del tema petroso dantesco avviene in Colonna un (inevitabile?) filtro
petrarchesco.
5. «Piangendo sfogo» - modulazione dal «lacrimando sfogo» di RVF 129,57) è
un’espressione presente anche in Tansillo (Poesie Liriche, Canzoni 3,6) e Coppetta
(Rime 79.34).
6-8. ‘Acquista durezza al vento, all’onde, tanto quanto sembra che si
impietosisca dei miei pianti e sospiri’.
7. Si nota la meravigliosa, seppur minima, rapportatio: vento e onde stanno alle
perturbazioni climatiche come sospiri e pianto stanno al poeta.
IX
Il testo si ricollega al mito dei monti magnetici orientali, ed è sostanzialmente
una variazione di RVF 135 16-30: «Una petra è sí ardita / là per l’indico mar, che
da natura / tragge a sé il ferro e ’l fura / dal legno, in guisa che ’ navigi affonde. /
Questo prov’io fra l’onde / d’amaro pianto, ché quel bello scoglio / à col suo duro
argoglio / condutta ove affondar conven mia vita: / cosí l’alm’à sfornita / (furando
’l cor che fu già cosa dura, / et me tenne un, ch’or son diviso et sparso) / un sasso
a trar piú scarso / carne che ferro. O cruda mia ventura, / che ’n carne essendo,
veggio trarmi a riva / ad una viva dolce calamita!». Il poeta immagina che la sua
55
donna lo attrae come una calamita, ma con una particolarità: se questi se
l’avvicina, quella immediatamente si allontana, al punto da causarne al poeta la
morte.
Come la PIETRA ardita
Là, nel Mar d’Oriente,
Alletta ’l ferro e tragge,
La mia gelata mente
E le mie voglie, ch’erano sì selvagge,
Chiama, lusinga e ’nvita
Questa mia nuova dolce Calamita.
Ma s’io pur me l’appresso
Si dilunga repente,
Tal ch’io ne moro espresso.
5
10
4. «Gelata mente» è espressione petrarchesca (RVF 131,4).
8-10. ‘Ma se io me la avvicino, quella si allontana immediatamente, al punto
da farmi morire di dolore immediatamente’.
10. Similmente Varchi: «Non vedi omai crudel ch’io moro espresso» (Rime 4
5,5)
X
Il poeta dapprima paragona l’amata a quattro diverse tipologie minerali –
rubino, topazio, alabastro, perla – per poi accorgersi che in realtà si tratta di un
diamante, l’elemento più duro in natura, e che invece il suo desiderio è fragile
quanto un vetro.
Or rubino, or topazio
Or alabastro, or perla
La PIETRA, ch’io mirar mai non mi sazio,
Mi rassembra a vederla,
Lasso. Ma se ’l pensier risguarda in dietro
E se figura inante
Quai fur, qual’esser denno i desir miei?
E ’l mio sperar di vetro
Esser comprendo, lei
Saldissimo diamante.
5
10
1-2. L’amata ha labbra rosse come un rubino, occhi di un intenso azzurro come
il topazio (RVF 30, 37), denti come perle (es. RVF 157,12) e una carnagione bianca
come l’alabastro (RVF 325, 16). Colonna descrive con referenti petrarcheschi (ad
eccezione del rubino, che mai compare nei RVF) in maniera assai sintetica
l’aspetto della sua donna.
56
8-10 ‘E comprendo che le mie speranze sono come il vetro, ma lei come un
durissimo diamante’.
10. Anche il diamante è referente petrarchesco, e vuol significare da una parte
il candore e la ricercata bellezza ed eleganza dell’amata, ma dall’altra la sua
invincibile durezza. Cfr. RVF 30, 24.
XI
Il poeta paragona l’amata a un marmo, una statua vivente, ma non scolpita da
mano umana, bensì creata e animata da Amore. E proprio amore l’ha resa una
contraddizione vivente, poiché ella ha modi ora gentilissimi, ora alteri.
Non di porfido o marmo
D’umano artista da le man sculpita
La tua, vivo mio MARMO,
Fu beltate infinita.
Ma le die spirto e vita,
E pur di neve ardente e fresche rose,
Saggio Amor la compose.
E ne’ vivaci lumi
Pos’or feri, or angelici costumi?
5
1-4. ‘O mio vivo marmo, la tua bellezza fu infinita non perché scolpita dalla
mano di un artista mortale, nel porfido o nel marmo’.
3. Cfr. il Della Casa (Rime 43,2): «Vivo mio scoglio e selce alpestra e dura, / le
cui chiare faville il cor m'hanno arso; / freddo marmo d'amor» (contenente simili
suggestioni “petrose”).
5-7. ‘Amore saggiamente la creò con neve ardente e fresche rose, e le diede
spirito e vita’. L’espressione «neve ardente» è attestata anche nella madrigalistica
di Giovanbattista Strozzi il Vecchio (Madrigali inediti 99,2). Invece la tessera
«spirto e vita» compare in Giovanbattista Strozzi il Giovane (Madrigali 92 2,3).
8. Somiglia a un passo dell’Ercole del Cinzio: «che seranno amendue vivaci
lumi / di nobili virtù, d'alti costumi» (Ercole, 9).
9. Gli «angelici costumi» sono già in RVF 156, 1.
XII
La luce dell’amata pietra – bella più dei mille tesori dispersi per i mari – è per
il poeta fonte di vita e di orientamento nel suo viaggio. Dunque, lui la guarda e
scruta come fa l’erba, afflitta. col sole.
Se ben mia vista abbaglia
57
Il bel lume sereno
De la PIETRA gentil, che sola agguaglia
Quanti ha tesori il mar di seno in seno,
S’il viver mio vien meno
Senza l’almo suo raggio,
Ché senza lui non aggio
Chi luce o guida aver nel mio viaggio,
Ond’io pur miro lui, sì come suole
Languendo erbetta il sole.
5
10
2. Calco di RVF 37, 83 («’l bel guardo sereno»).
4. Vedi Pietro Bembo: «solcando tutto ’l mar di seno in seno» (Stanze 38,2).
6. Ricorda Bernardo Tasso: «già le fiorite piaggie e i verdi prati / chiamano il
raggio tuo almo e sereno» (Amori 3 13,5-6).
XIII
Il poeta dichiara di essere l’unico a desiderare ardentemente di ammirare la
luce emessa dalla sua amata. Se addirittura potesse sempre vederla, sarebbe
totalmente cieco verso qualsiasi altra cosa. Il componimento termina – chiudendo
peraltro il ciclo madrigalesco – con una nota di speranza: se la notte è troppo buia
e triste, perché non permette al lume dell’amata di brillare, il sole si impietosirà
e porterà un nuovo giorno.
Tra quanto ha bello e vago
L’uno e l’altro emisfero,
Di quella PIETRA il chiaro lampo altero
Son’io mirar sol vago,
E ben contento e pago
Cieco ver’ gli altri oggetti esser sarei
Sol che de la sua vista
Godesser gli occhi miei.
E se la notte m’è noiosa e trista,
E l’ombra, che l’adorno
Lume mi chiude e cela,
Il sol pietoso e ’l giorno
Tosto l’apre e rivela.
5
10
3. «Chiaro lampo» è tessera petrarchesca (RVF 221,6).
10. La citazione della canzone delle metamorfosi (RVF 23, 85) riconferma il
filtro petrarchesco al tema petroso.
11-12. «Adorno lume» è tessera già presente in altri cinquecenteschi quali
Vittoria Colonna (es. Rime 19,6-7) e Antonio Brocardo (Rime, 46, 70-71).
58
N°
madrigale
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
Schema metrico
aBcbCaAdD
N° totale
di versi
9
N° di
rime
4
Percentuale di
endecasillabi11
44,4%
Percentuale
settenari12
55,6%
ABBAaCCCdD
10
4
80%
20%
abAbCdDCeeE
11
5
45,4%
54,6%
abaBbcDDbcD
11
4
36,4%
63,6%
abcabCcDDEE
11
5
45,4%
54,6%
aBAbbCDdC
9
4
44,4%
55,6%
AbbAcCDdee
10
5
40%
60%
abBbAcDcDeE
11
5
45,4%
54,6%
abcbCaAdbd
10
4
20%
80%
abAbCdEced
10
5
30%
70%
aBabbCcdD
9
4
33,3%
66,7%
abABbccCDd
10
4
40%
60%
abBaaCdcDefef
13
6
23%
77%
Dal punto di vista prosodico, si tratta di madrigali variabili per lunghezza,
schema metrico e numero di rime: si va dai 9 ai 13 versi, dalle 4 alle sei rime
interne a ciascun testo. Eccezion fatta per il numero due, composto in
maggioranza da endecasillabi, in tutti gli altri componimenti a prevalere è il
settenario, che contribuisce a dare al ciclo un’impostazione prosodica snella e
cantabile. Si tenga dunque presente il seguente schema.
Mai due volte si ripete il medesimo schema metrico. Si possono però trovare
affinità metriche tra testi: il madrigale I e il VI sono entrambi costituiti da 9 versi
e 4 rime, e condividono lo stesso rapporto settenari/endecasillabi. Molto simile a
questi due testi è il madrigale 11, che però presenta, a parità di numero di versi e
rime, un endecasillabo in meno (tramutato in settenario). I madrigali III, V e VIII
presentano tutti e tre 11 versi, 5 rime e il medesimo rapporto
settenari/endecasillabi. La coppia II IX presenta - su 10 versi e 4 rime – un
rapporto settenari/endecasillabi invertiti (rispettivamente 80/20 il primo e 20/80
il secondo). La coppia VII XII presenta, infine, nonostante un diverso numero di
11
12
Si approssima al primo decimale.
Ut supra.
59
rime, parità di versi e di rapporto endecasillabi/settenari. Fa eccezione il
madrigale 13, che resta uno schema a sé, perfetto per concludere il ciclo.
Per quanto concerne – invece – lo schema rimico in relazione alla distribuzione
del testo, è possibile delineare la seguente panoramica:
N° madrigale
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
Schema metrico
Commento prosodico
aBcbCaAdD
Per quanto il testo sia costituito da un unico,
ampio periodo, la struttura metrica si articola
in terzetti.
Il madrigale di Michelangelo Questa mia
donna è sì pronta e ardita ha uno schema quasi
identico: ABBAaCccDD. I primi quattro versi
sembrano la prima quartina di un sonetto.
Segue un unico periodo di sei versi
dall’andamento ternario.
La struttura rimica è chiaramente binaria,
salvo per l’endecasillabo finale, che funge da
verso impari e va a chiudere il testo rimando
col precedente distico.
Si tratta di un unico periodo, questa volta
però suddivisibile ritmicamente in distici, con
l’eccezione dell’explicit, rimato con l’ultimo
verso dell’ultimo distico.
È il madrigale che ricorda maggiormente la
stanza di una canzone. Si veda RVF 268
(AbCAbCcDdEE):
le
singole
stanze
differiscono dal madrigale in questione solo
per dosaggio endecasillabi/settenari.
Il testo può essere suddiviso in due sezioni,
entrambe a loro volta di impianto binario. A
cesura delle due parti è posto il quinto verso
(b), che funge da chiave.
Dopo
un’evidente
quartina
iniziale
(rafforzata anche da un unico blocco
sintattico), il testo si sviluppa su base binaria
(distici).
L’articolazione sintattica del componimento
fa pensare a un testo diviso anche
prosodicamente in due sezioni: la prima è
un’anomala struttura su base cinque,
corrispondente a un quartetto in rima
incrociata con l’aggiunta di un terzo elemento
mediano; la seconda è una quartina
ABBAaCCCdD
abAbCdDCeeE
abaBbcDDbcD
abcabCcDDEE
aBAbbCDdC
AbbAcCDdee
abBbAcDcDeE
60
IX
X
XI
XII
XIII
abcbCaAdbd
abAbCdEced
aBabbCcdD
abABbccCDd
abBaaCdcDefef
regolarmente costituita da due distici in rima
alternata.
Si tratta di un madrigale costituito da terzetti.
Il verso settimo funge, dunque, da chiave.
Il testo è ripartibile in due sezioni: la prima è
costituita da un quartetto su base binaria, la
seconda da due terzetti. Non ci sono chiavi.
Trattati di un componimento costruito
essenzialmente su base binaria. L’unità è
dunque il distico, e il verso quinto (b) funge
da chiave tra le due sezioni.
Testo su due sezioni: la prima consta in un
quartetto a rima alterna, mentre la seconda di
due terzine.
Componimento diviso – seguendo anche la
distribuzione interna del testo – in due
sezioni: la prima a sua volta è composta da tre
terzine, la seconda da due distici. È il
componimento che più di tutti somiglia a una
ballata, senza però ripresa alcuna.
Una simile duttilità prosodica rende questo piccolo sicuramente ciclo degno
di nota (dando dunque ragione al Giovanbattista Strozzi), e come prova poetica
di un petrarchismo che a un certo punto può finalmente essere adoperato non in
modalità asfissiante, bensì come fondale su cui innestare altre tipologie di riprese
e artifici (finanche di maniera), e come testimonianza di un genere – quello
“petroso” – che non vuole saperne di uscire di scena dal panorama lirico italiano.
Antonello Fabio Caterino
Università degli Studi del Molise
antonello.caterino@unimol.it
61
Riferimenti bibliografici
Anselmi-Elam-Forni-Monda (2004)
Gian Mario Anselmi - Keir Elam - Giorgio Forni - Davide Monda (a cura di), Lirici
europei del Cinquecento, Milano, BUR, 2004.
Berra (2007)
Claudia Berra, Appunti per una cronologia del Petrarca ‘petroso’, in Estravaganti,
disperse, apocrifi petrarcheschi, a cura di Claudia Berra - Paola Vecchi Galli, Milano,
Cisalpino, 2007.
Caterino (2017)
Antonello Fabio Caterino (a cura di), Antonio Brocardo, Rime, edizione critica e
commento, Roma, Aracne, 2017.
Longo (1982)
Nicola Longo, Mario Colonna, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. XXVII,
1982.
Lotti (2018)
Laura Lotti, I castelli dei Malaspina in Lunigiana dal Medioevo al Settecento. Le dame,
i cavalieri, le violenze, [s.l.] Regione Toscana, 2018.
Strozzi (1635)
Orazioni et altre prose del signor Giouambatista di Lorenzo Strozzi, Roma, nella
stampa di Lodovico Grignani, 1635.
The aim of this essay is to offer an edition of Mario Colonna’s madrigals, poet active
in Cosimo I's Florence. Colonna's madrigals are "petrosi", i.e. full of references - alluding
to his woman - from the mineral world. The article tries to put the texts in relation to the
fortune of Dante and Petrarca in the sixteenth century, and wants to insert them correctly
in the history of Renaissance madrigals.
Parole-chiave: Mario Colonna; Cosimo I; Firenze; Madrigali; Petrosi.
62
GABRIELE D’ANGELI, L'uomo di Torino di Velso Mucci. Appunti
per una lettura critica
Quando, nel 1967, L'uomo di Torino di Velso Mucci venne pubblicato da
Feltrinelli con l'introduzione di Valerio Riva, l'autore era già scomparso da tre
anni.
Nato a Napoli nel 19111, fu fondamentalmente un apolide o, meglio, un
cosmopolita. La sua formazione giovanile e poi della maturità è segnata dalle
figure poetiche, filosofiche e intellettuali di Lucrezio, Foscolo, Leopardi e poi di
Croce, Vico, Hegel, Marx e Gramsci, passando così da un accostamento critico
all'idealismo gentiliano a un'adesione intelligente, appassionata ma niente affatto
schematica né ortodossa al materialismo e al marxismo.
Fu collaboratore di riviste come Il Selvaggio di Mino Maccari (animatore di una
fascismo 'rivoluzionario' e antiborghese la cui battaglia cominciò ben presto a
impantanarsi nelle maglie delle sue stesse contraddizioni)2; fondò negli anni
Quaranta prima il Concilium Litographicum e poi il Costume politico e letterario; fu
corrispondente de L'Unità, traduttore3, saggista e filosofo impegnato, critico
militante di letteratura e d'arte4, si interessò di De Chirico, De Pisis, Morandi,
Maccari, Spazzapan, che conobbe personalmente e per i quali curò delle
esposizioni nella sua piccola libreria antiquaria a Parigi, negli anni Trenta; curò
un'Avvertenza alle Lettere non spedite di Vincenzo Cardarelli e una prefazione
Notizie biografiche sull'autore vengono raccolte nel 1974 nel Dizionario generale degli autori
italiani contemporanei, edito da Vallecchi (ad vocem), poi nel 1992 nel Dizionario della letteratura
italiana del Novecento, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino (ad vocem). Per una biografia
attenta e approfondita sull'autore è possibile leggere gli articoli che Pepi ha dedicato all'autore su
Belfagor nel 1995 e nel saggio Mucci e l'«umana compagnia» come contributo al Convegno
sull'autore tenutosi il 17 aprile 1982, ora stampato in volume dal titolo Ricordo di Velso Mucci e
l'articolo di Lombardi Appunti per una biografia di Velso Mucci in Quest'uomo: Velso Mucci.
Contributi sulla figura e l'opera, Cosenza, 1974. Infine, un'ampia ed esaustiva bibliografia di e su
Mucci è raccolta nel sito dedicato all'autore, http://velsomucci.altervista.org/.
2 Confronta a questo proposito Catalano (1979), pp. 87-93.
3 La sua attività di traduttore e diffusore in Italia della poesia di Hikmet è stata recentemente
ricordata nel volume di Giacomo D'Angelo, Cantastorie della rivoluzione. Nâzim Hikmet, Joyce Lussu,
Velso Mucci, Solfanelli, Chieti, 2008.
4 La maggior parte degli interventi critici di Mucci sono stati raccolti e pubblicati postumi
nel volume a cura di Mario Lunetta, L'azione letteraria, Editori Riuniti, Roma, 1977; recentemente
sono stati editi alcuni scritti rari e inediti a cura di Alberti nel volume Mercato delle pulci. Scritti
inediti e rari (1930-1963), Scalpendi, Milano, 2015.
1
63
all'edizione del 1946 a Prologhi, viaggi e favole dello stesso autore, del quale fu
anche amico.
Come critico d'arte si interessò a De Chirico, De Pisis, Morandi, Maccari,
Spazzapan, che conobbe personalmente e per i quali curò delle esposizioni nella
sua piccola libreria antiquaria a Parigi, negli anni Trenta; come poeta pubblicò
due volumi tra il ‘53 e il ‘575 (L'umana compagnia e Oggi e domani, poi riunite in
volume ne L'età della Terra, ampliata nell'edizione del 1968 col titolo di Carte in
tavola) guadagnandosi l'attenzione di Natalino Sapegno e di Pier Paolo Pasolini,
suo estimatore precoce. Col suo volume di poesie ottenne il premio Chianciano,
ex aequo con le IX Ecloghe di Andrea Zanzotto.
Nel 1963 pose mano alla stesura del suo romanzo che doveva essere
probabilmente l'opera della vita, ma una trombosi coronarica lo stroncò a Londra
il 5 settembre 1964.
«Scompariva così un altro 'minore' del nostro Novecento, non solo letterario»6,
uno degli autori più complessi del XX secolo italiano ed europeo tra i più colpiti
«da una sorta di amnesia critica, se non da una vera e propria damnatio
memoriae».7
Sebbene la figura di Mucci non sia nota ai più e i grandi nomi della critica ben
poco se ne siano occupati, tuttavia si può dire che in realtà il dibattito intorno a
questo autore e l'interesse per la sua opera non si siano mai interrotti, soprattutto
grazie all'opera di alcuni scrittori, saggisti, amici come Mario Lunetta, Alberto
Alberti e Renzo Pepi, il quale si è laureato con Franco Fortini con una tesi sul
nostro.
Completezza e frammentarietà del romanzo
Velso Mucci è stato per lo più poeta, oltre che saggista, ma nella sua imponente
attività poligrafica il romanzo L'uomo di Torino, rimasto in forma di abbozzo,
doveva essere lo strumento con cui l'autore rimetteva ordine nella propria vita,
facendo della propria vicenda autobiografica particolare un oggetto universale
di rappresentazione condotto attraverso una tecnica narrativa del tutto inedita
nell'Italia degli anni Sessanta.
Cuore della vicenda è una cena organizzata da Leopoldo Falchinetti, liberale
giolittiano, maestro di musica del Regio esercito, per festeggiare l'onoreficenza
ricevuta della Croce dei Santi Maurizio e Lazzaro. In casa Falchinetti vivono
anche sua moglie, Nina Rolione, e il piccolo Giovanni. Gli invitati sono il
Nel 2009 è stata stampata un'antologia dell'opera poetica di Mucci a cura di Raffaeli dal
titolo Tempo e maree. Poesie scelte (1930-1964), Fermenti, Roma.
6 Pepi (1995), p. 577.
7 Lunetta (2008), p. 1.
5
64
commendator Domenico Bey e consorte, contessa Elena Lavina di Padova, i figli
Cesare e Claudio con relative mogli e i fratelli di Nina, Matteo, ricco industriale
di pellami, Rocco, segretario politico del Fascio di Bra (adottiva cittadina cuneese
di Mucci) e Luca, quest'ultimo marito di Maria Luisa Bey, figlia di Domenico. In
tutto, tredici a tavola. La vicenda si svolge in un'unica serata «dalle 8 di sera del
7 novembre 1925 all'una e mezza seguente» in «20 metri quadrati di superficie
d'Italia» e si presenta come un «abbozzo di antropologia storica».8
Evidente il richiamo a Joyce: uno dei protagonisti della vicenda ha lo stesso
nome di Leopold Bloom dello Ulysses; la storia si svolge in uno spazio circoscritto
in un tempo limitato, esattamente come nel romanzo del dublinese (in Mucci
sono circa sei ore della sera del 7 novembre9 1925, in Joyce l'intera giornata del 16
giugno 1904); il racconto della giornata doveva essere, nelle intenzioni del nostro,
un romanzo-fiume, ancor più voluminoso di quello di Joyce, ma soprattutto il
romanzo doveva rappresentare, al pari dell'altro, un'«epopea alla rovescia, o
rovescio dell'epopea borghese» che nell'italiano giunge a conclusioni politiche,
poiché il rovescio dell'epopea della classe dominante «partorisce il fascismo».10
Quello di Mucci si presenta contemporaneamente come romanzo storico e
realista, ma anche d'avanguardia (ricco di passaggi metanarrativi, spunti
psicanalitici, riflessioni filosofiche, scomposizione di piani temporali, voci fuori
campo) e autobiografico. I Falchinetti, infatti, non sono altro che i Mucci e il
piccolo Giovanni è l'alter ego di Velso. La cerchia più stretta di amici e familiari
chiama, infatti, l'autore 'Giovanni'. In una lettera di Augusto Guzzo indirizzata
all'autore si legge, ad esempio: «Caro Giovanni, forse siamo i soli a chiamarti
ancora così; o forse lo zio Bartolomeo».11
Renzo Pepi afferma che Velso continuerà a firmarsi col nome di Giovanni
ancora negli anni Cinquanta «come se ci fosse una separatezza, un dissidio
insanabile tra la sua storia personale e la sua vicenda pubblica».12 E sarà forse da
questo dissidio, da questa scissione, che nascerà quella figura così potente del
Giovanni bambino e adulto nel romanzo, la cui vicenda per Riva è forse «la
chiave del romanzo tutto».13
L'uomo di Torino però, come si accennava, resta un romanzo non finito. Delle
1500 pagine previste, lo scrittore di Bra ne scriverà, in una corsa contro il tempo
e la morte, solo 200. Valerio Riva, nella prefazione al medesimo volume, riporta
UT (2012), p.109. D'ora in poi useremo l'abbreviazione UT (2012) per riferirci al testo.
Tale data è densa di sgnificati per Mucci, poiché non solo è la ricorrenza della Rivoluzione
d'Ottobre, ma anche il giorno d'inizio della stesura del romanzo.
10 Lunetta (1977), p. 11.
11 Lettera inedita di Augusto Guzzo a Velso Mucci, Torino, 11 novembre 1948, in Pepi (1995),
p. 560.
12 Pepi (1995), p. 560.
13 Riva (1967), p. XVIII.
8
9
65
il piano dell'opera così come voluta dallo scrittore e pertanto sappiamo che solo
i primi due capitoli sono certamente finiti, mentre tutti gli altri sono in stato di
abbozzo e le ultime due pagine, che all'autore appaiono «straordinarie»14,
dovevano chiudere il romanzo. Il resto del contenuto e, in parte, della struttura
non può che essere lasciato alle congetture. «L'unica cosa certa è che il testo che
ci è rimasto [...] è [...] un romanzo a sé, che il lettore avverte come qualcosa di
compiuto, in realtà, o per lo meno quasi finito».15
Ed è questa la fortuna per noi lettori, poiché abbiamo la possibilità di cogliere
nel suo insieme il tentativo di Mucci di dare un contributo alla narrativa italiana,
sotto due aspetti importanti e intimamente connessi: quello del realismo e quello
dell'alienazione.
Il titolo ricorda anzitutto le espressioni utilizzate in antropologia come 'l'uomo
di Cromagnon' o 'l'uomo di Neanderthal', quindi nel romanzo 'l'uomo di Torino'
diventa una vera e propria categoria storico-antropologica, una tappa
dell'evoluzione (o meglio dell'involuzione) umana. Così il pretesto letterario
della cena (interessantissimo topos dai complessi significati sociali, come
vedremo) diventa l'arena in cui si confrontano diversi tipi socio-cuturali, storici
e con una precisa fisionomia politica.
L'indagine antropologica di Mucci riguarda il male che affligge l'uomo che,
nel XX secolo, in Italia, ha preso le sembianze del fascismo. La ricerca e la
rappresentazione letteraria del 'male di vivere' è un classico della letteratura
novecentesca, ma Mucci sa, tramite i suoi riferimenti culturali da Leopardi a
Marx, che il male dell'uomo «non è genetico, ma storico»16 e dunque l'indagine
non può che essere scientifica e materialistica. Di qui il lavoro preparatorio di
Mucci che rilegge il Gramsci critico di costume della Torino della seconda metà
degli anni Dieci nei suoi interventi di Sotto la Mole e che chiede a Paolo Spriano i
suoi ormai classici libri sulla classe operaia torinese, che si documenta presso
l'emeroteca del Brtitish Museum e che consulta i maggiori giornali dell'epoca
sulle date del 4 e del 7 novembre 1925 facendo schizzi dei vestiti femminili di
quegli anni. «Vuole dettagli, informazioni minuziose, si documenta con pazienza
da certosino».17
Il lavoro preparatorio è certamente di carattere scientifico e ricorda certe
modalità naturalistiche, ma l'assunto teorico e il risultato finale sono assai lontani
dalle forme del tradizionale romanzo ottocentesco e, ancor più, da quelle della
narrativa neorealista. Il romanzo di Mucci vuole fare i conti, infatti, con utta la
Lettera di Velso Mucci a Dora Broussard, datata 12 febbraio 1964, in Riva (1967), p. XVII.
Riva (1967), p. XVII.
16 Lunetta (2011).
17 Riva (1967), p. XI.
14
15
66
tradizione romanzesca europea e italiana e si propone come superamento della
prima e come rifiuto della seconda.
[...] egli stesso ha confidato a Natalino Sapegno che la sua ricerca, a proposito del
romanzo, «si sarebbe svolta secondo una linea lontanissima dal tipo di certo realismo
convenzionale e tradizionale, sarebbe stata una ricerca nuova, intesa ad assimilare, e
insieme a distruggere nel loro contenuto decadente, gli esempi di Proust, Joyce e
Kafka».18
Premesse e conseguenze del realismo mucciano
Rifiuto della tradizione realistica italiana, assimilazione e distruzione della
tradizione avanguardistica europea: un perfetto tracciato dialettico in cui il suo
romanzo avrebbe dovuto rappresentare il punto di approdo di tutta questa linea
narrativa.
C'è stato un dibattito sulla ripresa nell'opera narrativa di Mucci dei maestri del
romanzo del Novecento e sul loro superamento e sembra giudizio unanime 19 che
in realtà il richiamo ai tre sia piuttosto rimasto programmatico e non abbia un
contenuto reale. Tuttavia è da tenere presente che l'analisi che si sta conducendo
è un abbozzo di romanzo e che dunque l'evoluzione del progetto è in stato
larvale, sebbene «in generale, l'idea del romanzo c'è, in queste duecento pagine
scarse, e c'è anche il romanzo realizzato».20
Risulta necessario, dunque, incrociare il dato teorico espresso nei suoi
interventi critici e filosofici con quanto c'è di realizzato nel romanzo. Anzitutto il
confronto con Joyce, Proust e Kafka va visto alla luce dei rapporti di Mucci con
le esperienze dell'avanguardia europea. Generalmente i tre autori indicati dal
nostro non vengono inseriti in correnti avanguardistiche, ma è un fatto che la loro
produzione letteraria non solo si discosta notevalmente dalla tradizione
ottocentesca del romanzo, ma fa propri certi temi e procedimenti che mirano a
porre l'uomo in relazione diversa col tempo, lo spazio e la società rispetto a
quanto accadeva nelle correnti realistiche europee del XIX secolo.
Un interessante contributo teorico di Mucci potrebbe chiarire il suo rapporto
con le avanguardie storiche e i rapporti con i tre maestri del romanzo del
Novecento. In un articolo del 1960, apparso sulla rivista Il Contemporaneo e ora ne
L'azione letteraria, Mucci affronta polemicamente il problema delle avanguardie
storiche in relazione alla loro ripresa formalistica di quegli anni (si pensi
Riva (1967), p. XII.
Confronta Berardo (1989), Riva (1967) e Pepi (2012).
20 Riva (1967), p. XVIII.
18
19
67
all'esperienza dei Novissimi e del Gruppo 63 che sarebbero maturati di lì a poco)
collegando poi il concetto di avanguardia a quello di realismo. Scrive Mucci:
È avvenuto [...] che una parte considerevole della nostra cultura artistica e letteraria
s'è trovata attratta da un miraggio di modernità, interessandosi a un'accademica e
formalistica rievocazione delle «avanguardie», e perdendo di vista l'acquisizione più
importante e vitale che fu propria delle esperienze avanguardistiche: la messa in luce,
mediante la rottura e la distruzione dei valori formali tradizionali, dell'essenzialità dei
contenuti reali come forze motrici nel processo di creazione dell'opera d'arte e nella
produzione stessa delle forme. [...] Se non si capisce questo, si perde il tratto essenziale
e l'unico elemento comune delle varie esperienze avanguardistiche, così diverse e spesso
anche nemiche feroci l'una dell'altra.21
Ora, anche se Joyce, Proust e Kafka non possono essere inseriti propriamente
in alcun gruppo delle avanguardie storiche del Novecento, è pur vero che la loro
attività letteraria non solo risentiva del quadro generale in cui pure le
avanguardie operavano, ma mirava, come quelle, a rappresentare il nuovo
rapporto dell'uomo con lo spazio, il tempo, la società e il mondo dell'uomo nella
crisi del XX secolo.22 Di qui il nuovo modo realistico di rappresentare la realtà,
Mucci [1960], (1977), p. 205.
A questo proposito, Romano Luperini utilizza il termine modernismo come categoria
critica ampia in cui inserisce le esperienze di Joyce, Proust e Kafka e delle avanguardie. «Il
modernismo non è una scuola né un movimento unitario. Non propone una unica poetica, ma
poetiche diverse, talora tra loro alternative come accade nella letteratura inglese, in cui alle
soluzioni più radicali dell’avanguardia (imagismo, vorticismo ecc.) e poi dello sperimentalismo
di Joyce si oppongono quelle più moderate di Virginia Woolf e del circolo di Bloomsbury. E
tuttavia, nonostante questa varietà di poetiche, il modernismo presenta alcune marche
caratterizzanti che lo rendono indubbiamente riconoscibile. La cultura a cui si ispira è
sostanzialmente unitaria: è la rivoluzione epistemologica prodotta, a cavallo fra i due secoli e
all’inizio del nuovo, dalla rapidissima industrializzazione, dalla nuova percezione della
condizione umana nel mondo, dalla diffusione del pensiero di Nietzsche, di Bergson e di Freud.
Il concetto di tempo e di spazio, le leggi della fisica, l’idea di verità ne escono sconvolti: la
rivelazione della relatività da un lato e del mondo dell’inconscio dall’altro, la messa in
discussione della certezza dei postulati scientifici, la percezione nuova della velocità delle
comunicazioni e della simultaneità delle sensazioni (è l’epoca dell’automobile, dell’aereo, del
cinema, del telefono, della radio) mettono in crisi i parametri della visione del mondo
predominante nella seconda età dell’Ottocento e del pensiero positivista che vi esercitava una
indubbia egemonia. La seconda rivoluzione industriale che si sviluppa fra il 1895 e il 1913, la
valorizzazione delle macchine, la introduzione del motore a scoppio e la diffusione dell’elettricità,
l’aumento gigantesco della produzione, la formazione di grandi società per azioni, la rapidissima
urbanizzazione, la massificazione dell’esistenza, l’esperienza della “guerra totale” fra il 1914 e il
1918 modificano il senso comune e logorano le basi del sistema dei valori e dello stesso
individualismo ottocentesco. Siamo in presenza di un rapido cambiamento di paradigma e della
nascita di una nuova cultura e persino di una nuova antropologia, che tendono inevitabilmente
a sviluppare nuove forme artistiche. Debenedetti mostrerà in modo suggestivo la correlazione fra
le nuove teorie dei quanti e del probabilismo scientifico e le trasformazioni che avvengono nella
struttura del romanzo e nella figura del personaggio-uomo. E Virginia Woolf, riflettendo
21
22
68
poiché in Mucci, avanguardia e realismo sono intimamente connessi. Vediamo
come si esprime a proposito delle avanguardie in URSS.
In URSS le avanguardie, molto prima di poter essere «soppresse», avevano già
compiuto l'intiero arco della loro esperienza e avevano saputo già estrarre, prima che
in altri paesi, il nucleo essenziale di quella esperienza e creare quindi, nel crogiuolo della
rivoluzione d'ottobre e dei primi anni della vita sovietica, opere d'un realismo nuovo,
moderno, potentissimo. [...] Ciò che in seguito e per lunghi anni fu non soppresso, ma
certamente infastidito e in certi casi anche avvilito, fu purtroppo proprio quel realismo
nuovo, autenticamente moderno e socialista; e questa fu opera di un gusto
indubbiamente mediocre, piccolo-borghese inalberato, provinciale, che opponeva al
realismo nuovo i moduli e le convenzioni meschine di un realismo di riporto,
«ottocento», falso.23
Qui avanguardia e realismo non vengono posti in antitesi, ma in relazione
dialettica, facendo del realismo non un astratto procedimento formale o una
categoria storico-letteraria, ma una tensione artistica che mira all'essenza
dell'uomo, quale che sia il procedimento formale. Anzi, qui è il procedimento
formale a scavare in direzione della ricerca dell'essenza umana.
Ad esempio, a proposito del surrealismo, cui Mucci si avvicinò negli anni del suo
soggiorno parigino, si chiarisce che
in Italia l'ambizioso equivoco [sul concetto di surrealismo] è stato ancora esagerato dal
fatto che il termine surréalisme fu assai male introdotto col termine «surrealismo», che
è un piccolo mostro di filologia e conserva il suono ma tradisce maliziosamente il senso
e l'idea di surréalisme, il quale si dovrebbe dire in italiano «superrealismo». Molti
fascini malintesi si sarebbero così evitati presso gente orecchiante e poco e male
informata.24
Dunque, 'surrealismo' come 'super-realismo', come capacità dell'avanguardia
letteraria di distruggere la forma tradizionale per andare, contemporaneamente,
alla ricerca dell'essenza dell'uomo in relazione col mondo. Si esprime così, ad
esempio, nei confronti della poesia di Éluard.
A volere, di una poesia letterale, diretta e grezza come quella di Paul Eluard, fare una
ricreazione di gusto, formale, sottilmente estetica e raffinatissima di calcolo e di
sottintesi espressivi, si rischia di non cogliere nemmen una delle grosse «relazioni tra
la vita e il mondo, tra il sogno e l'amore, l'amore e la necessità» di cui è fatta [...] la sua
involontaria e ininterrotta poesia.25
sull’effetto sconvolgente delle mostre di pittura postimpressionista, scriverà che intorno al 1910
«la natura umana cambiò». Se l’idea matura di moderno coincide, come vuole Jauss, con la
coscienza di una radicale separazione dal passato, questo è appunto il momento in cui essa
perentoriamente si definisce». Luperini (2014).
23 Mucci [1960], (1977), pp. 205-206.
24 Mucci [1946], (1977), p. 147, n. 14.
25 Mucci [1949], (1977), p. 109.
69
La capacità dell'avanguardia è quella di stabilire relazioni nuove in forme
nuove per permettere alla realtà vera, essenziale, di essere adeguatamente
rappresentata. Certo, non sfugge a Mucci che i movimenti di avanguardia, anche
quelli più dichiaratamente progressisti, siano il lascito di un mondo borghese in
crisi, ormai sul precipizio.
Perché il «surrealismo» fu l'espressione, nel primo immediato dopoguerra, d'un caos
spirituale borghese di Parigi, e come tale non pretendeva ma neanche ammetteva per sé
riproduzioni lirico-estetiche. E anche quando si fu ridotto a scuola letteraria
interessante, ebbe sempre il merito formale di cristallizzare letteralmente l'estrema crisi
dell'intellettualismo europeo, che l'esistenzialismo francese tenta oggi di disgelare e
tramutare in pantano.26
Il movimento d'avanguardia è comunque figlio della crisi della borghesia
europea, ma dai suoi travagli è possibile ancora estrarre elementi di novità che
pongano in positivo la ricerca formale e contenutistica della rappresentazione
della realtà. D'altra parte, se il romanzo dell'Ottocento metteva in scena la
decadenza della borghesia e le sue inquietudini, ora le avanguardie ne mostrano
concretamente la fine e aprono a nuovi orizzonti, in modo manifesto,
consapevole, rivolgendosi da un lato al movimento comunista, dall'altro proprio
ai meccanismi dell'inconscio, come ha fatto il surrealismo.
Così, mentre le avanguardie sono portatrici di un nuovo concetto di realismo,
allo stesso modo viene denunciato come falso e formalistico proprio quel
realismo ottocentesco che ha avuto una grande fortuna in Europa e che in URSS
veniva ripreso come modello per lo zdanoviano 'realismo' socialista. In un saggio
articolato in tre sezioni apparso sul Costume politico e letterario, tra il 1945 e il 1946,
Mucci affronta il problema del rapporto tra poesia e realtà, indagando le origini
del realismo ottocentesco, il quale si sarebbe sviluppato in contrapposizione al
Romanticismo che avrebbe compromesso il concetto di natura con le idealità del
soggetto.
Preoccupati di liberare la natura dalle idealità che i romantici vi avevano infuse, i
sedicenti realisti vollero ingenuamente trasformarsi in «macchine da presa», avendo
della realtà un concetto inadeguato; così che si illusero di riprodurre fedelmente, e direi
quasi, ciecamente una realtà, che era soltanto una visione della natura spoglia di ideali
e di qualsiasi sentimento; e anche quando s'accorsero che nella loro realtà un ideale
c'era (e vollero che fosse quello delle scienze e della sociologia), non perciò fu realtà la
loro, ché realtà non è «natura idealizzata» come non è «natura bruta», ma sentimento
dell'essere, anteriore e superiore a qualsiasi natura e a qualsiasi idea.27
26
27
Mucci [1949], (1977), pp. 106-107.
Mucci [1945], (1977), pp. 145-146.
70
Per questo anche il suo giudizio sul realismo italiano è piuttosto negativo,
affermando «la sua avversione per il neorealismo di maniera degli anni '50 in
Italia», «brandendo Joyce e il suo esempio».28
Così ne L'uomo di Torino queste teorie vanno a concretizzarsi tentando di far
tesoro di tutte le suggestioni ed esperienze letterarie precedenti. Scrive Lunetta:
Da narratore costantemente vigile nel confronto con le grandi esperienze innovative e
d'avanguardia europee, Mucci non cessa di privilegiare la significanza allegorica a
scapito della verosimiglianza naturalistica, la dimensione della visionarietà onirica a
scapito della resa documentaria. All'interno di questa strategia, il dettaglio
crudelmente straniato ha un rilievo di estrema icasticità [...].29
Commenta Morano:
Il rifiuto di operazioni mimetiche nel campo dell'arte, già visibile negli scritti giovanili
[...] è il frutto della partecipazione attiva di Mucci alle esperienze avanguardistiche. Il
che [...] gli impedirà, una volta approdato al materialismo dialiettico e alla militanza
politica, di accettare la teoria del rispecchiamento meccanicistico e deterministico in
arte con gli immancabili risvolti di 'populismo' e 'istanza sociale'.30
Natalino Sapegno può concludere:
Proprio per aver rivissuto direttamente le esperienze dell'avanguardia europea, in tutte
le sue istanze di sovvertimento anzitutto dei contenuti poetici, prima che dei mezzi
espressivi, e non già attraverso l'interpretazione deformata e formalistica con cui quelle
esperienze furono intese e fino a un certo punto assimilate dall'ermetismo nostrano;
egli potrà da un lato guardare con occhio più libero e scaltro alla vicenda testé conclusa
di una letteratura di altissima astrazione verbale [...]; dall'altro lato rifiutare con
sicurezza gli equivoci di un ingenuo e sprovveduto populismo, tipo Politecnico,
guardare con sospetto alla faciloneria delle poetiche neorealiste, trattare infine con
tagliente ironia i presuntuosi giochetti dei nuovissimi sperimentalismi.31
In questo processo di assimilazione e distruzione Mucci riesce a far propria la
lezione formale e d'avanguardia dei grandi romanzieri del Novecento
superandola secondo una nuova prospettiva, grazie all'esperienza filosofica del
marxismo che gli permette di far tesoro delle esperienze precedenti, ma anche di
individuarne i limiti e di porre un punto di risoluzione laddove il romanzo
borghese aveva posto solo il problema, sia in termini formali che contenutistici.
Di qui il tema dell'alienazione, decisivo per l'esperienza del romanzo del XX
secolo, ma posto sotto una nuova luce.
Riva (1967), p. IX.
Lunetta (2011).
30 Morano (1993), p. 87, n. 24.
31 Sapegno (1983), p. 33.
28
29
71
I modelli Joyce-Kafka-Proust e il concetto di alienazione come tema centrale
del romanzo
L'interesse per Joyce è esplicito nella formazione culturale dello scrittore.
L'incontro con il dublinese si fa risalire al 1929, quando, al Caffè Nazionale di
Torino, Edoardo Persico raggiunse il tavolo cui erano seduti Spazzapan, Amidei
e lo stesso Mucci, brandendo un foglio, staccato da un pacco agganciato in un
bagno, che sembrava la traduzione in francese dell'Ulisse: Mucci si alzò e si recò
nel luogo in cui Persico rinvenne il foglio, prese il pacco e se lo portò a casa. Ma
fu solo nel '63, dopo il suo viaggio a Dublino, che Mucci maturò l'idea del
romanzo prendendo proprio a modello Joyce, compiendo così quella traiettoria
che molti nel dopoguerra avevano compiuto dal verso alla prosa (si pensi ad
esempio soltanto al caso di Cesare Pavese o a quello di Rocco Scotellaro, il quale
confidò a Mucci stesso, pochi mesi prima di morire, l'idea di scrivere «un gran
libro di narrativa, di lirica narrativa»32). Ma non è da escludere anche l'influenza
che l'editore Mondadori esercitò sul panorama letterario e culturale italiano
pubblicando per la prima volta in traduzione italiana l'Ulisse e cui Umberto Eco
nel '62 dedicò ampio spazio nella sua Opera aperta.
Nel romanzo di Mucci, come accennato più sopra, ci sono diverse risonanze
formali che fanno pensare a Joyce (il nome 'Leopold' che ritorna in quello di
'Leopoldo', la rappresentazione dei fatti che si svolgono in uno spazio e un tempo
assai circoscritti e anche certi aspetti legati al cibo, come ha giustamente
evidenziato Cetta Berardo33), ma ciò che di fondamentale l'opera di Mucci
accoglie da Joyce è proprio l'idea dell'epopea borghese alla rovescia.
Solo che, come abbiamo detto, l'intenzione di Velso Mucci è quella di
assimilare e superare l'opera dei predecessori, poiché l'opera di Joyce era arrivata
a un punto della rappresentazione oltre il quale sarebbe stato impossibile, per un
autore borghese come il dublinese, andare oltre. Nella pura rappresentazione
dell'antieroe Bloom, Joyce non fa che prendere atto della crisi sia della forma del
romanzo borghese sia della società che lo ha partorito, ma altro non può fare.
Intuisce e rappresenta la crisi e l'alienazione dell'uomo, ma non può spiegarle.
Così deve entrare in gioco Kafka. Anche qui è stato detto che il richiamo allo
scrittore praghese sarebbe del tutto formale, perché comparirebbe di sfuggita e
in modo confuso nel romanzo34, posto accanto a Marx, come autore
dell'alienazione. Ma a ben guardare, il modello kafkiano è ben recepito
innanzitutto nella metamorfosi animalesca, bestiale dei commensali come segno
della loro alienazione. La degradazione dei convitati è una trasformazione
Riva (1967), p. XV.
Berardo (2012), pp. 81-88.
34 Confronta Riva (1967), p. XIII e Berardo (1989), p. VI.
32
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alienante, ma mentre in Kafka vi è almeno consapevolezza della propria
mostruosità (anche se non della causa), nei personaggi di Mucci, al contrario, vi
è quasi perfetta identificazione tra animale e uomo senza che questo scomponga
minimamente i personaggi. Così, se il procedimento straniante in Kafka mira a
ridestare l'inquietudine nel dramma dell'uomo moderno, quello di Mucci punta
apertamente alla degradazione satiresca per approdare al giudizio morale e
politico. Ad esempio, il cavalier Rocco Rolione ha un olfatto sviluppatissimo,
come un cane da caccia, essendosi fatto «sensibile ai rapporti che corrono tra gli
odori e la produzione industriale di beni»35, rutta a tavola e cammina grasso e
impettito, «farcito»36, come un tacchino, dei suoi operai e delle sue proprietà,
superando in questo il suo antenato verghiano Mazzarò; Maria Luisa Rolione
mangia come un animale, un ruminante, perché
quando mangiava, e non stava mai zitta, aveva il difetto che la parola le s'impuntava;
il che la spingeva, da un lato del tubo, a inghiottire in fretta il boccone e, dall'altro, a
sputar fuori alcune scorie di cibo intrangugiabili, quali ossicini, semi, calletti, tutti
insieme con le sillabe tritate che le si affollavano in gola. Quand'anche poi non avesse
la bocca piena, s'era ormai viziata a tartagliare le parole nella precipitazione di
espellerle.37
Oppure, il commendator Bey è un «bue»38, Rosina un'«oca», una «bestiola»39,
la sorella della Nina è una «serpe di palude»40 e così via, fino alla reificazione
finale, quando i figli del Bey diventano delle «forchette» e lui stesso un «otre»41.
Infine, Proust. Mucci aveva conosciuto l'autore della Recherche negli anni
Trenta per il tramite delle riviste Il Baretti e Solaria e nel 1936 gli aveva dedicato
un saggio dal titolo Après «Combray» de Proust42. In questo scritto viene
sottolineata, in particolare, la forza espressiva di Proust, del suo stile e del suo
procedimento narrativo. Nel romanzo mucciano compaiono infatti delle
illuminazioni della memoria che balenano e illuminano le storie dei personaggi,
come la conversazione tra le due sorelle Rolione nella pasticceria.
Tuttavia, sembra piuttosto evidente che il modello proustiano sia servito a
Mucci per la riflessione sul tempo. L'uomo di Torino è, infatti, al pari della
Recherche di Proust, una riflessione sul tempo esterno ed interno e sui loro
rapporti reciproci, sulla necessità del recupero del tempo perduto e sulla capacità
UT (2012), p. 63.
UT (2012), p.64.
37 UT (2012), p. 70.
38 UT (2012), p. 9.
39 UT (2012), p. 13.
40 UT (2012), p. 42.
41 UT (2012), p. 96.
42 Il saggio è compreso nella raccolta Le carte e altri scritti, Il Selvaggio, 1940, con prefazione
di Carlo Mollino.
35
36
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dell'arte di fissare i momenti del passato inevitabilmente proiettati verso il
presente nel loro largo fluire. Solo così è possibile
la precisa valutazione della coscienza del vivere e degli accadimenti umani di contro
all'«animalesco» avvertimento del senso del vago e indeterminato fluire del tempo e
della vita. Tramite la coscienza del proprio esistere e delle reazioni avute di fronte agli
«accidenti del mondo» che «urtano e intersecano la nostra persona», l'uomo scopre se
stesso e la vita del cosmo, sfuggendo così al meschino giuoco di una monotona quanto
assurda registrazione dei semplici cicli biologici. L'universo intero, allora, penetra in
noi attraverso la coscienza umana nello stesso momento in cui reagisce con essa.43
È precisamente quello che non accade a ciascuno dei personaggi de L'uomo di
Torino. Essi non dispongono di una precisa valutazione del proprio vivere, della
propria essenza, poiché non hanno coscienza di nulla, se non del loro presente
meschinamente valutato sull'immediato interesse, da quello più ingenuo di Nina
Rolione a quello più sfacciatamente arrogante del fascista Rocco a quello
calcolatore del commendator Matteo a quello inutile e piccolo-borghese di
Leopoldo Falchinetti fino agli incubi familiari di Rita. Per tutti ci sarà un tempo
perduto e mai più ritrovato, poiché nessuno ha coscienza di avvenimenti e
'accidenti' piccoli, grandi o immensi che ruotano attorno alle loro miserabili vite.
L'unico tentativo di prendere coscienza di se stessi e rompere la catena
dell'alienazione riappropriandosi del proprio tempo è quello di Giovannino
Falchinetti, che deciderà nel corso del romanzo di allontanarsi dall'angusta
stanzetta di 20 metri quadrati come gesto allegorico-figurale che lo porterà poi
via dall'angusta Italietta. Si arriva così al cortocircuito tra vita reale e letteratura,
in cui l'analisi sociologica e antropologica di una società si riversa nell'analisi
autobiografica e viceversa, con interessantissimi spunti psicanalitici. Il risultato
immediato è che tutto ciò che del «romanzo vivo» (cioè del romanzo della vita) è
«vivacemente scritto, non è soltanto [...] trascritto o descritto, ma definitivamente
creato: non è una copia, ma una realtà più completa e matura».44
L'alta consapevolezza di sé, del proprio tempo, dei propri rapporti con gli altri
e col mondo, con l'universo, in questo afflato leopardiano, dovrà trovare un
proprio stile, farsi strada tra i meccanismi formali più ingenuamente neorealistici
e certe riprese formalistiche dell'avanguardia, alla ricerca di quell'«espressione
autentica e schietta» che «presenta il vantaggio sostanziale di creare
definitivamente il mondo ch'essa esprime».45 E lo troverà Mucci quel modo unico
e così concreto e vero di esprimersi, quel modo così 'autentico e schietto' che sia
nella poesia sia nella prosa farà di lui un autore assai originale nel panorama della
letteratura italiana ed europea contemporanea. Si pensi solo, ad esempio, alla
carica espressiva delle similitudini nel romanzo (assai presenti e caratterizzanti),
Morano (1993), p. 70.
Mucci (1940), pp. 82-83.
45 Mucci (1940), p. 82.
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che riportano sempre il lettore alla dura materialità, alla dimensione corporea
(così come il suo modello, Ulisse, è un'«epica del corpo umano»46, come Joyce
stesso amava definire il suo romanzo): «La faccia della signora Guglielmi va
illuminandosi, fila sopra fila di lampade fino al gran lampadario della cupola,
come un teatro dell'opera alla fine di un atto»47; «l'imbuto del suo animo»48;
«gonfio dei centocinquanta operai che aveva in corpo»49; «fossa degli incubi
familiari»50, eccetera.
Tornando ai modelli di Mucci, per il nostro autore Joyce, Kafka e Proust sono
certamente i maestri del romanzo moderno borghese, che rompono con la
tradizione ottocentesca, ma nel demolire l'impianto teorico e strutturale della
forma narrativa tradizionale, pur individuando correttamente lo stato di crisi
dell'uomo moderno, essi incappano nella contraddizione dell'insolubilità del
problema dell'alienazione. Se questi scrittori infatti descrivono correttamente la
crisi dell'uomo moderno occidentale nella forma dell'alienazione (Bloom e K.
sono, infatti, gli emblemi di questa condizione), essi non riescono a individuare
la soluzione a tale problema. Un'aporia che questi scrittori non possono risolvere,
poiché organicamente inseriti nel quadro borghese. La soluzione di Mucci è
quella di appropriarsi delle intuizioni dei maestri del romanzo moderno e di
superarli attraverso gli strumenti che fornisce il marxismo, o meglio l'asse
filosofico materialistico Vico-Leopardi-Gramsci.
Scrive infatti Mario Lunetta nella prefazione a L'azione letteraria:
L'asse della personalità intellettuale mucciana è ormai saldamente formato, e lavora su
tre nodi fondamentali che si chiamano Vico, Leopardi e Gramsci. Quel Vico al quale,
come dice Garin, «non sfuggivano le conseguenze di una storia tutta profana della
società, senza leggi naturali», dal momeno che la «scienza nuova dell'uomo, [...] ha da
spiegare l'umano con se stesso, senza reificarlo o isolarlo in una solitudine monastica,
ma ritrovandone le dimensioni sociali e la natura storica», [...] quel Leopardi che fu in
Italia «il solo che, educatosi ai lumi del materialismo francese del settecento, e rifacendo
il processo della poesia italiana [...] abbia avuto la forza e la costanza, in tempi di
restaurazione, di staccarsi decisamente da ogni premessa medievale [...] e di spingere lo
sviluppo lirico delle sue emozioni vitali tanto oltre, da fissare tutto il suo occhio poetico
senz'altro su quel vuoto»51
e infine quel Gramsci che con i Quaderni del carcere aveva proposto quella
formula del 'nazional-popolare' così «ricca di potenzialità dialettiche e
criticamente aperte sulla realtà italiana, poi impoverita e applicata
Cfr. Melchiori (1984), p. 20.
UT (2012), p. 39.
48 UT (2012), p. 47.
49 UT (2012), p. 65.
50 UT (2012), p. 115.
51 Lunetta (1977), p. 18.
46
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riduttivamente da troppi epigoni all'interno della cultura di sinistra per tutti gli
anni cinquanta».52
All'alienazione dei personaggi, dunque, Mucci accompagna la giusta critica al
mondo borghese (alienante per definizione) e l'elemento attivo, intravedendo nel
male dell'uomo un carattere storico, anziché naturale. Dal punto di vista formale,
questa presa di posizione teorica si risolve nel romanzo introducendo una quarta
dimensione, ovvero quella storica. Così, mentre «la Rita era già sprofondata nella
fossa dei suoi incubi familiari»53, una serie di eventi storici si compie attorno al
personaggio senza che questi ne sia consapevole: la rivolta antifrancese in Siria o
il viaggio del maresciallo Pétain sul rapido Marsiglia-Parigi per rientrare
dall'Africa del Nord. Oppure, mentre la conversazione delle tre famiglie torinesi
riunite in casa Falchinetti cade sulla moda, il principe di Galles cade da cavallo,
Aristide Molinari, custode del palazzo di Locarno, mostra ai suoi amici un
certificato di benemerenza e rigraziamenti firmato da Mussolini, Streseman,
Chamberlain e altri, datato Ottobre 1925, e in URSS Vorosilov è nominato
commissario del popolo alla guerra, prendendo il posto di Frunze che aveva
preso il posto di Trotzki, e intanto si combatteva 'la guerra dei generali' a Pechino.
L'elenco di fatti conclude:
Sul globo, all'incirca due miliardi di uomini, di ogni età e condizione, più o meno noti,
più o meno nati o morti,
si davano il turno di fuso orario, attraverso tutte le sfumature della notte e del giorno,
a portare avanti la storia massacrante del genere umano; mentre il pianeta
azzurrognolo,
ancora nella sua terza epoca glaciale,
si accostava al solstizio d'inverno, volando regolarmente nel buio intorno al Sole alla
velocità di 18 miglia al secondo, trascinato dal Sole
nella sua corsa in direzione d'un punto intermedio tra le costellazioni di Ercole e della
Lira alla velocità di 12 miglia al secondo
e nella rotazione del piatto della Galassia del diametro di 100 mila anni-luce intorno a
un centro immaginario, da cui il sistema solare dista appena 28 mila anni-luce, alla
velocità di 150 miglia al secondo,
compiendo perciò la grande rivoluzione in 250 milioni di anni terrestri.54
Magistralmente la quarta dimensione comincia ad affacciarsi da semplici fatti
di cronaca e curiosità di costume, si allunga ai fatti della Storia e poi si estende a
spirale lungo l'asse di rotazione della galassia, in un giro vorticoso, così magnifico
e maestoso, che le piccole beghe umane e gli incubi della signora Rita Rolione,
sorella della Nina, appaiono in tutta la loro terrificante insignificanza, perché agli
spiriti borghesi alienati non è concesso il privilegio della consapevolezza storica
e ontologica.
Lunetta (1977), p. 19.
UT (2012), p. 115.
54 UT (2012), pp. 119-120.
52
53
76
In questo senso Mucci ribalta il tema del realismo in letteratura rifuggendo
dagli schematismi del neorealismo, allargando la prospettiva all'orizzonte
europeo sulla scorta delle migliori esperienze d'avanguardia, scartando tuttavia
le esperienze più trite e puramente formalistiche.
Non solo. Se nel romanzo borghese dell'Ottocento il ricorso alla dimensione
storica «doveva essere [...] la legittimazione della società borghese quale era
uscita dalla Rivoluzione [francese]»55, nell'opera di Mucci si arriva per forza di
satira, di politica e di riflessioni storico-filosofiche alla delegittimazione della
borghesia stessa: la cena organizzata in casa Falchinetti diventa metafora
(sarebbe meglio dire, allegoria) della decadenza della classe dominante nel suo
abbraccio mortifero col fascismo.
La quarta dimensione però, oltre a estendere a spirale gli avvenimenti
mettendo a nudo l'alienazione umana, si allunga fin nel privato. Il coraggioso
esperimento mucciano è quello di collegare in un unico romanzo la grande Storia
degli uomini e dell'universo con il proprio percorso autobiografico in una forma
(per quel che ci è dato di leggere) del tutto originale, convinto che la propria
esperienza privata e la riflessione su di essa non possano essere lette se non nella
dialettica pubblico/privato, interno/esterno, storia/autobiografia. Da qui nascono
le eccelse pagine in cui Giovanni Falchinetti/Velso Mucci fa i conti con se stesso,
con la sua famiglia, con gli anni giovanili e traccia un bilancio della propria
esperienza umana che ha fatto perno sulle esperienze pubbliche di tutta
l'umanità, passando così dall'abbozzo antropologico all'abbozzo autobiografico.
Ora, la lotta al concetto di alienazione borghese non avviene solo tramite
l'acquisizione e il rovesciamento dei modelli romanzeschi in cui essa è centro
tematico, ma anche attraverso una serrata battaglia ideologica al neoidealismo
gentiliano che è stato stampella teorica del fascismo. Questa lotta, oltre a essere
stata condotta su un piano teorico più ampio dal Mucci filosofo56, viene
ingaggiata anche nelle pagine del romanzo ai danni di un personaggio che si
affaccia di sfuggita nella narrazione, tale professor Alfonso Ruzzo 57,
naturalmente amico del liberale giolittiano Leopoldo Falchinetti.
Il terzo capitolo dello scritto mucciano si apre con la premonizione della morte
di Nina Rolione, la protagonista femminile del romanzo58, accompagnata da una
riflessione metanarrativa e di carattere filosofico e psicanalitico cui segue un
ragionamento sul concetto di alienazione. Sulla scorta di quanto detto
Petronio (2003), p. 61.
Si vedano ad esempio gli scritti filosofici anticrociani e antigentiliani in V. Mucci, M.
Lunetta (a cura di), L'azione letteraria, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 29-35 e pp. 37-44.
57 Dietro questa figura si cela Augusto Guzzo, accademico idealista che fu attivo tra il ‘24 e
il ‘64 tra Torino e Pisa e che fu realmente amico del padre di Mucci, Ranieri.
58 Anche dietro questa figura va scorta la persona reale di Domenica Boglione, madre di
Velso.
55
56
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precedentemente, possiamo considerare il capitolo come una sorta di centro
filosofico del romanzo. Qui si dà conto, infatti, del problema teorico e tutto
umano dell'alienazione, passando in volata su Kafka e Marx per arrivare al
professore di filosofia Ruzzo. Di lui si dice che era napoletano e
cattolicissimo, era un fervente seguace dell'attualismo di Giovanni Gentile; e tutto il
suo hegelismo, poiché di Feuerbach, Marx e Kafka aveva poco più che letto i nomi, si
riduceva ormai a far combaciare la sintesi a priori con la Santissima Trinità e la
dialettica idealistica con i disegni mirabili della divina Provvidenza; [...] di tutta la
situazione impiastricciata di casa Falchinetti che poteva rappresentare per un filosofo
un eccellente soggetto di analisi d'un caso di alienazione ribaltata, a doppio risvolto e a
tre diramazioni, in un ambiente capitalistico giunto alle falde di un imperialismo
piccolo-borghese, e quindi forngirgli anche l'estro d'essere utile ai suoi amici
Falchinetti, distrincandoli un po' dal groviglio di luci e di tenebre in cui andavano
naufragando senza respiro e con furori inespressi, capiva soltanto che vi regnava un
certo clima di angosce e una turba di sguinzagliate tristezze, che si accordavano del
resto assai bene con la sua idea della vita terrena quale magma di sofferenze e di doveri,
che solo dalle visioni d'una vita ultraterrena avrebbe potuto ricevere qualche lumicino
di moccolo.59
Qui la dura critica al neoidealismo e al gentilismo è condotta con le armi
raffinate dell'ironia che sfociano man mano e apertamente nella satira.
Anche il Ruzzo doveva far parte dei convitati, ma egli
udito che razza di gente ci sarebbe stata a tavola, si schermì con un moto istintivo di
pudicizia. Come se si fosse trattato di accedere a un banchetto sull'Olimpo e mescolarsi
al pasto degli dei. A meno che non si voglia interpretare il contegno del Ruzzo,
napoletano e attualista cattolico, come un'estrema finezza di malizie: evitare a se stesso
la rottura di scatole di dover sedere rispettoso con gli dei in libera uscita e assistere per
tre ore alle loro funzioni organiche, le quali avrebbero rischiato di provocare in lui
perfino la perdita di illusioni che gli erano care e vitali.60
Questo professore gentiliano, questo seguace dell'attualismo, idealista fin nel
midollo, che ha idealizzato la borghesia italiana e tutta la classe dirigente del bel
paese, vuole evitare di assistere alla realtà, tragica e comica dei suoi dei olimpici,
i cari borghesi fascisti, per evitare di perdere quelle illusioni che lo mantenevano
in vita. Nel più classico degli schemi della filosofia idealistica, avrebbe dunque
adattato la realtà all'idea e non il contrario. Così, il professore, l'intellettuale
gentiliano, non potrà essere d'aiuto alla famiglia Falchinetti né del resto al genere
umano né tantomeno a sè stesso
essendo egli stesso un alienato felicissmo del proprio stato inconsapevole di alienazione,
di cui, del resto, se mai avesse avuto sentore, sarebbe stato portato ad attribuire la colpa,
anzi, la grazia all'Ente Supremo che gli aveva messo in corpo quell'anima bella.61
UT (2012), pp. 58-59.
UT (2012), pp. 59-60.
61 UT (2012), p. 60.
59
60
78
L'archetipo della cena
Se cuore tematico del romanzo è l'alienazione dell'uomo di Torino nella sua
profonda incomprensione di se stesso e del male intorno a lui, suo centro
narrativo è la cena organizzata dai Falchinetti. Abbiamo già elencato, più sopra,
i convitati alla tavola: essi sono tredici, proprio come nell'ultima cena descritta
dai Vangeli.
In un intelligente articolo di Cetta Berardo su La metafora del cibo nel romanzo,
riflettendo sui modelli e gli archetipi della cena nell'opera narrativa di Mucci,
rifacendosi a uno scritto di Fernando Pessoa del 1907, si legge: «L'originalità della
cena non consiste in quello che vi appare, ma in quello che significa, in quello che
contiene».62
La cena diventa dunque luogo allegorico per antonomasia, in cui vengono
catapultati personaggi con proprie fisionomie e messi a dialogare (come nei più
antichi e celebri banchetti di Omero o Platone) ed è in quel momento che emerge
tutta la loro essenza.
La Cena mucciana è 'radiografia di una condizione esistenziale e sociale', graduale
processo di degradazione dei personaggi, dove i commensali, snocciolati in metallica
sequenza nell'incipit, in base ai loro titoli e possedimenti, i borghesi dell'Italietta
dannunziana, che si ritrovano attorno ad una tavola per festeggiare un'onerficienza,
sono fissati al loro ruolo immutabile, denudati nelle loro meschinità, legati a valori quali
il denaro, il cibo, il sesso.63
In fondo anche ne I Buddenbrook di Thomas Mann, che Mucci avrebbe potuto
leggere grazie alla sua conoscenza del tedesco, l'aspetto sociale del cibo e del
banchetto sembra essere un aspetto caratterizzante.
Qui, infatti, il cibo e la pratica conviviale dominano in tutto il corso della
narrazione, tanto che l'opera di Mann è stata definita non a torto ‘iperfagica’64. Il
testo manniano potrebbe essere stato di ispirazione per la rappresentazione
sociale in una situazione borghese tipica, giacché è nei pranzi, cene e colazioni
che avviene «la maggior parte degli scambi sociali del romanzo» 65 e non
dobbiamo dimenticare anche che il sottotiolo dei Buddenbrook è Decadenza di una
famiglia.
Ora, se la cena è un archetipo conclamato, modello per Mucci non può che
essere la Cena Trimalchionis, che certamente conosceva, dati i suoi studi classici al
Pessoa [1907], (1995), p. 17.
Berardo (2012), p. 83.
64 Bonifazio (2013), pp. 27-39.
65 Bonifazio (2013), p. 28.
62
63
79
liceo e che nella tradizione occidentale rappresenta il tipo di situazione in cui il
profilo antropologico emerge con maggior chiarezza.
La cena petroniana è modello sotto vari aspetti. Innanzitutto per la situazione
dialogica che genera, poiché il dialogo è ciò che permette di mettere a nudo i
profili antropologici dei convitati (oltre ai flashback e ai flashforward di cui è pieno
il romanzo); in secondo luogo perché anche la vicenda narrata dall'Arbiter è una
sorta di epopea rovesciata di un'intera società in declino. Scrive ad esempio Luca
Canali:
Il Satyricon è l'epopea di una truce civiltà che si espande con i suoi odori di cucina,
d'unguenti, di concime, di danaro sudato, di vita intensa atterrita dalla morte, e
insieme d'una civiltà al tramonto, quella dei quiriti e delle filosofie classiche, con i suoi
ranghi rimescolati, la sua pulizia così suscettibile di contaminazione, i suoi filosofemi
mutati in bolo di grossolano buonsenso, dal ruminare dei bisonti della ricchezza, la sua
morte già consumata e tuttavia ancora famelica di vita.66
Ma non è questa una descrizione esatta della cena in casa Falchinetti? Gli odori
sono onnipresenti, così come il cibo e il danaro e tutto sa di morte (e di fascismo);
'il grossolano buonsenso' dei convitati viene sputato dai commensali e ruminato
insieme alle pietanze della signora Nina; la civiltà è al collasso eppure (o forse
proprio per questo) c'è una famelicità spaventosa che tende ad ingurgitare tutto;
e cosa sono le idee liberali di Leopoldo Falchinetti se non 'filosofie classiche' al
tramonto?
È, anche, il romanzo di Mucci, un rovesciamento del Simposio platonico in cui
i discorsi filosofici sull'eros diventano discorsi lussuriosi sulla proprietà
(stilisticamente rappresentata dalle ricorrenti e serrate liste di oggetti, azioni o
persone elencati con doverosi 'a capo') di cui il cibo diviene metafora perfetta.
In ultimo, ma non meno importante, l'aspetto del realismo. In Petronio, infatti,
sono la figura del liberto, parvenu della classe dominante, e i suoi valori a essere
rappresentati plasticamente, con forti tinte realistiche e ciò che Auerbach dice a
proposito dell'autore del Satyricon può essere detto anche per Mucci a proposito
del suo modo di rappresentazione:
In primo luogo la forma del tutto soggettiva, poiché quella che ci viene presentata non
è la cerchia di Trimalcione [leggi: dei Bey-Rolione] come realtà obiettiva, ma invece
come immagine soggettiva, quale si forma nel capo di quel vicino di tavola, che però di
quella cerchia fa parte. [...] I banchettanti vengono giudicati col loro stesso metro;
questo metro è condannato per il solo fatto che prende voce, e inoltre la qualità plebea
di questi nuovi ricchi viene illuminata crudamente dal fatto che se ne possa parlare così,
alla loro propria tavola.67
Affine il giudizio di Mario Lunetta sul romanzo di Mucci:
66
67
Canali (1981), p. 10.
Auerbach [1946], (2000), pp. 32-33.
80
Il narratore non agisce da voce giudicante fuori campo: la miseria dei personaggi mette
in scena sè stessa in una totalità assolutamente icastica, fiera della propria pochezza.
La sua identificazione col sistema populistico-autoritario che il fascismo sta edificando
è naturale e biologica. Non un rèfolo di scrupolo critico la sfiora: e qui appunto sta la
sua forza animale, il buio della sua coscienza rovesciata.68
Ma come abbiamo visto, Mucci è in grado sempre di assimilare e superare i
propri modelli, così se limite del realismo petroniano è la mancata
rappresentazione delle forze sociali che sottostanno ai rapporti descritti e narrati,
nel romanzo moderno di Mucci essi vivono in piena luce e vengono tracciati con
precisione sociologica; anzi, la spiegazione del fascismo e, prima ancora, dei
comportamenti sociali e delle fisionomie antropologiche dei commensali viene
rappresentata nella discussione a tavola sul pericolo bolscevico del biennio rosso,
sul comportamento di Giolitti e sulla risposta degli industriali.
Alla cena dei Falchinetti, ogni convitato ha un preciso profilo antropologico.
Purtroppo, l'incompletezza del romanzo non ci permette di osservarli tutti nella
loro interezza (sembra infatti che Mucci avesse l'intenzione di dedicare a ciascun
personaggio un capitolo specifico), tuttavia per alcuni di essi disponiamo di
ritratti vivi, come ad esempio per Matteo Rolione. Scaltro industriale, borghese
rapace, è uomo pacato, consapevole della traiettoria politica della sua classe che
è passato armi e bagagli dalla parte del fascismo. A tavola ricorda gli eventi
sconvolgenti del biennio rosso e dell'occupazione delle fabbriche a Torino, senza
enfasi o agitazione, e ricorda al vecchio Falchinetti la condotta di Giolitti che
avrebbe potuto gettare l'Italia nelle mani del bolscevismo. Per questo, ora, gli
industriali si sentono più al sicuro sotto l'ombrello del fascismo. Si completa così
la parabola discendente della borghesia italiana e la famiglia Rolione appare
come un naturale sviluppo di due personaggi borghesi della letteratura italiana:
Renzo Tramaglino e Zeno Cosini. Come il primo, hanno rilevato una filanda e
sono partiti quasi dal nulla; come il secondo, hanno fatto grande fortuna grazie
alla guerra con la loro impresa di pellami. Ma tanto l'onesta laboriosità, a tratti
ingenua, del primo, quanto la lucidità critica del secondo nell'analizzare la crisi
della società umana (e quindi della società borghese) si sono dissolte per far
posto, nel percorso di completa alienazione, all'abbraccio mortale con il fascismo.
Durante il periodo precedente [di ascesa della borghesia], la «democrazia»
presentava molti vantaggi per il capitalismo. [...] Quando il banchetto è abbondante, si
può tranquillamente lasciare che il popolo ne raccolga le briciole. Ma nel periodo attuale,
nella fase di declino del capitalismo, la classe dominante tende a confrontare sulla
bilancia i vantaggi e gli inconvenienti della «democrazia»; perplessa come l'asino di
Buridano, esamina i due piatti ed esita. In taluni paesi e in date circostanze, le sembra
che gli inconvenienti siano superiori ai vantaggi. [...] Per queste ragioni [...] la
borghesia liquida la «democrazia» tradizionale e sollecita [...] uno Stato forte [...] che
privi il popolo di tutti i suoi mezzi di difesa e che lo consegni, mani e piedi legati, a chi
68
Lunetta (2011).
81
vuol vuotarne le tasche. [...] Per le ragioni ora indicate, la borghesia, in taluni paesi
quali la Germania e l'Italia, ha sovvenzionato il fascismo e l'ha messo al potere.69
Così, con voce fuori campo riportata in virgolettato, come sentimento corale
di un'intera generazione di borghesi ipocriti, si commenta il sostegno al fascismo:
«Il male che ha potuto fare all'umanità questa guerra! Lasciamo in pace i Caduti, che
son caduti per la Patria, e gloria alle anime loro! Ma adesso questo comunismo che vien
fuori un po' dappertutto, è peggio della guerra e della spagnola messe insieme».
Così si finanzia la fondazione del Fascio di Bra.70
Ma Matteo Rolione è calmo, abile calcolatore, è l'asino di Buridano che alla fine
ha scelto e non si è lasciato morire di fame e di sete, che lascia al suo collerico
fratello Rocco, segretario del Fascio di Bra, trarre le conclusioni politiche
dall'atteggiamento degli industriali:
«la nostra Lega degli Indusrtiali inviò una delegazione a Bardonecchia, dove il
Presidente del Consiglio era in villeggiatura. Gli esponemmo la gravità della situazione
all'interno delle fabbriche; il danno che ne poteva derivare agl'impianti; il rischio che il
movimento si estendesse fuori dalle fabbriche...» [...] «... la perdita incalcolabile di
capitale e di lavoro utile per la Nazione. Gli chiedemmo di far intervenire la Forza,
magari anche l'Esercito, finché eravamo in tempo. Trovammo un muro di sorriso...»
[...] «era semplicemnte persuaso che il moto sarebbe rimasto all'interno delle fabbriche,
e lì sarebbe finito, di morte naturale. E tanto gli bastava. La macchina dello Stato non
ne avrebbe sofferto, a sentir lui. Come se l'industria non fosse il cuore della Nazione!»
[...]
Rocco Rolione, invece, si sentiva prudere i nervi e non stava fermo col sedere sulla sedia.
Non vedeva il minuto che il fratello Matteo la facesse finita coi preamboli e arrivasse al
punto: Giolitti era stato un incosciente pericoloso, che per poco non aveva precipitato il
paese nel bolscevismo. Punto e basta. Ma non osando interrompere la piana autorità
del fratello, cercava tuttavia d'incoraggiarlo con la tensione dei muscoli a imboccare al
più presto la strada della conclusione [...].71
La serena lucidità della borghesia industriale cosciente della strada che sta
imboccando, pur nella sua tragedia di alienazione assoluta dall'umanità, e l'idiota
violenza del fascismo: tutti e due alla medesima tavola.
All'altro capo del banchetto, la laica trinità dei Falchinetti che subiranno la
sorte del Cristo alla loro ultima cena. Tutti e tre, infatti, subiranno una sorta di
tradimento da parte dei rappresentanti della classe dominante invitata a cena.
Nina Falchinetti, nella sua disarmante ingenuità, non comprenderà mai il senso
della sua alienazione e le leggi inique e mostruose della società in cui vive, tanto
da non comprendere ancora i meccanismi egoistici dell'avidità, sotto cui si celano
quelli dell'accumulazione capitalistica.
Guerin [1945], (1994), pp. 57-58.
UT (2012), p. 17.
71 UT (2012), pp. 92-93.
69
70
82
Per Leopoldo Falchinetti, invece, vecchio liberale giolittiano, fedele al suo Re,
perfetto uomo della macchina statale borghese, l'avvento del fascismo è un
tradimento perpetrato dalla borghesia e dalla nobiltà e la sua sorte appare come
una umiliante crocifissione senza redenzione. Approderà però poi al fascismo,
rinnegando sè stesso, morendo così una seconda e definitiva volta.
Mucci ce lo dice in uno dei non rari flashforward. Quando il Rolione, durante
la cena, invita Leopoldo Falchinetti a iscriversi al partito fascista, giacché anche
il suo amato Re ha di fatto aderito, egli
“Mai!” asserì [...], profetizzando il futuro fino al 1927, anno in cui si iscrisse al Fascio
di Bra rifiutando però la retrodatazione della tessera che gli era graziosamente offerta
dal cognato Rocco.72
Così, mentre i rappresentanti delle due classi dirigenti del paese sono invitati
a casa sua per celebrare le glorie di un vecchio militare dell'esercito Regio di
passione liberale, mentre riempiono le loro bocche alla mensa del giolittiano,
nobili e borghesi marcescenti trasformano la casa del Falchinetti in una latrina di
odori e fumi e veleni e lo uccidono metaforicamente, così come il fascismo s'era
dapprima seduto alla tavola dello stato liberale, invitato da lui stesso a sedersi e
ingozzarsi, finirà poi per strozzarlo e costringerlo a sedersi alla sua mensa. Di
fronte alla inarrestabile decadenza della sua Italia, della sua classe, del suo
ridicole Re, che di fronte alle richieste di un pezzo dello stato liberale di
ripristinare le libertà «contemplate e garantite dallo Statuto», rispose sereno ed
elusivo «Mia figlia stamattina ha ucciso due quaglie», il vecchio liberale
giolittiano, al termine del romanzo, non può che opporre uno sbadiglio,
masticando un «Che schifo, Italia mia», quasi parafrasando in versione
popolaresca il più nobile e dantesco «Ahi, serva Italia», per poi restare senza idee,
«a tirar boccate di fumo nel silenzio».73
In quei fumi e in quei veleni di provincia, in quella stanzetta angusta, anche
Giovannino Falchinetti, alter ego di Mucci, sarà l'unico a cercare la strada della
redenzione, sua e dell'intera umanità: tradito dalla sua classe, così trita e
acrimoniosa, divisa tra l'adesione ora convinta ora indifferente al fascismo e
l'astensione senza idee e senza parole al regime mussoliniano, sarà lui stesso a
tradirla da grande. Così, trentotto anni dopo, nel 1963, vediamo il piccolo
Giovannino ad una distanza ormai incalcolabile nel tempo e nello spazio dalla
sua infanzia.
Ora la calvizie gli aveva quasi raschiato la cute; la piorrea alveolare demolito la bocca;
un'ulcera rodens scorticato la punta del naso; e le insonnie trascorse a ricomporre età
irreparabili o a farsi l'animo di fronte a situazioni insorgenti, gli avevano macchiato le
72
73
UT (2012), p. 129.
UT (2012), p. 156.
83
orbite con gli inchiostri della stanchezza e della nevrastenia [...] La vita di quest'uomo
era stata un precipizio precoce, continuo e costante.74
La redenzione di Giovanni, però, non è compiuta e nelle memorie del bambino
vecchio è andata incontro a una disfatta. La ricerca di riscatto, di redenzione per
sé e per gli altri sono naufragate. Si ritrova, così, simbolicamente, in un altro
spazio angusto, «un trapezio di prato che si allunga dai bordi [...] dello stagno
rotondo di Kensington Gardens fino alla cancellata di strada Bayswater, Londra
W.2».75 La sua ambizione «di sfuggire alla condizione ufficiale dell'esistenza»76 è
stata un fallimento,
un'esperienza tutta sbagliata. All'inizio fu un modo obbligato per sradicarmi dal
terreno franante dei miei genitori, buttandomi in braccio alle forze e ai disordini della
natura. Ma poi, con gli anni e i decenni, è diventato un vizio. Calcolato; e fottuto...77
La lotta per la propria liberazione non può che incrociare i destini e le sorti
dell'intera umanità: cambiare la condizione ufficiale dell'esistenza deve essere
un'esperienza collettiva e non può che farsi azione e così diventa 'vizio' della
politica,
la passione fottuta per la storia del genere umano che cresce e afferma, col cervello e col
sangue, nuove condizioni di vita sociale. Un vizio richioso che m'è costato i sacrifizi
che tu sai, e ancora mi costa.78
All'immobilità silenziosa, seppur sdegnata, della borghesia liberale che poi
infine capitolerà, non può che opporre un'azione (parola cara al Mucci), seppur
dolorosa e carica di 'sacrifizi'. Così, durante la cena, Giovannino è l'unico ad
allontanarsi da quei 20 metri quadrati di superficie d'Italia dove si consuma la
tragedia del suo paese e, da grande, si allontanerà da quell'Italia stessa per
abbracciare orizzonti più vasti. Ed è questa, a ben guardare, l'unica vera azione
che mette in movimento un personaggio e lo porta a una seria trasformazione.
