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Sui confini labili tra letteratura e non-letteratura (e su Facebook come fucina poetica) Parto da alcune considerazioni che Andrea Accardi fa in un articolo da poco comparso su “Poetarum Silva” intitolato “Ci sono cose da imparare da Montieri: poesia, umorismo e motto di spirito” e dedicato all’ultimo libro di poesie di Gianni Montieri. Accardi nota che spesso quest’ultimo riprende e rielabora poeticamente alcuni motti o aforismi precedentemente pubblicati su Facebook e valorizza questo interscambio tra la rete e il libro poetico vero e proprio; poi a un certo punto scrive: «Ne consegue insomma che Facebook, così come tutti i nostri discorsi quotidiani, è pieno zeppo di letterarietà, di poesia potenziale – a condizione di intendere per letteratura non solo i discorsi istituzionalizzati, ma un certo uso del linguaggio figurale.». In effetti è così. Oggi Facebook e la rete in genere sono luoghi dove si produce molta letteratura, spesso cattiva, ma non poche volte bella. Sarebbe interessante tentare una mappatura dei principali generi praticati: c’è certamente il diario, la confessione, l’aforisma, il motto, il micro-racconto, il micro-saggio, l’aneddoto, i dialoghi colti al volo, la tranche de vie, eccetera, eccetera. Si tratta di forme espressive per lo più brevi che stanno in sospeso tra l’oralità e la scrittura vera e propria. Sono “verba scripta” sì e però questi testi hanno quasi sempre la leggerezza, la volatilità, la precarietà dei “verba” che invece “volant”, e cioè appunto degli scambi orali, del botta e risposta estemporaneo. Sono dunque testi che manent sì, ma manent poco, pesano poco. Spiccano e brillano per qualche istante e subito dopo vengono sommersi dal grande, incessante flusso dei discorsi. Proprio come gli scambi orali tra amici. Quante volte ci sarà capitato di ascoltare una storia narrata da qualcuno che ci ha tenuti avvinti come quando si legge un romanzo appassionante, ecco quello è un momento potentemente e primariamente letterario, ma è anche un momento fugace destinato a svanire. È a causa di quella fugacità che noi non realizziamo che viviamo di letteratura così come viviamo d’aria, e che non possiamo farne senza. Viviamo così immersi in essa che nemmeno ci accorgiamo di questo, proprio come non ci accorgiamo dell’aria che respiriamo. Nel romanzo di Antonio Skarmeta Il postino di Neruda, Mario il protagonista, che fa appunto il postino, vorrebbe scrivere poesie per far colpo sulla donna che ama, e chiede al poeta Neruda di insegnargli a fare delle metafore, possibilmente belle. Allora Neruda gli recita una sua poesia e Mario che non la capisce tanto dice che ascoltandolo aveva come l’impressione di stare sopra il mare con le onde che lo facevano andare di qua e di là, “come una barca sbattuta” dai versi poetici. Neruda allora esclama “lo sai cosa hai fatto? … una metafora!”, e Mario, come il Monsieur Jourdain di Molière che si stupiva di aver sempre parlato in prosa senza saperlo, si mostra anche lui stupito e onorato di saper creare metafore senza volerlo, senza accorgersene. Ma il punto è che siamo tutti come Monsieur Jourdain e Mario: facciamo letteratura senza accorgercene, e la facciamo appunto perché non potremmo fare altrimenti. Anche se poi certo c’è chi la sa fare meglio degli altri. Anche se poi ci sono dei geni che la fanno in modo supremo. D’altra parte è stato il grande biologo Stephen Jay Gould e non un letterato a dire che per la nostra specie è più appropriata la definizione di homo narrator piuttosto che quella di homo sapiens. In effetti questo siamo: animali che creano finzioni, animali sempre pronti a sospendere l’incredulità per godersi quelle vicende immaginarie. E anche come individui che cosa ci tiene insieme se non la storia che ci raccontiamo e che sempre rivediamo e correggiamo, fino al giorno della nostra morte? Per dire che l’attività dello storytelling è praticamente innata in noi. Senza per questo dimenticare che altri biologi e antropologi insistono a dire che siamo invece animali metaforici, animali intelligenti che pensano e parlano attraverso le metafore, tanto che uno di