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FONDAZIONE NICCOLÒ CANUSSIO POPOLO E POTERE NEL MONDO ANTICO Atti del convegno internazionale Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004 a cura di GIANPAOLO URSO Edizioni ETS La presente pubblicazione è stata realizzata con il sostegno di Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca Ministero per i Beni e le Attività Culturali Popolo e potere nel mondo antico, Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004 / a cura di Gianpaolo Urso. – Pisa : Edizioni ETS, 2005 - 284 p.: ill. ; 24 cm. – (I convegni della Fondazione Niccolò Canussio; 3) In testa al front.: Fondazione Niccolò Canussio ISBN 88-467-1273-0 CDD 21 - 946 1. Democrazia – Storia – V sec. a.C.-XVIII sec. d.C. – Congressi – Cividale del Friuli – 2004 I. Urso, Gianpaolo II. Fondazione Niccolò Canussio Fondazione Niccolò Canussio – via Niccolò Canussio, 4, 33043 Cividale del Friuli (UD) via Bernardino Luini, 12, 20123 Milano – www.fondazionecanussio.org © Copyright 2005 EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] I ROSTRA COME ESPRESSIONE DI POTERE DELLA ARISTOCRAZIA ROMANA FRANCISCO PINA POLO Circa trenta anni fa, Claude Nicolet scrisse che era possibile ed opportuno studiare in modo sistematico le numerose contiones delle quali si ha notizia nella Repubblica romana, per capire meglio il funzionamento della politica a Roma1. Difficilmente il brillante ricercatore francese avrebbe allora potuto sospettare che in questo lasso di tempo – in realtà negli ultimi quindici anni –, e con l’impulso di inestimabile valore dei lavori pubblicati da Fergus Millar2, avrebbero visto la luce diversi studi monografici il cui punto centrale è proprio questo tipo di assemblee ed attraverso di esse, l’oratoria dinanzi al popolo, il rapporto tra uomini pubblici e cittadini, il dibattito politico3, il che ha condotto in ultima istanza ad una fruttifera discussione, oggi ancora in atto, sul regime repubblicano romano: se esso debba essere definito come una democrazia o piuttosto come una aristocrazia o una oligarchia4. Le 1 C. NICOLET, Le métier de citoyen dans la Rome republicaine, Paris 1976, 390. F. MILLAR, “The Political Character of the Classical Roman Republic, 200-151 B.C.”, JRS 74 (1984) 1-19; “Politics, Persuasion and the People before the Social War (150-90 B.C.)”, JRS 76 (1986) 1-11; “Political Power in Mid-Republican Rome: Curia or Comitium?”, JRS 79 (1989) 138-150; “Popular Politics at Rome in the Late Republic”, in I. MALKIN-W.Z. RUBINSOHN (edd.), Leaders and Masses in the Roman World. Studies in honour of Z. Yavetz, Leiden 1995, 91-113. 3 F. PINA POLO, Las contiones civiles y militares en Roma, Zaragoza 1989; K.-J., HÖLKESKAMP, “Oratoris maxima scaena. Reden vor dem Volk in der politischen Kultur der Republik”, in M. JEHNE (ed.), Demokratie in Rom? Die Rolle des Volkes in der Politik der römischen Republik, Stuttgart 1995; F. PINA POLO, Contra arma verbis. Der Redner vor dem Volk in der späten römischen Republik, Stuttgart 1996; G. LASER, Populo et scaenae serviendum est. Die Bedeutung der städtischen Masse in der späten römischen Republik, Trier 1997; F. MILLAR, The Crowd in Rome in the Late Republic, Ann Arbor, Michigan 1998; H. MOURITSEN, Plebs and Politics in the Late Roman Republic, Cambridge 2001, specialmente 38-62; R. MORSTEIN-MARX, Mass Oratory and Political Power in the Late Roman Republic, Cambridge 2004. Cf. anche A. BELL, Spectacular Power in the Greek and Roman City, Oxford 2004; G.S. ALDRETE, Gestures and Acclamations in Ancient Rome, Baltimore 1999. 4 A.W. LINTOTT, “Democracy in the Middle Republic”, ZSS 104 (1987) 34-52; J. NORTH, “Democratic Politics in Republican Rome”, Past and Present 126 (1990) 3-21; J. NORTH, “Politics and Aristocracy in the Roman Republic”, CPh 85 (1990) 277-287; W.V. HARRIS, “On Defining the Political Culture of the Roman Republic”, CPh 85 (1990) 288-294; W. EDER, “Who Rules? Power and Participation in Athens and Rome”, in A. MOLHO-K. RAAFLAUB-J. EMLEN (edd.), City States in Classical Antiquity and Medieval Italy, Stuttgart 1991, 169-196; N. MACKIE, “Popularis Ideology and Popular Politics at Rome in the First Century B.C.”, RhMus 135 (1992) 49-73; M. JEHNE (ed.), Demokratie in Rom? Die 2 142 Francisco Pina Polo contiones, la cui importanza è stata a lungo sottovalutata, sono oggi riconosciute come un elemento fondamentale della costituzione repubblicana. Diverso è ritenere che l’indubitabile carattere centrale delle contiones nella cultura politica della res publica romana debba portarci a concludere che tale sistema di governo possa caratterizzarsi come una democrazia, il che non corrisponde alla realtà. In Roma c’era una netta distinzione tra assemblee decisionali e non (comitia e contiones rispettivamente). Infatti solamente nei comitia si poteva procedere ad una votazione e solo nelle contiones era possibile svolgere un dibattito pubblico5. Di fatto, solo in una contio un oratore poteva fare uso della parola dinanzi al popolo. Le contiones erano assemblee ufficiali convocate e presiedute da un magistrato. In esse si discuteva una rogatio prima che fosse votata ed il popolo veniva informato oralmente su tutte quelle questioni che potevano interessare la comunità, quali per esempio i decreti senatoriali, gli editti, i risultati di battaglie, ecc. Nelle contiones si tenevano anche le laudationes funebres pubbliche ed i capi militari, che fossero entrati a Roma da trionfatori, raccontavano nelle contiones le loro imprese. Ma le più numerose furono le contiones politiche, in cui si suscitavano dinanzi al popolo dibattiti su temi di attualità, si producevano squalifiche di avversari politici, campagne a favore o contro qualcuno, ecc.6 Da un lato, queste assemblee servivano per la autorappresentazione degli uomini pubblici e per farsi conoscere dalla gente. Dall’altro, poiché a Roma costituivano l’unico mezzo legale per ottenere un contatto diretto e massiccio tra uomini pubblici e populus, divennero l’ambito esclusivo in cui era possibile esporre le proprie idee ed attaccare quelle degli avversari, un mezzo quindi per ottenere una propaganda politica di effetto immediato e per rendersi popolari, oltre ad essere canali di informazione per l’insieme della comunità e mezzo di contatto tra senato e populus attraverso i magistrati. Le Rolle des Volkes in der Politik der römischen Republik, Stuttgart 1995 (specialmente l’introduzione di M. Jehne, “Zur Debatte um die Rolle des Volkes in der römischen Republik”, 1-9); E. GABBA, “Democrazia a Roma”, Athenaeum 85 (1997) 266-271; A.J.E. BELL, “Cicero and the Spectacle of Power”, JRS 87 (1997) 1-22; MOURITSEN, Plebs and Politics, 1-17; K.