Nel '47 Mucci aveva scritto:
Sono [...] un parassita della classe che sfrutta la forza-lavoro altrui, sono un pidocchio
della cute di poco venerabili capi d'industria. E va bene: pidocchio. Ma non segugio, né
cane da guardia. E non vi sembri eccessivo ch'io voglia oggi restituire una goccia di
quel sangue a coloro dai quali le sanguisughe lo succhiano a secchi: una goccia grigia
di sangue, una manciata d'elemosine.79
UT (2012), p. 142.
UT (2012), p. 141.
76 Ivi, p. 144.
77 Ibidem.
78 Ibidem.
79 Mercuri (1973), p. 68.
74
75
84
Forse il romanzo L'uomo di Torino, se non tutta la sua attività politica così carica
di sofferenze e sacrifici in nome del riscatto dell'intera umanità, è quella goccia
di sangue restituita a coloro ai quali è stata succhiata via dalla sua stessa classe.
Gabriele D'Angeli
gabrieledangeli@gmail.com
85
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88
UT (2012)
Velso Mucci, L'uomo di Torino, Milano, Scalpendi, 2012.
Velso Mucci is one of the less known authors in Italy and Europe, even if his works,
from the philosophical and political nonfiction to art criticism, from poetry to fiction,
aimed at renewing deeply the Italian and European culture. L'uomo di Torino, his last
unfinished work, is an evidence of this effort, beacuse the novel addresses realism and
alienation in our contemporary society with a new point of view, taking over and
overcoming the lessons of Joyce, Proust and Kafka.
Parole-chiave: Velso Mucci; romanzo; cena; realismo; alienazione.
89
FLAMINIO DI BIAGI, Vittorio Imbriani: tecniche s/compositive del
romanzo
Libro molto particolare e di un genere tutto suo, Dio ne scampi dagli Orsenigo,
di Vittorio Imbriani (1876), appare veramente, come è stato suggerito, l’opera di
un ‘irregolare’ della nostra letteratura.1 La storia singolare e paradossale di due
amanti che a null’altro aspirano che a togliersi dalla scomodissima posizione di
amanti non sembra certo appartenere all’ortodossia letteraria dell’Ottocento,
anche se di un Ottocento che comincia ormai a trarsi fuori dalle melme
romantiche. Audacemente racchiuso tra un’iniziale affermazione che è poi la tesi
stessa del romanzo («una relazione è, quasi sempre, più pesante del
matrimonio») e una soluzione finale provocatoria e quantomeno sconcertante
(«della sorella dell’Almerinda narrerò un’altra volta»), il libro dell’Imbriani
presenta la specifica struttura compositiva della negazione: la scomposizione,
ovvero, dei modelli narrativi convenzionali del romanzo borghese ottocentesco.
Se l’amante è per tradizione appassionato, quello d’Imbriani è non solo affatto
innamorato, ma addirittura intollerante delle pastoie amorose e dei fastidi che
gliene derivano. Se i nomi dei personaggi, tra romanticismo e decadentismo, si
fanno per lo più indicazione divina e prefigurazione del sublime (o anche
convinta e realistica mimesi individuativa), in Imbriani precipitano nel grottesco
della funzione caricaturale. Se la vicenda, nel romanzo tradizionale, possiede uno
svolgimento logico e armonico – presentandosi il testo come organismo ben
congeniato anche laddove l’autore (come in Verga) tenderà a scomparire del tutto
– Imbriani lacera il tessuto narrativo stracciandolo da più parti (stile, digressioni,
interventi, montaggio), quasi avendo cura di mostrarne il meccanismo. Se, infine,
Tordi (1978): Irregolari e isolati del secondo Ottocento. Vittorio Imbriani (Napoli 1840-1886)
nacque da famiglia di patrioti risorgimentali (la madre era sorella di Carlo Poerio) e crebbe in
esilio. Attivo lui stesso politicamente, fu volontario nel 1859, e con Garibaldi nel 1866, studiò a
Zurigo (dove conobbe De Sanctis) e a Berlino. Svolse poi a Roma e a Napoli attività letteraria, di
critico, di giornalista politico. Insegnò all’università di Napoli Letteratura Italiana e Estetica.
Malato, morì subito dopo aver vinto la cattedra. Spirito generoso ma intransigente. Noto per la
sua attività di ricercatore sulla letteratura popolare (con Pitrè) e di critico viscerale, polemico e
guerrigliero (Uno sguaiato Giosuè, 1868, Fame usurpate, 1877, Studi danteschi, raccolti 1891), ardito
manipolatore della lingua, capace di neologismi, infrazioni, contaminazioni, e di ironia corrosiva.
Oltre al romanzo semi-sperimentale Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876), scrisse altri racconti
lunghi che sono tra le opere più atipiche e oltranziste del panorama letterario dell’Ottocento
(Mastr’Impicca, 1874; Le tre maruzze, 1875; La bella bionda, 1876; La novella del Vivicomburio, 1877; Per
questo cristo ebbi a farmi turco, 1883).
1
90
il lettore borghese ottocentesco viene solitamente blandito e coccolato, quello
malcapitato d’Imbriani è irriso e decisamente maltrattato. Dunque, una pratica
narrativa antinomica, basata polemicamente sul rovesciamento di quanto
letterariamente corrente (e corrivo), e i cui tratti caratteristici appaiono ben
individuabili.
Parente alquanto degenerata della digressione manzoniana, la digressione di
Imbriani chiarisce «quanto sia più importante non la storia in sé ma il discorso
critico che sulla stessa viene portato avanti».2 Le digressioni dell’autore «frenano
il corso dell’azione, svolgono funzione provocatoria».3 In Manzoni la pratica
digressiva viene giustificata dalla funzione di supporto alla narrazione: il
racconto viene coonestato dal ricorso a fatti che gli sono propriamente estranei,
ma che risultano corroboranti, esplicativi, certamente complementari. Perfino
quando lo scrittore abusa dello strumento, come nel caso famoso della Monaca
di Monza (avviando una sorta di romanzo, o studio storico, parallelo), il suo
allontanamento si conserva serio e compunto, e mai si potrebbe sospettarne
un’intenzione parodica o semplicemente critica. E non è che Manzoni difetti
d’ironia. Imbriani, al contrario, utilizza la digressione con un piglio sarcastico e
perfino brutale: «Diecimila lire di mancia, a chi scavizzola un tanghero, che
sdegni l’invito di una bella donna...» [p. 76] (e via con una tirata sull’ipocrisia del
vocabolario amoroso).4 Sostenuta da un lessico colorito e franco, la sua
personalissima digressione interrompe lo svolgimento dell’azione romanzesca
senza riguardi: la fluidità del narrare viene ignorata, il protrarsi dell’interruzione
è a totale discrezione dell’autore, perfino l’eventuale pertinenza al testo appare
elemento trascurabile.5 Un tipo tutto particolare di tecnica digressiva è poi
visibile in quelle storie nella storia che l’Imbriani tende ad inserire, con un
processo dal sapore dotto e insieme popolareggiante: piccoli aneddoti per lo più
assurdi ed estranianti, non si capisce bene fino a che punto inventati o frutto della
sua effettiva erudizione e conoscenza dettagliata della novellistica cinquesecentesca e popolare (Basile in testa). Come la storia grottesca (e pseudomorale)
dell’inglesina sedicenne, sposatasi per calcolo con un sessagenario che le
sopravvive con prole numerosa dopo trent’anni di matrimonio, invece di morire
in fretta lasciandola erede [p. 16]. O come le notizie di cronaca lette dal povero
Spera (1975), p. 9. A questa edizione fanno sempre riferimento, da qui in avanti, i numeri
di pagina tra parentesi quadre che seguono la citazione.
3 Tordi (1978), p. 83.
4 Imbriani (1975), p. 76. Ristampe precedenti del Dio ne scampi sono quelle a cura di Aldo
Camerino (Firenze: LeMonnier, 1956) e di Luigi Baldacci (Firenze: Vallecchi, 1972). Molte quelle
successive, a testimonianza della promozione a piccolo classico; ultime: Ravenna: Allori, 2004
(cura di Siriana Sgavicchia); Milano: Garzanti, 2006 (cura di Fabio Pusterla); Napoli: D’Auria,
2011 (cura di Sandra Carapezza).
5 Nel romanzo «il punto di vista è assolutamente unico, ed è quello dello scrittore», Barberi
Squarotti (1990), p. 14.
2
91
marito ‘minotaurizzato’ della protagonista Radegonda nel tentativo di
ravvederla (la moglie traditrice avvolta nelle lenzuola e buttata dalla finestra [pp.
80-81]; la vendetta del marito tradito che costringe l’amante della moglie a
pagarla [pp. 81-82]). O come la citazione del «personaggio del Goldoni, che
odiava, tanto, il Can de’ Tartari, da non poter più veder cani» [p. 99]; del «ceffone,
che il general Damiano Assanti inflisse al volto del sedicente barone Giovanni
Nicotera» [p. 139]; degli «spazzolini curvi che indispettirono, tanto, Giangiacomo
Rousseau, da Ginevra, contro Melchiorre Grimm, da Ratisbona» [p.146].
Personaggi storici o letterari, noti o attinti dalla cronaca minore, compaiono nelle
pagine del romanzo, a prova semiseria di quanto affermato dall’autore; e al di là
della credibilità del ‘Re d’Algarvia’ [p. 107] o del ‘generale Nostitz’ [p. 11], vale
constatare come anche questa curiosa predilezione dell’Imbriani, vera tecnica
della cripto-citazione, serva a scardinare dall’interno le regole del romanzo a lui
contemporaneo.6
Il rapporto col lettore è un altro luogo privilegiato della scrittura di Imbriani.
Un rapporto in cui chi scrive chiarisce di avere il coltello dalla parte del manico,
e il lettore si trova costretto a subire i capricci e la prepotenza dell’autore. Basti
ricordare la scena in cui il capitano Della-Morte abborda due ‘tose’ milanesi, che
è tutto un dialogo (o battibecco) tra il narratore e il pubblico come immaginato
da quello:
Ciò, che accadde, non saprei narrarlo, per lo minuto: ché non mi invitarono a salire, con
loro, nella casa, in cui entrarono, un pajo di strade più in là.
"Chi? chi entrarono insieme?"
Chi? Maurizio e una delle belle tose.
"Oh, che orrore! Come, lui, che ci vorrebbe far credere tanto preoccupato, sempre,
dell’Almerinda?"
Molti personaggi citati da Imbriani appartengono alle basse sfere della letteratura o della
cultura, altri, sono presi dalle cronache delle gazzette del tempo. Immaginarsi la frustrazione o il
senso di inadeguatezza del lettore di quei tempi, non munito di motori di ricerca internet, per
rintracciarli o per ricordare che ‘Nostitz’ è il nome di un generale prussiano dato da Imbriani per
amante del Granduca Costantino Romanov, che il ‘Re d’Algarve’ (oltre al marito gabbato della
novella di Alatiel [Decameron, II, 7], già riscritta da Imbriani nel 1877 [La novella del Vivicomburio])
può riferirsi al progetto napoleonico di spartizione del Portogallo, che ‘Melchiorre Grimm’ fu
scrittore in sentita polemica con Rousseau, e via così citando. Altro che il Carneade manzoniano,
qui i semi-sconosciuti sono decine. In questo atteggiamento di Imbriani c’è la stessa ironia (non
più garbata, ma centuplicata) di Manzoni verso il proprio lettore; lo sfottò nei suoi confronti si
riflette nell’istruzione incerta e lacunosa di Don Abbondio e nell’incapacità di distinguere figure
influenti da quelle marginali che affligge gli eruditi dogmatici come Don Ferrante. Tuttavia, è
inevitabile che lo scherzo, insistito, conferisca alla prosa di Imbriani un tono pedante. Sulla
poetica della citazione e sulla rete di citazioni palesi o nascoste del romanzo i contributi sono
ormai numerosi; vedi, tra i più significativi: Carapezza (2015); la studiosa, tra le citazioni presenti
nel libro, ne conta 34 solo tra quelle esplicite.
6
92
Ebbene, cosa fa? Appunto, perché, amava e soffriva, merita, forse, indulgenza maggiore,
se cercava distrarsi: circostanza attenuante! E poi, [...] la ragazza, con cui salì, l’era
tanto bellina! [...]
"E ce le viene a raccontare, queste sue belle gesta? E lo loda?"
Io? Dio me ne liberi! Io sono istorico: narro, non giudico; lascio questa cura a Lei
Signorìa.
"E come si chiamava colei?"
Anche questo ho a dirle? Si chiamava l’Ermenegilda Trabattoni.
"Ed abitava, propriamente, dove?"
Beh! che mestiere crede, V.S., che io faccia? [...]
"E l’altra bella tosa?"
Niente paura... [pp. 63-64].
Questo immaginario lettore orripilato e scandalizzato scopre non solo il
proprio moralismo ipocrita, ma soprattutto tradisce una volgare curiosità
pettegola che si fa in fondo piuttosto compiacente e, a ben guardare, interessata
(il buttar là casualmente quel ‘dove?’). Lo stesso atteggiamento da ‘storico’
dell’Imbriani («narro, non giudico») suona smaccatamente falso e quasi a
canzonatura del romanzo naturalista e dei ‘documenti’ veristi ‘fatti-da-sé’ che
pure cominciavano a circolare (la Nedda del Verga era apparsa un paio d’anni
prima, nel 1874). Anche Imbriani accampa qua e là un’apparente teoria del
documento umano («Noti il lettore, per carità, ch’io, fedelmente, riferisco [...] non
parlo, mica, in nome mio proprio» [p. 69]; «io narro e non giudico» [p. 103]; «Sono
istorico» [p. 117]), ma, alla pari del suo presunto uditorio, mente sapendo di
mentire: bara così spudoratamente da lasciare spuntare le carte nascoste nei
polsini. Al malcapitato lettore viene rinfacciata la noia e disattenzione («Che!
lettore, sbadiglia?» [p. 70]). Viene rimproverato per la sua ignoranza («un bel
verso di Baldassarre Olimpio degli Alessandri da Sassoferrato, poetucolo del
cinquecento, che Vossignoria, lettore, non avrà, mai, inteso nominare, ch’io
creda» [p. 73]) e gli si attribuisce invece una chiara conoscenza dei ‘moccoli’ e
‘parolacce’ pronunciati dal Della-Morte e non riportati dall’autore («Suppliscan
le Eccellenze de’ miei pratici lettori; ristabiliscan Loro il testo schietto» [p. 61]).
Gli viene bellamente dato dell’ubriacone («Ma siamo stati ubbriachi, anch’io,
qualche volta, e Lei, forse, spesso, m’immagino, caro lettore» [p. 117]). Viene
insomma persistentemente burlato («Caro lettore, sappia Vossignoria
Illustrissima...» [p. 95]), solleticato («Se l’ipotetico mio lettore, volesse e sapesse
insegnarmi questo come, io gli sarei, proprio, riconoscentissimo» [p. 95]) e preso
in giro («la Ermenegilda Trabattoni, via: non so se Lei se ne ricorda, Lettore!» [p.
95]), fino alla solenne beffa finale di quella conclusione elusiva: «Della sorella
dell’Almerinda, Berenice, e di quel, che le avvenne, osservandissimi lettori e
lettrici, narrerò – un’altra volta, con comodo, quandochessia.» [p. 158]. Per tutto
il libro Imbriani si prende gioco della sua ipotesi di lettore, negandoglisi
continuamente: «non ho coraggio di riprodurre, più oltre» [p. 117]; «non posso
dirvi e precisare cosa facesse [...] non ero in camera, lì, presente» [p. 119]; «Io,
93
queste amenità [...] non le registro» [p. 61]; «Fu supposto che [...] Ed io non vo’
crederlo» [p. 110]. Appare chiaro allora come in Dio ne scampi si realizzi qualcosa
di ben lontano dalla discreta complicità instaurata dal Manzoni con i propri
‘venticinque lettori’. Ne I promessi sposi il lettore è assunto come attento ed accorto
(«Don Abbondio – il lettore se n’è già avveduto – non era nato con un cuor di
leone.»)7 e viene confortato e reso partecipe. In Imbriani lo spettatore, non meno
dei personaggi, è messo a nudo e, quasi, la sua funzione messa in dubbio dal
sarcasmo. Ed è facile comprendere l’imbarazzo e l’irritazione del pubblico
all’apparire di un’opera condotta in modo così inusuale e conflittuale, come è in
parte giustificabile il frettoloso sbarazzarsene della critica grazie all’etichetta
sbrigativa e cauterizzante di «spirito bizzarro e dispettoso» (evitando, cioè,
l’indagine sulle profonde motivazioni destrutturanti del lavoro del napoletano)8.
La scrittura è tutta un florilegio di giochi di parole («piace a’ mici, piace a’
micci, l’esser lisciati» [p. 72]), di luoghi comuni surrealisticamente rivoltati («Che
Cairo d’Egitto?» [p. 91]), di quasi futuristiche onomatopee reiterate («Tra! Tra!
Tra! Tra! Una carrozza [...] Una scampanellata; drin! drin! drin! Il grave passo [...]
pacch! pacch! pacch! Una voce tenue femminile: zizì! zizì! zizì! [...] un picchiare
[...] all’uscio: tocch! tocch! tocch! [...] più forte: tocch-tacch! tocch-tacch! tocchtacch!» [pp. 43-44]), di paradossali formule chimiche derivate dai nomi dei
personaggi («ravvicinamento del Radegondato di serenità con l’Almerinduro di
passione» [p. 55]), di espressioni ricercate («sul pelago della vita» [p. 30]), erudite
(«sinderesi» [p. 20]), latineggianti («intascherebbe i quibus» [p. 123]), napoletane
(«le varrate de cecate» [p. 95]), milanesi («bej tosânn» [p. 63]), di verbi o proverbi
francesi («Coeur qui soupir, n’a pas ce qu’il désire» [p. 28]), di forme arcaiche
(«erano suti» [p. 74]), colloquiali («paffete! [...] puffete!» [p. 70]) e insieme comicoauliche («inussorarsi» [p. 79]). Di insulti c’è un vero vocabolario (tanghero,
babbuasso, dappocaccio), soprattutto a spese della protagonista femminile come
definita dall’amante: pinzocheraccia, dottoressa, Quacchera o Squacchera,
gesuitessa, ruffiana alla rovescia, pettegola, vescicante, subdola e volpina,
mummia greca, gatta morta, falsa, brutta jettatrice, stregaccia, tribolatrice, furia
d’inferno, Megera! Imbriani irride i toscanismi di derivazione manzoniana, lo
stile contraffatto e affettato degli epigoni che il Carducci aveva stigmatizzato con
«manzonismo degli stenterelli»9, riproducendo qua e là mimeticamente il tono di
quella ancora attualissima moda letteraria:
Cara donnina quella su’ moglie! piccola, con un par d’occhioni di que’ neri neri; pallida,
con lunghi capelli, con un sorriso, che ti andava al cuore e ti mostrava una dentaturina,
Manzoni (1970), p. 19.
La definizione si legge in: Russo (1958).
9 La sintonia con Giosuè Carducci, che pure Imbriani non amava affatto, si legge in Davanti
a San Guido (del 1874): «la favella toscana, ch’è sì sciocca / nel manzonismo de gli stenterelli»
[vv.83-84]; in Carducci (1955), p. 689.
7
8
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bianca al pari dell’avorio; con un pieducciolo, che avrei tutto raccolto nella palma della
manaccia mia. [...] Carina tanto, anche, quella figliuoletta! fanciullaccia, che
parlacchiava il meneghino con invidiabil purezza... [p. 23],
dove l’ironia dell’operazione consiste in quell’abuso di diminutivi e in quel
rifare il verso (più che alla parlantina frizzante e sboccata di Stenterello) al tipico
parlare salottiero e pettegolo da Signora-bene, magari divoratrice di romanzi.
Altro sintomo della polemica anti-fiorentina di Imbriani è contenuto nella parlata
dello sfidante a duello: il marchese Barberinucci da Firenze. Con la grafia
corrispondente alla fonetica peculiare del fiorentino più becero, scrive: «La ti
hosta un occhio d’iccapo, e, p’immomento... ‘un vogghi’ offenderti... ma sembra,
che ti troi, un po’, imbarazzaco» [p. 138]. E poco prima: «Chi ha fortuna in amore
’un giôchi a carte», seguito dal secco commento dell’Imbriani: «’Un giòchi,
goffaggine fiorentina delle più sconce, per non giuochi» [p. 136]. In questo
scoppiettare ben poco ‘deamicisiano’ del tono narrativo, la lingua del romanzo si
piega a qualsiasi esigenza, perfino quella particolare della scienza medica:
l’amputazione della mano del protagonista viene descritta con una
raccapricciante minuziosità tecnica:
L’Acquarone, sostenendo, con la sinistra, la mano ferita, con un amputante a lama
stretta, incise, circolarmente, la cute, poco meno di due dita trasverse, innanzi alla linea
articolare. Ed il Prezzemolini la stirò, in alto. Poi, il cerusico ne favorì la retrazione,
incidendo i filamenti cellulosi, che la tenevan congiunta, a’ tessuti sottoposti. Appresso,
troncò i tendini flessori ed estensori e gli altri tessuti molli, a livello della cute retratta,
ossia dell’articolazione. Quindi, penetrò, in questa, per uno de’ lati, prendendo, per
guida, l’apofisi stiloidea corrispondente; e diresse il gammautte, nel senso della linea
articolare, descrivendo una curva a convessità posteriore; trascorse l’intera superficie
articolare ed asportò la mano [p. 150].
Un pezzo di bravura, ma, insieme a certo accademismo da filologo stizzito, si
coglie, ancora una volta, qualcosa di provocatorio e polemico, in questa
programmatica accuratezza scientifica. È un rifare il verso al Pellico di «Quegli
[il medico] prese la rosa e pianse»10, o all’analoga scena dell’operazione a un
piede che il dottor Bovary compie (maldestramente) nel romanzo di Flaubert?11
L’intento più palesemente parodistico, tuttavia, l’Imbriani lo esplicita nei nomi
dei personaggi, i quali veramente stabiliscono il tono da commedia delle parti e
individuano una funzione. In letteratura i nomi sono spesso funzionali alle teorie
letterarie adottate e, certamente, ’Ntoni o Malpelo stanno al verismo come Stelio
Silvio Pellico, Le mie prigioni (1832), Capitolo LXXXVII, dove si descrive con simile tono
asciutto l’amputazione della gamba di Pietro Maroncelli, operata peraltro da un ‘chirurgo’ che di
fatto è un vecchio barbiere; il brano era famoso e immancabile nelle antologie scolastiche postrisorgimentali.
11 In Madame Bovary (1857), di Gustave Flaubert, al Capitolo XI della Parte 2ª, l’incapace
dottor Charles Bovary opera uno stalliere ad un piede, ma con risultati disastrosi, che costringono
il malcapitato all’amputazione totale.
10
95
Effrena o Andrea Sperelli stanno al decadentismo. Ma in designazioni del tipo
‘Ermenegilda Trabattoni’ (per indicare una ragazza con l’inclinazione a battere il
marciapiede), lo sberleffo e la satira si spingono volutamente a rasentare la banale
pericolosità della goliardia. Con Chiarastella Parascandolo si individua la madre
un po’ ingenua (chiara-stella) e disposta a coprire le malefatte mondane (parascandalo) del figlio. In Don Liborio Ruglia si stigmatizzano le tendenze
dell’inutile marito e magistrato sonnolento: ‘Liborio’, come libare, libagione,
nome quasi da ubriacone; ‘Ruglia’, come ‘colui che russa, rumina, rimugina’ (o
‘raglia’?). A volte lo scrittore semplicemente si diverte, e abbiamo l’inglese Whata-fair-foot (che-bel-piede!) o la nonna Teresa Cazzaniga negli Averoldi. A volte
lascia divertire i suoi personaggi, ed è lo stesso Maurizio a smontare il nome della
futura amante, Salmoiraghi, in Salamoia-ed-Aghi. L’etimologia metaforica dei
nomi degli amici perdigiorno è ben chiara: il marchese Barberinucci, il cavalier
Bacherini, il tenente Vermaleone. L’insipienza professionale dei dottori è
lampante nella loro denominazione: Egisto Acquarone, Oreste Prezzemolini. Il
gioco, per quanto ovvio, non è né inutile, né troppo insistito.12 Gli stessi nomi da
romanzetto romantico delle protagoniste, Almerinda e Radegonda (con quella
beffarda, deviante consonanza: inda-onda) rispondono a una precisa intenzione
satirica del bovarismo di cui soffrono entrambe le donne, anche se in misura e in
circostanze diverse. Ma l’appellativo più felice è forse quello assegnato al
protagonista maschile: Maurizio Della-Morte, per quella vera morte amorosa da
cui a poco a poco viene soggiogato e ridotto all’impotenza («Questa donna
m’ama a morte; checché faccia non giungerò a demeritarne l’affetto mortifero»
[p. 100]). Il pesce, incastratosi nella rete, muore lentamente, strozzandosi da solo
nel tentativo di liberarsi. Una relazione, parrebbe, non solo lega le mani, ma,
seppure con asetticità da sala operatoria, le taglia. La coppia tradizionale Amore
e Morte, ossessione romantica, viene qui intesa da Imbriani nel senso più ribaldo
e truffaldino possibile: Amore è Morte.
Alla lunga, però, la temeraria posizione di bastian contrario, l’espressività su
di giri del linguaggio adottato, possono finire per stancare. E certamente sia lo
stile, sia gli assunti teorico-letterari di Imbriani mostrano facilmente il lato
nascosto della loro medaglia. Sotto la consapevole spinta al rovesciamento dei
canoni convenzionali, lo scrittore napoletano tende a strafare: esagera; si perde
nell’eccessivamente colloquiale e, al contempo, nella pedanteria (vedi l’uso
parossistico della punteggiatura, così rigonfia di virgole, punti e virgola, pause
estenuanti); indulge alle battutine che ne tradiscono il rigoroso moralismo. La
satira sociale e quella letteraria appaiono in buona parte dettate da uno spirito
profondamente reazionario e intollerabilmente misogino (l’intero libro si scopre
Si parla, a proposito di questi nomi, di esemplarità, ma anche di «banalità esasperante»:
Tordi (1978), p. 86.
12
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programmatica dimostrazione della pericolosità della donna nelle molteplici
funzioni di moglie, di madre, di amante, di educatrice). La critica ha bene
puntualizzato i limiti del Dio ne scampi. Rosita Tordi nota come le intenzioni
satiriche possano risultare d’impaccio e avverte del pericolo di finire «nella
spirale di un divertissement arido e fine a se stesso».13 Prima di lei, il Flora aveva
colto la possibilità concreta per l’Imbriani di rimanere vittima del proprio stile
argutamente audace e scherzoso: «se vuol esprimere toni affettuosi, casalinghi,
pietosi, non sai bene se dica sul serio o se scherzi: allora diventa illeggibile e
noioso».14 E prima ancora il Croce poneva in risalto che la storia raccontata «non
ha niente di buffo: è pietosa, anzi straziante. Una donna colpevole, tormentata
dal rimorso; un giovane che si vede strappare l’amata; un’altra, onestissima e di
carattere fiero, che è investita dalle fiamme che voleva spegnere; la degradazione
di un uomo per effetto di una situazione irregolare; l’estrema devozione e la
gratitudine di una donna non riamata, ma amante».15 Croce sottolinea come i
personaggi e i motivi siano ‘serissimi’ nonostante la feroce intonazione del
racconto. Ma questo, dopotutto, è un pregio. Dunque, il grottesco, l’ironia, il
sarcasmo, la negazione, il linguaggio quasi sperimentale, tutti gli strumenti
adoperati da Imbriani si possono rivelare un’arma a doppio taglio.
L’attualità di questo dispettoso (ma notevole) distruttore è stata riproposta da
Gianfranco Contini, che ne paragona l’esperienza a quella di un Carlo Emilio
Gadda: e situa così la sua modernità principalmente sul versante della
sperimentazione linguistica.16 È vero che l’Imbriani soffra di un disagio relativo
al linguaggio, «strumento decorativo e compromettente»17, ma esiste anche un
suo disagio nei confronti delle componenti tematico-strutturali, che lo colloca allo
stesso tempo più verso il Novecento che nel secolo da lui bistrattato. All’interno
del testo, vi sono continui interventi sul racconto: l’autore esprime il suo
disprezzo per i propri personaggi: è il primo a porli in discussione scavandone le
motivazioni più recondite e inconfessabili. Si gioca in pratica una commedia degli
equivoci: nel libro tutti credono o pretendono di amare qualcuno, mentre le due
donne si scambiano addirittura le parti. Si appare in un modo pur essendo in un
altro. Molte, e nessuna meno valida dell’altra, sono le verità. L’autore cuce la
tragica farsa avendo cura di mostrarsi e di mostrare cosa accade dietro il
proscenio delle coscienze, tira in ballo il lettore, gli svela ripetutamente che si
tratta di un congegno (persino un po’ macchinoso). Il protagonista, convinto di
controllare la situazione, si scopre in realtà in balia degli eventi e di una donna
Ivi, p. 89.
Flora (1940), p. 443.
15 Croce (1973), p. 183.
16 Contini (1974).
17 Tordi (1978), p. 75. Ma vedi anche: Contini (1974), Paladino (1976), Spera (1976), Alfieri
(1990), Cenati (2004).
13
14
97
(la quale forse non sa bene quello che fa, e in ogni caso lo fa tramite una
suggestione letteraria come quella dell’epistolario amoroso letto di nascosto): il
Della-Morte è costretto a recitare il ruolo dell’amante controvoglia, fino al punto
di rischiare la vita e perdere una mano (per non perdere la faccia). Tutti questi
elementi; il palesare (dissestandolo) l’impianto del romanzo; il fare i conti col
pubblico (per di più a base d’insulti); la vicenda in cui il paradosso, l’assurdo e il
senso della parte interpretata tentano di prevalere; la fine aperta o in sospeso e
senza soluzione della storia; indicano, pur senza voler forzare la lettura, una
significativa propensione novecentesca. Ovvero a tematiche e modi che
diverranno tipici nel Novecento.
L’estrema consapevolezza linguistica, il conflitto coi personaggi, la
frammentazione, l’utilizzo della citazione (se non dell’autocitazione), la mimesi
stilistica di autori del passato o contemporanei, il ridiscusso e controverso
rapporto con il lettore, il latente decostruzionismo, la meta-narrazione, la
parodia, il senso del fasullo e della menzogna, il paradosso, l’inattendibilità del
narratore, l’ironia, il complotto, l’ingranaggio, la presenza in scena dell’autore, le
digressioni metaletterarie... saranno tutti elementi della letteratura del secolo
successivo a Imbriani, in particolare quella definita ‘post-moderna’. Imbriani
aveva già assimilato la lezione dei ‘maledetti’ o della ‘scapigliatura’, ma per certi
aspetti siamo addirittura di fronte a prefigurazioni pirandelliane (se è vero che il
testo gioca con le identità ed è disseminato di dubbi: chi ama chi? nelle vesti di
chi? e, soprattutto, perché?); non siamo poi così distanti dal pastiche di Gadda, dal
‘posticcio’ di Gozzano, dal plurilinguismo di Pound, dalle cripto-traduzioni di
Eliot, dalle nevrosi letterarie del Gruppo 63, da un Arbasino che rielabora quasi
ossessivamente i suoi testi e li ripubblica, dall’assemblage di Sanguineti, dalla
funambolica poetica dello scandalo di un Manganelli, dal decostruzionismo
dell’ultimo Calvino (che parla dello scrittore come «forzato della letteratura», di
«lettori vampiri», e giunge alla paranoia di dichiarare «come scriverei bene se
non ci fossi!»18), dalla consapevolezza ironica di un Kundera (che nel battezzare
i propri personaggi disquisisce ‘imbrianiamente’ col lettore del proprio disagio:
«sono sempre in imbarazzo quando devo andare a unirmi a questa innumerevole
folla di Giovanni Battisti. Ma che fare? Devo pur dare un nome ai miei
personaggi.»)19.
Naturalmente, senza esagerare. Che la letteratura si alimenti di letteratura non
è una scoperta dei nostri ipersensibili anni o del brulichio di avanguardie
novecentesche. Lo faceva già Dante. Ai tempi di Imbriani, era stato Baudelaire a
ricollocare in soffitta il mito romantico dell’ispirazione, parlando del poeta come
un farceur che si nutre di artificio e maquillage, e demistificando il ‘lettore ipocrita’
18
19
Calvino (1979), p. 171.
Kundera (1980), p. 89.
98
in quanto speculare controparte dell’autore.20 E prima del francese (prima di
maledettismi o di Kundera, di piani di lettura multipli o di intertestualità, di Eco
o delle Finzioni di Borges), si trovano ‘trascurati’ come Washington Irving:
l’americano aveva già inscenato, con la giunta di un alter-ego, avventure
libresche, divertissement letterari, falsi documenti storici, metodi di riciclaggio
letterario e conversazioni immaginarie in biblioteca con polverosi tomi parlanti.21
E il dialogo col lettore immaginario e l’escamotage del presunto ritrovamento di
uno scartafaccio manoscritto in italiano secentesco sono manipolazioni che tutto
sommato accadono persino nel purista Manzoni (modello, in teoria, che Imbriani
vorrebbe scardinare).
Eppure, qualcosa ha nuociuto alla fama del libro. Non basta essere in anticipo.
Fosse stato Dio ne scampi dagli Orsenigo un tantino più rifinito e l’autore meno
semplicemente trascinato dalla polemica (acida, costante, misantropa), e poco
più strutturato, non saremmo di fronte a un ‘caso’ – che è comunque già
abbastanza – ma a un ‘grande evento’ letterario. Per parafrasare Cletto Arrighi
(contemporaneo del nostro e anche lui ‘eretico’ della letteratura, autore anche lui
di un romanzo più farraginoso che eversivo)22: l’inquietudine, il travaglio, la
turbolenza non necessariamente portano al genio della creatività, alle opere di
ingegno, ma a morire in miseria e dimenticati. In fondo la punizione peggiore per
gli eretici non è il rogo, ma l’oblio. Malgrado l’attenzione editoriale, la scoperta
di inediti e le ristampe23, i dubbi della critica restano irrisolti: va bene la furia
iconoclasta, va bene l’intransigenza, ma l’apocalittismo alla lunga si sfilaccia, si
ripete, banalizza, diventa schema, irrita. Sorge l’ipotesi che Imbriani ci attragga
tanto perché siamo, come lui, una società di ‘scontenti’. E la nemesi, o il
contrappasso, per il romanzo è arrivata nel 2008, quasi un secolo e mezzo dopo:
quando un esponente contemporaneo della famiglia Orsenigo, per di più anche
lui di nome Vittorio, ha scritto il libro Dio ne scampi dagli Imbriani, come risposta
Au Lecteur è la poesia il cui famoso verso finale («Hypocrite lecteur, – mon semblable, – mon
frère!») fa da prefazione ai Fiori del male dell’edizione del 1861. Tra le innumerevoli analisi, vedi:
Booth (2015).
21 Irving (1819); la versione italiana di riferimento resta: Il libro degli schizzi, trad. Nora
Gyarto e Beatrice Boffito, Milano: Rizzoli, 1959. Irving è autore dimenticato, ma – alla pari di
Imbriani – moderno, ricco di trovate, di effetti; leggero ma percorso da angosce e multi-livello nei
significati; misogino, ironico ma anche caustico; un grande osservatore.
22 Si tratta di Gli sposi non promessi, pubblicato nel 1895: non una semplice parodia del testo
manzoniano, ma un ‘ribaltamento eversivo’ (il sottotitolo lo definisce una «parafrasi a
contrapposti»). Il romanzo non ebbe alcuna risonanza. È stato ristampato recentemente: v.
Arrighi (2018).
23 Non ultimo il diario romano Passeggiate romane (a cura di Giuseppe Iannaccone, Roma:
Salerno, 2007), che il curatore definisce «enciclopedia dell’ingiuria» per la visione rabbiosa che
Imbriani rende dei primi anni (1871-1877) della capitale del nuovo regno, come ‘cloaca’ dove
annega l’utopia risorgimentale.
20
99
alle ‘diffamazioni’ del napoletano.24 Pseudo-romanzo anch’esso d’amore, tra
divagazioni e ricordi autobiografici, invece che a Milano ambientato ai tropici;
ma soprattutto romanzo dove l’ironia è capace di auto-ironia, virtù invece
piuttosto sconosciuta all’altro Vittorio.
Di Biagi Flaminio
fdibiag@luc.edu
Loyola University Chicago
24
Orsenigo (2008).
100
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Rosita Tordi, Irregolari e isolati del secondo Ottocento. La normalità alternativa di Zena,
Rovani, Nieri, Oriani e Imbriani, Bologna, Calderini, 1978.
This paper is a brief analysis on the narrative devices in Vittorio Imbriani’s most
significant novel – Dio ne scampi dagli Orsenigo. In terms of linguistic choices, cultural
references, narrative approaches, relationship with one’s own reader, Imbriani’s work
seems truly unusual for its times, and astonishingly modern: it seems to blaze the trail to
several literary strategies of the Twentieth century. The paper aims to underline some of
these strategies, however it also discusses some of the boundaries of a programmatically
aggressive and unwieldy presence of the writer within the narration.
Parole-chiave: Imbriani; romanzo; Manzoni; citazione; contratto col lettore.
103
CINZIA GALLO, Vestru di Serafino Amabile Guastella:
un’importante prova di un autore ‘minore’
«Guastella [...] è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della
nostra sacca di resistenza culturale»1: così Vincenzo Consolo definisce Serafino
Amabile Guastella2, uno dei più rinomati fra gli autori siciliani ‘minori’ di
secondo Ottocento. Il giudizio di Consolo trova conferma nell’indole polemica
del nostro autore, che osteggia i titoli accademici (non si laurea) e critica
fortemente i sistemi scolastici chiusi e retrivi di Chiaramonte Gulfi, dove nasce
nel 1819. È a Palermo, invece, che Guastella ha la possibilità di costruirsi una
solida cultura. Alla conoscenza dei classici, egli abbina gli apporti della cultura
illuminista francese, dell’empirismo inglese, le letture di scrittori moderni ed
antichi, sia italiani che stranieri. Il profondo radicamento e l’interesse per
l’ambiente locale3 lo portano, comunque, a collaborare ad alcuni periodici: «Il
Vapore», in cui pubblica due componimenti poetici, e «Il Giornale di Scienze,
lettere ed arti per la Sicilia», in cui dà alle stampe Vittore Hugo, un saggio piuttosto
importante, in quanto Guastella sostiene che è necessario creare personaggi veri
e reali, che nascano dall’osservazione diretta dell’esperienza storica e sociale, da
cui soltanto l’arte può trarre la sua utilità morale e civile. Deriva di qui l’esigenza
guastelliana di una letteratura realistica, che sia specchio dei vizi e dei mali della
società. Si spiega, così, la composizione del periodico «Fra Rocco»4 e delle altre
opere, in cui Guastella, fondendo i suoi interessi letterari con quelli di
antropologo e di demopsicologo, ricostruisce lucidamente l’ambiente del suo
tempo, portando avanti una serrata critica contro ogni forma di superstizione, di
pregiudizio, e di servilismo. L’habitus del letterato è però prevalente, per cui non
tutte condivisibili appaiono, oggi, alcune opinioni di Guastella, certo attardate
(ma è un ritardo non suo, individuale, ma dell’ambiente in cui si trova a vivere -
Consolo (2000).
Per un’approfondita conoscenza della vita e delle opere di Guastella, sono molto utili Brafa
(1999) e Guastella (2017).
3 Secondo Giovanni Criscione, Guastella sarebbe stato, rispetto alle frange progressiste
moderate della sua città, un «intellettuale “organico”» (2010, p. 4): lo dimostrerebbe la sua
amicizia con il deputato liberale Carlo Papa, che gli affida l’incarico di scrivere un saggio su
Tommaso Campailla (Tommaso Campailla e i suoi tempi), ritenuto il «vessillo della battaglia [...]
contro il monopolio ecclesiastico dell’istruzione» (Criscione [2010], p. 3).
4 Importante, su questa rivista, lo studio di Giuseppe Barone (1979).
1
2
104
come ha osservato Corrado Dollo -), nei confronti della contemporanea cultura
europea.5
Particolarmente significative, e note, tra le sue opere, sono, comunque, L’antico
carnevale della contea di Modica e Le parità e le storie morali dei nostri villani, in quanto
Guastella vi sperimenterebbe il «modulo inventivo che gli sarà più proprio:
saggio psicologico, indagine sociologica, racconto e, tutt’ insieme, fabula
tragicomica, invenzione intellettuale».6 Non grande considerazione, invece, ha
avuto il poemetto Vestru, che in realtà risulta, ad una lettura attenta, interessante
per vari motivi. Esso, apparso nel 1882, costituisce, intanto, dopo la raccolta
giovanile La religione del cuore, la sola opera creativa in versi scritta da Guastella,
che dichiara, nell’Introduzione, di aver utilizzato, per ritrarre «costumi, credenze,
e affetti vivissimi nelle nostre montagne sino al 1860»7, la vera parlata di
Chiaramonte. Esplicita è, cioè, la polemica contro la tradizione precedente dei
poeti dialettali, colpevoli, agli occhi di Guastella, di aver usato una lingua
«sicilianizzata» anzichè «siciliana».8 Guastella è invece convinto che il popolo
abbia una sua naturale attitudine ad una lingua letteraria, differente da quella
parlata. Egli, in sostanza, si pone il problema di una ‘questione della lingua’,
schierandosi contro i fautori della teoria manzoniana. Dice, infatti:
Non cadendo dubbio sulla preferenza da usarsi verso la lingua viva, non può cader
dubbio, nemmeno sul metodo più acconcio ad apprenderlo, dacché, per noi, non ci sia
bisogno di andarla a pescare fra le acque dell’Arno, trovandola un po’ disadorna, egli è
vero, ma bella e gentile sulla bocca delle nostre trecche e dei nostri villani.9
Tali affermazioni egli ripeterà nel 1876, nei Canti popolari del Circondario di
Modica, a proposito della poesia popolare siciliana. Egli vi scorge la possibilità di
rinnovare la nostra tradizione poetica, piena di espressioni trite e convenzionali
e, soprattutto, il siciliano gli sembra essere il dialetto più vicino ai modi schietti e
spontanei di cui è pieno il fiorentino, anche se poi si accorge che molte immagini,
simili nei siciliani e nei toscani, sono, nei primi, «frutti spontanei del linguaggio»,
nei secondi «sembrano che ci stiano messi a pigione».10 Non a caso, perciò,
Guastella, delle opere letterarie di Tommaso Campailla, considera libera
dall’influsso negativo ricevuto dal Secentismo e dall’Arcadia, solo «la canzone
dialettale, un prodotto genuinamente popolare che esprimeva con spontaneità e
immediatezza gli “affetti del Volgo”».11
Dollo (1979).
Tedesco (1974), p. 16.
7 Guastella (1973), p. 5. Tutte le citazioni dal poemetto si riferiscono a questa edizione.
8 Guastella (1973), p. 5.
9 Guastella (1863), p. 23.
10 Guastella (1876), p. XXXV.
11 Criscione (2010), p. 11.
5
6
105
La predisposizione che Guastella ritiene il popolo abbia della poesia lo porta a
delineare, nei Canti popolari, le caratteristiche di una Metrica popolare mentre nella
Introduzione a Vestru egli dà degli esempi concreti delle differenze, riguardo la
pronunzia, i vocaboli, le locuzioni, i costrutti, fra la lingua usata dal popolo nella
quotidianità e quella adoperata nella poesia. Le cinquantanove sestine del
poemetto presentano una costruzione letteraria. In primo luogo, i versi sono tutti
endecasillabi, con rima alternata nei primi quattro e baciata negli ultimi due.
Numerose sono poi le figure retoriche. Si riscontrano soprattutto anafore, che ben
raggiungono lo scopo di sottolineare efficacemente un concetto, un’immagine:
Sempre scuntenti, sempri lastimusa [da notare anche l’allitterazione della s] (sest. 6).
R’allura ca trasìu ni la mè casa, / Trasìu lu ‘nfiernu, trasìu la rruina, / Pasqua si
ll’ammizzìggia e ssi la vasa. / E rrosa sempri ‘ngrata e llivantina. / Pasqua si cci fa ttera
ppi ddavanti, / E Rrosa sempre ccu la nasca tranti (sest. 7).
Sugn’arriruttu ‘n pupu, ‘n strummuluni, / Sugnu ‘mmienzu ru’ fuoddi, e ‘unn aiu
testa, [...] Or’ ha li vranchi, ed ora la ‘stirìa, / Un piezzu cianci, ‘n piezzu scaccanìa
(sest.8).
Quantu ti mànciu! Quantu mi sazzìu! (sest. 9). Senz’arti, senza parti e ssenza luocu
(sest. 13). Mancu ‘na scava!... mancu ‘na criata! (sest 18). Batt tri bboti, e bbatti li
rinòccia (sest. 20).
Tutta si vrucculia, tutta s’arrizza (sest. 25).
Vestru, cci vo’ lu strattu ppi lu sucu... / - / Vestru, ‘n cc’è uòggiu... - Vestru, ‘n cc’è
sapuni... / Vestru, ‘n cc’è ffraschi... [...] / Vestru, viri ca cc’è la lavannera... - / Mièggiu
la furca! Mièggiu la jialèra! (sest. 33).
Nnu strìnciri! - Te’ cca, puorcu ffuttutu! / Nnu strìnciri! - Te’ crozza ri lignami (sest.
36). Passa lu friddu e mmanni lu pitittu, / Passa la frevi, e mmanni la mazziata (sest.
42).
Va, scava terra, va, testa ri jizza (sest. 51).
Ma sta dduttrina mia nu nciuv’ a nenti, / Sta duttrina ‘n mi lleva ri li vai (sest. 59).
106
Frequenti sono anche altre figure della ripetizione. Si notano, in particolare,
delle epanalessi12 e delle anadiplosi13 mentre sono più rare le ripetizioni triplici 14
e le epifore.15 L’accurata elaborazione formale è confermata dagli
enjambements16, dai chiasmi17, dalle anastrofi18, dagli iperbati19, dai paragoni20,
dalle interrogative retoriche, che contribuiscono, insieme alle esclamazioni, ad
accrescere la vivacità del discorso:
e ddà cchi ttruovu? (sest. 15).
Ora ppi quattru comu po’ bbastari? (sest. 16).
Ma cchi llievu? C’accurzu? Ccgu rrarugnu? / Lievu l’uòggiu, li fraschi o li sapuni? /
Lievu?... CChi llievu?... (sest. 38).
Questa impalcatura letteraria non è in contrasto con alcune espressioni
particolarmente colorite e perfino volgari, ma ammesse da Guastella in quanto
proprie del popolo. E, d’altra parte, pure per questo Guastella poteva guardare
agli esempi forniti, nella nostra tradizione letteraria, da tutta una corrente di
poesia popolare, elaborata da poeti colti e padroni dei propri mezzi espressivi.
Strettamente legato al linguaggio è l’argomento trattato, la vicenda di un
uomo, Vestru, abbreviativo di Silvestro, che si trova a vivere in estrema miseria,
senza alcuna speranza di poter cambiare la sua condizione. Sin dall’inizio del
poemetto balzano in primo piano alcuni temi che saranno tipici di Guastella, e
cioè il tema economico, in primis, e quello della ‘tinturìa’, ovvero di quell’ inerzia
ed incapacità di agire che Guastella condannerà in altre sue opere (Fra Rocco,
Padre Leonardo, Due mesi in Polisella), attribuendone le cause ora ai singoli
individui ora al cattivo governo della Sicilia. L’inerzia coinvolge tutti i ceti:
12
«E Pasqua mura mura po’ ìmpicari» (sest. 16); «Vasa la terra, e ggrira: Iesu, Iesu!» (sest.
20);
«Propria pròpria ‘n cci pienzi a lu vattìu?» (sest. 26); «A la sira mi curcu ‘mpizzu ‘mpizzu»
(sest. 34); - «Fu’ mmalatu, e ‘n li sacciu bbuoni bbuoni» (sest. 47); «La notti va curriennu luna
luna» (sest. 55).
13 «- Rosa, cu’ spunta? - Spunta ‘n cucuzzuni» (sest. 12); «La sira m’arriquòggiu, e ddà cchi
ttruovu? / Truovu li sona, e tutti li vicini» (sest. 15); «E ddè cchi ttruovu? Truovu ‘na rruina» (sest.
32); «- Li casi quantu su’? - Su cciù ri cientu» (sest. 48); «E dduttrineddi ora ni sacci’ assai / Sacciu
ca lu Signuri ha ‘n marzapanu» (sest. 52-53).
14 «Mamà, mamà, mamà...» (sest. 12); «Talè, talè, talè!» (sest. 34).
15 «Nu nzugnu nenti, ‘n m’arrinèssci nenti» (sest. 37).
16 «vera simenza / Ri nanni e rritinanni affamatizzi» (sest. 1).
17 «Nun aiu figgi e cciànciu li niputi» (sest. 1).
18 «Di dda gran tinturìa la quintassenza» (sest. 1); «Ca crìsciri mi fa» (sest. 32).
19 «Ri fàricci vattiare ti cunzìggiu» (sest. 5); «C’a sdari mi piggiau la me furtuna» (sest. 36).
20 «E Blasi sparma comu ‘n puorcuspinu» (sest. 13); «La rrobba veni e bba comu lu vientu»
(sest. 21); «E pparru sulu comu li spirdati» (sest. 41).
107
[...] il fatto dei fatti gli è che l’accidia ci mangia vivi. [...] Domandatene ai nostri villici
[...] se qualcuno di essi che per grassa mercede o per guadagni onesti e inonesti si trova
in serbo una decina di piastre, non ha il ticchio di gettarle in fondo alle taverne, alle
biscazze e all’altro che vien di seguito, pria che abbia voglia di rimettersi alla fatica.
Domandatene ai nostri artigiani [...] se l’artigiano invece di badare amorosamente e
assiduamente alla lesina, al rasoio, alla pialla, all’incudine, e alla cazzuola, non ami
meglio di far un buco in ogni suo giorno di lavoro, e introdurvi bel vello la frullatina
della chitarra, lo studio della cabala di Rutilio, la graziosa scampagnata, o la
graziosissima zecchinetta. Domandatene ai nostri reverendi [...] Domandatene ai nostri
ricchi [...] e troverete che l’accidia sembra il genio domestico [...] Domandatene alle
nostre donne [...] Non è forse vero che in Chiaramonte potrebbero esistere e pure non
esiste un’industria? [...] Non è forse vero che il territorio essendo fertile di vini, di olii,
di biade, di mele, di cera, di caci, di lane, e via discorrendo, non ci è alcuno fra noi che
si mova a specularci, di sopra [...].21
Poi, anche se nell’articolo La natura e la Sicilia22 la responsabilità dell’apatia in
cui versa la Sicilia viene attribuita alla cattiva amministrazione cui l’isola è stata
sottoposta, nel romanzo Due mesi in Polisella l’accento è posto, nuovamente, sui
singoli individui:
In Sicilia [...] ci è [...] una inimicizia ardente, ostinata, incurabile fra l’uomo e la natura.
La natura [...] gli largì la più bella parte dell’orizzonte, il sole più lucido, le stelle più
splendide, il mare più azzurro, le campagne più amene, e pare gli abbia detto: Sii artista:
colora, scolpisci, armonizza! Ma l’uomo gli voltò bruscamente le spalle e si diede invece
ad oziare. Se non artista, sii almeno industrioso, gli replicò la natura. [...] Sii
industrioso, e sarai novamente un gran popolo. Ma per far ciò, rispose l’uomo, è forse
uopo che io lavori? Vorresti di no? Allora tienti in tasca l’industria, replicò l’uomo
sbadigliando, e si contentò piuttosto esser cantastorie. O romita, o polacco, o cerretano,
anziché agricoltore, o commerciante, o marino. Almeno sii uomo di scienza, rincalzò la
natura quasi piangendo, più che per altro, io ti avea destinato per questo. [...] Va per la
tua strada, replicò l’uomo stringendosi nelle spalle; o se mi hai affetto davvero,
insegnami piuttosto qualche cabala per vincere al lotto!».23
Allo stesso modo è intesa l’inerzia in Padre Leonardo. Il frate la rimprovera al
nipote: «Torna di nuovo al lavoro... Torna di nuovo all’onestà della vita... Che
cosa farai coi tuoi vizi?... con l’inerzia che ti rode? coi desideri insaziabili?».24
In Vestru, la ‘tinturìa’ comincia a manifestarsi nelle parole del padre del
protagonista, nella terza sestina, che svela, perciò, la vocazione teatrale del
poemetto, confermata dai discorsi diretti degli altri personaggi. Il padre
attribuisce la sua povertà a «li disgrazzi e li rra lliti» (sest. 3): allude, cioè, ad una
perdita del patrimonio in conseguenza di rovesci di fortuna e, molto
probabilmente, di litigi per motivi economici; consiglia perciò al figlio di sposare
una donna, Pasqua, che ha un ricco amante. Comincia in tal modo a configurarsi
Guastella (1976), pp. 203-204.
Guastella (1976), pp. 10-12.
23 Guastella (2000), p. 274.
24 Guastella (2001), p. 195.
21
22
108
una società basata su un’etica molto discutibile, su comportamenti amorali, e in
cui tutto è subordinato all’utile individuale: preannuncio, questa situazione, di
un sistema di valori più organicamente descritto nelle Parità e le storie morali dei
nostri villani. La ‘tinturìa’ di Vestru consiste nell’ incapacità di fronteggiare o di
modificare tale mondo, per cui egli diventa vittima della moglie che aveva
sposato, paradossalmente, per sistemarsi e prefigura tutti quegli inetti di cui
pullula la letteratura del Novecento. La vicenda familiare di Vestru è, quindi,
molto diversa da quella delineata nelle Parità, in cui, invece, il marito è il capo
assoluto e la moglie una sua proprietà25 e, semmai, si riallaccia a varie figure
letterarie di mariti tiranneggiati dalle mogli.
Tutte le scelte e le decisioni della moglie si rivelano così deleterie per Vestru:
l’adozione di una figlia, il suo matrimonio con don Blasi, anche lui in preda
all’inerzia e quindi assolutamente privo di voglia di lavorare, per cui Vestru, che
rimpiange i tempi in cui era vivo don Gnanu, l’amante di Pasqua, si trova nella
necessità di provvedere ad un’altra bocca da sfamare. Egli conduce una vita di
espedienti, come molti popolani delle Parità: d’estate confeziona, in modo da
poterli vendere, aquiloni per i bambini, a Carnevale maschere, in primavera
costruisce gabbie per i cardellini, in Quaresima trottole, a Natale prepara
immagini del Bambino Gesù. Per altri aspetti, però, i rapporti che si instaurano
fra Vestru, la moglie e la figlia ricalcano situazioni delle Parità, in particolare la
vicenda di zio Clemente: come lui, Vestru è circondato da mille attenzioni
quando porta a casa molti soldi, è maltrattato quando non riesce a racimolare
abbastanza.
Oltre alla preminenza del danaro, possiamo notare, in Vestru, una religiosità
mista alla superstizione: quando la figlia Rosa smania perché vuole un marito,
Pasqua dapprima promette di andare a piedi scalzi fino a Melilli, presso il
santuario di S. Sebastiano, poi una vecchia le suggerisce la ricetta per una pozione
da far bere al primo uomo che vedrà passare, per farlo interessare a Rosa. Così
avviene. Successivamente, quando Pasqua inveisce contro il marito, prega Dio di
mandargli ogni tipo di maledizioni. Per questi temi ci richiamiamo alla terza
Parità, in cui è messa in evidenza la diffidenza dei villani per i medici e, al
contrario, la loro fiducia nelle virtù magiche e terapeutiche di alcune popolane. E
nei Canti popolari del circondario di Modica, il capitolo quinto, intitolato Le
Superstizioni, illustra quanta parte abbiano le credenze popolari, le superstizioni,
nella religione professata dai villani. Lo stesso concetto Guastella ha sostenuto
nel 1861, nell’articolo intitolato La tolleranza dei culti, in «Fra Rocco».
Intanto Vestru, alle prese con i problemi della sopravvivenza quotidiana, non
riuscendo a risolvere il dilemma: «Lievu l’uoòggiu, li fraschi o lu sapuni?» (sest.
Ricordiamo la seconda Parità, in cui la moglie è collocata, nella scala dei valori del villano,
più in basso dell’asino, e la quarta, in cui sono esplicitamente descritti i rapporti di sudditanza
della moglie nei confronti del marito.
25
109
38), tutti e tre considerati indispensabili, attribuisce la resposanbilità delle sue
disgrazie alla sorte, che lo perseguita nonostante egli non abbia fatto del male ad
alcuno e si prodighi per tutti i suoi amici. Emerge perciò la convinzione di una
profonda ingiustizia della vita. Ma se Vestru si sente indadeguato ad affrontare
la quotidianità, riconosce la sua propensione alla lettura, pur avendo
abbandonato la scuola a meno di tredici anni a causa delle punizioni corporali a
lui inflitte. La rievocazione che Vestru compie degli anni passati a scuola, del suo
maestro, del suo metodo di insegnamento, costituisce un duro atto di accusa di
Guastella nei confronti del sistema scolastico del suo tempo: argomento, questo,
sempre molto caro per Guastella che lo sviluppa anche in altre opere. 26
Osservazioni polemiche riguardo il sistema scolastico dell’epoca puntellano,
infatti, sia «Fra Rocco» che Due mesi in Polisella e Padre Leonardo. Il 21 marzo 1861,
per esempio, Fra Rocco asserisce che l’«istruzione pubblica è maladettamente
trascurata da Palermo a Torino. Le Università del Regno sembran poi più caverne
che università» (Un progetto, in Fra Rocco cit., p.97); il 7 maggio 1862 denunzia la
situazione di Chiaramonte:
Scuole [...] ce ne son quattro: una per femmine, e tre per maschi. La maestra femminile
è una delle più brave che ci sieno in Sicilia, tranne il piccolo difettuccio di leggere con
qualche stento, e di non sapere scrivere affatto: [...] i due maestri dell’elementare son
bravi ambedue, ma le loro sciole sono simili alle posados della Mancia, ove il viaggiatore
[...] è costretto a recer con sé il letto, la sedia, il pitale, il cibo da cuocere, e la pentola
ove cuocerlo. [...] gli scolari di Chiaramote, oltre all’acculacciarsi sul pavimento, non
hanno arredi di sorta, che pure il regolamento dell’istruzione pubblica ha creduto
indispensabili per le pubbliche scuole.27
Ecco, quindi, come viene rievocata la formazione di Eustachio, in Due mesi in
Polisella:
[...] fu menato a scuola, e [...] dall’abbiccì passò alla grammatica, e dalla grammatica
alla umanità. [...] Si trascinò così per sette od ott’anni, sapendo a menadito le battaglie
dei Romani coi Cartaginesi, e quelle dei Messenii con gli Spartani: ma ignorando
compiutamente la storia del proprio paese: sapendo che l’aglio è un’erba odorosa, gicché
l’ha asserito Virgilio; e il finocchio un’erba corroborativa dei vecchi, gicché l’ha
affermato Aristofane; ma ignorando compiutamente come si semina il grano, e come si
spremono l’uve.28
E padre Zaccaria, in Padre Leonardo, ricorda le violenze fisiche inflitte dal
maestro, il suo dispotismo, l’obbligo di parlare in latino. Conosciamo, del resto,
l’attività di Guastella come insegnante, il suo impegno per «urgenti e concrete
Utile, per conoscere l’opinione di Guastella sul tipo di istruzione impartito dai religiosi nei
primi decenni dell’Ottocento, che egli stesso ebbe modo di sperimentare, è il Ricordo necrologico di
Ignazio Ottaviano (Ragusa, 1881).
27 Guastella (1976), p. 214.
28 Guastella (2000), p. 308.
26
110
riforme di programma e di concetti pedagogici»29 che lo ha portato a pubblicare,
nel 1863, Dei ginnasii di Sicilia e dei metodi più opportuni.
Ricollegandosi a queste convinzioni, Guastella afferma, nelle sestine finali del
poemetto, l’esigenza di un sapere utile, che fornisca, cioè, delle risposte ai
problemi dell’uomo. Vestru, difatti, asserisce di aver acquisito, lasciata la scuola,
delle conoscenze, di cui dà un saggio nelle sestine 53-58: si tratta, però, di
leggende, di concetti frutto di tradizioni popolari, e non a caso si riferiscono a
questi versi ben metà delle note esplicative, che riportano, come vedremo, i
racconti di popolani da cui Guastella ha ricavato i concetti esposti da Vestru.
Questi arriva alla conclusione che tali conoscenze non gli sono di nessun aiuto e
che egli non ha scampo nella sua vita. Il poemetto si conclude così nel più cupo
pessimismo.
Seguono le ventiquattro note esplicative in cui Guastella trascrive abitudini,
costumi del popolo come gli sono stati raccontati, annotando pure i nomi delle
persone che glieli hanno riferito. È questa la parte in cui più si avvertono i riflessi
degli interessi e dell’attività di Guastella quale studioso delle tradizioni popolari
e in cui il materiale raccolto non è ancora considerato come una base da
sottoporre ad una rielaborazione personale. Un grande interesse per gli studi
demologici Guastella aveva già dimostrato nei Canti popolari del Circondario di
Modica, la cui introduzione, soprattutto, è utilissima come punto di partenza per
tratteggiare l’evolversi dell’atteggiamento di Guastella nei confronti di questa
disciplina. Difatti, nei capitoli III (I costumi della contea), IV (Le feste religiose), V (Le
superstizioni) Guastella fornisce un quadro completo del carattere, delle abitudini,
dei costumi degli abitanti della contea di Modica, ponendosi molto vicino al
Pitrè30 degli Usi e costumi del popolo siciliano. A proposito, però, della sua raccolta
di canti, Guastella prende le distanze dai contemporanei studi di demopsicologia,
mostrandosi più attento agli esiti estetici, ai valori artistici:
So benissimo che gli studi intorno al dialetto son divenuti scienza arditissima
d’investigazioni, e che la etnografia, la filologia, le religioni, le credenze, i costumi vi
attingono a piene mani: ma io ho voluto attenermi invece alla sola bellezza dei nostri
canti, che per molti aspetti è maravigliosa, ho voluto attenermi alle somiglianze del
nostro linguaggio col toscano del primo secolo, e, ove si è offerta l’occasione, anche ai
confronti dei canti consimili degli altri dialetti della Penisola. Chi volesse cercare nella
mia raccolta intendimenti più vasti s’ingannerebbe.31
Questi due aspetti della sua personalità, quello dell’artista e quello dello
studioso di tradizioni popolari, tendono a fondersi nelle sue opere più mature, in
29
30
Lo Nigro (1979), p. 29.
L’amicizia tra Guastella e Pitrè è attestata dalla loro corrispondenza epistolare. Cfr. Brafa
(2003).
31
Guastella (1876), p. XXXVII.
111
cui il patrimonio popolare è rielaborato artisticamente, e la fusione perfetta è
realizzata nelle Parità. Sotto questo punto di vista, Vestru rappresenta perciò una
fase di passaggio ma che anticipa aspetti importanti della letteratura del
Novecento.
Cinzia Gallo
cinziagll@virgilio.it
112
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Natale Tedesco, Coscienza civile, plurilinguismo e pubblico nell’opera di S.A.
Guastella, in Il teatro di Verga ed altri saggi, Palermo, Gino, 1974.
Tropea (2004)
Mario Tropea, Guastella e Verga: novelle e “parità”, in G. Rando (a cura di),
Narrativa minore del secondo Ottocento in Sicilia, Atti del Convegno (Messina, 11-13
dicembre 2003), Messina, Sfameni, 2004.
The paper analyzes the poem Vestru, one of the works of S.A. Guastella most neglected
by critics highlighting some very interesting aspects: Guastella plays there deals with a
sort of language questions, as he criticizes the previous Sicilian poets for having used a
Sicilian rather than Sicilian language. Instead, the people have a natural aptitude for a
literary language, capable of renewing our poetic tradition, full of trite and conventional
expressions. The “tinturìa” of the protagonist, then, that is his inertia and inability to
act, seems to anticipate the analogous themes of twentieth - century literature. The poem
ends with twenty - four explanatory notes, in which Guastella transcribes the uses and
customs of the Sicilian people, including the names of the people who told them about
them. It thus bears witness to the two souls of Guastella, that of the scholar of popular
traditions and that of the artist.
Parole-chiave: Guastella; realismo; popolo; lingua; tinturìa.
115
ALESSANDRA MARFOGLIA, Nella 'rete'. Società borghese, esercizio
di potere, diritto e consapevolezza tra XIX e XX sec.: Clarice Gouzy
Tartufari racconta una donna del suo tempo
Adesso lo comprendeva, le considerazioni di suo padre, generiche in apparenza, si erano
avanzate adagio, simili a una marea che salga, ed ella era rientrata in casa
coll'impressione non ben definita di trovarsi prigioniera sopra uno scoglio a
contemplarvi, per il suo avvenire, un orizzonte determinato.1
Clarice Gouzy Tartufari (1868-1933), autrice prolifica2, tradotta all'estero e nota
alla critica letteraria a lei contemporanea (ma pressoché inesistente nei manuali
di letteratura di ieri e di oggi), nei suoi testi mette nero su bianco una realtà nota
a tutti ma riconosciuta da pochi: la completa insussistenza della persona-donna
all'interno di un sistema relazionale fondato su rapporti di sudditanza. Cosa
intendo per persona-donna: una individua che esiste e agisce consapevolmente e
in piena autonomia, e che è riconosciuta come soggetto attivo sul piano sociale,
istituzionale e giuridico. Tartufari racconta questa condizione e l'acquisizione di
consapevolezza (prevalentemente acritica) di tale condizione.
In Rete d'acciaio, romanzo pubblicato nel 1919, l'autrice dispiega la tragica
parabola di due sposi dell'alta borghesia: una donna che accetta in tutto la
volontà del padre prima e del marito poi; e un uomo gelosissimo che tenta di
salvare la moglie dalla propria aggressività decidendo di vivere lontano da lei.
L'esito sarà comunque tragico. Ma la morte di Ilaria, questo il nome della
protagonista, rappresenta l'annientamento fisico di un corpo che durante la sua
esistenza non le è mai appartenuto.
Come già altri scrittori e scrittrici (penso a Roberto Bracco, Luigi Pirandello,
Pia Rimini, Luigi Chiarelli), Tartufari mette il lettore al cospetto di una società
fortemente coattiva sia per gli uomini che per le donne. Nei loro testi, infatti,
entrambi sono indotti a ripetere modelli già predefiniti e, istituzionalmente e
giuridicamente, avallati.3 Tuttavia la 'parte' che sembra essere assegnata alla
Tartufari, (1919) p. 16.
Tartufari ha pubblicato due libri di poesie, due di novelle, diciassette romanzi, nove
drammi teatrali, e numerose novelle in riviste.
3 Un esempio da Luigi Pirandello: «Come tutte le donne di quell'odiato paese [...], Flavia,
che avrebbe potuto essere per lui l'unica rosa lì tra le spine, s'era invece acconciata subito, senza
rammarico, come d'intesa, alla parte modesta di badare alla casa [...]. Entrambi a forza erano stati
spinti a lasciar la propria via», in Formalità, Pirandello (2011), p. 99. Questi autori, mettendo in
1
2
116
donna, è quasi sempre secondaria, subordinata a qualcuno o qualcosa, il che
significa in primis che c'è una differenza qualitativa nei rispettivi diritti.4 Ma le
motivazioni di tale disparità, non sono semplicemente ascrivibili a un generico
sistema comportamentale comunemente condiviso.5 Che ci fossero, soprattutto,
motivazioni legate alla difesa di posizioni e di interessi precisi, era già noto e reso
noto allora6, e non solo da esponenti dell'attività politica o dei nascenti partiti, ma
proprio da scrittori e scrittrici. È verosimile affermare, infatti, che tra la fine il XIX
e il XX secolo, la popolazione apprendesse non solo la storia, ma soprattutto il
presente, attraverso romanzi, novelle, testi teatrali, film, e tutto ciò che oggi
definiremmo 'produzione finzionale'.7 Ed è proprio in questo stesso periodo che
quella disparità venne giuridicamente legittimata nel territorio italiano, e al
'diritto' e alle leggi in vigore, l'autrice fa diretto riferimento anche in questo
romanzo.
La società 'nuova'
Michel Foucault ha sostenuto che la fisionomia della società occidentale
moderna avrebbe iniziato a prendere forma a partire dal XVII sec., quando la
evidenza un condizionamento sociale latente (che non riguarda l'inconscio dell'individuo - allora
oggetto di indagine soprattutto in campo medico con la psicanalisi -, ma un livello della coscienza
che si rivela però passivo), hanno precorso le riflessioni che gli studiosi di sociologia porranno
all'attenzione nella seconda metà del XX sec. Cfr. Berger-Luckmann (1966) in cui gli autori
descrivono i ruoli sociali in questi termini: essi «rappresentano l'oggettivazione pratica della
struttura della società» (p. 113), per cui: «secondo la propria specificità, ciascun ruolo porta con
sé un annesso di conoscenza socialmente definito». Gli individui, quindi, uniformiamo la loro
«condotta» (p. 84) a «modelli prestabiliti» fissati, di volta in volta, dalle istituzioni, e attraverso
cui queste la «incanalano», cioè esercitano il «controllo» sociale, (p. 84).
4 Per una chiara analisi e ricostruzione storica dell'origine ed evoluzione della 'questione
femminile' in Italia, cfr. Bortolotti (1974; 1975). Per quanto riguarda in che modo scrittori e
scrittrici del primo Novecento, abbiano restituito nei loro testi la condizione della donna, non
sono ancora stati fatti studi sistematici ed esaustivi. Diverse e ricche, sono le raccolte di testi
dedicate alle scrittrici dell'epoca. Alcune, però inseriscono l'attività di queste autrici all'interno di
una visione che resta parziale, e il più delle volte ricondotta a un non precisato discorso
'femminista', riducendone la portata, e trascurandone le intenzioni politiche e sociali. Non è
oggetto di questa riflessione il rapporto di Clarice Gouzy Tartufari con il femminismo (o forse
sarebbe meglio dire con 'i femminismi'). A partire dai testi dell'autrice, dalle parole che ella ha
scelto di utilizzare, cercherò di porre l'attenzione al contesto giuridico e istituzionale, proprio
perché è l'autrice stessa a far riferimento ad esso nel raccontare le vicende e le vite di uomini e
donne a lei contemporanei.
5 Cfr. Balestracci (2015).
6 Bortolotti (1974), p. 19.
7 Estendo qui un concetto contenuto in Balestracci (2015), p. 99, secondo il quale, a metà del
XIX sec.: «buona parte degli italiani meno acculturati quel poco di storia che conoscono l'hanno
appresa non dagli storici, ma dai romanzieri».
117
classe borghese incominciò a sostituirsi alla monarchia come classe dirigente.8
Nei due secoli successivi, la classe borghese, per garantire la propria
sopravvivenza attuò una sempre maggiore 'normalizzazione' dei corpi prima, e
delle popolazioni poi (subordinando i primi e controllando i secondi); cioè
istituzionalizzò e normalizzò il suo sistema di potere, facendo della sessualità
uno dei principali meccanismi del suo esercizio, e della donna il suo primo
bersaglio e strumento9:
Le personnage qui a été d'abord investi par le dispositif de sexualité, un des premiers à
avoir été ''sexualisé'', il ne faut pas oublier que ce fut la femme ''oisive'', aux limites
du ''monde'' où elle devait toujours figurer come valeur, et de la famille où on lui
assignait un lot nouveau d'obligations conjugales et parentales: ainsi est apparue la
femme ''nerveuse'', la femme atteinte de ''vapeurs''; là l'hystérisation de la femme a
trouvé son point d'ancrage. (pp. 159-160)
La famiglia borghese, afferma Foucault, dal XIX sec. divenne «instance de
contrôle et point de saturation sexuelle» (p. 159), principalmente attraverso la
normalizzazione dell'istituto del matrimonio, istituto attraverso cui la nuova
classe dirigente voleva e poteva garantire la propria discendenza e la
sopravvivenza del suo patrimonio.
Nella pratica, questo significò la restaurazione di alcune strategie di potere che
nel periodo rivoluzionario di fine XVIII sec. si era tentato di superare. Nel «diritto
rivoluzionario»10, attesta Daniela Lombardi, il matrimonio era stato oggetto di
importanti modifiche giuridiche, in quanto era considerato «la base di una società
nuova» (p. 199). Per questo esso venne sottratto alla giurisdizione ecclesiastica
(introducendo l'obbligo del consenso dei genitori per i minori di 21 anni), per
questo venne introdotto il divorzio (anche per ragioni di incompatibilità
caratteriale); «la potestà paterna venne abolita e sostituita dalla tutela esercitata
da entrambi i genitori nell'interesse dei figli» (p. 196); «venne promulgata la legge
che aboliva qualsiasi distinzione tra i figli: di nascita, di sesso e di età» (p. 198).
Ma tale rivoluzione sociale incominciò subito a subire le spinte di forze
restauratrici, in tutto il territorio europeo, e particolarmente in quello italiano.
Basti citare l'art. 213 del codice civile francese del 1804 (noto come Codice
Le radici risalirebbero al XIII sec. (con la regolamentazione del sacramento della penitenza
da parte del Concilio Laterano del 1215), fino al diritto greco - passando per quello romano -, che
aveva esteso la pratica dell'accoppiamento tortura/confessione, cfr. Foucault (1976), p. 78 e n. 1,
p. 79, e pp. 161-163.
9 Sostiene Foucault che le strategie, messe in atto dalla classe borghese, non hanno
determinato una repressione della sessualità, bensì ne hanno alimentato «le savoir», «les
discours», facendone oggetto di rigida regolamentazione e analisi.
10 La ricostruzione storica e le prossime citazioni sono tratte da Lombardi (2008), p. 194, a
cui rimando per i riferimenti bibliografici relativi all'argomento. Per un esempio dell'importanza,
che rivestiva la questione relativa all'istituzione matrimoniale, durante gli anni della Rivoluzione
Francese (1789-1799), crf. Desan (2006).
8
118
Napoleone), preso come riferimento in tutto il territorio europeo: «il marito deve
a sua moglie protezione e la moglie deve a suo marito obbedienza» (p. 203). Il
divorzio fu mantenuto, ma non fu più ammesso quello per incompatibilità di
carattere, e «venne sottoposto a una serie di condizioni che lo resero poco
praticabile»; venne ripristinata la patria potestà e «il consenso dei genitori al
matrimonio venne richiesto fino a venticinque anni per i figli maschi (quindi oltre
la maggiore età) e fino a ventuno per le figlie» (p. 121).
Tra il XIX e il XX sec. tutte le spinte egualitarie, quindi, vennero
ridimensionate, e venne istituzionalizzata la funzione utilitaristica e marginale
della donna. Ancor di più col «diritto all'amplesso a fini procreativi»11,
propugnato dal diritto canonico otto-novecentesco, che, afferma Marco Cavina,
se da un lato predicava «una potestà maritale moderata e amorevole» (nel
tentativo di limitare i fenomeni di violenza fisica tra coniugi), dall'altro
riconosceva «il debito coniugale quale fulcro del rapporto coniugale» (p. 185).12
Di fatto, veniva legittimato lo stupro coniugale e il diritto sul corpo: la donna in
quanto moglie doveva garantire la discendenza. Non a caso l'origine del termine
matrimonio deriva da matris (genitivo di mater: madre) e munus: dovere, compito;
quindi la finalità procreativa dell'istituzione è evidente (e così patrimonio deriva
da patris, genitivo di pater: padre, e munus, per cui il dovere del padre, continua
ad essere per la società borghese, quello del sostentamento della famiglia, della
gestione dei beni).
La condizione di liminità della donna, quindi, venne sempre più
istituzionalizzata e, soprattutto, divulgata come 'naturale':
«L'uomo è uomo. Se oggi uno mi volesse sposare e mi chiudesse dentro una prigione, io
ci starei, e se mi offendesse anche senza ragione, io mi umilierei. Ricordati, figlia mia,
che l'amore è l'amore».
Leonetta taceva, incerta dubitosa di sé, non pervenendo a discernere se avesse ragione
lei con la sua fierezza o avessero ragione gli altri coi loro argomenti accomodativi.13
Tali e tanti sono gli esempi di sottomissione della donna, che Leonetta, la
ribelle protagonista di All'uscita del labirinto, arriva a dubitare del suo punto di
La ricostruzione storica e le prossime citazioni sono tratte da Cavina (2011), p. 185.
Cosi recita il Codex Iuris Canonici, del 1917: «Can. 1081: 2. Consensus matrimonialis est
actus voluntatis quo utraque pars tradit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in
ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem». E se «il matrimonio civile», afferma
Lombardi, «era in realtà il risultato di un lungo processo di espropriazione dei poteri ecclesiastici
avviato fin dal XVI sec.», ancora nel XX sec. continuava a essere oggetto di contesa tra
giurisdizione secolare e giurisdizione ecclesiastica, Lombardi (2008), p. 194.
13 Tartufari (1914), pp. 113-114. Per una riflessione sulle ragioni che si possono nascondere
dietro questa accettazione femminile, cfr. Nochlin (1971), p. 204: «il loro è l'unico tra i gruppi o le
caste oppresse da cui i padroni pretendano non soltanto la sottomissione, ma anche l'affetto
incondizionato»; e per il concetto di amore, cfr. Millet (1970), p. 56.
11
12
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vista; e lei stessa, quando è innamorata, sembra anelare alla sottomissione.
Queste le parole che la ragazza rivolge al suo 'primo amore':
– Perché mi rispondi così? Non sei tu che mi tiranneggi; sono io che desidero ubbidirti
– E la tua ostinazione? La tua volontà? – [...] – Io non voglio essere più ostinata; della
mia volontà non so che farmene. Mi basta la tua. (p. 359)
La volontà della donna è considerata un nulla, ella esiste solo in virtù
dell'uomo che le sta vicino. Condizione ampiamente testimoniata dal linguaggio
istituzionale, che non solo era coniugato prevalentemente al maschile, ma
rivelava di essere frutto di una volontà e di una concezione del mondo in cui
l'uomo era il punto di riferimento. I codici civili e penali erano scritti in funzione
dello status dell'uomo: art. 4 del Codice Civile del Regno d'Italia, 1865: «È
cittadino il figlio di padre cittadino», lo status delle donne, quindi, era
subordinato a quello del padre/marito, e raramente queste vengono denominate
'cittadine', mentre vengono menzionate in quanto 'mogli' e 'figlie'. Ancora più
spesso erano date per sottointese. Traggo qualche esempio da un'istituzione
socialmente rivelante: quella scolastica. Legge n° 3961 del 15 luglio 1877, se nel
primo articolo si fa riferimento a 'fanciulli' e 'fanciulle', già nel secondo non è più
così, rischiando di generare anche incomprensione:
Obbligo scolastico. Art. 1. I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuta l'età di sei
anni, e ai quali i genitori o quelli che ne tengono il luogo non procaccino la necessaria
istruzione, [...] dovranno essere inviati alla scuola elementare del comune […]. Art. 2.