essi ha definito la mente umana una literary mind. Ora, non importa stabilire se siamo più l’una o più l’altra cosa, importa dire che sempre e comunque “facciamo letteratura”, sia che parliamo sia che taciamo. E il mio non è un paradosso. Se realizzassimo finalmente questo assunto ci libereremmo finalmente dall’idea noiosa di concepire il linguaggio poetico unicamente sub specie di Libro, di Autore, di Case Editrici, di Recensioni, di Copie Vendute, di Premi, di Classici, di Storia della Letteratura, ecc. E saremmo finalmente disposti a goderci quell’altra dimensione con più libertà e divertimento, sapendo cogliere il bello letterario in tutte le sue manifestazioni e forme, che non sono certo solo quelle della carta stampata. Forse che Oscar Wilde è stato un grande artista solo nei suoi libri o lo è stato anche allorché intratteneva gli amici nei salotti e nei caffè con facezie e arguzie che a quanto pare erano sulfuree? La verità è che dello spirito di Wilde ci è rimasto poco, i libri stampati, appunto, e quel poco non è detto che sia il meglio. E questo vale per i tantissimi anonimi Oscar Wilde che sono esistiti e ancora esistono nel mondo. Pensate soltanto agli imitatori naturali, a coloro che sono dotati di un demoniaco istinto mimetico e possono fare grande teatro al bar o in piazza ricreando magicamente delle identità e trasformandole in personaggi memorabili. Quella è grande arte anche se sono in pochi a godersela: è teatro di strada. E pensate anche ai grandi raccontatori di barzellette, non dico quelli seriali e monotoni, dico i veri artisti della barzelletta, quelli che le sanno raccontare in modi personali e creativi, con il corpo, i gesti, la faccia, la voce: non sono anch’essi dei piccoli bardi che tramandano e reinventano storielle impareggiabilmente comiche? Certo, poi salta fuori un enterteiner geniale come Walter Chiari e di lui e della sua vis comica ci sono rimaste alcune testimonianze e registrazioni (per esempio quella memorabile sul Sarchiapone), ma resta vero che Walter Chiari non era che uno dei tanti, la punta di un iceberg, non un genio isolato. Andrea Accardi ci ricorda che il libro di Freud sul motto di spirito è anche un grande libro di critica dedicato a quella letteratura orale che veniva prodotta e tramandata dagli ebrei dell’Europa centroorientale: i Witz appunto. E infatti Freud analizza indistintamente i Witz di Heine e Lichtenberg, di cui è rimasta traccia nei libri, e quelli anonimi che circolavano nei villaggi e nei ghetti ebraici: in entrambi i casi egli ci mostra che in quei motti brillano verità pungenti e sovversive. Si tratta di esplosioni, di razzi di spiritosità suprema, di vere e proprie consolazioni della mente. Davanti ai quali sarebbe assurdo chiedersi se chi creò quei motti apparteneva a questa o a quella corrente letteraria, come invece succede fin troppo spesso quando si leggono saggi critici o storico-letterari. Quasi che a contare non fosse soprattutto il momento anarchico e imprevisto in cui entriamo in contatto con la bellezza e la verità di un certo messaggio verbale – non importa se anonimo o prodotto da un genio conclamato – ma l’esattezza e numerosità dei riferimenti storico-letterari evocati, l’appartenenza o meno di quell’autore a uno specifico movimento, la dipendenza del testo da una certa temperie culturale, l’influsso di uno scrittore su un altro scrittore. Insomma e certo semplificando quei critici affrontano questioni del tipo: ma Leopardi era un classicista o un romantico? Mentre in definitiva a noi interessano soprattutto le ragioni per cui la sua disperazione ci coinvolge così tanto. Ma continuiamo con gli esempi di letteratura selvaggia e impertinente, e chiediamoci: forse un buon docente non è soprattutto colui che sa anche “raccontare” le verità dei saperi che insegna, non è dunque un poco colui che sa essere affabulatore, attore, istrione, giullare? Qualcuno che per esempio sa mantenere viva la suspense in classe? E uno psicoterapeuta non deve essere dotato di capacità immaginativa e soprattutto della capacità di escogitare metafore azzeccate per riuscire a esprimere sensazioni ed emozioni altrimenti elusive o