-J. HÖLKESKAMP, “The Roman Republic: Government of the People, by the People, for the People?”, Scripta Classica Israelica 19 (2000) 203233; J. NORTH, “Democratics politics in Republican Rome”, in R. OSBORNE, Studies in Ancient Greek and Roman Society, Cambridge 2004, 141-158; K.-J. HÖLKESKAMP, “Zwischen ‘Aristokratie’ und ‘Demokratie’: Jenseits einer überholten Dichotomie”, in ID., Rekonstruktionen einer Republik, München 2004, 73-84. Cf. A. YACOBSON, Elections and Electioneering in Rome, Stuttgart 1999; K. SANDBERG, Magistrates and Assemblies. A Study of Legislative Practice in Republican Rome, Roma 2001. 5 Per dettagli su come veniva convocata una contio e su come si svolgeva, vedere PINA POLO, Las contiones, specialmente 41-91. In riassunto in F. PINA POLO, “Procedures and Funcions of Civil and Military contiones in Rome”, Klio 77 (1995) 203-216. 6 Sulla tipologia delle contiones in epoca repubblicana, PINA POLO, Las contiones, 92-170. I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 143 contiones servivano alla élite governante come strumento di produzione e di trasmissione di una determinata struttura ideologica che perpetuasse un sistema politico in cui essa aveva una assoluta egemonia7. Da qui nasce la loro enorme rilevanza politica, accentuata in momenti di confronto come quelli vissuti lungo l’ultimo secolo repubblicano. Di conseguenza, per un oratore a Roma le contiones erano l’unica possibilità di mettere in pratica la sua eloquenza, per persuadere i suoi concittadini. Ma la domanda decisiva è chi poteva intervenire in queste assemblee. Una delle caratteristiche distintive più importanti dei regimi democratici è la partecipazione attiva della cittadinanza, o, ancora di più, l’importanza che la comunità le concede ed i meccanismi istituzionali che esistono per promuovere una partecipazione attiva in massa dei cittadini. Su questo terreno esisteva una differenza straordinariamente significativa tra la Atene del periodo classico e la Roma repubblicana. Un elemento teorico fondamentale del sistema democratico ateniese era la sua fiducia nell’eccellenza dell’opinione emessa collettivamente al di sopra dell’opinione individuale. La conseguenza naturale di tutto ciò fu che ad Atene, nel V e IV secolo a.C. venne promossa in vari modi la partecipazione attiva del maggior numero possibile di cittadini nelle istituzioni pubbliche: il sorteggio, quale forma considerata più obiettiva per designare a incarichi pubblici, il diritto di qualsiasi cittadino di proporre una nuova legge, la remunerazione degli assistenti ai tribunali, consigli ed assemblee, ecc. Si cercava, in questo modo, non solo di rendere il cittadino partecipe alle decisioni della comunità, ma anche di fargli svolgere una parte attiva, il che supponeva una notevole educazione politica e civica in vasti settori della popolazione. Al contrario di quanto succedeva nell’Atene democratica, nella Roma repubblicana non venne mai incentivata la partecipazione politica attiva dei cittadini. Solo una parte dei cittadini, i più qualificati, ricchi e colti – i locupletes a cui si riferisce Cicerone quali governanti auspicabili della res publica –, erano in pratica abilitati a decidere, anche se teoricamente tutti potevano partecipare: in ultima istanza, la qualità dei cittadini – tradotta in fama, dignitas e auctoritas – doveva avere un valore maggiore che il loro numero, per elevato che fosse8. Solamente le cariche pubbliche, affidate tutte a membri della élite, avevano capacità di iniziativa legislativa, e non un individuo qualsiasi, ed i cittadini romani potevano rispondere nei comizi in modo affermativo o negativo alla proposta di leggi del magistrato, ma non era permesso introdurre modifiche di nessun tipo in una rogatio. 7 8 MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 14-16; 280-281. Cic., rep., I 69; II 39-40; VI 1; leg., I 42-45; III 39. 144 Francisco Pina Polo In società fondamentalmente orali, come erano tutte le comunità nell’Antichità, e naturalmente anche quella romana9, il libero accesso all’uso della parola in un ambito pubblico, cioè nelle assemblee popolari, rappresentava un fattore di enorme importanza nel momento in cui si trattava di determinare il grado di partecipazione politica permesso al popolo ed il suo influsso nell’assunzione di decisioni10. Polibio usa, ed è significativo, varie volte, insieme, i termini parrhesía e isegoría, quali pietre angolari di una democrazia11. Quando definisce una aristocrazia, il termine isegoría viene sostituito da politiké isótes, ma la parrhesía viene considerata anch’essa una caratteristica di questo sistema. La parrhesía è da intendersi come “libertà di parola”, nel senso in cui si utilizza nel mondo anglosassone l’espressione “freedom of speech” e rispecchia la possibilità di esprimersi liberamente, nell’ambito di un discorso. Il significato del termine isegoría è molto diverso: indica l’esistenza del diritto, uguale per tutti, all’uso della parola. Nell’Atene del V e IV secolo, la libertà di parola, espressa in modo complementare mediante ambedue i termini isegoría e parrhesía, costituiva uno degli elementi chiave del regime democratico, e l’acceso ugualitario alla parola comportava il diritto di qualsiasi cittadino a presentare progetti di legge12. Di fatto, gli Ateniesi sembrano aver concesso maggiore importanza alla isegoría che alla isonomía, quale elemento centrale della loro costituzione democratica, e simbolo dell’uguaglianza che permetteva loro di esercitare attivamente i diritti politici13. Per questa ragione, nell’Atene democratica, all’inizio di ogni ekklesía veniva formulata la domanda di rigore: “Chi