L'obbligo di cui all'articolo 1 [...] comprende le prime nozioni dei doveri dell'uomo e
del cittadino [...]; può cessare anche prima se il fanciullo... (Legge n 3961 del 15 luglio
1877)
I termini fanciulla/fanciulle, non compaiono più, dobbiamo quindi, intenderli
come sottointesi. Non siamo molto lontani dal 1833, quando la Società fiorentina
dell'istruzione elementare indisse un premio finalizzato a «diffondere la morale
e le cognizioni indispensabili al maggior numero de fanciulli italiani»14, con le
seguenti intenzioni:
Lo scopo della Società è quello di diffondere l'istruzione elementare specialmente nella
bassa classe del popolo; i fanciulli debbono approfittare delle richieste letture dai sei ai
dodici anni. Essa bramerebbe, che in quel periodo fossero i giovinetti iniziati a tutti quei
doveri, che l’uomo dabbene debbe poi adempiere nel progresso della vita.15
In Parravicini (1842), p. 3. Vinse il premio il testo Giannetto, di Luigi Alessandro
Parravicini, protagonista un maschietto che frequenta una scuola maschile. Testi di formazione
come saranno poi, tra i più noti, Pinocchio (1881) di Carlo Collodi, e Cuore (1886) di Edmondo De
Amicis, in cui l'elemento femminile è pur presente e merita un'analisi approfondita. Per i testi di
formazione destinati alle fanciulle cfr. Argenziano (2016).
15 In Parravicini (1842), p. 3.
14
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Negli anni a seguire, di riforma in riforma, ciò che pertiene al maschile e ciò
che pertiene al femminile, saranno sì più distinti, ma perché sessualmente
connotati. Fino alla riforma della scuola elementare del 1923 che prevedeva:
Art. 11. In tutte le scuole femminili si aggiungerà per tutte le classi il lavoro donnesco,
e, per le classi superiori, l’economia domestica accompagnata da opportune esperienze.
[…]
(Dal R.D. n° 2185 del 01/10/1923; Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi
didattici dell'istruzione elementare; G.U. n° 250 del 24/10/1923)
Nella 'rete'
131. II marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui ne assume
il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare
la sua residenza. (Codice Civile del Regno d'Italia, 1865)
La vicenda narrata in Rete d'acciaio, inizia quando Ilaria è già sposa. Sono
passati venti mesi da quando la giovane conobbe l'uomo che sarebbe diventato
suo marito, e siamo all'anniversario del primo anno di matrimonio. Dopo un
incipit dallo stile 'arcaico':16
Mentre il nuovo anno, trascinato da Oriente, sopra un carro di nuvole accese, entrava
nella stanza dei giovani sposi, portando loro in dono lo stormire delle foglie, ... (p. 1)
L'autrice fa subito introdurre l'argomento, che sarà il perno di tutto il testo,
direttamente dalla protagonista, che con cristallina evidenza afferma:
– È il primo giorno del primo anno che io ti appartengo, non è vero, Ippolito? (p. 1)
E il nodo è qui: nell'appartenenza e nell'accettazione acritica di essa.17
Tutte le relazioni descritte nel romanzo prevedono una proprietà. Prendiamo
il rapporto che intercorre tra Ilaria e Vaga (che potremmo definire come servetta
privata):
In passato la madre d'Ilaria, di famiglia patrizia siciliana, aveva raccolto l'orfanella di
certi suoi coloni e l'aveva portata con sé, a Roma, donandola all'unica bimba sua [...].
Cfr. Morandini (1980), p. 23. Non è ancora stato fatto uno studio critico sull'opera di Clarice
Gouzy Tartufari. Tuttavia, in questo e in altri romanzi, si evidenzia un doppio registro, e proprio
alla doppiezza stilistica sembra finalizzata la intentio dell'autrice. Difatti, l'autrice sferza
affermazioni lucidissime facendole irrompere da un contesto narrativo quasi manieristico. A una
‘apparenza’ rigogliosa e vivace, corrisponde sempre una realtà semplice ma fortemente
condizionata. E proprio un mondo fatto di 'apparenza' è quello che viene messo in luce. In questo
romanzo, oltre le evidenze che caratterizzano i protagonisti (ricchezza, bellezza, amore), emerge
chiaramente il rapporto di sudditanza (psicologica e giuridica) che lega moglie e marito.
17 E in questa frase l'appartenenza è solo in una direzione: lei appartiene a lui. Non è
un’appartenenza reciproca.
16
121
E Ilaria, purtroppo aveva fatto presto ad accorgersi che cosa significasse possedere una
compagna fida. (p. 5)
La società di riferimento di Ilaria prevede la proprietà del corpo18, e l'autrice lo
evidenzia spesso nei suoi testi. In “Ti porto via!” Tartufari fa dire, durante un
processo, all'avvocato che difende un marito che ha assassinato il presunto
amante della moglie, queste parole: «Ma un uomo, con nervi e sangue,
introducendo una donna nella sua casa e nella sua vita, non ha il diritto di
esigerne l'anima oltreché il corpo?».19 Che il marito, col matrimonio, acquisisca il
'diritto al corpo' della moglie, quindi, è già dato di fatto (per questo è lecito
esigerne l'anima). E per Ilaria, fino a quel giorno, era percepito come un fatto
'naturale'. Ma dopo l'ennesima improvvisa «ombra di un sospetto» (p. 3), che fa
del marito un «tiranno indagatore» (p. 3), Ilaria avvia un processo di
rielaborazione del suo fidanzamento-matrimonio. La rievocazione del passato la
induce a riflettere sui fatti, per cui, l'iniziale impressione che quei fatti
appartenessero a un libro che lei aveva «saputo scrivere» (p. 15), si scioglie, e,
rielaborazione dopo rielaborazione, in lei si fa salda la certezza di essere stata
fatta «prigioniera» (p. 16):
Così una mattina [...] il padre l'aveva pregata, purché ella non avesse nulla da opporre,
di lasciarsi baciare da Ippolito Basco lì presente [...], un segno bruciante come un
suggello [...]; comunque, ecco che si era fidanzata [...], ella si era trovata sposa [...].
Intorno, a custodia del giardino incantato, le due famiglie avevano fatto catena,
intrecciando voti. (pp. 16-17)
Solo dopo tempo, e in seguito alla pressione esercitata dal comportamento
geloso del marito, Ilaria avvia un processo di decostruzione e ricostruzione del
passato, che le consente di acquisire consapevolezza dell'effettivo percorso che
l'ha portata a essere sposa. Fino a quel momento, aveva vissuto come una
'viaggiatrice sonnolenta'.20 Ora è consapevole di essere «prigioniera»; che dal
Nel XIX sec., sostiene Ágnes Heller, si è affermata una società basata sulla proprietà. La
stima di sé, l'affermazione di sé, non verrebbe ricercata nella propria individualità (come
incomincerà ad affermarsi negli anni Sessanta del XX sec. determinando importanti scontri
sociali), bensì nel possesso, quindi in qualcosa di esterno e materiale, cfr. Heller (1978), pp. 170172; 174.
19 Tartufari (1933), p. 33.
20 Rosita, protagonista di ''Ti porto via!'', viene presentata dall'autrice in questo modo:
«Percorreva di su e in giù, con andatura di sonnambula, il corridoio dell'appartamento, all'ultimo
piano di un palazzo in piazza Campitelli.Vi era entrata da dieci anni, sposa indifferente di
Alfonso, indifferente altrettanto, e ci aveva vissuto, ora per ora, viaggiatrice sonnolenta in una
carrozza polverosa», Tartufari (1933), p. 6. Luigi Pirandello racconta così, nella novella Con altri
occhi, l'acquisizione di consapevolezza di una donna: «Da tre anni forse, dal momento in cui era
partita dalla casa paterna, ella era in quel vuoto, di cui ora soltanto cominciava ad assumere
coscienza. Non se n'era accorta prima, perché lo aveva riempito solo di sé, del suo amore, quel
18
122
padre al marito, la proprietà, con l'atto del matrimonio, è stata ceduta. Ma pur
consapevole, Ilaria non si oppone alla sua condizione di moglie, una condizione
che non le consente molte alternative.
Il romanzo, infatti, esce nel 1919, proprio di quell'anno è la legge n. 1176 del 17
luglio, ''Norme circa la capacità giuridica della donna''. Con questa legge vennero
abrogati alcuni articoli, tra cui il n. 134 del Codice Civile, che recitava:
La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca contrarre
mutui, cedere o riscuotere capitali costituirsi sicurtà né transigere o stare in giudizio
relativamente a tali atti, senza autorizzazione del marito.
Ma anche se per «tali atti», una moglie non aveva più bisogno
dell'«autorizzazione del marito», tuttavia non essendo stato abrogato l'articolo
133, gli effetti sarebbero risultati limitati:
Art. 133. L'obbligazione del marito di somministrare gli alimenti alla moglie cessa
quando la moglie, allontanatasi senza giusta causa dal domicilio coniugale ricusi di
ritornarvi.
Può inoltre l'autorità giudiziaria secondo le circostanze ordinare a profitto del marito
e della prole il sequestro temporaneo di parte delle rendite parafernali della moglie.
Quindi, alla donna che restava nel profilo giuridico di 'moglie', venne
sicuramente riconosciuto un diritto. Tuttavia, questo stesso diritto poteva in
parte essere negato alle donne che avessero lasciato il tetto coniugale. L'art. 133,
infatti, continuava a consentire al marito di ricorrere al giudice per usufruire delle
rendite parafernali della moglie, ovvero di quei beni che non rientravano nella
convenzione matrimoniale e di cui la moglie aveva piena disponibilità.
Inoltre, restavano ancora in vigore tutti gli articoli, del Codice Civile, dedicati
alla comunione dei beni e quelli che disciplinavano la definizione e la gestione
della dote, di cui il «solo marito» restava amministratore (art. 1399). Per cui,
seppur la 'donna' vedeva riconosciuto un diritto, in quanto 'moglie' difficilmente
poteva vederlo garantito, perché nel contratto matrimoniale che aveva stipulato
col marito, ella poteva avergli accordato pieni poteri nella gestione dei beni
(condivisi o meno).
Questa, una delle maglie, in un cui una moglie borghese come Ilaria, veniva a
trovarsi stretta.21
vuoto; se ne accorgeva ora, perché in tutto quel giorno aveva tenuto quasi sospeso il suo amore,
per vedere, per osservare, per giudicare», in Pirandello (2011), p. 476.
21 Un altro esempio letterario di allora, pubblicato la prima volta nel 1906, racconta di una
situazione speculare, quindi opposta: Una donna di Sibilla Aleramo. Cfr. Aleramo (1921), in questo
romanzo (autobiografico), la protagonista decide di allontanarsi dal marito, ma dovrà subire le
conseguenze che il sistema giuridico impone. Non essendo previsto il divorzio, resterà 'moglie'
con tutto ciò che il sistema istituzionale prevede: non avendo la patria potestà sul figlio dovrà
rinunciare a vederlo; anche i suoi beni resteranno in possesso del marito; e nel caso iniziasse una
relazione amorosa con un uomo, potrebbe comunque essere condannata alla prigione per
123
Ilaria dunque non penserà mai di separarsi da Ippolito, il quale continuerà a
tiranneggiarla. Avranno un figlio; il marito sta fuori casa tutto il giorno per
lavoro: «Per sentirmi relativamente libero, devo starti lontano» (p. 23); ma ciò non
preoccupa Ilaria: «Giacché si compiace di trascurarmi, io ne sono felice! Almeno
respiro» (p. 30). Egli, sempre per gelosia, uccide il cugino di lei, il processo si
conclude con «verdetto assolutorio per vizio parziale di mente» (p. 84).22
Riprendono la loro vita coniugale, Ilaria non accenna mai a liberarsi dalla
prigionia, e cerca l'evasione solo nella fantasia: «A lei interessava solo supporsi
felice con Ippolito che fosse Ippolito senza l'orrore delle sue gelosie» (p. 90). Ma,
paradossalmente (e qui Tartufari porta la situazione al limite), è proprio la non
reattività della moglie a disarmare il marito:
Mi sono rovinato per lei; sì, rovinato. Sono libero, sono assolto, sono ricco, energico
[...], ma sono rovinato per lei. Ebbene, se qualcuno mi provasse che si tratta di un sogno,
che quella donna non esiste, io mi sentirei rinato [...]. Se almeno si ribellasse, per me
sarebbe una valvola; potrei reagire! (p. 99)
Ippolito decide di vivere distante dalla moglie portando con sé il figlio23, la
separazione sarà solo di comodo. Ilaria resterà moglie e madre, affidata allo
sguardo del padre di lei. Ippolito non le concede, quindi, libertà. Inizia così, per
la giovane protagonista di Rete d'acciaio, una vita solitaria, in una sorta di libertà
vigilata. Avrà una breve relazione con un uomo. Dopo circa 15 anni il marito le
chiede di raggiungerlo «Ti ringrazio di essere venuta. Del resto, non avresti
potuto esimerti; ero nel mio diritto» (p. 213). Diritto che la stessa Ilaria difende,
(come difende i suoi ruoli di moglie e madre), facendo allibire «di stupore» (p.
190) Manuele, un suo spasimante, le cui parole rivelano con chiarezza che si tratta
di un 'diritto' declinato al maschile:
– Che intendo fare? È inutile domandarlo. Si tratta di mio marito che torna e mi rivuole.
Non siamo divisi.
– Già, infatti, la legge è per lui, – disse Manuele con amarezza. – Ti abbandona per
anni, senza ombra di colpa da parte tua, ti lascia, ti ripiglia e la legge è per lui. – Tacque,
buttò sul tavolo i guanti che teneva in mano e con ira soggiunse: – Tu dovresti ribellarti.
Una creatura umana non è il foglio bollato di un contratto che si tiene in un forziere
per tirarlo fuori e valersene quando fa comodo.
adulterio. Entrambe le protagoniste, quindi, vedono la loro esistenza fortemente condizionata
dalle leggi in vigore.
22 «I periti psichiatri, di perfetto accordo, dichiararono di avere riscontrato nell'ingegnere
Basco chiari sintomi di anomalie psichiche, in parte ereditarie in parte acquisite. Certo la sua
gelosia aveva caratteristiche evidenti di morbosità», Tartufari (1933), p. 84. Che le ragioni del
comportamento violento di Ippolito siano motivate da cause: comportamentali, psicanalitiche,
biologiche, genetiche, ecc., è sì degno di nota, ma lo è ancor di più che questo sia giustificato e
supinamente accettato dalla principale vittima e dal gruppo sociale a cui appartiene.
23 Allora la patria potestà era ancora esercitata dal solo padre, alla moglie spettava solo il
diritto alla tutela legale della prole in caso di morte del marito.
124
Ilaria, crucciata, eresse fieramente il capo e gli rispose:
– Mio marito non m'ha tenuta dentro un forziere; sono certa che mi ha tenuta dentro
il suo cuore, né io sono il foglio bollato di un contratto: per Ippolito sono sua moglie,
per Mario sono sua madre.
Egli, allibito di stupore per una simile logica, provò un desiderio furioso di buttarsi sul
tappeto bocconi, a braccia spalancate e urlare il suo spasimo. (p. 190)
I due sposi, dunque, tornano a vivere insieme. L'amore, e anche la gelosia,
sembrano non aver risentito del tempo trascorso, e quando, per puro caso,
Ippolito trova una foto di un uomo con una dedica rivolta alla moglie, accecato
dall'odio, prende una pistola che, questa volta, rivolge contro se stesso; Ilaria
tenta di fermarlo e nella lotta scomposta parte un colpo che la ferisce a morte.
Siamo giunti alla fine del romanzo. Dal testo deduciamo che Ippolito si è subito
suicidato, perché «i due spiriti affannati si ritrovarono, si congiunsero» (p. 289),
mentre «il lavoro umano» continuava indifferente e rumoroso.
'Diritto di vita e diritto di morte'
Forse è una 'meteorite di un vecchio ordine'24 o forse 'l'idea che rimane anche
se la minaccia effettiva può mancare',25 fatto sta che Ippolito sembra comportarsi
come un sovrano che esercita il 'diritto di vita e di morte', diritto che, pur in una
forma «considérablement atténuée», afferma Foucault «sans-doute dérivait-il
formellement de la veille patria potestas».26 Un potere (quello del sovrano) che: «y
était avant tout droit de prise; sur les choses, le temps, les corps et finalement la
vie; il culminait dans le privilège de s'en emparer puor la supprimer».27
Ippolito si è impadronito di Ilaria, e suo rammarico, sembra, è il non riuscire a
sopprimerla definitivamente (e qui, Ilaria, capovolge la situazione: è lei a
esercitare un potere, pur in una condizione di sudditanza). Eppure, come
Alfonso, il protagonista di ''Ti porto via!'', anche Ippolito avrebbe potuto rendersi
libero, ottenendo la separazione in territorio estero. Ma questa possibilità non
viene mai contemplata. Egli non rinuncia al suo dominio, al controllo, al potere
che ha sulla donna (e che l'istituzione legge gli garantisce). E sempre in ''Ti porto
via!'', Alfonso (marito omicida di un presunto amante della moglie), pur avendo
cacciato di casa la donna, e convivendo con quella che era già da tempo sua
amante, ha difficoltà a concedere il divorzio (che nel Regno d'Italia non era
Cfr. Cavina (2011), p. XIV.
Cfr. Mitchell (1976), p. 85.
26 Foucault (1976), p. 177.
27 Ivi, p. 179. Un 'diritto di morte', che, a partire dal XVII si sarebbe sempre più trasformato
in 'potere sulla vita' la cui organizzazione si sarebbe sviluppata intorno ai due poli della disciplina
del corpo e delle regolazioni della popolazione, cfr., ivi, p. 183.
24
25
125
previsto e che quindi si sarebbe celebrato a Budapest, in cambio di una forte
somma di denaro) perché spesso:
Si addormentava col prurito di non volerla dare vinta alla moglie e di obbligarla, col
nodo scorsoio del codice, a rientrare nel domicilio coniugale. (p. 88)
Il suo esercizio di potere, dunque, non consiste tanto nell'avere la legge dalla
sua parte (che viene chiamata in causa per giustificare e motivare il
comportamento), quanto nel far valere la sua autorità.28 Un'autorità che coincide
con un 'io' che è sempre declinato al maschile, come pretende Vittore, il padre di
Leonetta in All'uscita del labirinto:
Dunque, secondo le tue teorie, un uomo, sul punto di diventar marito, non ha il
sacrosanto diritto di far valere la sua autorità? così sragionano le femministe, ma spero
che non saremo ancora arrivati a tanto. Naturalmente il padrone sono io qui dentro, ma
per questo, perché io, che sono il padrone, ho ceduto mia figlia a un onesto giovane, lui
può comandare e gli si deve ubbidire». (p. 113)
L'opposizione è chiara: da una parte (quella della ragione) 'un uomo' con la
'sua autorità', all'opposto le 'femministe' che 'sragionano'. Il mondo è uomo (non
dimentichiamo, che la donna viene da una sua costola): esso viene raccontato,
scritto e legittimato a 'sua immagine'. 29 L'uomo è padrone, e a lui si deve
ubbidienza, anche solo per soddisfare un 'prurito'.
Nel romanzo Il miracolo, Vanna, la protagonista (nobile donna orvietana,
giovane vedova), quando scopre che si vocifera sulla sua relazione con un
professore tedesco, reagisce ergendosi fortemente a difesa della onorabilità del
«nome suo nobile».30 Ella si identifica con la nobile casata di appartenenza, e,
Alla fine, sarà lui a voler cedere alla 'superiorità economica' della nuova coppia che si va
formando. Non è quindi il diritto che rende assoggettati (altrimenti i due sposi non avrebbero
potuto comunque divorziare), ma la strategia attuata.
29E non è da sottovalutare la continua sostituzione e compenetrazione delle due visioni del
mondo: secolare e ecclesiastica le cui comuni radici risiedono nell'esperienza patriarcale di
affermazione romana (e di derivazione greca). Afferma Adriana Valerio che ancora nella fine del
XX sec.: «La funzione della madre di Gesù è stata verbalizzata all'interno di una impostazione
patriarcale che ha messo a fuoco il punto di vista delle prerogative maschili [...]. La Madonna
rimane sempre subordinata a una controparte divina (Padre, Figlio e Spirito Santo) rappresentata
al maschile. L'asimmetria sociale tra uomo e donna, propria dello schema androcentrico, e la
conseguente dipendenza femminile si riflettono sia nei rapporti tra il divino e il femminile, sia
nella costruzione dell'immagine di Maria, vergine e madre, funzionale alla cultura del clero
maschile che l'ha sostenuta nei secoli, non mutando, oltretutto, nelle Chiese che la venerano, la
condizione di subordinazione delle donne», in Valerio (2017), pp. 84-85. E proprio nel XVIII sec.
aumentarono significativamente i fenomeni di «devozione popolare» e «la produzione di trattati
teologici volti ad esaltare la figura della Vergine» (p. 73). Maria sarebbe stata sempre più imposta
come modello di riferimento: Madre e Vergine (e anche 'bella': «la sua bellezza diventò un topos
della letteratura devozionale e dell'arte», p. 40).
30 Tartufari (1925), p. 118. E a tal fine la inducono a comportarsi le parole del monsignore,
sua guida spirituale: «– Oh! la mamma [...]. Non c'è sacrificio che ella compirebbe per te, per il
28
126
facendo le veci del marito deceduto pochi anni prima, agirà sempre 'in suo
nome'. Non si farà scrupoli a «offrire in olocausto al Signore» il proprio figlio per
ottenere «la remissione dei peccati» (la relazione con il professore tedesco, p. 137).
Ella, infatti, convincerà il figlio tredicenne ad entrare in seminario per iniziare la
carriera ecclesiastica. Utilizzando parole persuasive, anche Vanna esercita la sua
autorità sul figlio, ma lo fa non in quanto donna, bensì nelle veci della casata a
cui appartiene. Anche quando sembra essere soggetto attivo, in realtà, è la donna
stessa a farsi testimone della propria inesistenza al di là della relazione con
l'autorità di riferimento (che è sempre di matrice maschile, e nel caso di Vanna si
tratta o di Dio o del suo nome). Anche lei, nell'esercizio della 'non sua' autorità,
ne cerca una continua conferma, anche perché altrimenti rischierebbe di essere
sovvertita (o, per dirla con le parole di Heller: perderebbe la stima di sé, cioè
l'affermazione del proprio - supposto - sé); come sa Vittore, il padre di Leonetta
in All'uscita del labirinto:
Si trattava per lui di un dovere imperioso schiacciare nella figlia i germi di una
ribellione latente e costante. (p. 37)31
Egli 'sa' che suo 'dovere' è: 'schiacciare i germi della ribellione'; e 'sa' di essere
legittimato ad usare la violenza: sia psicologia (egli «impartiva ordini» che
dovevano essere eseguiti «passivamente», p. 8), che fisica (continuamente
ostentata o minacciata).
Elemento comune, in tutte queste vicende narrate da Tartufari, è
l'annichilimento dell'altro nell'esercizio/affermazione di una autorità.
Un'autorità, quindi, che si rivela sempre violenta, qualunque sia la strategia
utilizzata: dalla parola alla spada.32 Alfonso e Ippolito privano della vita due
uomini perché convinti che siano stati gli amanti delle rispettive mogli. Essi
stanno esercitando il loro diritto di proprietà sul corpo delle 'loro' donne, e sono
legittimati a farlo:
Art. 353. L'adulterio commesso dalla moglie è l'adulterio vero e proprio; l'adulterio
commesso dal marito è quello che la dottrina chiama concubinato.
(Codice Penale del Regno d'Italia, 1889)33
decoro del tuo nome, che è nobile, illustre nella storia, e che non va macchiato. Ricordati,
Ermanno, il nome che si riceve in custodia dagli altri è un deposito sacro; non va macchiato. Chi
non ne ha stretta cura manca ai suoi doveri di cristiano, turba le leggi del consorzio civile e dovrà
renderne poi conto agli uomini in questa vita, al Signore nell'altra», ivi, p. 120.
31 Il romanzo si conclude con la giovane che sta conquistandosi una dipendenza economica
grazie al lavoro.
32 Cfr. Foucault (1976), pp. 189 e 190. Dal XVIII sec., afferma Foucault, il 'diritto alla vita' ha
sempre più sostituito 'il diritto alla morte', per cui le funzioni della legge sono state affidate alle
norme che avrebbero sostituito la spada. Norme fortemente regolatrici, che controllano e
organizzano meticolosamente ogni aspetto della vita degli individui: dalla nascita alla morte.
33 Cfr. Il Codice penale per il Regno d'Italia (1889), p. 126.
127
E la distinzione tra l'adulterio della moglie e quello del marito resterà
giuridicamente invariata per decenni.
Art. 559 (Adulterio) La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. /
Con la stessa pena è punito il correo dell'adultera. / La pena è della reclusione fino a
due anni nel caso di relazione adulterina. / Il delitto è punibile a querela del marito.
(Codice Penale del Regno d'Italia, 1930)
Questo il testo integrale dell'articolo dedicato al reato di adulterio. Non ci sono
articoli dedicati al marito adultero; egli resta condannabile solo per concubinato
(art. 560).
Tartufari racconta la società in cui viveva, una società fatta di leggi e
comportamenti che incidevano con prepotenza sulla vita delle persone.34
L'annientamento fisico/esistenziale di cui le sue protagoniste sono vittime,
dunque, è il sintomo, è l'espressione più feroce di un sistema comportamentale
basato sulla sottomissione, condiviso e promosso da scelte giuridiche e
istituzionali. Parafrasando Heller si può affermare che, ancora nel XX sec.:
l'annichilimento dell'altro era un «comportamento socialmente importante» che
non contraddiceva «le abitudini o le norme [...] accettate e incarnate nelle
oggettivazioni sociali» (p. 31).35
Ginevra, la protagonista di Maestra (il racconto più noto dell'autrice), trova nel
matrimonio, e quindi nel diventare 'moglie', la salvezza finale dal destino di
povertà a cui il sistema (comportamentale/giuridico/istituzionale) l'avrebbe
condannata. Ginevra si sposa per sopravvivere, perché non solo in quanto
'moglie', ma la donna in quanto tale, è privata del libero uso del suo corpo, della
sua anima e della sua volontà. E il matrimonio di Ginevra solo apparentemente
può sembrare il risultato di un adattamento alla morale corrente. Leggendo la
conclusione del racconto, le ombre che aleggiano dietro una relazione di
convenienza, sono rese con evidenza dall'autrice, che, anche in questo caso, rivela
la sua presenza:
Carlo e Ginevra sono maritati da tre anni ed hanno un amore di bambina che adorano
entrambi. In apparenza la loro vita scorre adesso serena e tranquilla, ma non credo che
siano completamente felici.
L'amarezza della situazione è inserita in un contesto descrittivo quasi idilliaco:
«Carlo e Ginevra sono maritati da tre anni ed hanno un amore di bambina che
Nel corpo del romanzo ''Ti porto via!'', dichiarando la sua presenza autoriale, l'autrice
svela: «Ma io racconto fatti invece di favole e non ho l'abitudine di dare la caccia alle invenzioni
tra le siepi delle nuvole: vado piuttosto a sradicarle dalle zolle della realtà, assai più ricca
d'impreviste bizzarrìe che non i ghirigori messi a posto con la penna», Tartufari (1933), p. 99.
35 Secondo Heller oggettivare fuori da sé la propria affermazione, e quindi 'bloccare'
l'autosviluppo della propria personalità, genererebbe una frustrazione che è all'origine dell'istinto
aggressivo, cfr. Heller (1978).
34
128
adorano entrambi», ma subito dopo viene introdotto il rovesciamento: «In
apparenza». E la descrizione continua raccontandoci le 'ombre' ricorrendo a
parole che dovrebbero ispirare armonia: serena, tranquilla, felici, dorati sogni,
dolcezza, amore.
Anche la povera Ginevra, dunque, si è 'acconciata' alla 'parte modesta'36 che il
sistema imponeva alla donna, e lo ha fatto consapevolmente. Altro destino può
profilarsi per Leonetta di All'uscita del labirinto, la quale può contare su una
condizione economica meno precaria di Ginevra. Orfana di entrambi i genitori, e
liberatasi da ogni legame sentimentale, alla sicurezza e alla protezione che
all'epoca sembrava garantire il matrimonio, ella preferisce un lavoro:
E spingendo un foglio bianco entro la macchina, comprese che era sola nella vita, ma
libera, padrona del suo destino.37
Una libertà anche questa 'di legge'. Solo dopo il decesso del padre, la ragazza
può finalmente sentirsi libera. Solo così, infatti, Leonetta si trova sciolta da quella
'potestà' che non le consentiva, fino a quel momento, alcuna scelta autonoma.
In tutti questi testi i riferimenti alle leggi e ai condizionamenti sociali non sono
pretesti letterari, ma piuttosto costituiscono il motore dell'agire dei personaggi. Il
'mondo' da cui è stata 'estrapolata la loro 'finzione narrativa'38 si distingue per
l'affermazione di nuove strategie di potere39, tese principalmente alla difesa degli
interessi di un gruppo sociale definito: quello di uomini benestanti; a danno,
quindi, di altri gruppi sociali: le persone non benestanti, e, principalmente, le
donne. Per cui gli scritti di Clarice Gouzy Tartufari sembrano fornire una
conferma alla ricostruzione storica di Foucault, per il quale (nella sua ricerca
finalizzata alla comprensione dei fenomeni che riguardavano «le società
occidentali moderne»)40, la classe dominante, per preservare il proprio 'corpo'
sociale, avrebbe sempre più esercitato il controllo del 'corpo' della donna
attraverso tecniche di cui le norme giuridiche sono una delle espressioni. 41 La
scrittrice ci fornisce, dunque, uno strumento utile per meglio approfondire un
processo storico per molti aspetti ancora poco esplorato: l'istituzionalizzazione
Cfr. ivi, n. 3.
Tartufari (1914), p. 412.
38 Cfr. Bruner (2019), p. 107.
39 Cfr. Foucault (1976), pp. 121-122: «Par pouvoir, il me semble qu'il faut comprendre d'abord
la multiplicité des rapports de force qui sont immanents au domaine où ils s'exercent, et sont
constitutifs de leur organisation; le jeu qui par voie de luttes et d'affrontements incessants les
transforme, les renforce, les inverse; les appuis que ces rapports de force trouvent les uns dans
les autre, de manière à former chaîne ou système, ou, au contraire, les décalages, les
contradictions qui les isolent les uns des autres; les stratégies enfin dans lesquelles ils prennent
effet, et dont le dessin général ou la cristallisation institutionelle prennent corps dans les appareils
étatiques, dans la formulation de la loi, dans les hégémonies sociales».
40 Foucault (2017), p. 8.
41 Foucault (1976), p. 159.
36
37
129
della disparità di genere. E comprendere l'origine, l'evoluzione, e le modalità di
tale processo ci può aiutare a capire (e superare) la sopravvivenza di quelle
dinamiche relazionali uomo/donna, fondate sulla disparità, il possesso e la
violenza, ancora molto diffuse nelle 'società occidentali moderne' agli inizi di
questo XXI sec.
Pensate con quanta difficoltà gli uomini si decidono a ribellarsi!
Per loro è sempre un'avventura, devono aprire e percorrere nuove strade,
mentre ancora stanno al potere non solo i potenti, ma anche le loro idee.
(Bertolt Brecht, Studio della prima scena del ''Coriolano'' di Shakespeare)
Alessandra Marfoglia
alessandra.marfoglia@uniroma1.it
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didattici dell'istruzione elementare; G.U. n° 250 del 24/10/1923.
Honour killing in Italy have only recently been delegitimized. However, “social
meteorites from the old order continue to fall on our legislation” (my translation of
Cavina, 2011). Gender-related killing of women and girls is, indeed, a deeply rooted
historical phenomenon. It is related to the institutionalized notion of marriage as a
heritage, according to which a woman is a future mother, hence a good. For this reason,
marriage, be it institutionalized or not, is the relation between a possessor and a possessed.
This relation implies the loss of the latter as a self, a body, a person.
This short paper analyzes some texts by Clarice Gouzy Tartufari (1868-1933) and in
particular her novel ''Rete d'Acciaio'' (The Steel Network), where she tells the story of a
married couple who seems heading towards a fatal destiny. The husband tries to defend
his wife from his own possessiveness, but he will end up killing her.
Tartufari talks here about a body and a person being annihilated. Hence her focus is
neither on the physical side of it nor on the husband. Rather, it is on the social and cultural
context the character belongs to, which deprives her of her own self, because she is a
’female’.
Parole-chiave:
Novecento.
Femminicidio;
consapevolezza;
Codice
Civile;
scrittrici;
136
PIER PAOLO PAVAROTTI, «Piuttosto mi adatterò in un grande
angolino nella produzione italiana»: la intermittente riscoperta di
Mario La Cava, tra classicità ed attualità
In memoriam
Leonardo Sciascia, custode inflessibile del proprio giardino (1921-1989)
Oggetto precoce delle attenzioni di alcuni dei maggiori critici italiani negli
anni ’40-’60, trascurato quanto alla produzione narrativa per le due decadi
successive1 benché collaboratore di importanti quotidiani nazionali (dal Corriere
alla Stampa, dal Giorno al Mattino), Mario La Cava (1908-1988 Bovalino)
ricomincia dopo la morte, ma con significative intermittenze cronologicoeditoriali, a tornare – non al centro, quantomeno all’interno ‒ nel dibattito
letterario e culturale italiano. Prima di esporne i motivi e gli sviluppi, ragione di
questo contributo su un ‘minimo non minore’ della letteratura contemporanea2,
è utile offrire un breve profilo bio-bibliografico di questo autore calabrese tra i
più prolifici, rigorosi e penetranti del dopoguerra italiano.
Di estrazione piccolo-borghese, con un discreto retroterra culturale (padre
insegnante, madre casalinga poi memorialista3), La Cava dopo gli studi classici
al liceo di Bovalino sale a Roma per frequentare la facoltà di medicina e quindi a
Siena per laurearsi in giurisprudenza nel 1931. Presto stancatosi della mondanità
del continente, torna a Bovalino e vi resta tutta la vita tra carte ed affetti.4 Il carico
emotivo ed economico della famiglia traspare a tratti ossessivamente nei
numerosi carteggi con editori e scrittori, in primis con Leonardo Sciascia, che
Lettera di La Cava a Sciascia datata Bovalino 26 gennaio 1972 raccolta in LC (2018), pp. 461:
«Se non riesco come narratore a persuadere i consulenti degli editori, vedrò se potrò persuaderli
con le mie critiche». Lettera da Bovalino non datata (ma ottobre-novembre 1984) in LC (2018), pp.
476: «Dal 1980 non è uscito più nulla di mio».
2 Il titolo è preso dalla lettera datata Bovalino, 4 agosto 1987 in LC (2018), pp. 481-482.
3 Marianna Procopio, Diario e altri scritti, con prefazione di Piero Chiara, Rebellato, Cittadella
(PD), 1962. Primi stralci in «Letteratura», a cura di Alessandro Bonsanti [= Procopio (1937)].
4 Amici (2004), ad vocem. Emblematica nella sua rispondenza con l’amico Sciascia la lettera
datata Bovalino, 13 luglio 1951 in LC (2018), p. 8: «pensavo a te, ritirato in un paese di Sicilia, al
pari di me che ho sempre vissuto in Calabria».
1
137
sempre gli manifestò una stima ed un calore non facilmente eguagliati per
corrispondenti ben più influenti ed affermati.5
Dedicatosi subito all’attività letteraria, esordisce con Il matrimonio di Caterina
(1932, seminedito poi Scheiwiller, 1977)6 e viene consacrato da Caratteri
(«L’italiano», Longanesi, 1935, poi Le Monnier, 1939; Einaudi, 1953-1980;
Donzelli, 1999)7. Recuperati dalla produzione degli anni ’30 sparsa per riviste e
giornali sono i Racconti di Bovalino (Rubettino, 2008). Ispirati all’esperienza di
affido famigliare, escono poi i Colloqui con Antonuzza (Sciascia, 1954; Einaudi,
1958; Donzelli, 2000), e ad un fatto di sangue degli anni ’20 il romanzo
‘brancatiano’ Mimì Cafiero (Parenti, 1958 poi Rubettino, 2006). Quasi sperimentale
il libro-intervista Le memorie del vecchio maresciallo (Einaudi, 1958; Donzelli, 2000;
Comune di Bovalino, 2017), mentre è di nuovo centrata sul ritratto d’ambiente,
morale e psicologico Vita di Stefano (Sciascia, 1962 poi Rubettino, 2006). Due
romanzi sulla figura femminile ed uno storico sui tentativi di rivolta contadina
impegnano La Cava negli anni ’70: Una storia d’amore (1966, inedito poi Einaudi,
1973), La ragazza del vicolo scuro (Editori Riuniti, 1977) ed I fatti di Casignana
(Einaudi, 1974). Il ritorno alla misura breve nell’ultimo decennio è caratteristico
delle favole per la scuola di Terra Dura (Logos, 1980) e Tre racconti (Edizioni della
Cometa, 1987). L’apertura culturale e l’attitudine alla compartecipazione
descrittiva sono testimoniate in Viaggio in Israele (Fazzi, 1967; Brenner, 1985;
Edicampus, 2011), Viaggio in Lucania (L’Arco, 1980) e Viaggio in Egitto e altre storie
di emigranti (Scheiwiller, 1986). Chiudono la sua attività il rievocativo Una stagione
a Siena (Managò, 1988), la raccolta delle Opere teatrali (Brenner, 1988) e La
melagrana matura (anni ’40 poi Donzelli, 1999). Postumi anche l’atto unico Il dottor
Pesarino (Arti grafiche, 2001) e la pubblicazione della tesi di laurea La Repubblica
Cisalpina. Appunti sulla Costituzione e sull'attività legislativa (Città del Sole, 2008).
La prima fase dell’attività giornalistica tra la fine degli anni ’40 ed i primi anni
’50 si riscopre ne I misteri della Calabria (Casa Editrice Meridionale, 1952 poi Jaca
Si veda per esempio la lettera datata Bovalino, 9 setembre 1954 in LC (2018), pp. 183-184:
«La questione fondamentale che per ora mi impedisce di partire è quella dei soldi: non intendo
più chiederli a casa [...] Ma prima dovrei far continuare la cura dei denti a mia moglie e comprarle
un vestito invernale [...] ma il bambino è ammalato (penicillina, etc.)». Oppure la lettera datata
Palermo, 3 gennaio 1972 in LC (2018), p. 460: «Carissimo Mario, appena capiterò a Milano, parlerò
di te a Spadolini [...] (tu sai quanto ti voglio bene e quanto amore ho alle tue cose). Questo nostro
paese è incredibile: conta sempre meno quello che si è, e sempre più quello che si dice di essere.
E se ti attenti a scoprire una verità, sono guai».
6 Nel 1983 ne venne tratto un film per la televisione da Luigi Comencini, con Stefano Madia
e Anna Melato come protagonisti e musiche di Manuel De Sica. Il regista ne apprezzò la capacità
di penetrazione emotiva di stampo flaubertiano, il respiro universale e la lingua, senza
concessioni al dialetto: Comencini (1983), s.i.p.
7 Costituendo parte integrante della fortuna di La Cava, si lasciano i riferimenti editoriali nel
corpus del testo ma senza indicazione di luogo per facilità di lettura.
5
138
Book, 2003), in Lettere da Reggio Calabria (Barbaro, 2015) e in Corrispondenze dal Sud
Italia (Città del Sole, 2010) per gli anni appena successivi (1953-1956); la fase
matura dedicata all’Affaire Moro è raccolta in Omissione di soccorso (Barbaro, 2015),
in cui La Cava affianca Sciascia a favore della trattativa Stato-BR. Oltre al citato
carteggio con quest’ultimo, fonte privilegiata per la ricostruzione della vicenda
letteraria ed umana del poligrafo calabrese, si può leggere quello col cugino
Francesco Perri, intellettuale antifascista ed irrequieto polemista compaesano di
Bovalino.8
Ragioni di/per una riscoperta
Prima di rendere conto sinteticamente della riscoperta critica di La Cava, si
intende suggerire piste per una effettiva (prima) lettura della sua opera, nella
consapevolezza che sia a tutt’oggi senz’altro prima da leggere che riscoprire.
Senza alcuna pretesa di completezza, ma legati alle intenzioni esposte nel titolo
di questo contributo, si selezionano qui soltanto due titoli tra quelli 9 che
giustificano il merito di tale (ri)scoperta dello scrittore di Bovalino: Caratteri e
Viaggio in Israele. Cui seguirà una sezione metacritica ed un (motivato) auspicio
letterario a mo’ di conclusione.
Caratteri: Archiloco come inedita rasura del palinsesto. La vicenda editoriale di
questo testo d’ispirazione realista è assai singolare. Uscito in estratti su
«L’Italiano» di Leo Longanesi (1936-1937), maestro non dogmatico di libertà, poi
presso Le Monnier (1939), prosciugato della metà per timore di incorrere nei
rigori della censura fascista, finalmente Einaudi lo ripubblica nei «Gettoni»
(1953)10 ideati da Vittorini ‒ sarà giunto ormai il tempo di una completa
riabilitazione del Vittorini editore post affaire Gattopardo? ‒ non soltanto nella
dimensione originale bensì accresciuto negli anni. Lo stesso Einaudi («Nuovi
Coralli» 282) ne procura una terza edizione (1980) con tagli (sedici caratteri in
meno) e sostituzioni (nove).11 Bisognerà attendere la quarta edizione con Donzelli
Perri (1993), ultimo scritto di La Cava, curato dalla figlia Marianna. Al cugino Perri è
dedicato il romanzo I fatti di Casignana.
9 Alla ripresa di un romanzo storico come I fatti di Casignana, probabilmente il primo
dedicato alle lotte sociali dei contadini meridionali, è dedicata la monografia di Alex Bardasciani
che si riprenderà nella sezione successiva.
10 Sul mercato librario le poche copie disponibili della princeps quotano stabilmente attorno
a 120€, la editio altera 60-70€.
11 Un ‘carattere’ della princeps va a sostituire il n. 40 della editio altera. I ‘caratteri’ 54 106, 114,
132 136, 152, 214, 218 sono sostituiti. Gli ultimi tre caratteri dell’edizione einaudiana del 1953 si
trovano in quella del 1980 (qui utilizzata) dopo il n. 332; ritoccato il n. 246. Infine, quello intitolato
Il fiore rosso è rimasto escluso come nella Einaudi 1953. La Cava stesso, adducendo ragioni di
maggior accessibilità ai lettori contemporanei, compone la Nota alla presente edizione (Bovalino,
maggio 1980), qui riassunta.
8
139
(1999, ormai rinvenibile soltanto in una ventina di biblioteche italiane) per la
reintegrazione e restaurazione del testo originale. La revisione intercorsa dalla
seconda alla terza edizione forse ancora per autocensura politica, a quarant’anni
dalla prima, resta di fatto insoluta. Ne risulta comunque un’opera-palinsesto
assai attuale nella sua composizione perennemente in fieri.
Per un’opera tanto originale nel panorama letterario italiano dell’epoca – gli
scritti aforistici di Ennio Flaiano12 e Guido Ceronetti, i ritratti di Alberto Arbasino
e Giorgio Manganelli sono di là da venire ‒ diviene presto evidente per la ricerca
delle fonti.13 Da una parte è l’autore stesso a chiamare in causa i precedenti illustri
di Teofrasto e Jean de La Bruyère14, altri parlano di Edgar Lee Masters15 o del
conterraneo Corrado Alvaro. Spontaneo anche l’accostamento alla misura breve
ed alla pagina diaristica della madre, che il figlio medesimo avvicina con finezza
di linguista ai lirici greci per l’incrocio di sentimento e dialetto.16 Grazie anche a
questa chiave di lettura viene da proporre come inedita l’influenza di Archiloco
che, considerando l’impronta classicista della rivista, si vuol qui mettere in luce.
Il poeta-guerriero ciclade del VII secolo a. C., primo dei lirici greci, nobile di
nascita ed impoverito negli anni, non avrebbe mai immaginato – come La Cava
ai tempi in cui deve averlo studiato al liceo ‒ di doversi preoccupare per denaro.
Il suo influsso è rinvenibile nei Caratteri del calabrese per la misura breve, lo stile
asciutto, l’introduzione di figure fittizie d’impronta realista (veri e propri
‘caratteri’)17 e le tematiche naturalistiche, per cui Archiloco si mostra iniziatore
assoluto della focalizzazione sul particolare, che diviene espressione universale
dell’unicità di ogni irripetibile esistenza.18 Alcuni brani paralleli possono
esemplificare questa relazione.
Anche Ennio Flaiano scrisse un reportage su Israele nel 1967 per «L’Europeo».
Elementi di parentela letteraria (comunque posteriore), cui andrebbe dedicato uno studio
a sé, si possono tracciare fra l’esordio di La Cava e due libri di ‘maggiori’ del secondo dopoguerra
anch’essi meritevoli di riscoperta, quello di Sciascia (Favole della dittatura, Roma, Bardi, 1950) e di
Gadda (Il primo libro delle favole, Venezia, Neri Pozza, 1952).
14 Oltre all’edizioni bilingue di Teofrasto (1994), si è voluto segnalare la prima edizione
congiunta dei classici greco e francese in La Bruyère (1668), linguisticamente e cronologicamente
accessibile a La Cava. La lezione dei classici e la predilezione per lo stile asciutto, lontano da
sperimentalismi in La Cava sarà poi messa in evidenza sulla stampa nazionale da Ajello (1975),
Augias (1999), Magris (2008). Il moralista francese – citato direttamente nel n. 303 dei Caratteri
(1980), pp. 152-153 ‒ torna nella pronta recensione a Sciascia nel contesto affronta tutti i mostri del
potere politico, in «Gazzetta del Popolo», 2 marzo 1972.
15 Interessante l’incrocio possibile col calco inglese Characters (personaggi), che – lungi dal
costituire qui un mero false friend ‒ di fatto esprime altrettanto bene il contenuto dell’opera.
16 Mario La Cava, «L’Unità», 4 dicembre 1962: «Così come accadeva ai lirici dell’età classica,
quando ognuno creava con il dialetto della sua gente, la lingua della sua poesia».
17 L’onomastica lacaviana è mutuata da quella classica, soprattutto greca, con chiaro
intendimento universalizzante. Ma il contesto è calato nella polis bovese: Sposato (2014), p. 44.
18 Archiloco (1994), pp. 47-48.
12
13
140
Ora invece Leofilo comanda, il potere è
nelle mani di Leofilo, tutto dipende da Leofilo,
si dà ascolto soltanto a Leofilo
nu/n de. Lew,filoj me. a;rxei
Lewfi,lou d’evpikratei/
Lewfi,lwi de. ta,nta kei/tai
Lewfi,lon d’a;koue
(fr. 115) [Archiloco (1994), p. 117]
Recando un pasto letale, lo pose dinanzi ai
piccoli
prou,qhke paisi. dei/tnon aivhne.j fe,ron
(frammento 179)
[Archiloco (1994), p. 133]
Con una mano recava acqua / tessendo
inganni, e con l’altra fuoco
th/i me.n u;dwr evfo,rei
dolofrone,ousa ceiri,, qh.te,rhi de. pu/r
(fr. 184) [Archiloco (1994), p. 135]
Sono un punteggiatore delle parole altrui,
del libero pensiero, un tagliatore di scritti, un
uomo grande! [...] Ognuno ha il suo genio, io
il mio [...] Mi semplicemente dato all’azione
vivace, alla pratica, e raggiunto per
combinazione il potere, ho provveduto a
mantenerlo e a rafforzarlo per mezzo della
trasformazione delle parole [...] Mi
dispiacerebbe tanto se esso dovesse cadere nel
pessimismo, diventare preda di coloro che
dicono o fanno capire quanto grande è il suo
dolore [...] E volesse il cielo che non ci fosse
bisogno di stimolo, di correzione o di arbitrio
per indurlo a fare quello per cui è nato: vivere
e morire per me! [...] E mi volesse benedire e
pregare, come Iddio, per quello che faccio,
tanto più colpito a sangue che esso fosse, tanto
più avvilito e disfatto
(n. 175) [Caratteri (1980), pp. 87-88]
Qui sono tre gli ambiti interessati, quello politico-militare, quello famigliarecomunitario e quello gnomico. Del primo Archiloco tratteggia con efficace
poliptoto l’atteggiamento tipico del/verso il dittatore di turno, tra gregarismo,
paternalismo, doppiezza.19 La Cava sembra affiancarlo con un breve apologo
chiaramente allusivo del regime fascista. Del secondo ambito, relativamente al
secondo frammento dell’epodo archilocheo, è nota la vicenda di sfondo – la
promessa poi il rifiuto da parte di Licambe di dare in sposa la figlia Neobule ‒
che li lega in un maledicum carmen in cui trova posto la favola della volpe e
dell’aquila. Il rapace, dopo aver ingannato il canide, subisce la giusta punizione
offrendo ai piccoli cibo sottratto al sacrificio senza avvedersi della brace
incendiaria ancora attaccata.20 Qui però, sciolto dal contesto, si sposa agli intenti
ingannatori dell’idealtipico dittatore, di cui peraltro si fornisce altrove una
versione paragonabile dell’ingloriosa fine.21 Il terzo ambito, in realtà di insoluta
definizione, offre un frammento di epodo assai incerto quanto
all’interpretazione. Ciò consente dunque di affiancarlo con pertinenza, e senza
Il sitz im leben potrebbe riferirsi al generale menzionato nel frammento successivo (West)
o ad un dittatore eletto dai concittadini del poeta (Bonnard). Commento in Archiloco (1994), p.
204.
20 La favola riporta naturalmente al di.kaia pa,scw di esopiana (e ginnasiale) memoria,
condivisa senza dubbio anche da La Cava. Commento in Archiloco (1994), pp. 220-225.
21 «Un tiranno è stato ucciso. La notizia vola col vento. – Era la sua fine! – dice Carlo» (n. 42):
Caratteri (1980), p. 17. Cfr. Barberi Squarotti (1991), pp. 227-229.
19
141
tema di indebita appropriazione, al ‘carattere’ lacaviano per il portato evidente
di una condotta ingannevole premeditata.
Una differenza fondamentale d’atteggiamento intercorre però fra Archiloco e
La Cava; nel secondo è assente l’invettiva corrosiva e vendicativa che il primo
dedica innanzitutto alla già promessa sposa Neobule ed alla sua famiglia
(costretta al suicidio per la vergogna). Un estremo punto di contatto sul
continuum mobile tra ironia, denuncia sociale, sarcasmo ed invettiva senza
quartiere si può rinvenire nel verso preso a prestito anche da Plutarco:
Non ti cospargeresti di profumo
vecchia quale sei
ouvk a]n mu,roisi grhu/hj evou/s’hlei,fo
(frammento 205)
[Archiloco (1994), p. 148-149]
Una zitella brutta e gialla fece ricorso al Comune
perché l’acqua di scarico dì una vicina produceva
malaria. – L’acqua la toglierò, sí, ‒ le disse la donna
avversaria, ch’era maritata e madre di figli. – Ma
non per questo dovrai credere di acquistare colore,
brutta megera!
(n. 219) [Caratteri (1980), p. 112]
Non rappresenta la voce dell’autore22 bensì una tranche de vie di paese questo
‘carattere’. L’amara riflessione di La Cava riemerge invece nel ‘carattere’ 12 dal
tema simile: «La brutta signora di paese vuole un pensierino nell’album, dal
poeta in vacanza. - Si concentri un poco. Io vado di là e la lascio solo -. Il poeta si
concentra e scrive»23. La disinvoltura (forse ora censurabile) con cui nei Caratteri,
come nel Viaggio in Israele tanto per restare alle opere citate, si appellano ‘belle’ e
‘ben fatte’, oppure ‘brutte’, ‘grasse’ e ‘vecchie’ le donne, non significa snobismo
o sessismo, entrambi atteggiamenti sempre fustigati dalla penna lacaviana, bensì
testimoniano la naturalezza – talora spietata certo ‒ con cui il mondo contadino
e provinciale si esprimeva, la rassegnazione ed il rispetto con cui quel mondo
guardava al dato reale.
Viaggio in Israele: una innocente lungimiranza. Questo curioso libro, frutto di un
soggiorno di un mese come ospite per l’intercessione di un dirigente italiano
dell’ufficio di emigrazione ebraica, scritto a Bovalino tra il 20 settembre 1961 ed
il 31 agosto 1965, definito dagli unici recensori del tempo «romanzo-reportage» e
dall’autore stesso un «clamoroso insuccesso»24, è probabilmente unico nel suo
Come congettura Lassere, pur senza certezza, per Archiloco, ancora nell’atto di inveire
contro l’ex promessa sposa Neobule. Cfr. Archiloco (1994), p. 241.
23 Caratteri (1980), p. 6. A seguito del frammento archilocheo e del carattere lacaviano, la
memoria corre alla celebre scena del belletto nel saggio pirandelliano L’umorismo (1908), p. 135.
24 Si tratta di Pasquino Crupi e Michele Abbate, in VI (1985), p. 3. Ben diverse le aspettative
all’uscita, registrate in LC (2018), 430: «Spero [...] possa servire a far ricordare il mio nome a quanti
se lo sono dimenticati. Ho bisogno di affermarmi, per guadagnare qualcosa, sono con l’acqua alla
gola». In un corsivo introduttivo La Cava annuncia al lettore l’avvenuta restituzione degli
pseudonimi utilizzati per la prima edizione del libro ai loro nomi reali.
22
142
genere a trattare la realtà israelo-palestinese in quel periodo. Dell’opera, la cui
fedeltà descrittiva è riscontrabile anche a distanza di decenni, a rimarcare lo
spessore naturalistico di La Cava, sono essenzialmente due i passaggi che si
vogliono rimettere sotto la lente d’osservazione: Capitolo Introduttivo (Bovalino,
14 gennaio 1985) e Il processo di Eichmann.25
Del primo sono rimarchevoli sia quella forma di innocente osservazione che
traspare dalle pagine26, sia la precoce registrazione del progressivo schierarsi
(almeno apparente) su posizioni filo-palestinesi dell’intellighenzia italiana.27 La
Cava, per la prima volta usando la prima persona singolare, registra i successi
degli Ebrei in svariati campi tecnico-scientifici e militari, la «invidia forsennata»
dei capi Arabi come motivo dell’inimicizia tra i due popoli, la necessità (sofferta)
di una difesa armata da parte dei vincitori della guerra civile28, la necessità storica
della fondazione dello stato d’Israele. Sottolinea che tutto ciò non ha diminuito
la sua precedente simpatia per gli Arabi in Israele, paragonati ai calabresi per le
difficili condizioni di vita. Anticipando la trattazione del processo, confessa che
– come la maggior parte degli Ebrei ‒ «non avrei mai accettato di fare il giudice
in processi così gravi». Nega che il potere politico abbia corrotto gli Ebrei nel loro
stato e considera il ponte aereo realizzato con l’Etiopia a favore dei Falascià (19841991) in seguito alla terribile carestia del 1977 come semplice dimostrazione del
loro senso di fratellanza senza confini. Lamenta l’atteggiamento degli intellettuali
amici, timorosi di comunicare per lettere le impressioni sull’opera «quasi che io
avessi potuto cogliere l’occasione della loro eventuale tolleranza, per
comprometterli dinanzi all’opinione pubblica più impegnata», succube di «un
antisemitismo non più religioso, risorgente tuttavia dalla profondità di
sentimenti occulti». Certamente a distanza di quarant’anni, dopo le vicende della
Rispettivamente VI (1985), pp. 3-6 e pp. 77-88.
Non va esente questo diario in forma narrata da qualche edulcorata ingenuità, ad esempio
nella descrizione dei mendicanti nelle città: «Essi sapevano che con la loro esistenza, dando
occasione dalla carità degli altri, contribuivano al perfezionamento morale dei loro benefattori»:
VI (1985), p. 95. Cfr. Sposato (2014), p. 123. Altrove però l’ironia riesce dove uno dei pregiudizi
più inveterati trova terreno fertile: «”È sempre un ebreo...” mi dicevo. “Saprà fare coi greci”. I
greci lo imbrogliarono ch’era una meraviglia, nell’acquisto delle cartoline, delle sigarette, delle
bibite, delle medicine, nel pagamento del taxi, benché tutto avvenisse coi miei soldi, dato che egli
aveva dimenticato oil portafogli in cabina: ma io non ero capace di altro che di esprimere il mio
stupore: la fiducia in lui rimaneva intatta, anzi aumentava»: VI (1985), p. 9-10.
27 Testimonia questa tendenza ed il nodo concettuale irrisolto la nascita (contestata)
dell’associazione Sinistra per Israele, presieduta dall’intellettuale e politico Furio Colombo. Per
uno sguardo diacronico sul tema si vedano Colombo (1991) e Colombo (2007).
28 «Le tre guerre dal 1967 fino ad oggi [...] Pareva a tali contraddittori che fosse necessario
perderle, perché risplendesse in tutta la sua luce l’ideale umano. L’uso stesso della tecnica più
avanzata nella condotta delle guerre sembrava una soverchieria a danno dei perdenti, non un
segno di valore dei vincitori, se il fine delle guerre è quello di vincerle, non di perderle» VI (1985),
p. 4.
25
26
143
prima (1987-1993) e seconda Intifada (2000-2005), con l’abbandono di Gaza e la
progressiva estensione degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, la
situazione è mutata. Ma non la necessità di guardare a quella realtà senza
eccessivi schematismi ideologici premasticati, evitando quelle polarizzazioni che
rendevano i Palestinesi ‘tutti terroristi’ negli anni ’70-’80 e gli Israeliani ‘tutti
fascisti’ dagli anni ‘90.
Il capitolo sul processo di Eichmann ha già di per sé un indiscutibile pregio,
ovvero offrire al lettore un punto di vista alternativo a quello divenuto ormai
canonico di Hannah Arendt, come lui accreditata come giornalista alle sedute.
Nei confronti della sua opera più nota29 si è passati infatti dalle citazioni degli
anni ’60-’70, all’ossequio dei decenni Ottanta e Novanta sino all’attuale
saccheggio (come Se questo è un uomo di Primo Levi), complice anche la gestione
scolastica talora pigra delle Giornate della Memoria. Mentre la pensatrice
tedesca, certamente molto più attrezzata culturalmente e personalmente
coinvolta, ha lasciato del gerarca nazista il noto ritratto di un uomo
assolutamente normale, amorevole quanto alla famiglia, sempre frustrato ed
ambizioso quanto alla carriera, senza alcun furore ideologico né esplicito
sentimento antisemita, ‘semplicemente’ dedito ciecamente al suo Fürher, La Cava
disegna una figura diversa. Già la precisa ékfrasis iniziale (assente nella Arendt),
dalla buona complessione generale («e veniva da pensare che per virtù sua
sarebbe vissuto cent’anni») ai particolari anatomici30, dagli eleganti modi
militareschi31 alla prontezza nelle risposte32, dall’abito sartoriale al cambio degli
occhiali («con sveltezza da intellettuale»), induce ad una maggior considerazione
del personaggio. Diversamente da quanto notato dalla pensatrice tedesca, La
Cava non si riferisce all’avvocato Servatius con l’appellativo ‘dottor’. Così
l’imputato risulta disinvoltamente bugiardo, ma non per meschino attaccamento
alla propria vita come da altri descritto, quanto perché piuttosto «dotato di
Arendt (1964). Si utilizza questa edizione in quanto l’unica disponibile in italiano all’epoca
della composizione di VI (1967). La traduzione di Piero Bernardini è peraltro rimasta alla base di
tutte le successive. In appendice la risposta della Arendt alla polemica suscitata dalle sue
corrispondenze sul New Yorker, non meno interessante del reportage medesimo.
30 «La pelle della sua faccia [...] conciata e tirata sulle ossa, come se tale fosse stata resa
dall’indifferenza dell’animo e dall’esercizio costante della volontà malvagia. Aveva labbra sottili,
taglienti come le pinze falsamente delicate di certi insetti [...] di chi non aveva mai sorriso ad
alcuno [...] mai pianto con alcuno»: VI (1985), 80.
31 «All’annunzio dell’arrivo del tribunale, scattò in piedi con moto di militaresca eleganza e
precisione. Poi si sedette, svelto e preciso»: VI (1985), 7.
32 «...una prontezza e una precisione da lasciarmi ogni volta stupefatto [...] Eichmann
sembrava non avesse fatto altro che prepararsi nella sua vita a quel tipo di dibattimento»: VI
(1985), 80.
29
144
un’astuzia diabolica»33. Tutt’altro che ‘banale’ è sempre la considerazione che La
Cava di Eichmann ricava dagli interrogatori.34
Una nuova stagione critica
La Cava ha condiviso con buona parte del meglio della cultura italiana del
dopoguerra (Gadda, Pasolini, Sciascia) il sentimento ambivalente di amarezza e
tuttavia ancora di commovente fiducia nei confronti dell’importanza della
letteratura e della critica in Italia. Quest’ultima ha contraccambiato con
generosità e curiosità nella prima fase della produzione lacaviana, poi come
anticipato – anche a seguito del venir meno della forza propulsiva del
neorealismo, sotto la cui ottica riduttiva la critica aveva cristallizzato lo scrittore
di Bovalino ‒ se ne è allontanata, fino a provocare le tribolazioni e le laconiche
dichiarazioni dell’autore citate nelle pagine precedenti. Un primo concreto
antesignano passo verso la sua rivalutazione si è avuto con la raccolta di
interventi critici da parte di Pasquino Crupi e col convengo romano dedicato a
La Cava nel 2000 a cura di Renato Nisticò, curatore delle riedizioni per Donzelli.35
Ma volendo restare alla decade corrente si segnalano tre monografie di studiosi
calabresi, dandone conto senza alcuna pretesa di esaustività.
Il saggio di Gianni Carteri (1952-2019), Come nasce uno scrittore: omaggio a Mario
La Cava, ha nel titolo la sua ragione principale e dell’omaggio conserva tutte le
caratteristiche, oltre che compositive, si direbbe ‘affettive’.36 Il libro è frutto di una
decennale ricerca e riflessione, nonché della frequentazione personale con lo
scrittore di Bovalino, come testimonia Vincenzo Consolo nella prefazione. Anche
la prima parte del titolo offre la giusta chiave di lettura, riferendosi infatti nella
sua parte più interessante e meglio documentata alla non facile formazione
giovanile di La Cava. Due sono gli incontri che prima introducono poi
Cfr. Arendt (1964), p. 34: «Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli
era fondamentalmente un “bugiardo” – e così trascurarono il più importante problema morale e
anche giuridico di tutto il caso». E nell’imminenza dell’esecuzione, Arendt (1985), p. 259: Era
completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo
dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole».
34 «Eichmann fu un uomo che mise la sua malvagità a servizio di una causa politica. Le
ragioni politiche scatenarono i suoi istinti di belva. L’ideologia nazista, alla quale credette come
tutti i tedeschi, fu semplicemente il terreno più adatto per le sue imprese.»: VI (1985), p. 83. La
riflessione di La Cava sviluppa nel romanzo anche qualche (modesta) riflessione più generale ed
in parziale contraddizione con la descrizione iniziale: «Ma Eichmann non è un semplice serpente
velenoso, non è una mosca molesta: è un uomo come noi, purtroppo, un uomo incatenato alla sua
volontà malvagia. Non è un’ipocrisia dire che bisogna liberarlo con la morte»: VI (1985), p. 88.
35 In bibliografia rispettivamente come Crupi (1991) e Convegno (2000).
36 Si legga anche l’intervista di Ida Nucera a Carteri in occasione dell’uscita del saggio:
«Nostro Tempo» (2012), p. 15.
33
145
accompagnano la sua attività letteraria, col sacerdote e storico ‘modernista’
Ernesto Bonaiuti37, rimosso dalla cattedra dallo stato fascista e sospeso a divinis
dall’autorità ecclesiastica, e col pastore evangelico fiorentino Gino Roberto.38 Col
primo avvia un colloquio personale poi epistolare favorito dalla permanenza
dello storico romano presso l’abitazione dello zio, accademico anch’egli e medico
personale di Bonaiuti, il clinico Francesco La Cava. La comprensione della
personalità lacaviana39 e l’incoraggiamento del sacerdote sono fondamentali. Col
pastore Roberto il rapporto è piuttosto di scambio culturale e soprattutto di
approfondimento di quel lato spirituale e cristiano lasciato dapprima in ombra
dal laico La Cava. La ricerca della verità e la pietas verso i vinti portano il giovane
scrittore a contatto col sacro e col mistero.
Del capitolo40 sul romanzo-reportage Viaggio in Israele è interessante la
sottolineatura dell’attenzione con cui l’inviato guarda al riposo settimanale dello
Shabbat, che si rivela oggi (h24-7/7 open market & always connected people) più che
mai lungimirante se non si vuole scomodare il qualificativo ‘profetico’. Chiude il
saggio una rassegna di «compagni di processione» di La Cava (tra cui Sciascia e
Consolo), di cui la parte principale è riservata allo scrittore Bernardo Zappone ed
alla loro amicizia negli anni Cinquanta, testimoniata da alcune lettere inedite.41
Ne esce la figura di un letterato raffinato, intimista nel tratto quanto ritirato nel
suo autoesilio calabrese, e di uomo signorile e generoso fino all’ingenuità, dedito
con esclusiva fedeltà alla scrittura. Le analisi letterarie occupano invece poco
spazio e si risolvono in sprazzi quasi occasionali, dove le comparazioni con altri
scrittori sono più esposte che provate.
La monografia di Eleonora Sposato è frutto degli studi dottorali in Calabria e
si presenta come la più corposa e sistematicamente attrezzata tra quelle dedicate
recentemente allo scrittore jonico. L’impianto dell’opera prevede una scansione
tripartita che muove dagli anni della formazione universitaria e
dell’apprendistato letterario, unitamente all’analisi dell’opera di esordio, si
sofferma nel capitolo centrale e più ampio sull’attività pubblicistica e sulle opere
di respiro civile e meridionalista, per concludersi con l’esame della (s)fortuna
della narrativa maggiore di La Cava.42 Prendendo in considerazione i Caratteri
Carteri (2011), pp. 13-25. A questi anni data già la curiosità per il patrimonio orale bovese.
Carteri (2011), pp. 29-45.
39 Parlando delle critiche in procinto di inviare a Tobino, La Cava riconosce a Sciascia la
capacità, ereditata dagli ascendenti arabi, di menare terribili fendenti e ricorda del giudizio di
Bonaiuti quando lo diceva a sua volta crudele per il sangue normanno: lettera datata Bovalino, 10
maggio 1954 in LC (2018), pp. 155-156.
40 Carteri (2011), pp. 47-56.
41 Carteri (2011), pp. 103-116.
42 Rispettivamente Sposato (2014), pp. 15-56; 57-161; 163-222. Bibliografia e indici: pp. 223254
37
38
146
come vera opera prima rivelatrice43, la giovane studiosa calabrese ne ricapitola le
fonti, i temi (mondo vegetale, animale, umano) e lo stile (classico, misurato,
gnomico). Ai nomi già noti dalla critica militante di Teofrasto, di cui porta
l’osservazione (icastica ma spettatrice) dei tipi umani nei territori della critica
sociale, La Bruyère, di cui si fa portatore della carica parenetica, ed Alvaro, si
affiancano quelli del Tozzi del Bestiario, del Kafka degli aforismi-favole, del
Lanza dei Mimi, financo quello del Leopardi curioso di La Bruyère dello
Zibaldone.44 Ma è l’eredità della tradizione orale a legare fonti, temi e stile.
Lo stile che informa i Caratteri e gran parte della produzione successiva, così
come il panorama naturale e sociale in cui si incarnano, e parte delle fonti cui si
devono, attinge (anche) ad un patrimonio di oralità della Locride che la Sposato
riprende da Carteri e valorizza nella prospettiva di questa triplice valenza. Così
come viene attentamente rilevato che – in una visione diacronica ‒ la sobrietà
classica lacaviana, nutrita del raffinato fraseggio rondista (come in Sciascia),
risponde, nella giovinezza, ad un bisogno reattivo verso la roboante retorica
dannunziano-fascista e, similmente nella maturità, verso l’artata sofisticatezza
della narrativa industriale di successo, centrata sulle nevrosi neocapitaliste.45
Il corpo centrale del saggio è dedicato a due temi di notevole interesse, uno
sinora poco studiato e l’altro già toccato qui sopra. Nei primi anni Cinquanta,
prima di allestire la seconda edizione dei Caratteri per Einaudi, La Cava si dedica
alla raccolta di scritti giornalistici di impegno civile sulla questione meridionale
(1945-1949). Si tratta delle inchieste raccolte nei I misteri della Calabria, in cui il
taglio sociologico sul lavoro e sulla questione agraria si sposa ad una riflessione
antropologica sull’identità dei suoi conterranei, lontani dai centri nevralgici
dell’Italia produttiva e dell’Europa postbellica, ma ad esse indissolubilmente
appartenente in quanto depositari dell’ineludibile eredità della Magna Grecia.46
Questa fase pubblicistica ha un inserto polemico sul «Mondo» di Bonsanti
nientemeno che con Montale e Gadda (1945-1946). I quali si scontrano ‒ senza
addivenire ad una sintesi condivisa ‒ sulla questione meridionale a proposito di
temi drammatici del recente passato bellico (impiego in prima linea della leva
meridionale) e dell’agenda politica nazionale (malgoverno sabaudo e fascista,
incapacità imprenditoriale, astrattezza del tipo meridionale, sottoimpiego delle
risorse e della forza lavoro), sull’onda di un supposto separatismo siciliano.47 La
Grazie alla ricca e preziosa appendice bibliografica della Sposato si apprende che
curiosamente è proprio sulla rivista Caratteri, fondata da Mario Pannunzio e Antonio Delfini, che
nel maggio 1935 l’autore pubblica Due favole (anno I, n. 3) e poco dopo la prima parte de Il
matrimonio di Caterina (anno I, n. 4, giugno-luglio, pp. 257-271).
44 Sposato (2014), pp. 39-43. Appena sfiorato il tema della lacunosa terza edizione (ivi, p. 46).
45 Sposato (2014), pp. 52-56.169.
46 Sposato (2014), pp. 58-66.
47 Sposato (2014), pp. 66-84. Considerando i limiti di questo contributo e la ricchezza dei
riscontri offerti dalla dissertazione della Sposato, si rimanda senza ulteriore commento alla sua
43
147
parte conclusiva della sezione centrale del saggio è dedicata a due opere
accostate, nella intelligente disposizione della Sposato, al corpus degli scritti
giornalistici raccolto nel 1952 dal comune interesse alla ricostruzione ‒ non certo
freddamente socio-antropologica ma quasi mitologico-testimoniale ‒ della
tradizione orale della cittadina-polis bovese: Colloqui con Antonuzza (1954) e Le
memorie del vecchio maresciallo (1958)48. Di quest’ultimo viene anche offerto un
sintetico ma puntuale rilievo di alcune caratteristiche retorico-formali, a
verificarne l’impegno dello scrittore nella trasmissione mimetico-testimoniale
anche sul fronte stilistico.49
L’altro aspetto dell’opera lacaviana trattato in questa sezione della tesi50 cui si
sceglie di guardare è, parallelamente al saggio di Cartieri, il romanzo-reportage
Viaggio in Israele del 1967. La studiosa anche qui sceglie intelligentemente il
percorso comparatistico, affiancando in due tempi l’opera diaristica di Giorgio
Voghera51 ed il celebre saggio della Arendt.52 Col primo si confronta la
descrizione/trasformazione del paesaggio e la tradizione del costume locale,
condividendone i tratti salienti (varietà degli scenari naturalistici, contrasto fra la
storia millenaria ed il presente tecnologico) nonostante la grande differenza di
orizzonte temporale: un mese di soggiorno per La Cava, dieci anni per Voghera.
Con la seconda il paragone va ovviamente al caso Eichmann, ma si tratta di un
brevissimo passaggio, evidentemente proporzionale al piccolo spazio (un
capitolo su quattordici) che la Sposato è sorpresa di leggere dedicato nel
«racconto a sfondo autobiografico». La trattazione è in quattro punti: condizione
sui generis dell’autore come spettatore semiprofessionista, ekfrasis della scena
come teatro della tragedia, descrizione del castello difensivo ed interpretazione
della personalità dell’imputato come redditio in se ipsum sulla questione del male.
La dispositio circolare della giovane studiosa è felice, nonostante la stringatezza
dei passaggi di cerniera tra le citazioni dirette, ed il primo punto mostra una certa
profondità interpretativa. Ma all’ultimo punto è forse rinvenibile la volontà di
non mettere in contrasto la lettura lacaviana di Eichmann con quella arendtiana.
Con l’ultima citazione si punta infatti a far convergere in extremis il giudizio
lettura. Così per la successiva collaborazione al «Mondo» di Pannunzio (1949-1954) e la lettura
del carteggio con Sciascia, oggetto di ormai rilevanti e interventi della critica (ivi, pp. 84-120).
48 Rispettivamente Sposato (2014), pp. 131-154 (con relativa nota storico-editoriale) e 154161.
49 Sposato (2014), pp. 152-154: paratassi, che polivalente, intensivanti, frasale tenere,
onomatopea.
50 Sposato (2014), pp. 121-131.
51 Sposato (2014), pp. 121-128. Trattasi del toccante affresco Quaderno d’Israele (1985)
ripubblicato contemporaneamente (già Scheiwiller, 1967 e Mondadori, 1980) e citato nel capitolo
introduttivo di VI (1985), p. 4. Uno sguardo alle due opere parallele si può leggere in Magris
(2008).
52 Sposato (2014), pp. 129-131. Segue l’analisi delle Memorie e dei Colloqui con Antonuzza.
148
improntato ad eccezionalità, più volte emerso da La Cava, col motivo della
«banality» della Arendt. Senza convincere.
Il terzo capitolo della dissertazione è dedicato a La Cava romanziere, ovvero
alla sua scarsa fortuna editoriale, dovuta principalmente al rifiuto/incapacità di
adeguarsi alle nuove tendenze della narrativa contemporanea. E qui la disamina
dello stile lacaviano trova di nuovo uno spazio più ampio. Il «classicismo
programmato» e la «tipologia narrativa orale-anedottica», elementi fondamentali
dell’impianto del grande romanzo ottocentesco secondo l’autore, con la variante
personale dell’impiego di forme dialettale, risulterebbero depotenziati nel
passaggio dalla forma breve del carattere/racconto a quella lunga del romanzo.
Anche la fissità del ‘cronotopo lacaviano’ – il fascismo della provincia calabrese
nel suo decorso storico ‒ non gioverebbe al successo editoriale.53 Ma di una di
queste opere si sarebbe occupato largamente un altro giovane conterraneo della
Sposato, e da un’ottica piuttosto differente.
La monografia di Alex Bardascino, giovane di origini calabresi (n. 1988) con
studi a Liegi, è dedicata con piglio documentario e convinzione critica ad
un’opera eccentrica rispetto alle coordinate consuete di La Cava, e concentra nel
composito titolo citazione, commento e definizione, tradendo l’influenza di
Borges (nonché la moda recente in fatto di titoli compositi): «Il ricordo pietoso dei
vinti»: impegno e realismo in “I fatti di Casignana”. Un’approssimazione a Mario La
Cava». La puntuale ricostruzione dell’opera come romanzo storico che supera il
neorealismo appiccicato a La Cava sin dai Caratteri, restituisce I fatti di Casignana
alle opere capaci di sostenere con successo la riscoperta dello scrittore jonico.
Soltanto per questo si è deciso di non inserirla nella sezione precedente,
riconoscendo a Bardascino onori ed oneri del lavoro compiuto.54 Nel quale si
Sposato (2014), pp. 174-177. Segue l’analisi dei romanzi degli anni Sessanta e Settanta.
Il giovane studioso si avvale frequentemente del saggio della Sposato e per lo più con
giudizi assai positivi. Tuttavia, diversa è l’impostazione diacronica della Sposato, che considera
con maggior attenzione la sperimentazione nelle prove narrative di memorialistica degli anni
Cinquanta in ordine alla rivalutazione dell’opera lacaviana ben prima de I fatti di Casignana. Ciò
non vale per Mimì Cafiero, pur risalente come primo abbozzo al 1949 e pubblicato dieci anni più
tardi, prova poco riuscita che però resta rilevante come passaggio alla misura del romanzo:
Sposato (2014), pp. 163-168. Talora infine emerge qualche forzatura critica, come quando viene
cassata senza appello l’ipotesi dello zio di La Cava, Francesco, come modello del protagonista del
romanzo, il medico Filippo Zanco (ivi, p. 190). Pur basandosi su di un’intervista dello stesso
autore, che lo identifica invece nel sindaco Francesco Ceravolo, sindaco di Casignana ai tempi
della strage, Bardascino sottovaluta (pur elencandoli) gli evidenti elementi in comune tra quelle
due figure. L’ipotesi della Sposato necessita di rilievi testuali per essere rigettata completamente
in quanto l’influenza di un modello sul personaggio può rivelarsi altrettanto profonda di quanto
un esplicito consapevole riferimento possa svelare. Interviste ed autocommenti sono spesso
autorevoli ma non esauriscono il compito dell’esegesi e della critica.
53
54
149
analizzano le fonti storiche e testimoniali utilizzate esplicitamente55 da La Cava e
la sua maggior consapevolezza storico-culturale – a differenziarlo dall’opera
apripista del cugino Perri ‒ connettendo però assai sbrigativamente questo
unicum alla sua bibliografia precedente. D’altronde il leitmotiv, più ironico che
provocatorio, del saggio è che I fatti di Casignana non siano un’opera del cantore
di Bovalino.56 Il romanzo viene infatti messo a confronto con due opere rilevanti,
benché anteriori: Fontamara di Ignazio Silone (1933) e Le terre del Sacramento di
Jovine (postumo, 1950). Il collante dei tre libri viene individuato nella
«compartecipazione ad una letteratura meridionalista capace per la prima volta
di andare oltre sè stessa, di narrare – malgrado la sconfitta del popolo ‒ un
processo di crescita collettiva»57. Ma La Cava andrebbe oltre, mostrando le
dinamiche socio-politiche conseguenti alla restaurazione locale, così come
all’affermazione nazionale del movimento fascista. La narrazione corale,
sviluppo inedito della poetica lacaviana, viene inoltre giudicata positivamente in
equilibrio con le vicende singolari ed intime dei protagonisti maggiori,
soprattutto dell’antieroe Zanco, che seguono il loro destino secondo un più
ampio disegno storico di classe.
Il terzo ed ultimo capitolo58 è dedicato al rapporto tra la critica letteraria
nazionale e l’autore calabrese. Viene dunque di nuovo rimarcato il divario tra
un’accoglienza generalmente positiva sulla stampa (tra cui Del Giudice,
Giannessi, Magris, Piromalli, Saponaro, Scrivano) ed un modesto successo di
pubblico, forse imputabile anche alla dislocazione dei media più potenti al nord
e quindi meno disponibili alle voci meridionali. Così come viene rivendicata al
romanzo la presa di distanza dal sorpassato neorealismo di marca meridionalista,
il superamento dell’intimismo dolorista ed autoflagellatorio e la sua apertura ad
un maturo realismo impegnato a svelare i macromovimenti di classe, di
stringente attualità anche al tempo dell’uscita del romanzo-documento
Bardascino (2012), pp. 23-46. Le fonti principali sono un saggio storico di Fernando
Cordova, con ampia documentazione archivistica (I fatti di Casignana del 1922 e l’attentato all’On.
Bottai, in «Historica», Reggio Calabria, 1965); l’articolo di Gaetano Cingari in cui, a partire dalla
testimonianza della vedova di uno dei protagonisti, si portano gli eventi ad exemplum antesignano
delle lotte agrarie meridionali (I fatti di Casignana e i moti contadini del primo dopoguerra, in
«Proposte critiche. Centenario della nascita di Mario La Cava», anno II, n. 1-2, gennaio-dicembre
2008, Cosenza, Pellegrini, pp. 169-179); la testimonianza di lotta politica nonché la preziosa
documentazione politico-amministrativa del sindacalista ed ex deputato Enzo Misefari, in cui
viene svelata la macchinazione preordinata degli eventi da parte delle autorità fasciste (Le lotte
contadine in Calabria nel periodo 1914-1922, Milano, Jaca Book, 1972).