indicibili? Ho parlato già di metafore e davvero c’è da chiedersi come potremmo vivere se fossimo condannati a usare solo le parole dotate di significati letterali, funzionali? Se dovessimo produrre solo frasi logiche e sensate? Wittgenstein ha scritto una volta «su ciò di cui non si può parlare occorre tacere»; ebbene esso va riscritto così: «su ciò di cui non si può parlare per via logica e dimostrativa si può parlare per via metaforica, figurale, letteraria». Come appunto succede con le emozioni e le sensazioni che si accavallano nella nostra mente: possiamo dirle ma solo per via trasposta, figurata, attraverso immagini verbali, che più saranno azzeccate e più ci aiuteranno a far luce in quel che confusamente sentiamo dentro. «In questo momento mi sento come… mi sento come…» diciamo, e non troviamo la parola ed ecco che il terapeuta o l’amico la trova lui per noi l’espressione giusta, le mot juste, e quasi sempre è una metafora. Ma si prenda ora questo esempio, che spero non inorridisca i letterati puri: “le convergenze parallele”. È un’espressione attribuita a Aldo Moro, anche se la cosa è dubbia. Ebbene comunque sia anche in questo caso siamo davanti a una espressione letteraria: a un ossimoro o, se si preferisce, a un paradosso. Non è certo grande letteratura ma è letteratura. Cosa provava infatti a fare Moro, o chi per lui? provava a pensare un pensiero fino ad allora impensato se non impensabile, e cioè l’alleanza con il nemico storico, con il partito comunista. La cosa non era dicibile in modo diretto, esplicito, ma appunto attraverso una figura del linguaggio, un’immagine. Certo, in questo campo si può far di meglio, ma è il principio che adesso è in gioco. E il principio è che il modo principale che abbiamo per pensare pensieri difficili, per articolare verità pericolose o sentimenti informi è quello letterario. D’altra parte: cosa sarebbe delle nostre vite se non potessimo immaginare storie finte, immaginarie, fantastiche? Se non potessimo immaginarci diversi da quel che siamo? Sì, senza quel tipo di discorso che chiamiamo letteratura soffocheremmo, saremmo sopraffatti dall’inarticolato. Per cui alla domanda classica che spesso mi viene posta o io stesso mi pongo (a che serve la letteratura?) di solito rispondo dicendo: a niente di specificamente utile ma in genere a vivere e a pensare. E anzi vorrei suggerire che il grado di civiltà di una società si misura anche da quanta letteratura essa sa produrre naturalmente, spontaneamente, giocosamente. Da quanto in essa il discorso letterario si mescola con la vita comune. Da quanto sappiamo auto-rappresentarci e auto-raccontarci, come individui e come comunità. Certo, a questo servono molto i romanzi ma anche le storie che circolano di bocca in bocca, o di blog in blog; le fiabe che i grandi raccontano ai piccoli; le canzoni che ascoltiamo e canticchiamo magari storpiandole. Ma non basta; la civiltà di una società si misura anche dalla quantità e qualità delle lettere che i suoi membri si scambiano; dalla capacità che essi hanno di scambiarsi gli uni con gli altri le esperienze che hanno vissuto, le letture che hanno fatto, i film che hanno visto, i sogni che hanno sognato, le paure che hanno avuto. Ma soprattutto direi che si giudica dalla capacità che hanno gli individui di raccontare le persone che hanno conosciuto. Non credo infatti che esista un’arte più bella di quella, e a me piace moltissimo praticarla. Essa consiste nel provare a dire con proprie parole il mistero, le contraddizioni, le bizzarrie delle persone che abbiamo conosciuto e conosciamo, di provare a evocare la loro bellezza, imprevedibilità, inconoscibilità. Raccontare l’altro ecco lo sport che preferisco. Insieme a quell’altro sport: la creazione incessante di metafore e immagini per dire il mondo che incessantemente cambia fuori e dentro di noi. Ribadiamolo: a questo servono soprattutto i poeti professionisti ma a questo servono anche, se non soprattutto, i poeti naturali e comuni, quelli che sanno trovare le parole giuste per dire certe sensazioni emozioni e accadimenti. E se come ho già detto il grado di civiltà di una comunità, piccola o grande che sia, si