desidera parlare?”14. Ovviamente, solo una minoranza di ateniesi pronunciava discorsi con una certa assiduità e proponeva mozioni, ma la isegoría supponeva che il dibattito fosse teoricamente aperto a tutti, e che la partecipazione politica fosse incentivata come un diritto, anzi come un dovere di ogni 9 Senza bisogno di giungere alla diagnosi piuttosto pessimista di W.V. HARRIS, Ancient Literacy, Cambridge, Mass. / London, 1989 (vedere altre prospettive per esempio in M. BEARD et alii (edd.), Literacy in the Roman World, Ann Arbor 1991; A. BOWMAN-G. WOOLF (edd.), Literacy and Power in the Ancient World, Cambridge 1996), sembra chiaro che il livello di analfabetismo nella Roma repubblicana doveva essere molto elevato e che solamente una piccola parte della popolazione poté accedere alla cultura scritta. La stragrande maggioranza degli abitanti della Urbs riceveva informazioni solo attraverso la comunicazione orale, ed in questo senso le contiones erano un elemento fondamentale, il mezzo più importante per creare opinione a Roma. 10 PINA POLO, Contra arma verbis, 8-23. 11 Pol., II 38,6; IV 31,4; VI 9,4-5; XXVII 4,7. 12 Cf. K.A. RAAFLAUB, “Des freien Bürgers Recht der freien Rede”, in W. ECK-H. GALSTERER-H. WOLF (edd.), Studien zur antiken Sozialgeschichte, Festschrift F. Vittinghoff, Köln 1980, 7-57; G. SCARPAT, Parrhesia. Storia del termine e delle sue traduzioni in latino, Brescia 1964. 13 Hdt., V 78,1. 14 Eurip., Suppl., 438-441; Aeschin., III 220. I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 145 cittadino. In queste condizioni, il dibattito era sempre possibile ed auspicabile, e la leadership politica non dipendeva dall’esercizio di una magistratura, bensì dalla capacità di iniziativa e di persuasione di un cittadino. Nelle contiones romane era inconcepibile una domanda del tenore di quella con cui si aprivano le assemblee ateniesi. L’uguaglianza di cui gli Ateniesi erano orgogliosi era qualificata iniqua da Cicerone, perché non teneva conto della dignitas che distingueva i cittadini e che doveva concedere a ciascuno di essi un posto di diversa responsabilità nella comunità, in funzione, in definitiva, del disuguale accesso alla proprietà15. Come si addice ad una società così gerarchica quale era la romana, l’efficacia dell’oratore dipendeva, in gran misura, dal suo status sociale e dagli incarichi civili, militari ed anche sacerdotali che occupava al momento di offrire la sua parola al popolo, e dagli incarichi che aveva svolto. Cioè, alcuni cittadini erano più idonei di altri, e la parola valeva tanto come valeva colui che la pronunciava16. È per questo che nelle contiones, come succedeva nel senato, la parola veniva attribuita gerarchicamente: il soggetto di un discorso lo era non semplicemente per essere un cittadino, bensì perché era dotato di potestas o di una certa auctoritas che gli veniva riconosciuta dalla comunità. Di conseguenza, il magistrato che aveva convocato una contio, e che quindi la presiedeva, era l’unico ad avere, in linea di principio, diritto ad intervenire in essa, salvo nel caso in cui concedesse la parola ad altri assistenti (contionem dare), sempre secondo la sua volontà17. Isegoría era a Roma un concetto non necessario, ragion per cui in latino non esisteva una parola equivalente. Parlare in una assemblea non era un diritto del popolo, bensì una prerogativa di un magistrato, per cui le fonti non parlano mai di ius contionandi, ma di potestas contionandi18. In cambio, come succedeva nelle aristocrazie a cui si riferisce Polibio, esisteva parrhesía, tanto che non sembra essere esistito nella Roma repubblicana nessun limite nel linguaggio che si poteva usare, nessuna legge antilibello, né castigo per la calunnia: un oratore poteva dire nel suo discorso ciò che aveva voglia di dire, e dunque le invettive e le squalifiche contro uomini pubblici erano abituali, in molte occasioni, senza che fosse necessario produrre per quanto affermato altre prove tranne la auctoritas dell’oratore. Ed è importante non dimenticare quanto detto, in rapporto con il ruolo che il rumor ebbe quale arma politica, posto che, non 15 Cic., rep., I 43. Cf. Cic., off., I 21; II 73. PINA POLO, Contra arma verbis, 17-21. Cf. M. JEHNE, “Rednertätigkeit und Statusdissonanzen in der späten römischen Republik”, in CHR. NEUMEISTER-W. RAECK (eds.), Rede und Redner. Bewertung und Darstellung in den antiken Kulturen, Paderborn 2000, 167-189. 17 PINA POLO, Las contiones, 74-77. 18 Cic., fam., V 2,7; leg.agr., II 91. Al riguardo, vedere PINA POLO, Las contiones, 43-53. 16 146 Francisco Pina Polo essendoci nessun limite legale, chi lanciava un sospetto contro un’altra persona doveva preoccuparsi solo di renderlo sufficientemente verosimile, in modo che fosse credibile, pur essendo falso19. Se libertas fu uno slogan usato da vari politici durante il periodo tardo repubblicano (anche se con diverso significato da Caio Gracco e da Cicerone, per esempio), per tutti loro, sia optimates che populares, era impensabile di includere in essa il diritto egualitario all’uso della parola. Nella Roma repubblicana, l’uso pubblico della parola non fece mai parte della libertas, né era incluso nel ius populi, bensì era un elemento integrante della potestas dei magistrati, ed in generale venne incluso nell’ambito della auctoritas; quindi l’uso della parola era un privilegio della élite. Concretamente, durante la tarda Repubblica conosciamo poco meno di novanta oratori che intervennero in contiones, la stragrande maggioranza mentre svolgevano una magistratura20. Un privatus poteva, comunque, pronunciare un discorso in una contio, ma doveva per questo contare tra i magistrati su un alleato che gli concedesse la parola in una assemblea21, ed un magistrato poteva anche convocare espressamente una persona – magistrato o privatus – a presentarsi dinanzi ad una contio (producere in contionem)22. Conosciamo un totale di ventotto oratori privati. Quasi tutti avevano svolto in precedenza una magistratura ed erano quindi senatori, la maggior parte di essi erano ex-consoli. Molti oratori dinanzi al popolo erano nello stesso tempo sacerdoti, il che indubbiamente riaffermava la loro auctoritas. Nell’elenco degli oratori politici si trovano tutti i principes civitatis: Pompeo, Cesare, Cicerone, Clodio, Ottaviano, Antonio, ecc. La loro apparizione relativamente frequente nelle assemblee popolari si spiega facilmente. Da una parte, il loro desiderio di influire politicamente li obbligava ad assistere personalmente alle assemblee e a parlare dinanzi al popolo per cercare di certificare con la loro eloquenza il loro ruolo di leaders nella res publica. D’altro canto la loro influenza politica ne faceva oratori ambiti da coloro che cercavano appoggio per raggiungere un determinato obiettivo (l’appro19 PINA POLO, Contra arma verbis, 94-113. PINA POLO, Contra arma verbis, 34-38; 178-192. 