56 Bardascino (2012), p. 7. «unicum del sistema letterario lacaviano» già in Sposato (2014), p.
188.
57 Bardascino (2012), p. 49. Cfr. Scrivano (1991), pp. 157-159.
58 Bardascino (2012), pp. 121-131.
55
150
(Scrivano) dello scrittore bovese. La lettura lukacsiana59, punto di forza
dell’analisi socio-letteraria di Bardascino, con la conseguente centralità della lotta
di classe, è però probabilmente un motivo di parziale debolezza per la riscoperta
del romanzo lacaviano. Il materialismo storico non pare categoria attualmente
beneaugurante per un romanzo e la sua coralità non sembra mostrare un appeal
sufficiente in questo tempo di narcisismo imperante.
Ancora latita una completa recensione dell’aspetto stilistico-narratologico, non
soltanto per I fatti di Casignana ma per tutta l’opera di La Cava. Mentre la critica
francese aveva inaugurato lo studio di questi ambiti in Sciascia, portando
l’italiana ad adeguarvisi, per l’amico di Bovalino ciò è ancora agli inizi.
Conclusione
Il percorso compiuto sembra corroborare l’ipotesi di partenza a favore di una
(ri)scoperta della produzione di Mario La Cava, considerata anche la risonanza
determinante provocata dal corposo carteggio con Sciascia, capillarmente
recensito ed apprezzato. Sia opere maturate nella compartecipazione al destino
della propria terra ed ormai classiche, e che dai classici mutuano originalmente,
come Caratteri o un unicum storico-romanzesco come I fatti di Casignana (ispirato
proprio dal sodale siciliano)60, sia libri d’occasione come Viaggio in Israele col suo
approccio fresco e non (programmaticamente) ideologico alla questione
mediorientale, lo confermano.61 Molti altri sarebbero gli spunti di
approfondimento riguardo a questi od altri scritti (senza dimenticarne la
pubblicistica) ma è un testimone che per ora si passa ad altri e ad altra sede. Senza
però aver prima espresso il seguente auspicio.
Senza nulla togliere al lavoro encomiabile di riscoperta da parte di piccoli e
medi editori, coadiuvati dalla passione e dall’acribia di curatori come Pasquino
Crupi, Renato Nisticò, Walter Vecellio e più recentemente Milly Curcio e Luigi
Tassoni, ormai è oltremodo matura nonché necessaria la consacrazione definitiva
con la pubblicazione in collana dell’opera omnia (compreso l’epistolario
Il nome di Lukacs era già stato fatto ma per il Bildungsroman, di tre lustri anteriore, Vita di
Stefano (1962): Sposato (2014), p. 179. La Cava peraltro si è sempre posizionato fra i terzaforzisti.
60 La genesi remota di quest’opera si legge nella lettera datata Bovalino 21 ottobre e nella
risposta da Racalmuto, 11 novembre 1969 in LC (2012), pp. 448-450.
61 Alla Shoah lo scrittore jonico si dedicherà pure in ambito giornalistico, pubblicando un
articolo sul «Corriere della Sera» del 13 febbraio 1984 a proposito del campo di concentramento
di Ferramonti (Tarsia, Calabria). L’umanità del comandante reggino maresciallo Marrari, ormai
di 93 anni, venne premiata dal governo israeliano su proposta dei sopravissuti e grazie
all’articolo. Lettera datata presumibilmente Bovalino, inverno 1984 (LC, 477).
59
151
inedito)62 da parte di un editore coraggioso quanto lungimirante. Alla
ripubblicazione delle singole opere (alcune già di nuovo esaurite), cui attendono
in questi anni soprattutto Donzelli ed alcuni editori calabresi63, andrebbe
affiancata o semmai fatta seguire la disponibilità del corpus integrale
sull’esempio dell’edizione sciasciana curata da Paolo Squillaccioti (peraltro
calabrese) per Adelphi, per non scomodare il ‘Tutto Gadda’ di Dante Isella. La
bibliografia meticolosamente ordinata della Sposato ne rapprenderebbe già una
solida base documentale. Sperando che anche il cantore di Bovalino trovi (e a sua
volta sia consacrato) come Sciascia il ‘suo’ Ambroise, se non come Montale il ‘suo’
Contini od Ungaretti il ‘suo’ Ossola. Ed insomma anche il messaggio trovi il suo
(giusto) mezzo. Perché, parafrasando proprio La Cava, per stare al centro anche
«un grande angolino» ha il suo prezzo.
Pier Paolo Pavarotti
Liceo Mario Allegretti – Vignola (Mo)
pierpaolo.pavarotti@iisparadisi.istruzioneer.it
Questo esito non è garanzia per sé del risultato, si veda ad esempio la scelta drastica (mai
più ampliata) cui è stata sottoposta Grazia Deledda (premio Nobel 1926) per i Meridiani da
Natalino Sapegno.
63 Va segnalato il bel sito internet dedicato all’autore (www.mariolacava.it), curato
dall’associazione «Caffè letterario Mario La Cava» di Bovalino, con introduzione alle opere,
rassegna della critica, materiale audio-video, iniziative culturali.
62
152
Riferimenti bibliografici
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Bardascino (2012)
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Casignana”. Un'approssimazione a Mario La Cava, Cuneo, Nerosubianco, 2012.
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153
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< http://www.mariolacava.it/Caterina_film.html> [= Crupi (1991), pp. 229-230].
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Roma, a cura di Renato Nisticò, Roma, Donzelli, 2000.
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Reggio Calabria, Quaderni di Calabria Oggi, 1991.
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Mario La Cava, Personaggio e Autore (con inediti ed un’intervista), a cura di
Stefano de Fiores, Reggio Calabria, Arti Grafiche Edizioni, 2015.
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1952 [poi Milano, Qualecultura/Jaca Book, 2003].
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La Bruyère (1931)
Jean La Bruyère, I caratteri, Milano, Sonzogno, 1931. Originale francese: Les
Caractères du Theophraste traduit du grec: avec Caractères ou Les Mœurs de ce Siècle,
Paris, Michallet, 1688.
LC (2018)
Mario La Cava & Leonardo Sciascia, Lettere dal centro del mondo (1951-1988),
Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 2012.
Magris (1975)
Claudio Magris, La Calabria è un romanzo, recensione a I fatti di Casignana,
«Corriere della Sera», 24 luglio 1975, p. 15.
Magris (2008)
Claudio Magris, La Cava e Voghera gemelli di stile, «Corriere della Sera», 28
settembre 2008, p. 33.
Nucera (2012)
Ida Nucera, Uno scrittore in piedi, in «Nostro Tempo», settimanale della diocesi di
Locri, 29 aprile 2012, p. 15.
Pedullà (2003)
Gabriele Pedullà, L'immagine del Meridione nel romanzo italiano del secondo
Novecento (1941-1975) in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», nn. 4748(2003), pp. 175-212.
Perri (1993)
Mario La Cava, Ritorno di Perri. Scritti su Francesco Perri, a cura di Marianna La
Cava, Milano, Jaca Book, 1993.
Pirandello (1908)
Luigi Pirandello, L’umorismo, Milano, Mondadori, 1986.
Procopio (1937)
Marianna Procopio, Pagine di diario in «Letteratura», III, 1 (luglio-settembre 1943),
pp. 74-80.
Quaderno d’Israele (1985)
Giorgio Voghera, Quaderno d’Israele, Pordenone, Edizione Studio Tesi, 1985.
155
Scrivano (1991)
Riccardo Scrivano, Il fascismo in Calabria, in Crupi (1991), pp. 157-159.
Sposato (2014)
Eleonora Sposato, Mario La Cava. La figura e l'opera, Reggio Calabria, Nuove
Edizioni Barbaro, 2014.
Teofrasto (1758)
Teofrasto, I caratteri di Teofrasto, coi caratteri, o costumi, di questo secolo del sig. La
Bruèyere, e la difesa di lui fatta dal sig. Costa, Giambattista Novelli, 1758.
Teofrasto (1919)
Teofrasto, Caratteri, introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Giorgio
Pasquali, Firenze, Sansoni, 1919.
Teofrasto (1994)
Teofrasto, Caratteri, introduzione, testo traduzione e note a cura di Luigi Torraca,
Milano, Rizzoli, 1994.
VE (1986)
Mario La Cava, Viaggio in Egitto ed altre storie di emigranti, Milano, Scheiwiller,
1986.
VI (1967)
Mario La Cava, Viaggio in Israele, Lucca, Fazzi, 1967.
VI (1985)
Mario La Cava, Viaggio in Israele, Cosenza, Brenner, 1985.
This paper, moving from the wide correspondence between the well known Sicilian
writer Leonardo Sciascia and the nowadays underrated Calabrian one, Mario La Cava,
tries to show evidences about a revival of this former author of the postwar Italian cultural
scene. A selective research has been spread through the works of La Cava, moreover his
aphoristic inspired debut «Caratteri», the picturesque «Viaggio in Israele», the socially
engaged «I fatti di Casignana», and the most recent critical studies. Interesting results
about his moral strictness and classical style, suggest the opportunity of a critical
complete new edition, also reassembling the scattered correspondence beyond his
narrative, dramatic, critical and journalistic production.
156
Parole-chiave: La Cava; Archiloco; Arendt, Caratteri; Viaggio in Israele.
157
CINZIA SACCOTELLI, La Mirtilla di Isabella Andreini
Lo scrittore francese Théophile Gautier, nell’opera Les Grotesques, afferma
che: «Une étude charmante et curieuse, c’est l’étude des poëtes du second ordre:
d’abord, comme ils sont moins connus et moins fréquentés, on y fait plus de
trouvailles, et puis l’on n’a pas pour chaque mot saillant un jugement tout fait ;
l’on est délivré des extases convenues, et l’on n’est pas obligé de se pâmer et de
trépigner d’aise à de certains endroits, comme cela est indispensable pour les
poètes devenus classiques»1 e continua affermando che la lettura di questi poeti
di second’ordine sia più ricreativa, essendoci nelle loro opere più originalità ed
eccentricità.
Mi avvalgo delle parole di Gautier per introdurre l’analisi della favola
pastorale di Isabella Andreini, donna apprezzata e rinomata in campo artistico e
meno studiata in quello letterario, sebbene le sue opere siano degne di attenzione.
Isabella Canali2 (Padova, 1562 – Lione, 10 giugno 1604), meglio nota come
Isabella Andreini, è stata attrice, comica gelosa, accademica intenta e poetessa
italiana.
Giovanissima, entra a far parte della Compagnia dei Gelosi, la più celebre –
per l’elevata professionalità – della Commedia dell’Arte. Assieme al marito
Francesco Andreini (attore anch’egli nel ruolo di Capitan Spaventa di Vall’Inferna)
dirige la compagnia e numerose saranno le tournée che li vedranno protagonisti
nelle varie città italiane (Roma, Napoli, Genova, Firenze, Bologna, Mantova,
Milano) sino a giungere alla corte del re di Francia, Enrico IV.
Lodata per il suo fascino e per la sua bellezza, oltre che per la sua erudizione,
dai più grandi poeti italiani (Tasso, Marino e Chiabrera), si cimentò lei stessa nella
produzione letteraria con la pubblicazione di opere di vario genere.
Isabella nobilitò, con la sua virtù, la professione di attrice e nel 1585 Tommaso
Garzoni la elogia con le seguenti parole:
La gratiosa Isabellla, decoro delle scene, ornamento dei theatri, spettacolo superbo non
meno di virtù, che di bellezza, ha illustrato ancora lei questa professione, in modo che,
Gautier (1856), p. 1.
Per uno studio più approfondito sulla figura di Isabella rimando a L’arte dei comici. Omaggio
a Isabella Andreini nel quarto centenario della morte 1604-2004, a cura di Gerardo Guccini, «Culture
teatrali», 10, 2004; Isabella Andreini, una letterata in scena a cura di Carlo Manfio, Padova, Il
Poligrafo, 2014; La divina Isabella: vita straordinaria di una donna del Cinquecento, di Francesca
Romana de’ Angelis, Sansoni editore, 1991.
1
2
158
mentre il mondo durarà, mentre staranno i secoli, mentre havran vita gli ordini, e i
tempi, ogni voce, ogni lingua, ogni grido risuonarà il celebre nome d’Isabella.3
Tra le varie rappresentazioni che la videro protagonista4, di grande
importanza, per il nostro studio, è la messa in scena, il 31 luglio 1573 a Belvedere,
di un testo d’autore come l’Aminta di Torquato Tasso, nella quale lei stessa
interpretava la figura maschile dell’omonimo protagonista, dando prova della
sua versatilità e del grande rigore scenico che la contraddistingueva.
Nel 1601 Isabella pubblica le Rime (una raccolta di sonetti, ecloghe, madrigali,
sestine, canzonette e scherzi) e nel sonetto introduttivo sottolinea la sua
poliedricità: «E come ne’ teatri or donna ed ora / uom fei rappresentando in vario
stile / quanto volle insegnar Natura ed Arte».5
La sua interpretazione dell’Aminta viene ricordata e lodata anche da Gherardo
Borgogni che dirà:
Or Aminta si mostra et ora Clori
Or sembra Amore con la faccia ardente
Fra comici, fra Ninfe e fra pastori.
Or con fronte serena, or con dolente,
In tragico sermon appar di fuori.
Or pianto versa, ed or minaccia morte,
Con nobil arte e con maniere accorte.6
Questo permette all’Andreini di addentrarsi nel mondo della favola pastorale,
di lunga tradizione e fiorente fortuna, tanto da scrivere e pubblicare lei stessa una
pastorale nel 1588, la Mirtilla.7
Garzoni (1585), p. 901.
Di grande rilevanza è la rappresentazione della Pazzia, definita “commedia d’Isabella
commediante”, il 13 maggio 1589, in occasione delle nozze di Ferdinando de’ Medici con la
principessa francese Cristina di Lorena, di cui ci dà testimonianza Giuseppe Pavoni, nel suo Diario
(1589): «L’Isabella in tanto trovandosi ingannata dall’insidie di Flavio […] si diede del tutto in
preda al dolore, e così vinta dalla passione e lasciandosi superare alla rabbia, ed al furore uscì
fuori di se stessa, e come pazza ne n’andava scorrendo per la Cittade, fermando hor questo, e
hora quello, e parlando hora in spagnuolo, hora in greco, hora in italiano, e molti altri linguaggi,
ma tutti fuori di proposito [...]. Si mise poi ad imitare li linguaggi di tutti li suoi Comici, come del
Pantalone, del Gratiano, del Zanni [...] tanto naturalmente, e con tanti dispropositi, che non è
possibile il poter con lingua narrare il valore, e la virtù di questa donna. Finalmente per Fintione
d’arte Magica, con certe acque, che le furono date à bere, ritornò nel suo primo essere, e quivi con
elegante, e dotto stile esplicando le passioni d'amore, ed i travagli, che provano quelli, che si
trovano in simil panie involti, si fece fine alla Comedia; mostrando nel recitar questa Pazzia il suo
sano, e dotto intelletto; lasciando l’Isabella tal mormorio, e meraviglia ne gli ascoltatori, che
mentre durerà il mondo, sempre sarà lodata la sua bella eloquenza, e valore».
5 Andreini (1601) sonetto proemiale, vv. 9-11, p. 1.
6 Borgogni (1599), p. 134, stanza 11.
7 Mirtilla, favola pastorale della Signora Isabella Andreini, dedicata all’Illustrissima et
Eccellentissima Sig. Donna Lavina della Rovere, marchesa del Vasto, In Verona, per Sebastiano delle
Donne e Camillo Franceschi compagni, 1588.
3
4
159
Nella lettera dedicatoria alla Marchesa del Vasto, Isabella Andreini afferma
che la Mirtilla è «la prima fatica […] che sia venuta in luce»: si tratta di una favola
boschereccia in cinque atti pubblicata a Verona quando Isabella aveva ventisei
anni8 e persino tradotta in francese.9 La fortuna della Mirtilla è sancita anche da
una moderna edizione inglese.10
Opera di successo immediato, tanto da essere ristampata11 e riproposta più
volte tra la fine del Cinquecento e nel Seicento, ricalcava la pastorale tassiana
dell’Aminta, mettendo però in scena due protagoniste femminili: Mirtilla e Fillide.
Nel Cinquecento l’Aminta, valutata dai contemporanei come opera innovativa,
fu elevata al rango di modello e si diffuse, nuovamente, il genere drammatico
pastorale, caro alla tradizione classica (si pensi a Teocrito e Virgilio). Numerosi
saranno i drammi pastorali scritti e pubblicati in questo secolo tra cui citiamo il
Pastor fido di Guarino, l’Egle di Giraldi Cinzio, la Danza di Venere di Angelo
Ingegneri e il Sacrificio di Agostino Beccari.
All’interno di questo filone letterario12 si inserisce Isabella Andreini con la sua
Mirtilla e Angelo Ingegneri, teorico della drammaturgia, nella sua opera Della
poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, consacra l’opera
Sebbene sia stata composta molto tempo prima; infatti nella lettera dedicatoria a Carlo
Emanuele I di Savoia del libro delle Lettere si legge: «appena sapei leggere (per dir così) che io, al
meglio, che seppi, mi diedi a comporre la mia Mirtilla favola boschereccia, che se n’uscì per le
porte della stampa».
9 L’opera fu tradotta due volte in Francia: un’inedita traduzione in prosa di Roland du Jardin
Sieur des Roches, Amours des Bergers (posseduta dalla Bibliothèque Nationale de Paris, Ms. FR
25483) e la Myrtille, Bergerie, mise en françois, Paris, M. Guillemot, 1602.
10 Mirtilla. Pastoral, edited and translated by Julie D. Campbell, Eastern Illinois University,
2002.
11 Mirtilla. Pastorale d’Isabella Andreini comica gelosa, In Verona, appresso Girolamo Discepolo,
1588; Mirtilla. Pastorale, In Ferrara, appresso Vittorio Baldini, 1590; Mirtilla pastorale. D’Isabella
Andreini comica gelosa, In Mantoua, per Francesco Osanna stampator ducale, 1590; La Mirtilla.
Pastorale della signora Isabella Andreini comica Gelosa. Di nuouo dall'istessa riueduta, et in molti luoghi
abbellita. In Bergamo, per Comin Ventura, 1594; Mirtilla. Pastorale d’Isabella Andreini comica Gelosa.
Nouamente ristampata, Venetia, appresso Marc’Antonio Bonibelli, 1598; La Mirtilla. Fauola
pastorale della signora Isabella Andreini. Comica gelosa. Di nuouo dall’istessa riueduta, et in molti luoghi
abbellita. In Verona, per Francesco dalle Donne, & Scipione Vargnano suo genero, 1599; Mirtilla
pastorale di Isabella Andreini, Comica Gelosa, nuovamente corretta e ristampata, Venezia, Lucio
Spineda, 1602; Mirtilla. Pastorale, in Milano, per Girolamo Bordoni and Pietromartire Locarni,
1605; Mirtilla. Pastorale, in Venezia, per Ghirardo Imberti, 1616; Mirtilla. Pastorale, in Venezia, per
Ghirardo Imberti, 1620.
12 Per un approfondimento sulla Mirtilla ispirata all’Aminta tassiana rimando a F. Vazzoler,
Le pastorali dei comici dell’Arte, la ‘Mirtilla’ di Isabella Andreini, in Sviluppi della drammaturgia pastorale
nell’Europa del Cinque-Seicento, atti del convegno di studi (Roma, 23-26 maggio 1991), a cura di M.
Chiabò, F. Doglio, Viterbo, Union Printing Editrice, 1992; L. Ricco, «Ben mille pastorali». L’itinerario
dell’Ingegneri da Tasso a Guarini e oltre, Roma, Bulzoni, 2004.
8
160
dell’Andreini accanto alle opere «dei più celebrati ingegni» e dei più «qualificati
autori nel campo della poesia scenica».13
Persino il nome della pastorale non è casuale, ma scelto con cura: Isabella
riteneva che «colui, che si propone di comporre una commedia [deve] prima
considerar ben bene tutta la favola, la quale (come vuole il filosofo) è l’anima del
Poeta, et quella tutta come in un corpo ridotta darle un titolo conveniente» 14; in
un altro passo dei Fragmenti scriverà «io mi son compiaciuta di leggere, e di
rilegger più volte la Poetica d’Aristotele, come principale di tutte l’altre poetiche,
et ho trovato, che il titolo si debbe pigliare dal nome della persona principale,
intorno al quale è il soggetto di tutta la commedia».15
Sin dalla dedicatoria, Isabella ritiene la pubblicazione della sua opera
«avventura troppo ardita» e allo stesso tempo afferma che cominciò «quasi da
scherzo […] ad attendere agli studi della Poesia» trovando così tanto diletto da
non poter più trattenersi «da sì fatti intrattenimenti».
Tra i nomi presenti nell’elenco degli interlocutori, con cui si apre la pastorale,
è evidente il richiamo alla tradizione classica del genere pastorale in Coridone e
Tirsi e la presenza del Satiro rinvia alle prime pastorali ferraresi.
Su modello tassiano, la Mirtilla16 si apre con un prologo in cui si mette in scena
il dialogo tra Venere e Amore, nel quale la madre si chiede come mai «alte querele
s’odono» contro il suo amato figlio spesso definito «tiranno, micidiale, empio e
fallace», riprendendo una serie di «infami e disonesti avvenimenti» a carattere
mitologico. Difatti v’è un lungo elenco di amori infelici, ripresi dalle Metamorfosi
di Ovidio, come – per citarne alcuni – Piramo e Tisbe (Met. IV, 55-166), Alcione e
Ceice (Met. XI, 440-748), Mirra innamorata del padre Cinira (Met. X, 298-518) e
altri amori «miseri e dolenti» ripresi dalle Heroides ovidiane come Filli e
Demofonte (Her. II) o Bibli e Canace (Her. XI); esibisce, così, tutti i possibili amori
da quelli solitari a quelli che ricorrono agli inganni sino a quelli che portano
inevitabilmente alla rovina.
Isabella sceglie di riprendere e mettere in scena un universo femminile
composto di ninfe, divinità e donne sottoposte al capriccio e alla violenza di
uomini e dei. Figure, quasi tutte vittime, che si agitano nello spazio compromesso
di un amore respinto o sul quale vige un divieto.17
Ma Amore si difende dalle accuse rivoltegli distinguendo se stesso da «quel
malvagio, che di me prendendo / la forma, ogn’ora gli inganna», il furore è la
forza che muove gli infelici, «egli si finge Amore per ingannar le genti» e «in ogni
Ingegneri (1989), n. 35, p. 4.
Andreini (1627), pp. 59-60.
15 Ibidem.
16 Per le citazioni della Mirtilla, l’edizione di riferimento è Doglio (1995).
17 de’ Angelis (1991), p. 96.
13
14
161
cosa / mente la mia figura» e sotto «larve mentite» promette pace e conforto a chi
lo segue, avvolgendolo di «piacer falso».
In risposta, Venere contrappone la verità, la prudenza, la fede, il timore,
l’onore, il vero contento, la pace, l’onestà e la sicurezza - veri «seguaci» d’Amore
- agli «abominevoli seguaci» del furore come errori, furori, odii, disdegni, rabbia,
fraude, menzogna, pazzia, sfrenato ardire, disperazione, inganno, guerra e
morte.
Amore, allora, continua anticipando il contenuto della favola pastorale che,
sebbene cominci con amori disperati e infelici, si concluderà con un ritorno
all’ordine e il trionfo dell’Amore «vero custode delle genti e donator di gioia e di
piacere».
A differenza dell’Aminta, Isabella mette in scena tre coppie intrecciando le loro
storie: il pastore Uranio, innamorato della ninfa Ardelia, sarà inseguito dalle
ninfe Mirtilla e Fillide; tuttavia Ardelia si confessa, sin da subito, seguace di
Diana e ricusa ogni proposta di Uranio lasciandolo triste e amareggiato. Il pastore
Tirsi, invece, è fermo oppositore d’amore, ma si riscoprirà innamorato di Mirtilla.
Infine, il pastore Igilio, sin dalle prime scene, è innamorato di Fillide, che non
ricambia il suo sentimento. Attraverso peripezie e scontri la favola si conclude
con il trionfo di amore e l’unione di Uranio con Ardelia, Filli con Igilio e Tirsi con
Mirtilla.
Analizziamo ora in maniera più approfondita l’intera pastorale, cercando di
evidenziare somiglianze o differenze con il genere nel quale si inseriva.
L’atto primo si apre con un dialogo tra i pastori Uranio e Tirsi, che si configura
come una diatriba tra sentimento e ragione. Uranio, infatti, è perdutamente
innamorato di Ardelia, che non ricambia il suo amore provocando così «tante
miserie» nel pastore che vorrebbe avere più controllo sui propri sentimenti e
dichiara, malinconicamente, che «troppo felice è quel pastor, che puote / amare e
non amar quand’egli vuole»; ma il razionale Tirsi lo rimprovera perché «chi
consente del suo mal […] / sol di se stesso, e non d’altrui si doglia» e
solennemente afferma che «libero è il voler nostro, e può volere / pur, malgrado
d’Amor, quel ch’egli vuole» professandosi così libero dal potere e vincolo
d’amore e sancendo il primato della volontà.
Uranio replica considerando come poco vale il nostro voler quando si è
soggiogati dalla forza dell’Amore, da cui è difficile liberarsi e Tirsi lo esorta a
fuggire poiché «co ‘l fuggir si vince Amore».
Ma Uranio sa che il suo destino è quello di andare «tra i dannati spiriti» perché
non può eludere Amore che lo troverebbe ovunque e non risparmia nessuno.
A questo punto Tirsi si lancia in un’invettiva contro Amore con parole piene
di amarezza:
Amore altro non è che furor cieco,
un ben dannoso, un malsicuro appoggio,
162
tiranno ingiusto al fin de’ vostri cori.
Il ben, ch’egli v’addita è finto, e ‘l male
purtroppo vero; e s’egli pur talvolta
promette qualche ben, tosto vi toglie
la speme di fruirlo: onde maggiore
si fa la doglia, e più cresce l’affanno.
Questi sono i piaceri, questi i contenti,
che voi provate amando,
per un lieve piacere,
mille gravi tormenti,
e per poca dolcezza tanto amaro;
né mai provate un bene,
senza tormenti e pene:
onde ben posso dir ch’ogni piacere,
ch’Amor vi fa gustare, altro non sia,
che diletto fugace e dolor fermo,
dubbio ben, certo male,
onor celato e disonor palese
fede perfida e frale,
sollecito furor tenace e saldo,
pigra ragion, senso veloce e presto,
incertissima gioia,
e certissima noia.
A queste parole, Uranio non può che sottolineare la potenza dell’amore e la
cecità del suo interlocutore nel non riconoscere il «possente Nume»; così Tirsi lo
invita a ricambiare il sentimento di Filli, piuttosto che seguire chi lo fugge.
Come replica, Uranio inizia una lunga e ricca descrizione di Ardelia,
all’interno della quale si possono riconoscere elementi cari alla tradizione lirica
amorosa che va dal Petrarca al Tasso.
Notevole è il richiamo tassiano, come emerge dalla seguente descrizione del
seno di Ardelia.
Che seco il latte perde; il seno è fatto
Di schietto avorio con due poma acerbe,
che tremolar si veggon sotto un velo
(Mirtilla, atto I, scena I, vv. 361-363)
Scopria sue fresche rose,
ch’or tiene nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude.
(Aminta, atto I, scena II, vv. 690-692)
Uranio non può sottrarsi a questo giogo, a questo laccio da cui egli è avvinto a
tal punto da pensare che possa essere vittima di un incantesimo; evidente è la
ripresa di un tema di lunga tradizione:
Che fascino, baleno
Arte maga, invid’occhio.
(Mirtilla, atto I, scena I, vv. 451452)
Udimmi Mopso poscia, e con
maligno
Guardo
mirando
affascinommi.
(Aminta, atto I, scena II, vv.
644-645)
Nescio quis teneros oculus mihi
fascinat agnos.
(Bucoliche, III ecloga, v. 103)
163
Con l’alternarsi di endecasillabi e settenari, Isabella presenta un gioco colmo
di figure retoriche, antitesi, ripetizioni, ossimori e metafore e inizia a dipanare i
vari intrecci d’amore presentando nella seconda scena un monologo di Fillide
(personaggio rappresentato in scena da Isabella Andreini) che denuncia il suo
tormento, la sua disperazione che la induce «a desiar la morte»: invano chiama
Uranio e spera di esser da lui ricambiata e il suo monologo è colmo di tristezza
tanto che afferma che «quanto ha di dolore il mondo / tutto in quest’alma misera
s’annidi».
Subito dopo, l’Andreini introduce la terza scena tra Igilio pastore,
perdutamente innamorato di Fillide tanto da invidiare «l’erbe, i sassi, i fiori, le
frondi, / che son tocche da lei» e voler tramutarsi panicamente, divenendo pianta
come il Platano che fece ombra ad Europa e Giove (Ovidio, Met. II, 832-875) e la
stessa Filli, che seppur non ricambi il sentimento di Igilio, non si presenta altera
e scostante, ma comprensiva e gentile. Piene di dolcezza e pietà sono, infatti, le
parole con le quali Filli rifiuta l’amore di Igilio:
Se da l’opere nostre,
si può vedere il core,
credo che tu conosca, Igilio, quanto
mi spiaccia e mi rincresca non poterti
dare del tuo servir giusta mercede;
ma non posso dispor di quelle cose,
che per colpa d’Amor non son più mie.
Io d’altrui sono e non posso essere tua
Che mia né anco sono.
Igilio si chiede allora come sia possibile che «essendo amor comune / non sia
comune ancor quel desiderio / ch’egli con la sua face accende in noi» e Filli, piena
di sofferenza, sente dolore non potendolo ricambiare.
Il secondo atto è occupato dalla figura di Ardelia, antagonista di Filli e amata
da Uranio, la quale esordisce dichiarandosi libera e devota solo «a quella casta
Diva / che co ‘l bel lume suo rischiara l’ombre, et inargenta le campagne, e i boschi
/ a lei sacrati».
La seconda scena è animata dal dialogo tra Ardelia e Mirtilla, che confessa il
suo amore per Uranio e la sua sofferenza dovuta proprio all’amore «d’ogni mal
radice»; alla sofferente e malinconica Mirtilla si contrappone Ardelia, che si lancia
in un invettiva contro l’«empio figlio» di Venere che conduce gli amanti alla
disperazione e li dispregia tutti tanto da affermare aspramente che «senza
intelletto / giudico chi lo segue»; ma Mirtilla la esorta a non essere così sicura
perché potrebbe un giorno divenire serva di Amore.
Ardelia, allora, con un adynaton, marca la sua fiera opposizione all’amore: «più
tosto tornerà l’antico Caos / che in me s’annidi mai pensier d’Amore» e si affida
alla casta Diana; in risposta Mirtilla le ricorda che proprio quella «casta Diva» è
164
stata vittima e serva dell’amore e richiama le vicende amorose della dea con
Endimione e Pan.
Lungi dal considerare Ardelia una rivale in amore, Mirtilla le propone di
nascondersi all’ombra della Quercia per udire Uranio che stava per giungere, ma
quello che odono è una dichiarazione dello stesso per Ardelia poiché «di lei
prigioniero e da lei vinto».
La terza scena del secondo atto, così, si configura come un triplice dialogo ove,
con una modalità da devinalh, si intrecciano le vane dichiarazioni d’amore di
Mirtilla a quelle piene d’odio di Ardelia con le risposte di Uranio.
Mirtilla: Deh Uranio ascolta me, che t’amo quanto
amano l’alghe e l’onde i muti pesci.
Uranio: Deh Ardelia ascolta me, che t’amo quanto
aman l’api ingegnose i vaghi fiori.
Ardelia: Pastor lasciami star, ch’io t’odio quanto
odiano il lupo le belanti agnelle.
Uranio: Ninfa lasciami star, ch’io t’odio quanto
odian gli augelli le viscose panie.
Mirtilla: Non ha tanti colori Primavera,
quanti sono i martiri
che tormentano per te l’anima mia.
Uranio: Non risplendono nel ciel tante fiammelle
la notte, quanti sono
i mali che per te patisco ognora.
Ardelia: Tanti augelli non van per l’aria a volo,
quante sono le noie
che per te sento quando t’odo e veggio.
Uranio: Tanti strai non aventa il crudo Amore,
quanti sono i tormenti
che con l’odiata tua vista mi dai.
E su questa falsariga continuano le battute tra i tre interlocutori e, riprendendo
la tradizione bucolica, ciascuno promette all’altro qualcosa in cambio d’amore.
Mirtilla: Se m’accetti per tua, donar ti voglio
un velo ove vedrai con bel lavoro
del miserello Adon la fiera morte:
e Venere vedrai, che infuriata,
per far vendetta del suo bene estinto,
manda a le selve i pargoletti Amori,
e par che dica: - Qui presa menate
165
la dispietata belva, acciò ch’io possa
sfogar contra di lei l’irato core-.
Uranio: Se mi accetti per tuo, leggiadra ninfa,
donar ti voglio un arco d’or fregiato
ove vedrai la dotta mano impresso,
di varii fiori e persa coronato
Imeneo con polita e bella guancia,
che tien nella sinistra un vel purpureo
e nella destra una facella accesa,
e lo vedrai sì bello e ben composto,
che sembra spirto aver voce e favella.
Ardelia: Se tu mi lasci stare Uranio omai,
donar ti voglio il mio Torrente fido,
che tra quanti mi tengo amati cani,
questo m’è assai più caro e più gradito,
il quale con ragione invero porta
di veloce torrente il nome altero;
poiché fiera non è per questi boschi,
sia pur quando si vuol fugace e presta
ch’egli correndo non la fermi o prenda,
o sia nel bosco o corra ‘l monte o ‘l piano.
Ciascuno promette all’altro un dono e, come nella poesia ellenistica e in
particolare in Teocrito (cfr. la descrizione del vaso nella bucolica Tirsi o la
canzone), con la tecnica dell’ἔκϕρασις descrivono il dono che si arricchisce di
storie e rimandi mitologici.
Mirtilla vorrebbe donare ad Uranio un velo che raffigura il triste e infelice
amore tra Venere e Adone e la disperazione della dea dopo la sua «fiera morte»,
quasi a sottolineare la sofferenza che lei stessa prova nei suoi confronti.
Uranio, invece, offre come dono un arco d’oro, intriso di fiori, con Imene
rappresentato, come nell’antichità, coronato di fiori che tiene una torcia nella
mano destra e un velo da sposa nella sinistra; questo dono è un chiaro segno del
tipo di relazione che Uranio vorrebbe instaurare con Ardelia, un amore
coniugale, sancito e consacrato dal dio che, nell’antichità, proteggeva il rito del
matrimonio.
Questi versi richiamano alcuni dell’epitalamio (confluito nella raccolta
dell’Amor coniugale), che Giovanni Pontano scrisse nel 1483 per le nozze della
figlia Aurelia e recitano così:
Felice di delizie, o letto, e di cari sussurri,
trovasi in te contento l’uno dell’altro sposo.
Pane congiunge le canne, ma Imene congiunge gli amanti
ed ama Pan, le canne dolce Imeneo gli suona:
166
Imen cui piacciono il velo nuziale e dei giovani i baci,
Imeneo che la pace del comun letto brama.18
Uranio promette un dono anche per Mirtilla «se di noiarmi omai resti» e cioè
un vaso con raffigurate storie tratte dalle Metamorfosi ovidiane che
rappresentavano le diverse trasformazioni di Giove in cigno, in aquila e in
pioggia d’oro.
Uranio: Se di noiarmi omai resti, Mirtilla,
donar ti voglio un vaso ove vedrai,
Giove da un canto trasformato in cigno,
che sta lieto nel sen de la sua Leda;
e da l’altro il vedrai che per Calisto
ha preso di Diana il viso e i panni,
per il bel Ganimede il vedrai poscia
da l’altra parte in Aquila cangiato,
e per Danae da l’altra in pioggia d’oro.
La scena si conclude con una serie di domande senza risposta di Mirtilla
costruite con la doppia ratio della ripetizione e dell’antitesi.
Deh perché segui, Uranio, chi ti fugge?
De perché fuggi, Uranio, chi ti segue?
Perché ami tu chi t’odia?
Perché odii tu chi t’ama?
Deh perché prezzi tu, misero amante,
una donna crudel che ti disprezza?
Deh perché sprezzi, discortese amato,
una fedele amante che ti prezza?
Deh, fuggi chi ti fugge,
sprezza chi ti disprezza,
accogli chi ti segue,
rendi amor per amor, odio per odio.
Nell’atto terzo, invece, si allarga la catena d’amore e nella prima scena è
protagonista il Satiro che invano ama la «cruda Filli» e mentre «sotto le piante /
scherzano a l’ombra le leggiadre Ninfe, / co’ lascivi Silvani, e co’ Pastori», Filli gli
sfugge; così il satiro pensa di usare «l’inganno» e prenderla con la forza e nella
seconda scena, palesandosi a Filli che continua a negarglisi, svela la sua
intenzione: «ingrata / voglio nuda legarti a quella dura Quercia, / ove con strazio
finirai tua vita». Ma Fillide gioca d’astuzia e finge inizialmente di
accondiscendere al suo amore e, mentre nell’Aminta tassiana Silvia – sempre nella
terza scena – riesce a liberarsi dall’abuso del satiro grazie all’intervento di
Aminta, nella Mirtilla dell’Andreini, Filli rappresenta la donna forte e capace di
18
Pontano (1920), libro III, vv. 57-62.
167
risolvere le situazioni con le proprie forze e risorse tanto da dire «or hai pur
finalmente conosciuto, / ch’io mi beffo di te qual Donna mai».
Nella scena di Filli che lega lentamente il Satiro e continua a ritardare ad arte
il momento del bacio, la Andreini riscrive antichi topoi misogini sulle malizie
delle donne e insinua fremiti di sensualità nel graduale crescendo degli atti della
ninfa sul Satiro legato.19
Fillide: Tu sai che ‘l timore
è proprio degli amanti, e non vorrei
invece d’acquistarmi
la grazia tua, privarmene per sempre.
Satiro: Ah non temer di quello
di che temer non déi.
Fillide: Di questo mi rallegro; ma, cor mio,
tu sei sì grande ch’io non posso aggiungere
al ben desiderato; ed è bisogno,
che con ambe le mani m’appigli un tratto
a la tua bella barba:
in questo modo, china bene il capo.
Satrio: Ohimè fà piano, che ti pensi fare?
Tu mi strappi la barba; ferma, ferma.
Fillide: Eccomi ferma; ma tu non ti muovere,
acciò, ch’io possa darti mille baci:
o corna mie, voi mi feristi il core.
Satiro: Ohimè non far sì forte; non mi torcere
il collo, ohimè, da ver, che mi fai male.
Fillide: Perdonami cor mio, ch’io non credeva
di farti male; o che mammelle morbide.
Satiro: Non pizzicar sì forte, ohimè, non fare.
Fillide: Infine non mi posso contenere
d’accarezzarti.
Satiro: O che belle carezze!
Fillide: Almen non ti sdegnar, vita mia cara.
Satiro: Baciami presto, che farem la pace;
e se tu non mi baci, voglio darti
cattiva vita, e troverommi un’altra
ninfa amorosa.
Fillide: Chiudi quella bocca,
se non vuoi ch’io mi muoia di dolore.
Satiro: Non dar sì forte, ora che insania è questa
che sempre mi fai male?
Fillide: Ah discortese
dimmi ond’avvien ch’ogni cosa t’offende
di quel ch’io fo? E pur n’è testimonio
il ciel che tutto vien da troppo Amore.
19
Doglio (1995), p. 12.
168
Filli non solo riuscirà a legare il Satiro, ma si farà beffe di lui lasciandolo preda
dei lupi affamati.
Dopo aver invertito i ruoli, sottolineando la superiorità della donna sul satiro,
Isabella, nella scena terza, presenta un personaggio comico come il Gorgo
Capraio che farà un vero e proprio elogio «al mangiar e al bere», piaceri superiori
a quelli dell’amore e della caccia, e, avvalendosi dei cinque sensi, esalterà la
voluttà gastronomica.
Subito dopo, introduce una scena tra Filli e Mirtilla ed entrambe si riconoscono
innamorate – e non ricambiate – di Uranio, ma la loro discordia non sfocia in
litigio, bensì decidono di dirimere le loro «amorose contese» alla presenza di
Opico e sfidarsi in un canto amebeo.
L’ultima scena del terzo atto, infatti, vede protagonista il vecchio pastore
Opico in qualità di giudice della gara di canto tra Mirtilla e Fillide.
Forte è il richiamo alla terza ecloga virgiliana nella quale Dameta e Menalca si
sfidano con uno “stornello” alternato in presenza di Palemone.
Opico: Or tu comincia Filli,
e poi segui Mirtilla;
cantate dunque a prova,
che ‘l cantar a vicenda aman le Muse.
Palaemon: Incipe, Damoeta; tu deinde
sequere, Menalca.
Alternis dicetis:
amant alterna Camoenae.
Filli: Quattro e sei pomi accolti in un sol ramo
serbo a la mia capanna e gli destino
al mio vago pastor che cotant’amo.
Menalcas: Quot potui, puero, silvestri ex arbore
lecta,
aurea mala decem misi: cras altera mittam.
Mirtilla: Una fromba da me con bel lavoro
fatta di seta e di fin or contesta,
sarà don di colui che amo e adoro.
Damoetas: Parta meae Veneri sunt munera;
namque notavi ipse locum,
aëriae quo congressere palumbes.
Filli: L’empir il ciel di strida, ohimè che vale
E ‘l crescer acqua co ‘l mio pianto a l’acqua,
se non m’acquista fede al mio gran male?
Menalcas: Quid prodest me ipse animo non
Spernis, Amynta, si,
dum tu sectaris apros, ego retia servo.
Filli: La neve al sole si dilegua, e ‘l foco
strugge la cera, e a me lo sdegno e l’ira
d’Uranio il cor consuma a poco a poco.
Damoetas: Triste lupus stabulis, maturis
Frugibus imbres,
Arboribus venti, Amaryllidis irae.
Mirtilla: Giovan l’erbe agli agnelli, a l’api i fiori; a
me sol giova contemplar d’Uranio
nel vago viso i bei vivi colori.
Menalcas: Dulce satis umor, depulsis
Arbutus haedis, Lenta salix feto pecori,
mihi solus Amyntas.
Nella parte finale della contesa, come da tradizione bucolica (cfr. la terza
ecloga di Virgilio), le ninfe si sfidano a colpi di indovinelli.
Fillide: Dimmi, ninfa, qual è quell’animale,
che ne l’acqua si crea, poi vive in fiamma,
Damoetas: Dic quibus in terries (et eris mihi
magnus Apollo)
169
e tuo farà questo dorato strale.
Tres pateat caeli spatium non amplius ulnas.
Mirtilla: Dimmi qual pesce in ocean s’asconde che
tremar face chi lo tocca a pena e due caprette avrai
bianche e feconde.
(Mirtilla, III atto, vv. 17778- 1783)
Menalcas: Dic quibus in terries inscripti nomina
regum
Nascantur flores, et Phyllida solus habeto.
(Virgilio, Ecloga terza, vv. 104-107)
Fillide chiede quale sia quell’animale che si genera in acqua e poi vive in
fiamma e, a mio parere, si riferisce alla salamandra, un anfibio che, secondo una
credenza diffusa già nell’antichità e tramandatasi nella cultura medievale
europea, può vivere nel fuoco e spegnere la fiamma.
Quest’animale, simbolicamente, rappresentava anche la fede che non cede a
tentazioni e il coraggio di fronte alle sofferenze e si potrebbe ravvisare una
somiglianza con la perseverante fede di Fillide.
Mirtilla, invece, si riferisce alla torpedine: un animale che vive nei fondali
dell’Oceano Atlantico dotato di un particolare organo definito organo
elettrogeno in grado di produrre un campo elettrico.
Il canto amebeo, come in Virgilio, si conclude con il riconoscimento, da parte
di Opico, della «parità di valore» tra Fillide e Mirtilla e l’esortazione a non litigare
tra loro, a smettere d’amare chi non le ama ed essere amiche e non rivali.
Il quarto atto inizia con un dialogo tra i pastori Tirsi e Opico nel quale il
razionale Tirsi manifesta quelli che sono i piaceri che «nel cacciar si provano»
denunciando la triste e sofferta condizione di Uranio, posseduto da Amore; ma
Opico lo ammonisce dicendogli che «chi teme del mal più, che non deve/ invece
di fuggirlo, alcuna volta nel peggio intoppa». Tirsi, nel quale prevale la ragione,
sprezza l’Amore e si sente superiore ad esso tanto da affermare che
quest’arco che mi diede in dono
la dea del primo cielo,
non mi mancheran mai piaceri e giochi:
quest’è quell’Arco onde non osa Amore
accostarmisi punto,
che teme rimaner ferito, invece
di ferir me.
Opico gli ricorda che non deve esser tanto ardito perché «soverchio ardir
conduce altrui sovente a morte».
La seconda scena si articola col dialogo tra Tirsi e Coridone, il quale ama
riamato Nisa.
Coridone, avendo udito il fiero e ardito discorso di Tirsi, gli risponde che
«diporti piacevoli e soavi / sono quei de la caccia; ma rispetto / a piaceri amorosi
/ son’ombra, fumo, sogno, nebbia e vento» e con un discorso pieno di elementi
pastorali sottolinea come tutto è attraversato dall’amore, che la sapienza e la
ricchezza non bastano per essere felici e per rafforzare quest’idea fa l’esempio di
170
Paride che tra Giunone, Pallade e Venere «più prezzò di bella Donna, / gli
abbracciamenti, e l’amorose gioie, / che ‘l profondo sapere e le ricchezze».
Queste parole, per Tirsi, sono una vera e propria rivelazione e lui, che prima
riteneva l’amore «peste de’ mortali», cambia idea e il suo cuore ostinato comincia
ad addolcirsi.
Isabella Andreini, tramite Coridone, affronta il tema dell’amore «maritale», la
gioia e il diletto che provano gli amanti che «s’aman l’un l’altro» e, con una serie
di rimandi ai poemi didascalici sulla caccia e sulla coltivazione, Coridone mostra
come anche in natura le piante e gli animali sentano «d’amor l’alta possanza» e
«le ritorte / viti s’abbraccian volentieri a l’olmo, / e al pioppo suoi cari mariti; il
mirto / ama la bianca oliva» e prosegue con gli esempi - quasi facendone un
poemetto didascalico - concludendo il suo discorso con un inno alla felicità «di
due cuore amanti / cui marital ‘amor lega e congiunge».
Mosso dalle parole di Coridone, il duro cuore di Tirsi si intenerisce e scopre di
essere innamorato di Mirtilla e riesce, nella terza scena, a discorrere con lei,
dichiarandole il suo amore e offrendole dei doni; ma Mirtilla le rivela il suo amore
non corrisposto per Uranio e alla richiesta di Tirsi , che suona come un refrain
paremiografico, di «ama chi t’ama», Mirtilla risponde scardinando l’idea della
civiltà cortese, veicolata dal libro sulla natura dell’amore di Andrea Cappellano,
che rivendicava l’autenticità del sentimento amoroso e la legge d’amore che non
consente che chi è amato non riami, ma afferma «ah s’ogni amato riamar dovesse,
/ per natural costume, io non sarei / come tu vedi afflitta, e mal contenta».
La quarta scena è centrale e topica dell’intera favola boschereccia: compare
Ardelia che, specchiandosi nelle acque, si innamora di stessa e l’Andreini
capovolge al femminile il mito di Narciso.
Ardelia, devota a Diana e sdegnosa dell’Amore, si riscopre innamorata della
propria immagine, sente un «focoso desio» di possedere se stessa e le sue parole
sono piene di voluttà e desiderio. Scoprirà i piaceri e i conseguenti dolori
provocati dall’amore e dirà «amo un’ombra e un’ombra invan desio». È sconvolta
da un amore narcisistico tanto da affermare «avvampo e ardo di me stessa, e solo
/ posseder bramo, quel che più posseggo».
Nell’Aminta di Tasso Dafne racconta di aver visto Silvia «vagheggiar se
medesma» nel lago limpido acconciare i capelli e chieder consiglio alle acque, ma
il suo era un cedere alla vanità della sua bellezza e preoccupazione di piacere,
infatti «bella si vide ancor che incolta», mentre per Ardelia è vera passione: ella è
inondata da un amore impossibile, quello per se stessa «incendio tal, che l’onda,
ove egli nacque, / estinguer no ‘l potria».
Ardelia rappresenta l’amore infelice e perseverante: si innamora di
un’immagine che non potrà mai avere e che diventa parte di sé tanto da divenire
prigioniera di se stessa.
171
Nell’ultimo atto tutti gli intricati intrecci delle storie d’amore saranno dipanati
e, come già preannunciato da Amore nel prologo, gli amori infelici avranno
«felice e lieto fine».
Infatti, la favola pastorale non fa altro che moltiplicare gli amori infelici per
esaltare la pluralità asimmetrica dell’inizio e l’ordine restaurato alla fine
dell’opera.
La prima scena è occupata dalla coppia Tirsi e Mirtilla e nella seconda e terza
scena troviamo Igilio e Fillide. Sia Tirsi che Igilio, considerando la fierezza e
crudeltà delle loro amanti annunciano di voler togliersi la vita, Tirsi gettandosi
da un dirupo e Igilio uccidendosi con un coltello. A questa morte, solo
annunciata, nel cuore di Mirtilla «vien pietade» e decide di seguirlo; Fillide invece
ferma Igilio, pronto ad uccidersi, e si dichiara al pastore «io mi ti dono,
togliendomi a colui, che indegnamente mi tenne un tempo in duri lacci avvolta»
e all’incredulità di Igilio continua «A te che sei tutto il mio bene, Igilio / io, che
sono Filli tua, venuta sono / per farti a pien dell’amor mio contento».
Anche queste scene, confrontate con l’Aminta tassiana, sottolineano una
differenza sostanziale: nella favola andreiniana la morte è solo accennata e tanto
basta a far mutare opinione e sentimento; in quella tassiana, invece, Aminta alla
falsa notizia dell’uccisione di Silvia, si suicida e solo per miracolo si salva e la
morte sfiorata porta Silvia a ricambiare l’amore tanto da affermare «Oh potess’io
con l’amor mio comprar la vita sua; anzi pur con la mia la vita sua, s’egli è pur
morto!».
La quarta scena è occupata da Uranio che, con un breve dialogo, si interroga
sulla dura legge dell’Amore che lo induce a seguire chi fugge e fuggire da chi lo
segue, un concetto di matrice ovidiana.
Da chi mi segue Amor, fuggir mi fai,
e seguir chi mi fugge,
(La Mirtilla, IV scena, vv. 2819-2820)
Quod sequitur fugio; quod fugit ipse sequor.
(Ovidio, Amores, II, 20, vv. 36)
Seguirà la quinta scena con l’arrivo di Ardelia e il dialogo col pastore Uranio,
che sentendola afflitta per amor di se stessa, la esorta a comprendere le pene che
prova per lei che non ricambia il suo amore e la invita a non aspettare che
«l’inferma vecchiezza a te ne venga», perché «il pentirsi da sezzo nulla giova» ma
deve cogliere il frutto dell’amore che lui le porge. Queste parole si rivelano
illuminanti per Ardelia che decide di mutare «voglia» e amare il corpo di Uranio
e non la falsa ombra di se stessa. Uranio, a questo punto, ringrazia ogni elemento
della natura per quest’amore e nella sesta scena anche Mirtilla dichiara il suo
amore ad Igilio, pronto a gettarsi da un dirupo, affermando «ch’io non sarò mai
d’altro, / ma sono e sarò tua mentre ch’io viva».
172
Le ultime due scene vedono protagoniste tutte le coppie dinanzi al tempo di
Ciprigna per ringraziare «l’alma Dea d’Amore» e le offrono in dono «purpuree
rose», una corona di fiori, «verde mortella», «pura colomba» e candido velo; alle
tre coppie si affiancano anche Coridone, corrisposto dalla «bella Nisa», e Gorgo
Capraio che decide di donare «di Cerere e Bacco i frutti amati» e si congeda dalle
ninfe e pastori per tornare alle delizie del palato.
Uranio, allora, esalta questa felice condizione in cui versano tutti e si augura
che «il cielo arrida sempre questi ameni campi, / e che zefiro spiri eternamente
fra questi verdi frondi / e la sua bella Flora ogn’ora infiori / le valli, i colli, e le
campagne, e i prati» e Ardelia continua augurandosi che mai neve o ghiaccio
ricopra i fiumi, che le acque siano sempre limpide tanto che «specchio sien
sempre a le più belle Ninfe», Igilio spera che «scorga sempre il duro agricoltore
di Cerere biondeggiar le bionde chiome», Fillide auspica che «conceda mai
sempre la natura / eterna primavera a questo loco», Tirsi chiede al dio Apollo di
rendere sempre «festoso e ameno» il paese inondandolo con i suoi raggi e infine
Mirtilla conclude quest’auspicata età dell’oro con l’augurio che «sia
perpetuamente in questo loco / fior, fronde, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi»,
ricalcando un noto verso petrarchesco.20
A differenza della quarta bucolica virgiliana che preannuncia una nuova età
dell’oro posticipata nel futuro, nella quale «omnis feret omnia tellus» e del coro
del primo atto dell’Aminta che rimpiange elegiacamente un’età dell’oro passata
nella quale «in primavera eterna, ch’ora s’accende e verna, rise di luce e di sereno
il cielo; né porto peregrino o guerra o merce a gli altrui lidi il pino», Isabella
Andreini colloca la felice età dell’oro nel presente, nell’amore ricambiato, nella
felicità di donarsi e amarsi e a pronunciare queste parole sono gli stessi
protagonisti che vivono questa bella età; non si avvale, come Tasso, di un coro,
di una voce fuori campo, ma ciascuno si fa portavoce di questa realtà.
In un’altra sua opera, le Lettere, Andreini, a proposito dell’età dell’oro, dirà:
Perche pensate voi, che fosse tanto felice l’età dell’oro? certo non per altro se non
perch’ella era lontana dalla speranza, e dal timore: ma benché questo sia secolo di ferro,
chi toglie à noi, che nol facciam d’oro? ogniun per se stesso può farlo. Il viver fà l’età, e
non l’età il vivere. […] basta à me di veder poi vari, e gratiosi colori della ridente
Primavera, vero tesoro de’ prati, e mi basta veder l’oro pretioso, che la benigna Cerere
sparge ne’ miei fertili campi, alla cui vista allegrasi le gratiose e leggiadre Pastorelle,
ch’altro non fanno, che danzare, cantar, e correre […].21
La favola, allora, si conclude con un inno all’Amore da parte di Coridone:
Andiam lodando Amore,
e la sua bella madre,
Ripresa del v. 5 del sonetto «Amor, che meco al buon tempo ti stavi» contenuto nel Rerum
vulgarium fragmenta.
21 Andreini (1607), Lettera CXXXVII, «Delle lodi della Villa», 138r.
20
173
poiché, la lor mercé, tante sventure
hanno avuto felice e lieto fine
e sia propizio sempre a questo sito
il fato, e i rosignuoli
fra questi verdi rami
temprino a prova lascivette note
e con nuove vaghezze
cantin sempre d’Amor l’alte dolcezze.
Ciò che differenzia la Mirtilla da tutte le altre produzioni pastorali in voga nel
Cinquecento è il mancato riferimento alla realtà; di solito dietro gli abiti pastorali,
sin dai tempi di Virgilio, si celavano ben note figure appartenenti all’ambiente di
corte che ospitava il poeta; i personaggi della Mirtilla invece non nascondevano
nessuno, forse perché Isabella non aveva radici in nessuna corte, ma nomade e
vagabonda, come la compagnia a cui apparteneva, era libera da vincoli di
servizio e fedeltà e assecondò solo la sua vena artistica e poetica, creando una
favola nella quale ciascuno potesse identificarsi e rispecchiarsi.
Nell’ecloga IV “Amaranta” delle sue Rime, Isabella coglie l’occasione per
ricordare che un unico destino accomuna tutti gli uomini, servi e nobili e che
ciascuno può identificarsi nei pastori:
[…]
perché Pastor noi siamo e qual è al Mondo
Re sì possente che l’origin prima
da qualche servo o da Pastor non abbia?
E qual è servo o Pastorel sì vile
che ‘n qualche tempo anch’egli
del suo legnaggio antico
non possa raccontare corone e scettri?
Tutti siamo, Amaranta,
frondi d’una sol pianta22 […]
Non manca, però, all’interno dell’opera il richiamo virgiliano, tassiano,
ovidiano ma anche elementi della poetica a lei contemporanea dal Beccari al
Guarini.
Sebbene non sia compiuta e perfetta come l’Aminta tassiana, la Mirtilla è degna
di essere annoverata all’interno del filone bucolico cinquecentesco e di essere
studiata al pari delle altre opere; inoltre è la prima pastorale scritta da una donna.
Nella dedicatoria a Carlo Emanuele di Savoia, nelle Lettere, Isabella afferma
amaramente che la sua Mirtilla «si fece vedere nel Teatro del Mondo molto male
in affetto, per colpa di proprio sapere (io non lo nego) ma per mancamento ancora
d’altrui cortesia (e non v’ha dubbio)» riconoscendo sia la propria inferiorità
intellettuale rispetto ad altri grandi autori del tempo, ma anche il mancato
22
Andreini (1601), p. 464, ecloga IV, vv. 110-118.
174
appoggio dei principi delle varie corti che lei, con la sua compagnia, dilettava con
scenari e rappresentazioni.
Un’opera che ha come modello forte il Tasso, poeta e drammaturgo, ma che
rinnova i motivi del dramma a partire da una diversa concezione della vita: con
la Mirtilla Isabella s’inserisce nel teatro pastorale sulla scia del maestro, ma
introduce una nuova forza dei personaggi femminili.
Forte e caratterizzante, infatti, è la presenza delle donne che non sono solo
oggetti del desiderio dei pastori, oggetti passivi, ma per la prima volta sono
soggetti attivi, protagoniste, in grado di gestire le situazioni (come Fillide con il
Satiro) senza l’aiuto maschile, bensì sfruttando le proprie risorse, capacità e
mostrando la propria intelligenza.
Isabella, nelle numerose rappresentazioni della Mirtilla nelle varie corti
italiane, interpretava Filli, personaggio di ascendenza tassiana, che univa alla
gentilezza e alla comprensione grazia e intelligenza.
Finucci, alla voce su Isabella Andreini, nell’Encyclopedia of Italian Literary
Studies, in merito alla Mirtilla dirà quanto segue:
The lyric effusions of the pastoral were typical of the genre, and Andreini lavished in
her play even more artificiality than usual to conform to public expectations. But in the
thematic change of the scene most often repeated in any pastoral play—the threatened
ravishment of a nymph (as in Tasso’s Aminta)—Andreini shows forcefully how much
the presence of women as playwrights and actresses ultimately was changing the stage.
Responding to the implied violence against women of contemporary plays that often
staged the topos of the damsel in distress in titillating ways, Andreini cast lyricism
aside and constructed instead a scene in which female shrewdness and ingenuity—
practical virtues—overcome male strength and crassness and save the day. Mirtilla
concludes with a hymn to female friendship and implies that women can surmount the
pains of unrequited love by constructing a world of togetherness and sharing.23
La Mirtilla si configura come la prima prova letteraria di una donna che fatica
per far emergere la sua voce e la sua condizione di donna virtuosa (sebbene sia
un’attrice) e il suo forte desiderio di durare per mezzo della scrittura, quel suo
costante ricercare la fama eterna come scriverà in una canzone a Gabriello
Chiabrera:
Di tentar fama io mai non sarà stanca
Perché il mio nome invido oblio non copra
Benche m’avveggia, che sudando à l’opra
Divien pallido il volto, e ’l crin s’imbianca. 24
23
24
Finucci (2007), p. 39.
Andreini (1601), p. 21, Canzonetta morale I, vv. 37-38.
175
Cinzia Saccotelli
Università degli studi di Bari ‘Aldo Moro’
cinzia.saccotelli@uniba.it
176
Riferimenti bibliografici
Andreini (1601)
Rime d’Isabella Andreini Padovana comica gelosa, dedicate all’Illustrissimo e
Reverendissimo sig. Cardinal S. Giorgio Aldobrandini, Milano, appresso Girolamo
Bordone e Pietromartire Locarni compagni, 1601.
Andreini (1607)
Lettere, d’Isabella Andreini padovana comica Gelosa, Venezia, Marc’Antonio Zaltieri,
1607.
Andreini (1627)
Fragmenti di alcune scritture della signora Isabella Andreini, Comica Gelosa et
Academica Intenta. Raccolti da Francesco Andreini Comico Geloso, detto il Capitano
Spavento, e dati in luce da Flaminio Scala Comico e da lui dedicati all’Illustrissimo sig.
Filippo Capponi, Venezia, presso Gio. Battista Combi, 1627.
Borgogni (1599)
Gherardo Borgogni, Corona di stanze alla Signora Isabella Andreini comica eccellente,
in Rime di diversi illustri poeti de’ nostri tempi, di nuovo poste in luce da Gherardo
Borgogni d’Alba Pompea, l’Errante academico Inquieto di Milano, Venezia, presso la
Minima Compagnia, 1599.
de’ Angelis (1991)
Francesca Romana de’ Angelis, La divina Isabella: vita straordinaria di una donna del
Cinquecento, Firenze, Sansoni Editore, 1991.
Doglio (1995)
Maria Luisa Doglio (a cura di), Isabella Andreini, La Mirtilla, Lucca, Pacini Fazzi
Editore, 1995.
Finucci (2007)
Valeria Finucci, Isabella Canali Andreini, in G. Marrone-P. Puppa (a cura di),
Encyclopedia of Italian Literary Studies, vol. I (A-J), New York-Londra, Routledge,
2007.
Garzoni (1585)
Tommaso Garzoni, La Piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585), a
cura di G. B. Bronzini con la collaborazione di P. De Meo e L. Carcereri, Firenze,
Olschki, 1996, 2 tt., II.
177
Gautier (1856)
Théophile Gautier, Les Grotesques, Paris, par Michel Lévy frères, Libraireséditeurs, 1856.
Ingegneri (1989)
Ingegneri Angelo, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole
sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Ferrara, Istituto di Studi RinascimentaliModena, Panini, 1989.
Ovidio (1983)
Ovidio, Amores, traduzione dal latino a cura di Ferruccio Bertini, Garzanti Editori,
Milano, 1983.
Pavoni (1589)
Giuseppe Pavoni, Diario delle feste celebrate nelle solennissime nozze delli serenissimi
sposi, il sig. Don Ferdinando Medici e la sig. Donna Christina di Lorena Gran Duchi di
Toscana, Bologna, Rossi, 1589.
Pontano (1920)
Giovanni Pontano, L'amor coniugale e le poesie d'argomento affine, traduzione di
Adriano Gimorri, Lanciano, Carabba, 1920.
Tasso (2015)
Tasso, Aminta, a cura di Marco Corradini, Rizzoli Editori, Milano, 2015.
Virgilio (1978)
Virgilio, Bucoliche, a cura di Luca Canali, Edizioni Bur, 1978.
Isabella Andreini était une actrice, une comédienne jalouse, une academica intenta et
une poète italienne.
Très jeune elle a rejoint la Compagnia dei Gelosi et elle a agi dans diverses cours
italiennes et également à la cour du roi de France Henri VIII.
Une de ses grandes interprétations est la partie masculine d’Aminta, une fable
pastorale de Torquato Tasso, en 1573. Après quelques années, Isabella écrivit et publia
une œuvre pastorale, sur le modèle du Tasse, Mirtilla, qui fût réimprimé plusieurs fois et
même traduit en français.
Celle-ci s’ouvre sur un dialogue entre l’Amour et Vénus, le trame principale voit se
développer des intrigues entre des bergers et des nymphes qui se poursuivent et qui se
plaignent de leur condition d’amants désespérés. En suivant les règles classiques de la
178
fable pastorale, Isabella Andreini entremêle les différentes histoires d’amour et les dissout
dans la dernière partie, faisant triompher l’amour. La présence décisive de femmes qui
guident et dirigent l’histoire est fondamentale.
Parole-chiave: Andreini; Mirtilla; pastorale; Aminta; amore.
179
ALESSANDRA TREVISAN, L’arte della gioia di Goliarda Sapienza:
una pubblicazione lunga vent’anni (1978-1998)
Nessuno può derubarci della gioia
la nostra gioia sotterranea
come tenera acqua
come vena di roccia
Lalla Romano, in Giovane è il tempo (Torino, Einaudi, 1974)
Alla lunga gestazione del romanzo di Goliarda Sapienza più indagato e noto
al pubblico di lettori – non solo italiani ma dei ventotto paesi in cui L’arte della
gioia è stato tradotto – seguì un lungo periodo di ‘tentata pubblicazione’ attestato
in Cronistoria di alcuni rifiuti editoriali dell’Arte della gioia (2016) dal vedovo
dell’autrice Angelo Maria Pellegrino, custode dell’archivio privato. Iniziata nel
1967 e conclusa il 21 ottobre 1976, l’opera era pronta «all’inizio dell’estate del
1978»1 nella versione destinata agli editori.
La critica odierna si è misurata sul testo analizzando da diversi punti di vista
i contenuti ed anche interpretando le ragioni che possano riguardare la mancata
diffusione in vita del romanzo integrale, pubblicato postumo a spese dell’erede
nel 1998 grazie a Marcello Baraghini di Stampa Alternativa. Quella che è stata a
lungo definita da Pellegrino una ‘censura ideologica’ trova radici nella Cronistoria
e in disamine approfondite di alcuni studiosi; Domenico Scarpa si è infatti
esposto in tal senso accludendo all’edizione Einaudi del 2008 una postfazione al
testo2 che si accordava al successo delle traduzioni in Germania, Spagna e
Francia3, la nazione che ha ‘adottato’ l’autrice e in cui il corpus sta avendo successo
e riscontri da parte della critica dal 2005 a oggi. La casa editrice torinese ha
Sapienza-Pellegrino (2016), p. 12.
Cfr. Venturini (2017), pp. 540-542; Scarfone (2018), pp. 61-68.
3 A tal proposito si segnalano: In den Himmel stürzen (“L’arte della gioia”), trad. in tedesco a
c. di C. Neumann, Berlin, Aufbau-Verlag, 2005; L’Art de la joie (“L’arte della gioia”), trad. in
francese a c. di N. Castagné, Paris, Éditions Viviane Hamy, 2005 cui seguì L’Art de la joie, trad. in
francese a c. di N. Castagné, Éd. France Loisirs, 2006; Die Signora, trad. in tedesco a c. di E. Hansen,
Berlin, Aufbau-Verlag, 2006; El arte del placer (“L’arte della gioia”), trad. in spagnolo a c. di J. R.
Monreal, Barcelona, Lumen, 2007; L’art de viure, trad. in spagnolo a c. di A. Casassas, Barcelona,
La Campana, 2007. L’edizione statunitense riservata al mercato anglofono arriverà diversi anni
dopo: The Art of Joy, trad. in inglese a cura di A. Milano Appel, USA, New York, Farrar, Straus
and Giroux, 2013.
1
2
180
inserito il titolo di Sapienza dapprima nella collana Supercoralli e poi nei Super
ET, dove ha conosciuto sinora diverse ristampe.
L’inclusione dell’autrice nel canone è ormai avviata e limitatamente risolta,
così come lo sono l’esplorazione di temi e motivi del testo specialmente legati ai
Gender Studies e ai Queer Studies. Nell’ultimo decennio diverse voci, per lo più in
ambiente anglosassone e italiano, si sono misurate con il testo creando un tessuto
di ‘concrezioni critiche’ che guardano ai filoni citati, alimentando così il dibattito
sull’opera. In particolare, il quadro di lettura del pionieristico volume La porta è
aperta di Giovanna Providenti (2010) è stato ampliato ulteriormente a partire dal
Convegno londinese del 2013, di cui oggi si possono leggere gli Atti Goliarda
Sapienza in context per Farleigh Dickinson University Press (2016) a cura di
Alberica Bazzoni, Emma Bond e Katrin Wheling-Giorgi. L’attenzione rivolta a
L’arte della gioia4 con esclusività si rintraccia in miscellanee e monografie recenti,
in particolare quelle di Maria Rizzarelli, Goliarda Sapienza. Gli spazi della libertà, il
tempo della gioia per Carocci (2018), di Alberica Bazzoni per Peter Lang Writing for
freedom: Body, Identity and Power in Goliarda Sapienza’s Narrative (2018) e di Gloria
Scarfone, Un’autrice ai margini del sistema letterario per Transeuropa (2018).
Pur considerando alcuni degli studi editi, in questa sede si intende esporre la
problematicità della mancata edizione in vita dell’intero romanzo servendosi di
documenti non ancora vagliati. Le ragioni ideologiche ‘pure’ (conosciute sino a
oggi) non giustificherebbero infatti l’esclusione del volume dal mercato coevo.
L’anarchismo, la sessualità, il lesbismo, l’anticlericarismo, gli omicidi e altri dei
temi di AdG non forniscono un’argomentazione solida in grado di risolvere la
complessità della vicenda editoriale nata attorno al libro.
Grazie al raffronto tra materiali editi e inediti si verificheranno congruenze e
possibili incoerenze d’archivio, che permettono di avanzare alcune tesi circa la
fattibilità di pubblicazione del romanzo nel panorama editoriale dell’epoca in
comparazione con quello che si affaccia dopo la scomparsa di Sapienza (nata nel
1924 e venuta a mancare nel 1996). L’esigenza di ridisegnare il contesto in cui lei
e altre autrici affini pubblicavano negli stessi anni porterà inoltre a proporre
alcune ipotesi circa l’adeguatezza o meno della destinazione editoriale scelta in
vita.
Questo genere di approccio ai margini del testo segue un articolo apparso su
«Diacritica» nel 20185 in cui si delineava il contesto storico, editoriale e di
ricezione critica de L’università di Rebibbia (Rizzoli 1983), invitando a una
riflessione sul romanzo nel momento dell’accoglimento dello stesso da parte di
Sergio Pautasso – allora riferimento per la casa editrice pocanzi citata – nonché
dagli ambienti del femminismo romano e milanese. Scegliendo di affrancarsi in
4
5
D’ora in avanti AdG secondo il modello della legenda di Providenti (2010).
Trevisan (20182).
181
parte dalla materia e dalla trama, si è proposto un inquadramento di argomenti
che fecero rientrare Sapienza in un filone in auge a seguito della riforma carceraria
del 1975 – di fatto avvenuta in piena stesura di AdG – ossia quello della
letteratura penitenziaria, categoria che si affiancava a quella medico-psicanalitica
de Il filo di mezzogiorno (Garzanti 1969).
La posizione laterale da cui si affronterà l’esplorazione del percorso di AdG
prova la necessità di rivedere alcuni passaggi attraverso i quali il dattiloscritto
giunse alle case editrici che lo scartarono, incoraggiando domande e ‘dubbi’
(termine caro a Sapienza) sull’iter che portò ai rifiuti, tra il 1979 e il 1985, e sul
gradimento che invece un certo ambiente aveva concesso al testo: ci si riferisce a
una cerchia ristretta ed eterogenea, composta da voci amiche non tutte schierate.
Tra esse spicca quella di Adele Cambria, che sarà tra le frequentazioni più
importanti da fine anni Settanta in avanti. Il suo nome si ritrova non solo nei
Taccuini editi da Einaudi (2011 e 2013) ma è presenza determinante anche in altre
occasioni, a sostegno dei volumi pubblicati negli anni Ottanta; ciò è confermato
in un altro articolo del 2018, in cui si è trattato del ‘giornalismo militante’ di
Sapienza.6 Questo rapporto si affianca a contatti altrettanto importanti, tra cui si
hanno quelli con Natalia Ginzburg, Cesare Garboli e le autrici del Gruppo di
scrittura fondato da Elena Gianini Belotti, che l’autrice frequentò insieme a
Cambria, Simona Weller, Francesca Sanvitale, Lucia Drudi Demby7 e altre
scrittrici tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, periodo che fu per
lei di sostegno anche al Partito Radicale.8
Sarà tuttavia opportuno ora procedere per gradi nella revisione del percorso
di pubblicazione di AdG, tentando una ricognizione avvalorante delle tesi
presentate.
1. ‘senza alterare niente’: passaggi e lettere tra 1978 e un cruciale 1979
In attesa di leggere l’epistolario di Sapienza è legittimo segnalare che la
Cronistoria raccoglie soltanto un numero esiguo di rifiuti rivolti ad AdG: essi
riguardano Rizzoli, Einaudi, Feltrinelli, Editori Riuniti, Mondadori, Rusconi e il
coinvolgimento di diversi soggetti tra autori, direttori di collane, esponenti
politici e altri con ruoli di responsabilità com’è stato analizzato già, oltre che da
Scarpa, anche da Giovanna Providenti (2012). Il momento indicato nel titolo si
colloca a cavallo tra la scrittura di Io, Jean Gabin nel 1979 – secondo la datazione
critica largamente condivisa del romanzo postumo, edito da Einaudi nel 2010 – e
Trevisan (2018).
Si veda la voce pubblicata sull’«Enciclopedia italiana delle donne» nel 2019:
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/lucia-drudi-demby/
8 Trevisan (2016), p. 54, n. 36.
6
7
182
l’esperienza carceraria dell’ottobre 1980, atta a creare «un caso massmediatico»9
per pubblicare AdG. La Cronistoria rimanda all’Archivio privato SapienzaPellegrino, da cui provengono alcuni documenti che saranno portati
all’attenzione; altri, invece, si possono reperire in Fondi d’autore, al fine di dare
una nuova struttura al dibattito in corso.
Figure chiave di questo percorso sono state Enzo Siciliano e Sergio Pautasso,
entrambi legati – in un rapporto triangolare o quadrangolare – a Sapienza e
Pellegrino.
Si è già riferito che AdG era pronto per l’invio agli editori all’inizio dell’estate
del ’78. In una prima lettera manoscritta e senza data pubblicata nella Cronistoria,
si conosce che Sapienza lo trasmetterà a Enzo Siciliano affinché l’editor dei suoi
primi romanzi per Garzanti lo legga ed esprima una propria opinione:
Enzo caro,
sono felice di poter finalmente mandarti il mio lavoro, anche se questa felicità è inclinata
dal fatto che è lungo... Ma so anche che tu [...] ami leggere e che la quantità delle pagine
è annullata dalle tante “avventure” che la mia protagonista affronta [...] è un ritoesorcismo perché non dimenticherò mai – e sempre ti sarò grata – di avermi fatto
pubblicare L. A. che so oggi, a 11 anni di distanza [...] senza di te non sarebbe mai stata
data alle stampe.10
Questa missiva, che risalirebbe al 1978, non è presente nel Fondo Enzo
Siciliano dell’Archivio del Contemporaneo del Gabinetto Vieusseux né
nell’Archivio Fondo Rizzoli, entrambi di riferimento in questa sede.11 Si può
notare, tuttavia, considerando le lettere di quegli anni conservate nel Fondo
Siciliano, che Sapienza e l’amico erano in contatto sia durante la scrittura del
romanzo, tra fine anni Sessanta e primi Settanta, sia nel biennio 1978-1979.
Il 20 febbraio 1979, ancora seguendo la Cronistoria, il dattiloscritto di AdG
veniva indirizzato da Siciliano a Pautasso, accompagnato da alcune righe
dattiloscritte:
Caro Sergio, ti spedisco il “romanzone” di Goliarda Sapienza del quale, se ricordi, ti
parlai a voce. A me sembra, ti ripeto, cosa di rilievo. Da un lato il contenuto: lo spirito
laico e libertino che intride una vicenda che ha respiro di storia […] una sorta di
inusitato epos italiano.
Dall’altro la forma – che è tutta risolta in una serrata narratività spontanea.
Sapienza-Pellegrino (2016), p. 9; lettera manoscritta e senza data con firma autografa.
Ivi, p. 13. Si ricordi che, nell’autunno di quell’anno, i coniugi affrontavano un viaggio sulla
Transiberiana per visitare l’URSS e la Cina, come attestano i Taccuini editi nel 2011.
11 Per completezza: Fondo Enzo Siciliano all’interno dell’Archivio del Contemporaneo
“Alessandro Bonsanti”. Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze, abbreviato d’ora in avanti in ACGV,
e Archivio Fondo Rizzoli – Fondazione Corriere della Sera di Milano; per la consultazione di
quest’ultimo ringrazio la Dott.ssa Francesca Tramma.
9
10
183
A me sembra d’aver davanti un libro aperto a una straordinaria leggibilità. 12
Il giudizio dell’autore-editor non appare nei Fondi indicati. Providenti cita
una minuta di lettera non datata risalente allo stesso periodo in cui, con una sorta
di captatio, Sapienza si rivolgeva a Pautasso in questi termini:
Caro Sergio, ti spedisco la lettera della quale ti ho parlato. Mi dispiace darti questa noia
ma, purtroppo, non ho nessun ritaglio di giornale che parli del mio lavoro (mancanza
di “ambizione” – come dicono i miei amici – o ambizione così profonda da fare a meno
delle lodi e stroncature degli altri? Chi lo sa? Probabilmente tutte e due le cose) e…
Bene. Scusa la parentesi e ancora grazie di tutto e grazie. Goliarda.13
Il tono confidenziale dell’autrice pare conseguire l’intercessione di Siciliano
presso Rizzoli. La studiosa distinguerà infatti il successivo cambio di tono dal ‘tu’
al ‘lei’ di Sapienza come una presa di distanza. È forse utile puntualizzare che
l’autrice conservava nel proprio Archivio recensioni e lettere riguardanti i
romanzi Garzanti, molte delle quali a sostegno del suo lavoro; non è chiaro,
dunque, per quale motivo – come segnala Providenti – in questa lettera ricca di
incisi (l’originale) non sia certa di voler pubblicare l’opera e – apparentemente –
si sottragga dall’esibire i documenti che invece attestano la qualità della sua
scrittura. È probabile che quella ‘mancanza d’ambizione’ copra l’esigenza che il
testo parli da sé – almeno per il momento.
Nel marzo dello stesso anno Pier Maria Pasinetti, già in stretti rapporti con
l’agente letterario Erich Linder, consigliava questo nome a Sapienza affinché
l’appoggiasse presso Rizzoli. Né la Fondazione Mondadori di Milano né il Fondo
Pasinetti conservato al CISVe di Venezia danno traccia del suggerimento.14
Lo scambio dell’autrice con Pautasso si concentra nella primavera mentre lei
ancora intrattiene rapporti epistolari con Siciliano e Attilio Bertolucci. Nelle
lettere del Fondo Siciliano di quel periodo inviate da Gaeta – luogo in cui lei si
rifugiava spesso allontanandosi da Roma – come si conosce da Elogio del bar
(Elliot 2014) – non si hanno cenni alla presenza di Linder. Il rifiuto da Rizzoli
giungerà tuttavia a maggio ’79.15
Il 6 settembre Adele Cambria intitolava un suo articolo pubblicato su «Il
Giorno» Dopo l’Orca arriva la Gattoparda. Lì non emergono solo alcune
Sapienza-Pellegrino (2016), p. 15. Cfr. Scarpa (2008), p. 524; Providenti (2012), p. 292, n4.
Quest’ultima ha lavorato nell’Archivio privato Sapienza-Pellegrino, da cui provengono i
documenti citati.
13 Providenti (2012), p. 292. La lettera è trascritta soltanto in parte e non se ne ha copia
nell’Archivio Fondo Rizzoli.
14 Per completezza: Fondo Pier Maria Pasinetti facente parte dell’Archivio “Carte del
Contemporaneo” all’interno del Centro Interuniversitario di Studi Veneti CISVe. Per queste
indicazioni ringrazio Silvana Tamiozzo Goldmann e Samuela Simion del Dipartimento di Studi
Umanistici dell’Università Ca’ Foscari.