misura dal tasso medio di icasticità e vivacità dei discorsi che essa produce all’inverso si dirà che più i discorsi tendono a essere stereotipici, di seconda o terza mano, e più quella comunità sarà umanamente povera, incapace di ascoltarsi, autorappresentarsi, inventarsi. Se Napoli, pur con tutte le sue contraddizioni, resta una città viva e stimolante è proprio per questo: perché gli scambi verbali tra la gente laggiù sono vivaci, teatrali, divertenti. E se invece la televisione e i giornali sono luoghi sempre più deludenti è anche perché in essi trionfa un parlare banale, rozzo, semplicistico, o vacuamente retorico. Si pensi soltanto a quanto più poetiche e appassionanti erano certe radiocronache sportive del passato; si pensi a quell’epico, omerico, esaltante incipit di una radiocronaca di tappa del Giro d’Italia del ’49: “Tappa Cuneo-Pinerolo: un uomo solo al comando; la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. Che trovata geniale! Ogni qual volta che me la ridico mi vengono i brividi. Dico queste cose perché appunto non ci si deve immaginare che la letteratura che io qui evoco sia solo quella praticata dagli uomini colti, dagli specialisti della parola scritta. E soprattutto non ci si deve immaginare che le riuscite letterarie dipendano dal grado di cultura e dalla quantità di letture del soggetto in questione. Non so da che cosa dipendano, ma so che per me funziona questa regola: riesco a divertirmi solo con persone che quando parlano mi parlano davvero, e cioè non mi parlano per frasi fatte, facendosi l’eco di opinioni risapute e straripetute, ma ci mettono del loro, mi comunicano pensieri e sensazioni vivide, un’immagine di mondo che mi colpisce e interessa. E qesta è letteratura! E da ciò consegue anche che la capacità di produrre noia o simpatia di una persona dipende in fondo dalla sua vivacità poetica, dalla sua naturale e spontanea “poieticità” (da poiesis), e cioè dalla sua capacità di fare buon uso delle parole allorché ci restituisce la sua visione del mondo, per esempio allorché ci restituisce una sensazione o una emozione. Ma non dovete immaginarvi i fuochi d’artificio verbali, no, basta poco per essere poietici nel modo che intendo, basta fidarsi delle proprie sensazioni e non trasformarle in luoghi comuni, in resoconti meccanici. Del tipo: visiti un paese o una città e me la racconti con le parole della guida turistica. Che me ne faccio? Invece il mio indimenticato amico Toni Ruaro che aveva fatto la quinta elementare trasformava in oro narrativo qualunque sua esperienza: un incontro, un viaggio, la visione di un film, un sogno. Quando me ne parlava io ero lì, rivivevo quelle sue esperienze, me le immaginavo vividamente. Ha scritto Proust “la nostra vita è anche la vita degli altri, perché lo stile dello scrittore […] è una questione non di tecnica ma di visione, è la rivelazione che sarebbe impossibile [altrimenti] della differenza qualitativa che c’è nel modo come ci appare il mondo, differenza che, se non ci fosse [la letteratura], resterebbe il segreto di ciascuno.” E prosegue così: “mediante [la letteratura] noi possiamo uscire da noi medesimi, sapere ciò che vede un altro di quell’universo che non è lo stesso del nostro e i cui paesaggi ci sarebbero restati così sconosciuti quanto quelli che ci possono essere nella luna.” Ecco che cos’è la letteratura: è la possibilità di “uscire da noi medesimi” e di conoscere come un altro individuo vede il mondo, e Toni era capace, come Proust anche se certo in modo meno perfetto, di rivelarmi, di farmi parte della sua personalissima e vividissima visione del mondo. Ogni qual volta questo accade “allora è arte”. E naturalmente non è mica che Toni lo sapesse di “fare arte”, se glielo avessi detto ne sarebbe stato stupito come Monsieur Jourdain o il postino di Neruda. Dirò di più: se gli si fosse detto di scrivere quanto aveva raccontato in modo tanto avvincente ebbene so per certo che quella vivacità e icasticità sarebbe andata perduta, che anche lui magari si sarebbe avvalso di luoghi comuni… letterari, e così avrebbe fallito. E la riprova ce l’ho perché ho lavorato in un carcere e così mi sono accorto