21 Per esempio Cicerone non ebbe quasi la possibilità di parlare davanti al popolo dopo aver ricoperto il consolato nell’anno 63, perché non occupò più nessuna magistratura. Cicerone, come oratore, nel tempo di cui ci occupiamo fu molto più attivo nel senato e nei tribunali. Ma alcuni dei suoi discorsi in contiones assunsero una notevole importanza. Di ritorno dall’esilio, nel settembre del 57, i consoli gli permisero di pronunciare davanti al popolo il discorso di ringraziamento conosciuto come Post reditum ad Quirites. Pochi mesi prima di morire assassinato, nel contesto della sua furibonda campagna politica contro Marco Antonio, i tribuni della plebe Marco Servilio e Publio Appuleio convocarono per lui due assemblee in cui pronunciò rispettivamente la IV e la VI delle sue Philippicae. Cf. PINA POLO, Contra arma verbis, 38-48. 22 PINA POLO, Las contiones, 77-80; ID., Contra arma verbis, 48-52. 20 I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 147 vazione di una legge, il procedimento giudiziario contro un avversario, ecc). Nel primo caso si trattava di riaffermare la loro fama e la loro auctoritas; nel secondo, erano chiamati alla tribuna degli oratori per la loro popolarità e credibilità. Di conseguenza, le informazioni di cui si dispone corrispondenti al periodo tardo repubblicano indicano che, salvo rare eccezioni, gli oratori davanti al popolo a Roma erano sempre membri dell’élite, magistrati in attivo o ex magistrati, di conseguenza senatori. Questi dati sono estrapolabili ed applicabili, senza variazioni importanti, a tutta l’epoca repubblicana23. Le contiones costituivano, quindi, uno strumento fondamentale di comunicazione nel seno della società romana, ma sempre in una sola direzione, dall’élite verso il popolo24. I limiti stabiliti nell’uso della parola nelle assemblee popolari erano logici in un regime in essenza aristocratico, che non pretese mai di essere una democrazia. La partecipazione realmente permessa alla maggior parte della cittadinanza nella vita pubblica era quella di informarsi su quanto accadeva ed aspirare ad un controllo ristretto degli organi di governo, ma la capacità reale di decisione doveva rimanere nelle mani di una esigua minoranza. Il diverso accesso all’uso della parola nell’Atene democratica e nella Roma repubblicana ebbe il suo riflesso nella diversa topografia dell’oratoria dinanzi al popolo25. Ad Atene, l’oratore parlava en meso, in mezzo ai suoi concittadini, in una posizione inferiore o uguale a quella del pubblico che assisteva all’assemblea. Questo scenario rappresentava l’immagine della pretesa uguaglianza democratica: l’oratore era autorizzato a parlare semplicemente perché era un cittadino e non si poneva al di sopra dei suoi concittadini, bensì tra di loro, ed offriva la sua parola per persuaderli da uguale a uguale. A Roma, invece, l’oratore non si collocava tra il pubblico, ma al di sopra di esso, e si dirigeva al popolo sempre da un luogo elevato, e superiore loco26, o da una tribuna costruita apposta per questi atti pubblici, o, dai podia di diversi tempi27. Il pubblico, formato fondamentalmente da compo23 Vedere la lista di contiones civili dell’epoca repubblicana (in totale 375) in PINA POLO, Las contiones, 244-313. 24 Una visione diversa in MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 119-159, secondo cui la contio offriva la possibilità di una “two-way communication with the leaders of the res publica” (127). 25 PINA POLO, Contra arma verbis, 23-25. 26 Cic., Tusc., I 117: Quae cum ita sint, magna tamen eloquentia est utendum atque ita velut superiore e loco contionandum, ut homines mortem vel optare incipiant vel certe timere desistant. 27 PINA POLO, Las contiones, 182-198; MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 43-60. Su ciò che l’autore chiama templa rostrata, vedere R.B. ULRICH, The Roman Orator and the Sacred Stage: The Roman Templum Rostratum, Bruxelles 1994, specialmente 9-19. 148 Francisco Pina Polo nenti della plebe urbana28, doveva ascoltare i membri dell’aristocrazia che intervenivano nelle assemblee, sempre da una posizione inferiore. Come la collocazione degli spettatori sulla gradinata dei teatri romani codificava strettamente le differenze sociali, così pure la disposizione sotto o sopra delle persone in una contio traduceva la disuguaglianza tipica di un regime aristocratico, mentre aiutava a riaffermare in modo gerarchico la validità del discorso pronunciato dall’alto della tribuna degli oratori. Coloro che avevano diritto a collocarsi nella posizione superiore appartenevano senza eccezione alla élite sociale e si arrogavano il diritto assoluto di parlare e, in ultima istanza, di agire. Gli altri avevano solo il diritto di vedere e di ascoltare, anche se occasionalmente potevano mostrare il loro accordo o disaccordo con applausi o con grida29. In una contio, il dibattito era permesso solamente tra membri della élite sociale e politica, mentre chi assisteva era un semplice spettatore. Non esisteva realmente la possibilità regolamentata che il popolo esprimesse la sua opinione, e quindi la comunicazione era esclusivamente unidirezionale, dall’alto verso il basso. Il dibattito si svolgeva davanti al popolo, ma non con il popolo. Bastino due esempi che confermano quanto detto. Nell’anno 62 a.C., Cesare, che aveva convocato e presiedeva una contio nella sua qualità di pretore, non permise al consolare Catullo di salire sulla tribuna obbligandolo ad intervenire ex inferiore loco30, un gesto chiaramente dispregiativo, che pretendeva ridurre l’effetto che l’intervento di Catullo poteva avere tra gli ascoltatori, o anche invitarlo semplicemente a non intervenire. Nell’anno 138 a.C., l’allora console Scipione Nasica ordinò ai presenti in un’assemblea di fare silenzio, sostenendo di sapere meglio di loro ciò che conveniva al popolo; un comportamento arrogante tipico di chi, essendo massimo magistrato della Repubblica e membro della nobilitas, si considerava superiore31. 