15 Ivi, p. 22.
12
184
significative comparazioni con Brancati, Patti, Sciascia, Lampedusa, D’Arrigo
nonché con Virginia Woolf e il suo Orlando, ma si evidenzia come il femminismo
non allineato di Sapienza fosse nutrito dalla letteratura e acquisisse da essa le
proprie fonti; si sottolinea dunque come l’arte della scrittura sovrastasse
l’impegno istituzionale.16 Soprattutto: si segnalava pubblicamente per la prima
volta – e in anticipo sulla rassegna stampa che riguarderà Rebibbia – l’esistenza
del romanzo.17 Il pezzo veniva spedito a Pautasso a mezzo espresso il 7
settembre18 mentre Pellegrino si occupava di inviare a Linder il romanzo della
moglie.19 Il 14 settembre la risposta del primo raggiungeva Sapienza: in poche
righe comunicava alla ‘Gattoparda’ di aver preso atto della «sottile vendetta»
seguita al rifiuto, come si legge nella Cronistoria.20 Qui si prova anche l’invio di
una lettera dattiloscritta datata 21 settembre dell’autrice a Pautasso che, tuttavia,
nel Fondo Rizzoli porta una datazione posteriore; il testo presenta qualche
variazione:
Gentile Pautasso,
non capisco perché lei si rivolga a me lamentandosi. La lettera con ritaglio del giornale
non era anonima dato che sul retro c’era il nome di mio marito (e il nostro indirizzo)
che non ha inteso vendicarsi ma solamente rispondere ad una sua affermazione che le
ricordo, lei mi disse al telefono e poi a voce, che nel mio romanzo i temi non sentivano
fuori. Questa affermazione rivela che lei non ha letto il romanzo e, come dice Cooper,
[è] o un semi-analfabeta politico o qualcuno che non accettando le idee che lo
serpeggiano, le ha rimosse all’istante. Oppure, ancora: la Rizzoli non è che una
succursale della ben nota “Famiglia Cristiana” (infatti io avevo confidato in lei
sapendolo un erede delle idee di Vittorini). Questo qualcuno comunque non è lei niente
non ha letto una vita del mio manoscritto, e la posso capire. Ho visto quale inferno è il
suo ufficio-galera a Milano... si legga la mia modesta quando potrà. Forse prenderà la
forza di non essere più il forzato del suo lavoro, o del suo talento o del suo dovere...
Senza rancore ma con molta pietà per la sua condizione di maschietto (legga “Maschio
per obbligo” della Carla Ravaioli edito da Bompiani e che sicuramente il suo staff non
avrebbe mai preso in considerazione) plagiato sin dall’infanzia quasi altrettanto della
sottoscritta donna, sì, ma senza artigli.
Saluti cari
Goliarda Sapienza.
Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 23-25.
Per ciò che concerne le anticipazioni di Cambria: cfr. Trevisan (2018).
18 La busta originale e il ritaglio sono ancora conservati presso l’Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.1
“Varie – S/Se”, Segnatura: 338RIZ. Cfr. Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 23-25.
19 Sapienza-Pellegrino (2016), p. 25.
20 Ivi, pp. 28-29. Cfr. Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.1 “Varie – S/Se”, Segnatura: 338RIZ; questo
documento è l’originale ricevuto dall’autrice. Cfr. Providenti (2012), p. 293.
16
17
185
Roma – 29-10-’7921
Si rilevi che risulta improbabile la presenza di una lettera diversa
dall’originale presso l’Archivio Fondo Rizzoli. Si può presumere, dunque, che
Sapienza abbia battuto a macchina la bozza della lettera ma l’abbia inviata, con
trascrizione a mano, diverso tempo dopo (il mese seguente). Considerando la
seconda collocazione temporale, a questo livello è auspicabile intervenire sulla
cronologia presentando un breve scambio intercorso tra Siciliano e Pautasso, che
modifica due volte la lettura del ‘rifiuto’. Il primo faceva pervenire questa lettera:
26 sett. ‘79
Caro Sergio,
ti mando il romanzo di Francesca Sanvitale. Spero non faccia la fine di quello della
Sapienza. Nel librone della Sapienza c’era, a mio avviso, un romanzo di
duecentocinquanta pagine molto singolare molto violento: - tutto stava a cavarcelo,
lavorandoci un po’ su, schiarendo, sotto questa prosa tutto colore, il personaggio di
quella maledetta, tutta bistro opaco, carica di una feroce, losca (e laica) vitalità.
Con il romanzo di Francesca siamo all’opposto, nel senso che non c’è niente da toccare.
L’equilibrio è trovato, ed è privo di incrinature. “Madre e figlia”, ti ho detto. Ma il
romanzo è un vero romanzo d’avventura; tessuto di materiali che sembrano, a
riassumerli, venire da chissa [sic] quale sepolta narrativa ottocentesca. Invece sono tutti
veri, e vissuti; e, poiché madre della poesia è la memoria, se la memoria funziona in
senso espressivo, riscatta tutto e tutto rinnova. A me questo libro sembra molto
originale, libero nella struttura e “commovente”. Ti dicevo al telefono che possiede un
ottimo tasso di comunicatività: - insisto su questo, poichè [sic.] credo che la letteratura
debba più che mai uscire fuori dal proprio guscio. Lo affido a te, e non a un lettor
qualsiasi. Altre volte ti ho mandato manoscritti per “dovere”. Stavolta ti mando un
vero romanzo, un romanzo che non capita spesso di incontrare. Cosa aggiungerti? Il
caro saluto del tuo.22
Dal testo emerge la distanza espressa da Siciliano circa il romanzo di Sapienza
e un paragone con quello di Francesca Sanvitale: non si tratta soltanto di una
differenza di tipo editoriale ma che riguarda la materia e lo stile. Madre e figlia fu
Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.1 “Varie – S/Se”, Segnatura: 338RIZ. Alla quinta riga quel «lei
non» nella Cronistoria è sostituito da «chi», che muta il soggetto. Cfr. Scarpa (2008), p. 529 e
Providenti (2012), p. 294, riprese entrambe dal documento dattiloscritto e non dall’Archivio
Fondo Rizzoli.
22 Copia carbone (velina) di lettera ds. non f.ta su carta intestata personale di colore arancione
in Fondo Enzo Siciliano, ACGV, segnatura: ES.I.1360.33 a. Ringrazio gli eredi Flaminia Petrucci
Siciliano e Andrea Guido Pautasso, e la Direttrice dell’Archivio, la Dott.ssa Gloria Manghetti, per
il permesso accordatomi alla riproduzione del documento. In particolare, il testo presenta
correzioni autografe: r4 ha espunto «originale» in favore di «singolare»; r6 ha aggiunge «losca»;
r9 ha espunto «lo trovo» dopo «è»; r13 ha virgolettato «commovente»; r14 ha espunto «anche»
dopo «possiede».
21
186
inoltre spedito per scelta mentre AdG fu presentato su richiesta. La risposta non
tardò ad arrivare:
Milano, 8 ottobre 1979
Caro Enzo,
ti ringrazio per il romanzo della Sanvitale. Nonostante la rottura di Francoforte
cercherò di vederlo presto come mi chiedi. Ricordo l’altro suo romanzo come uno dei
significativi di quegli anni e son sicuro che questo non sarà da meno. Vediamo se e come
si può incastrare qui.
Quanto alla Goliarda il discorso è un po’ diverso: perfettamente d’accordo che si poteva
ricavare un romanzo di 250 pagine, ma se lei non voleva, come era possibile? È stata
anche qui e gliel’ho detto: così no, ma la conditio era prendere o lasciare e ho preferito
lasciare.
Muoio di gran lavoro. Ciao.
Sergio Pautasso23
Appare dunque chiaro che Pautasso e Siciliano avessero preso una comune
posizione circa AdG, senza probabilità di ripensamenti – o quasi. I documenti
sino a oggi inediti rivelano la necessità di smarcarsi da un caso editoriale
complesso e inattuabile ma, non per questo, la ‘chiusura’ della Rizzoli nei
confronti dell’autrice a nuove proposte, come convalidato da Providenti24,
aspetto su cui si ritornerà.
In quel momento il romanzo fu inviato il 4 ottobre ’79 al direttore della sede
romana di Einaudi Paolo Terni, il quale rispondeva il 19 ottobre riportando un
giudizio non favorevole a cura dei consulenti editoriali.25 Lo stesso giorno
(19.10.’79) Sapienza inviava a Siciliano l’articolo di Cambria con, allegata, una
lettera senza data riportata nella Cronistoria:
Enzo caro,
ti mando l’articolo della Cambria, che, lo confesso, mi ha reso felice. Temevo molto che
le “nostre” fraintendessero l'amore che la mia Modesta ha per gli uomini, ma se Adele
ha capito che è odio razzista quello che oggi impronta un certo movimento femminista,
anche le altre lo capiranno. Avevo scelto Adele come assaggio proprio perché non fa
parte delle mie amiche. Tu dirai perché tanta gioia? Perché proprio per lottare questo
odio-malattia infantile del femminismo (nato tardi, purtroppo, e da quello americano
invece che dalla matrice vera e ricca delle femminilissime voci della Kollontaj, della
Woolf e di mia madre stessa) presi a scrivere delle avventure di Modesta dieci anni fa a
costo di mettermi contro di loro. Le donne – come tu sai – sono il mio pianeta e la mia
ricerca, il mio unico “partito” e forse, oltre all’amicizia, il mio unico scopo della vita
Lettera dattiloscritta con firma autografa di Pautasso a penna in Fondo Enzo Siciliano,
ACGV, segnatura: IT ACGV ES. I. 1360. 33 (a - b)/b. Ringrazio l’erede Andrea Guido Pautasso e
la Dott.ssa Manghetti per il permesso accordatomi alla riproduzione del documento. L’originale
non firmato si trova in Archivio Fondo Rizzoli, 2.1.3 “Siciliano Enzo”, Segnatura: 754RIZ.
24 Cfr. Providenti (2012), pp. 295-297.
25 Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 34-37.
23
187
[...] È stato duro per me – in questi ultimi dieci anni – assistere all’insano neofitismo
che come un veleno (sicuramente istillato dal potere: dividere l’uomo dalla donna per
sconfiggerli entrambi, tecnica antica usata anche per le razze, i lavoratori ecc.), mi
costringeva a contrastarle dentro e fuori di me.
Sempre lotterò per l’amicizia fra l’uomo e la donna, pianeti così diversi e così simili,
bisognosi l’uno della diversità dell’altro.
L’armonia dei contrari, diceva Giordano Bruno, e così deve essere, ripeteva mia madre,
a dispetto del potere che vorrebbe vederci tutti uguali.
Ma una spina ho nel cuore (come dicono i contadini) l’averti dovuto sottrarre il
manoscritto per cause finanziarie. Ora ho molte copie […] 26
Domenico Scarpa data la lettera come appare anche nel Fondo Enzo Siciliano
19.10.1979. Si tratta, come verificato, di un documento ‘successivo’ al dialogo fra
l’editor e Pautasso, che sembra testimoniare una fase complessa da affrontare e
senza riuscita. Se quanto tracciato aveva trovato fondamento nella Cronistoria,
l’aggiornata cronologia intende notificare le coordinate del passaggio
antecedente, di cui l’autrice non era con tutta probabilità a conoscenza.
Il 6 dicembre ’79, a causa di ragioni personali, Linder restituiva il manoscritto
di AdG27 senza averlo letto né aver avuto l’opportunità di proporlo ad alcun
editore. L’operazione-Rizzoli sembrava essersi conclusa.
2. 1979 e 1980: tra Bertolucci, il favore di Pertini e il ritorno a Rizzoli
Nell’estate del 1979 anche Attilio Bertolucci, colui il quale, insieme a Siciliano,
sostenne Sapienza nella pubblicazione di Lettera aperta nel 1967 presso Garzanti
– e la candidò con Natalia Ginzburg allo Strega nello stesso anno – ricevette il
manoscritto di AdG. Ciò è stato ripercorso da Providenti, la quale data una
cartolina autografa del poeta al 26 luglio ’79 in cui lui ringrazia per l’opera
giuntagli. In due lettere dell’Archivio Sapienza-Pellegrino, una spedita e l’altra
inedita che la studiosa data post quem 26 luglio 1979 e ante quem primi mesi del
1980, ancora Sapienza si rivolgeva al poeta come interlocutore privilegiato per la
lettura del suo lavoro, dal quale desiderava ottenere un parere di lettura da
‘padre’.28
Nella Cronistoria si percorrono alcune pagine che dimostrano diversi passaggi
ulteriori nella vicenda editoriale del romanzo, non accennando affatto a
Bertolucci che, invece, emerge come ‘personaggio-chiave’ in un punto delicato e
complicato del percorso.
Cfr. Sapienza-Pellegrino (2016), p. 33. La lettera è stata ribattuta a computer e non presenta
indicazione di data né firma autografa.
27 Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 38-39.
28 Providenti (2012), p. 299. È rilevante indicare che, dopo alcune ricerche, non è stato
possibile rintracciare l’Archivio privato di Bertolucci contenente questi documenti e il
manoscritto di Sapienza; si indica solo il Fondo omonimo presente all’Archivio di Stato di Parma.
26
188
Si segua nuovamente la cronologia. Nel volume del 2016 si riferisce di un
primo contatto risalente al 14 gennaio 1980 con l’allora Presidente della
Repubblica Sandro Pertini, che fu amico della madre di Sapienza: Maria
Giudice.29 Mentre il testo era giunto «nelle mani di Inge Feltrinelli grazie a
un’amica» dell’autrice30 quest’ultima scriveva nuovamente a Pertini esponendo
la situazione che gravava sui tentativi di pubblicazione, chiedendogli una
mediazione presso la casa editrice milanese31 che, proprio nel gennaio 1980,
aveva pubblicato Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, volume citato da Bazzoni
e che Barbara Kornacka mette in relazione con L’università di Rebibbia.32 Dato ciò,
la proposta amicale sopraccitata può rientrare nel quadro di una continuità di
ricerca, tra contenuto ed editoria. Si è tuttavia a conoscenza di una frequentazione
assidua tra Sapienza, il regista Citto Maselli, Giangiacomo Feltrinelli e sua moglie
negli anni Sessanta; ci si chiede pertanto se la memoria di quel tempo non potesse
già da sola validare l’opportunità di presentazione del manoscritto alla casa
editrice – nonostante la morte del fondatore nel 1972.33 È evidente che
l’(auto)esclusione dell’autrice dagli ambienti frequentati negli anni Sessanta le
nega un’assiduità con il mondo dell’editoria; i suoi contatti personali sbilanciati,
perciò, vogliono la prova costante di una ‘presenza esterna’ (Pertini come
Siciliano o Linder) d’appoggio alla pubblicazione.
In quel momento Angelo Pellegrino si rivolgeva a Siciliano con una lettera
datata 1/2/’80, nella quale riassumeva la posizione indignata di Pertini nei
confronti della circostanza e aggiungeva alcune righe importanti che
riguardavano la possibilità di rivedere la lunghezza di AdG, prima di allora mai
valutata: «Enzo caro, ho parlato con Goliarda. La disponibilità a ridurre il
romanzo, come ti ho detto, ci sarebbe. Potremmo consegnare un manoscritto di
circa 500 cartelle (da mille che sono)».34
Antonio Ghirelli, capo del Servizio Stampa del Presidente della Repubblica,
veniva allora incaricato da quest’ultimo di esporsi con Pautasso. Nella lettera che
Ghirelli spediva poi a Sapienza si ribadiva la «difficile collocazione del
manoscritto»35 secondo Rizzoli e la necessità di «ridurlo drasticamente»36,
invitando l’autrice a comunicare in via diretta con l’editore per proseguire l’iter
Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 40-41. Lettera di Sandro Pertini su carta intestata,
dattiloscritta e con firma autografa; la data è stata inserita con un timbro.
30 Ivi, p. 42.
31 Ivi, pp. 43-45; lettera dattiloscritta senza data né firma di Sapienza.
32 Cfr. Kornacka (2017) e Trevisan (20182); inoltre Bazzoni (2018), p. 274, in cui si definisce
l’autore tra gli odierni «LGBT writers».
33 A proposito della vicinanza con Giangiacomo Feltrinelli si legga Maselli (2007).
34 Sapienza-Pellegrino (2016), p. 47; lettera dattiloscritta con data manoscritta e senza firma
autografa.
35 Ivi, p. 49; lettera con data, dattiloscritta e su carta intestata con firma autografa.
36 Ibidem.
29
189
della pubblicazione. Un’apertura al dialogo, dunque, era stata favorita
dall’intervento di Pertini, e tuttavia Sapienza il 5/2/’80 gli riferiva di non aver
ricevuto alcuna risposta da Feltrinelli e di essere stata consigliata da Siciliano di
mettere in contatto il Presidente con Angelo Rizzoli in persona.37
Entrambe le spinte verso le case editrici milanesi appaiono in un orizzonte di
contrattazione che presenta dei lati oscuri: l’attesa da parte di Feltrinelli – come
ipotesi aperta – non pareggerebbe la trattativa riaperta con Rizzoli. Sembra
inoltre non vi sia traccia di lettere relative a questo nuovo appello su
suggerimento di Enzo Siciliano né all’interno del Fondo omonimo, né
nell’Archivio Fondo Rizzoli, né Domenico Scarpa e Giovanna Providenti
ricostruiscono questo andirivieni. Si può presumere che la complessità del caso
fossa stata mitigata dalla presenza del Presidente e tuttavia non risolta.
Mancando controverifiche d’archivio esterne a quello privato SapienzaPellegrino, da cui appunto la Cronistoria trae le proprie fonti, si avanzano alcune
domande: l’autrice era certa di voler tagliare parte del testo pur di pubblicarlo?
E i soggetti implicati dal punto di vista editoriale avevano messo in discussione
concretamente le loro antecedenti posizioni?
Come si è già appurato, Pautasso e Siciliano mantenevano a quel tempo una
costante comunicazione lavorativa epistolare; oltretutto il secondo uscirà ben
presto ‘di scena’. Si può ipotizzare dunque che quanto riassunto anche nella
Cronistoria sia passato dapprima attraverso le maglie di un processo ufficioso e,
in seconda battuta, le fila del percorso siano state riprese in carico secondo
modalità ‘ufficiali’.
Angelo Pellegrino, infatti, scriverà di nuovo a Pautasso il 2 marzo
chiedendogli conferma circa la disponibilità da parte sua di «un diretto
interessamento nella lettura»38 del manoscritto ridotto; il 19 marzo 1980 Pautasso
risponderà facendo riferimento sia alla forma sia al contenuto:
andrebbe abbondantemente sfoltito e reso più secco. Non è tanto questione di passare da
1000 a 500 pagine, ma di trovare una linea e una sostanza che narrativamente lo
giustifichino meglio che non ora. Se sua moglie ritiene di dover prendere in
considerazione un’idea strettamente personale qual è quella che esprimo, non abbiamo
nulla in contrario a riesaminare, senza alcun impegno, il testo sperando che possa andar
bene.39
Il parallelo Rizzoli-Feltrinelli si concluderà di lì a breve.
Pertini contatterà Inge Feltrinelli, la quale gli riferirà di aver sottoposto l’opera
alla commissione interna a Roma da cui era in attesa di un giudizio; quest’ultima
comunicherà (attraverso la propria segreteria) la rinuncia alla pubblicazione,
Ivi, p. 51; lettera a Sandro Pertini dattiloscritta e senza firma.
Ivi, p. 53; lettera dattiloscritta datata 2/3/’80.
39 Ivi, p. 55; lettera dattiloscritta con firma autografa. Neanche questo documento pare
conservato nell’Archivio Fondo Rizzoli.
37
38
190
suggerendo altre destinazioni editoriali più appropriate a ospitare opere di
narrativa: «Mondadori, Mursia, Sonzogno».40
La ricerca di una ‘casa’ per AdG è collocata, a quel tempo, nella città di Milano.
A ben vedere il sistema che soggiace all’opera di Sapienza poggia sull’asse RomaMilano come ha evidenziato Fabio Michieli41 con, da un lato, Enzo Siciliano e il
suo apporto ai volumi Garzanti, in seguito indirizzato alla Rizzoli dove
lavoravano sia lui sia Pautasso.
Avanzando nella cronologia varrà la pena riportare il testo di una missiva
collocata tra aprile e maggio 1980, destinata ancora ad Attilio Bertolucci:
Ho tentato, o meglio amici mi hanno offerto l’occasione di sottoporre il romanzo sia a
Rizzoli che a Feltrinelli e ne ho avuto delle risposte così bizzarre: per uno il romanzo è
troppo sperimentale (Pautasso) per l’altro troppo tradizionale... che mi hanno messo
una grande curiosità sul come è su chi legge i manoscritti. Ma questa curiosità è durata
poco e non ho nessuna intenzione di cercare un editore: il mio dovere di rendere pubblico
il mio lavoro l’ho fatto e ora chiudo con questo ennesimo “dovere” che tutti si affannano
a buttarmi addosso. Devi sapere che sono stata letteralmente processata per la mia
insufficienza nel “sostenere il mio lavoro” “annullarlo” ecc. Bene. Questo perché tu
sappia.42
Non è del tutto comprensibile la ragione di questa presa di posizione (o di
‘rinuncia’) di Sapienza nei confronti del proprio romanzo; se la datazione di
Providenti risultasse corretta si tratterebbe di un abbandono ingiustificato. Non
v’è inoltre accenno qui all’urgenza di adattare il libro alla richiesta di Rizzoli. Si
può postulare l’esistenza di ulteriori documenti in cui si verifichi la difficoltà di
lavorare al testo: l’autrice aveva deciso di non ridurlo affatto o di non operare
tagli più consistenti? Né il Fondo Enzo Siciliano né l’Archivio Fondo Rizzoli
rispondono a quest’apparente sospensione del percorso.
Nel 1981 Pautasso riceverà copia de L’università di Rebibbia. Providenti
sostiene che nell’epistolario inedito siano conservate alcune lettere a lui
indirizzate in cui risulta chiara una rinnovata variazione di tono:
Caro Pautasso, come avrà saputo l’anno scorso la “sua Gattoparda”, dopo l’amarezza
ingoiata male (male, lo confesso, ma oggi le posso dire il perché: ero senza una lira…) è
finita in prigione. Fra le tante motivazioni che mi hanno spinto in quel posto, alcune
sono state comprese (ad esempio: Costantini su “Il Messaggero”), le altre ci vorrebbe
un Pirandello per andarle a scovare una per una. Il Pirandello che c’è in me ha capito –
a posteriori – che cercavo un funerale, cosa che ho avuto in pieno. Non fa male morire
qualche volta, rigenera il senso dell’umorismo. Ma non voglio tediarla con fatti
Ivi, p. 57; lettera dattiloscritta datata 22 aprile 1980 con firma autografa da parte di un
membro della segreteria.
41 Cfr. Trevisan (2016), pp. 135-136 e Toscano, Trevisan, Michieli (2016), pp. 22-27. L’analisi
dello studioso riguarda soprattutto le valide ragioni editoriali della mancata pubblicazione in vita
della raccolta poetica Ancestrale (2013), in questa sede estese alla prosa.
42 Providenti (2012), pp. 297-298.
40
191
personali, anche se mi piacerebbe molto parlarne con lei che come “contrario” mi sarebbe
sicuramente più utile di tanti miei “simili”, come dice Shakespeare. 43
Se Sapienza mantiene alta l’attenzione sull’esperienza carceraria non va
rinunciando a cercare un sostegno per AdG. La Cronistoria menziona un invio ad
Alcide Paolini di Mondadori (il 4 giugno 1981) cui seguirà un rifiuto nell’ottobre
dello stesso anno44; prende poi forma un ultimo triangolo d’interesse: è quello
disegnato da Elena Gianini Belotti che, nell’estate dell’81, sembra trovare in «Noi
Donne» un tramite per l’approdo di AdG alla casa editrice romana Editori
Riuniti. Sarà tuttavia Maria Luisa Ombra, redattrice della rivista, a informare
l’autrice dell’inversione di rotta dell’editore circa la proposta.45
Nonostante il rifiuto di Paolini, Sapienza gli proporrà anche L’università di
Rebibbia con una lettera del 28/10/1981, ottenendo un nuovo ‘no’.46 È ipotizzabile,
dunque, che la trattativa con Rizzoli per questo volume sia iniziata poco dopo il
rigetto di Mondadori, come si ricorda tra gli editori suggeriti da Feltrinelli.
È noto che Pautasso avesse accolto favorevolmente il primo romanzo sul
carcere; i movimenti attorno a esso si ripercorrono grazie a materiali
dell’Archivio Fondo Rizzoli (essi risalgono ai primi mesi del 1982). 47 Nel
settembre dell’82 l’autrice riferirà al suo interlocutore che la lettera poco prima
ricevuta le aveva «dato molta tranquillità: tranquillità che mi ha permesso di
andare avanti nella prima stesura del “dopo Rebibbia” che in due mesi dovrei
essere in grado di finire […] Ricordo il suo viso quando mi disse di sapere che
per Rebibbia c’era la necessità di uscire il più presto possibile». 48 L’allusione alla
prima stesura de Le certezze del dubbio (1987) include anche un’apertura della
stessa casa editrice nei confronti del quarto romanzo edito in vita? L’ipotesi si
scopre plausibile tanto che, come si vedrà, la mancata pubblicazione di AdG
porta con sé un ripensamento del faticoso compito di promozione degli altri
volumi.
Se con Editori Riuniti si tornava nell’ambiente romano, con Mondadori prima
e poi con Rusconi si rientrava in area milanese. Ancora Antonio Ghirelli spedirà
AdG a quest’ultimo editore e il direttore editoriale, Ferruccio Viviani, lo rifiuterà
Ivi, p. 295; minuta di lettera datata 27 febbraio 1981.
Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 62-67. Tutte le lettere sono dattiloscritte con firme
autografe; quella di rifiuto data 8 ottobre 1981. Si noti come, nella lettera del 4 giugno, Sapienza
scelga di accludere alcune recensioni ai propri libri diversamente da quanto aveva fatto con
Pautasso; si veda la n13.
45 Ivi, pp. 59-61; lettera dattiloscritta datata 14/7/1981 con firma autografa della Ombra. Legge
coerentemente Scarpa (2008) il «costo proibitivo» della stampa di AdG.
46 Ivi, pp. 68-69.
47 Nell’articolo Trevisan (2018 2) si articolano le tappe editoriali dimostrate dai documenti ivi
presenti e si interpreta la coeva ricezione dell’opera.
48 Providenti (2012), p. 296; la minuta di data 28/9/1982; quella antecedente di Pautasso non
è citata.
43
44
192
il 4 marzo del 1985.49 Immediatamente Sapienza candiderà La ragazza di Rebibbia,
primo titolo de Le certezze del dubbio, senza trovare riscontro.50 Nel 1987 la
Pellicanolibri di Beppe Costa stamperà il romanzo grazie al sostegno di Marta
Marzotto.
3. Dalla TV a un inospitale mercato editoriale
Sulla scorta della visibilità derivatale dall’esposizione mediatica post-Rebibbia
– non priva di conseguenze –, Sapienza affidò il dattiloscritto di AdG anche ad
Adele Cambria e Lu Leone, tra le prime attive esponenti del Teatro della
Maddalena. Queste – nel 1982 secondo la datazione di Pellegrino – lo inviarono
a Vittorio Bonicelli della Rai, per tentare di ricavarne uno sceneggiato che, ieri
come oggi, avrebbe potuto mutare le sorti del testo. Non vi riuscirono
sottomettendosi a una censura certa51 e, come segnalato, il romanzo uscì poi con
una selezione di capitoli soltanto nel 1994 – si tratta della prima di quattro parti.
La dimensione sociale per Sapienza era allora molto mutata. A quel tempo
aveva un impiego al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma52 e la sua
vita era stata messa alla prova, come narra nei Taccuini editi, da altre imprese e
progetti di romanzo.
Non sarà improprio ricordare che i nove anni di lavoro su Una donna del
Novecento – questo il titolo che Angelo Pellegrino menziona parlando di AdG
nella postfazione alle Certezze del dubbio dell’87 – avevano causato considerevoli
difficoltà economiche all’autrice, e che scegliendo lei radicalmente di non
scendere a patti con l’imposizione dell’editoria coeva pregiudicò i quindici anni
successivi, fino alla sua scomparsa nel 1996.
Le ragioni ideologiche che fermarono l’uscita di AdG sostenute da Pellegrino
si compensano, secondo questo percorso, con una resistenza antidogmatica
dell’autrice nei confronti del sistema con il quale doveva confrontarsi. Si
configura un’opposizione necessaria alle logiche antecedenti, quelle accettate con
la pubblicazione dei primi due romanzi Garzanti, e una scelta di ‘marginalità
Cfr. Sapienza-Pellegrino (2016), pp. 70-79. La lettera di Viviani, dattiloscritta e autografa
come le altre, proviene dalla divisione romana.
50 Ivi, p. 80.
51 Ciò è accennato in Sapienza-Pellegrino (2016), p. 9, e confermato nel discorso con cui Adele
Cambria presentò L’arte della gioia presso la Fondazione Olivetti di Roma il 26 settembre 2006,
anticipato in un articolo su «l’Unità» apparso lo stesso giorno in cui si riportano le parole di
Bonicelli: «Noi sopravviviamo, carissime, nelle pieghe della distrazione del potere […] Ma che
volete? Far saltare la Rai?». Si ricorda tuttavia che, nel 1982, Sapienza stava collaborando con la
radio come autrice di un radiodramma: Tra Čechov e Gorkij. Quasi un carteggio d’amore, due
puntate, regia di Ida Bassignano, in «Rai Radio 3», 16/05/82 e 23/05/82 (attori: Ferruccio De Ceresa,
Giacomo Piperno, Vera Venturini).
52 Cfr. Gobbato (2011), grazie a Lina Wertmüller.
49
193
etica’ – testimoniata a più riprese dal vedovo nel suo Ritratto di Goliarda Sapienza
(La Vita Felice 2019) – che, tuttavia, pare sfamata da una forma ‘d’ambizione’53
malcelata. In altri termini: non è possibile indicare una sola motivazione in grado
di definire il fallimento della pubblicazione di AdG tra anni Settanta e Ottanta;
esso è alimentato da una somma di concause che muovono da posizioni diverse
e concorrono a produrre teorie e interpretazioni attorno all’opera.
Sino a qui non si è tentata una speculazione compilativa ma un’esposizione
argomentativa che rende dialettiche le ipotesi iniziali. Queste interpretano la
vicenda editoriale dal punto di vista del ‘transito’ ma è solo tenendo assieme
contenuto e forma, destinazione e distribuzione – ossia argomenti diversi – fra
loro che si può esaminare da ogni lato questo ‘caso editoriale’, distinguendo il
passato dal presente in cui ha raggiunto la fortuna di lettori e critica.
Prima di approdare agli ultimi movimenti significativi del libro si formulano
alcune questioni d’interesse che saranno esposte in questo e nel successivo
paragrafo:
-
la forma e il genere di appartenenza di AdG nel proprio tempo – gli
anni Settanta fino agli anni Ottanta;
la verifica della produzione di autrici coeve (nazionali e in traduzione)
nel suddetto panorama, limitatamente affrontata dalla critica;
il contesto di frequentazioni dell’autrice sino agli anni Novanta;
il mercato editoriale in cui esce l’opera ridotta (1994);
il sistema che ha accolto il romanzo dopo (1998 e metà anni Duemila).
Per una prima ricognizione attorno a questi punti critici, si legga quanto
espresso da Cesare Garboli nel documentario di Loredana Rotondo:
Nella storia letteraria di Goliarda va considerato un fattore ‘tempi storici’: quando lei è
esplosa, la società letteraria italiana era più adatta ad accogliere un libro come Lettera
aperta. Gli anni sono passati e, dagli anni Settanta in poi, la società letteraria italiana
ha prediletto i successi commerciali. E non c’era più tanto spazio per una letteratura
così sulla pelle.54
È pur vero che nel 2000 (quindi a posteriori) Garboli non parlava di ‘romanzo’
(e si guardava dal farlo) né per ciò che concerne i primi libri né per AdG; durante
l’ultimo decennio la critica sta cercando una nuova definizione per quest’opera,
fuori dalla formula del ‘romanzo della tradizione’.
Tra anni Sessanta e Settanta il dibattito su romanzo e anti-romanzo poteva
considerarsi infatti vivo e aperto; gli editori sceglievano altre rotte ma
continuavano a proporre narrativa e non soltanto quella di consumo, anche se
leggendo i cataloghi il mercato poteva dirsi trasformato. Eppure, se si
53
54
Cfr. Providenti (2012), p. 291.
Cfr. Rotondo (2000); Trevisan (2016), pp. 93-94.
194
considerano le lettere esaminate, la definizione ‘romanzo’ ritorna sia nelle parole
di Pellegrino e Sapienza, sia in quelle di Siciliano (‘romanzone’ e poi ‘librone’) e
Pautasso.
È pur vero che, nel periodo di conclusione di AdG, erano state pubblicate due
opere di successo con trame in cui la sessualità risultava esplicita: nel 1975, infatti,
era uscito Paura di volare di Erica Jong per Bompiani (con traduzione di Marisa
Caramella) e, nel 1976, Porci con le ali di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice
per Savelli; si tratta di due libri che intercettavano un pubblico giovane e una
‘corrente principale’, il secondo prima dell’avvento di Tondelli e della letteratura
giovanile. Considerando il catalogo di Savelli – così come quello di Feltrinelli in
quegli anni – si può pensare che fosse il taglio giornalistico e d’inchiesta, talvolta
politico e militante, con una preponderanza per la saggistica quello prediletto da
entrambi.55
Il caso di Bompiani può essere emblematico alla luce del commento di
Sapienza a Pautasso nella lettera inviatagli il 29 ottobre 1979. Nel 1977, infatti, la
casa editrice pubblicava Città del tabacco di Laudomia Bonanni, raccogliendo lì
alcune prose brevi di taglio femminista, già apparse in riviste e giornali e con
protagoniste donne; come con il precedente Vietato ai minori (1974), l’autrice si
imponeva con racconti d’impegno, dedicati a temi sociali, iscrivendosi in una
nicchia di mercato che accoglieva favorevolmente la dimensione delle sue
narrazioni. L’appoggio dell’editore milanese resisterà anche con Il bambino di
pietra. Una nevrosi femminile (1979) e Le droghe (1982), romanzi brevi, ma non con
La rappresaglia (uscito postumo per Textus nel 2003 a cura di Carlo De Matteis).
Per Bompiani Carla Ravaioli (citata da Sapienza) affrontava le sue inchieste sul
ruolo delle donne all’interno nel Partito Comunista (in La questione femminile:
intervista col PCI, 1976), Giuliana Morandini pubblicava le proprie sul manicomio
prima della legge Basaglia in E allora mi hanno rinchiusa: testimonianze dal
manicomio femminile (1977) e Angela Bianchini, nel 1979, dava alle stampe lo
studio Voce donna sull’emancipazione femminile. Le italiane, dunque, parevano
essere quasi escluse dall’operazione-romanzo: si vedano i casi di Fernanda
Pivano, traduttrice e curatrice, e Rossana Rossanda, che si stava occupando in
quegli anni di raccogliere alcune conversazioni radiofoniche su Radiotre
incentrate su diversi temi sociali, dalla politica al femminismo e oltre.
In quel panorama si affacciavano le esordienti Leila Baiardo con L’inseguimento
(1976)56 presentato da Cesare Zavattini, e Francesca Di Martino con il best seller
Foemina Ludens (1977). Anche Beatrice Solinas Longhi – autrice che dedicò la
Prima Samonà e Savelli poi Savelli – La nuova sinistra è stato un editore punto di
riferimento per la sinistra extraparlamentare sostenuto, tra gli altri, anche da Giangiacomo
Feltrinelli. Chiudeva nel 1982.
56 Defilata rispetto ad altre, la Baiardo fu attiva autrice di sceneggiature e collaboratrice di
alcune riviste tra cui «Nuovi Argomenti», «Cronache», «Noi Donne» e «Vie Nuove».
55
195
maggior parte della propria vita alla letteratura per l’infanzia – pubblicava Gli
sguardi (1982). Nessuno di questi volumi constava di 330 pagine circa, la
lunghezza della prima edizione di AdG del 1998.
Rispetto alle autrici nazionali, le logiche dell’editore milanese circa le scrittrici
straniere viravano verso corposi volumi record di vendite. Non considerando i
titoli tascabili meno noti e cercando di tracciare un profilo coerente con il discorso
sinora condotto – la ricezione di opere estere pare seguire logiche di mercato
diverse –, aveva dato ampio spazio alla ristampa dei Diari in più volumi di Anaïs
Nin (1977, con traduzione di Delfina Vezzoli), alla prima edizione di Intervista col
vampiro di Anne Rice (1977, pp. 327), poi a Patricia Highsmith con Diario di Edith
(1979, trad. di Marisa Caramella, pp. 373), ancora a Erica Jong con Fanny, ovvero
La veridica storia delle avventure di Fanny Hackabout-Jone (1980, pp. 507) e alle
ristampe dei successi di Françoise Sagan, tra cui Un po’ di sole nell’acqua gelida
(ristampato nel ’77 dopo l’uscita nel 1969 con trad. di Leonella Prato Caruso);
quest’ultima era tra le autrici di punta di Bompiani e contesa da altri editori, tra
cui Mondadori e Rizzoli.
Non va dimenticato, tuttavia, che la stessa casa pubblicava anche le opere di
Umberto Eco (Il nome della rosa è del 1980), di Zavattini e di Alberto Moravia; lì
Dacia Maraini aveva ristampato, nel ’76, il romanzo breve (di 156 pagine) La
vacanza, uscito nel 1962 per Lerici – che cessò la propria attività nel 1967.
Bompiani pareva praticabile ma non si conosce se AdG avesse raggiunto
quest’editore e il Fondo Valentino Bompiani del Centro Apice di Milano dà un
riscontro negativo a tale supposizione.
L’articolata ipotesi può essere applicata anche nel caso di Einaudi, presso cui
Natalia Ginzburg pubblicava i propri romanzi; lì erano usciti La storia di Elsa
Morante (1974)57 e numerosi volumi di Lalla Romano. Anche presso Mondadori,
tuttavia, trovavano spazio i gialli di Agatha Christie ma anche Vestivamo alla
marinara di Susanna Agnelli (1975) ed Essere di paese di Gina Marpillero (1980),
due volumi autobiografici e di memorie, lontani dalla forma-romanzo tout court.
Inoltre, si avevano i romanzi di Alba de Céspedes, ad esempio quello di
ambientazione parigina Nel buio della notte (autotraduzione, 1976, pp. 380, dopo
la prima edizione Sans autre lieu que la nuit, Seuil, 1973); un testo imponente, in
cui la solitudine della vita in una megalopoli fagocita il quotidiano. Per Einaudi,
Mondadori e Feltrinelli uscivano all’epoca anche i romanzi di Marguerite Duras,
la cui esplicita sessualità poteva trovarsi in linea con quella di Goliarda Sapienza.
I tre editori contattati dall’autrice rientrano in un sistema di accoglimento
ammissibile.
Per ciò che concerne il ‘canone letterario’ cfr. Fortini (2016), mentre Bazzoni (2016)
riconosce nel modello de La storia e di Aracoeli (1982) alcune inferenze narratologiche e tematiche
che AdG sembra cogliere da Morante anche in termini oppositivi, nella forma e nel sistema dei
personaggi.
57
196
A ben vedere de Céspedes, Ginzburg, Morante e Romano, sono tuttavia autrici
affermate e non appartate nel panorama editoriale. Se si pensa ancora a
Mondadori, lo stesso editore stava ripubblicando Grazia Deledda, faceva uscire i
romanzi di Luce d’Eramo – Deviazione (1979) e Nucleo Zero (1981) ma anche i
successivi – e si contendeva con Feltrinelli le ripubblicazioni di Sibilla Aleramo.
Tutt’altro panorama per quanto riguarda Sonzogno, sempre nel periodo che
procede dal ’75 all’85, e che riproponeva i romanzi di Liala e Mura, i quali
avrebbero collocato AdG in un catalogo di letteratura rosa, del tutto fuori asse
rispetto alle aspirazioni di Sapienza. Mursia, invece, si dedicava ai profili letterari
di autori nella collana Invito alla lettura.
Rizzoli, di cui nel 2018 si erano fornite alcune direttrici che riguardavano le
pubblicazioni tra saggistica e inchiesta di Armanda Guiducci e Anna Del Bo
Boffino58, diffondeva i best seller di Oriana Fallaci Lettera a un bambino mai nato
(1975, pp. 100) e Un uomo (1979, pp. 456), entrambi definibili in una dimensione
esterna alla letteratura, tra riflessione e memoria. Pubblicava inoltre L’inferriata
di Laura di Falco (1976, pp. 249) – autrice poi passata a Mondadori con Piazza
delle quattro vie (1984, pp. 226) –, alcuni libri della giornalista Brunella Gasperini
– che sosteneva dagli anni Sessanta – e Memorie di una dilettante di Rossana
Ombres (1977, pp. 174) – anche lei divisa tra Feltrinelli, Mondadori e Einaudi,
quest’ultimo anche editore di Althénopis di Fabrizia Ramondino (1981, pp. 268) e
di altri suoi libri, come indicato da Domenico Scarpa59.
Tutt’altro capitolo si aprirebbe nel confronto con le case editrici legate al
movimento femminista: molte e, alla fine del 1978, già radicate. Si pensi, in
particolare, a La Tartaruga di Laura Lepetit, circoscritta in ambiente milanese ma
che, nel 1982, ripubblicava Nascita e morte della massaia di Paola Masino (pp. 282)
già Bompiani (19451 e 19702), e soltanto nel 2003 riproporrà Il filo di mezzogiorno
grazie all’interesse di Patrizia Zappa Mulas. Allo stesso modo le Edizioni delle
Donne di Roma, che avevano pubblicato Zeta o le zie di Laura Lilli nel 1980 – un
romanzo fortemente sperimentale –, avrebbero potuto accogliere il romanzo di
Goliarda Sapienza; inoltre proprio quella realtà sarà poi sostenuta
economicamente ancora da Marta Marzotto. A metà anni Ottanta anche la casa
editrice foggiana Bastogi di Angelo Manuali, che aveva ospitato Jean, la “mite”
compagna di Modigliani di Lucia Drudi Demby (nel 1984, p. 140), appariva come
un altro ‘porto’ per Sapienza, e così la torinese La Rosa.
La ‘naturale’ spinta verso Rusconi – ancora proposta nell’epistolario editoriale
– pare essere in linea con altre pubblicazioni di quel periodo: si pensi ai romanzi
di Milena Milani La rossa di Via Tadino (1980, p. 283) e Umori e amori (1982, p. 262)
senza citare quelli degli anni Settanta. E appare logico pensare che anche
58
59
Trevisan (20182), n. 55.
Cfr. Scarpa (2008); poi Trevisan (2012) e Ferro (2016), con due articoli di taglio tematico.
197
Longanesi, casa editrice che pubblicò nel 1964 La ragazza di nome Giulio (p. 297,
per il quale Milani e l’editore subirono una condanna per censura) potesse essere
una destinazione favorita da Sapienza tra il 1975 e il 1985; tuttavia, confrontando
i titoli del catalogo, non risultano ivi presenti nomi di autrici degni di nota.
Secondo questa ricostruzione le scrittrici italiane afferenti a una certa ‘nicchia
di mercato’ nel decennio indicato sembravano già inquadrate dal punto di vista
editoriale mentre le altre trovavano collocazioni diversificate, anche seguendo un
percorso personale, legato a editori indipendenti e coraggiosi. In effetti è questo
il caso di Anna Maria Ortese, che aveva pubblicato per Rizzoli Il porto di Toledo
nel 1975 e Il cappello piumato per Mondadori nel 1979.
L’autrice sembra condividere con Sapienza uno squilibrio nella propria
vicenda editoriale soprattutto negli anni Ottanta, quando approderà alla casa
editrice Pellicanolibri di Beppe Costa60, destino in comune con Adele Cambria e
il suo Nudo di donna con rovine (1986) e con l’ultimo romanzo in vita di Sapienza,
appunto Le certezze del dubbio dell’87. Ortese approderà ad Adelphi in quel
periodo grazie anche all’intervento di Costa; quella stessa casa editrice aveva
rifiutato anche AdG, come rivelava l’autrice nel 1983.61
Il repertorio presentato non acquista valore solamente tenendo conto del
successo tardo di AdG (con uno sguardo a posteriori) ma anche nel contesto dei
tentativi di pubblicazione da parte di Sapienza. Qui non si evidenziano solo i
limiti riguardanti il ‘genere letterario’ del romanzo – secondo gli editori di
difficile collocazione – o legati alla ‘materia testuale’ (dunque alle ragioni
ideologiche avanzate da Pellegrino) quanto alla lunghezza e al costo di stampa
dell’opera per una scrittrice lontana da ogni genere di adesione sia politica sia
intellettuale, libera e misconosciuta, che potrebbe perciò non raggiungere un
pubblico vasto. Ed è evidente che la generazione di ciascuna autrice possa aver
condizionato anche l’appartenenza editoriale di Sapienza, la quale in prima
battuta non aveva scelto la Einaudi della Morante (e della Ginzburg) ma la Rizzoli
della Ortese, dove avevano infatti trovato spazio non solo Il porto di Toledo ma
anche le ristampe di Poveri e semplici nel 1974 e de L’iguana nel 1978 (per la BUR).62
Due modelli di scrittrici nate nel decennio antecedente rispetto a Sapienza –
Cfr. Trevisan (2019).
Cfr. Trevisan (20182), n. 27. Tra 1975 e 1985 Adelphi pubblicava Karen Blixen, Colette,
Katherine Mansfield, Simone Weil, e poi Elena Croce e Lucia Drudi Demby.
62 La connessione fra Morante, Sapienza e Ortese è riconosciuta tematicamente sotto la lente
dell’assenza del padre in AdG da Laura Fortini (2011), dunque Laura Ferro (2016) tratta la coppia
Ortese-Sapienza per ciò che concerne il contesto della narrazione dell’infanzia, di cui AdG si fa
portatore. Le studiose non danno evidenza, tuttavia, dei probabili termini strettamente editoriali
che coinvolgono le autrici menzionate.
60
61
198
Morante nel 1912, Ortese nel 1914 –, calate nell’immaginario63 e che tuttavia
dividevano critica e pubblico. In particolare, alla seconda erano note le scarse
vendite dei propri romanzi; inoltre riconosceva uno scarto nel mercato editoriale
italiano dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta ma anche una trasformazione
dell’orizzonte d’attesa nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, come
rivelava a Beppe Costa in una dichiarazione del 1986.64 Questo fatto, in termini
di ‘trasposizione critica’, pare determinare anche la posizione di svantaggio di
Sapienza nei confronti di Rizzoli.
4. Un’anteprima ‘di Modesta’ e i documentari
Dopo la scarcerazione e durante il periodo di promozione de L’università di
Rebibbia, L’arte della gioia (come titolo) compariva su tutti i giornali, quasi in
un’operazione di marketing che avrebbe preceduto il lancio del romanzo – e
invece si rese utile solo per il volume Rizzoli.
Negli anni tra l’87 e il ’92 circa erano ancora vicine a Goliarda Sapienza sia
Adele Cambria sia Simona Weller, le più care amiche del Gruppo di scrittura; la
prima, in particolare, aveva ricevuto il manoscritto di AdG già al Teatro La
Maddalena con un appunto di Goliarda: «Ho voluto – mi disse – tentare la
scommessa di una narrativa popolare di sinistra»65, prova che la metterebbe in
relazione con la Morante, come ha evidenziato Scarfone a conclusione della sua
analisi su AdG:
Pur essendo […] un testo profondamente inserito nel suo tempo, L’arte della gioia ne è
rimasto ai margini, e la sua mancata pubblicazione negli anni Settanta-Ottanta è
l’indizio più sintomatico di questa marginalità, termine che d’altronde si è più volte
rivelato produttivo nel definire la particolare posizione di Goliarda Sapienza.
Marginalità all’interno di un ambiente culturale che l’ha vista attrice e scrittrice poco
riconosciuta. Marginalità rispetto alle correnti femministe dominanti al suo tempo.
Marginalità, soprattutto, rispetto al canone egemone e alle tendenze letterarie coeve:
Sapienza rifiuta l’avanguardismo, il modernismo e il postmodernismo, senza nemmeno
scegliere la via del romanzo ‘tradizionale’ sul modello della Storia di Elsa Morante.
Come quest’ultima, però, tenta di creare un grande romanzo popolare, capace di
rappresentare, senza mai metterla direttamente in scena, la Storia del suo tempo e,
soprattutto, i fermenti e le idee che l’hanno attraversata. «Un vero romanzo popolare
delle nostre idee» [nella Cronistoria a p. 43, n.d.r.] come lo definì l’autrice stessa, dove
la componente ideologica sorregge un forte intento dimostrativo, dove erotismo e
politica convivono senza confliggere, e dove modelli alti e bassi si uniscono senza ironia.
Un’opera articolata e complessa ma al contempo smaccatamente melodrammatica, che
Cfr. Trevisan (2016), pp. 60-61; qui si espone la posizione critica di Cesare Garboli a
proposito della produzione di Elsa Morante «calata tutta nell’immaginario», definizione
estendibile a Ortese.
64 Cfr. Trevisan (2019), p. 17.
65 Cambria (2006); nella Cronistoria, cit., p. 43.
63
199
negli anni ’70 non poteva, per vari motivi, ricevere una collocazione e che oggi invece
sembra aver trovato il pubblico adatto ad accoglierla.66
Se i contenuti e lo stile paiono sempre definire la destinazione editoriale di
un’opera – ciò non è stato del tutto confutato –, il percorso odierno presenta
documenti anche inediti che portano a verificare come la ‘perifericità editoriale’
di Sapienza fu determinata da fattori diversi: i più validi sono l’accettazione delle
regole (di mercato) di ciascuna casa editrice cui si propose e la continuità di
pubblicazione richiesta alle autrici e agli autori.
La ricerca d’archivio e la relazione tra materiali critici parlanti restituiscono
alcune letture coerenti che riguardano l’opera calata nel proprio tempo, e
dunque: dal passato al passato, non dal presente al passato.
Ritornando alle frequentazioni: anche la Ginzburg e Garboli erano figure del
mondo editoriale cui probabilmente Sapienza aveva chiesto alcuni consigli circa
i suoi testi ma furono specialmente il circuito di autori attorno a Pellicanolibri,
con Beppe Costa e altri, e poi gli studenti del CSC (alcuni affermatisi nel mondo
del cinema contemporaneo) gli amici più presenti tra anni Ottanta e Novanta,
veri punti di riferimento per lei.
Conclusa l’esperienza del Gruppo di scrittura, che l’aveva tuttavia portata a
pubblicare su «Tuttestorie» di Maria Rosa Cutrufelli67 si dedicherà – come
anticipato – ad altre scritture a oggi inedite.
Si dovrà attendere il 1994 per leggere L’arte della gioia come quarta
pubblicazione del catalogo di Stampa Alternativa, in un’edizione ridotta alla
prima parte del romanzo integrale (capitoli 1-39). La collana che ospitava il testo
è la Millelire più, nata dallo sforzo di autori che rinunciarono alle proprie royalties
per sostenere la casa editrice di Baraghini, come testimonia Marisa Rusconi
(1994). La stessa giornalista dava notizia della qualità letteraria del libro di
Sapienza affiancandolo ad altri titoli, tra cui Adele Cambria con i racconti di
L’amore è cieco e Angelo Maria Pellegrino con Prendi.68 AdG sarà poi segnalato
anche sulla rivista «Via Dogana», mantenendo un legame con l’ambiente del
femminismo.
Scarfone (2018).
Gelosia (da Destino coatto) figurerà in «Tuttestorie», n. 2, giugno 1991, pp. 50-51; poi in Il
pozzo segreto. 50 scrittrici italiane, strenna della rivista, Milano, Giunti, 1993. Quest’ultimo volume
ritraccia un titolo della Ginzburg ma, per Sapienza, ha più a che fare con l’appartenenza al
Gruppo che con un’aspirazione alla pubblicazione che preceda l’operazione di Stampa
Alternativa.
68 Titolo che non trova alcuna corrispondenza nel catalogo SBN nazionale. Per Stampa
Alternativa Pellegrino aveva già pubblicato il suo In Transiberiana nel 1991, nel 1993 Nel segreto di
Palmarola e pubblicherà Verso oriente: pagine di viaggio di autori italiani (1995) due opere correlate
(quest’ultima già edita presso l’Istituto della enciclopedia italiana nel 1985).
66
67
200
Considerate le condizioni di precarietà economica, la posizione assunta da
Sapienza con Stampa Alternativa assumeva un significato etico e radicale.69 Sarà
dello stesso anno il tentativo avviato da alcuni amici, tra cui (di nuovo) Adele
Cambria e Beppe Costa, di far ottenere a Sapienza la Legge Bacchelli com’era
avvenuto per Elsa Morante e Anna Maria Ortese70, cosa che non fu possibile a
causa della fedina penale macchiata del furto che l’aveva condotta a Rebibbia.
Anche per questa ragione, come rammenta Costa, fu istituito il Premio Casalotti
attribuitole nel 1993.71
La contestualizzazione di AdG, fuori-norma e fuori-tempo, risultava pertanto
mutata rispetto al decennio precedente, eppure eternata da un personaggio e da
una quarta di copertina che ne descriveva i tratti principali: «La protagonista di
questo romanzo […] forte di quella genialità primaria che (è noto) viaggia sempre
a ridosso della criminalità, seguendo solo l’intelligenza delle cose, approda a ciò
che tutti noi cerchiamo, la gioia»72, la stessa presente nella citazione ‘lirica’ da una
poesia di Lalla Romano che apre questo studio.
Nel 1994 si ricominciava a conoscere il nome dell’autrice grazie ai contributi
di Virginia Onorato e Anna Amendola, che giravano il documentario Storie vere
– Goliarda Sapienza (ora in «Rai Teche») mentre il CSC, grazie al desiderio di Paolo
Franchi, varava un docufilm dal titolo frammenti di sapienza73, in cui Goliarda in
persona leggeva anche le proprie poesie poi pubblicate in Ancestrale.
In un panorama del tutto cambiato – anche dopo Tangentopoli e l’avvento di
Forza Italia, mentre Sapienza era candidata coi Radicali nel 1994 come riportato
in Una voce intertestuale – l’editoria ammetteva autori più giovani, sulla scorta
dell’avvento dei Cannibali e delle antologie pubblicate in quegli anni da Tondelli,
che fecero emergere Silvia Ballestra ed altre autrici.
Si possono segnalare alcuni titoli del catalogo di Stampa Alternativa di quegli anni: nelle
Millelire più uscivano Ali (1992, a c. di Tomoko Senoo) e Inquietudine d’amore (1993, trad. S.
Bisacca) di Yukio Mishima, che sarà un autore prediletto da Sapienza, soprattutto nelle sue lezioni
al CSC come rivela Gobbato (2011); poi usciva l’Apologo sulla felicità di Grace Paley (trad. di A.
Cristofori), Gertrude Stein, Rosella Mancini e l’esordiente Francesca Lesnoni. Nella collana
Piccola libreria Millelire, nel 1994, si pubblicavano Giacoma Limentani con Il più saggio e il più
pazzo, Rosetta Loy con Walter Palmaran, Ippolita Avalli con Cattivi sentimenti e Susanna Tamaro
con Chissene mentre Pellegrino traduceva Felicità di Katherine Mansfield.
70 Cfr. Trevisan (2019).
71 Cfr. Archivio privato Beppe Costa, Roma.
72 Sapienza (1994).
73 Cfr. (s.a.), Il Centro di cinema vara un mini-film, in «Corriere della Sera», 29 marzo 1994.
Questo lavoro usciva a settembre 1995.
69
201
4. Conclusioni
Come ricorda Angelo Pellegrino, nella primavera del 1996 si presentò la
possibilità della pubblicazione dell’intero libro, a vent’anni dalla conclusione.
Appuntava Sapienza: «Sono passati trent’anni dal primo appunto su Modesta.
Attenta, Goliarda, a non cadere nel tranello dell’autocensura».74
Nel 1998, a due anni dalla scomparsa della scrittrice, il ‘romanzo
anticlericale’ (questo il sottotitolo della prima edizione integrale edita da
Pellegrino) veniva pubblicato da Stampa Alternativa. Adele Cambria riferiva ai
microfoni di «Radio 3» che L’arte della gioia:
racconta in termini contemporanei la solitudine dei sessi [ma anche] l’ascetismo rosso’,
quello che io chiamai così. Lenin viveva con tre tazze da the in esilio a Londra e impedì
alla moglie di fare figli, e vietò all’amante di suonare al pianoforte Chopin perché questo
lo ammolliva come rivoluzionario. Ecco, questa cosa Goliarda la capiva del socialismo.
E quando Modesta si innamora di un medico vengono fuori le viltà degli uomini […]
[e anche] questo misticismo chiesastico.75
Proseguiva poi conferendogli una collocazione:
Il libro si iscrive a pieno titolo in quel filone di narrativa meridionale nel quale
includerei Elsa Morante, La lunga vita di Marianna Ucrìa di Dacia Maraini e
Passaggio in ombra della Di Lascia. Però di Goliarda questo è stato taciuto. La sua prosa
[è] rutilante, così ferace com’è la Sicilia, così gravida di colori, di umori, di calore, di
sontuosità […].
Goliarda è la persona più aliena, con la fobia di qualunque chiesa che io conosca. Il
sottotitolo ‘romanzo anticlericale’ riduce le prospettive.76
È Cambria a interessarsi per prima ‘interstualmente’ al testo, e a farlo anche a
trent’anni dalla conclusione della scrittura (il 1978) e vent’anni dopo (nel 1998),
dedicando al libro un’attenzione costante, amicale e disinteressata. Per lei la
collocazione è ‘narrativa’ – verrebbe da dire romanzesca – senza distinzioni.
Il testo era finalmente uscito postumo ma avrebbe dovuto attendere il successo
delle traduzioni – e l’esemplare lavoro di Nathalie Castagné in Francia – nonché
il rilancio da parte di critici quali René De Ceccatty; con il titolo Sapienza,
principesse hérétique su «Le Monde des livres» (16 settembre 2005) questo la
definiva un ‘nuovo Gattopardo’, avendo come principale riferimento per il
periodo della scrittura di AdG (1967-1976) il romanzo di Lampedusa che pare
soltanto uno delle tante attinenze possibili, come si è analizzato aprendo
ulteriormente ‘il campo’ della scrittura delle donne.
Pellegrino (2008), p. VI.
Cambria (1998). Cfr. Trevisan (2016), p. 155.
76 Cambria (1998). Cfr. Trevisan (2016), p. 156.
74
75
202
Alessandra, Trevisan
alessandra.trevisan87@gmail.com
203
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Monica Venturini, Goliarda Sapienza in AA.VV., Dizionario Biografico degli Italiani,
vol. XC, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2017.
La publication du roman L’arte della gioia de Goliarda Sapienza arriva pour l’Italie en
1998, après vingt ans de l’édition complète destinée aux maisons d’éditions et après
beaucoup de refus. L’article veut reconstruire l’itinéraire du période 1978-1994 en
mettant en relations documents d’archives édits et inédits ainsi que des romans et livres
publiés dans le contexte des années soixante-dix et quatre-vingt: ils contribuent à exposer
les diverses causes de l’absence de succès pendant sa vie.
206
Parole-chiave: Goliarda Sapienza; L’arte della gioia; editoria; Cronistoria; rifiuti
editoriali.
207
SIMONE TURCO, Qui d’infinito altrove. Appunti e spunti critici su
Cristiana Bortolotti, cantrice di ‘ciò che «resta»’
Cristiana Bortolotti è una voce poetica oggi pressoché ignota al grande
pubblico. In parte ciò è senz’altro dovuto alla collocazione editoriale di nicchia,
cui è corrisposta una circolazione relativamente ridotta delle sue raccolte.
Tuttavia, questo non implica un giudizio di valore, dato che spesso la poca
penetrazione d’un dato autore presso il pubblico nulla ha a che fare con il reale
valore dell’autore e dell’opera. Si tratta, in molti casi, di mera casualità, cioè di
circostanze più o meno favorevoli. In realtà, specialmente agli esordi, l’opera
bortolottiana suscitò un certo interesse in àmbito critico; si ricordino a titolo
d’esempio i saggi, incorporati nelle varie raccolte, a firma rispettivamente di
Silvio Endrighi, Giuseppe Nasillo, Enrica Salvaneschi, Paolo Valesio.
Ciò nonostante, la Bortolotti resta un’autrice da scoprire, più che da riscoprire.
Diverse sono le raccolte che scandiscono il suo canto: Il gioco dell’aquilegia (1994),
Munus (2001), Tâw (2007), e quelle che ci sentiamo di chiamare se non maggiori
almeno centrali, La ruggine e la rosa (1998) e Euridice (2007), nelle quali la
maturazione autoriale è visibile e definita. Con questo breve saggio, senza la
pretesa d’essere esaustivi, si mira a dare dell’autrice un profilo critico più
sistematico e definito sulla base de La ruggine e la rosa, profilo che si spera
ispiratore d’ulteriori indagini.
Si può dunque cominciare direttamente dal testo che fa da incipit a La ruggine
e la rosa, e che è intitolato Ad Amelia Rosselli, recante ad esergo l’«11 febbraio
1996», data della morte della Rosselli (si è mantenuto il corsivo dell’originale):
Resta che vita
irruente grappolo
di carnevali
è sul graspo quaresimale
e rara d’un sorso
si trangugia
altrimenti
se ne distilla il diamante
se in agguato
giace il buio
che dilania la mente
come flato
come alma della grotta
millenaria di cristalli;
5
10
208
resta che un diritto
ti serba, l’orto dei padri
quel tonfo
sul guardo riverso
mirino, che tendesti
piú terso…
tonfo d’un grumo
tra quelli recessi,
frale, umorale
e grato
sul tuo nastro di brina
indistricabile
fra testo e ruina.
E quando alla pupilla
cupo nodo, il sole mostra
nella verde tresca
la ramura
di becchi irta
e di rossura
il cortile s’adira
su fronte di ragazzo
scroscia e fresca tuona
improperio celeste e viola.
15
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35
Qui d’infinito altrove
resta, alla pietà di me
che ti svaporo
per truogoli
della tua mirra gravi
come meste secchie
e da lor carrucole
al grido sfrena
di quei grembi alla catena
ove la petra d’acqua tua
garrula ride
e non trema.
40
45
Sulla base di questo specimen, sarebbe facile etichettare la Bortolotti come
autrice difficile; forse sarebbe più giusto definirla, con una concatenazione
semantica, ardua e ardita. È musicale, come mostrano le corrispondenze
assonanti e consonanti delle coppie di versi e i punti di rottura degli
enjambements. Del resto, la natura musical-corale del verso è tradita, in primis,
dalla dedica alla Rosselli, autrice che sul verso musicale fonda anche
teoricamente la propria opera e che alla relativa orecchiabilità del canto associa
però un’effettiva difficoltà dal punto di vista semantico e, talvolta, lessicale.
209
Musicalità e, diremmo con un termine che la critica ha spesso usato in senso
quasi denigratorio, preziosità delle scelte lessicali formano la struttura teorica su
cui si costruisce man mano il canto della Bortolotti, la cui dedica alla Rosselli,
seppur indicativa, non ne rivela del tutto la prospettiva poetica. Il terzo perno
significativo è infatti l’elemento mitopoietico, che assume una valenza essenziale
anche solo considerando le scelte tematiche delle varie raccolte. Tâw, ad esempio,
affonda le radici in letture e suggestioni veterotestamentarie; Euridice, nel
rapporto e dialogo costante con i testi classici; La ruggine e la rosa (antecedente a
Euridice di quasi un decennio) mostra una fase al contempo apicale e intermedia,
un mélange nel quale l’esperienza antichistica si arricchisce attraverso
componimenti a tema libero, cioè meno legati a una scelta tematica univoca
(come, appunto, in Euridice). La ruggine e la rosa, che è anche il titolo d’un
componimento interno alla raccolta, evoca un’ambientazione tra il naturale e il
fiabesco, e si spinge nella direzione eliotiana o montaliana del correlativo
oggettivo puro nel quale significante e significato dovrebbero tendere
asintoticamente alla completa sovrapposizione.
Così è infatti nel componimento emblematico che si è riportato sopra. A
fungere da correlativi oggettivi sono alternativamente due tipi di composti: in
primo luogo quelli formati da aggettivo e sostantivo, in ordine anche inverso
(irruente grappolo, v. 2; graspo quaresimale, v. 4; guardo riverso, v. 18; cupo nodo, v.
29; improperio celeste e viola, v. 37), nei quali spicca un uso originalissimo e
sistematico della sinestesia; in secondo luogo quelli formati da complementi di
specificazione, dal forte legame genitivo (alma della grotta, v. 13; orto dei padri, v.
16; tonfo d’un grumo, v. 21; nastro di brina, v.25; petra d’acqua, v. 47), affiancati da
complementi aventi la medesima struttura morfologica ma di segno e significato
diverso (millenaria di cristalli, v. 14; ramura / di becchi irta, vv. 31-32; di rossura / il
cortile s’adira, vv. 33-34; fronte di ragazzo, v. 35; pietà di me, v. 39), di qualità e di
termine.
Tale impiego dei correlativi in forma sinestesica aumenta la forza evocativa
dell’insieme, e contribuisce a darne un’immagine che non è né classica né
moderna, ma certamente anti-contemporanea. Anche la scelta lessicale, infatti, va
controcorrente rispetto al gusto per la frammentazione o infinitezza sintattica e
per la facilità terminologica che caratterizza tanta poesia odierna. Pare un canone
inverso fortemente meditato, che gioca sulle difficoltà del verso mediante un
meccanismo di attrazione-repulsione e che, in armonia con la virtù musicale cui
s’è accennato, fa del suono il primo e principale elemento con il quale il fruitore
del canto si trova a fare i conti. Sono i suoni a essere interiorizzati ancor prima
dei significati, cosicché spiccano le consonanze aspre delle r e le relative
combinazioni dr e tr, che aumentano l’attrito fra testo e lettore. A livello di
assonanze, dominano i dittonghi e le vocali lunghe, in special modo la a, la cui
profondità fonica funge da antagonista ritmico allo stridore delle consonanze.
210
La breve analisi fonetico-formale che si è presentata vale per gran parte
dell’opera della Bortolotti, divenendo quasi un aspetto tipico che accomuna
l’autrice al Montale degli Ossi. Come Montale, la Bortolotti attua una ricerca delle
essenze che mette in relazione suono e contenuto in un continuum senza
soluzione. La metafora montaliana è, tra le altre cose, espressione del tentativo di
guardare ciò che sta sotto l’apparenza dell’oggetto1; per attuare tale processo è
necessario ‘essiccare’ e ‘scarnificare’, ovvero togliere gli strati superficiali anche
a costo di scoprire un’aridità dell’essere così ben incarnata dall’osso di seppia.2
L’oggetto da indagare poeticamente in questo modo è a sua volta espresso dalla
parola, e Montale in effetti sceglie, nella prima raccolta in particolare, un lessico
i cui suoni costitutivi rimandino all’operazione di levigatura dell’idea
soggiacente all’oggetto stesso.
La Bortolotti fa di tale scarnificazione un constant feature, un marchio che pare
tendere nella direzione filosofica della tradizione montaliana e, in parte, ermetica,
dalla quale in ogni caso Montale in parte si discosterà.3 La Bortolotti, autrice
vivente nel momento in cui vengono scritte queste pagine, non ha ancora deviato
da tale corso. Esistono tuttavia, a parte il linguaggio, delle differenze notevoli tra
l’impostazione degli ermetici ed esistenzialisti italiani (si aggiungano a Montale
Ungaretti, Quasimodo, forse Zanzotto e Sereni, e sicuramente la Spaziani e la
Campo) e le prospettive cui tende l’autrice. Se nell’universo montaliano –
portando avanti il conveniente confronto con l’osso di seppia – una volta
terminato il processo di spoliazione di oggetto e parola poco rimane di vero e
sostanziale, in quello bortolottiano non si ravvisa un’assoluta annichilazione
dell’essere. In altri termini, si tratta d’un destratificare che non arriva mai a una
fine, a ‘un’ fine, a una determinazione essenziale. Pare invece che sia il processo
a dover essere considerato, ‘socraticamente’, determinazione e oggetto
dell’indagine. Non esiste, cioè, un osso di seppia finale e dirimente che pur
contrastando con la pienezza della vita ne predichi la caducità anche in termini
metafisici.4
Nei versi dedicati alla Rosselli la spoliazione della parola si spiega come
alternanza tra l’irruente grappolo della vita, che ne mostra la pienezza, la rapidità
(il sorso, v. 5, o fugace flato, v. 12) con cui si consuma, e il distillato ch’essa lascia
dietro di sé (diamante, v. 8; cristalli, v. 14; grumo, v. 21). È uno sfogliarsi che ne
Nel Montale maturo, il correlativo oggettivo diviene una sorta di ‘correlativo soggettivo’;
si vedano Grignani-Luperini (1988), pp. 424-sgg.
2 Un (relativamente) recente ed esaustivo studio della nozione di aridità e secchezza negli
Ossi di seppia è quello della Ott (2006, ma 2003 nell’originale tedesco), che peraltro vede nell’iopoeta montaliano la lotta con «una natura impenetrabile, arida, segnata dal continuo
dissolvimento delle forme» (p. 86). Ciò è ben lontano dalla nozione bortolottiana, nella quale è il
disfacimento stesso a cagionare il canto e a fornire la ragione soggiacente all’esperienza vitale.
3 Sull’evoluzione del rapporto di Montale con la materialità si veda Biasucci (2010).
4 Cfr. Ott (2006), pp. 129-130.
1
211
chiarisce il senso (guardo riverso, v. 18, che s’accoppia col mirare terso, vv. 19-20)
ma al contempo ne pietrifica l’agire e ne disperde il significato più recondito,
come è evocato dall’immagine dello svaporarsi e del truogolo dal quale
arduamente s’attinge con meste secchie un’acqua pesante e presto asciugata (vv.
40-44). Ciò fa da contrappunto alla serie di versi precedenti, in cui appare la
proposizione scroscia e fresca tuona (v. 36) relativo alla verde tresca (v. 30) che il sole
mostra al ragazzo tra la ramura di becchi (vv. 31-32). Si può riconoscere qui una
complessa allegoria delle età rispettivamente giovanile e avanzata, in cui alla
facile freschezza, e verdezza, iniziale viene contrapposta la difficoltà del vecchio
nel quale la vita va seccandosi di cogliere anche attraverso il ricordo la gaiezza
dell’età prima. Ciò nonostante, pur nella predicazione di tale inaridimento, il
ricordo comunque trionfa, se si interpretano gli ultimi versi sul ‘ridere e non
tremare’ in termini positivi.5
Il tremare riferito alla vecchiaia è espressione del Qoèlet xii, 3, posta
nell’amplissima allegoria sull’età avanzata che prende spunto a sua volta da
elementi di vita umana e naturale (la bacca di cappero scoppiata, che rappresenta
il capo incanutito; le donne che guardano alle finestre e in realtà non vedono, che
rappresentano gli occhi, e così via)6. Nel testo biblico la narrazione proverbiale
mira a sottolineare il concetto espresso nel versetto finale del capitolo (xii, 13, 14),
che conclude anche il libro e che equivale a una sorta di monito dossologico: vista
la fine terrena dell’uomo, il suo scopo è temere Dio e osservare i suoi
comandamenti.
Il testo bortolottiano non ha la medesima funzione, né la stessa forma. Eppure
s’intuisce una certa affinità, se non altro nel ritmo concatenato delle immagini che
si susseguono e che più che fornire una morale servono a fare da sfondo a un
preciso impianto teorico, non metafisico bensì immanente. Come il capitolo
dodicesimo del Qoèlet tira le somme del distillato di vita di Salomone mediante
un’allegoria descrittiva dell’ultima età dell’uomo, così la poesia d’apertura de La
ruggine e la rosa impiega una serie ordinata e coordinata di simboli descriventi il
medesimo processo di maturazione e decadenza ponendo però come fulcro la
pienezza del ricordo. La chiave per la comprensione della poesia e della raccolta
intera è presente come spia vedetta già nel primo verso: Resta, reiterato all’inizio
della seconda e poi dell’ultima lassa, è cifra distintiva di ciò che seguirà. In un
Un sintagma simile si ritrova in un’opera quasi certamente ignota all’autrice, una raccolta
di commenti sull’Antico Testamento del religioso Gioacchino Ventura, Le bellezze della fede (1842),
p. 184, dove è il demonio a ridere senza tremare alla vista dell’armatura dell’uomo. È curioso che
un tale concetto emerga in un testo dedicato alla fede e d’ispirazione veterotestamentaria, ma di
segno del tutto inverso rispetto al tenore spirituale, ma non fideistico, della poesia della Bortolotti.
Si potrebbe quasi inferire un approdo su sponde speculari e contrarie da parte rispettivamente
del Ventura e della poetessa sollecitato da una medesima nozione di riso e tremore d’impronta
biblica.
6 Per l’esegesi rabbinica cfr. Della Rocca (2006), pp. 154-157.
5
212
contesto in cui si canta la consumazione della forza vitale, del suo progressivo
disfacimento, viene dunque predicato un ‘restare’, un rimanere assoluto che,
rifacendoci a Enrica Salvaneschi, che ha curato una postilla critica alla raccolta, e
a Silvio Endrighi (che insieme con la Salvaneschi ha intitolato al «Resto» il primo
volume della vasta serie del Libro linteo), si può dire esito aspettuale del divenire.
La nozione del restare è insita in quella del ricordare, che è però legata, anche
nella Bortolotti, alla sussistenza dell’io esperienziale e poetante, e si colloca a
metà fra il cupio vivendi nietzschiano e lo heideggeriano essere-per-la-morte. Chi
vive, seppur nella vecchiaia, ancora ricorda e in parte contrasta, col rimembrare,
l’aridità e asperità del tempo presente e avanzato. In senso assoluto, il ricordo è
affidatario dell’essere, o dell’‘essere stati’.
In questo discorso poetico, a differenza che nel testo biblico, la morte viene
presentita ma testualmente obliterata; affidatario della vita è, per l’Ecclesiaste,
Dio stesso, che sta ovviamente fuori dal contesto immanente. A Dio va lo spirito
vitale, ed è Dio che scrive un ‘libro di memorie’7 per coloro che sono morti, i quali,
di per sé, nulla possono ricordare e talvolta vengono dimenticati. L’accento è
pertanto logicamente sulla vita etica e su ciò che, dei morti, verrà ricuperato nella
risurrezione futura. Il restare di chi invecchia e muore è un permanere
teologicamente concreto, ma umanamente astratto, nella mente divina. Nel testo
bortolottiano tutto si gioca tra nascita e morte e nella pura espressione,
nonostante la caducità che pervade il divenire, della virtù arricchente della vita.
Il piano teologico non viene sconfessato, ma neppure sviluppato o elaborato,
sebbene tra le ultime due lasse sia posto, quale stacco grafico e concettuale,
l’inciso solitario Qui d’infinito altrove: gli antitetici Qui e altrove convergono in un
infinito, che essendo specificazione di altrove ne esalta il contrasto rispetto al suo
antonimo Qui; allo stesso tempo, il sintagma appare segno di una decisa
lontananza dal contesto dei criptocredenti e invece indice di altrettanto deciso
agnosticismo.
Dualità e antitesi si ripropongono anche nel titolo della raccolta. Ne La ruggine
e la rosa si leggono gli antipodi simbolici del canto poetico, che dalla tradizione
occidentale arrivano sino alla forma ch’essa assume nell’autrice. La rosa (simbolo
tanto falsamente scontato quanto lo sono ‘sole’ e ‘cuore’) rappresenta un’allegoria
declinabile in molti modi, e che si presta a molti significati. Per mantenere il fuoco
sulla struttura che si è finora evidenziata, è bene sottolineare che la ruggine è
elemento corrompente del ‘fior dei fiori’, che lo macchia e lo sciupa. Pertanto, la
rosa in questione non è una sorta di rosa mistica dantesca; certo è che ne
condivide ormai poeticamente i caratteri, se non altro a livello evocativo. ‘Rosa’
si associa quasi immediatamente all’incorruttibilità paradisiaca, all’amore, alla
donna (soprattutto vergine) e alla purezza sia fisica sia estetica. Parimenti
7
Mal. iii, 16.
213
evocativa è la ruggine, che in natura può attaccare la rosa e conferirle una
colorazione scarlatta.8
L’associazione di ruggine e rosa, nella confusione dei significati traslati e
contrastanti che evoca, lascia pertanto spazio (e volutamente) a una congerie
d’interpretazioni possibili, che prescindono dal valore di ‘bene’ o ‘male’ che si
voglia attribuire ai suoi elementi. Se, in senso classico, una rosa macchiata di
ruggine dovrebbe esser considerata imbruttita, è pur vero che difficilmente una
vera rosa, quindi non una rosa teologale, resterebbe perpetuamente priva di
ruggine, poiché prima o poi si corromperebbe. Questa visione realistica contrasta
con la «rosa fresca aulentissima» che rappresentò l’estrema idealizzazione d’una
virtù corporale angelicata ed erotizzata a un tempo, e il massimo emblema del
tentativo di esprimere sinteticamente l’amore terreno, in tutte le sue accezioni,
per tramite di termini teologici. È forse questo il significato più prossimo a quello
autentico, che va poi nella direzione che si è indicata sopra: il canto proposto è
canto di vita, vita in quanto fascio di contraddizioni tra freschezza e aridità,
giovinezza e vecchiaia, rosa e ruggine, le quali ‘assieme divenendo’ formano la
vera essenza del ricordo, ossia l’unico modo autentico dell’essere, che è un
restare. Questo restare sarebbe, privo della sua ‘ruggine’, qualcosa di indivenuto,
e dunque un non essere forse anche esteticamente poco valevole.
Il canto della Bortolotti è, in tal senso, un canto di ricerca e predicazione
dell’indistruttibile, che precisamente nella virtù destruente del tempo (scandito
dalle età dell’uomo, ma anche dal disfarsi del fiore) trova la propria essenza. Si
tratta d’un indistruttibile che consiste non di annichilazione ma di memoria,
perpetuata anche attraverso testo e ruina (v. 27) intesi come tessitura di parole e
violenza dell’esperienza fisica e materiale.
La pregnanza filosofica di tale poetica è immensa, allorché rimanda al dibattito
costante sopra la nozione ontologica degli universali.9 La Bortolotti resta
abilmente fuori da tale diatriba, dal momento che il varco metafisico cui aspira si
risolve nel qui e nell’ora; ciò nondimeno, il fatto che il suo io poetante si tenga
quasi ostentatamente al di qua della terra desolata dell’essere, e non si amareggi
per il destino nullificante che caratterizza l’esperienza umana, ne accentua il
tratto esistenziale laddove si carichi di tutta la gamma espressiva delle esperienze
poetiche precedenti, antiche e moderne, creando una lingua e uno stile unici e
A meno di non considerare una possibile altra facies – omografa ma non omofona – di rosa
come rósa, così da far risultare il sintagma come «la ruggine e la rósa», cioè colei che è stata erosa
subendo l’effetto ossidante della ruggine. Si tratterebbe d’una interpretazione ardita e sostenibile
solo con difficoltà, sebbene non aliena, in linea di principio, dalla virtù logopoietica dell’autrice.
Osserva Enrica Salvaneschi che lo strumento principe della Bortolotti è rappresentato da
«un’ardua, talora inaudita scelta lessicale», Bortolotti (1998), p. 114.
9 Tra realisti (tra cui Anselmo) e nominalisti (come il Roscellino); per un’originalissima
disamina del problema nella teoria poetica, si veda Kövecses (2018), pp. 154-168.
8
214
difficilmente comparabili ad altri contemporanei. Enrica Salvaneschi ha definito
il risultato percettivo di tale operato poetico-poietico «una sinestesia continua e
continuata fra corpo e mondo. […] non allegoria, non simbolo, non metafora – e
dunque, non analogia»10.