che uomini che avevano vissuto anche esperienze estreme o comunque dure, quando ne scrivevano nei temi adottavano un linguaggio molto per bene, banalizzante e al limite idillico, se non Kitsch: si rappresentavano come persone che stavano tutte e solo dalla parte del bene, che erano però state tradite o poco capite dalla società, che si sentivano vittime incomprese dei giudici, della polizia, dei politici, eccetera. Certo, lo so, la loro posizione era difficile, e in fondo io come professore appartenevo al campo sospetto delle autorità, ma era per me evidente che per loro era quasi impossibile dare conto con onestà delle loro vicende. Anche loro avevano fatto un viaggio avventuroso in terre a me sconosciute ma di quella esperienza avevano riportato solo immagini edulcorate. C’era per esempio un uomo che per gelosia aveva ucciso la propria compagna e che componeva poesie di questo tipo: «Spendere qui/ i miei/ giorni,/ senza che tu sappia/ cosa siano/ molteplici/ pensieri./ Ne ho avuti/ tanti,/ soprattutto/ belli, ma/ quelli che verranno,/ sono racchiusi/ nello scrigno/ antico che è/ il petto/ dove quel dì/ raccolsi le/ tue parole/ per farle/ diventare/ perle mie.» Faceva letteratura sì, volutamente, consapevolmente, e proprio per quello faceva cattiva letteratura. Ma torniamo da dove eravamo partiti: in Facebook dicevo c’è un sacco di persone che è un piacere leggerle. Non dico tanto quelli che sono ossessionati dalla loro identità di poeti o scrittori laureati o semi-laureati, ma quelli che, qualunque sia la loro professione, scrivono pezzettini leggeri e volanti che poi postano. Sono persone di vario tipo e genere; se ne vanno in giro per il mondo, pensano, leggono, si guardano intorno e poi ogni tanto ti descrivono con una loro noterella un luogo che hanno visitato o elucubrano su un certo evento o rievocano un ricordo e tu ridi o ti commuovi, o comunque ti dici: ma guarda un po’ questo tipo, questa tipa come lo vedono loro il mondo! Ecco è questa la letteratura minimalista ma ritemprante che mi piace e che vorrei che coltivassimo di più. Faccio un esempio tra i mille possibili, ecco un post della mia amica Carlotta Giucastro: Oggi sull'autobus c'era la autista chiacchierona e socievole, che SALUTA, una signora, di quelle che superficialmente giudicheresti "sioretta mestrina" ha ceduto SORRIDENDO il posto a una donna incinta con l'hijab e un ragazzo delle superiori, genere "noi alla sua età leggevamo Anna Kuliscioff", si è alzato per fare sedere una signora nera e allora, io che sono polvere e cenere, ho detto: non si adiri il mio Signore e risparmi Mestre, almeno per oggi. Sì così mi piace, meglio molto meglio di tanti pistolotti anche giustissimi sul razzismo, no? Ma questo era solo un esempio fra i tanti… E lo porto per contrapporlo ai tanti altri post che, dio te ne scampi e liberi, sono privi di qualsiasi verve ironico-poetica. C’è per esempio un mio “amico” che si è specializzato nei commenti politici. Ora in Facebook ce n’è di interessantissimi, ma sono tali solo quelli dove chi scrive ci mette del suo, come è appunto il caso che vi ho sopra citato, mentre trovo irritantissime tutte le persone che parlano come fossero delle autorità indiscusse, degli scienziati della politica che fanno a pezzi la realtà a colpi di schemi filosofici e ideologici, come è appunto il caso di quel mio amico che si crede Gramsci o Lenin, e invece è solo ridicolo-patetico. Ma per ritornare al mio punto, voglio provare a spiegare meglio perché il discorso letterario inteso nei modi sopra esposti può svolgere un’importante azione civile. Qui mi rendo conto salgo anch’io un po’ sui trampoli come quel mio amico che ho criticato ma ci provo comunque: può svolgere quella funzione perché è solo il discorso letterario o poetico, l’arte di raccontare e poetare che salva quella cosa delicata e preziosa che è l’esperienza soggettiva. Voglio dire: noi tutti abbiamo la fortuna di essere individui che reagiscono in modi potentemente idiosincratici al mondo, alla vita, alle cose e alle persone: è questa l’esperienza. Ebbene continuamente siamo tentati di scambiare la primogenitura della nostra esperienza soggettiva – il modo irripetibile con cui io, proprio io, sento vedo patisco il mondo – con il piatto di lenticchie del discorso preso in prestito dalla tribù (dai giornali, telegiornali, pubblicità, televisioni, preti, politici, giornalisti, opinion makers, guru della domenica, ecc.). Basta poco, basta che invece di dire con parole povere e tue, anche le più semplici, quel che ti è capitato quando ti sei innamorato, quando ti sei lasciato, quando sei stato nel deserto o sulla luna, quando hai tentato di suicidarti, quando hai ascoltato quella tal musica o letto quel tal romanzo, ecc., lo dici invece con le parole che hanno detto “quegli altri”, ed ecco che sei fregato, ecco che ti sei consegnato al bla bla universale, al sentito dire, alle genericità e vacuità. Basta poco eh, basta che invece di dire, che ne so, “ho fatto un bancomat” tu scrivi “ho effettuato un prelievo” e hai cominciato a venderti l’anima. Per dire che cosa allora? Che mi piacerebbe che la smettessimo tutti di essere ossessionati dalla letteratura stampata ed edita e fossimo più sensibili a quell’altra letteratura, a quella che si fa in ogni luogo e in nessuno in particolare. Non è infatti solo leggendo libri che facciamo esperienza del discorso letterario. L’idea largamente condivisa da molti critici e scrittori che la letteratura stia tutta e solo dentro i libri, che si faccia con i libri, che nasca da essi o dalle relazioni tra essi, è da rivedere, da rigettare. Se voi per esempio leggete un comune saggio di critica letteraria italiano i discorsi sono spesso quasi tutti riferiti agli autori, alle correnti, alle poetiche, ai reciproci influssi, alle inclusioni e alle esclusioni. Si tratta spesso di discorsi autoriferiti e autofagici che echeggiano poco di mondo e vita. Che soprattutto si concentrano poco sul punto vero, sull’unica cosa che conta: perché dovrei leggere quest’opera? cosa dice di me, di noi? che verità mi suggerisce sul mondo e la vita? in cosa consiste il suo potere cognitivo? Badate bene, io non sono certo uno che disdegna i libri, anzi, ci passo un sacco di tempo sopra, amo i classici, li coltivo e li insegno, credo che essi siano il fiore dell’umanità, e tuttavia resta per me vero che essi non sono altro che delle piante dalle fronde copiose, verdeggianti e ombrose, e che però le loro radici affondano nel terreno costituito dalla grande massa dei discorsi comuni e umani. E d’altra parte essi, i classici, sono intessuti di quei discorsi, risuonano di quelli. Quante pinte di birre avrà bevuto Shakespeare, quante chiacchierate avrà fatto nei pub londinesi, quante storie avrà ascoltato e con quanti strani tipi umani avrà dialogato per poi inventarsi quei suoi indimenticabili personaggi? Falstaff non nasce da una ispirazione puramente letteraria ma da leggende metropolitane che circolavano nella Londra dei suoi tempi, da osservazioni fatte sul posto, da appunti presi mentalmente. E questo vale anche per Proust le cui frequentazioni erano certo più altolocate ma la cui capacità di ascolto e osservazione non era per niente minore. Di quanti aneddoti e pettegolezzi è costituito il suo Charlus? Certo, tutto questo materiale orale e vissuto viene rifuso dal grande artista che lo trasfigura per noi, per tutti, ma resta che anche lui pescava nel grande mondo della vita e dei discorsi comuni. Ha scritto una volta un retore che si chiamava Du Marsais «in effetti, sono persuaso che si producono più figure in un giorno di mercato alle Halles di quante se ne facciano in tante sedute di assemblee accademiche». E voleva appunto dire che la letteratura, che altro non è se non un discorso figurale e immaginoso, risuona nelle piazze dei mercati più ancora che nelle riunioni accademiche o nelle aule universitarie. Ecco io propongo di parafrasare questo detto geniale con quest’altro: si fa più letteratura in un giorno di scambi su Facebook – una specie di nuova piazza contemporanea - di quanta se ne faccia in un anno nelle librerie italiane attraverso la pubblicazione di masse sempre più ingenti di romanzi, saggi, poesie. Certo, certo, in Rete si produce anche se non soprattutto cattiva letteratura, ma appunto come accade in ogni