28 CHR. MEIER, Res publica amissa. Eine Studie zu Verfassung und Geschichte der späten römischen Republik, Wiesbaden 1980, 114-115, coniò il termine plebs contionalis. Cf. P.J.J. VANDERBROECK, Popular Leadership and Collective Behaviour in the Late Roman Republic (ca.80-50 B.C.), Amsterdam 1987, 86-90; PINA POLO, Contra arma verbis, 127-134; MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 128-136. Contro MOURITSEN, Plebs and Politics, 39-46, secondo cui gli assistenti alle contiones erano soprattutto “respectable boni”: “the Forum belonged to the world of the elite rather than the populace in general. The small crowds gathered for the contiones may typically have been men of substance” (45). Questa tesi sembra contraddire molte descrizioni che gli autori antichi fanno su quanti assistono a queste assemblee. Senza peraltro che ciò necessariamente voglia dire che ci fosse un gruppo stabile di membri della plebe che assistesse a questo tipo di assemblee. 29 Per MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 127, “the right to shout in the contio could even be seen as the mark of freedom itself”. Credo comunque che le grida che a volte proferivano gli assistenti ad una contio devono essere considerati quale ultima risorsa nelle mani della maggioranza della cittadinanza romana per far conoscere il suo punto di vista, anche se in modo irregolare, e spesso violento. 30 Cic., Att., II 24,3. 31 Val.Max., III 7,3: tacete, quaeso, Quirites’, inquit, ‘plus ego enim quam vos quid rei publicae expediat intellego. I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 149 Il rigido sistema di oratori e di pubblico si mantenne, indipendentemente dallo scenario scelto per la celebrazione di una contio. Occasionalmente, queste assemblee venivano celebrate in templi dove c’era uno spazio sufficientemente vasto per poter accogliere un buon numero di persone che si collocavano nella parte inferiore, mentre gli oratori parlavano dall’alto del podio. Così avviene nel tempio di Giove Capitolino, in una occasione in quello di Bellona e, soprattutto in quello dei Castori nel Foro32, dove si celebrarono importanti contiones lungo il I secolo a.C., a volte in un clima di grande violenza. Sono note anche le assemblee celebrate oltre il pomerium dell’Urbs, o nel Campo Marzio, se si trattava di contiones legislative che precedevano il voto in comizi per centurie, o nel Circo Flaminio, quando si voleva che all’assemblea partecipasse qualche personaggio che legalmente non poteva entrare in città, perché dotato di imperium o perché in attesa della concessione di un trionfo. Ma tutti questi furono sempre scenari eccezionali, poiché il luogo abituale da cui un oratore parlava davanti al popolo a Roma erano i Rostra. Collocata di fronte alla Curia, e servendo da punto di incontro tra senatus e populus33, la tribuna di oratori aveva separato lo spazio del Comizio dal Foro in tutta l’epoca repubblicana. Venne sostituita nell’anno 44 a.C. dalla nuova tribuna che Cesare fece costruire all’estremità occidentale del Foro e che Augusto riformò, a cui successivamente si aggiunse la cosidetta Rostra aedis divi Iulii, collocata dinanzi al tempio del divinizzato Cesare, sul lato orientale del Foro. Non si conosce esattamente l’altezza della tribuna repubblicana, ma tenendo conto che quella cesariana-augustea raggiungeva i tre metri e mezzo, si può supporre che disponesse di una piattaforma di questa altezza, o anche maggiore nel caso dei podi dei tempi citati34. Fino alla metà del II secolo, gli oratori si dirigevano ai congregati nel Comizio, guardando verso la Curia; da allora pronunciarono i loro discorsi in direzione del Foro, molto più ampio35. Malgrado la ricostruzione fatta da Coarelli, generalmente accettata anche se insufficientemente provata, il Comizio non sembra aver corrisposto ad uno spazio circolare chiuso con gradinata attorno, come se si trattasse di una zona teatrale36. Al contrario, molto probabilmente si trat32 Cf. ULRICH, The Roman Templum Rostratum, 81-107. MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 54-55: i Rostra costituivano “the point of intersection between Senate and People, the two constituents of the classic formula Senatus Populusque Romanus”. 34 MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 50-51. 35 Cicerone (de amic., 96) e Varrone (r.r., I 2,9) attribuiscono questo cambio di orientamento degli oratori a Caio Licinio Crasso, nell’anno 145 a.C. Plutarco (C.Gr., 5,3), ma lo attribuisce a Caio Gracco nell’anno 123 o 122. L.R. TAYLOR, Roman Voting Assemblies, Ann Arbor, Michigan 1966, 23-25, propose in modo convincente che si trattava di due fatti diversi, il primo riferito ai comitia tributa, il secondo alle contiones. Cf. PINA POLO, Las contiones, 194-196; MOURITSEN, Plebs and Politics, 20 e 24. 