Dato il percorso tracciato, che si spera foriero d’ulteriori e più incisivi
interventi, pensiamo sia opportuno citare anche il complesso poemetto dal titolo
La ruggine e la rosa, che si riporta qui integralmente:
La ruggine e la rosa
questo fui nella rugiada
qui ove una lebbra purpurina
arde quel ferro
che piú flavo divien
via via che sfarina
e agl’orti rende il proprio nerbo
qui mentre sul tallo
mocida lucea la piaga
d’una età già mencia e vaga
qui fu, ove tutto strusse o vagí
all’opra d’una brina
che per lagrimi Saturno
nel buior che gualcisce
l’agave supina
per risorger irta
qual silfide ialina
a nidiar in turpi alcove
e con argentini artigli
a ricamar ardui giacigli
e gremir cardini rauchi
e di campane vani glauchi
e se ancor si levi pasqua
riè con ella
sugli arnesi a sfar la rubbia crosta
e sovra
a durir la boccia mansa e fresca
che piú smunta roseto desti
nel fragorío di venti casti
che spian nell’urna
de’ sue frali vesti
se alcuna alma
mai non sosti.
10
5
10
15
20
25
30
Bortolotti (1998), p. 118.
215
Non s’intende fare una disamina puntuale d’ogni verso, bensì collocarlo nel
quadro della presente trattazione. S’assiste qui a un’ulteriore dicotomia dell’io
poetante, normalmente di per sé unificato, che si mostra in due elementi definiti:
esso incarna la ruggine e la rosa, separatamente eppur unitamente, il che conferma
in parte l’interpretazione che si è data circa la sostanziale coesione di freschezza
e corruzione nella medesima esperienza. Alla ruggine corrisponde la piaga
corrompente della lebbra purpurina; il contesto è dunque quello della generale
decomposizione, come indicato da ‘sfarinare’ e ‘sfare’, ‘struggere’, e da smunta e
frali vesti.
Il poema tiene in singolare equilibrio la forte tentazione d’autocompiacimento
decadente e un moderato erotismo, evocato soprattutto dalla suggestione della
rosa sgualcita, come donna offerta in scarne vesti. L’erotismo è smorzato anche
dalla non immediata comprensione del lessico e della sintassi, che hanno l’effetto
di nascondere abilmente, nella furia del verso, il significato soggiacente. È questo
un emblema della tensione fonosimbolica che pervade l’opera, che come si è
accennato va a incidere di primo acchito sul piano evocativo-fonico del
significante.
Il voluto accostamento e ricupero di termini antichi e desueti causa uno
straniamento che riesce a trasportare il lettore in un àmbito altro rispetto a quello
della contemporaneità. L’esperimento in questione non è nuovo; antecedente
immediato è senz’altro il Pascoli de Il ciocco, al quale si deve l’aver riportato in
vita un’intera gamma lemmatica antica e specialistica già in parte superata
nell’epoca sua, con il risultato che il suo linguaggio può essere considerato aulico
per l’alterità che suscita, pur provenendo in larga misura dalla compagine
lessicale contadina.
Vero è che persino nelle composizioni più brevi, e in special modo nei Canti di
Castelvecchio – di cui peraltro Il ciocco fa parte – l’impiego di lemmi così stranianti
diviene inseparabile dal complesso sintattico, tanto da incidere sul ritmo spesso
allitterante del verso. Qualcosa di simile, mutatis mutandis, si osserva nella poesia
della Bortolotti, costituita da concatenazioni di sintagmi contenenti forme
verbali, sostantivali o aggettivali volutamente poco perspicue, laddove a forme
più comuni vengano sistematicamente preferite le corrispondenti più antiche
(opre, alma …).
L’accostamento col Pascoli, e col suo Ciocco in particolare, è rilevante anche nel
merito dei contenuti e delle intenzioni autoriali. La prospettiva in cui si muove
Pascoli è di natura mitico-simbolica. Con Il ciocco egli cerca di portare a
compimento un’epica popolare che ribalti il sistema tipico dell’epica classica
basato sulla materia mitica.11 Dèi ed eroi vengono sostituiti con gli uomini visti
come dèi; gli uomini, con gli insetti; la problematica esistenziale concernente
11
Scartozzi (2015), p. 108.
216
dolore e destino viene espressa mediante il riferimento parallelo, da una parte, al
mondo al di fuori del ciocco e dalla percezione che ne hanno le formiche e,
dall’altra, alla narrazione astrale fatta intorno al fuoco. Dal fuoco si passa alle
stelle, e dalle stelle all’oltre indeterminato, che gli uomini-dèi stessi percepiscono
come misterioso perché legato a forze ignote, come le forze del Fato che neppure
agli dèi propriamente detti è dato di conoscere appieno. Si tratta d’un sistema
infinito di rimandi in cui la narrazione contadinesca si fa epos, con un
corrispondente lessico ricercatissimo, specialistico e pur popolare – ma desueto
– che nel contesto presente risulta stranamente aulico.12
Il ritmo del canto bortolottiano segue una simile modalità, solo che, almeno ne
La ruggine e la rosa, l’io lirico prevale su quello epico, che risorge però, in altra
forma e con esplicito riferimento tematico alla classicità, nell’Euridice. In ogni caso
è evidente l’intenzione mitopoietica, vale a dire la volontà di far rivivere il mito
su basi che valgano per il presente ma che siano comunque universali (si veda il
riferimento a Saturno, come pure gli echi stilnovistico-cavallereschi presentibili
nel titolo). Ciò risulta in un implicito rifiuto della relativa facilità o immediatezza
di comprensione, simile a un minimalismo poetico, cui va incontro lo
sperimentalismo contemporaneista. Anzi, la preziosità, in questa singolare
querelle des anciens et des modernes, è forse intesa come strumento di
anticonformismo. Dal punto di vista strutturale, il componimento che s’è
riprodotto sopra si potrebbe riportare addirittura a modelli sei-settecenteschi; si
pensi ad esempio al miglior Filicaja, o, con falcata più ampia, al Leopardi de La
ginestra, in cui la ricezione della classicità si coniuga con la riflessione puntuale
sulla teoria letteraria e sul genio della lingua.
Un discorso a parte andrebbe fatto per gli influssi stranieri, più ardui da
riconoscere perché ben nascosti in una – sia detto positivamente – genuina
italianità. S’è menzionato T.S. Eliot, ma quale tappa quasi scontata nella
weltliterarische Bildung d’ogni poeta moderno. Meno scontato ma espresso – e qui
il cerchio si chiude – è il rapporto con la Rosselli, la cui dedica apre la raccolta che
s’è cercato di illustrare e i cui rapporti con la Bortolotti si è volutamente scelto,
sin qui, di ‘trascurare’.
Un motivo è che il componimento, almeno agli occhi del lettore ancorché
criticamente preparato, pare solo pretestuosamente dedicata alla poetessa
italoinglese; è infatti difficile leggervi un puntuale riferimento all’opera della
Rosselli, essendo i contenuti riguardanti la potenza del ricordo applicabili
teoricamente a ogni ‘perdita’, a ogni ‘restare’ della rimembranza, fissata nel testo
dopo che la vita s’è estinta e possibile epitaffio a ogni morte.
Innegabile è però la carica emotiva che vi si scorge, nonché la forza che essa
imprime alla raccolta e che assume essendo posta a esergo della raccolta stessa;
12
Per una trattazione si veda Turco (2018), pp. 217-238.
217
il che è spia dell’importanza che il confronto con la Rosselli deve aver giocato
nella formazione di Cristiana Bortolotti. Senza affrontare un’analisi comparativa
delle due autrici, cosa che richiederebbe uno spazio e una riflessione molto
maggiori, è però possibile incardinare in questo frangente la questione degli
influssi stranieri sull’opera della Bortolotti.
Amelia Rosselli, bilingue, poliglotta, direttamente influenzata, per biografia e
scambi culturali, dall’internazionalità, è stata crocevia di istanze poi distillate e
propagate attraverso la sua poesia.13 È forse dalla Rosselli quale intermédiaire
d’elezione o ‘d’affinità’ che sarebbe opportuno partire per delineare un quadro
della Bortolotti come auteur fort; non soltanto – come abbiamo cercato di fare in
poche pagine – in àmbito italiano, bensì in una prospettiva più ampia, sintetica,
sincretica e non da ‘minore’, che tenda piuttosto alla sua legittima collocazione
entro la Weltliteratur.
Simone Turco
Università degli Studi di Genova
simone.turco@edu.unige.it
Si veda Visciola-Limone (2005). Si suggeriscono al proposito – compiutamente segnalati
in bibliografia – due volumi propedeutici alla messa a fuoco dei rapporti letterari necessari a
individuare e comprendere i fasci d’influenze descritti sopra: Deidier (2008) e Deidier (20143).
13
218
Riferimenti bibliografici
Biasucci (2010)
Luigi Biasucci, Gli oggetti di Montale, Milano, Ledizioni, 2010.
Bortolotti (1994)
Cristiana Bortolotti, Il gioco dell’aquilegia, Potenza, Il Salice, 1994.
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1998.
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Cristiana Bortolotti, Munus. Dieci monologhi a una vuota cavea, Torino, Pentarco,
2001.
Bortolotti, Tâw (2007)
Cristiana Bortolotti, Tâw. Deflazione dal silenzio in 12 stazioni, Torino, Pentarco,
2007.
Bortolotti, Euridice (2007)
Cristiana Bortolotti, Euridice, o ladra cantica delle parusíe perdute, Castel Maggiore
(Bologna), Book Editore, 2007.
Deidier (2008)
Roberto Deidier, Da un luogo anteriore: poeti italiani del Novecento e oltre, Macerata,
Quodlibet, 2008.
Deidier (20143)
Roberto Deidier, La fondazione del moderno. Percorsi della poesia occidentale, Carocci,
Roma, 20143.
Kövecses (2018)
Zoltán Kövecses, Metaphor universals in literature in «ANTARES: Letras e
Humanidades», 10, 20, 2018, pp. 154-168.
Della Rocca (2006)
Roberto Della Rocca, Caducità e felicità dell’uomo in Qohelet, in Enrico I. Rambaldi
(a cura di), Qohelet: letture e prospettive, Milano, Franco Angeli, 2006.
Grignani-Luperini (1988)
219
Maria Antonietta Grignani-Romano Luperini, Montale e il canone poetico del
Novecento, Bari, Laterza, 1988.
Ott (2006)
Christine Ott, Montale e la parola riflessa. Dal disincanto linguistico degli Ossi,
attraverso le incarnazioni poetiche della Bufera, alla lirica decostruttiva dei Diari,
Milano, Franco Angeli, 2006.
Salvaneschi-Endrighi (2009)
Enrica Salvaneschi-Silvio Endrighi, Libro linteo. Titolo I: Il resto, Ro Ferrarese, Book
Editore, 2009.
Scartozzi (2015)
Sergio Scartozzi, La lirica cosmica di Pascoli. Il ciocco e il corpus astrale: fonti,
immagini e intertestualità della mitologia siderale in «Ticontre. Teoria, Testo,
Traduzione», IV, 2015, p. 99-123.
Turco (2018)
Simone Turco, «…un popolo infinito / che ben sapeva l’ordine e la legge». Stilemi epici
ed echi veterotestamentari ne Il ciocco di Giovanni Pascoli in «Lumina. Rivista di
Linguistica storica e di Letteratura comparata», II, 1-2, 2018, pp. 217-238.
Ventura (1842)
Gioacchino Ventura, Le bellezze della fede (1842), Roma, Zampi, 1842.
Visciola-Limone (2005)
Simone Visciola-Giuseppe Limone, I Rosselli. Eresia creativa, eredità originale,
Napoli, Guida, 2005.
The paper aims at illustrating Cristiana Bortolotti’s poetry through the analysis of two
poems from La ruggine e la rosa, one of her most emblematic collections. It is argued that
the way Bortolotti handles the existential problem draws on Montale’s notion of dryness,
but varies on the original concept of correlative objective so as to create a peculiar
relationship between the word and the world. Bortolotti would have placed at the core of
her poetry the notion of ‘remaining’ as the authentic and indestructible aspect of reality,
with memory as one of its focuses. It is contended that her recovering a precious, hard-tograsp, and even estranging lexicon may be compared to Pascoli’s mode of re-creating
220
myth in the present. Finally, a hint is provided as to Bortolotti’s rapport with Amelia
Rosselli, to be developed in further studies.
Parole-chiave: Bortolotti; ruggine; rosa; restare; infinito.
221
FASCICOLO II
222
VARIA
223
ELEONORA CAVALLINI, «L'inutilità del suo peso avvilito»:
riminiscenze omeriche in una lettera di Giuseppe Ungaretti a
Mario Puccini
Nel 2015, per i tipi di Archinto Editore, Francesco De Nicola pubblica per la
prima volta alcune lettere di Giuseppe Ungaretti, indirizzate allo scrittore-editore
Mario Puccini1 «tra il marzo e il dicembre 1917, anno cruciale per le vicende della
Grande Guerra e culminato a fine ottobre con la ritirata di Caporetto»2.
Come è noto, nel mese di luglio dell'anno successivo, dal fronte occidentale
(bosco di Courton, Francia), dove era stato trasferito in seguito a Caporetto,
Ungaretti avrebbe composto la poesia Soldati:
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.
Come osserva R. Pogue Harrison3, «l'uso di quell'impersonale "Si sta", invece
che della prima persona singolare, fa pensare alla preistoria epica della
similitudine poetica, una preistoria di cui Ungaretti era senza dubbio
consapevole quando ha paragonato i soldati alle foglie sul punto di cadere a terra
in autunno». Lo studioso prosegue ribadendo come la «genealogia» della lirica
ungarettiana si inserisca nel solco della tradizione epica, in cui, a partire da
Omero, ricorre l'immagine delle 'foglie' come metafora della caducità della vita
umana. In Iliade VI 145-149, l'eroe licio Glauco così risponde a Diomede che,
stupito dall'audacia dell'avversario, desidera conoscerne l'identità:
«Magnanimo figlio di Tideo, perché mi chiedi la stirpe?
Tal e quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini.
Le foglie il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva
altre ne germina, e torna l'ora della primavera;
così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l'altra sfiorisce» (trad. G. Cerri). 4
Sul rapporto, non sempre idillico, fra Ungaretti e Puccini, specialmente nel periodo
anteriore alla guerra, cfr. De Nicola (2015), pp. 6-14. Su vita e opere dello scrittore di Senigallia,
cfr. la voce Puccini, Mario in http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-puccini_(DizionarioBiografico)/.
2 Così De Nicola (2015), p. 5.
3 Pogue Harrison (2004), p. 134.
4 Omero (1996), p. 385.
1
224
Di séguito, Glauco deciderà di soddisfare la richiesta di Diomede, ma, anziché
rivelare il proprio nome, preferirà narrare dettagliatamente le gesta della propria
famiglia, tanto da permettere all'avversario di riconoscerlo come nipote di
Bellerofonte, già ospite di Oineo, a sia volta nonno di Diomede. La malinconica
riflessione di Glauco sulla caducità delle cose rispecchia la sorte di tutta
l'umanità, soggetta a un perpetuo avvicendarsi di prosperità e decadenza, di
fama e di oblio. Diversamente, il componimento ungarettiano non contempla la
selva fiorente in primavera, ma solo gli alberi autunnali le cui foglie possono
cadere da un momento all'altro, precarie come le vite dei soldati al fronte.
L'immagine delle foglie ritorna in Virgilio, Eneide VI 309-312:
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris inmittit apricis,
dove il paragone con le foglie che cadono in autunno si riferisce al gran
numero di anime che si assembrano sulle rive di Acheronte. Il modello virgiliano
sarà tenuto in considerazione da Dante, Inferno III112-117:
Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso all'altra, infin che il ramo
vede alla terra tutte le sue spoglie;
similemente il mal seme d'Adamo:
gittansi di quel lito ad una ad una
per cenni, come augel per suo richiamo.
Nonostante il riferimento all' "autunno" sia presente sia in Virgilio che in
Dante, l'ipotesto più vicino al componimento ungarettiano sembra essere il passo
omerico, in quanto in entrambi i casi il tertium comparationis non è il numero
sterminato delle anime accorrenti all'Ade, bensì la precarietà delle stirpi umane,
provvisorie e caduche come le foglie.5
D'altra parte, proprio Omero, che Ungaretti non leggeva in lingua originale,
ma di cui avrebbe realizzato molto più tardi, nel 1968, una traduzione di secondo
grado per le sue introduzioni agli episodi del film televisivo Odissea di Franco
Rossi (1968)6, era già presente nella memoria del poeta nel 1917, l'anno in cui
inviava dal fronte orientale le missive a Mario Puccini. Frustrato e avvilito
dall'andamento delle operazioni militari, in particolare dalla disfatta di
Caporetto, Ungaretti scrive a Puccini queste accorate parole7:
Per queste e ulteriori occorrenze dell'immagine delle 'foglie', cfr. Pogue Harrison (2204),
pp. 133-150.
6 Sull'argomento, cfr. da ultimo Livi (in corso di stampa).
7 Cfr. De Nicola (2015), p. 55.
5
225
Ho seguito il pellegrinaggio, stordito, per il Vallone per il San Michele per Sdraussina
lungo i cimiteri dove si lasciavano tanti morti che m'erano stati cari in vita, che avevo
visto partire schiantati in piena speranza increduli della morte, sebbene docili, poveri
compagni lontani. Stordito d'essere ancora, sulla terra, un uomo che sentiva il peso del
suo corpo fragile. L'inutilità del suo peso avvilito. Mio Dio che cosa atroce e
ossessionante portare così la propria vita viva, ebbene tanto stancata e logorata, quando
tutto ci sembra morto, tutto allontanato e noi rimasti non in una Tebaide8, ma in uno
smarrimento senza senso.
Non sarà casuale la consonanza con Iliade XVIII 98-104, in cui Achille, rivolto
alla madre Teti, confessa di non avere più desiderio di vivere, non essendo stato
in grado di recare aiuto a Patrocolo, da poco morto per mano di Ettore:
αὐτίκα τεθναίην ἐπεὶ οὐκ ἄρ᾽ ἔμελλον ἑταίρῳ
κτεινομένῳ ἐπαμῦναι· ὃ μὲν μάλα τηλόθι πάτρης
ἔφθιτ᾽ ἐμεῖο δὲ δῆσεν ἀρῆς ἀλκτῆρα γενέσθαι
νῦν δ᾽ ἐπεὶ οὐ νέομαί γε φίλην ἐς πατρίδα γαῖαν
οὐδέ τι Πατρόκλῳ γενόμην φάος οὐδ᾽ ἑτάροισι
τοῖς ἄλλοις οἳ δὴ πολέες δάμεν Ἕκτορι δίῳ
ἀλλ᾽ ἧμαι παρὰ νηυσὶν ἐτώσιον ἄχθος ἀρούρης
Come Achille siede presso le navi, «inutile peso per la terra», così Ungaretti,
«stordito» alla vista dei cimiteri ove giacciono tanti compagni periti in battaglia,
si accorge «d'essere ancora, sulla terra, un uomo che sentiva il peso del suo corpo
fragile. l'inutilità del suo peso avvilito». Due situazioni per molti aspetti simili,
ma due sensibilità profondamente diverse: se Achille appare divorato del senso
di colpa per non essere riuscito a soccorrere i suoi amici e commilitoni, Ungaretti,
pervaso da una nuova e più universale cognizione del dolore, percepisce il peso
del suo corpo, umano e vivente, come qualcosa di inutile, avvilito: eppure ancora,
nonostante tutto, proiettato verso un futuro su cui Achille non avrebbe mai
potuto contare.
Eleonora Cavallini
Università di Bologna
eleonora.cavallini@unibo.it
«Modo di dire per indicare un luogo desolato, deserto, dove si conduce un'esistenza
ifficoltosa, solitaria e isolata» (così De Nicola (2015), p. 57 n. 7). Il riferimento è probabilmente al
passo dei Promessi Sposi manzoniani in cui viene definito «una Tebaide» il Castello
dell'Innominato dopo la conversione e la conseguente scelta, da parte dello stesso, di una
condotta da anacoreta (http://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/tebaide/).
8
226
Riferimenti bibliografici
De Nicola (2015)
Francesco De Nicola, in G. Ungaretti, Lettere dal fronte a Mario Puccini, Milano,
Archinto, 2015.
Dizionario – Bibliografico Treccani
Dizionario – Bibliografico, s.v. Puccini, Mario
<http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-puccini_(Dizionario-Biografico)/. >
Livi (in corso di stampa)
François Livi, «Andavamo dove ci avevi detto / nobile Ulisse […]». Ungaretti traduttore
di Omero, in M. Lanzillotta (a cura di), Scrittori che traducono scrittori. Traduzioni
'd'autore' da classici latini e greci nella letteratura italiana del Novecento. Seconda
serie, «Levia Gravia» XX ("018), in corso di stampa.
Omero (1996)
Omero, Iliade, traduzione di G. Cerri, commento di A. Gostoli, con un saggio di
W. Schadewaldt, testo greco a fronte, Milano, BUR, 1996.
Pogue Harrison (2004)
Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, trad. it., Roma, Fazi Editore, 2004.
Some observations about a Homeric reminiscence in a letter by Giuseppe Ungaretti to
his friend Mario Puccini (1917).
Parole-chiave: Ungaretti; Puccini; Omero; peso; inutile.
227
ALESSIA MARINI, I Giordano Bruno del XXI secolo: gli eretici
delle DH. Progetti, tecnologie e iniziative per comprendere la
galassia dell’informatica umanistica
Maiori forsam cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam.1
Cambiare, evolversi, mutare e adattarsi sono imperativi naturali che
accomunano tutte le creature della natura. L’umanità non fa eccezione:
esattamente come tutti gli animali, anche l’uomo è soggetto a continui
cambiamenti. Si pensi solamente all’evoluzione, prima intellettiva, poi
psicologica, spirituale, tecnica e osservazionale che l’animale uomo ha avuto nel
corso dei millenni. Il cambiamento però non è solo qualcosa di indotto da
condizioni esterne, ma è anche, e soprattutto, insito nell’animo umano: è un
istinto primordiale inesplicabile, un’urgenza improrogabile che, prima o poi,
ognuno avverte nel corso della vita. Non tutti gli esseri umani hanno però il
coraggio o la lungimiranza di seguire questo istinto; i più ne sono spaventati, da
sempre, e cercano di reprimerlo e seppellirlo nella parte più buia del loro animo,
costringendosi a vivere in un ‘medioevo intellettuale’. In pochissimi, invece,
hanno assecondato questa esigenza di andare oltre il tangibile, il canonico ed il
visibile, lasciandosi guidare dal bisogno di domandarsi il perché delle cose, di
tentare di spiegare i fenomeni, di riflettere ed interrogarsi su dogmi sovraimposti,
di percorrere nuove strade, di evolversi, di cambiare. Questi pionieri hanno
compiuto degli atti rivoluzionari pur restando consapevoli del contesto
socioculturale che li circondava. Hanno proposto nuove idee pur sapendo che,
appartenendo ad una minoranza, esse potevano essere stroncate sul nascere e
ridotte al silenzio al pari dei loro ambasciatori.
Casi di particolare crudeltà si sono avuti quando queste aberrazioni cognitive
scardinavano o mettevano in dubbio gli insegnamenti culturali dell’istituzione
più longeva e potente mai creata dall’uomo: la Chiesa cattolica. Corrotta e lontana
dai suoi principi fondanti, la chiesa di Roma combatteva strenuamente contro
l’intelletto umano, un nuovo nemico, più forte e spaventoso di qualsiasi
sanguinario esercito straniero. Additare streghe ed eretici, portare avanti processi
fittizi, bruciare innocenti in grandi piazze gremite di fedeli era un po’ la “moda
1
Schoppe (1921).
228
del momento”, un’usanza macabra e barbara agli occhi dei moderni che porta a
considerare gli anni a cavallo tra la metà del XV e XVII secolo come uno dei
periodi più bui della storia europea. Nonostante questo clima di chiusura,
governato dalla Santa Inquisizione, risultava comunque impossibile mettere un
freno al naturale evolversi della riflessione umana.
Uno tra tutti, filosofo e religioso domenicano di origini partenopee, portò la
riflessione teologica verso nuove frontiere: Giordano Bruno. Egli sostenne
strenuamente la sua visione di Dio, del mondo e dell’Universo stesso, pensato
come un unico infinito, uno spazio immenso composto da spazi ed oggetti via
via più piccoli ma tutti creati da una stessa matrice e per questo indispensabili al
Grande Disegno.
Di maniera che non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi
quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un
cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un
comprendente, luogo e cielo. Ma se infiniti sono i Mondi e le galassie, l’uomo non può
essere il privilegiato del creato. Tantomeno lo è un unico popolo, appartenente alle
molteplici e poliedriche razze umane.2
Queste parole, ed in particolare l’universalità che esprimono, devono essere
state come un coltello che squarciava il telone dietro il quale era stata celata la
riflessione scientifica. Ma i tempi non erano maturi e le sue innovative idee
fruttarono a Bruno solamente una scomunica ed una vita da girovago, alla ricerca
di qualcuno che potesse accettare e condividere la sua visione di quel Dio infinito
e infinibile, che tanto amava.
Nessuno gli offrì questa possibilità. Fu invece sbeffeggiato, insultato, umiliato
e messo al bando in Francia così come in Svizzera, Germania e Inghilterra.
Rientrato in Italia fu imprigionato a Venezia e poi portato a Roma dove, dopo
torture indicibili, venne ‘processato’ e infine condannato a morte3. Bruno non
abiurò mai le sue idee, non ritrattò mai, né si arrese: fino alla fine vi rimase fedele.
Il 17 febbraio del 1600 in Campo dei Fiori a Roma, all’accendersi del rogo, egli si
spense sotto lo sguardo sprezzante dei più. I testimoni oculari del suo processo e
dell’esecuzione, ovvero gli intellettuali dell’epoca che ci hanno tramandato la
vicenda, descrissero la morte dell’uomo di scienza con parole ricche di
commozione.
Se la vicenda di Bruno può insegnare qualcosa è che avere il coraggio di
diffondere e difendere a qualunque costo le proprie idee soprattutto se si è consci
della loro bontà e di quali benefici se ne potrebbe trarre, non è mai una strada
facile. Non per questo non vale la pena percorrerla.
2
3
Bruno (1583).
Berti (1868).
229
Certo è che il ventunesimo secolo non è il 1600: la Santa Inquisizione è sparita,
le persone non vengono più arse sul rogo solo perché esprimono idee diverse e/o
innovative, il mondo appare più ragionevole rispetto a quattrocento anni fa.
Tuttavia, per quanto sia piacevole abbellire i nostri tempi con apparenze ed
illusioni, la cruda verità è che purtroppo, quando si tratta di innovazione e di
implementazione del nuovo in strutture ecdotiche preesistenti, si finisce sempre
su un terreno grigio e paludoso fatto di scetticismo se non a volte, di totale
chiusura.
L’accademia italiana, soprattutto nell’ambito degli Studi Umanistici, tende
ancora a guardare con sospetto tutto ciò che potrebbe essere minimamente
accomunabile alle scienze matematiche, statistiche o computazionali. In questo
atteggiamento è possibile rintracciare un doppio paradosso umano: il primo
riguarda la generica ritrosia al voler utilizzare gli strumenti informatici per
ampliare gli orizzonti e le possibilità della ricerca umanistica, quando tecnologie
simili sono parte integrante del nostro quotidiano; il secondo è il constatare che
una larga parte degli scettici proviene dalle ‘nuove leve’, come se la stessa
generazione Y fosse spaventata dalla tecnologia. Sono proprio loro ad ergersi in
difesa di metodologie canoniche restando sordi ai nuovi richiami; come una
nuova inquisizione, sempre pronta ad accendere il rogo.
Fortunatamente, per quante somiglianze sia ancora possibile rintracciare, non
siamo più nel diciassettesimo secolo, perciò sono convinta che per smuovere gli
scettici possa risultare utile un approfondimento orizzontale su tutto ciò che
possiamo definire DH. Osservare cosa è già stato fatto, cosa si sta costruendo e
quali potrebbero essere i nuovi sviluppi aiuterebbe a sciogliere i dubbi e ad
allentare il sospetto a riguardo.
Si parlava, in apertura, di evoluzione e cambiamento: è doverosa una
precisazione che riesca quantomeno ad affievolire i timori e le paure degli
‘inquisitori’ delle DH: nessuna delle discipline informatico-umanistiche ha infatti
lo scopo di scansare o distruggere le metodologie precedenti, bensì di utilizzarle
come base per lo sviluppo di ambienti web, software e tools utili tanto alla
didattica quanto alla ricerca accademica.
“Infiniti mondi ed infiniti cieli”: così si presenta la ricerca monodisciplinare,
una miriade di galassie sparse all’interno dell’universo del sapere, ognuna con le
sue caratteristiche, le sue stelle, i suoi meccanismi; può capitare, però, che due
galassie entrino in collisione4, mescolandosi e continuando a procedere insieme
nel loro percorso spaziale. Un qualcosa di simile accade nel momento in cui
materie come la linguistica, la filologia, la storia dell’arte e la storia entrano in
contatto con il codice binario, le nuove tecnologie e i “multiversi” della rete,
Quando avviene questo evento astronomico, si parla propriamente di galassie interagenti.
Per un maggiore approfondimento sull’argomento: Gasparri (2010).
4
230
dando vita ad un ventaglio di infinite possibilità. Sono matrimoni strani, non
convenzionali, ma che risultano, nella pratica, estremamente funzionali per lo
sviluppo di nuove tecniche di insegnamento, apprendimento e ricerca.
Entrando più nello specifico nella galassia delle DH, è possibile osservare più
da vicino i suoi componenti: alcuni di essi riguardano i risultati che si hanno
quando l’analisi testuale incontra la statistica, come nel caso del pacchetto
STYLO, sviluppato da Maciej Eder, Jan Rybicki e Mike Kestemont, all’interno
dell’ambiente R5. Come si legge nell’Abstract del loro saggio:
Stylometry (computational stylistics) is concerned with the quantitative study of
writing style, e.g. authorship verification, an application which has considerable
potential in forensic context, as well as historical research6.
Immaginiamo, quindi, di voler svolgere un’analisi stilistica delle maggiori
opere della letteratura italiana selezionando, per brevità, solamente l’opera più
conosciuta dei soli autori appartenenti al canone crociano; già con queste
restrizioni la lista risulta estremamente corposa e probabilmente non sarebbe
sufficiente una decade per portare a termine il progetto manualmente. Con
l’ausilio del sopracitato pacchetto, l’analisi risulta infinitamente più precisa e
celere. Maciej Eder, in un articolo del 20137, cerca di definire una lunghezza
minima dei testi in esame, che oscilla tra le 2.500 parole per i testi in prosa latini
e le 5.000 per i romanzieri europei, necessaria per avere dei risultati affidabili con
una precisione oscillante tra l’80% e il 90%. Il programma riesce, quindi, a leggere
e contare contemporaneamente tutte le parole contenute nei testi, stilando delle
liste di Most Frequent Words che, comparate tra loro, danno dei Delta8 di distanza
tra i testi: più questo valore è vicino allo zero, più ci sono somiglianze nello stile
degli autori. Uno dei vantaggi di stylo risiede nell’offrire allo studioso, oltre ai
dati numerici delle operazioni statistiche eseguite sui testi, anche varie
interpretazioni grafiche degli stessi dati, che possono risultare più leggibili ed
interpretabili anche a chi è poco avvezzo alle spiegazioni numeriche. Un software
così sviluppato può risultare utile non solo in campo letterario, ma può
dimostrarsi un prezioso strumento per l’analisi del linguaggio sui social network
o dei cambiamenti del linguaggio politico negli anni; allo stesso tempo può
aiutare a risolvere polemiche e diatribe sull’attribuzione autoriale di alcuni testi.
Il campo in cui la stilometria viene maggiormente applicato resta quello
dell’attribuzione autoriale: moltissimi sono, infatti, i contributi di ricerca che
vertono su questo tema; un esempio calzante è il contributo di Carol E. Chaski9
The R Project for Statistical Compunting, ambiente per statistica computazionale e grafici.
(https://www.r-project.org data di ultima consultazione 9/5/2019).
6 Eder-Rybicki-Kestemont (2016).
7 Eder (2015).
8 Burrows (2002).
9 Chaski (1997).
5
231
che già nel 1997 riflette sugli aspetti scientifici ed interpretativi dell’attribuzione
autoriale. Esistono, ovviamente, anche alti contributi che approfondiscono altre
tematiche legate alla stilometria, da questioni più tecniche ad altre più
interpretative: una lista, parziale ma esaustiva, è stata messa a disposizione su
GitHub10 da Christof Schöch11 e rappresenta un ottimo punto di partenza per chi
si approccia per la prima volta a questo variegato mondo. Un esempio molto
recente di come la stilometria può essere applicata oltre il campo
dell’attribuzione autoriale è stato presentato durante la conferenza AIUCD del
2019 tenutasi ad Udine; Simone Rebora ha proposto uno studio, svolto in
collaborazione con Massimo Salgaro12, circa il linguaggio delle book reviews di
letteratura italiana selezionate tra quelle pubblicate in una piattaforma di social
reading, in un giornale cartaceo e in tre riviste scientifiche. Già questi pochi
esempi sono, quindi, in grado di dimostrare l’estrema versatilità della Textual
Analysis.
La computazione testuale automatizzata non è l’unico campo in cui le DH
hanno dato frutti interessanti. Anche la filologia è entrata in contatto con
l’informatica, dando luogo a diversi tipi di edizioni digitali e tools per la ricerca
scientifica, quasi tutti basati sul linguaggio di codifica TEI13 (Text Encoding
Iniziative), basato su XML (eXtesible Markup Language), la cui prima versione P1
risale al 199014. Già dai primi anni del 2000 hanno iniziato a svilupparsi progetti
di messa a disposizione di materiali manoscritti sia in Italia che all’estero. Uno
dei più “attempati” è la Augsburg Web Edition of Llull's Electoral Writings15
risalente al 2001 e creata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Amburgo
sotto la direzione di Friedrich Pukelsheim: essa esibisce facsimili, trascrizioni e
traduzioni in inglese, tedesco, spagnolo e catalano. Pur con i suoi limiti,
principalmente legati alla grafica e all’organizzazione dei contenuti, l’edizione
digitale degli scritti di Llull risulta un buon prodotto per l’esplorazione e lo
studio del testo: accanto ad una scansione (che per la bassa risoluzione somiglia
ad una fotocopia) del testo manoscritto originale, vengono messe a disposizione
dell’utente sia la trascrizione in lingua latina che le traduzioni. Più o meno dello
stesso periodo, se non antecedente, è il progetto italiano promosso
dall’Università di Tor Vergata di Roma per la messa online di un autografo
boccacciano: l’Edizione Critica Ipertestuale dello Zibaldone Laurenziano (Pluteo
Servizio di hosting pensato appositamente per i software. La piattaforma permette agli
sviluppatori di caricare i loro codici, renderli disponibili e condivisibili e soprattutto permette
anche ad uno sviluppatore esterno di lavorare sullo stesso codice. GITHUB https://github.com.
11 Schöch (2017).
12 Salgaro-Rebora (2019).
13 TEI Consortium (2019).
14 Sperberg-McQueen-Burnard (1990).
15 The Augsburg Web Edition of Llull's Electoral Writings (2016).
10
232
XXIX.8) autografo di Giovanni Boccaccio 16, di cui è responsabile Raul Mordenti,
parte dalla trascrizione del testo e collega ipertestualmente ogni sezione con
l’immagine del facsimile. Anche questo progetto si presenta con un aspetto
grafico molto semplice, ma è frutto di una profonda riflessione sulle possibilità
di studio offerte da un’edizione ipertestuale17. Decisamente più recente è il
progetto inglese Jane Austen’s Fiction Manuscripts18 diretto da Kathryn Sutherland,
che utilizza gli strumenti informatici per creare un ambiente atto alla
visualizzazione, lettura e consultazione di tutte le opere manoscritte della
Austen, aiutando così l’utente nella ricostruzione dell’iter compositivo e dandogli
la possibilità di visualizzare il testo ed il facsimile dello scartafaccio, con e senza
cartiglio; l’edizione digitale della Austen si completa inoltre con la riproduzione
delle opere edite a stampa della scrittrice inglese. A questo punto non si può non
citare il Samuel Beckett Digital Manuscripts Project19, patrocinato dall’Università di
Anversa, diretto da Dirk Van Hulle e Mark Nixon e online a partire dal 2011.
Questa edizione digitale si basa su un caso di studio molto interessante: Beckett
aveva l’abitudine di scrivere e correggere i suoi testi, sia in inglese che in francese.
Il progetto perciò permette non solo di visualizzare edizioni e manoscritti delle
opere di Beckett, ma riesce a rappresentare chiaramente l’usus scribendi
dell’autore analizzando, tramite una minuziosa segmentazione del testo e
codifica, ogni frase singolarmente e rintracciando ogni sua occorrenza nel
materiale presente nell’ambiente. Spostandoci invece verso la vicina Francia
possiamo trovare il Proust Prototype20 di Elena Pierazzo e Julie André, che oltre a
visualizzare il facsimile dei quaderni proustiani permette di operare su di essi:
cliccando sull’immagine compariranno in successione le zone di testo seguendo
l’ordine di più probabile composizione e di lettura. Il progetto è, come indica già
il nome, un prototipo per lo studio e la visualizzazione di alcune pagine dei
quaderni proustiani; un primo passo per capire come rendere massivamente
fruibili determinati materiali complessi, utilizzando gli strumenti informatici e,
nel nostro caso specifico, la codifica XML-TEI. Altro interessante progetto
francese è l’Atelier Bovary21, nel quale vengono indicizzati e riprodotti i
manoscritti dell’opera flaubertiana riuscendo a ricreare una vera e propria
edizione genetica online in grado di tenere conto di tutto il materiale impiegato
nella composizione, dalle prime bozze alle ultime aggiunte; il tutto è consultabile
Edizione Critica Ipertestuale dello Zibaldone Laurenziano (Pluteo XXIX.8) autografo di Giovanni
Boccaccio (2001).
17 Mordenti (1998).
18 Jane Austen’s fiction manuscripts (2005).
19 Samuel Beckett Digital Manuscript Project (2011).
20 Autour d’une séquence et des notes du Cahier 46: enjeu du codage dans les brouillons de Proust
Around a sequence and some notes of Notebook 46: encoding issues about Proust's drafts (2012).
21 Les manuscrits de Madame Bovary, edition intégrale sur le web (2008).
16
233
su un apposito visualizzatore che permette all’utente di fruire sia del facsimile
dell’edizione di riferimento, che della sua trascrizione. Di tutt’altro tipo, ma
sempre basato sulla codifica TEI come la maggior parte dei progetti menzionati
prima, è EVT22, strumento sviluppato sotto la direzione di Roberto Rosselli Del
Turco, utile alla visualizzazione e allo studio di edizioni critiche e diplomatiche.
Con una conoscenza base della codifica XML-TEI è possibile, una volta scaricato
gratuitamente il tool, creare il proprio file da inserire in EVT, toccando così con
mano le potenzialità del tool e constatare quanto risulterebbe utile alla ricerca
filologica. Philoeditor 2.023 è l’ultimo progetto di Digital Philology che verrà
presentato: si tratta di un ambiente sviluppato da Fabio Vitali per l’Università di
Bologna. Basato su I Promessi sposi, esso si occupa di riportare su un’interfaccia
estremamente user friendly tutti i capitoli dell’opera in tutte le sue edizioni (1827,
1840 e altre edizioni successive) permettendo un confronto tra loro. Philoeditor 2.0
pertanto permette all’utente di esplorare il testo come più desidera, dandogli la
possibilità di scegliere quali metodologie e/o categorie correttorie visualizzare sul
testo.
Passando dalla filologia all’archivistica arriviamo in una nuova galassia di
possibilità: avere a disposizione uno spazio infinito quale è internet risulta utile
soprattutto per le scienze archivistiche che troppo spesso, nel mondo fisico, si
ritrovano ad avere a che fare con mancanza di spazio e deperibilità dei materiali.
La creazione di archivi digitali permette di superare entrambe le problematiche,
anche se ne sviluppa delle altre come l’indispensabilità di standard per la codifica
dei materiali ed una corretta indicizzazione. In particolare, bisogna selezionare il
formato elettronico più adatto alla conservazione, raccogliere le informazioni
circa l’autenticità del materiale, utilizzare adeguati insiemi di metadati secondo
schemi standard che garantiscano la interoperabilità a distanza di tempo e
introdurre procedure che garantiscono la qualità del processo come quelle dello
standard ISO 900024. Detto così potrebbe risultare un processo estremamente
complesso ma, in realtà, non è molto dissimile dalle operazioni di archiviazione
e gestione di un archivio fisico: le modalità di catalogazione utilizzano un
linguaggio (o codifica) differente, ma le risorse e i materiali sono sempre gli stessi.
Nella creazione di un archivio digitale, infatti, si parte sempre dall’analisi del
materiale fisico a disposizione: a seconda di come esso è stato catalogato ed
ordinato, ma anche seguendo il tipo di risorsa che ci si trova davanti, si crea un
nuovo schema di indicizzazione. Online esistono diversi archivi digitali, sia
EVT – Edition Visualization Tchnology (2006).
Philoeditor 2.0 (2010).
24 Queste ed altre informazioni sui metodi di conservazione digitale sono disponibili online
presso il sito del Centro di Eccellenza Italiano sulla Conservazione Digitale, Conservazione Digitale,
http://www.conservazionedigitale.org/wp/.
22
23
234
internazionali - come il Wiley Digital Archives25 che contiene, tra le altre, le
prestigiose collezioni della New York Accademy of Science e della Royal
Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, o come le Digital Collections
della Biblioteca del Congresso Americano26 - sia italiane, tra cui vale la pena
annoverare le collezioni digitali della Biblioteca Vaticana27 e quelle disponibili sul
sito del Museo degli Uffizi di Firenze28.
Può essere interessante soffermarsi un momento a riflettere sull’importanza
dell’organizzazione della conoscenza: l’universo della rete, nel suo essere
potenzialmente infinito, presenta il rovescio della medaglia, ovvero la facilità con
cui le informazioni possono andare perdute senza una precisa categorizzazione.
Proviamo a fare un esempio in termini più familiari e forse più comprensibili:
immaginiamo di andare su Google o su un qualsiasi motore di ricerca e di
scrivere la parola “Venere”, ottenendo così risultati che vanno dalle
rappresentazioni pittoriche e scultoree della Dea greca alle immagini
astronomiche del pianeta. Condurre una ricerca mirata fra queste informazioni
ambigue risulta difficile e lungo, e snellire quest’operazione di cernita del
materiale per arrivare ad un risultato il più preciso possibile è proprio uno degli
scopi del Semantic Web o web semantico. Quello che si vuole costruire, attraverso
l’utilizzo di ontologie29 e Open Data, è una vera e propria struttura
dell’informazione tale che, associando ad ogni risorsa un URI (Uniform Resource
Identifier), sia possibile creare delle triadi informative che leghino due risorse
tramite un predicato, e che a loro volta possano essere legate ad altre risorse di
altre triadi30. Questa concettualizzazione della conoscenza aumenterebbe
esponenzialmente la puntualità delle ricerche e risulterebbe utile anche per un
maggiore orientamento all’interno delle risorse informatiche. Con questo
obiettivo lavora il progetto DARIAH, europeo di nascita che ogni anno sviluppa
nuove sottosezioni nazionale: lo scopo è costituire un network utile sia
all’insegnamento che alla ricerca nel campo degli studi umanistici e dell’arte:
It develops, maintains and operates an infrastructure in support of ICT-based research
practices and sustains researchers in using them to build, analyse and interpret digital
resources. By working with communities of practice, DARIAH brings together
individual state-of-the-art digital arts and humanities activities and scales their results
to a European level. It preserves, provides access to and disseminates research that
Wiley Digital Achives, https://www.wileydigitalarchives.com/index.
Library of Congress, Digital Collections, https://www.loc.gov/collections/.
27 DIGIVATLIB, https://digi.vatlib.it.
28 Le Gallerie degli Uffizi, Digital Archives https://www.uffizi.it/en/pages/digital-archives.
29 “L'insieme dei termini basilari e delle relazioni, che costituiscono il vocabolario di un'area
specifica, e delle regole per combinare termini e relazioni per determinare estensioni del
vocabolario”, Neches - Fikes - Finin - Gruber - Patil - Senator - Swartout (1991).
30 Noia - De Virgilio - Di Sciascio - Donini (2013).
25
26
235
stems from these collaborations and ensures that best practices, methodological and
technical standards are followed31.
Nell’organizzazione della conoscenza online, quindi nello sviluppo del Web
Semantico, c’è ancora molto da fare – i vari livelli di codifica che questo strumento
richiede per essere affidabile risultano da un lavoro manuale, lungo e complesso
– ma grazie agli sforzi collettivi, siamo sulla giusta strada.
Accanto agli archivi digitali si trovano le cosiddette mostre virtuali: in quanto
digitalizzazioni delle risorse di un museo o di una collezione specifica, esse
somigliano concettualmente all’archivio, ma si differenziano da quest’ultimo sia
per il modo di costruzione che per l’organizzazione e caricamento dei contenuti.
Se per creare un Digital Archive è necessaria una conoscenza di standard, metodi
di catalogazione e codifica EAD32 (Encoded Archival Description, basato su XML,
necessita conseguentemente dell’utilizzo del foglio di stile XSLT per la resa in
HTML), per le mostre virtuali, o biblioteche digitali, sono sufficienti alcuni
software dedicati. I due più usati, per intuitività dell’interfaccia e resa finale, sono
MOVIO33 e OMEKA34: entrambi hanno il pregio di essere progetti sostenuti da
finanziamenti statali o fondi europei e possono perciò essere utilizzati anche da
enti modesti. Questa libertà di utilizzo ha permesso una grande proliferazione
online delle mostre virtuali poiché, proprio grazie a questi strumenti, anche
piccoli archivi e biblioteche hanno la possibilità di valorizzare e rendere fruibili i
loro materiali. Le mostre virtuali presenti sul sito del Museo Galileo35 di Firenze,
che contiene sia vari percorsi basati sulla collezione fissa che approfondimenti
sulle esposizioni temporanee, e quelle della BEIC36 sono solo due esempi di come
vengono utilizzate le mostre virtuali applicate ad archivi o collezioni fisiche.
Accanto a questi due progetti ve ne sono moltissimi altri e senza un aggregatore
sarebbe complesso rintracciarli negli sterminati spazi della rete. Proprio per
risolvere questo problema è nata Europeana37, un contenitore di mostre virtuali
in grado di indicizzare i vari progetti esistenti suddivisi per area di interesse o
tipologia dei materiali contenuti. Come si legge nel footer del loro sito, la sua
missione è quella di trasformare il mondo con la cultura sviluppando una ricca
eredità europea e facilitando l’uso da parte delle persone per lavoro, per studio o
semplicemente per divertimento38.
DARIAH ERIC: A network to enhance and support digitally enabled research and teaching across
the Arts and Humanities, https://www.dariah.eu/about/dariah-in-nutshell/.
32 Pitti (1999).
33 MOVIO, https://www.movio.beniculturali.it/index.php?it/68/mostre-realizzate.
34 OMEKA, https://omeka.org.
35
Museo
Galileo,
Istituto
e
Museo
di
Storia
della
Scienza
https://www.museogalileo.it/it/biblioteca-e-istituto-di-ricerca/progetti/mostre-virtuali.html.
36 BEIC, https://www.beic.it/it/articoli/mostre-virtuali.
37 Europeana Collections, https://www.europeana.eu/portal/it.
38 Ibidem.
31
236
L’esperienza museale o di un sito archeologico, così come una visita per una
città d’arte, possono beneficiare anche delle tecnologie AR (Augmented Reality).
Esistono già alcuni tool e app estremamente semplici da utilizzare sia per chi
vuole creare l’ambiente della realtà aumentata e riempirlo di contenuti, sia per la
persona che andrà ad usufruire del servizio. Metaio39 e Bepart40 sono due di questi
strumenti: entrambi, previa acquisizione di una foto della porzione di spazio
fisico, sono in grado di inserirvi elementi virtuali come approfondimenti sul bene
culturale che si è preso in considerazione, file audio esplicativi, piccoli quiz,
collegamenti a video e social networks e in generale tutto quello che può arricchire
l’esperienza di fruizione. Per fare un rapido esempio, immaginiamo di essere
all’ingresso di un museo in cui si tiene una mostra su Leonardo da Vinci
implementata con la realtà aumentata; all’ingresso viene suggerito ai visitatori di
scaricare un’app gratuita da utilizzare durante la visita: a quel punto sarà il
visitatore stesso, una volta individuato il QR Code ad inquadrarlo con il suo
device e a fruire delle risorse virtuali. Da qualche anno il Project Arm41 si occupa
proprio di offrire questo servizio di digitalizzazione delle risorse e creazione del
percorso in realtà aumentata ai musei: i professionisti di vari settori che
collaborano con il progetto si fanno carico di tutto il processo, dall’acquisizione
delle risorse al servizio di assistenza sul prodotto una volta finito ed installato.
Il discorso portato avanti, nonostante le scoraggianti premesse iniziali,
dimostra come il panorama accademico sia in realtà molto attivo sul fronte Digital
Humanities. La disparità tra noi e l’estero è ancora tangibile, ma questo non
significa che in un prossimo futuro non si possa migliorare. L’obiettivo, in fondo,
è sempre quello della diffusione della conoscenza ed è una necessità primaria
avvertita dalla comunità globale, tant’è che già da alcuni decenni esistono delle
associazioni, internazionali e non, che lavorano in questo senso. Le prime due per
rilevanza internazionale, numero di membri e portata delle iniziative sostenute
(tra cui svariati progetti e conferenze annuali), sono l’EADH42 (European
Associassion of Digital Humanities) e la più globale ADHO43 (Alliance of Digital
Humanities Organization). La seconda ingloba la prima, essendoci, come è ovvio,
una comunione di interessi ed intenti. L’EADH è quella che, in quanto europei,
ci riguarda più da vicino: è essa ad occuparsi di riunire, coordinare ed in un certo
senso organizzare tutte le associazioni nazionali di Digital Humanities. In Italia
esiste l’AIUCD44 (Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura
Digitale), i cui membri lavorano attivamente all’interno dell’accademia italiana,
Software proprietario a pagamento, METAIO, https://bepart.net.
BEPART, https://bepart.net.
41 PROJECT ARM, https://www.projectarm.com/it/.
42 EADH, http://eadh.org.
43 ADHO, http://adho.org.
44 AIUCD, http://www.aiucd.it.
39
40
237
da nord a sud, per promuovere le DH ed i frutti del loro decennale lavoro. Negli
ultimi anni gli sforzi di questi pionieri iniziano a dare i propri frutti: in tutta la
penisola si diffondono corsi di laurea triennale e magistrale, corsi di dottorato,
master e summer school volte a creare una nuova generazione di esperti nel settore,
in grado di sviluppare competenze umanistiche, basilari per qualsiasi ambito
delle DH, ed informatiche; nuove leve che possano avere la lungimiranza di
portare avanti e far crescere questo campo del sapere.
Alessia Marini
alessia_marini@outlook.it
238
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Wiley Digital Achives <https://www.wileydigitalarchives.com/index.>
This paper’s purpose is to offer a brief overview of the projects and initiatives related
to the Digital Humanities galaxy. The reflection starts from the provocative comparison
between the skepticism of the Church towards Giordano Bruno and that of the humanists
about technological implementation.
The paper therefore aims to try to loosen suspicions by illustrating where science and
literature meet, without losing the ecdotic rigor.
Parole-chiave: Giordano Bruno; Digital Humanities; informatica; Scienze
umane; progetti.
242
MOHAMMED NAGUIB, La crisi dell'intellettuale e il dramma di
conversazione ne La conversazione continuamente interrotta di
Ennio Flaiano
Flaiano e la crisi dell'intellettuale
Le due guerre mondiali, l’era fascista, gli anni della ricostruzione e dello
sviluppo. Sono questi gli eventi più significativi del ventesimo secolo in cui si è
trovato ad operare l’intellettuale del dopoguerra. Gli inizi degli anni Sessanta
sono un periodo di profondi cambiamenti sociali e di costume indotti dal boom:
cancellare per sempre i valori, l'inopportunità espressiva degli autori, l'antipatia
verso ogni segnaletica morale, tutto questo smascherava le debolezze di quel
presente storico e le conseguenze di tanta vanagloriosa mediocrità; il tutto in un
panorama grottesco e di cattivo gusto; un intero paese che cambia e non può fare
nulla, se non aspettare di morire.1
Nel dopoguerra, le ansie di ricostruzione democratica prendono il
sopravvento. Tutti gli intellettuali sono tentati dal cambiamento del loro status
che è effetto e causa delle necessità di una industria culturale sempre più
invadente: raccontano sè stessi perché non sono più in grado né di prospettare né
tantomeno di preparare un cambiamento storico. La questione del ruolo
dell’intellettuale nell’Italia del boom era molto sentita e certo non si può definire
estranea a Flaiano satiro, ironico e disincantato. «La mia generazione che ha
vissuto il fascismo e l’arco democratico è assai curiosa. L'idea della vita con cui
siamo nati abbiamo dovuto cambiarla ogni momento. […] I rimedi noi non
possiamo proporli, perché abbiamo contribuito a crearla questa situazione
ridicola. Abbiamo creduto nella letteratura, nell'arte, nella vita, e oggi sappiamo
che l’arte non esiste più, che i letterati festeggiano la morte della letteratura e i
poeti quella della poesia. […]».2 Aragno, un vecchio collega del ‘Mondo’ di
Pannunzio, di cui Flaiano era caporedattore, vent’anni dopo inviò all'amico
questo amaro messaggio: «Ennio, non ti preoccupare, la letteratura è morta, la
poesia è morta, l'arte è morta, il cinema è morto: ci manchi solo tu!».3 Ecco allora
che l’intellettuale del dopoguerra, rifiutando di cedere alle lusinghe di una
Tomei (2002), p. 51.
Rosati (1972), pp. 1200-1201.
3 Ceccarini e Rasia (1994), p. 180.
1
2
243
letteratura persa nei meandri dell'irrazionalità, si trovava alle soglie del silenzio
della scrittura, del suicidio intellettuale.
Flaiano ha raccontato con furore e pazienza il male e il disagio culturale e
esistenziale. Nel dopoguerra i testi di Flaiano parlano di figure al margine o
protagoniste di avventure vissute nella periferia romana o in vagabonde
peregrinazioni, viste e narrate con un atteggiamento oscillante tra l'affetto e
l'ironia. Lungo tutta la sua carriera Flaiano ha trattato i temi dell’indecisione,
della predeteminatezza del ruolo dell’intellettuale, e li ha trattati dal di dentro
con attenzione e spesso con inquietante consapevolezza. Si potrebbe vedere in lui
la personificazione della più ricorrente aporia dell’intellettuale del secondo
dopoguerra. L'esempio più esaustivo di ciò è La conversazione continuamente
interrotta, l’ultima opera teatrale di Flaiano, rappresentata pochi mesi prima di
morire e considerata il suo testamento ideologico e artistico, che, in un confuso
aggrovigliarsi di parole, sancisce proprio l’incapacità di rinvenire una logica
comunicativa. In quest’opera, ci troviamo di fronte a creature autobiografiche che
vogliono arrivare al fondo di una società sbagliata continuando a raccontarne i
lati umoristici. Una contraddizione profondamente creativa: l’uomo che non sa
decidere se rifiutarsi a tutto o provare ancora.4
Possiamo dire comunque che circola nelle opere degli autori del dopoguerra
il sofferto distacco dalla realtà. «I miei sono stati quarantasei anni di ansiosa
crescita, senza una vera famiglia e una vera società intorno a me. Sono cresciuto
qua e là, in mano a parenti, estranei. In collegio. Ho attraversato due stupide
guerre, e due dopoguerra, l’uno ridicolo da vincenti insoddisfatti, l’altro
grottesco da perdenti soddisfatti. Avevo deciso di scrivere elzeviri, ma non
sapevo per chi, né su chi; la gente era avida, non sapeva che farsene di un tale
con la pretesa di interpretare la vita, volevano cose vere, notizie vere, simboli
quotidiani su cui scaricare le responsabilità e le fatiche di fare. I totalitarismi
irresponsabili non muoiono mica subito, creano vizi profondi e speranze tenaci.
E molte nostalgie. Non vedevo che la soluzione di chiudersi, non leggere più i
giornali, ma c’era il problema: l’esistenza quotidiana sempre più grave, e non
potevo esimermi dall’affrontarla per la mia famiglia...».5 Flaiano era convinto di
scrivere in un ambiente staccato dalla realtà. Da qui l’indipendenza, sia dalle
regole dei generi e dalle correnti letterarie, sia dagli schieramenti ideologici
intorno ai quali si è andata organizzando la maggior parte della produzione
letteraria negli anni dal Quaranta al Settanta. Flaiano decise, dunque, di
allontanarsi da un ambiente che sentiva lontano dalla realtà. Il distacco dal
‘Mondo’ giustifica il fatto che egli si autodefiniva scrittore che scriveva «per non
essere incluso».6 Flaiano, interrogato sulle ragioni del suo distacco verso ogni
Merli (1998), pp. 53-54.
Ceccarini e Rasia (1994), p. 57.
6 Flaiano (1986), p. XIX.
4
5
244
coinvolgimento, replicò: «Tempo fa mi si rimproverava di non essermi
identificato completamente con la mia vocazione. Ma la mia vocazione era
proprio quella di non identificarmi...».7 Questo non toglie l’innegabile organicità
di Flaiano al suo tempo. La lettura delle sue opere dimostra infatti che pochi
scrittori riuscirono quanto Flaiano a essere così originalmente interpreti della
complessità e della problematicità novecentesca.
Ma Flaiano non maturò altre posizioni ideologiche al di fuori di un liberalismo
illuministico, individualistico e interiore, tramite il quale testimoniò il suo disagio
intellettuale e la sua avversione al fascismo come alla politica repubblicana
attuata nel dopoguerra, manifestando la sua estraneità alle ragioni del socialismo
e del comunismo. Egualmente si sentì lontano dal centrismo dei gruppi cattolici,
responsabili ai suoi occhi di una nuova e caotica dominazione, altrettanto ingiusta e più ambigua di quella realizzata dal partito fascista. Flaiano fu, dunque,
in perenne polemica con gli stili di destra e di sinistra, e, a mano a mano che nel
dopoguerra si procedeva verso la ricostruzione, non aderì a nessuna parte
politica, continuando a manifestare una completa idiosincrasia verso un Paese
che gli appariva macchiato nel tempo sempre dalla stessa colpa, quella di non
aver mai coltivato un autentico rispetto per la libertà.8
Si direbbe che Flaiano non è affatto morto e sta ancora prendendo appunti sul
nostro presente. A comprova di ciò, soffermiamoci a ponderare alcune note del
1968 del Diario degli errori, nel quale Flaiano scrive: «… Sono offeso da come va il
mondo – dalla volgarità delle masse. In Italia ‘Canzonissima’, ‘Sanremo’,
campionato di calcio, la macchina nuova, nient’altro. Napoli, canzoni napulitane.
Sicilia, mafia. Sardegna, brigantaggio. Milano, affari. Torino, macchine. Venezia,
sta morendo. Firenze, deve essere salvata, etc.».9
Il vero tratto distintivo di Flaiano sta nell’essere uno scrittore di dubbi e di
tormenti più che di certezze e convinzioni. Dalla prigione dove ha vissuto tredici
anni, sotto l'antico regime, Flaiano aveva già scritto alla moglie: «All’origine delle
mie disgrazie non c’è il mio modo di pensare, ma il modo di pensare degli altri».10
La lunga durata del suo scetticismo è dovuta principalmente al rifiuto di accettare
l’assurdo della vita e al suo inequivocabile bisogno di andare al di là della politica
e dei partiti. Questo può forse spiegarsi con il fatto che quasi tutte le opere teatrali
flaianee, al di là della varietà dei soggetti e delle situazioni rappresentate,
appaiono accomunate da intenti morali ed esprimono il risentimento dello
scrittore di fronte a una società che sprofondava nell'assurdo e nella noia
esistenziale, avvolgendosi in una mortificante banalità.11
Rosati (1972), p. 1201.
Sergiacomo (1996), pp. 170-171.
9 Flaiano (2010)¹, pp. 1275-1276.
10 Flaiano (2010)², p. 172.
11 Sergiacomo (1996), p. 143.
7
8
245
In mezzo a questo clima, Ennio Flaiano, è bene ricordarlo, si sentiva inutile;
inutile in una cultura, in una letteratura, in una critica che non si è abbastanza
accorta di lui. Questo comportamento trascurante della critica nei confronti di
Flaiano, nonostante il grande rigore professionale che richiedeva a se stesso, ha
fatto sì che egli diventasse perennemente dubbioso ed incerto del valore letterario
della sua arte. «Mi resta sempre il sospetto che non valga la pena occuparsi di
me, sin da quando ho smesso di occuparmene io stesso».12 Indipendentemente
da questo, Flaiano non si riteneva nato per fare lo scrittore. Perciò le sue
preferenze sono andate alla satira. Non poteva farne a meno. In questo era
perfettamente organico. «Scrivo poco perché non sempre ci riesco».13 Insieme al
motivo della casualità e a quello del rifiuto c’era poi la tendenza a diminuire
l’importanza di ciò che scriveva, l’insoddisfazione nei confronti di se stesso e del
suo lavoro. Troviamo espresso chiaramente questo atteggiamento durante
un’intervista di Carlo Mazzarella: «Non credere che scrivere mi piaccia, mi
spaventa. È così difficile. Di tutto ciò che ho scritto ci saranno sì e no tre pagine
che non mi disgustano […]».14 È evidente insomma che Flaiano era in preda sia al
suo personale senso di stanchezza ad ogni nuova rappresentazione teatrale sia
alla sua sfiducia nella possibilità di avere un teatro vivo. Egli definisce i propri
lavori teatrali come «farse d’occasione»15, «scherzi»16 il cui unico scopo era «il
puro, deplorevole divertimento».17 Eppure, l’amore per il teatro lo accompagnò
per tutta la vita. Andando avanti negli anni si affievolisce la fede nella
comunicazione, tanto che il sentimento esistenziale dell’inutilità trova il suo
fulcro ne La conversazione continuamente interrotta [come si avrà occasione di
rilevare].
A parte lo sconforto creativo derivante dalla sfiducia nel proprio ruolo di
intellettuale, questo malessere, tuttavia, non è sempre riconducibile a dubbi o
insicurezze proprie dell’autore. Alcune constatazioni nascono dal fallimento
reale dei suoi sforzi creativi, come testimonia la fredda accoglienza riservata dalla
critica alla versione teatrale di Un marziano a Roma nel 1960, nella quale aveva
risposto grandi aspettative. Flaiano, pur essendo severo critico di se stesso, si
offendeva molto vedendo un suo lavoro rifiutato. Questo lo spingeva a tutelare
la sua dignità di scrittore. Basterebbe a provarlo la secca reazione di fronte alla
scelta registica inopportuna, confermando il tradimento del testo da parte di
Gassman: «Se penso agli equivoci di Gassman, alle scene, ai costumi… Io non
Flaiano (1995), Lettera 230, 21 maggio 1964.
Flaiano (1995), Lettera 381, 31 dicembre 1970.
14 Mazzarella (1990), p. 1197.
15 Flaiano (1990), p. 1164.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
12
13
246
darò mai più una commedia ad un regista per vedermela capovolta, imbrattata
di fesserie, stonata».18
Inevitabile appare in Flaiano il ricorso al sarcasmo e all’autoironia, agli aspri
sarcasmi e al grottesco che fungono da balsamo per le ferite, riportate nel corso
di una carriera non sempre prodiga di soddisfazioni e legittimi riconoscimenti,
specialmente in ambito teatrale e cinematografico.
Questa renitenza a scrivere ha un fondo di verità ed è confermata
nell’epistolario dai reiterati rifiuti di Flaiano verso chi voleva coinvolgerlo in
qualche lavoro: a Giambattista Vicari che gli propone di scrivere sulla nuova
rivista ‘Il Caffè’, a Longanesi che gli chiede altri libri da pubblicare, a Neri Pozza
che vuole una raccolta dei pezzi editi sul ‘Mondo’, a Livio Garzanti e ad Alberto
Mondadori che vogliono inserire Flaiano nei loro cataloghi, al fisico Emilio Segré
che lo invita all’Università di Berkeley per tenere lezioni su un soggetto a sua
scelta.19
Naturalmente, se Flaiano fosse stato coerente con queste considerazioni, non
avrebbe continuato a scrivere, invece scrisse, e molto, testi compiuti e
frammentari. Il disagio interiore dell’autore afferma la casualità della sua
professione e delle sue opere. D’altronde, però, Flaiano ha rilasciato delle
dichiarazioni, più rare, testimonianti la fiducia nella parola e nel senso dello
scrivere. In linea con questo si pone la rivalutazione, in numerosi scritti
giornalistici, della ragione, come unico strumento che ha la capacità di ribellarsi
all’assalto della realtà, imponendo un filtro fra il bene ed il male.20 Non fa,
dunque, meraviglia che i discordi e contraddittori umori dell’intellettuale Flaiano
riflettino la figura di uno ‘straniero’.21 Ma questa era la sua condizione
esistenziale, quella di essere un uomo del suo tempo e, nello stesso tempo,
distaccato dal mondo, estraneo, disincantato e di sconcertante attualità nella
denuncia.22
Nel complesso possiamo dire che Flaiano appartiene alla vasta area della
letteratura della crisi che diviene letteratura in crisi.23 Probabilmente, il continuo
alludere di Flaiano alla crisi della scrittura letteraria, non solo della sua, ma di
tutta la letteratura, proveniva dal fatto che Flaiano scriveva pensando a un
destinatario delle sue opere e non riusciva a individuarlo, sentendo l’assenza di
un pubblico ideale. Fu questa sensazione che lo portò frequentemente a non
riconoscersi come un vero scrittore e ad assegnare allo scrittore il solo ruolo di
Flaiano (1995), Lettera 210, 26 dicembre 1961.
Sergiacomo (1996), p. 183.
20 Gonnelli (1998), p. 112.
21 Iengo (1998), p. 118.
22 Antonucci (1998), p. 121.
23 Pampaloni (1989), p. 13.
18
19
247
sfogo, protesta solitaria, via di salvezza individuale affidata alla pagina, dove la
ragione poteva ancora avere la meglio sulla follia e sul disordine della realtà.24
Siccome l’opera d’arte riflette sempre il suo tempo, per quel tanto che in esso
c’è di slancio positivo e di vero, così Flaiano intende anche porre l’accento sulla
mancanza d’identità, ma soprattutto di coraggio e responsabilità, della società
italiana. Tra il 1944 e il 1945, la speranza che il teatro divenga «il vero parlamento
di un popolo»25 si va perciò affievolendo sempre più. E l’indifferenza della platea
che, nella delicatissima fase dell’immediato dopoguerra, si rifugia nel mondo
evasionista della rivista, diventa quindi emblema di una società qualunquista,
sostanzialmente incapace di fare i conti con la sua tragica storia recente. 26 Non a
caso, nel 1945, Flaiano auspica invece polemicamente la necessità di un ‘pubblico
stabile’, che generi un teatro «rispondente ai suoi interessi più sentiti e urgenti».27
E ancora, su ‘La città libera’, in un articolo dal titolo ‘La digestione dei fischiatori’,
Flaiano esprime tutto il suo rammarico per un pubblico che non riesce a
domandare al teatro «una soluzione per i suoi problemi».28 Eccolo a collegare fra
loro le crisi dell’uomo, della società e del teatro, in un tutt’uno logico.
La sfiducia nella possibilità di avere destinatari si trasformò così in sfiducia
nell’atto creativo stesso. È per questi motivi, è radicata la convinzione che la
matrice della scrittura flaianea è l’auto-comunicazione, che si risolve
nell’autobiografismo diretto dei diari o dei versi. Ciononostante, Flaiano
continua a credere nella letteratura con la elle maiuscola. Flaiano mentre
progressivamente perdeva fiducia nelle capacità della letteratura di
rappresentare il mondo, continuò però a scrivere storie che erano allegorie della
condizione umana.29 Uno degli aforismi contenuti in ‘Frasario essenziale’ recita
testualmente: «Scrivere è diventato inutile, a meno che non si scriva
indecifrabilmente».30 Lo scrittore ha il compito di complicare la realtà, non di
renderla più semplice e falsarla tacendone gli aspetti paradossali. La letteratura
deve indagarne i punti oscuri ed uscirne stringendo saldamente in pugno ciò che
ha trovato in quelle zone d’ombra e che può mostrarci sotto un’altra ottica i dati
empirici più scontati e lapalissiani, altrimenti la letteratura verrebbe meno al suo
compito di rappresentazione oggettiva, fornendo al lettore solo armi infide e
compromissorie con la realtà. Lo scrittore vuole ammirare la realtà senza
sconvolgerla, deve immergersi nella realtà e affogarci dentro, ma sempre
assumendo un’ottica di pura contemplazione verso ciò che è tanto più grande di
Sergiacomo (1996), p. 179.
Flaiano (1944), pp. 133-135.
26 Rago (1998), pp. 90-91.
27 Flaiano (1996), pp. 136-138.
28 Flaiano (1996), pp. 153-154.
29 Sergiacomo (1996), pp. 179-180.
30 Flaiano (1986), p. 3.
24
25
248
noi. Flaiano porta alle estreme conseguenze l’istanza della razionalizzazione, che
nel suo sforzo va dietro al più piccolo cavillo e rischia di impazzire, perché la
ragione alla fine divora sempre sè stessa in un vortice di paradossi. L’intelletto
positivo e razionale non ha la possibilità di scampo nella civiltà attuale e
oseremmo dire in ogni civiltà. Di qui il pessimismo apparente dello scrittore e
tipico di tanta letteratura illuminista e positivista che vede nel progresso l’esatta
negazione di quei valori di ordine e razionalità tanto ambiti.31 Flaiano, da
illuminista matura la convinzione dell’inutilità di rappresentare sulla scena la
vita, che già costa tanta pena vivere nella realtà, e constata l’inefficacia delle
nuove etiche. In realtà Flaiano unisce alla sfiducia nella funzione odierna della
letteratura una fede nell’atto comunicativo in sè stesso. «Io credo soltanto nella
parola […] la parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me,
è il senso dello scrivere».32 Solo questa fiducia nella parola giustifica la
contraddizione che è alla base dell’opera di Flaiano che, pur essendo in perenne
polemica con il suo mestiere, usa tutti gli strumenti che permettono la
comunicazione attraverso la parola.
Emerge in modo inconfutabile che Flaiano non è scrittore ‘sulla’ crisi
contemporanea, né l’interprete critico della crisi, né un testimone documentario:
ma è la personificazione della crisi, o, a dirla altrimenti, la personificazione
dell’irriconoscibile uomo contemporaneo in cui è coinvolta l’irriconoscibilità di
ciascuno.33 Per arrivare a tanto, Flaiano dovrebbe ‘transpersonalizzarsi’,
diventare ‘altro’ tra gli altri, perdersi come autore e arrovellarsi a cercare [per
riconoscere] l’autore di se stesso insieme agli spettatori, come fecero i leggendari
sei personaggi pirandelliani. Ecco, insomma, Flaiano ‘personaggio in cerca
d’autore’.34 A questo punto sarebbe lecito chiederci: se dovessimo leggere Flaiano
nel suo contesto, cosa diremmo? Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe
sapere che l’antifascismo di Flaiano appare culturalmente forte.35 Egli è troppo
consapevole, da un lato, dell’invecchiamento della tradizione, ma dall’altro, della
rapidità e fugacità di ogni movimento avanguardista.36 Io direi che se dovessi
leggere Flaiano nel suo contesto lo leggerei come monaco eremita, come grande
moralista37 che legge la crisi del mondo con i suoi valori morali contro la
sbarcatura di tutte le ideologie di massa,38 contro il rischio di inglobamento, ma
anche contro i riti massificati del ‘villaggio globale’ e la sua feconda superficialità
Tomei (2002), pp. 12-13.
Flaiano (1986), p. XVIII.
33 Pullini (1993), p. 10.
34 Ciarletta (1992), pp. 264-265.
35 Bandinelli (1993), p. 74.
36 Pullini (1993), p. 10.
37 Bandinelli (1993), pp. 74-75.
38 Pullini (1993), p. 75.
31
32
249
emotiva.39 «[…] Tutto viene preso sul serio in questo maledetto paese, eccetto le
cose serie. E tutto finisce per addolorarmi, come se ci fossi dentro fino al collo e
non potessi più uscirne […]».40 Questa citazione è di per sé una buona ragione
per pensare che Flaiano sia uno scrittore molto più realista di quanto
supponessero i neorealisti. Egli fa sua la dialettica di scetticismo e moralismo con
cui si sostanzia la coscienza liberale. Il primo gli offre lo strumento per indagare
lucidamente la realtà; il secondo gli permette di nutrire, malgrado tutto, la fede
nella comunicazione intellettuale. La sua lucidità tende ad evolvere in
scetticismo, dopo la delusione legata alla condizione dell’Italia postbellica. La
fine del fascismo rappresenta per lui e per altri intellettuali, la possibilità di
costruire un mondo diverso. Ma ben presto questo mondo viene costruendosi
formalmente più libero e democratico, ma sostanzialmente non troppo differente
dal precedente. Nel pensiero di Flaiano diviene sempre più netta la dicotomia fra
arte e realtà: quest’ultima appare come dispensatrice di delusione, quella sembra
essere l’ultimo baluardo della verità.41
Infatti, Flaiano si è messo in gioco autobiograficamente raccontando una crisi
che è la sua crisi: il tema dell’intellettuale che non sa più esprimere il suo pensiero
e che in fondo teme di non avere più nulla da dire, il disagio dell’uomo di cultura
che rifiuta in blocco la cultura di massa e ciò che essa comporta in termini di
commercio e anche di distorsione. Sono dei temi intorno al quale Flaiano si è
esercitato lungo tutta la sua carriera. Egli ha trattato nelle sue opere la crisi
intellettuale del secondo Novecento, pieno di dubbi su di sé e sul suo lavoro,
bloccato nella scelta paralizzante tra cose già dette e cose da non dire, testimone
inerte ma non innocente dei giochi delle amministrazioni politiche, [uno degli
intenti di Flaiano drammaturgo era proprio, nelle sue parole, «vederela società
che diventa più conservatrice e descriverla»42]. La conversazione continuamente
interrotta analizza la condizione intellettuale di Flaiano satirico, il tema appunto
dell’intellettuale in crisi, una crisi più globale; l’uomo contemporaneo di cui la
letteratura non può più raccontare l’epopea, l’uomo che racconta
autobiograficamente il suo male.43
Il dramma di conversazione ne La conversazione continuamente interrotta
A dodici anni dal Marziano, Flaiano tornò al teatro con il suo ultimo lavoro La
conversazione continuamente interrotta, pubblicato per la prima volta nel 1971 e
rappresentato nel 1972 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, solo cinque mesi
Costa (1993), p. 67.
Ceccarini e Rasia (1994), p. 56.
41 Vecchio (1998), pp. 85-86.
42 Merli (1998), p. 52.
43 Merli (1998), pp. 52-54.
39
40
250
prima della sua scomparsa, con la regia di Vittorio Caprioli. Flaiano lavorò a La
conversazione continuamente interrotta dal 1968 al 1971. Questa pièce si considera il
testamento estetico, ideologico, morale, spirituale e artistico di Flaiano ed è anche
da considerare il nucleo centrale di tutta la sua opera. È il capolavoro di Flaiano
commediografo, «Una grande possibilità di teatralizzare la quotidianità. Una
teatralità che ha solo come spunto la contemporaneità».44 In questa pièce,
considerata il testo-sintesi di tutti i messaggi flaianei, lo scrittore è riuscito a
scavare a fondo nella crisi di quell’epoca, mettendo in evidenza non solo il
fallimento di una società culturale, ma anche la volgarità e il vuoto desolato di
certa cultura contemporanea.
A questo punto, è importante precisare che La conversazione continuamente
interrotta nasce da una collocazione di brani rintracciabili in tutta l’opera di
Flaiano. Ad esempio, il Quadro IV bis trova la sua origine nell’articolo Ritrattini
pubblicato su ‘Il Mondo’ il 21 maggio 1957, cioè addirittura quindici anni prima,
poi diventato con alcuni cambiamenti nel 1959 la prima parte del racconto
L’ispirazione del mattino. Progetto di una farsa, pubblicato nel dicembre 1959 su
‘Illustrazione Igea’. In questo articolo Flaiano descrive tre ritratti, il primo dei
quali è quello di un romanziere che, accingendosi a scrivere un testo, confessava
di aver perso di vista i suoi personaggi. Il resto della commedia presenta dei brani
che ritroviamo in altre opere, come ad esempio in Diario degli errori. Ma secondo
la puntuale nota di Anna Longoni, nel 1960, «nel periodo in cui Luigi Pasciutti
stava mettendo in scena Il caso Papaleo [secondo la testimonianza da lui stesso
resa nelle pagine di ‘Carte segrete’ dove il racconto è stato pubblicato nel 1972],
Flaiano gli fece leggere il testo, intenzionato a trarne una farsa. Il progetto allora
non si realizzò, ma il racconto, mai del tutto dimenticato, viene ripreso proprio
nel Quadro IV bis dell’ultima pièce teatrale».45 Insomma, tutto concorre a
confermare che La conversazione continuamente interrotta ebbe una lunga
elaborazione, ma che Flaiano pensò a essa come a un testo teatrale fin dal 1960,
l’anno de Il caso Papaleo.
La pièce, come s'è accennato, è una sintesi di tutti i temi cari a Flaiano: la noia
esistenziale, la solitudine, l’impossibilità di uscirne, la consapevolezza di una
banalità che avvolge e mortifica tutti. La conversazione continuamente interrotta è la
storia di una storia che non riesce a nascere, è un gruppo di persone che si riunisce
per cercare una storia, un soggetto, un argomento per un film o per il teatro, e
parlano, si propongono idee, mentre la commedia va avanti e la storia non prende
forma [è evidente il riferimento autobiografico al film di Fellini Otto e mezzo, che
parte dallo stesso spunto dell’impotenza inventiva e nasce come film
dell’impossibilità di fare un film]. Il tema centrale attorno al quale si imperniano
44
45
Geron (1995), p. 29.
Flaiano (1988), pp. 1452-1453.
251
le storie narrate nella commedia è quello della crisi dell’artista odierno e l’ansia
dell’incompiuto. Uno scrittore, assieme a un poeta e un Regista, cerca una storia
per un film, perdendosi in un mare di chiacchiere e interrompendosi
continuamente l’uno con l’altro. I personaggi parlano, progettano, chiacchierano,
ipotizzano, ma non riescono a giungere a una conclusione da argomentare.
Ricominciano e non riescono mai a concludere. Le decine di storie inventate
iniziano tutte con «Un Tale incontra una Tale»46 e rimangono ineluttabilmente
senza finale, affondando nella noia. Come è facile arguire, questi tre personaggi
risentono della carica pirandelliana dei Sei personaggi in cerca d’autore. È un’opera
senza soggetto, come la vita che scorre addosso e intorno alla gente, ingarbugliata
in storie singole inenarrabili.