piazza piena di gente dove i discorsi si accavallano e moltiplicano, e solo alcuni di essi ci colpiscono e divertono mentre gli altri sono solo rumore di fondo. La vita è così, rumorosa, echeggiante, anche di scemenze. E gli stupidi non mancano mai. Eppure no, non sono disturbato dalle troppe chiacchiere che si fanno in una piazza, reale o virtuale che sia, mentre confesso che un po’ comincia a disturbarmi la massa di pubblicazioni che si riversa ogni giorno nelle librerie. Voglio dire sulla Rete verba volant, appunto, mentre sulla carta stampata manent, ed ecco sì forse in genere mi aspetterei un po’ più di selezione e responsabilità da parte di chi scrive, pubblica e valuta il merito dei testi. Non voglio fare il critico con la puzza sotto il naso che guarda dall’alto in basso gli scrittori contemporanei. No, questo no, credo infatti che ieri come oggi si scrivono cose belle e brutte, degne e indegne d’essere lette, percepisco solo in molte opere edite una sorta di ansia espressiva generalizzata, l’ansia cioè di dire, di dirsi, di esserci, di manifestarsi, di far finalmente sentire la propria voce. È da qui che viene, credo, la sensazione che oggi si pubblichi troppo, e soprattutto troppi romanzi. Non si tratta tanto di una “troppità” quantitativa, ma qualitativa. Essa discende cioè da questa sorta di enorme bisogno di dare testimonianza di sé che si percepisce dietro molti di questi testi. Mi ricordo che quando insegnavo nelle scuole di scrittura creativa la prima domanda che mi facevano gli allievi era: “come si fa per farsi pubblicare?”. Non sto dicendo che sia una domanda irricevibile, me la sono posta e me la pongo anch’io – “ma questo saggio che scrivo chi mai me lo pubblicherà?” – sto dicendo però che non dovrebbe essere l’unica cosa che importa se si è interessati a scrivere, narrare, poetare. Se si è interessati alla “cosa letteraria”. Parafrasando Amleto potremmo allora ricordarcelo l’uno con l’altro: “c’è più letteratura tra cielo e terra Orazio di quanta ne immaginino gli scrittori gli editori gli organizzatori di festival gli editors i critici e i teorici della letteratura ecc.”. E dunque per finire, non so, volevo solo raccomandare a tutti, me compreso, una maggiore rilassatezza rispetto al mito del libro creativo, originale, pubblicato distribuito recensito, dove finalmente come autori possiamo mettere la nostra anima, la nostra vita, il nostro io. Pensiamoci sì, e se ci capita l’occasione giusta e bella facciamolo anche, ma non riduciamo tutto a quell’evento. In altre parole voglio dire che ci sono tanti modi di essere espressivi, creativi, poetici, fantasiosi, e che appunto alle volte lo siamo di più quando scriviamo una lettera a un amico o un post su Facebook o un bigliettino amoroso o anche un sms di quando ci mettiamo a scrivere il romanzo della nostra vita. Vedo per esempio che c’è un premio che promette al vincitore la pubblicazione del suo romanzo e che lo fa in nome dell’aspirazione di ognuno di non lasciare che la propria esistenza scorra via senza lasciare una traccia. La traccia lasciata sarebbe appunto il romanzo finalmente edito. In altri casi sarà magari la pubblicazione di un libro di poesie. È lì che le nostre anime finalmente fioriranno mirabilmente e saranno ammirate. Ora è certo umano aspirare a questo ma ecco sarebbe consigliabile non farsene assorbire totalmente, ossessivamente. Altrimenti accade quel che sta infatti succedendo: che mentre sempre più gente si impegna nella stesura del grande testo da lasciare in eredità ai posteri trascuriamo di aver cura di quell’altra letteratura, di quella che in altri tempi fioriva nelle conversazioni, nelle discussioni tra amici, così come fioriva nei diari e negli epistolari intimi e segreti, e che adesso può appunto trovare spazio anche negli spazi della Rete. E poi: che sarà mai se non avremo lasciato dietro di noi questa benedetta/maledetta traccia indelebile? Magari appunto avremo lasciato tante altre piccole tracce fatte di parole e discorsi scambiati, di storie raccontate e ascoltate, di motti divertenti. Di questa letteratura minima e che respiriamo vivendo occorre aver soprattutto cura e rispetto.