36 F. COARELLI, “Il Comizio dalle origini alla fine della Repubblica. Cronologia e topografia”, PP 33 150 Francisco Pina Polo tava di uno spazio aperto senza gradinata37, in cui comunque, così come attestano diverse fonti, soprattutto Cicerone, chi assisteva rimaneva sempre in piedi38. Non c’è indizio certo che il Comizio fosse considerato un templum39, ma esiste la certezza che lo fossero i due edifici emblematici del sistema repubblicano in esso collocati, sia la Curia che i Rostra40. La tribuna di oratori era quindi un luogo sacro, sia per le divinità della religione civica romana in generale, sia per determinati dei connessi alla parola ed alla vita pubblica41. Questo fatto serviva simbolicamente per riaffermare la auctoritas degli oratori che parlavano servendosene, molti di loro inoltre membri di collegi sacerdotali che, come avveniva per l’interpretazione della religione civica romana, erano un monopolio aristocratico42. La tribuna di oratori divenne inoltre nel corso del tempo esponente di episodi rilevanti per la memoria collettiva. Dinanzi ad essa venne affissata una copia su tavole bronzee del primo codice di leggi compilato a Roma, la Legge 32 (1977) 202-207; ID., Il Foro Romano. II. Periodo repubblicano e augusteo, Roma 1985, 12; 19-21. Cf. E. SJÖQVIST, “Pnyx and Comitium”, in G.E. MYLONAS (ed.), Studies presented to D.M. Robinson, Saint Louis, Missouri, 1951, 400-411; J.A. HANSON, Roman Theater-Temples, Princeton 1959, 37-39; C. KRAUSE, “Zur baulichen Gestalt des republikanischen Comitiums”, MDAI(R) 83 (1976) 31-69; ID., “Per una ricostruzione grafica del Comizio”, PP 36 (1981) 71-72; ULRICH, The Roman Templum Rostratum, 80. Per quanto riguarda lo scavo ed i resti archeologici del Comizio, continua ad essere di fondamentale importanza E. GJERSTAD, “Il comizio romano dell’età repubblicana”, Opuscula archaeologica 2 (1941) 97-158. 37 PINA POLO, Las contiones, 191-196. Vedasi ora MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 45-48, che a partire delle sue proprie osservazioni realizzate in situ nel 1995, conclude che non c’è nessun indizio di gradinata che circondava tutta la zona del Comizio partendo dai Rostra: “Decisive is the fact that the bottom courses of a wall defining the northeastern side of ‘Suggesto J’ (*secondo la denominazione di Gjerstad) are actually extant, which shows on E. Gjerstad’s old plan and did not continue around to describe a circle”. Sono decisive al riguardo le nuove ricerche sul Comizio ed i Rostra ad opera di P. CARAFA, Il comizio di Roma dalle origini all’età di Augusto, Roma 1998, specialmente 132-155. La ricostruzione della zona del Comizio proposta dal Carafa non è condivisa da MOURITSEN, Plebs and Politics, 19, che accetta in pieno quella del Coarelli. 38 Cicerone (Flacc., 16; leg.agr. II 13; ecc.) insiste sul fatto che i Romani rimanevano sempre in piedi durante lo svolgimento di una assemblea, mentre i Greci solevano sedersi sulla gradinata dei teatri dove si celebravano le riunioni. Ciò, secondo lui, conduceva loro alla mollezza e li spingeva a prendere decisioni erronee. Cf. PINA POLO, Las contiones, 89-90. 39 PINA POLO, Las contiones, 189-191. COARELLI, “Comizio”, 192-193, e Foro Romano. II, 126129, sostenne che il Comizio era templum dedicato a Vulcano. Nello stesso senso, ULRICH, The Roman Templum Rostratum, 78-79. 40 Curia: Gell., XIV 7,7; Liv., XLI 15,1. Rostra: Liv., II 56,10; III 17,1; VIII 14,12 (Rostraque id templum appellatum); 35,8; Cic., imp.Cn.Pomp., 70; Sest., 90; Vatin., 18; 24 (in rostris, in illo, inquam, augurato templo). 41 Cic., imp.Cn.Pomp., 70: defero testorque omnis deos et eos maxime qui huic loco temploque praesident, qui omnium mentis eorum qui ad rem publicam adeunt maxime perspiciunt… 42 Sulla stretta connessione tra orator, religione e parola, PINA POLO, Contra arma verbis, 19-20. Nel terreno della topografia e dell’architettura, ULRICH, The Roman Templum Rostratum, 18-19. I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 151 delle XII Tavole. Il nome stesso con cui era conosciuta la tribuna, Rostra, derivava dai rostri delle navi anziate catturate nell’anno 338 da Caio Menio e che il vincitore aveva fatto affissare nella parte frontale del suggesto. La tribuna di oratori divenne quindi da allora monumento storico che commemorava l’importante vittoria di Roma sui Latini nel loro processo di espansione nella penisola italica, oltre che un luogo augurato e consacrato alla parola. La tribuna si popolò a partire da questo momento di statue di personaggi illustri, cominciando dal citato Caio Menio e dal suo collega nel consolato nell’anno 338, Lucio Furio Camillo, forse quella del dittatore Marco Furio Camillo, grande vincitore dei Galli e considerato per questo il secondo fondatore dell’Urbs, oltre a rappresentazioni di ambasciatori che erano stati uccisi nel corso delle loro missioni, gli inviati a Fidenae nel 438, Coruncanio in Illiria, e Cneo Octavio a Laodicea nell’anno 16343. I Rostra divennero il luogo più cospicuo della città dove ci si disponeva a ricevere l’omaggio cittadino in forma di memoriale, come dimostra il fatto che, durante il periodo tardo repubblicano, vennero erette sulla tribuna le statue di Silla, Pompeo, Giulio Cesare ed infine di Ottaviano, in questo ultimo caso già nei Rostra cesariani44. L’elenco di statue conosciute si completa con una rappresentazione del satiro Marsia, generalmente vincolato con Liber Pater45. Nella trasformazione dei Rostra in una specie di album di storia della civitas romana46, icona di exempla che lungo la storia di Roma avevano modellato il mos maiorum fondamento dell’Impero, si rafforzava il valore della parola emessa dalla tribuna. I grandi antenati nazionali proteggevano così i politici del momento, segnalando la continuità e l’efficacia di un sistema che legittimava il potere dell’aristocrazia. Questa identificazione dell’aristocrazia romana con la res publica giunge43 M. SEHLMEYER, Stadtrömische Ehrenstatuen der republikanischen Zeit. Historizität und Kontext von Symbolen nobilitären Standesbewusstseins, Stuttgart 1999: 50-51 (Menio e Camillo), 63-66 (statue di ambasciatori); K.-J. HÖLKESKAMP, “Capitol, Comitium und Forum. Öffentliche Räume, sakrale Topographie und Erinnerungslandschaften der römischen Republik”, in S. FALLER (ed.), Studien zu antiken Identitäten, Würzburg 2001, 121-122; MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 48-49; 100. 44 SEHLMEYER, Stadtrömische Ehrenstatuen, 231-234; MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 50; 100-101. 45 SEHLMEYER, Stadtrömische Ehrenstatuen, 106-107; MORSTEIN-MARX, Mass Oratory, 99. 46 In realtà non solo i Rostra, bensì tutta la zona che costituiva il centro civico della Roma repubblicana, formato dal Foro e dal Campidoglio: “The central spaces of the city, in particular the Forum and the Capitol, were a veritable museum of Roman history” (MORSTEIN-MARX, Mass Oratory 92). Cf. HÖLKESKAMP, “Capitol, Comitium und Forum”, 126: “In der Zone um Comitium und rostra überlagerten und verdichteten sich sakrale Landschaft, politische Topographie, Erinnerungs- und Gedächtnisraum – und daher war hier der Ort der höchsten Konzentration der Denkmäler, der dichtesten Vernetzung von Anfang und Grundlegung der Große, Denkmälern der historischen Stadien des Aufbaus und der eigenen gegenwärtigen Arbeit an der Vollendung der Größe”. 