In questa assenza apparente di soggetto, dialogano dei personaggi a noi
familiari, banali nella loro assurdità prendono l’avvio dalla loro stessa
incoscienza che ne detta le non regole. Ciononostante, sono dei personaggi quasi
simbolici: un Poeta, uno Scrittore, un Regista, la Moglie dello Scrittore, l’Amica
del Regista e altri minori che interferiscono e interrompono sempre la
conversazione quando l’argomento comincia a prendere forma. Dieci sono i
personaggi della ‘Conversazione’, ma in realtà tre soltanto sono i protagonisti: un
Poeta di 45 anni, uno Scrittore di 40, un Regista di 35. Parti minime sono riservate
al Dottore e al Giornalista, quest’ultimo l’unico ad avere un nome, ovvero un
soprannome [Tavolino] oltre alla Cameriera, incinta e un po’ svanita, che porta il
nome di Crimilde. Un nome è attribuito anche a uno dei due imbianchini che il
suo compagno chiama ‘Cesare!’. Altrettanto poco rilievo hanno la moglie dello
Scrittore e l’amica del regista. I tre personaggi protagonisti fungono, in un clima
di stanchezza e di noia, da strumenti intercambiabili della conversazione. Il più
autentico e il più saggio di loro è lo scrittore, che riflette in dose più massiccia la
personalità e la sincerità dell’autore stesso. Il personaggio dello scrittore è un
fedele stereotipo della categoria degli scrittori, sempre ossessionati dalla ricerca
di spunti per una storia da raccontare, pressati dall'assillo di liberarsi dal
conformismo di massa. Nel secondo quadro, lo Scrittore parla con uno
psicanalista nel corso di un dialogo molto divertente che offre il pretesto a una
parodia della psicanalisi [è il medico che vuole a tutti i costi raccontare le sue
storie al suo paziente, e il cliente si rifiuta di ascoltarlo].
L’elemento elegiaco e l’ombra metafisica sembrano la corretta chiave di lettura
dei sette quadri di questa pièce.47 Qui l’incapacità di concludere in qualche modo
l’azione è vista come unica forma autentica di rapporto con la realtà considerata
come una situazione sfuggente: non si riesce a concludere l’azione perché non si
possono più accettare soluzioni schematiche. Non esiste quindi una separazione
46
47
Flaiano (1990), p. 1106.
Geron (1995), p. 33.
252
tra reale e immaginario, tra vita e letteratura, tra ciò che si vive e ciò che si finge
a teatro di vivere. A unire realtà e rappresentazione sono la banalità, la noia e lo
squallore in cui si arenano sia gli incipit narrativi che i tre inventano per far
decollare le loro trame, sia i rapporti umani veri e propri che essi intessono con
altri personaggi: l’incomprensione tra lo Scrittore in crisi e la moglie insoddisfatta
e sognatrice, il barcamenarsi del Regista tra la moglie ossessiva e l’amica incinta
che si rifiuta di abortire, la girandola mondano-sentimentale dello squattrinato
Poeta, che non riesce a scrivere più nemmeno in agosto, quanto rimane in città in
forzata solitudine, e alla fine sposerà la Cameriera dello Scrittore, una semplice
creatura, che aspetta un bambino, di cui si ignora il padre.
Come ha ben visto Luciano Salce, che fu il regista della seconda edizione
dell’opera, «solidissima [...]: un pezzo di teatro compatto, unitario, […] granitico:
la trama è sotterranea, […] quasi invisibile ma presente sempre e attiva come
certe apparentemente inconcludenti pagine di Cechov».48 Quel Cechov che,
rifacendosi a una felice intuizione di Cesare Garboli, si ritrova in certe ‘atmosfere
rarefatte e strazianti’ de La conversazione. Ma Salce aggiungeva che il mondo de
La conversazione «è un inferno contemporaneo dove un poeta, uno scrittore e un
regista non riescono a partorire che ottusi brandelli di banalità; e alla fine si
ritrovano vittime e prigionieri della loro lucida disperazione. Proprio come in
Cechov».49 Non c'è affatto da stupirsi che La conversazione è così ricca di echi e di
suggestioni cechoviane: Cechov è stato uno degli autori preferiti di Flaiano e
soprattutto uno di quelli che egli sentiva più moderni e più congeniali. Lo
dimostra, fra l'altro, ciò che egli scrisse in occasione dell'edizione de Le tre sorelle
di Giorgio De Lullo nell'interpretazione della Compagnia dei Giovani: «Cechov
non è morto, è l'unico autore del XIX secolo che non si allontana nel tempo, che
non diventa ‘classico’, ma che anzi continua a parlare di noi, perché era arrivato
alle radici del dramma, l'incapacità dell'uomo di vivere nella sua condizione, gli
sforzi che farà per uscirne, il crollo che si trascina addosso appena esige di vederci
chiaro [...]. Cechov insomma aveva capito che l'uomo vive una brutta copia della
sua vita e che la sua condanna è nel doversi continuamente giudicare. Vive nel
suo inferno personale ed è il più esigente torturatore di sè stesso, per il semplice
fatto che si conosce abbastanza».50
Da aggiungere però che in quest’opera c’è molta satira al costume: il
sentimento esistenziale dell’inutilità, che trova il suo fulcro ne La conversazione
continuamente interrotta, nega a Flaiano la fiducia creativa nell’impegno letterario
e lo spinge alla distruzione dei canoni letterari tradizionali, al nonsenso che si
lega a una filosofia scettica sulla vita, al rifiuto dei rituali di massa. «Flaiano
trasforma quindi la propria difficoltà di costruire un'opera di ampio respiro e di
Salce (1989), p. 101.
Ibidem.
50 Flaiano (1983), pp. 256-257.
48
49
253
captare un rapporto con la realtà esterna, in una rinuncia dolorosa sì ma sincera,
non programmatica ma necessaria. In luogo di bandire nuove poetiche fingendo
di credere in nuove prospettive, e non riuscendo più a far proprie le poetiche
antiche, preferisce vivere la propria crisi di uomo anche come crisi delle soluzioni
espressive».51 Perciò la conversazione telefonica continuamente interrotta è una
sorta di disperante messaggio esistenziale con squarci di satira feroce
all’ambiente dell’intellettualità romana per cui il lavoro è chiacchiera continua,
impegno rinviato di continuo, quel senso di chiacchiera senza altro esito se non
l’implacabile autoflagellazione in fondo consolatoria. «[…] fatta di giorni, una
media di ventimila giorni, e di cui il succo si coglie soltanto alla fine, e non
sempre! Noi chiediamo agli altri, quello che gli altri chiedono esattamente a noi,
una storia. … E copiarsi, che mal di testa».52
La lunga parabola della noia e il senso di frustrazione si fanno
progressivamente strada tra le vacuità verbali dei sette quadri de La conversazione
continuamente interrotta. Già nel primo quadro ci sono le idee fondamentali: il
rimpianto del teatro di un tempo [lo esprime il poeta: «A me piaceva il teatro,
quello di una volta, un po' miserabile ma pieno d'orgoglio [...] con le scene di
carta, le quinte, le porte che si gonfiavano come vele, il precipitare del sipario. E
le luci della ribalta che schiacciavano la scena, niente luci psicologiche...».53 E
ancora: «Il teatro allora viaggiava come un popolo nomade, carico di proposte
esemplari, di vizi e virtù, di esistenze eroiche, di sogni folli e scadenti […]. Quella
era vita!»54] e insieme la consapevolezza che, vecchio o nuovo, il teatro [e quindi
l'arte in generale] non serve a niente e non ha mai cambiato il mondo [lo dice lo
scrittore: «Sì, ma a che serve il teatro? Mio nonno entrò in un teatro cinque volte
in tutta la sua vita, mio padre diciamo cinquanta, io ogni settimana, da anni.
Eppure, abbiamo commesso tutti e tre gli stessi errori. Non sto a dirvi quali, ma
gli stessi. E se penso a loro, li vedo più responsabili, più densi di me. Più
uomini.»55]. Il problema dell'artista non è l'inaridimento della vena inventiva, ma
l'inutilità di fare arte, letteratura, teatro, perché non hanno cambiato mai niente
nella vita umana. Se tutto è già stato scritto, se di tutto si è parlato, a che cosa
serve continuare a scrivere? «Scrivere è difficile, spesso inutile»56, «l’intellettuale
deve proporsi la verità delle cose, dei fenomeni, delle leggi che agitano la massa
e sè stesso»57, «Oggi si può continuare a scrivere solo a patto di essere
Pullini (1996), p. 193.
Flaiano (1990), p. 1160.
53 Flaiano (1990), p. 1101.
54 Flaiano (1990), p. 1102.
55 Ibidem.
56 Flaiano (1988), p. 64.
57 Flaiano (1988), p. 63.
51
52
254
illeggibile»58 sono solo chiacchiere a vuoto. Lo Scrittore sa bene che la verità
sfugge ad ogni controllo, inutile trasferirla, inutile raccontare la propria crisi
davanti al foglio bianco allo psicanalista, un medico ansioso a sua volta di
raccontare le sue esperienze al paziente. All'arte non resta quindi che accostarsi
alla vita per darne, non la cronaca, ma il respiro, e riceverne la struttura aperta,
come dice il regista: «Non fidiamoci delle storie, non ci credo. La vita è fatta di
scene non necessariamente legate tra di loro. Se l'idea è buona, impone da sé la
costruzione. I personaggi allora parlano da soli. [...]».59 E il poeta aggiunge: «Non
mi preoccuperei per ora di come finisce. I finali non esistono, li fa il tempo».60
Si osservi, inoltre, che nel corso delle battute, l’autobiografismo è più che un
sospetto. La critica ha identificato lo stesso Flaiano nel personaggio dello
Scrittore: «Vorrei arrivare al fondo del problema, descrivere una società merdosa
che si crede libera, arrivare a una conclusione vuota, capisci? tragica, senza
abbandonare il tono della pochade, l'unico che conviene a certa gente».61 «Oggi si
può continuare a scrivere solo a patto di essere illeggibile».62 «Insomma [conclude
lo scrittore difficile e contro corrente] scrivere è difficile, e spesso inutile».63 Nel
personaggio dello Scrittore in crisi, si può intravedere la figura di Flaiano tramite
una serie di tratti autobiografici quali l'aver visto la morte in faccia un anno
prima, l’odio per il padre, la sfiducia nelle sue capacità di scrivere, e infine la
sensazione che sempre ‘tutto’ sia già stato detto. Nel dialogo con lo psicanalista,
lo scrittore fa il punto sul proprio dramma di impotenza creativa [e dice tante
cose che Flaiano avrebbe voluto dire di sé]: «Ma non so scrivere. Qui è il punto.
Non ho idee. Ho appena un po' d'immaginazione, una certa tendenza per
l'ornato, ma non mi vengono mai grandi idee. Non ho la fantasia del creatore, del
poeta».64 Flaiano ad un certo punto dice: «Se mi metto a pensare ad una storia
non riesco a vedere nemmeno un personaggio, vedo sempre me stesso e siccome
io mi annoio anche questo personaggio si annoia e non dice una parola, non si
muove, non fa un gesto, e poi ho sempre la sensazione che tutto sia stato già
detto».65 Proprio per questo, La conversazione continuamente interrotta si può
definire un autore in cerca dei suoi personaggi.
In questa commedia, prevale una poetica teatrale, che tende a sbarazzarsi
dell’autore che da un lato cerca di mimetizzarsi e di mascherarsi, dall'altro parla
di sè stesso. Ma quale sè stesso? Ci mette di fronte un sè stesso alienato, sfiduciato
Ibidem.
Flaiano (1990), p. 1102.
60 Flaiano (1990), p. 1107.
61 Ibidem.
62 Flaiano (1988), p. 63.
63 Flaiano (1988), p. 64.
64 Flaiano (1990), p. 1117.
65 Ibidem.
58
59
255
e impotente nella sua solitudine culturale, però il perno è sempre il personaggio
Ennio Flaiano, un personaggio colto nel momento stesso in cui si scompone e si
frantuma. Flaiano rappresenta, sempre tramite una risata scettica, i falsi miti del
costume contemporaneo, il vuoto della condizione intellettuale. L'inespressività
dell'arte proviene, quindi, da una crisi dei valori contemporanei, dalla sensazione
che tutto ormai è stato già detto e si è quindi interrotta qualsiasi strada che porti
novità [lo si vede palesemente nel dialogo tra lo Scrittore e il suo psicanalista o
nell'intervista che fa allo Scrittore il giornalista Tavolino]. Ciò per un verso. Per
l'altro Flaiano era sempre stato «il più sincero e direi il più sofferto, di questi
intellettuali [...], il meno astuto e calcolatore, quello che ha portato con sé la
propria biografia e che ha scelto in ogni aggettivo, dolorosamente, un simbolo
della propria condizione della quale era il primo a dubitare»66, e mai come ne La
conversazione l'ha dimostrato. Durante l'intervista fatta dal giornalista Tavolino
allo Scrittore, si vede che il senso di noia che affligge l’anima dello Scrittore si
trasmette ai personaggi e alle cose, il che definisce senza scampo la condizione
dell'intellettuale, esattamente come l'uomo d'oggi che non riesce a proteggere la
propria vita dall’invadenza altrui che ne sconvolge la tranquillità: «Ecco il mondo
moderno e dimmi tu se l’intellettuale può vivere tra gente simile, che sembra
avere il solo scopo di infastidirsi reciprocamente».67 Ecco allora la noia trasferirsi
dalla vita al processo narrativo.
Tutto si brucia presto nel ritmo della civiltà odierna. Questo lo afferma il Poeta,
dal quale trapela Flaiano, che nega che la poesia sia una soluzione della realtà: è
solo un rimedio, quindi una consolazione: «La poesia è una vita di scorta, come
le ruote».68 In polemica con il neorealismo, il Poeta sostiene: «Avete voluto la
realtà? Tenetevela! Vi si disfa nelle mani».69 Il poeta dunque qui parla per Flaiano:
«la realtà che tu [il regista] vuoi sciogliere a me non interessa. Quella che voglio
sciogliere io, riguarda me stesso. Una realtà individuale. Non ce ne sono altre.
Per esempio, riuscire a capire se esisto, come, rispetto a che cosa e a chi, e perché
sono qui, in questo momento. Con voi!».70 Flaiano trasforma quindi la propria
difficoltà di costruire un'opera d’arte e di captare un rapporto con la realtà
esterna, in una rinuncia dolorosa sì ma sincera.
In questa commedia affascinante, che segue le leggi del teatro di conversazione,
il testo viene svuotato di ogni contenuto profondo, si sorregge esclusivamente
sulla forza salvifica della parola, in una apertura, dispersione e frammentazione
del linguaggio, come ad esempio nel teatro di Jonesco [il quale attua una
sistematica e totale distruzione del testo scenico]. Per Flaiano la parola è tutto ciò
Antonucci (1992), p. 285.
Flaiano (1990), p. 1136.
68 Flaiano (1990), p. 1153.
69 Flaiano (1990), p. 1158.
70 Flaiano (1990), p. 1153.
66
67
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che rimane di un colossale naufragio, la sola cosa ancora a galla, tutto il resto non
conta, come disse lo stesso Flaiano, in un’intervista ad Aldo Rosselli, spiegando
il senso del titolo della commedia: «Io credo soltanto nella parola. Tutto il resto il gesto, il silenzio - fa parte di atteggiamenti di avanguardia [...] voler rifiutare la
parola come mezzo di comunicazione è un errore, perché è il mezzo più semplice.
Chiedete e vi sarà dato, parlate e sarete ascoltati. La parola è il messaggio
stesso».71 Quello di Flaiano è un teatro in grado di darci tutte le sfumature e
variazioni possibili del ‘quotidiano’.
Il tratto che accomuna le nove scene di questo lavoro teatrale di Flaiano ai testi
precedenti è la tendenza alla conversazione, al suo assoluto prevalere sull’azione.
Poiché per una conversazione è difficile immaginare uno sviluppo preciso e una
conclusione, l’autore definì la commedia «un’operina aperta ai due lati e al centro
che può ampliarsi senza gravi danni, secondo appunto le leggi del teatro di
conversazione, ed è probabile che continui».72 Tutto questo conferma la
predilezione flaianea per il teatro di conversazione. Il dramma di conversazione,
infatti, disegna la crisi di una società che non ha altro modo di rappresentarsi, e
quindi può solo descrivere la situazione di stallo in cui è incastrata, raccontando
la sua attesa, esattamente come i personaggi beckettiani che possono solo parlare
aspettando qualcosa che potrebbe non arrivare mai, un po’ come la realizzazione
dell’opera artistica, che è il problema di fondo dei tre protagonisti de La
conversazione continuamente interrotta che parlano, analizzano, si confessano, in
attesa che la creazione artistica si materializzi da sola sotto i loro occhi distratti.
Quella chiacchierata apparentemente inconcludente rappresenta una sorta di
forma mentale che lo scrittore Flaiano adotta per stabilire una comunicazione con
gli altri. Certo è che essa possiede una teatralità non tradizionale, e più che alla
vicenda si affida alla ‘chiacchiera’, sostituendo allo sviluppo la variante, intorno
a un tema.
Nel primo volume delle Opere complete si può leggere una pagina datata 1956
in cui Ennio si chiede: «Perché il teatro ‘in lingua’ non fa né ridere né piangere?
Forse perché […] la realtà, così com’è, non può essere portata in palcoscenico se
non in dialetto. […] A teatro ci andiamo convinti di rappresentare […] una società
che agisce ‘in italiano’, mentre in realtà pensa in dialetto».73 Ne La conversazione
l’innesto dialettale si limita alla reiterata botta e risposta tra un ‘Che voj?’ e
qualche battutaccia romanesca dell’imbianchino burlone. Qui il ricorso al dialetto
trova forse motivazione dal desiderio dell'autore di ricordare che l'azione dei
sette quadri si svolge a Roma.
Come s’è già detto, ne La conversazione continuamente interrotta, i tre personaggi,
lo scrittore, il poeta e il regista intessono per sette quadri conversazioni, o semi
Sergiacomo (1996), p. 167.
Flaiano (1990), p. 1164.
73 Geron (1995), p. 31.
71
72
257
monologhi, che non terminano mai e che non sfociano in qualcosa di chiaro e
logico perché vengono continuamente interrotte. Sono dialoghi senza ragioni,
conversazioni che continuano ad interrompersi. Ognuno segue il filo dei propri
pensieri e solo casualmente fa partecipe l’altro, con mozziconi di frasi e strascichi
di idee che non troveranno una loro immagine compiuta. Nell’avventura
conversazionaria dei protagonisti, prendono il sopravvento la noia e il fastidio di
tutto. E da questo una tristezza, uno struggimento sempre composto e quasi
sempre sorridente. Nel suo intervento su La conversazione continuamente interrotta,
Gastone Geron ricostruisce la poetica di Flaiano drammaturgo, arrivando alla
conclusione che ‘l’idea martellante’ della commedia è quella del work in progress,
perché a Flaiano preme non la costruzione della storia da rappresentare, ma la
possibilità di moltiplicare all'infinito, in un gioco di specchi deformanti, quella
che lui ebbe a chiamare «l’esclusione dalla storia».74
Come dicevamo più su, La conversazione continuamente interrotta ha una
struttura aperta, fondata solo sulle potenzialità espressive della ‘chiacchiera’. La
struttura è orizzontale e potrebbe snodarsi all’infinito, come indica la battuta
finale: «No, basta per oggi»75: domani, quindi, potrebbe ricominciare tutto
daccapo. L'opera nasce come poetica di una impossibilità espressiva: più semplicemente, una lunga e svariata serie di conversazioni a ruota libera sul tema
centrale che, anziché svolgersi, si sposta di continuo. Quest’opera flaianea, lo si è
già ricordato, è aperta da ogni lato, sicché non le occorre davvero una
conclusione, anzi sta bene così, aperta, tale che possa ricominciare quando si
vuole, o continuare all'infinito, malinconicamente. A ciò si aggiunga che, in
questa pièce, Flaiano riesce a conciliare la battuta folgorante e il ritratto articolato
di costume, il gusto per la boutade e la satira per porsi come immagine di una
condizione umana eterna.76 Quando l’ironia tace o si affievolisce, la commedia
improvvisamente cede, perché non ha altra vera struttura che l’ironia.
Le continue inversioni di rotta del vascello scenico sfiorano spesso lo scegliere
dell'assurdo: ‘quadro secondo’. Il dottore che esamina lo Scrittore e lo rimprovera
di dire troppe volte grazie. ‘Quadro terzo e quarto’: il Regista e il Poeta che
confidano come si comportano con le donne. ‘Quadro quarto bis’: il giornalista che
vuole il parere dello Scrittore sulla condizione dell'intellettuale nel mondo di
oggi, la conversazione appunto continuamente interrotta dalle telefonate di una
sconosciuta che chiede di suo marito ricoverato in clinica. L'annuncio registico
che il suo intervento avrà per titolo «Il teatro non si può fare».77
Sergiacomo (1996), p. 203.
Flaiano (1990), p. 1162.
76 Antonucci (1992), p. 284.
77 Flaiano (1990), p. 1139.
74
75
258
Conclusioni
Come è facile arguire, la metafora di questa commedia sta proprio
nell’incapacità di pensare e d’intuire dell’uomo d’oggi, nel suo progressivo
abbandonarsi al sonno della coscienza. Perciò occorre infine riconoscere e sottolineare con
chiarezza che la volontà dello scrittore, pur tenendosi ancora un passo indietro, fu
quella di razionalizzare di fronte ad una realtà che appare irriducibile ad un
approccio totalizzante da parte dell'arte. «A Flaiano importava riconoscere
l’involgarimento progressivo del mito nel mondo moderno, anzi l'aspetto non
più reversibile di tale volgarità».78 Da quanto si è detto risulta evidente che
Flaiano si riferisce ad una purezza ormai perduta dalla civiltà moderna
occidentale, e così si riallaccia a tutta quella tradizione dell'arte contemporanea
che cerca nelle tradizioni dei popoli indigeni spunti per continuare a creare.
La Conversazione, come si è già visto, è la rivendicazione di una teatralità
fondata solo sulla suggestione della ‘chiacchiera’ e della sua straordinaria
potenzialità espressiva. Flaiano nega, questa volta, qualsiasi costruzione scenica
affidandosi tutto all'opera «aperta […] secondo le leggi del teatro di conversazione»79. La conversazione continuamente interrotta è un testo irrepetibile nel suo
equilibrio di allegria e di amarezza, di amore e di odio, di disperazione e di
speranza. Sebbene continuamente interrotta, la conversazione dei personaggi
continua, aperta al centro e ai due lati. Nonostante il tono doloroso della
commedia, c’è in essa, infatti, la speranza nella possibilità di un riscatto morale.
In Flaiano c'è un fondo di speranza che nasce da un'intima consapevolezza del
valore dell'intelligenza umana. In una delle ultime interviste, risponde: «L'uomo
è un animale pensante, e quando pensa non può essere che in alto. È questa la
mia fede. Forse l'unica. Ma mi basta per seguire ancora con curiosità lo spettacolo
del mondo»80. Una speranza di civiltà nella stupidità dei conflitti e nelle
contraddizioni che dominano l'uomo. La conversazione continuamente interrotta
non è, perciò, mai definitivamente interrompibile.
Mohamed, Naguib
Università di Ain Shams, il Cairo, Egitto.
Mail privata: mohammad.naguib@yahoo.com
Mail istituzionale: mohamed_nagib_salem@alsun.asu.edu.eg
Sergiacomo (1996), p. 198.
Flaiano (1990), p. 1164.
80 Antonucci (1986), p. 199.
78
79
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The two world wars, the fascist era, the years of reconstruction and development. These
are the most significant events of the twentieth century in which the post-war intellectual
suffered greatly. In the midst of this climate, Flaiano felt useless; useless in a culture, in
a literature, in a criticism that has not sufficiently noticed him. In Flaiano seems
inevitable the recourse to sarcasm and self-irony that act as a balm for wounds reported
during a career not always full of satisfaction and recognition. Flaiano has inserted
autobiographically himself into ‘The Conversation Continuously Interrupted’, the
masterpiece of Flaiano as a dramatist, by talking about the intellectual crisis of the postwar period (a crisis that is his crisis). It is evident that in Flaiano there is a profound hope
that comes from an intimate awareness of the value of human intelligence. A hope of
civilization in the stupidity of conflicts and the contradictions that dominate the
humanity.
Parole-chiave: Flaiano; crisis; intellectual; the post-war period; conversation.
263
PAOLA PIZII, La scrittrice del respiro dell’anima: Neera
Accanto agli autori eminenti, una schiera più estesa di loro contemporanei ha compiuto
una più oscura opera di mediazione, spesso accogliendo e trasmettendo la lezione dei
maestri, talvolta influenzando autori più giovani ma destinati a diventare punti di
riferimento per le generazioni successive. In alcuni casi, gli autori classificati come
minori sono stati i rappresentanti di linee o poetiche perdenti oppure schiacciate sulle
più forti personalità artistiche dei «maggiori» emersi subito dopo. Tutti in ogni caso,
hanno prodotto opere che, secondo le modalità proprie di ciascun secolo o periodo, sono
entrate in un sistema di circolazione e ricezione fatto di copisti e editori, lettori colti e
profani, filologi e recensori.1
Così si legge in un recente lavoro di Scaffai con il quale si decide di aprire il
presente lavoro su minimi non minores. La prima riflessione è però di natura
terminologica e filosofica: il minimus esiste solo in relazione ad un maximus, in un
continuo ed inevitabile equilibrio empedocleo tra gli opposti. Ebbene, a sancire
l’appartenenza all’una o all’altra categoria è principalmente il tempo: ci sarà
sempre qualcuno che supererà in fama il predecessore, un po’ come asserito già
da Dante nei celebri versi del canto XI del Purgatorio.
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.2
Scelte politico-culturali, somiglianze tematiche o anche la semplice non
appartenenza al genere maschile, infatti, sono fattori che spesso hanno
contribuito ad eclissare alcuni autori (anche se famosi) e a metterne in luce altri.
È un po’ ciò che è accaduto (anche se in modo non particolarmente rilevante) a
Guicciardini nei confronti di Machiavelli, a Capuana rispetto a Verga3, autori
molto importanti, che però, in un certo qual modo, sono sempre vissuti all’ombra
Scaffai (2005), pp. 6-7.
Dante, Pg. XI, vv. 94-99.
3 A tal proposito dice il Croce: «le teorie artistiche del Capuana e la sua propaganda del
verismo e naturalismo, valsero a spingere il Verga più oltre sulla via nella quale era entrato. Il che
non vuol dire (anzi, se mai, dice appunto il contrario) che l’uno scrittore sia derivato dall’altro:
ciascuno dei due ha particolari attitudini e presenta una propria fisionomia. […] Se il Verga è
debole e impacciato ragionatore, il Capuana è polemista lucido e sicuro. Nel primo è maggiore
spontaneità: nel secondo, maggiore riflessione e coltura» (Croce, 1905, pp. 341-342).
1
2
264
di altri, pur con le loro specificità e grandezze letterarie. E ciò si acuisce
nell’ambito della letteratura italiana femminile, sicuramente a causa dell’assenza
delle donne dai luoghi ufficiali dell’istruzione e dai salotti intellettuali. A tal
proposito Patrizia Zambon afferma che
[...] un lungo oblio, marcato da un fraintendimento «in rosa» tanto tenace e immotivato
nella sua genericità da apparire più che incomprensibile lievemente sospetto, ha
sospinto per decenni nell’assenza questo grande settore della nostra civiltà letteraria. 4
Generalmente nel Novecento si ricorda Grazia Deledda, in quanto premio
Nobel nel 1926 per la Letteratura; più all’ombra (ma comunque note) sono Sibilla
Aleramo e Matilde Serao; ignorata5 quasi del tutto dalla stragrande maggioranza
delle crestomazie scolastiche è Neera (al secolo Anna Radius Zuccari), che
comunque è uno dei grandi nomi del panorama letterario femminile, autrice di
più di quaranta tra romanzi e novelle, saggi critici, giornalista delle maggiori
testate dell’epoca («Corriere del mattino», «Corriere della Sera», «Corriere di
Napoli», «Fanfulla», «Marzocco», «Nuova Antologia» etc..) e co-fondatrice della
rivista «Vita intima» (1890). Lo stesso Marinetti le scrisse perché prendesse «in
considerazione questo nuovo Manifesto del Futurismo che riassume le aspirazioni
audacissime ma sincere della miglior parte della gioventù intellettuale d’Italia»6
e scrivesse un articolo sul «Marzocco», invito che Neera cordialmente declinò,
definendo le idee di Marinetti così lontane dalle sue, da richiedere «uno sforzo
acrobatico; e l’acrobatismo può andar bene a Lei che è giovane, non a me che sono
nonna»7. Le case editrici la corteggiavano, i lettori l’amavano, godeva della stima
anche di grandi come Capuana, Verga, Croce, con i quali ebbe un intenso scambio
di carteggi8 (nell’archivio delle sue corrispondenze c’è anche una lettera di
Pirandello dell’Aprile 1898).
E sarò io tanto ingrata da dimenticare l’argomento più persuasivo, l’amore de’ miei
lettori? Tra le soddisfazioni più vive della mia carriera letteraria devo pure annoverare
la larga onda di simpatia che mi venne, non dalla critica ufficiale, ma dal mondo
ignorato invisibile e lontano delle anime che mi amarono attraverso l’anima mia. 9
Neera conobbe Verga e Capuana a Milano presso il famoso salotto letterario
di Clara Maffei. Scrive Capuana:
un bel giorno fui molto sorpreso di incontrarmi nella Neera in carne ed ossa, una
giovane signora vestita con elegante semplicità [...]. Il pseudonimo di una signora,
Zambon (2004), p. 95.
La stessa tesi è dimostrata in Ramsey-Portolano (2004).
6 Arslan (1982), p. 115.
7 Ivi, p. 116.
8 Per le corrispondenze edite, cfr. di Arslan, la voce Neera in Il Dizionario critico della
Letteratura italiana (Branca 1986).
9 Neera (1919), p. 12.
4
5
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soprattutto, significa: -Badate! Io voglio essere due persone: una, la donna -fanciulla,
madre di famiglia, zitellona, -che vive pei parenti e pegli amici, che non isdegna nessuno
dei suoi doveri domestici, previdente, massaia, infermiera [...]. L'altra, la scrittrice che
mette fuori ogni anno dei volumi composti non si sa quando, nei momenti rubati al
sonno e alle preoccupazioni della vita giornaliera. 10
Risale al 1884-1911 lo scambio epistolare11 con Verga, più intenso nel 1884, in
occasione della rappresentazione di Maura (l’unica opera teatrale della Zuccari):
la scrittrice pregava Verga di presentarla alla grande Eleonora Duse per proporle
la parte, ma la cosa non ebbe felice esito. Croce la definì addirittura «antitesi quasi
completa» di Capuana, in quanto, in lei, erano «sovrabbondanti tutte le qualità
che scarseggiano nel Capuana»12.
Il Capuana non ha idee, non ha sentimenti dominanti e trascinanti, offre spesso i fatti
bruti per quella sola importanza che un fatto ha come fatto: Neera è passionale,
sentimentale, moralista, meditativa, e non vede il fatto se non attraverso l’ideale. Il
Capuana fa desiderare la lirica: Neera è tutta lirica. Il Capuana studia la finitezza
artistica, e non evita sempre l’artificio; Neera si contenta spesso dell’abbozzo e del
press’a poco, e va sino alla negligenza […]. Il Capuana è stato uno dei primi a
presentare Neera ai lettori italiani e ne ha lodato l’ingegno artistico […] ed a Capuana
Neera ha dedicato le confessioni sulla sua vita e sulla sua arte.13
Al centenario della sua morte (avvenuta il 19 Luglio 1918) non ci sono state
celebrazioni (come invece è accaduto per altri autori) e ciò testimonia come
ancora oggi sia un’autrice, per così dire, non di massa. La si sceglie dunque come
minima (ma sicuramente non minor!) per la contrastante opinione della critica, per
la scarsa fortuna che ebbe se confrontata con i suoi contemporanei, per non aver
dunque avuto dai posteri la gloria che forse avrebbe meritato.14
Quella di Neera fu una personalità piuttosto complessa. In lei si riflessero gli
sbandamenti, le incertezze e le perplessità, ma anche e soprattutto la forza di tutte le
donne che, tra l’Ottocento e il Novecento, si affacciavano sul panorama della letteratura
in veste di scrittrici. I loro tratti comuni erano quelli di portare sulla scena un nuovo
punto di vista, quello femminile appunto, tanto nella caratterizzazione dei personaggi
quanto nella selezione degli argomenti.15
Nonostante il presente contributo si apra anche ad un confronto tematicostilistico tra alcuni loci zuccariani e passi di autori più noti e apprezzati dalla
Capuana (1882), pp. 146-147.
Arslan-Verdirame (1978).
12 Croce (1905), p. 354.
13 Ivi, p. 354.
14 Le opere della scrittrice sono state in gran parte digitalizzate, affinché Neera possa tornare
ad essere letta e apprezzata dai lettori attuali: il progetto Di.Re della Biblioteca Nazionale
Braidense si è occupato dei romanzi, mentre la banca dati sulle autrici femminili dell’Università
di Chicago si è concentrata sui racconti.
15 Pucello (2007), p. 2.
10
11
266
critica (d’Annunzio e Verga in particolar modo), al fine di mostrare la sensibilità
narrativa dell’autrice, scopo principale del saggio sarà l’analisi delle parole che i
grandi personaggi dell’epoca spesero per la Zuccari, soprattutto negli scambi
epistolari. Se infatti sono note le lettere tra Verga e Capuana ad esempio sulla
stesura, le tecniche e i contenuti de I Malavoglia, nonché la recensione al
capolavoro verghiano pubblicata da Capuana sul Fanfulla della domenica nel 1881,
assolutamente meno nota è invece la loro corrispondenza epistolare con Neera.
Scrive ad esempio Capuana a Neera, relativamente alla sua Giacinta (1889):
Quanto durò questo lavoro di fantasticheria, di ripensamento, d’organazione interiore,
per cui avviene che il personaggio reale giunga ad elevarsi alla dignità di personaggio
dell’arte? Più di due anni Amica mia. […] Pur che io fossi riuscito a renderla tal quale
la vedevo e la sentivo nella immaginazione e nel cuore! Il problema era lì. E subito
sopravvennero gli scoraggiamenti, le ansie. La forma! la forma! Avevo qualche
coscienza della grande inesperienza mia, ma anche parecchia presunzione, e molto
entusiasmo, e moltissima fede. […] Coloro che entrano oggi nel campo dell’arte
ignorano il tormentosissimo stato di chi dovette provarsi il primo, senza tradizioni,
quasi senza guida. Probabilmente, se lo sapessero, sarebbero più benigni verso chi non
ebbe e non poteva avere i larghi aiuti di studi e di educazione letteraria ora alla mano
di tutti. In quel tempo (è già tanto lontano) certe questioni apparivano così ardue, che
lo stesso proporsele diventava un atto d’incredibile audacia. […] Ma perché vi confesso
questa miseria? Oh, non per trarne vanto, Amica mia; ma per scusarmene presso coloro
che me n’hanno fatto carico […]. E questo vi dimostri che forse soltanto noi, benché
innanzi con gli anni e con tanta trista esperienza della vita, soltanto noi, in mezzo alla
nuova generazione precocemente nauseata d’ideali, serbiamo ancora fede, a dispetto di
tutto, alla feconda illusione che è l’arte letteraria in Italia. (24 Giugno 1889).16
È un registro intimo e confidenziale quello usato dall’autore, il quale sente
evidentemente che Neera gli è empatica. Ella stessa, del resto, dice che ha capito
troppo tardi «quanta forza l’aggiustatezza del periodo e la scelta della parola
aggiungano all’idea»17.
“Mi si rimprovera (mi [a Croce] diceva un giorno Neera) che non scrivo bene, che pel
pensier trascuro la forma. Da che dipende? Da mancanza di studi giovanili? Come
dovrei fare per correggermi?” E io le rispondeva: “Non si tratta di tecnica dello scrivere,
di grammatica e di lessico; si tratta di atteggiamento dell’animo”. Ed ora ella stessa, in
queste memorie autobiografiche, con la consueta intelligenza e schiettezza, definisce
quale fosse veramente la manchevolezza che era in lei, e richiama un detto di suo padre,
il quale, un giorno che ella cantava da sola, la ammonì:” Tu non ti ascolti quando canti:
prova a ascoltarti”.18
Neera è uno spirito passionale, autodidatta, affascinata da Sterne, Foscolo e
Byron, da coloro, cioè, che «avevano fortemente amato e scritto d’amore. […]
Capuana (1889).
Neera (1919), p. 68.
18 Ivi, p. 7.
16
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Scrivevo non pensando a scrivere; all’amore invece pensavo sempre» 19. Se
Deledda aveva ottenuto il Nobel «per la sua potenza di scrittrice sostenuta da un
alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola
natale, e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse
umano», Neera, inizialmente vicina allo stile di Verga, non si concentra sul
racconto di costumi, ma contamina la sua narrazione anche con elementi idealisti
e simbolisti. Ne è un esempio la novella Paesaggio tratta dalla raccolta Voci della
notte del 1893, nella quale la penna dell’autrice crea in modo sensibile, delicato e
gentile un quadro naturale fatto da alberi, foglie e fiori, descritti in modo
simbolico. Il vero protagonista del racconto è difatti il paesaggio, apparentemente
silente, ma in realtà estremamente vivo. Nonostante non ci siano «un passo, non
una voce, nemmeno il più lieve rumore», «le lucciole, piccole anime silenziose,
alitavano tra i cespugli» e ovunque c’è la sensazione
di corpi invisibili respiranti nella notte, di ali urtantisi senza rumore, di lunghe carezze
di felci, di baci lievi e tenaci d’edere salenti all’amplesso della quercia […]. Dovunque
la vita occulta della natura, il fermento delle piante, l’amore degli insetti, la
fecondazione della terra […]. Tutto passa! sussurrava l’antico castano le cui fronde
albergavano tanti ricordi. Tutto rinasce! diceva il frusto eretto della giovane betulla,
guardando il cielo. […] Nella assenza degli uomini, parlava l’anima delle cose.
Sembra quasi di leggere l’Ur in prosa de La pioggia nel Pineto, la famosa lirica
di Alcyone che d’Annunzio compose una decina di anni dopo la novella
(nell’estate tra il 1902 e il 1903). In entrambi i testi, gli alberi parlano, sussurrano,
ognuno a modo proprio:
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi. (vv. 46-55)
Il poeta è più incisivo, musicale, virtuosistico e totalizzante rispetto a Neera,
ma entrambi riescono a trasportare il lettore in una dimensione altra e panica.
Nella novella, non è l’uomo a ‘naturalizzarsi’, ad immergersi con i «volti silvani»
(vv. 20-21) come succede nelle strofe d’annunziane, ma è la Natura stessa ad
‘umanizzarsi’, sprofondando in se stessa, a partire da prati e campi che «avevano
l’aria di riposare all’ombra delle montagne»: i rami degli alberi sono «fatti
immobili a guisa di membra raccolte per il sonno», le corolle «si chiudevano quasi
19
Ivi, p. 68.
268
esauste, ubbidienti al destino», i fiori dormivano «e dormendo, sognavano? Di
chi sognava la margherita, fior delle fanciulle? Di chi la rosa fiore dei talami?».
Così, la «pioggia di raggi siderei che rompevano l’oscurità» trova corrispondenza
ne «L’argentea pioggia» de La pioggia nel pineto (v. 83); ugualmente, l’espressione
«voci umane non erano» sembra anticipare i celebri versi «non odo/ parole che
dici/ umane; ma odo/ parole più nuove/ che parlano gocciole e foglie» (vv. 2-6).
In una fitta rete di suggestioni simboliste e decadenti, il paesaggio diviene
dunque metafora dell’animo umano, come esplicita la chiusa:
quale onda confusa veniva dall’orizzonte, su dalla valle, dai lontani abituri? Erano i
cuori spezzati che gemono in silenzio, le piccole anime volanti nella purezza, le grandi
anime passionali incatenate alla colpa? Erano gli amori uccisi sul nascere, gli amori
incompresi, sdegnati, gli amori oscuri e profondi, orgogliosamente chiusi? O gli spiriti
sciolti, i pensieri agitati, i dubbi, i sarcasmi? Le idee che sorgono, le idee che muoiono?
Ah! Tutte le miserie e tutte le grandezze della terra esalano nella notte i loro sospiri.
L’aria umida, palpitante, era pregna di lagrime.
Ciò dimostra quanto asserito da Muscariello, la quale afferma che
Neera non abiurò la lezione del naturalismo, ma si predispose ad adattarla alle esigenze
di un’arte fortemente intrisa di “bellezza morale”. Come a dire che le sue ‘finestre’
aperte sul mondo necessitavano, all’altezza degli anni ’90, di essere chiuse perché
l’osservazione del ‘reale’ potesse trasformarsi, attraverso la penna, in una costellazione
di immagini ‘ideali’.20
Nonostante la reciproca stima tra Verga e Neera, i due stili sono molto diversi:
nelle pagine dell’autrice non si avverte la regressione verghiana, non c’è
l’impersonalità, il linguaggio non è intriso di proverbi ed espressioni dialettali
che possano ritrarre meglio le realtà raccontate. Eppure, al pari di Verga, anche
la Zuccari coinvolge il lettore che si arrende alla sua forza espressiva e plastica,
non badando alla forma. Del resto, come afferma la stessa autrice nelle sue
Confessioni letterarie del 1881
la forma, dico il vero, non è mai stata la mia maggiore preoccupazione. Ora lo diventa,
ma per servire meglio il pensiero. Non posso essere dell’opinione di Flaubert, per il quale
la forma era tutto. Certo mi piace […] ma forse ciò basta? Che cos’è la forma senza
l’idea? È appunto la carne senza l’anima.21
Le opere di Neera non hanno nulla da invidiare a quelle dei ‘grandi’ a lei
contemporanei. Si confrontino ad esempio due novelle che (ironia della sorte)
hanno lo stesso titolo, ma sicuramente non la stessa notorietà: La roba, dalle
Novelle rusticane di Verga (1883) e La roba tratta dalla già citata raccolta Voci della
notte (1893). Nel primo caso l’accumulazione sintattica presente già dalle prime
righe contribuisce a delineare pian piano la figura del protagonista Mazzarò, il
20
21
Muscariello (2013), pp. X-XI.
Croce (1942), p. 891.
269
self-made man che con le sue sole forze, «colle sue mani e colla sua testa, col non
dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria,
coll’affaticarsi dall’alba a sera» (rr. 74-75) è riuscito a scalare la piramide sociale
e a sostituire tutti i valori genuini del mondo rurale con l’ideologia religiosa della
‘roba’. Il tutto è raccontato prima attraverso la prospettiva di un ipotetico
viandante e poi, secondo la tecnica usuale verghiana, tramite la regressione: lo
straniamento rovesciato fa sì che l’apparente elogio delle virtù intellettive del
protagonista lasci spazio, invece, ad una profonda critica a tale attaccamento
materiale, senza però che l’autore intervenga dall’esterno. Ciò rende la figura di
Mazzarò plasticamente ben nitida nella mente del lettore, una sorta di Titano che
ha lottato epicamente e che neppure la Morte sembra poter sconfiggere. Diversa
è invece la novella zuccariana: anche qui si trova la tecnica dell’accumulazione,
che però non è prodromica alla presentazione indiretta del protagonista, bensì a
quantificare l’importanza dell’eredità da contendersi.
Il morto non doveva lasciare molti denari, ma della roba ne aveva e fina, deposito di una
intera generazione di gente economa e massaia, antichi contadini arricchiti. La sorella
meglio che tutti conosceva il numero e la qualità delle lenzuola, le coperte di filugello
tessute in casa, gli asciugamani lunghi un metro e mezzo, le tovaglie di puro lino col
disegno a dama. E le maioliche vecchie? i piattini col campanile, cogli alberi, colle mele
che parevano vere? le chicchere dipinte a uccelletti? la zuppiera enorme coi manichi
arabescati, col piatto di sopporto frastagliato come una trina? Posate d'argento ce ne
dovevano essere almeno sei o quattro o tre.
Infatti la storia inizia in medias res con la constatazione da parte di un medico
che il paziente (un vecchio signore benestante) è morto. Al suo capezzale ci sono
«la figlioccia», la sorella del defunto e il fratello Marco. Apparentemente
sembrano tutti provati dalla perdita, ma basta la lettura di poche righe per
scoprire una realtà fatta di ipocrisie e di rancori: «il fatto è che si detestavano,
ognuno dal canto loro, cordialmente e si guardavano di traverso come belve
attirate intorno alla stessa preda». Come in Verga, è presente anche qui la
‘religione della roba’, così forte da soppiantare l’amore familiare, il rispetto, la
veglia religiosa: «Mi viene, mi viene [in riferimento ai beni da avere in eredità]:
continuava a borbottare tra un requiem e l’altro». Tutti i personaggi sembrano
essere impermeabili al lutto e alle emozioni:
Tutti e tre volevano giustificarsi davanti al dottore per averlo lasciato morire così, come
un cane. Ma il dottore sembrava indifferente alla cosa. Aveva un solo pensiero: tornare
a casa più che in fretta per riattaccare il sonno perduto.
La focalizzazione zero adottata dal narratore fa sì che il lettore si muova
attraverso i loro pensieri più reconditi:
Anche nella sua mente passava la visione delle lenzuola fine, delle posate, delle
maioliche, del vecchio anello a castone con una miniatura sopra smalto azzurro; e li
desiderava; ma il suo era un desiderio fine, intelligente, una intuizione che tutta quella
270
roba in mano di villani era, come dire, perle gettate ai porci. Per nient’altro la
desiderava.
Eppure tutti si alleano (apparentemente) per cercare il testamento, frugando
qua e là per le stanze, noncuranti della salma: «in questa lotta coperta, i volti
indurivano, prendendo una tinta terrea sotto il lume vacillante della candela; le
pupille scintillavano di cupidigia repressa; le mani tremavano». Chi lo avrebbe
trovato per prima?
— Ho trovato il testamento! — gridò sollevando in alto un rettangolo bianco. Fu un
momento di angoscia indescrivibile. Tre cuori sospesero per un istante le loro
pulsazioni, tre vite si concentrarono in uno sguardo acuto, assorbente, quasi feroce...Un
raggio di sole entrava, obliquo, ad illuminare il letto dove il morto riposava,
completamente staccato dalle miserie terrene.
Con questa immagine malinconica, di accusa alla cupidigia terrena, si
conclude ex abrupto la novella. Perfettamente coerenti appaiono i versi virgiliani
dell’Eneide: «Quid non mortalia pectora cogis, /auri sacra fames?»22. Nel momento di
Spannung, lo sguardo del lettore è placidamente accompagnato dal narratore sul
volto del morto, solo, eppure finalmente sereno. La penna di Neera riesce
davvero a dar voce all’inespresso e a ciò che è difficile tradurre in parola. Se ad
esempio si legge la breve novella La morte del bimbo (tratta sempre da Voci della
notte), si resta attoniti e commossi davanti al dialogo tra la Morte e il piccolo
bambino, inerme, malato da giorni, ormai privo di forze:
il suo corpicino era tutto un dolore; non respirava quasi più. Chiamò: Mamma! Così
debolmente che la madre appena appisolata sulla sedia, affranta da dieci notti passate a
quel modo, non udì neppure. Un altro udì, l’Alto, l’Invisibile, che rispose al bambino: Saluta tua madre, salutala lieve lieve intanto che dorme e vieni con me. – Come posso
io venire se le gambine non mi reggono? – Vieni, ti porterò io. – Non voglio lasciare la
mamma. – La mamma ti seguirà poi. - Non voglio lasciare la mia bella culla bianca. La tua bella culla bianca diventerà fra poco un letto duro pieno di triboli. - Non voglio
lasciare i miei balocchi. – I tuoi balocchi, fra alcuni anni, si chiameranno crucci,
pensieri, contrarietà, fatiche.
È un dialogo intimo, delicato e dal forte πάθος: sono parole che si
adatterebbero anche al piccolo Raimondo, il neonato ‘innocente’, protagonista
dell’omonimo romanzo di d’Annunzio del 1892, L’innocente. Frutto del
tradimento della moglie Giuliana, il piccolo è odiato da Tullio, marito della
donna, poiché la sua sola presenza gli ricorda costantemente la relazione
extraconiugale: «nulla di più m’irritava quanto la voce, quanto quel miagolio
ostinato che mi aveva ferito così crudamente la prima volta [...]. Era per i miei
Verg., Aen., III, 56-57: «a che non costringi l’anima umana, o esecrabile fame d’oro?» (trad.
R. Scarcia).
22
271
nervi un urto intollerabile» (cap. XXXVIII). In una gelida notte, dunque,
prendendolo
adagio, adagio […], tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai
alla finestra; l’esposi all’aria che doveva farlo morire. (cap. XLIV)
Nella novella di Neera predomina la tenerezza delle candide parole dette dal
piccolo, alle quali si contrappongono le lucide e sentenziose risposte della Morte.
Nelle pagine d’annunziane, invece, tutta la narrazione è volta a sottolineare il
livido piano criminale di Tullio, contrapposto alla purezza e all’innocenza del
piccolo neonato, che se avesse saputo parlare, probabilmente avrebbe detto ciò
che si legge in Neera. Il risultato è in entrambi i casi molto intenso: all’interno di
un intreccio dal sapore dostoevskiano, d’Annunzio lascia che il lettore entri nella
mente dell’assassino Tullio, mentre Neera fa sì che le sue immagini e i suoi
personaggi arrivino dritti al cuore, uscendo dalla pagina per l’intensità delle loro
caratterizzazioni. Sono personaggi spesso soli e ‘vinti’ dalla vita, al pari dei più
noti esempi verghiani. Il Ciclo dei Vinti dell’autore catanese mira proprio a
mostrare questa sconfitta dell’essere umano in tutte le classi sociali. Ugualmente,
anche la Zuccari pensa ad un insieme di romanzi, il cosiddetto Ciclo della donna
giovane, formato da Teresa (1886), Lydia (1887) e L’indomani (del 1889, lo stesso
anno della pubblicazione di Mastro-don Gesualdo e de Il Piacere di d’Annunzio).
Come i membri della famiglia Toscano, come Gesualdo e gli altri personaggi
verghiani, anche Teresa, Lydia e Marta (le protagoniste dei tre romanzi ricordati),
sono sole e oppresse dalla quotidianità delle loro esistenze. Secondo Croce,
Teresa
percorre intera la via crucis, fanciulla schiacciata dalla sua famiglia, dal padre
imperioso, dal fratello al quale bisogna preparare un avvenire fortunato, dalle sorelle
minori che bisogna allevare, non aiutata dalla madre, che sa soltanto piangere con lei.23
Dalla prefazione di Verga a I Malavoglia (19 gennaio 1881) si capisce quanto
questo romanzo fosse in linea con le tendenze di ‘analisi’ del momento: l’autore
afferma infatti di aver voluto realizzare
lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi
nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; […] il movente
dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti,
nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la
determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con
maggior precisione.
Il romanzo di Neera è invece assolutamente appassionato, non ‘scientifico’,
legato a doppio filo con l’anima dell’autrice. Persino le scene corali sono delineate
23
Croce (1905), p. 360.
272
con colori diversi. Teresa si apre con la descrizione di tutto il paese riunito ed
allarmato a causa di una probabile inondazione del Po.
— Coraggio, figliuoli, coraggio. — Ne abbiamo, signor sindaco, ma la faccenda è brutta
assai; temo l'abbia da andar male per tutti. Chi rispondeva così alla grande autorità del
paese, era il vecchio Toni, l'anziano dei barcaiuoli, che di piene ne aveva vedute
parecchie, e crollava il testone grigio arruffato, sul quale stava in permanenza il
tradizionale berretto rosso dei paroni del Po. — Noi facciamo il nostro dovere, Toni, e
il resto alla provvidenza. Toni non rispose; si rimise al lavoro, insieme agli altri
barcaiuoli e operai; tutti intenti a trasportare fascine, sacchi di terra, cocci, mattoni,
ciottoli per far argine al fiume. — Santo Iddio! — esclamò il sindaco, con un accento
metà di bestemmia e metà di preghiera — guardando il fiume che ingrossava sempre.
La notte era nera, con un cielo minaccioso, gravido di pioggia. Era piovuto tutto il
giorno — pioveva da trentaquattro giorni. La pietra sulla quale erano segnati i gradi
d'altezza delle precedenti inondazioni, era già tutta coperta. Il fiume saliva con una
lentezza implacabile, colla calma feroce di un mostro che è sicuro della sua preda. Aveva
invaso l'argine basso; ora toccava l’orlo dell'argine superiore, spumeggiando, con un
brontolìo sordo. Il gran pericolo era che l'acqua minasse l'argine al disotto. Da
quarantotto ore si lavorava senza posa, atterrando alberi e vecchie case, le più vicine al
fiume, quelle in maggior pericolo; gli abitanti di tali casupole, quasi tutti poveri,
fuggivano trasportando le masserizie — e non erano ancora fuori che già il piccone dei
muratori risuonava sui muri, facendo rimbalzare i calcinacci, alla luce scialba delle
torce a vento portate dai ragazzi. Una vecchia ottuagenaria, alla quale avevano tolto il
letto per trasportarlo in un posto più sicuro, si avvicinò agli uomini che sorreggevano
quel povero mobile tarlato, e disse loro piangendo: —Gettatelo dentro anch'esso, tanto
domani io non vi potrò più dormire. — Sì, gettatelo, — aggiunse il sindaco — ne farò
dare un altro a questa povera donna. Il letto della vecchia sparve subito nelle onde
ingorde che salivano, salivano. Il sottoprefetto e il tenente dei carabinieri giungevano
insieme dalla parte dei boschi, dove erano andati ad ispezionare la sicurezza delle rive.24
Ne I Malavoglia la scena corale è molto più dettagliata ed analitica, ricca di
espressioni vernacolari, proverbiali e soprannomi. Il sabato in cui parte la
Provvidenza, il paese è animato e si lascia andare a commenti (non sempre
positivi) sulla decisione della Famiglia Toscano.
Per tutto il paese non si parlava d'altro che del negozio dei lupini, e come la Longa se
ne tornava a casa colla Lia in collo, le comari si affacciavano sull'uscio per vederla
passare. — Un affar d'oro! — vociava Piedipapera, arrancando colla gamba storta
dietro a padron 'Ntoni, il quale era andato a sedersi sugli scalini della chiesa, accanto a
padron Fortunato Cipolla, e al fratello di Menico della Locca che stavano a prendere il
fresco. […] Dopo la mezzanotte il vento s'era messo a fare il diavolo, come se sul tetto
ci fossero tutti i gatti del paese, ea scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno
ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant'Alfio, e il giorno era
apparso nero peggio dell'anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre,
di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come
una schioppettata fra i fichidindia. […] le donne invece si facevano la croce, quasi
vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro. Maruzza la Longa non diceva
24
Neera (1886), cap. I.
273
nulla, com'era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua
e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l'uovo. Gli
uomini erano all'osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder
piovere, col naso in aria. Sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di
lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il
figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro
che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli
facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di
Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini. — Adesso
tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! diceva stringendosi nelle spalle; e poi
quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza. […]. La Santuzza, all'ultimo
tocco di campana, aveva affidata l'osteria a suo padre, e se n'era andata in chiesa,
tirandosi dietro gli avventori. […] — Ci sono i diavoli per aria! diceva la Santuzza
facendosi la croce coll'acqua santa. — Una giornata da far peccati! La Zuppidda, lì
vicino, abburattava avemarie, seduta sulle calcagna, e saettava occhiatacce di qua e di
là, che pareva ce l'avesse con tutto il paese, e a quelli che volevano sentirla ripeteva: —
Comare la Longa non ci viene in chiesa, eppure ci ha il marito in mare con questo
tempaccio! Poi non bisogna stare a cercare perché il Signore ci castiga! — Persino la
madre di Menico stava in chiesa, sebbene non sapesse far altro che veder volare le
mosche! — Bisogna pregare anche pei peccatori; rispondeva la Santuzza; le anime
buone ci sono per questo […] Fra un'avemaria e l'altra si parlava del negozio dei lupini,
e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli.
(capp. II-III)
È una coralità vista dall’alto, diversa da quella di Teresa: pur parlando tutti del
mare in burrasca e della sorte dei Toscano, non sono tutti riuniti in un unico
luogo: come al solito, le donne sono in chiesa, gli uomini in osteria, altri a casa;
«sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in
mare colla Provvidenza». Verga delinea in modo magistrale le abitudini statiche
del paese, fa trapelare le critiche nei confronti di chi ha deciso di portare una
novità in un luogo nel quale la legge imperante è la ripetizione quotidiana delle
azioni, caratterizza gli abitanti con i loro soprannomi parlanti e realizza in
definitiva un quadro fedele, rendendo «la scena nettamente, coi colori adatti, tale
da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto
essere» (come dice nella già citata Prefazione al romanzo). Neera è invece più
lirica e sentimentale, come testimonia la stessa immagine finale della vecchia
signora ottantenne che piange davanti al letto tarlato, risucchiato dal fiume. A
differenza della scrittrice, infatti, Verga presenta i fatti dall’esterno attraverso
l’ottica deformata degli abitanti del villaggio, incuriositi dal dramma ma
sostanzialmente indifferenti, e non permette dunque al lettore di entrare a fondo
nell’intimo di Padron ‘Ntoni, che resta da solo sulla riva. Sola è anche Teresa,
della quale la Zuccari dice che
una che si chiamava veramente Teresa mi bastò vederla una volta sola. Pallida e mesta,
seduta in disparte dalle sue sorelle, che giovani ed allegre scherzavano tra loro, cuciva
una camicia per il fidanzato lontano, fidanzato già da dieci anni, il quale non veniva
mai, ed al quale ella pensava sempre. Queste due antitesi, l’indifferenza di lui, la
274
costanza di lei: ecco il romanzo sorto in un attimo intero e vitale. […] era il dramma di
tante anime femminili che si era ripercosso attraverso la deviazione di un’anima sulla
speciale sensibilità dell’anima mia.25
Come la Gertrude manzoniana o la giovane Maria di Storia di una capinera
(1871), anche Teresa è un’anima fragile, bisognosa di affetto. Ma, per tutte,
l’amore è dolore:
il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e
sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella
pelle. Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una
simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d’anni le si fosse
aggravato sopra; aveva pensieri mesti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto. Si
toccava l’abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere.
All’ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non potè quasi ingoiare cibo. – Va’
a coricarti, poverina, sei stanca. Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a
doversi frenare davanti agli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera
col novo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor
Cecchino.26
Più struggenti e romanticamente sofferte sono le parole dell’indifesa Maria:
io lo amo! io lo amo! Pietà! pietà di me! Non mi disprezzare! son molto infelice!
perdonami! Mio Dio! perché questo castigo così duro? Ecco che bestemmio! Oh, mio
Dio! ... quanto ho pianto! Oh! Dio mio... vi ha una donna più sciagurata di me? ...
L'amo! È un'orribile parola! è un peccato! è un delitto! ma è inutile dissimularlo a me
stessa. Il peccato è più forte. Ho tentato di sfuggirgli, esso mi ha abbrancato, mi tiene
in ginocchio sul petto, mi calpesta la faccia nel fango. Tutto il mio essere è pieno di
quell'uomo: la mia testa, il mio cuore, il mio sangue. L'ho dinnanzi agli occhi in questo
momento che ti scrivo, nei sogni, nella preghiera. Non posso pensare ad alto; mi pare
che ad ogni istante il suo nome mi venga sulle labbra, che ogni parola che profferisco si
trasformi nel nome di lui; allorché lo ascolto son felice; quando mi guarda tremo; vorrei
stargli vicina ad ogni momento e lo fuggo; vorrei morire per lui. Tutto ciò che sento per
quell'uomo è nuovo, è strano, è spaventoso... è più ardente dell'amore che porto a mio
padre; è più forte di quello che porto a mio padre; è più forte di quello che porto al mio
Dio! ... Questo è quello che al mondo chiamano amore... l'ho conosciuto; lo veggo... È
orribile! è orribile! ... È il castigo di Dio, la perdizione, la bestemmia! Marianna, io son
perduta! Marianna, prega per me! (Lettera del 20 Novembre)
Maria ha diciannove anni; Teresa, sedici. Entrambe giungono alla scoperta
dell’amore in seguito ad un viaggio per così dire ‘iniziatico’: Teresa soggiorna
presso la casa degli zii a Macaria; per via del colera, Maria è costretta a lasciare
per qualche mese il convento di Catania e a trasferirsi a Monte Ilice, nella casa del
padre. Ma mentre Maria conquista la totale consapevolezza del suo sentimento,
Teresa avrà bisogno continuamente di chi la guidi, conservando quella ingenuità
propria di chi conduce un’esistenza reclusa in casa, ignara del mondo. La
25
26
Neera (1919), p. 70.
Neera (1886), cap. VI.
275
sofferenza è una prerogativa anche di Lydia Valdora e di Marta Oldofredi, le
protagoniste degli altri due romanzi del Ciclo. La prima è l’anti-Teresa, ricca,
viziata e superficiale, non simpatica persino all’autrice:
[…] ella era cresciuta libera in una società dove tutto è vincolo e finzione; accettando il
bello naturalmente perché non aveva bisogno di spiegazioni, e ignorando in modo
assoluto tutto ciò che non aveva un rapporto diretto coi sensi. Era figlia de’ suoi tempi;
aveva il sangue misto, parte di decadenza aristocratica e parte di insolenza borghese
arrivata in alto. Molto intelligente, chiudeva in sé i germi del bene e del male, ma
nessuno sviluppato, nessuno dominante. La superficialità della sua educazione
soffocava in lei ogni tendenza individuale. Con tutto questo era persuasa d’essere, oltre
che la più bella, la più buona delle fanciulle.27
Giunge al suicidio dopo aver trascorso la sua vita nella continua attesa del vero
amore, unica fonte di felicità. Marta, la protagonista de L’indomani (1890), il terzo
romanzo del ciclo, è fin dall’inizio una donna sposata. Avendo raggiunto il
matrimonio (tanto agognato sia da Teresa che da Lydia) dovrebbe essere felice,
invece anche lei soffre: è lontana dalla casa paterna ed è sposata con un uomo che
in realtà non conosce bene e che si sforza (e si illude) di poter scandagliare fin nel
profondo, cosa che in realtà non riesce a fare. Così anche l’ultimo romanzo è
perfettamente in linea con l’idea del Ciclo: mostrare i risvolti psicologici delle
protagoniste che, seppur in condizioni diverse, ‘lottano’ da sole per tutta la loro
vita, nella speranza di ottenere un riscatto non economico (come nel Ciclo di
Verga) ma sentimentale. E sola come le sue eroine fu anche Neera. Come il
contemporaneo Pascoli, restò orfana da piccola: a dieci anni morì la madre; a
venti perse anche il padre.
Io scontrosa, acerba, non avendo vicina neppure una bimba della mia età, portata dal
temperamento e dalle circostanze a ripiegarmi su me stessa; […] fra le compagne
cercavo affetto, ma difficile riusciva l’accordo assoluto, perché fin da allora avvertii
quell’ostacolo, quella specie di malinteso fra me e i miei simili che doveva fare di me una
solitaria.28
Riuscì ad essere arguta come la ninfa oraziana dell’Ode III, 14, 21 da cui trasse
lo pseudonimo29, dando voce alla psiche, alle aspirazioni e ai problemi delle
Neera (1887), cap. III.
Neera (1919), pp. 17-18.
29 Come altre sue colleghe (la stessa Aleramo si chiamava in realtà Rina Pierangeli Faccio; la
Marchesa Colombi, Maria Antonietta Torriani Viollier), aveva infatti fatto ricorso ad un senhal, la
cui eziologia è palesata dalla scrittrice stessa nella sua autobiografia Una giovinezza del XIX secolo:
«[…] quantunque il bellissimo nome scorto in un libro scolastico delle Odi di Orazio mi avesse
già colpita in modo straordinario e così tenace che allorquando, più tardi, volli scegliere uno
pseudonimo non tentai neppure di cercarne un altro; per il momento solo l’armonico
congiungimento delle sillabe mi attrasse, stringendomi nel fascino di una nota musicale, ben
lungi dal sospettare che una nota personalità fosse già sorta in me». Neera (1919), p. 71.
27
28
276
donne con sottigliezza e acume, senza essere né femminista, né antifemminista30
(cosa di cui invece fu accusata), ma semplicemente ‘rivoluzionaria’.
Nell’introduzione al saggio Le idee di una donna (1903), Neera chiarisce il suo
concetto di ‘femminismo’, dicendo che
nella mia modesta opera ho sempre studiato i desideri e le aspirazioni della donna, la
nobiltà delle sue attitudini e della sua missione, i suoi amori, i suoi dolori, i suoi
disinganni, i suoi trionfi … I capitoli che raccolgo in questo volume mi vennero
suggeriti osservando e ascoltando l’onda del femminismo che si avanza e nel quale non
ravviso affatto il mio ideale di progredita femminilità. È troppo maschile per essere del
femminismo sincero. Gli sforzi che si fanno per uguagliare l’uomo mostrano
chiaramente che la donna non si riconosce più nella integrità del proprio valore, ed è
questo valore suo che difendo con schietto ardore, dedicando i miei sforzi alle donne che
accettano con semplicità e nobilmente la loro grande missione, facendo cioè del
femminismo vero.31
La sua ‘arguzia’ si mostrò anche nei commenti che si permise di fare su altri
autori o case editrici. In una lettera a Cannizzaro, datata 9 Luglio 1889, definisce
Il Piacere di D’Annunzio un libro con «belle pagine e ricchissimi colori ma che
non lascia nulla nell’anima»32; sei giorni dopo, parlando de Il Cuore di De Amicis,
dice che è «un lavoro privo di originalità e di forza, ebbe un successo immenso
ma...cecità del pubblico!», aggiungendo anche aspre considerazioni per alcuni
editori e giornalisti.
Se sapeste quanta stizza mi fanno tutti questi imbrattacarte vanesi, strumenti senza
corde, teste senza criterio e corpi senz’anima! Sono quarant’anni che mi logoro per il
sentimento e ciò mi dà diritto di essere un po’ severa per questa stupida generazione
che non sa né amare né soffrire e che pretende di scrivere. […] Chiesa è povero, si fa
avanti a spinte sui guadagni del negozio […] Treves è un briccone, un vero ebreo, figlio
di Giuda e villano per giunta […]. C’è Hoepli, ricco ma che paga poco. C’è Barbera di
Firenze che dorme sugli allori e lascia marcire ogni libro […]. Lo stesso dicasi di
Casanova di Torino e di Zanichelli di Bologna. (Lettera 15 Luglio 1889)
A Neera invece
bastava aprire le chiuse dell’anima perché ne prorompesse un’onda copiosa e calda, che
non si inaridiva mai, non mai aveva bisogno di essere artificialmente eccitata, e, meno
che mai, simulata con espedienti e industrie letterarie. Sentiva e meditava come
respirava, e scriveva allo stesso modo, senza sforzo. 33
Lesse e narrò infatti l’intimità profonda delle donne, con una freschezza ed
una naturalezza che colpirono Croce, il quale si occupò proprio della prefazione
della sua autobiografia Una giovinezza del XIX secolo. Basta citarne alcuni passaggi
Per approfondimenti, si legga Pierobon (1966), pp. 24-36.
Sanvitale (1977), pp. 37-38.
32 Lettera a Tommaso Cannizzaro, 9 Luglio 1889 in Verdirame (2009), p. 17.
33 Neera (1919), prefazione di B. Croce, p. 7.
30
31
277
per comprendere la profonda stima che lo legava a lei, nonché la consapevolezza
che già allora la critica, invece, non la osannasse.
Quanta abbondanza di pensieri e di affetti nei libri di Neera! […] nella quale due tratti
erano, che voglio notare fra gli altri […]. Primo l’amore per la vita, e non già pei diletti
e le voluttà che essa talora elargisce, ma per la vita nella sua interezza, come vivere e
morire, gioire e soffrire, amare e aborrire, sognare e risvegliarsi, per la vita sublime ed
umile, ampia e ristretta, per la piccola ed immensa vita di ciascuno di noi che, così
com’è, è fonte inesausta di palpiti, di meditazioni, di ricordi, di tenerezze, di amarezze
pur dolci […]. È questo il buono e sano, sebbene inconscio e non teorizzato,
“misticismo” di Neera, che ella celebrava col bramoso profondarsi in se stessa, col
trovarsi sempre benissimo da sola […]. L’altro tratto era la costante tendenza ad abolire
ogni dualismo di materia e spirito, corpo e anima, senso e ragione.34
Alla luce di ciò, dunque, per i temi trattati, per la sua verve narrativa, per il suo
essere estremamente poliedrica, nonché per la stima che ebbe da parte dei
‘grandi’ dell’epoca, Neera meriterebbe forse di essere reinserita quantomeno nei
programmi scolastici, in modo da non essere più minima, ma tornare a quella
notorietà di cui in passato ha goduto:
non so quanti punti mi darà in definitiva la critica; ma so che i miei lettori mi amano,
so che ho fatto del bene a molti cuori titubanti, a molte anime in pena, ed è una così
grande dolcezza quando lo penso! […] De claritate in claritatem è la gloria dei grandi;
sia il dovere dei piccoli: A tenebris in lucem.35
Prof.ssa Paola Pizii
Liceo Scientifico Statale “L. Pasteur”
paola.pizii@istruzione.it
34
35
Ivi, pp. 7-8.
Neera (1919), pp. 70-71.
278
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Patrizia Zambon, Il filo del racconto. Studi di letteratura in prosa dell’Otto/Novecento,
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This paper focuses on Neera (Anna Radius Zuccari), the late-nineteenth century
writer who was widely read in her day, but today has been forgotten. She was valued by
Verga, Capuana, Marinetti and others important authors and there are so much letters
which prove it. She dealt with the theme of female condition and she was valued bay B.
Croce who wrote the preface to Una giovinezza del secolo XIX.
Parole-chiave: Neera; Anna Radius Zuccari; Letteratura femminile; Ottocento;
Verismo.
281
ISABELLA PROCACCI, «Me Venus artificem tenero praefecit
Amori»: Ovidio e Savioli, poeti d’Amori
A partire dal 1740, l’ottimistica fiducia, diffusa a livello europeo, nelle
potenzialità di una scrittura poetica sempre più colta e raffinata investe anche i
poeti bolognesi (quali Savioli, Casali, Taruffi e Zanotti1), disposti ad abbandonare
la rustica veste pastorale per preferire il garbo e l’eleganza di quella cittadina.2
Posto che l’antico continui a rappresentare un costante punto di riferimento e di
confronto, si fa sempre più chiara la consapevolezza che prerogativa dei moderni
sia quella di riproporne temi e stili adeguandoli alle esigenze più mosse e
articolate della sensibilità contemporanea.3 Se la prima Arcadia aveva prediletto
il modello lirico petrarchesco e tassiano delle rime amorose, celebrative e sacre 4,
i poeti bolognesi, a partire dalla seconda metà del Settecento, valorizzano
l’esempio dei lirici greci e degli elegiaci latini, guardano con ammirazione alla
raffinata società augustea e si riconoscono nell’esperienza letteraria di Catullo e
Ovidio.5
La maniera di concepire l’amore cambia: diviene equilibrata, quasi idonea a
risanare gli scompensi e le irrequietezze della soggettività.6 Il piacere si allontana
È lo stesso Zanotti a dichiarare di preferire «un’arte di verseggiare per fine di diletto» che
fosse, al tempo stesso, «un’arte e bella, e utile, e necessaria» (Zanotti 1768, pp. 5, 13, 32). Cfr., al
riguardo, Campana (2018), pp. 7-9.
2 Come riflette Assunto, per questi poeti la bellezza si rinviene nella «finitezza e semplice
mondanità dell’uomo» (Assunto 1967, p. 16). Per un quadro della vita bolognese in questi anni si
veda Masi (1878), pp. 62-86.
3 Già Pier Jacopo Martello ne Il Davide in corte si era interrogato, con grande delicatezza, sulla
possibilità di sostituire il sobrio costume pastorale con la raffinata vita cittadina attraverso le
figure di Micol e Abner. Cfr. Martello (1981).
4 Cfr., relativamente ai modelli della prima Arcadia, Binni (1968a), pp. 73-95; Graziosi (1988),
pp. 71-225; Nicoletti (2006), pp. 31-66; Baragetti (2012); Doglio-Stocchi (2013).
5 Cfr., al riguardo, Savoca (1973); Magnani Campanacci (1988); Beniscelli-Tatti (2016), pp. 613. Nel 1698 Eustachio Manfredi, Pier Jacopo Martello e altri due arcadi bolognesi, sul modello
dell’Ars amandi, avevano composto un’Arte dell’amar Dio, ma l’opera ovidiana fu tradotta
integralmente almeno tre volte a partire dalla seconda metà del secolo. Cfr. Mari 1988, n. 13, p.
46.
6 Nella prima Arcadia la morale letteraria cattolica influenza la trattazione della materia
amorosa, modulandola o nell’accezione platonica o dell’innocenza nativa dell’età dell’oro. Lo
stesso Crescimbeni concorda per la moralizzazione e predilige una versione dell’amore «ingenua,
aurorale, di semplicità ed innocenza» (cfr. Accorsi 1999, pp. 57-60). All’idealismo platonico –
sostenuto, tra gli altri, da Salvini che nel discorso CLXI Se chi ama debba essere necessariamente
1
282
dalla quiete pastorale e si nutre di memoria, immaginazione, attesa e nostalgia.
Il sonetto sembra trasformarsi in un dialogo a una voce in cui la resistenza, le
esitazioni, le remore della donna si percepiscono tramite piccoli gesti e
movimenti. La prima strategia amorosa è trasmettere alla donna un desiderio
ignoto che inneschi la passione, resa viva dal ricordo e dall’attesa. La struttura
metrica diventa più sciolta; i versi non hanno confini precisi e regolari e sono
caratterizzati dall’enjambement. Si sperimentano nuovi mezzi espressivi che
possano soddisfare il piacere dell’orecchio.7 Ne deriva che i generi trovano una
loro specifica distintività non in base alla forma, ma alla tipologia di sentimento
che li anima. Ad esempio, per ode anacreontica si intende un componimento che,
indipendentemente dalla forma, presenti la tenera sensibilità anacreontica.8 Gli
Amori savioliani sono assimilati per stile e temi alle liriche di Anacreonte9, ma la
poesia di quest’ultimo è quasi sempre un inno spensierato e festoso alla vita e alla
bellezza che fuggono, mentre Savioli non ha la stessa ‘leggerezza’ anacreontea:
l’amore gli provoca moti dell’animo (quali lotte, gelosie, furori), assenti nel poeta
eolico.
Il maggiore promotore di questa nuova scuola di pensiero, che dà vita ad una
fortunata stagione poetica, è il medico e poeta bolognese Angelo Michele Rota, il
quale compone una raccolta autografa di Rime, che comprende più di trecento
componimenti di vario genere (amorosi, pastorali, ditirambici, morali,
epitalamici), in cui rientrano anche alcuni sonetti ed egloghe di Savioli e di Casali
datati fra il 1746 e il 1749.10
Lo stesso Rota pubblica nel 1746, in occasione delle nozze del conte Albicini di
Forlì con la contessa Sanvitale di Parma, un epitalamio il cui incipit è Indarno di
papaveri. Esso incontra grande fortuna presso il pubblico, soprattutto per la scelta
metrica: una quartina di settenari con il primo e terzo verso sdruccioli e sciolti, il
secondo e il quarto piani e rimati.11 Questa soluzione pare ai giovani poeti
contemporanei più adeguata a tradurre gli elegiaci latini di quanto lo sia la
riamato afferma che «nella materia d’amore […] il vero ed il giusto sia non si partire dalla dottrina
di Platone, il quale ne trattò sopra ogni altro ampiamente ed oltre a ciò divinissimamente» (Salvini
1822, p. 68) – si sostituisce progressivamente una concezione pubblica e sociale dell’amore. Cfr.
Mari (1988), pp. 15-96.
7 Cfr. Fubini (1959), pp. XLII-XLIII.
8 Cfr., relativamente alla rinnovata attenzione ai temi e al sentimento della poesia di
Anacreonte, Batteux (1755); Romano Cervone (1993).
9 Si vedano, in particolare, Sismonde de Sismondi (1813), p. 66; Affò (1824), p. 102; Monti
(1831), p. 123; Natali (1939), pp. 105-110. La lezione di Anacreonte, insieme a quella di Catullo,
raggiunge una delle sue massime espressioni arcadiche per chiarezza ed equilibrio fra grazia e
voluttà nell’opera di Paolo Rolli, a partire dal quale si sviluppa una tradizione pittoricominiaturistica che, attraverso la mediazione degli Amori savioliani, approda al neoclassico. Cfr.
Mari 1988, pp. 131-134.
10 Cfr. Carrer (1837).
11 Cfr. Rota (1759).
283
canzone. Così Rota, Savioli e Casali, che privilegiavano le elegie degli Amores,
tentano di tradurle in quel metro, ma resisi conto della difficoltà e della
pericolosità dell’impresa - i cui risultati non si ritengono adeguati alla formazione
dei giovani - preferiscono abbandonarla.12 Delle traduzioni di Rota e Casali si è
conservata qualche attestazione – Casali allega alle sue poesie la parafrasi
dell’elegia I, 13 degli Amores -, mentre nessuna di Savioli. Tuttavia, nella prima
redazione di una delle sue canzonette, Il passeggio, lo stesso poeta rende noto che
suo obiettivo prioritario è poter tradurre al meglio in italiano le vicende amorose
ovidiane. Inoltre, alcuni suoi contemporanei, come Rota, attestano la fedeltà e
l’accuratezza con le quali egli tradusse le elegie ovidiane.13
Constatata la difficoltà delle traduzioni dal latino, Savioli pensa di utilizzare
quel metro per provare a riprodurre il sentimento amoroso secondo le cadenze
di Ovidio.14 Il giornale Novelle letterarie del Lami, nell’anno 1759, nella rubrica
Bologna, annuncia la pubblicazione delle prime dodici canzonette di Savioli,
curate dall’editore Taruffi, dedicate all’amico Gregorio Casali. Esse sono
realizzate dalla stamperia di Remondini, nel ‘58 a Venezia. Il motto riportato sul
frontespizio della prima edizione del ‘58 è «Scribere iussit Amor» (Ovidio, Heroides,
Ep. IV).15 Le canzonette crescono a ventiquattro nella stampa di Lucca del 1765
per i tipi dell’editore Riccomini, nella quale figurano con il titolo classico di
Amori. Questa edizione reca sul frontespizio il motto ovidiano «Me Venus artificem
tenero praefecit Amori» e un elegante medaglione «all’antica» con una figura
femminile graziosa, ma severa.16 La veste iconografica è ormai neoclassica.17
Cfr. Bolognini Amorini (1818).
Cfr. Rota (1759), p. 315.
14 Cfr. Carducci (1868), p. 50: da quelle traduzioni «trasse il primo eccitamento a comporre
nel metro stesso quelle sue eccellenti ed originali canzonette che fanno tant'onore all'italiana
poesia».
15 L’incisione sul frontespizio ritrae il poeta in una situazione campestre, con un libro e con
la cetra ai suoi piedi, assorto a comporre versi. Venere e un amorino che sembrano usciti da un
dipinto o da un'incisione di Boucher o di Oudry assistono all'opera. L'asimmetria della scena,
l'impianto obliquo, le foglie in movimento sulla destra e la città pittoresca e cinta di mura sul
fondale a sinistra, la tenera malizia e sensualità di Venere richiamano il gusto rococò. Cfr., al
riguardo, Magnani Campanacci (1988), pp. 252-260 e, relativamente al legame pittura-poesia
nell’Arcadia bolognese, Campana (2018), pp. 1-9.
16 Nella prefazione all’edizione del 1765 a Vittoria Corsini, Savioli esprime coraggiosamente
la scelta di una poesia come puro diletto: «Io sono nato in un secolo, in cui gli impegni e gli studi
degli uomini sono rivolti all’utilità. La filosofia, l’agricoltura, le arti, il commercio acquistano
tuttodì nuovi lumi dalle ricerche dei saggi: il voler farsi un altro nome tentando di dilettare,
quand’altri vi aspira con più giustizia giovando, è impresa dura e difficile. Ho dunque scritto non
ad un altro oggetto che di esprimere quel ch’io sentiva e mi sono tranquillamente disposto a non
essere letto». Cfr. Binni (1968a), p. 213.
17 Per approfondimenti si vedano Cillario (1902), Cillario (1907), Baccolini (1922),
Momigliano (1945), pp. 9-30, Binni (1968b).