152 Francisco Pina Polo va alla sua massima espressione con la sua appropriazione dei Rostra come spazio privato di uso pubblico nei funerali delle grandi famiglie47. Celebrità, popolarità, notorietà, immortalità, erano obiettivi individuali dell’aristocrazia romana, ma non rimanevano pietre miliari isolate nel tempo, poiché i successi di ogni singolo individuo passavano a far parte del patrimonio storico della sua famiglia, e diventavano per accumulazione suo capitale politico. Sull’insieme di antenati illustri si sostentava il prestigio di una determinata famiglia, e la sua mera esistenza legittimava le aspirazioni di governo dei suoi discendenti. Ma in una società come quella romana, sia gerarchica che competitiva, non bastava appartenere ad una famiglia illustre, era anche necessario proclamarlo pubblicamente in modo da raggiungere l’obiettivo desiderato: essere trampolino politico delle nuove generazioni. Per questo l’aristocrazia romana inventò una cerimonia che, a partire dal lutto causato dalla morte di uno dei suoi membri, costituiva un’autentica celebrazione della morte ed una rappresentazione del potere di una classe dirigente che si rivelava tacitamente atemporale. La cerimonia era costituita da due atti pubblici consecutivi ed intimamente connessi tra di loro, la pompa funebris e la laudatio funebris, cioè, rispettivamente, la processione funebre e l’elogio funerario, rituali che conosciamo in modo vivo e straordinariamente plastico grazie a un famoso testo di Polibio48. La descrizione che Polibio fa della pompa funebris impressiona per il suo realismo. Secondo l’autore greco, uomini che somigliavano ai morti per la loro statura ed aspetto generale, si collocavano sui volti le maschere degli antenati49, e si vestivano con le toghe che simboleggiavano il massimo status raggiunto da coloro che rappresentavano, evidenziando così la gerarchia sempre presente nella società romana. Questi “attori” percorrevano il tragitto fino al Foro su carri, accompagnati dai fasci, dalle asce e da tutti quei distintivi che simboleggiavano gli onori che i loro personaggi avevano ottenuto in vita. Tenendo conto che la processione iniziava nella casa familiare, e considerando che la collina del Palatino era nell’epoca repubblicana il luogo 47 E. FLAIG, “Die Pompa Funebris. Adlige Konkurrenz und annalistische Erinnerung in der Römischen Republik”, in O.G. OEXLE (ed.), Memoria als Kultur, Göttingen 1995, 115-148; J. ARCE, Memoria de los antepasados. Puesta en escena y desarrollo del elogio fúnebre romano, Madrid 2000; E. FLAIG, Ritualisierte Politik. Zeichen, Gesten und Herrschaft im Alten Rom, Göttingen 2003, specialmente 49-98; W. BLÖSEL, “Die memoria der gentes als Rückgrat der kollektiven Erinnerung im republikanischen Rom”, in U. EIGLER-U. GOTTER-N. LURAGHI-U. WALTER (edd.), Formen römischer Geschichtsschreibung von den Anfängen bis Livius. Gattungen – Autoren – Kontexte, Darmstadt 2003, 53-72; F. PINA POLO, “La celebración de la muerte como símbolo de poder en la Roma republicana”, in H.-D. HEIMANN-S. KNIPPSCHILD-V. MÍNGUEZ (edd.), Ceremoniales, ritos y representación del poder, Castellón de la Plana 2004, 143-179. 48 Pol., VI 53-55. 49 H.I. FLOWER, Ancestor Masks and Aristocratic Power in Roman Culture, Oxford 1996. I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 153 di residenza delle principali famiglie dell’aristocrazia romana, in generale la pompa funebris attraversava necessariamente il Foro da est ad ovest fino a culminare nei Rostra. Quando si giungeva alla tribuna, dice Polibio, tutti si sedevano in ordine su sedie di avorio, disposti senza dubbio cronologicamente, dal più antico al più moderno, così come avevano sfilato. In testa alla processione andava colui che rappresentava il fondatore della stirpe, seguito in ordine cronologico dai suoi discendenti fino ad arrivare al defunto oggetto del funerale, che chiudeva la sfilata50. Il punto finale della processione, composta dal defunto e dagli antenati, erano i Rostra, dove si procedeva a pronunciare la laudatio funebris51. Ufficialmente, questo atto si svolgeva in una contio52. L’oratore cominciava a commentare i meriti del defunto, il cui cadavere veniva collocato accanto all’oratore nella stessa tribuna. In seguito si procedeva ad elogiare tutti gli antenati presenti, cominciando dal più antico, narrando “i successi e le azioni di ciascuno”. La laudatio continuava così lo stesso ordine cronologico della pompa, con la logica eccezione del fatto che il discorso si centrava all’inizio maggiormente nell’ultimo defunto. Secondo quanto affermato da Polibio53, la laudatio era pronunciata possibilmente da un figlio del defunto, e comunque sempre da un suo parente, e gli esempi che ci offrono le fonti scritte in generale lo confermano. Risulta assai significativo del modo in cui l’aristocrazia romana interpretava il suo rapporto tutelare e di privilegio sull’insieme della comunità il fatto che, durante la cerimonia della pompa funebris seguita dalla laudatio, il centro politico di Roma, l’insieme formato dalla tribuna di oratori, Foro e Comizio, diventava lo scenario di un atto in essenza privato che diventava uno spettacolo pubblico, mentre questo spazio pubblico diventava uno spazio privato. Era come se il centro pubblico per eccellenza della civitas si trasformasse per alcune ore nell’atrio della casa del defunto, mentre l’armadio in cui si conservavano le imagines maiorum si apriva alla contemplazione di tutti i cittadini che lo desideravano, e quegli uomini illustri che venivano rappresentati recuperassero di nuovo vita per mostrare la loro gloria e quella di Roma. La disinvoltura con cui l’aristocrazia si appropriava di questo spazio pubblico per la sua autorappresentazione trova la sua logica continuazione nel modo in cui, attraverso la laudatio, si confondevano la memoria privata e 50 M. BETTINI, Anthropology and Roman Culture. Kinship, Time, Images of the Soul, BaltimoreLondon 1991, 177-178; PINA POLO, “La celebración de la muerte”, 158-159. 51 W. KIERDORF, Laudatio funebris. Interpretationen und Untersuchungen zur Entwicklung der römischen Leichenrede, Meisenheim am Glan 1980. 52 Cic., de orat., II 341; Quint., inst.orat., XI 3,153. Cf. PINA POLO, Las contiones, 179-181. 53 Cf. anche Hier., epist., 60. 154 Francisco Pina Polo la memoria pubblica54. Ciò che si ricordava nell’elogio funerario era ciò che aveva fatto il defunto durante la sua vita e ciò che avevano fatto i suoi antenati prima di lui. L’insieme delle res gestae familiari costituiva una parte della storia di Roma; la somma delle res gestae di tutte le famiglie aristocratiche romane costituiva la totalità della storia di Roma. L’appropriazione della tradizione da parte dell’aristocrazia e l’imposizione di un modello creato dai suoi antenati, hanno uno stretto rapporto con la tacita autoidentificazione dell’aristocrazia romana con la res publica: i suoi membri hanno costruito la sua storia e la sua tradizione, costituiscono il nucleo essenziale dello Stato romano, in ultima istanza loro sono Roma. La celebrazione della morte di un uomo illustre, e con essa di tutti gli illustri antenati, esprime perfettamente questo sentimento55. In questo senso, tutta la cerimonia della celebrazione della morte di un aristocratico a Roma era concepita come un vero e proprio teatro della memoria in cui si intrecciavano attori e personaggi reali, vivi e morti, componendo un dramma collettivo che significava al contempo l’addio al defunto ed il superamento della sua assenza. Il rituale assume un evidente carattere pedagogico poiché gli antenati esibiti nella pompa funebris ed elogiati nella laudatio erano exempla vivi di condotta cittadina per tutto il popolo romano: costituivano la personificazione del mos maiorum, base della grandezza di Roma56. Essendo evidente il carattere pubblicitario che avevano i funerali quale espressione di privilegio sociale dell’aristocrazia, tutto il rituale racchiudeva una componente di celebrazione civica, che dava slancio alla coesione interna dell’insieme della cittadinanza sotto la direzione indiscussa della sua élite. La cerimonia celebrava con solennità la vittoria sulla morte mediante il perdurare nella memoria collettiva, mentre si festeggiava il successo di una famiglia, di una determinata aristocrazia, di un modello di condotta e di un sistema di governo57. Non si trattava di far ritornare in vita gli avi, bensì di 54 D. TIMPE, “Mündlichkeit und Schriftlichkeit als Basis der frührömischen Überlieferung”, in J. UNGERN-STERNBERG-H. REINAU (edd.), Vergangenheit in mündlicher Überlieferung, Stuttgart 1988, 273: “Und so sind auch die publica memoria und die privata memoria aufeinander verwiesen und miteinander verbunden. Wo wir römische Geschichtsüberlieferung verfolgen können, versteht sie sich als Raum der publica memoria, aber ihr Inhalt sind die res gestae der Grossen”. 55 PINA POLO, “La celebración de la muerte”, 169-170. 56 K.-J. HÖLKESKAMP, “Exempla und mos maiorum. Überlegungen zum kollektiven Gedächtnis der Nobilität”, in H.-J. GEHRKE-A. MÖLLER (edd.), Vergangenheit und Lebenswelt, Tübingen 1996, 301-338; A. HALTENHOFF, “Institutionalisierte Geschichten. Wesen und Wirken des literarischen exemplum im alten Rom”, in G. MELVILLE (ed.), Institutionalität und Symbolisierung, Köln-Weimar-Wien 2001, 213-217; F. PINA POLO, “Die nützliche Erinnerung: Geschichtsschreibung, mos maiorum und die römische Identität”, Historia 53 (2004) 147-172. 57 FLAIG, “Die Pompa Funebris” 124: “Die pompa funebris brachte mithin die Ewigkeit (aeternitas) der römischen Ordnung zu feierlicher Darstellung”. VON I Rostra come espressione di potere della aristocrazia romana 155 dimostrare che malgrado l’assenza di uomini così illustri, la Roma gloriosa che avevano costruito perdurava, grazie al loro esempio che continuava a vivere nei loro discendenti, tanto il defunto di cui si piangeva la morte, come il giovane membro della famiglia che pronunciava la laudatio e che rappresentava il futuro. Il messaggio trasmesso al popolo era chiaro: la continuità della Repubblica era assicurata malgrado la morte di un uomo illustre. In definitiva, l’uso pubblico della parola nella Roma repubblicana fu sempre un privilegio dell’aristocrazia. Il funzionamento delle contiones esprimeva il carattere essenzialmente aristocratico della Repubblica romana, come la sua stessa scenografia, in cui la tribuna degli oratori svolgeva un ruolo fondamentale partendo da una prospettiva simbolica ed ideologica. I Rostra, sia per la loro disposizione topografica che per la loro decorazione, diventarono espressione della stretta gerarchia sociale che doveva regnare a Roma, simbolo del potere dell’aristocrazia romana e testimonianza della sua auctoritas, che raggiungeva la sua massima espressione nei funerali pubblici delle grandi famiglie, durante i quali i Rostra diventavano lo scenario in cui si rappresentava un fantastico spettacolo teatrale in cui, mediante l’esibizione delle imagines maiorum e l’uso della parola in una contio celebrata in uno spazio dichiarato sacro (templum), il passato glorioso della comunità si materializzava davanti agli occhi dei cittadini e dava senso al presente. La cerimonia non costituiva la manifestazione pubblica della pietas familiare, deve piuttosto essere considerata soprattutto come un atto di propaganda di una famiglia e di una classe sociale nel suo insieme. Il successo storico della comunità dimostrava, senza ombra di dubbio, l’affidabilità di un determinato modello politico e sociale, basato su un sistema di valori che era definito dal concetto mos maiorum, patrimonio etico dell’aristocrazia, che erigeva se stessa quale modello di condotta per i suoi cittadini. In ultima istanza, il rituale di celebrazione della morte nella Roma repubblicana trasmetteva l’idea che le cose dovevano essere in un determinato modo, perché era stato sempre così a Roma e legittimava le classi dirigenti che avevano tradizionalmente capeggiato lo Stato romano.