12
13
284
Savioli abolisce la finzione pastorale, sceglie il modello ovidiano e con tono
vario e brillante narra le sue avventure galanti18, venate di passione, traendo
spunto da situazioni reali e inserendole in una cornice mitologica.19 Il punto di
partenza è certamente l’eccelso modello latino20: Savioli ripercorre i principali
episodi degli Amores, infondendo nelle liriche, come afferma Carducci, l’«animo»
e il «fasto romano».21 Sin dall’inizio, nella seconda canzonetta, Il passeggio, il poeta
si rivolge ad Ovidio come maestro:
La tua, gran padre Ovidio,
scorrea difficil arte,
pascendo i guardi, e l’animo
sulle maestre carte.22
Nella canzonetta Il passeggio il poeta, mentre è intento alla lettura di Ovidio,
sente dietro le spalle il rumore di una carrozza ed è costretto ad arrestarsi perché
rapito da una donna («men donna assai che Dea»23). Il fascino sprigionato dalla
dama è reso da colori e materiali che nell’immaginario si collegano alla
seduzione. Ovidio riconosce la supremazia di Amore, dio potentissimo e
invincibile al quale è inutile tentare di sottrarsi, e si abbandona totalmente al suo
oggetto d’amore. Nell’elegia I, 1 degli Amores, Amore ricorre ai suoi dardi per
vincere la resistenza del poeta («Me miserum! certas habuit puer ille sagittas: / uror,
et in vacuo pectore regnat Amor»24); nell’elegia I, 2, invece, il poeta non sa come
comportarsi, oscilla tra cedimento e resistenza, ma finisce per riconoscersi
schiavo d’Amore, il quale da saettatore diviene praedator («Cedimus, an subitum
luctando accendimus ignem? / Cedamus: leve fit, quod bene fertur, onus»25; «En ego,
confiteor, tua sum nova praeda, Cupido; / porrigimus victas ad tua iura manus» 26).
Savioli, nella suddetta canzonetta, ricorre al lessico militare: da subito appare
L’aggettivo «galante» è sempre più frequente nella descrizione delle passioni amorose
poiché la galanteria è intesa come forma «moderna» dell’amore. Tuttavia, molti autori,
soprattutto appartenenti al filone «morale», denunciano la galanteria come fenomeno separato
dall’amore. Relativamente a tale polemica si veda Mari (1988), pp. 58-68.
19 Cfr., al riguardo, Cardella (1817), pp. 433-434, Renda-Operti (1952), p. 1020, Fubini (1959),
pp. XL-XLVII, Binni (1968a), pp. 212-221.
20 Il primo ad individuare l’interessante parallelismo fra Savioli e Ovidio è Rovani (1857),
pp. 85-86.
21 Carducci (1868), p. 47.
22 Savioli (1795), p. 6.
23 Ibidem.
24 Ovidio (2008), p. 8 (vv. 25-26).
25 Ibidem (vv. 9-10).
26 Ibidem (vv. 19-20).
18
285
chiaro che la soluzione del conflitto sarà a favore d’Amore e il poeta non può fare
altro che accettarlo.27 Uno sconosciuto fuoco interiore lo rende inerme:
Amor, di tua vittoria
come vorrei lagnarmi?
chi mai dovea resistere,
potendo, a tue bell’armi?28
[…]
Come potrei ripetere
quel ch’a me udir fu dato?
dal novo foco insolito
troppo era il cor turbato.29
La metafora dell’incendio provocato da Amore30 ritorna nell’incipit di un’altra
canzonetta di Savioli, La Felicità:
Dunque gli Dii non volsero
le mie speranze in gioco:
te dunque ancorchè tacita
pur arse il nostro fuoco.31
In questa canzonetta ritroviamo un altro topos dell’elegia amorosa: gli occhi
come veicolo d’amore.32 Al riguardo va specificato che la tematica dello sguardo
riveste una notevole centralità e una sua specifica rilevanza in ogni secolo. Alcuni
autori settecenteschi rappresentano le manifestazioni dell’interiorità e della
soggettività dell’individuo attraverso un esame diretto delle evidenze
somatopsichiche: nel primo romanzo verriano, ad esempio, lo sguardo è sempre
in primo piano e lascia intravedere i sentimenti della protagonista, la quale in
presenza di passioni ‘estreme’ abbassa lo sguardo oppure nasconde l’intero volto
col suo velo. Nell’Ars amatoria (I, v. 573), Ovidio rivela l’importanza dell’incrocio
di sguardi che permette di comunicare senza parole («Atque oculos oculis spectare
L’unica possibilità di affrontare l’amore è quella di abbandonarsi ad esso, non nel senso
romantico di dedizione ad una potenza che trascende l’intelletto, ma nel senso edonistico
settecentesco di consapevole rinuncia a tutto ciò che potrebbe arrecare turbamento. Mari parla di
«politica dello struzzo», facendo riferimento ad una modalità diffusa in tutto l’arco del secolo.
Cfr. Mari (1988), pp. 120-153.
28 Savioli (1795), p. 8.
29 Savioli (1795), p. 9.
30 Negli esordi della XV epistola ovidiana delle Heroides, la protagonista pronuncia il verbo
uror in riferimento alle pene provocate dal sentimento d’amore non corrisposto. La fonte ovidiana
è ideale modello di riferimento del romanzo d’esordio di Alessandro Verri, Le avventure di Saffo
poetessa di Mitilene, incentrato su una passione d’amore cogente, fortemente distruttiva per la
giovane protagonista della vicenda. Cfr. Cotrone (2014), pp. 47-67.
31 Savioli (1795), p. 27.
32 Cfr., relativamente alla trattazione della tematica amorosa nei poeti elegiaci, Alfonso
(1990), pp. 1-37.
27
286
fatentibus ignem. / Saepe tacens vocem, verbaque vultus habet»33). Qui Savioli invita
l’amica a ricercare per prima gli occhi dell’amato:
Escan sinceri e liberi
i tuoi sospir dal core:
quegli occhi i miei ricerchino,
e in lor gli arresti Amore.34
Tuttavia, in Savioli l’esperienza amorosa non è totalizzante, come per Tibullo
e Properzio, è un lusus, come per Ovidio.35 Anche quando, come in questa
canzonetta, ottiene il consenso della donna che da tanto tempo rincorre, rimane
tranquillo e composto a tal punto che subito ricorda alla dama che egli ha lasciato
un’altra donna pronta a darsi a lui:
Se te destin contrario
dal fianco mio non parte,
con pace sia di Venere:
lei non invidio a Marte.
Me Amor di novo imperio
non graverà ch’io creda,
egli, che ad altra tolsemi,
onde foss’io tua preda.36
Questa raffigurazione dell’amore, istintuale e spensierata, ne esclude ogni
possibile serietà e gravitas. L’unica consapevolezza che rimane è la caducità di
tutte le cose e quindi anche dell’amore, ma questa non fa altro che dare maggiore
risalto alla gioiosa pienezza dell’eros. Il poeta si augura che possa vivere gli
ultimi anni della sua vita in compagnia della sua amata. Ancora una volta il
pensiero è ovidiano (Amores, I, 3): «tecum, quos dederint annos mihi fila sororum, /
vivere contingat teque dolente mori».37
Pochi la Parca indocile
anni mi lasci omai;
se teco possa io viverli
sarò vissuto assai.38
Ovidio (1999a), p. 198 (v. 573).
Savioli (1795), p. 28.
35 Anche Tommaso Crudeli, ne L’arte di piacere alle donne (scritta nel 1740, ma edita postuma
nel 1762), sostiene che l’amore, per non causare dolore, debba alleggerirsi e sottrarsi a qualsiasi
responsabilità fino a diventare ‘divertimento’ («giacché gli uomini sono in società conviene che
procurino di goderne. I due cardini sopra i quali si regge il piacere sono l’amicizia, e l’amore»).
Cfr. Mari (1988), pp. 40-43.
36 Savioli (1795), pp. 28-29.
37 Ovidio (2008), p. 12 (vv. 17-18).
38 Savioli (1795), p. 29.
33
34
287
Familiari all’elegia antica sono i motivi delle canzonette All’amica che lascia la
città e All’amica lontana. Nella prima l’eleganza classica si fonde con il piccolo
realismo di salotto: il poeta si lamenta che l’amica, noncurante del suo amore, si
allontani dalla città ed è preso da gelosia, la stessa che assale Ovidio e Properzio
quando le loro donne sono lontane.39 In Amores, I, 11, Ovidio cerca di convincere
l’amica a rinunciare a intraprendere un viaggio per mare, ma, non riuscendo a
fermarla, la prega di ricordarsi di lui e le augura che i venti siano propizi: «Vade
memor nostri, vento reditura secundo».40 Così Savioli:
Qual nova cura estrania,
quai pensier gravi e foschi
te innanzi tempo guidano
della cittate ai boschi?41
[...]
Qual è più cieco e livido
di gelosia sospetto,
lui mio malgrado accogliere
dovrò, te lunge, in petto.42
Nell’altra, All’amica lontana, il poeta si dispera a causa della forzata lontananza,
dovuta a ragioni di prudenza, e nel suo raffigurare il dolore sul volto dell’amata
al momento del distacco è rintracciabile la diretta filiazione nei confronti del gran
padre (Amores, I, 7): «Astitit illa amens albo et sine sanguine vultu, / caeduntur Pariis
qualia saxa iugis».43
Te chiamo, e i boschi rendono
mesti la nuda voce;
lenti i miei giorni passano,
vola il pensier veloce.
Tutto perì: memoria
D’esca al desìo soccorre:
Ed io potei colpevole
L’addio funesto imporre?
Vidi il dolor, che pallido
A te sul volto uscia,
Alle nascenti lagrime
Chiudea rossor la via.44
Cfr., al riguardo, Binni (1968b), p. 72.
Ovidio (2008), p. 96 (v. 37).
41 Savioli (1795), p. 36.
42 Savioli (1795), p. 38.
43 Ovidio (2008), p. 28, (vv. 51-52).
44 Savioli (1795), pp. 41-42.
39
40
288
Ovidio, in Amores, III, 14, non chiede alla donna di essere casta e fedele, ma
gli basta che ella nasconda i suoi tradimenti: «Nec te nostra iubet fieri censura
pudicam, / sed tamen ut temptes dissimulare rogat. / Non peccat quaecumque potest
peccasse negare / solaque famosam culpa professa facit».45 Allo stesso modo si esprime
Savioli46:
Oh de’ corrotti secoli
tardi esecrato errore!
tutte le leggi perano
che non impose Amore.
Ah! che diss’io? la gloria
serba d’intatta fama;
tu ‘l déi: di te sollecita
risplendi a un tempo, ed ama.
Ama; e l’arcano adombrisi
d’impenetrabil velo.
Così pudiche apparvero
Giuno, e Minerva in cielo.47
Ovidio, sul finire dell’elegia I, 2, si augura che l’amata lo chiami a sé: «Hoc
habeat scriptum tota tabella «Veni!».48 Anche il nostro poeta, nella quartina finale,
rimessi i panni dell’innamorato che si strugge per la mancanza dell’amata, spera
che la donna lo inviti presto ad andare:
Tu scrivi intanto, e all’animo
la speme sua mantieni.
Oh i cupid’occhi trovino
scritto una volta: Vieni.49
Per la canzonetta All’amica inferma Savioli sceglie il modello ovidiano delle
ultime due lettere delle Heroides come ideale punto di riferimento: qui il poeta
latino espone la vicenda di Aconzio e Cidippe. La malattia che colpisce la
fanciulla si rivela un castigo della dea Diana, essendo Cidippe venuta meno al
giuramento, fatto nel tempo di Delo, di sposare Aconzio.50 Nella nostra
canzonetta il poeta ci fa credere che la malattia della fanciulla sia una punizione
delle Furie – che ora vegliano sulla soglia della porta – per la sua crudeltà in
amore. Inutili appaiono i tentativi di cura: l’unica soluzione per sfuggire alla
Ovidio (2008), p. 28, (vv. 51-52).
Relativamente al tema dell’infedeltà si veda Mari (1988), pp. 140- 143.
47 Savioli (1795), p. 42.
48 Ovidio (2008), p. 46. (v. 24).
49 Savioli (1795), p. 44.
50 Cfr. Ovidio (1999b), pp. 536-561.
45
46
289
morte e al «Tartaro» è sposare il poeta, come sarà costretta a fare la stessa
Cidippe:
Odi, i momenti volano,
odi una volta, e cedi.
Ohimè! gli Dii ti perdono
se in Esculapio credi.
E l’erbe indarno, e i farmachi
in tuo favor prepara;
tue labbra indarno chieggono
la pia corteccia amara.
Lasso! una Furia immobile
veglia alle porte, e grida;
l’altre d’infami aconiti
colman la tazza infida.
Morte l’offerta vittima
impaziente affretta.
Trema: il tuo capo, o misera,
è sacro alla vendetta.51
[…]
Altro giurasti: intesero
per danno tuo gli Dei.
Lo sa Diana. Il Tartaro
t’avrà, se mia non sei.52
Nella lirica Alla nudrice Savioli rivolge una serie di scongiuri e imprecazioni
all’incorruttibile donna perché gli apra la porta e gli permetta di ricongiungersi
con l’amica. Ovidio avanza la stessa richiesta al portinaio in Amores, I, 6.
Nell’incipit il poeta latino cerca di ingraziarsi la benevolenza dell’uomo,
mostrandogli dapprima il proprio disappunto relativamente alla sua condizione
di schiavo, poi puntando sulla sua magrezza, causata dall’amore, che gli
consentirà di chiedergli di aprire solo leggermente la porta affinché riesca a
passare:
Ianitor (indignum) dura religate catena,
difficilem moto cardine pande forem.
Quod precor exiguum est: aditu fac ianua parvo
obliquum capiat semiadaperta latus.
Longus amor tales corpus tenuavit in usus
aptaque subducto pondere membra dedit.53
Savioli (1795), pp. 89-90.
Savioli (1795), p. 90.
53 Ovidio (2008), p. 20 (vv. 1-6).
51
52
290
Savioli, sin da subito, mette in luce l’ostilità dell’anziana donna alle preghiere
del poeta innamorato (in Ovidio solo ai vv. 61-62), raffigurato in piedi sulla soglia
della porta. La bellezza della fanciulla non merita di perdersi in un lento torpore
e questa rigida custodia non è adatta a lei, come non lo è quella del portinaio per
la fanciulla ovidiana («Non te formosae decuit servare puellae / limina: sollicito carcere
dignus eras»54):
E tu pur giaci immobile,
tu a’ voti miei nemica
sovra le piume tacite
posi la guancia antica.
Sorgi, che stai? me misero
tien la notturna soglia;
essa ai miei prieghi cedere
non può, se tu nol voglia.
Forse all’amata giovane
bellezza il ciel concesse,
ond’anni freddi in carcere
senza amator traesse?
Sorgi: disdice a tenera
fanciulla aspra nudrice:
sì rigida custodia
e ad essa, e a te disdice.55
Inoltre, nell’elegia ovidiana l’amata non compare mai e a piangere è l’amante:
«Aspice (uti videas, inmitia claustra relaxa!) / uda sit ut lacrimis ianua facta meis».56
Nella canzonetta di Savioli, invece, la fanciulla si affaccia al balcone, piange
inconsolabilmente57, tende le braccia all’amante e, ignorando il mal tempo, si
precipita verso di lui con il seno scoperto58:
Ecco di te dolendosi
ella al balcon s’affaccia
ella si strugge in lagrime,
e tende a me le braccia:
Ovidio (2008), p. 24 (vv. 63-64).
Savioli (1795), pp. 94-95.
56 Ovidio (2008), p. 22 (vv. 17-18).
57 «[…], le lagrime non sono più sentite e rappresentate come segno di disarmonia, ma
all’opposto come elemento di fascino, quasi epifania iridescente della femminilità» (Mari 1988, p.
124).
58 Eludendo la totalità dell’amore, il poeta indugia su particolari che celebrano non tutto
l’amore ma un solo gesto (un bacio, una carezza), non tutto il corpo ma solo una parte (il seno, la
bocca), distinguendosi così tanto dai poeti d’amore ottocenteschi quanto dai petrarchisti. Cfr.
Mari (1988), p. 146.
54
55
291
Né la sgomenta l’impeto
di freddo vento, o pioggia,
e sulla pietra rigida
il nudo seno appoggia.59
Dopo aver speso vane parole, Ovidio minaccia il portinaio di incendiargli la
casa («aut ego iam ferroque ignique paratior ipse, / quem face sustineo, tecta superba
petam»60). Il nostro poeta, dopo aver riportato i classici esempi di vinti ribelli
d’Amore (Fedra, Mirra, Pasifae), augura all’anziana donna che Amore la punisca
con una giusta vendetta:
Con peggior pena ei cerchiti
Amor, se ‘l prendi a gioco,
le antiche membra: ei t’agiti
con scellerato foco.
Nè l’onda tutta estinguere
de l’oceano il possa:
ardi nud’ombra, ed ardano
il cener freddo e l’ossa.61
Nella canzonetta Alla propria immagine il modello è quello ovidiano
dell’elegia II, 15. Ovidio si rivolge all’anello inviato in dono all’amante («Anule,
formosae digitum vincture puellae, / in quo censendum nil nisi dantis amor, / munus eas
gratum; te laeta mente receptum / protinus articulis induat illa suis»62), come Savioli al
suo ritratto63:
Tu, mentre andrai sollecita
alla fanciulla in dono,
dirai: nessuno offendami:
per la più bella io sono.
Vanne al richiesto uffizio
per via spedita e breve,
né in altra man riposati,
che in quella man di neve.64
Savioli (1795), p. 97.
Ovidio (2008), p. 24 (vv. 55-56).
61 Savioli (1795), p. 99.
62 Ovidio (2008), p 104 (vv. 1-4).
63 Ricorrente nella lirica erotica settecentesca è la tendenza alla reificazione dell’amore in una
serie di oggetti e di segni dei quali ci si serve per sviluppare l’intero discorso amoroso. A
differenza di quanto avveniva nella lirica barocca, nella quale si conferiva alle piccole cose un
rilievo mitopoietico, gli oggetti della lirica settecentesca divengono mezzi necessari ad esprimere
ciò che non è più dicibile se non attraverso l’allusione. Cfr. Mari (1988), p. 135.
64 Savioli (1795), p. 46.
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292
Nella quartina successiva il poeta sottolinea, come fa in più luoghi, la forza
d’Amore, in grado di far attraversare all’amante monti, fiumi e altre asperità
(come in Amores, I, 9: «ibit in adversos montes duplicataque nimbo / flumina, congestas
exteret ille nives»65), dio temuto non solo dagli uomini ma anche dagli altri numi
(Ovidio, Heroides, IV: «[…] Amor […] / Regnat, et in dominos jus habet ille deos»66).
Amor ti scorga: ei rapido
trapassa i monti, e i fiumi:
ei regna ovunque; e il temono
temuti in terra i Numi.67
Nelle quartine successive Savioli ritrae Corinna piangente per la lontananza
dell’amato Nasone con in mano un suo ritratto che le sfugge, indizio dell’amore
che la travolge. La stessa situazione immagina possa accadere al suo ritratto:
Piangea Corinna i taciti
furtivi amor svelati,
mentre Nason traevano
al freddo Ponto i fati;
E la rimasta immagine
dell’amator lontano
cadde all’afflitta giovane
dalla smarrita mano.
Cadi tu pure. Indizio
sarà che tu sei cara.
Non dee tua sorte increscere,
non dee parerti amara.
Quai te ripari aspettano
della sventura avuta!
Ben puossi a prezzo simile
Comprar la tua caduta.68
Ovidio prova una profonda invidia verso il suo anello a tal punto da volersi
identificare con esso («Felix a domina tractaberis, anule, nostra: / invideo doni iam
miser ipse meis. / O utinam fieri subito mea munera possem / artibus Aeaeae Carpathiive
senis!»69), mentre Savioli si rivolge quasi narcisisticamente al suo ritratto,
sottolineando l’impossibilità che la donna si stanchi d’ammirarlo:
Gli occhi da te rimovere
pur cercherà talora,
Ovidio (2008), p. 38 (vv. 11-12).
Ovidio (1999b), p. 384 (vv. 11-12).
67 Ovidio (2008), p. 38 (vv. 11-12).
68 Savioli (1795), pp. 47-48.
69 Ovidio (2008), p. 104 (vv. 7-10).
65
66
293
poi di mirar non sazia
vorrà mirarti ancora.70
Savioli conclude la canzonetta riprendendo due vicende tratte dal mito, come
frequentemente accade nell’opera, mentre Ovidio con un addio conforme
all’intera elegia («[…] Parvum proficiscere manus: / illa datam tecum sentiat esse
fidem»71):
Salmace ardita Najade
là nel paterno rivo
non strinse a sen più candido
il giovin freddo e schivo.
Nasso cagion di lagrime
più bianco sen non vide,
poiché Teseo portarono
le sorde vele infide.72
A differenza di Ovidio che compone un’elegia contro l’Aurora che si leva
presto a disturbare gli amanti (Amores, I, 13: «Iam super oceanum venit a seniore
marito / flava pruinoso quae vehit axe diem. / […] / Quo properas ingrata viris, ingrata
puellis?»73), Savioli le dedica una canzonetta – che disegna con immagini ricche di
grazia figurativa – perché con i suoi raggi fa cedere l’amata, mossa a pietà,
quando lo vede pallido e supplicante74:
Sorgi aspettata: il roseo
destriero alato imbriglia:
stanca è la notte e pallidi
son gli astri, o Dea vermiglia.75
[…]
Tu al scintillar di Fosforo
uscivi intanto, o Dea,
e un raggio tuo sollecito
sul mio dolor splendea.
Mi vide, e allo spettacolo
impallidì la fera:
pietate e orror sorpresero
l’alma ostinata, altera.
Tre volte i labbri schiudere
Savioli (1795), p. 48.
Ovidio (2008), p. 106 (vv. 27-28).
72 Savioli (1795), p. 49.
73 Ovidio (2008), p. 50 (vv. 1-2, 9).
74 Cfr. Levi-Malvano (1908), pp. 112-113: la stessa idea ha Dorat in Les baisers; si veda, al
riguardo, Savoca (1973), pp. 354-356.
75 Savioli (1795), p. 106.
70
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294
e cominciar le piacque;
tre sospirò; scendeano
i pianti in copia, e tacque.76
Nella canzonetta La Solitudine Savioli rimpiange i tempi antichi di cui invidia
semplicità e ingenuità e ricorda con nostalgia la pace dei boschi e le fanciulle che
concedono il loro amore solo a coloro che combattono valorosamente per la
patria. Di qui l’invito a lasciare la città, dominata da fasto, apparenze e inganno,
e a privilegiare la solitudine della campagna:
Chi v’ha rapito, o secoli
degni d’eterna lode?
Tutto svanì. Trionfano
Fasto, avarizia, e frode.
Fuggiamo, o cara, involati
dalla città fallace:
meco ne’ boschi annidati,
chè sol ne’ boschi è pace.77
[…]
Vieni: te vuoti aspettano
da cure i dì beati:
te pure notti e placide,
madri di sogni aurati.78
Ovidio, in Amores, II, 16, descrive dettagliatamente il suo paese natale al fine
di invogliare la donna a raggiungerlo:
Pars me Sulmo tenet Paeligni tertia ruris,
parva, sed inriguis ora salubris aquis.
Sol licet admoto tellurem sidere findat
et micet Icarii stella proterva canis,
arva pererrantur Paeligna liquentibus undis
et viret in tenero fertilis herba solo.
Terra ferax Cereris multoque feracior uvis,
dat quoque baciferam Pallada rarus ager
perque resurgentes rivis labentibus herbas
gramineus madidam caespes obumbrat humum.79
Nella canzonetta Il teatro80, parallela ad Amores, III, 2 e ai vv. 135-164 del primo
libro dell’Ars amatoria, il poeta si trova immerso in un quadretto di vita galante
nella società italiana del Settecento, come Ovidio nella fastosa società romana
sotto Augusto. Già a partire dalla seconda quartina, nella quale il nostro poeta
Savioli (1795), p. 108.
Savioli (1795), pp. 17-18.
78 Savioli (1795), p. 20.
79 Ovidio (2008), p. 106 (vv. 1-10).
80 Cfr., al riguardo, Giornale letterario (1798), pp. 16-29.
76
77
295
invita la donna a curare il proprio aspetto senza affrettarsi, si snoda un mosaico
di riprese ovidiane:
Componi i crini: adornati,
e il fido specchio ascolta:
non t’affrettar; sollecita
esser non dei, ma colta.81
Così Ovidio nell’elegia I, 7: «pone recompositas in statione comas»82; riguardo
l’importanza di ‘consultare’ lo specchio prima di uscire, il poeta latino si esprime
nell’Ars amatoria: «Nec genus ornatus unum est: quod quamque decebit, / elegat et
speculum consulat ante suum»83; infine, gli ultimi due versi sottendono tale
riflessione presente nei Remedia amoris (v. 343): «Auferimur cultu; gemmis auroque
teguntur / omnia; pars minima est ipsa puella sui».84
Entrambi i poeti si recano a teatro per corteggiare le loro amate: Ovidio siede
accanto alla fanciulla («ut loquerer tecum veni tecumque sederem»85), Savioli di fronte
(«[…]; io sederotti in faccia»86). Il poeta latino, in Amores, III, 2, parla in prima
persona, volendo rendere partecipe il suo lettore, e utilizza il circo solo come
mezzo per sedurre l’amata; nell’Ars (I, vv. 90-162), invece, indirizza al lettore
consigli su come conquistare una donna a teatro.87 Nella sua canzonetta Savioli
si rivolge direttamente alla sua donna, suggerendole il galateo da osservare, un
codice di comportamento che gli è dettato da amore e gelosia:
Rendi i saluti: il vogliono
giustizia e cortesia;
ma il tuo saluto augurio
felice altrui non sia.
Abuso i baci or tollera
sulla femminea mano.
Chiesta una volta ottengasi:
si chieggia un’altra invano.
Né ai baci, o freddi o fervidi,
riso gentil risponda;
e loderà che l’invido
guanto le mani asconda.
Se mai, che i Dii nol soffrano
Savioli (1795), p. 50.
Ovidio (2008), p. 30 (v. 68).
83 Ovidio (1999a), p. 264 (vv. 135-136).
84 Ovidio (1999c), p. 332 (vv. 343-344).
85 Ovidio (2008), p. 126 (v. 3).
86 Savioli (1795), p. 51.
87 Cfr. Ovidio (1999a), pp. 170-175.
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296
vicino alcun ti siede,
le vesti tue nol coprano,
e a te raccogli il piede.88
Savioli veste i panni di praeceptor anche nella canzonetta All’Ancella, così come
Ovidio rivolgendosi a Bagoo, custode della sua amata in Amores II, 2 («Quem penes
est dominam servandi cura, Bagoa, / dum perago tecum pauca, sed apta, vaca»89). Così
Savioli nella prima quartina:
Poiché a carriera insolita
tu movi i passi incerti,
io guida volontaria
mi t’offro: odimi, e avverti.90
Le Fortune è una lirica piena di scetticismo in cui passato e presente, mito e
seduzione si fondono attraverso un linguaggio caratterizzato da equilibrio e
morbida musicalità. Il poeta vuole rendere nota la sua fortuna con le donne
perché sa che è un forte strumento di seduzione. La configurazione del poeta
come desultor amoris si ritrova in due elegie ovidiane (Amores, I, 3; II, 4). Nel carme
I, 3 Ovidio tratteggia il personaggio convenzionale dell’innamorato, schiavo
d’Amore, votato alla fedeltà sempiterna verso un’unica donna, con lo scopo di
conquistare l’amata. L’augurio finale rivolto alla propria donna di poter godere
della stessa fama che ebbero Io, Leda ed Europa consente di istituire un parallelo
tra il poeta e Giove, unico loro amante, desultor amoris per eccellenza.91 Nell’elegia
II, 4 il poeta latino non ricorre più al lusus letterario, ma confessa l’impossibilità
di resistere al fascino femminile («denique quas tota quisquam probat Urbe puellas, /
noster in has omnis ambitiosus amor»92). Savioli, come Ovidio nell’elegia I, 3, vuole
ottenere l’amore della donna e le ricorda come vano sia il tentativo di sottrarsi al
volere della dea Venere:
Invan t’opponi: a Venere
i voti miei fur cari;
pace l’udii promettere
dagli abbracciati altari.
Pietosa Dea di lagrime
bagnò le offerte rose,
e della mia vittoria
la cura al figlio impose.
Savioli (1795), pp. 53-54.
Ovidio (2008), p. 66 (vv. 1-2).
90 Savioli (1795), p. 62.
91 Cfr., relativamente alla configurazione del poeta come desultor amoris, Dimundo (2000);
Colafrancesco (2004).
92 Ovidio (2008), p. 74 (vv. 47-48).
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89
297
Cedi: timor consigliano
le conosciute prove.
Chi puote a lui resistere,
se la sua madre il move?93
Dopo aver narrato le sue avventure amorose, come già fatto da Ovidio
nell’elegia II, 4, Savioli conclude sottolineando la sua prudenza di uomo di
mondo che gli consente di evitare scandali e scenate:
Non precedeva i rapidi
piacer la giusta pena,
i brevi dì bastavano
alle conquiste appena.
De’ miei trionfi il numero
vidi, e noiarmi osai:
timore al cor m’indussero
d’Orfeo la sorte e i guai.
[...]
Ma i tempi nostri ispirano
consigli assai più miti,
e un novo amor le vendica
de’ vecchi amor traditi.94
Nell’ultima quartina il poeta ricorre al topos dello sguardo come veicolo di
comunicazione più efficace della parola, che ritroviamo anche nei versi finali
dell’elegia ovidiana III, 2 («Risit et argutis quiddam promisit ocellis»95):
Per quel color purpureo
che il tuo bel viso ha tinto,
per gli occhi tuoi, che languidi....
Ma tu sorridi? Ho vinto.96
Ovidio e Savioli, fedeli servitori d’Amore, giocosi amatori di sensi, raffinati
compositori di graziose amenità e leggeri turbamenti – come si è avuto modo di
constatare in questo parziale confronto che prende avvio dalle riflessioni di E.
Levi Malvano97 – cantarono i loro Amori conformandosi al proprio tempo.
Leggendo, traducendo, commentando gli Amores, Savioli – contrariamente a
quanto afferma Croce98 – conforma con inimitabile delicatezza il proprio modo
Savioli (1795), p. 84.
Savioli (1795), pp. 87-88.
95 Ovidio (2008), p. 132 (v. 83).
96 Savioli (1795), p. 88.
97 Cfr. Levi-Malvano (1908). Circa il confronto tra Ovidio e Savioli si veda Antologia Romana
(1796-1797).
98 Croce (1944), p. 75: «invocare Ovidio come gran padre, chiamare maestre le sue pagine, e,
segnatamente, difficile la sua arte, è un po’ troppo, e fa pensare che questi versi non siano molto
pensati».
93
94
298
di pensare a quello del suo gran padre e, adattandolo alla vezzosa galanteria
settecentesca, dà vita a componimenti che per la loro grazia, per la schiettezza dei
sentimenti, per la soave musicalità possono legittimamente essere annoverati fra
i migliori esempi di poesia settecentesca.99
Isabella Procacci
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”
isabella.procacci@uniba.it
99
Sulla fortuna critica di Savioli si veda Benedetti (2014), pp. 608-642.
299
Riferimenti bibliografici
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Maria Grazia Accorsi, Pastori e teatro. Poesia e critica in Arcadia, Modena, Mucchi,
1999.
Affò (1824)
Ireneo Affò, Dizionario precettivo critico ed istorico della Poesia Volgare del padre Ireneo
Affò di Busseto, Milano, G. Silvestri, 1824.
Alfonso (1990)
Stefania Alfonso, Rapito in estasi in Stefania Alfonso-Giovanni Cipriani-Paolo
Fedeli-Innocenzo Mazzini-Antonella Tedeschi (a cura di), Il poeta elegiaco e il
viaggio d’amore. Dall’innamoramento alla crisi, Bari, Edipuglia, 1990, pp. 1-37.
Antologia Romana (1796-1797)
Lettere del sig. N. ad Apione Egizio aborigene amiatense in «Antologia Romana», 2223 (gennaio 1797-maggio 1798), Roma, Zempel, 1796-1797.
Assunto (1967)
Rosario Assunto, Stagioni e ragioni nell'estetica del Settecento, Milano, Mursia, 1967.
Baccolini (1922)
Alda Baccolini, Vita ed opere di Lodovico Savioli. Storico e letterato bolognese del secolo
XVIII, Bologna, Presso Licinio Cappelli, 1922.
Baragetti (2012)
Stefania Baragetti, I poeti e l’Accademia. Le «Rime degli Arcadi» (1716-1781), Milano,
LED, 2012.
Batteux (1755)
Batteux, Cours de Belles Lettres ou Principes de la Littérature, Frencfort, 1755.
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304
Zanotti (1768)
Francesco Maria Zanotti, Dell’Arte poetica, Bologna, L. Dalla Volpe, 1768.
The aim of this article is to make a comparison between Ovid’s Amores and Savioli’s
Amori, only partially started but not thoroughly examined, with method and
investigation of a specifically thematic nature. To this end, we have started with the
identification of the Bolognese cultural and literary framework in the second half of the
18th century, highlighting the abandonment of the Petrarch model and the revaluation of
the Latin elegiac tradition and, in particular, Ovid’s one. We went on to illustrate the
arrival of Savioli to the Ovidian elegies and his attempts to translate and adapt them to
his times. In the face of the aforementioned comparison, we have noted an extraordinary
Saviolian capability to adapt his line of thought to that of Ovid, with a unique refinement,
grace and musicality.
Parole-chiave: Ovidio; Savioli; Amori; poesia; filiazione.
305
MOHAMMED SALAH, Guareschi e le sentinelle del progresso
Uno degli argomenti che hanno interessato molto il nostro autore e l'hanno
fatto meditare lungamente è stato quello del progresso, quel progresso materiale
cioè che si è avviato lentamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per
procedere dopo a passi veloci, avvolgendo tutti gli aspetti della vita.
Il passaggio da un tipo di vita all'altro segna senza nessun dubbio tanti
cambiamenti nel modo di vivere e di solito di pensare della gente. Tali
cambiamenti possono anche toccare elementi che certe persone considerano dei
principi saldi da conservare, come per esempio, la famiglia, la religione, con tutti
i concetti concernenti. Lo scrittore, vissute appieno le condizioni della sua
nazione, capiva fino in fondo la portata di quei cambiamenti, il che lo spinse ad
analizzarli, mettendoli al setaccio dei suoi principi, per capire quali sarebbero
stati soprattutto pericolosi e, quindi, da combattere per scansare il loro danno e
quali potevano far bene alla società.
Guareschi, sempre in trincea fin dal 1942, sembrava che non riuscisse mai ad
uscirne e, finita la prigionia in Germania, continuò a combattere la sua lotta a
favore dei valori umanitari in cui credette per tutelare almeno le essenziali
fondamenta perché la società continuasse a reggersi in piedi: Dio, Patria,
Famiglia.
Guareschi denunciava due essenziali aspetti del progresso e non il progresso
in quanto tale. Il primo è quello dell'affrettarsi a materializzare la vita delle
persone, facendo della macchina il mito di tale vita, il che la rendeva frenetica,
cupa e opprimente. Analizzando le idee dello scrittore, vediamo come lui, da
sempre, è contro tutto quello che rendeva complessa la vita della gente in modo
da stordirla e distrarla dalla missione spirituale che doveva promuovere. Questa
nuova distrazione avrebbe sconvolto veramente la vita della gente facendola
deviarsi dalla vita normale, vissuta per i valori da conservare e non per
consumare quanto le viene preparato di bello e nuovo e ciò che preoccupava lo
scrittore. Leggendo le parole di Walter Muto che parla di tale preoccupazione,
quasi avverata, vediamo quanto lo scrittore è stato profetico parlando del
progresso in atto:
«Questa tendenza prepara pericolosamente il terreno a una generazione che cancellerà
la presenza di Dio e del trascendente, e che diventerà perciò facile preda della televisione
e del consumismo, la nuova religione. Vedendo, quarant'anni dopo, l'affollamento dei
306
centri commerciali la domenica mattina si comprende quanto Giovannino fosse avanti
con la sua visuale, quanto intuisse le conseguenze da quei primi sintomi». 1
Lo scrittore si sentiva arrabbiato quando vedeva che tutta la produzione del
progresso con tutti i suoi mezzi che si facevano sempre più giganteschi, furono
rivolti a complicare la vita dell'uomo semplice che, in una vignetta di Guareschi,
stordito dalle complicazioni della segnaletica stradale, fu costretto a scegliere la
strada del manicomio di Colorno come unica via d'uscita!
Guareschi, dalla fede salda, spiegò comunque che l'eccessivo progresso
avrebbe guidato a una presa di coscienza da parte dell'uomo della sua totale
incapacità di varcare i limiti, prestabiliti da Dio e che lui stesso avrebbe rinunciato
a questa vita fatta complicata con le sue stesse mani:
«Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno,
quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini
microscopico, e allora l’uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo
pennone e si affaccerà sull’infinito, e nell’infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita.
E odierà le macchine che hanno ridotto il mondo a una manciata di numeri e le
distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà del tempo ancora, don Camillo».2
Su un altro versante, si deve esaminare la posizione di Guareschi nei confronti
del conformismo o dell'anticonformismo, che si trova in stretto rapporto con
quello del progresso. Guareschi sta molto attento, infatti, a questa nozione del
conformismo per non essere lusingato dai suoi intrighi, perché esso non significa
sempre la conservazione dei valori del passato, ma ormai è confuso con la
conservazione di quei valori, quei componenti, che costituiscono i principi
reggenti di un regime o di una cultura che vorrebbe diffondersi o essere egemone
su una determinata società. Capendo bene questo, potremmo identificare la
posizione di Guareschi nei confronti di questa importante idea che occupa
sempre largo spazio nel dibattito culturale di qualsiasi epoca.
Guareschi, vivendo pienamente quanto si correva in quel periodo, cerca di
posizionarsi in modo da favorire sia la conservazione dei valori del passato sia il
rifiuto, se non la denuncia delle nuove concezioni che volevano ergersi da unici
valori della società sorpassando quelli ‘vecchi’, il che avrebbe favorito il pensiero
unico, il ‘collettivismo’:
«Guareschi si accorge della nascita della forma forse peggiore, più greve e più
intollerabile di conformismo: spaventoso, becero, pesante, rozzo. Il «pensiero unico»
delle sinistre negli anni del «cattocomunismo». Basta prendere in mano i testi scolastici
di storia per capire cos'era questo conformismo. Nessun paese civile al mondo ha avuto
libri di storia menzogneri, largamente falsi e spesso copiati l'uno dall'altro come l'Italia.
Quando Guareschi si accorge di tutto ciò, è naturale che anche lui divenga
anticonformista. Al riguardo amava dire: «Sono un reazionario». Scriveva sul
1
2
Muto (2012), p. 118.
Guareschi (1955), pp. 220-221.
307
«Candido» dell'epoca: «Sono un reazionario perché mi oppongo al progresso e voglio
far rivivere le cose del passato».3
Questa posizione di Guareschi lo porterà ad adottare una altra via, lontana sia
dal conformismo che dall’anticonformismo, per schierarsi a favore della
tradizione che non significa altro che "portare avanti". Spiega questo concetto
Gianfranco Morra:
«Guareschi veste l'abito dell'anticonformista. Ma sa che troppo spesso
l'anticonformismo è solo un conformismo rovesciato. La vera antitesi del conformismo
non è l'anticonformismo, ma il recupero della tradizione. Il termine tradizione, proibito
per trent'anni, -guai a usare questa parola! da dove deriva? Dal latino. E il latino
tradere che cosa vuol dire? Significa guardare indietro? No, al contrario significa
portare avanti. Ma non si porta avanti qualcosa se non sulla base di qualcosa che
preesiste. Questa è la posizione di Guareschi». 4
Questa opinione sull'importanza di portare avanti ciò che ha costituito finora
la propria ricchezza, il proprio bagaglio morale, viene affermato da un'altra
critica che, alla luce della sua lettura della narrativa di Guareschi, può estrarne
quanto c'è di originale, lontano da approssimazioni culturali che non hanno a che
fare con l'opera, nonché con la vita dello scrittore emiliano. Scrive Daniela
Marchesi infatti:
«Tutto questo grazie a una convinzione semplicissima: proprio perché il progresso oggi
viaggia così veloce, occorre investire sul passato. Ecco qual è stata l’autentica
operazione d’avanguardia di Guareschi: investire sul passato. Che non è un’operazione
inerte, ma una scommessa sul futuro. Il rischio è altissimo, e Guareschi ne ha pagato il
prezzo nella vita come nell’opera. L’esperienza del lager prima, la galera postbellica per
la nota accusa a De Gasperi poi, hanno fatto il resto».5
Guareschi vide che il progresso ha trascinato con sé infatti tante delle pessime
abitudini che costituirono da una parte le fondamenta di tale progresso e il suo
perno reggente, ma, d'altra parte, le sue disgrazie contro l'uomo nonché tutta
l'umanità. Il progresso appena nato si è presto sposato con il potere e il
capitalismo in molti paesi, il che ne ha fatto uno strumento per controllare i
popoli, “la massa”, al fine di assicurare l'evoluzione nonché l'eternità di questi
regimi politico- economici. Uno delle facce più svelate della strumentalizzazione
del progresso da parte del capitalismo e del potere fu il consumismo che veniva
man mano insinuandosi nelle vene della gente per prendere il posto e
l'importanza dell'ossigeno, cioè di qualsiasi altra cosa più importante e necessaria
in verità per la vita della gente e lo sviluppo etico e spirituale delle società. Così
Morra (2003), p. 45.
Ibidem.
5 Marcheschi (2009), p. 67.
3
4
308
la società evoluta diventò subito il sinonimo della città dei consumi, i cui membri
sono tormentati dall'ossessione di avere questo e quest'altro prodotto per sentirsi
appagati, un sentimento che non arriva quasi mai perché le sentinelle del
consumismo sono sempre pronte con i loro nuovi prodotti. Così il povero uomo
della società “progredita” è sempre in cerca di nuove comodità senza nemmeno
pensare quanto ci mette di fatica e perdita dei propri giorni per procurarsi una
stufa o un'aspirapolvere, il che gli ruba ogni felicità, finché non gli rubi la vita
stessa.
Qua lo scrittore ci insegna che la maggior parte di tali bisogni, ma fasulli, creati
proprio per non lasciar nessun spazio all'uomo a pensare ad altro che quello che
gli viene dettato. E il consumismo qua si serve della maggiore invenzione del
progresso per coinvolgere tutti quanti, cioè la Tv. La Tv con le sue pratiche
potenti assume questo ruolo per manipolare il pensiero del bersaglio come ce lo
spiegò molto precocemente Guareschi:
«La pubblicità martellante impedisce la libera scelta dell'individuo. La letteratura, il
cinema, la stampa, il teatro, la musica leggera, tutti marcianti sul binario del
conformismo, hanno portato via all'uomo tutto il suo tempo libero. Unica scappatoia
erano i cosiddetti hobbies. Ma, con la civiltà dei consumi, gli hobbies sono diventati
investimento, speculazione».6
Guareschi cercò da sempre di smascherare la strategia con cui l'appena
nascente mezzo mediatico, controllato da quelli del "progresso", avrebbe
controllato gli umori delle persone per insinuare le proprie idee:
«La TV col suo incessante martellare, condito con piacevoli musichette e divertenti
spettacoli di varietà, crea nelle famiglie problemi, bisogni o, addirittura, necessità
praticamente inesistenti. Così come crea dal nulla dei valori e degli idoli. Crea una
mentalità, un costume, un linguaggio. Per la TV, il «telespettatore- campione» è il più
«depresso» tanto che il motto della TV potrebbe essere: «Camminate col passo del più
lento per essere seguiti da tutti». Di qui il successo smisurato della TV: col risultato
trascinato al livello del tonto. Quindi generale abbassamento del livello intellettuale e
spirituale della massa».7
La televisione, nel suo scopo di controllare i cervelli della gente, a favore dei
padroni del progresso, spezza anche i rapporti familiari e ostacola quindi il
tramandamento delle esperienze fra le generazioni e proprio questo è uno degli
svantaggi più pericolosi del nuovo mezzo di media come lo spiega Lugaresi,
citando le parole di Guareschi:
«Ce n’è anche per la televisione, che “insinua nelle case e crea una cortina d’acciaio fra
i componenti della famiglia [...]” E anche qui la denuncia guareschiana nasceva in
tempi non sospetti. Lo scrittore aveva già previsto i guasti della televisione, che,
6
7
Guareschi (1993), p. 635.
Ivi, p. 634.
309
veramente, e oggi lo constatiamo più che mai (anche Papa Giovanni Paolo II lo aveva
sottolineato ai suoi tempi), è elemento di disunione della famiglia. La quale, quando si
trova, per esempio, a tavola, un tempo, luogo e occasione di conversari, scambio di
esperienze e di opinioni, rivolge le proprie attenzioni a quell’apparecchio, chiusa in un
mutismo deprimente, ma eloquente di un modo di stare (o meglio, di non stare)
insieme...
».8
In questo ambito che si deve collocare l'emarginazione praticata nei confronti
di Guareschi, una voce indesiderabile, perché osava parlare di tutto quello che
certa gente non voleva ascoltare. Lo chiarisce meglio Montanelli:
«È stato veramente un grande soldato della libertà e nessuno glielo volle riconoscere,
nessuno, perché questo è un Paese di pecore, che stanno sempre o in un gregge o in un
altro, ma sempre in un gregge. E quindi non possono ammettere né concepire che ci sia
qualcuno che nel gregge non ci sta. Ecco, questo dovevo dire di Guareschi».9
In una società come quella dell'Italia del dopoguerra, della "ricostruzione",
andava molto, per alcuni, tappare le bocche a certe persone, quelle cioè che
osavano parlare del male verso cui stava correndo, trascinando con sé tutti, il ceto
dominante. Creando dei desideri fasulli e spargendo la paura di pericoli
inesistenti era in verità il più efficace strumento usato per controllare i cervelli e,
quindi, le sorti della gente cui era assegnato solamente il compito di "obbedir
tacendo". E sono veramente questi gli strumenti più usati finora per realizzare
comodamente gli stessi scopi, malgrado il livello sempre più alto di coscienza,
raggiunto dalla gente. Qua si ricorda di George Orwell e la sua profezia, nel suo
romanzo 1986, sul modo con cui i poteri tenderanno a controllare i loro popoli.
Una veloce occhiata a questo romanzo basta per spiegarci come lo scrittore
emiliano è stato molto abile nel prevedere quanto preparavano i detentori del
potere mondiale per controllare tutto il mondo. E forse per questo che tanti
tentarono tutto per zittire Guareschi, come spiega Guido Conti:
«Lotta contro le potenti lobby dei partiti che lo vogliono zitto, contro la politica affarona
e spregiudicata che in cambio del benessere e della ricchezza ha barattato valori religiosi
e secolari del mondo contadino, riducendo l'uomo a semplice consumatore e il paesaggio
di questo meraviglioso Paese a uno scarico industriale».10
Guareschi capì fino in fondo che l'uomo della società, detta moderna,
beneficiario di tutti i prodotti del progresso, non è libero veramente, al contrario
il progresso gli ha sottratto qualsiasi tipo di scelta personale legandolo, attraverso
il giogo del consumismo, alle sorti di tutti gli altri. Guareschi ne evidenziò la
sostanza e il pericolo ricorrente:
Lugaresi (2002), pp. 133-134.
Montanelli (2002), p. 182.
10 Conti (2008), p. 6.
8
9
310
«La società dei consumi, grazie a una organizzazione politico- pubblicitaria di
terrificante potenza, ha creato bisogni e necessità fasullissimi che rubano all'individuo
ogni tempo libero. Non esiste libertà nella società dei consumi, che concede all'individuo
la sola libertà di fare ciò che fanno tutti gli altri. Per me tempo libero significa
andarmene da solo a spasso lungo la riva d'un fosso in primavera, girar di notte, in
compagnia di qualche vecchio amico, per la città deserta. Tempo libero è sfogliare le
vecchie raccolte della Domenica del Corriere ripassando la propria vita, o andando a
caccia dei ricordi o dei pensieri annidati fra le pagine ingiallite. O semplicemente
pensare. Pensare al passato e all'avvenire. Riempire lo zaino nella riserva spirituale del
passato e, saltati sul cavallo della fantasia, galoppare verso l'avvenire».11
Quell’atteggiamento di mettere le mani sull’uomo in tutti i suoi casi e
momenti, quell’atteggiamento cioè di controllare l’uomo ha la cattiva
conseguenza, secondo Guareschi, di uccidere, diciamolo così, l'intraprendenza,
l'iniziativa personale, la volontà di ogni persona di agire e fare solamente quello
che gli piace veramente e lo trova idoneo senza dettami da terzi. Così volendo,
secondo Guareschi, il suddetto progresso distruggeva il significato stesso della
vita, creando solamente delle esemplari mummie che imitano ma non creano.
Alle lettere al postero, Guareschi spiegò quel suo parere:
«Sono un reazionario, postero mio diletto, perché mi oppongo al progresso e voglio far
rivivere le cose del passato. Ma un reazionario molto relativo, perché il vero bieco
reazionario è chi, in nome del progresso e dell’uguaglianza sociale, vuole farci
retrocedere fino alla selvaggia era delle caverne e poter così dominare una massa di bruti
progrediti ma incivili».12
Ciò che indusse veramente lo scrittore della Bassa a scrivere e trattare così
profondamente tali idee, fu la sua volontà, sempre forte, a difendere la libertà
personale che si considera veramente un filo conduttore dell'opera guareschiana.
Già sul «Candido», n. 5, del 30 gennaio 1949, parlando dell'uomo nella società
"del progresso", scrisse:
«Egli non sfruttava la società: non aveva accettato niente del sudicio progresso: aveva
accettato soltanto quello che Dio diede all'uomo: la libertà e la fede. Perché doveva essere
uomo di gran fede se trovava di che rallegrarsi in questa sua meravigliosa povertà.
Adesso la civiltà lo ha "catturato": doveva diventare cattivo, ipocrita, bestemmiatore.
Dovrà odiare, dovrà lottare col suo simile per arraffare un pezzo di pane. Dovrà
uccidere, se la civiltà lo vuole. Dovrà rovinarsi lo stomaco e avvelenarsi il sangue.
Dovrà iscriversi a un sindacato, girare con cartelli in spalla, scioperare. Dicono i
giornali che Attilio Rizzo assomigliava a una bestia. Invece, più di tutti gli altri
assomigliava a un uomo».13
Guareschi (1993), p. 635.
Guareschi (1949)², p. 14.
13 Guareschi (1949)¹, p. 4.
11
12
311
Queste stesse idee dello scrittore emiliano venivano esposte anche da altri
scrittori e pensatori dell'epoca che provavano lo stesso sentimento di Guareschi
nei confronti dell'egemone progresso con i suoi vari strumenti. Romano
Guardini, filosofo e teologo tedesco, scrive:
«Ho l’impressione che il nostro patrimonio sia stato preso tra gli ingranaggi di una
macchina mostruosa capace di triturare tutto. Diventiamo poveri, sempre più poveri!
(...) Devastate le cose, le parole, le forme. Rovinati anche gli uomini».14
Con i suoi sforzi di smascherare le insidie del cosiddetto progresso, Guareschi
vuole soprattutto difendere quelle che lui considera le fondamenta della società,
cioè Dio, patria, Famiglia.
Lo scrittore vede che tali fondamenta sono in pericolo a causa del “finto”
progresso e la cultura del consumismo che spinse la donna a lavorare per
appagare dei bisogni fasulli, sempre più crescenti, il che rende vuoto il focolare
familiare in cui da una parte i bimbi ricevono una educazione debole per la
mancanza da casa per tanto tempo di entrambi i genitori e influenza la crescita
demografica perché non si vuole tanto di fare bambini.
Analizzando un po’ i dati sulle nascite in Italia e sul modo con cui vengono
educati i bambini, si capisce quanto abbia potuto prevedere lo scrittore le
conseguenze di una simile cultura.
Anche la Chiesa, la vita spirituale dell’uomo, all’era del progresso materiale, è
presa di mira. La chiesa, una volta modificata e "aggiornata" ai bisogni della vita
frenetica del progresso, verrà a mancare alla sua funzione spirituale.
Questo argomento ha ricevuto molto interesse da parte dello scrittore della
Bassa, che cercava di smascherare i tentativi continui e potenti del nuovo potere
politico- economico nel paese di corrompere la Chiesa dentro la quale,
purtroppo, c'erano veramente coloro che hanno accettato o, lusingati dal
progresso e da possibili occasioni di usufruirsene a favore della fede, ci sono
cascati promuovendo la tesi che ha finito con il Compromesso storico con tutti i
suoi antecedenti e precedenti conseguenze sulla fede cristiana. Guareschi
esaminò tale idea in tanti dei suoi racconti. Ne spiega il concetto Alessandro
Gnocchi:
«Aprirsi senza riserve a una cultura simile, diceva lo scrittore emiliano, significava
perdere vecchi fedeli senza imbarcarne di nuovi. Lo faceva ripetere mille volte da don
Camillo al testardo don Chichì. L'unica via possibile al dialogo col mondo moderno era
quella di rafforzare l'identità cristiana. Era quella di mostrare che criticare quest'epoca
e la sua cultura non significava chiudersi al mondo e all'uomo. Che, anzi, era l'unico
14
Gnocchi (1998), p. 20.
312
modo di salvarli. Essere antimoderni diveniva l'atto d'amore più grande per l'uomo di
oggi e per il suo mondo».15
Quello che avvertiva Guareschi fu appunto l'inadeguatezza del progresso con
i comandamenti della Chiesa, perché quest'ultima richiede il rinuncio a una parte
della propria comodità personale, a una parte del benessere e della vita agiata a
favore della propria tranquillità spirituale e sembrava che molti non fossero
disposti a farlo. Appunto per questo motivo che lo scrittore della Bassa voleva
mettere in guardia sia la Chiesa di aggrapparsi alle sue fonti e non lasciarsi
trascinare dalle correnti della sinistra, sia la società di ragionare di più sui vari
aspetti del progresso e di accettare solamente quelli che sono in sintonia con gli
eterni valori della società. Lo riassume in infatti don Camillo con questa frase
emblematica:
«Lei, invece, non ha capito che il suo "progresso" ha preso il posto di Dio nell'anima di
troppa gente e il demonio, quando passa nelle strade degli uomini, non lascia più puzza
di zolfo ma di benzina. E che il Pater noster non dovrebbe più dire "liberaci dal male"
ma "liberaci dal benessere"».16
Guareschi voleva chiarire come la Chiesa cattolica è caduta nella palude della
artificiosità, dell'ipocrisia e si interessava quasi solamente delle apparenze.
Questo rifletteva la crisi spirituale che si stava allora allargando in Europa e che
cresceva con la diffusione del progresso. Egli ci raccontò quell'episodio sull'altare
e il crocifisso cui teneva molto don Camillo, che, cacciati fuori prima per ordine
del Vescovo in rispetto del cosiddetto aggiornamento della Chiesa, un giorno
arrivò il vice vescovo in persona alla canonica per intimare il loro immediato
rientro. Vediamone il motivo:
«Reverendo, lei, dunque, non si stanca di combinare dei guai! Dove sono il Cristo e
l'altare di cui parlano i giornali? «Voi ci avete ordinato di rimuovere tutto e tutto è
stato rimosso» rispose don Camillo con calma. «Anzi, doppoiché noi non eseguivamo i
vostri ordini con sufficiente sollecitudine, ci avete mandato un commissario politico per
accelerare le operazioni.» «Lei doveva farci presente che si trattava d'una importante
opera d'arte!» obiettò il segretario. «Non lo sapevamo né potevamo nemmeno
sospettarlo, data la nostra profonda ignoranza di povero parroco di campagna. A ogni
buon conto, abbiamo messo al sicuro altare e crocifisso.» «Meno male!» si rallegrò il
segretario. «Ricuperi immediatamente altare e crocifisso. Li imballi con estrema cura e,
non appena sarà tutto pronto, ci telefoni. Provvederemo a venire a ritirarli per portarli
in vescovado dove troveranno degna sistemazione.» Don Camillo abbassò il capo in
segno di obbedienza.17
Ivi, p. 290.
Guareschi (2001), pp. 97- 98.
17 Ivi, p. 100.
15
16
313
Anche se, al primo sguardo, si potrebbe capire che Guareschi è pro o contro lo
sgombro dell'altare e del crocifisso dalla chiesa, però quando arriva la voce del
Cristo, si capisce che Guareschi crede in fondo che tutto questo dibattito
riguardante cose simili sia purtroppo i primi sintomi di tale crisi spirituale che
induce all'aggrapparsi a quello o quell'altro arnese. Ecco come ce lo spiega la voce
della coscienza guareschiana:
«Signore» replicò umilmente don Camillo «però sono la tradizione, il ricordo, il
sentimento, la poesia.» «Tutte bellissime cose che non hanno niente a che vedere con la
fede. Don Camillo: tu ami queste cose perché ricordano il tuo passato, e perciò le senti
tue, quasi parte di te. La vera umiltà è rinunciare alle cose che più si amano.» Don
Camillo chinò il capo e disse: «Obbedisco, signore». Ma il Cristo sorrise perché leggeva
nel cuore di don Camillo.18
Uno delle maggiori sfide a cui fu costretta a sottoporsi la Chiesa fu la questione
del cosiddetto "Concilio" che prevedeva l'aggiornamento della chiesa per volontà
delle nuove esigenze della società del progresso, il che implicava l'adeguarsi che
significava senz'altro venire meno ad alcuni principi basilari della fede anche se
questo sarebbe dovuto succedere nell'arco di non pochi anni. Guareschi previde
quanto sarebbe successo al Concilio Vaticano II con vari articoli su «Candido»,
pubblicati nel 1954, esprimendo coraggiosamente il suo parere a proposito.
Analizza tale parere Muto:
«Già qui è chiaro il punto di vista di Guareschi, che come sempre si esprime attraverso
la voce del Cristo che parla a don Camillo. E la visuale di Guareschi è semplice:
l'aggiornamento è impossibile, anzi, pernicioso. Adeguare il metodo ai tempi porta fuori
strada, annacqua l'annuncio, confonde il messaggio di Cristo, che invece è semplice e
per tutti».19
Lo stesso Paolo VI che diede il via libera al Concilio, espresse questo parere
dello scrittore della Bassa, annotando allo stesso tempo la perdita di importanza
della Chiesa nella società:
[Sembra che] da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. Non ci
si fida più della Chiesa, ci si fida del primo profano che viene a parlarci da qualche
giornale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita [...] Si credeva
che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È
venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza.
Predichiamo l'ecumenismo e ci distacchiamo sempre di più dagli altri. Cerchiamo di
scavare abissi invece di colmarli.20
Ivi, p. 16.
Muto (2012), p. 106.
20 Papa Paolo VI (1972).
18
19
314
Salah Mohammed
salah_moh@yahoo.com
315
Riferimenti bibliogafici
AA.VV., Atti del convegno «Mondo piccolo», grande schermo. La fortuna
internazionale di Giovannino Guareschi tra cinema e letteratura, a cura di Enrico
Mannucci e Paolo Mereghetti, Milano, organizzato dalla Fondazione Arnoldo e
Alberto Mondadori, 22 settembre 2009.
AA.VV., “Il «Mondo piccolo»” Un paesaggio d’autore: Fontanelle, Guareschi, Faraboli,
catalogo del Museo omonimo di Fontanelle, Parma, MUP Editore, 2008,
info@mupeditore.it.
Conti (2008)
Guido Conti, Giovannino Guareschi- Biografia di uno scrittore, Milano, Rizzoli, 2008.
Gnocchi (1998)
Alessandro Gnocchi, Giovannino Guareschi. Una storia italiana, Milano, Rizzoli,
1998.
Guareschi (1949)¹
Giovannino Guareschi, in «Candido», 4, 30 gennaio 1949, pp. 4-6.
Guareschi (1949)²
Giovannino Guareschi, Lettere al postero, in «Candido», 14, 3 aprile 1949, pp. 1417.
Guareschi (1955)
Giovannino Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo, 31a ed., Milano, Rizzoli, 1955.
Guareschi (1993)
Giovannino Guareschi, Chi sogna nuovi gerani!, a cura di Alberto e Carlotta
Guareschi, Milano, Rizzoli, 1993.
Guareschi (2001)
Giovannino Guareschi, Mondo piccolo. Don Camillo e don Chichì, («Don Camillo e i
giovani d'oggi»), 2a Ed., Milano, SuperBur, 2001.
Lugaresi (2010)
Giovanni Lugaresi, Guareschi fede e libertà, Parma, MUP Editore, 2010.
Marcheschi (2009)
316
Daniela Marcheschi, Guareschi e il romanzo, in AA. VV., Letteratura, cinema,
Giornalismo, Grafica, Atti del Convegno internazionale 100 anni di Guareschi,
Parma, 21-22 novembre 2008, a cura di Alice Bergogni, Parma, MUP Editore,
2009, 27-43.
Montanelli (2002)
Indro Montanelli, in AA.VV., Un «Candido» nell’Italia provvisoria – Giovannino
Guareschi e l’Italia del «Mondo piccolo», a cura di Giuseppe Parlato, Fondazione
Ugo Spirito, Roma, 2002, pp. 181-188.
Morra (2003)
Gianfranco Morra, in Flory Massimiliano Finazzer (a cura di), Conformismi e
Anticonformismi. Einaudi, Guareschi, Gadda, Longanesi, Sturzo, Prezzolini. Ri-lettura
di un secolo attraverso i contrasti, le voci, i libri, Marsilio, Venezia, 2003, pp. 41-51.
Muto (2012)
Walter Muto, Guareschi l’umorismo e la speranza- Piccola antologia commentata
dell’opera di Giovannino Guareschi, Milano, Marietti 1820, 2012.
Papa Paolo VI (1972)
Papa Paolo VI, Omelia in occasione della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo,
vatican.va, 29 giugno 1972.
The present essay studies the literary work of Guareschi to know his opinion towards
the sentinels of progress, or rather the pitfalls of that "fake" progress that he would like,
married to power, to control people's lives, manipulating their needs and desires to deliver
it easy prey to consumerism, right hand of fake progress.
Returning from the concentration camp, Guareschi feels again responsible towards his
homeland, therefore, founded «Candido», he contributed effectively to defend personal
freedom as an indispensable way for any real "reconstruction". He therefore sees in
Communism an evil to be avoided, because, according to Guareschi, he tends to create
brains that must follow his directives without thinking.
Guareschi wanted to defend above all what he always considered as the foundations of
society, that is, God, Fatherland, Family. For this reason, he warns society of the evils of
"following silence", because this means giving up the divine gift of thinking, of using
one's own brain, in favor of political currents that did not want to create mummies that
imitate, but never creates.
The Italians, according to the writer of the Bassa, must present a different education to
their children, more responsible, not leaving them in the hands of TV, the new medium
317
that takes on the task of standardizing people's brains to make them easy to control. The
"very fathers of the church" also remain on their guard, because with their reasoning and
the consequent approach to the left they do not serve to remove the old faithful from the
fold, without being able to bring new ones.
Guareschi's ideas regarding the sentinels of the left were so original and pioneering that
so many of his concerns have been fulfilled over time: it is enough to see hypermarkets on
Sunday morning to understand more.
Parole-chiave: Mondo piccolo; sinistra; progresso; consumismo; TV; Dio; patria;
famiglia.
318
RECENSIONI
319
ELENA BILANCIA, Recensione al Glossario di Informatica
Umanistica (GloDIUm), a cura di Antonello Fabio Caterino,
Marcello Bolpagni, Marco Petolicchio, Alessandra Di Meglio,
Vincenzo Vozza, Ururi, Al Segno di Fileta, 2019
Il Glossario di Informatica Umanistica (GloDIUm), progetto inerente al carnet de
recherche “Filologia Risorse Informatiche”, offre uno strumento online dedicato al
lessico delle Digital Humanities. Del glossario è stata recentemente stampata
un’edizione cartacea, costituita da circa cinquanta voci e corredata dalle
introduzioni di Antonello Fabio Caterino e Marco Petolicchio.1 Il progetto è in
continua evoluzione ed espansione, proponendo un modello di piattaforma
collaborativa cui possono prendere parte studiosi provenienti dai diversi campi
delle scienze umane, uniti dall’interesse per i rapporti ormai profondamente
radicati tra quest’ultime e l’informatica.
Nonostante la sua natura in fieri, il GloDIUm copre una gamma di nozioni
fondamentali e rappresenta un’ottima propedeutica per chi voglia approcciarsi
all’Informatica Umanistica. Ogni voce è descritta da una scheda sintetica, seguita
da bibliografia e sitografia relative. Molto utili sono le schede concernenti i
concetti generali della disciplina, a partire dalle definizioni fondamentali di
“Informatica Umanistica”, “Filologia Digitale”, “Public History” e “Big Data”,
fino alle nozioni meno consuete di “Digital Dark Age”, “Digital Death”, “Gold,
Green Open Access”. Le voci comprendono anche zone più marcatamente
tecniche, relative ad esempio ai linguaggi di programmazione (CSS), di scripting
(PHP), e di markup (HTML, XML, SGML), per percorrere solo alcune delle attuali
declinazioni del glossario.
Fra teoria e prassi degli studi umanistici nell’era digitale, il GloDIUm
rappresenta senz’altro un agile prontuario, duttile, nella sua versione online, agli
sviluppi costanti e transdisciplinari dell’Informatica Umanistica. A livello più
ampio inoltre, il progetto suggerisce diversi spunti di riflessione riguardo la
carenza di definizioni sistematiche per le nuove strumentazioni e metodologie di
ricerca messe a disposizione dalle Digital Humanities, le quali in Italia forse più
che altrove faticano a ricevere una legittimazione statutaria e didattica.
GLODIUM. Glossario di Informatica Umanistica, a cura di A. F. Caterino, M. Bolpagni, M.
Petolicchio, A. Di Meglio, V. Vozza, Ururi, Al segno di Fileta, 2019.
1
320
Elena Bilancia
bilanciaelena@gmail.com
321
ROSSANO DE LAURENTIIS, Recensione a Sergio Luzzatto, Max Fox
o le relazioni pericolose, Torino, Einaudi, 2019
Il reportage di Sergio Luzzatto si presenta – secondo la definizione dell’autore
– come un saggio di “histoire du présent”. Un genere quasi anti-statutario per
uno storico poiché non è concesso il tempo di far decantare i fatti; non analizzabili
sub specie documentaria, dato che gli archivi di persone e atti recenti non sono
accessibili per legge prima di un certo numero di anni dopo gli avvenimenti. Un
lasso di tempo che nell’informazione e nell’editoria scientifica viene chiamato
“embargo”, dal verbo spagnolo che significa ‘sequestrare’ e ‘impedire’.
Luzzatto infatti, pur dichiarando il lavoro come un non-libro-di-storia, tiene a
trovare e ricordare le proprie stelle polari dal punto di vista del metodo: Marc
Bloch («ditemi semplicemente chi è stato Robespierre», p. 8); o della narrazione:
Javier Cercas, L'impostore (p. 33); Emmanuel Carrère, L’Avversario (p. 26). Ma
aggiungerei anche alcuni titoli classici del genere “denuncia civile”: L’affaire Moro
di Leonardo Sciascia (1978); Il giudice e lo storico di Carlo Ginzburg (1991); L’ombra
di Moro di Adriano Sofri (1991).
Luzzatto fa al contempo il cronista e l’intervistatore attraverso delle sedute via
skype di Marino Massimo De Caro, che usa il nickname Max Fox. Sceglie così di
fidarsi di «quanto De Caro ha deciso di farmi credere», come le cosiddette
“biografie autorizzate”. Chi recita quale parte tra il gatto e il topo? È il rischio del
“chantaje del testigo”. L’ipotetico ricatto del testimone preso per scelta o per
necessità quale fonte principale dell’accaduto, pur non essendo un procedimento
da storico (p. 279). Il rischio paventato da alcuni osservatori – «Tieni presente che
è un incredibile mentitore, un manipolatore, un mestatore pitonesco» (p. 28) –
che Luzzatto finisse per offrire un monumento al suo interlocutore, sembra
affacciarsi al cap. 20, quando prova ad accostare l’espiazione detentiva di De
Caro con quella letteraria di Jean Valjean (Victor Hugo, Les Misérables): se «una
volta commesso e confessato il fatto, il castigo non fosse stato feroce ed eccessivo»
(p. 266). Ma fin dall’inizio Luzzatto, ammettendo «l’ombra dispettosa che
qualunque impossibile storia del presente finisce per gettare sulla storia del
passato, anche la più rispettabile» (p. 33), si premura di mettere le mani avanti,
con se stesso e con il lettore: «lo storico, nella sua presunzione di verità, finisce
per alimentare una finzione» (p. 295); ammette di avere «la responsabilità di
creare lo spazio e il tempo. O di negarlo, o di contraffarlo» (p. 296).
De Caro all’anagrafe si può ascrivere alla generazione ‘bamboccione’, classe
1973, proveniente da famiglia agiata con genitori della Sinistra impegnata nel
322
sindacato e nella storia della cultura, cresciuto con i programmi della rampante
e ipnotica tv berlusconiana. Una precoce esperienza di portaborse al séguito di
un senatore a Roma, deve avergli fatto conoscere quel mondo di politica
“politicante e affarista”, intercambiabile tra gli schieramenti; quel ‘brodo di
coltura’ per l’indifferenza e il cinismo da cui sarebbe scaturito un Fregoli aduso
ai mercanteggiamenti e alle manovre sottobanco, con interlocutori dai quattro
angoli del mondo e di tutte le specie (politici, cardinali, uomini d’affari, antiquari
di alto livello). È così che lo ritroviamo quale ammiratore del bibliofilo raffinato
Marcello Dell’Utri, uomo forte del polo del centro-destra, conosciuto alla Fiera
campionaria di Milano, nel 2001, ideatore dell’annuale Mostra-mercato del libro
antico e animatore della Fondazione di via Senato, con annessa biblioteca
(http://www.bibliotecadiviasenato.it/ ; pp. 189-190).
A un certo punto della girandola di situazioni e iniziative in cui si ritrova per
caso o perché se le è andate a cercare – sapientemente scandite in capitoli da
Luzzatto –, De Caro deve aver perso il controllo. A forza di indugiare nelle
tentazioni e nelle azioni disinvolte, ha finito per sviluppare una dipendenza da
collezionista e da faccendiere compulsivo, un «campione del nostro tempo» (p.
296) che valica la propria “linea d’ombra”. Alcune delle sue imprese hanno del
rocambolesco, e spiegano la citazione di Brecht in epigrafe: «La storia senza
umorismo è stomachevole».
Non fa ridere l’arbitrarietà del perché e come il De Caro venisse nominato
consulente speciale dal ministro Galan (Forza Italia), prima all’Agricoltura (dove
era accreditato come un esperto di politiche energetiche alternative, con le mani
bene in pasta) e poi traslocato con il protettore ai Beni Culturali; per giunta
confermato dal subentrante ministro Ornaghi in quota cattolica. Un cursus
honorum che dimostra due cose: l’indifferenza bipartisan verso la ‘zavorra’ del
patrimonio bibliografico nazionale; e una carriera di successo prova palmare di
come nel nostro paese la raccomandazione faccia prevalentemente aggio sulla
competenza.
Uno Zelig di provincia che finisce per trasformarsi in traffichino
intercontinentale, tra le lontane Americhe di New York (vendita di un falso
Galileo alla libreria antiquaria Martayan Lan) e di Buenos Aires (il complice e
collega Daniel Pastore: «la sua libreria sembrava un racconto di Borges», De Caro,
p. 102), e la vecchia Europa, in particolare l’Italia onusta di biblioteche colme di
libri antichi.
Con la cultura non si mangia – sostenne un brillante ministro del centro-destra.
Ma con il cattivo esempio di De Caro ci si può arricchire indebitamente con frodi
e spoliazioni di beni pubblici: «la Biblioteca dei Girolamini – bene culturale di
primo piano – così come era stata costruita negli anni a partire dalle origini e
incrementata dalle acquisizioni susseguitesi nei secoli, non esiste più né potrà
mai essere ricostruita “come era”» (dalla ricognizione tecnica degli ispettori
323
ministeriali, p. 259). Peggio di un terremoto dunque, quando almeno la
ricostruzione delle case “dove erano” fu resa possibile.
De Caro è stato inizialmente un falsario di un paio di opere di Galileo, tra
l’improvvisato (Le operazioni del compasso geometrico, 1606) e il geniale (Sidereus
Nuncius, 1610): «ho voluto fare un Nuncius così simile all’originale, che secondo
me è più bello dell’originale!» (p. 126). Si segnala la falsificazione compiuta con
dei complici, quasi una nuova “banda degli onesti” artigiani del manufatto libro,
quale possibile estratto ‘da manuale’ per la storia dei processi di stampa. Aprire
la legatura della miscellanea seicentesca e scucire le pagine; scansione delle
pagine di un originale; ripulitura con Photoshop delle lettere; fotopolimeri per
trasformare le immagini digitali in matrici di stampa a rilievo da mandare al
torchio a mano («una vecchia macchina dell’Ottocento», p. 111); carta di stracci
filigranata ricreata more antiquo; invecchiamento dell’inchiostro di china ottenuto
mettendo la carta disegnata in un forno da cucina un’ora per ogni secolo di età
voluto; fino allo sberleffo della firma autografa di Galileo e del timbro
dell’Accademia dei Lincei entrambi ricreati ex-novo (pp. 128-130).
I luminari di storia della scienza e della tipografia chiamati a pronunciarsi
decretarono la veridicità del manufatto, provvisto anche di una provenance
abilmente posticcia. Un abbaglio forse spiegabile con l’avallo della legge della
domanda-e-offerta nell’antiquariato librario internazionale, come se il falso fosse
un “titolo tossico” necessario per ridare vitalità alle quotazioni di mercato. Il
prezzo con cui la copia di laboratorio del Nuncius fu venduta a New York era
«enormemente inferiore al suo valore di mercato, se davvero si fosse riusciti a
dimostrare che si trattava di una copia appartenuta a Galileo in persona, e da lui
personalmente decorata con cinque disegni delle lune» (p. 180); insomma un
“incauto acquisto” fino a un certo punto. Tale mercato ormai rappresenta una
vera realtà economica, con i cimeli bibliografici considerati alla stregua di beni
rifugio, di commodities per collezionisti, investitori, antiquari e ovviamente
criminali in una connection internazionale (p. 256). Un aspetto che Luzzatto fa
bene a sottolineare riferendo di una giornata di studi su “Patrimonio culturale e
tutela penale” destinata ai magistrati, tenuta a Castel Pulci, nei dintorni di
Firenze, per fare il punto sul mercato spesso sommerso delle opere d’arte antiche
(p. 256).
Il “mostro dei Girolamini”, dal nome del luogo teatro del saccheggio
sistematico della biblioteca di fronte al Duomo di Napoli, oltre che all’altro
“tesoro” di San Gennaro, fa pensare con facile assonanza – è solo una mia
impressione – a “Girolimoni il mostro”, il carnefice seriale di bambini nella Roma
degli anni ’20 del Novecento (fatto di cronaca nera da cui fu tratto il film del 1972
con regia di Damiano Damiani, con Nino Manfredi e Gabriele Lavia interpreti).
L’assimilazione dei libri trafugati ai bambini è suggerita tacitamente da Luzzatto
in più punti del libro. I bambini ebrei sopravvissuti ai lager, il progetto di ricerca
324
poi diventato I bambini di Moshe (2018), sembrano paragonabili ai libri sepolti in
polverosi scaffali, all’interno di anonime legature, che nessuno avrebbe mai
sfogliato, se non fosse arrivata la bibliomania cleptomane di qualcuno a farli
riemergere, quasi un’opera di salvataggio, o una strage?, verso creature innocenti
ed anonime altrimenti destinate a una silenziosa e felice normalità. A questa
“relazione pericolosa” fa pensare l’Istituto don Provolo per i sordomuti, ai
margini del centro storico di Verona, nella cui biblioteca avvenne nel 1999 la
prima sottrazione di suppellettile bibliografica, della quale «nessun libro era
timbrato» (p. 76): «se voi volete vedere la biblioteca per... motivi di studio, [...]
poi quello che voi fate là dentro a me non interessa», risponde l’economo
permissivo, responsabile delle visite. Nel decennio successivo l’Istituto verrà
investito da uno scandalo ben più grave, gli abusi sessuali che i preti avevano
perpetrato in passato sui corpi e sulle menti dei bambini e ragazzi loro affidati
(p. 75). Riferisce Luzzatto: «Con le sue [di De Caro] spiegazioni sull’obbligo – per
il vero bibliofilo – di rubarli, i cosiddetti libri abbandonati, per sottrarli a un
destino da bambini abbandonati» (p. 76).
La storia delle biblioteche d’altronde è fatta anche da falsari, da ladri e da
mercanti compiacenti o distratti. Nell’Ottocento il nobile fiorentino Guglielmo
Libri riassume già nel nome il suo destino di bibliomane, e sembra anticipare De
Caro nelle vicissitudini oltrefrontiera, impegnato in politica ai tempi dei moti
rivoluzionari, con amici corrispondenti illustri quali Antonio Panizzi, il principal
librarian della biblioteca del British Museum, e il francese Prosper Mérimée,
ispettore dello Stato per gli archivi.
L’eco internazionale dello scandalo penoso e istruttivo dei Girolamini è servita
a ricordare «la fragilità strutturale dei fondi antichi presso le biblioteche
ecclesiastiche d’Italia. La scarsa tutela garantita a libri anche preziosi,
preziosissimi. Cinquecentine o seicentine malamente catalogate, o non catalogate
affatto» (p. 75). Il degrado e abbandono dei molti rivoli del patrimonio
bibliografico pubblico e statale, accresciutosi a dismisura dopo le confische del
Settecento e le devoluzioni di chiese e monasteri dell’Ottocento post-unitario
(“Conventi soppressi” è una segnatura della Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze); con diversi istituti, soprattutto i fondi diocesani, abbandonati
dall’amministrazione centrale dello Stato al loro destino di incuria: rami secchi
di un sistema che, per mancanza di fondi e di personale, ha lasciato che venissero
potati da predatori e saccheggiatori (a stare a un capo d’accusa contro De Caro)
sotto le mentite spoglie di addetti alla tutela e conservazione; «un problema di
lungo corso», che anche lo Stato del Vaticano si è trovato ad affrontare con una
spoliazione che data dai primordi di queste acquisizioni, quando tra incuria,
assenza di inventari, prefetti e direttori molto avanti negli anni e personale di
custodia insufficiente o del tutto assente, hanno causato la tacita «sparizione dai
suoi scaffali, sotto un pontificato o sotto un altro, di autentici tesori» (p. 278).
325
Il falsario dei Due Mondi, ora pentito, sconta la pena domicilare a Verona –
città dove ha vissuto, e dove nel 2006 dalla Biblioteca Capitolare – dove studiò
anche Dante – ha sottratto il Dialogo de Cecco di Ronchitti… in perpuosito de la stella
nuova (1605; p. 140), attribuibile a Galileo. Postilla Luzzatto, «con l’amore che si
riserva a un bambino abbandonato» (p. 286). Nella stessa città mosse i primi passi
un altro appassionato di libri, Leo Samuel Olschki, dopo aver fondato nel 1886
una libreria antiquaria editrice. In séguito fondò «La Bibliofilìa», una «rivista di
storia del libro e di bibliografia» (a Firenze, dal 1899). Da “mecenate”, quale
Olschki indubbiamente fu, De Caro oggi (p. 79) progetta iniziative sullo stesso
argomento che era stato all’origine del traviamento. Una mostra su “Galileo icona
pop” organizzata con le scolaresche di Verona (p. 282). Resta il dubbio se De Caro
provi ora la stessa gioia, “orgasmo” (p. 107), di quando assemblava un cimelio
falso, truffava o svaligiava biblioteche: «avere quegli esemplari era una libidine».
Rossano De Laurentiis
rossano.delaurentiis@unifi.it
326