UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI VENEZIA
CA’ FOSCARI
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali
Tesi di Laurea in Archeologia Medievale
IL GUERRIERO LONGOBARDO IN ITALIA
Analisi dei dati archeologici inerenti
all’armamento
Relatore:
prof. Sauro Gelichi
Candidato:
Mattia Pizzeghello
matr.813666
Correlatori:
prof. Stefano Gasparri
prof. Claudio Negrelli
Anno Accademico
2009-2010
INDICE
1- Introduzione
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2-Un popolo in armi
2.1- Dalle foci dell'Elba alla Pannonia
2.2- Le guerre in Pannonia e l'ascesa di Alboino
2.3- Le guerre in Italia
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3-Le leggi sulle armi: da Rotari ad Astolfo
3.1- Organizzazione sociale e militare
3.2- L'Editto di Rotari
3.3- Le Leggi di Grimoaldo
3.4- Le Leggi di Liutprando
3.5- Le Leggi di Ratchis
3.6- Le Leggi di Astolfo
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4- L'armamento del guerriero longobardo
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5-La lancia
5.1- Le tipologie principali di cuspide
5.2- Le tipologie particolari di cuspide
5.3- Materiali e tecniche di costruzione
5.4- Tecniche di combattimento
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5.4.1- Il guerriero appiedato / 5.4.2- Il guerriero a cavallo / 5.4.3- La questione della cuspide ad alette
6- La spatha
6.1- Materiali e tecniche di costruzione
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6.1.1- La base di tutto: il ferro / 6.1.2- La fucinatura / 6.1.3- Il ferro carburato: l'acciaio /
6.1.4- La tempra e il rinvenimento / 6.1.5- La damaschinatura / 6.1.6- La scanalatura longitudinale /
6.1.7- Le problematiche più comuni / 6.1.8- Il prodotto finito
6.2- Tipologie particolari: il pomo ad anelli intrecciati
6.3- Elementi correlati: il fodero e la sospensione
6.4- Tecniche di combattimento
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6.4.1-Il guerriero appiedato / 6.4.2- Il guerriero a cavallo
7- La scramasax
7.1- Evoluzione
7.2- Elementi correlati: la cintura multipla
7.3- Tecniche di combattimento
7.3.1- Il guerriero appiedato con scramasax corta / 7.3.2- Il guerriero a cavallo con scramasax lunga
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8- Lo scudo
8.1- Tecniche costruttive ed evoluzione
8.2- Scudo piatto o scudo convesso?
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8.2.1- Lo scudo piatto / 8.2.2- Lo scudo convesso / 8.2.3- La fasciatura su dima /
8.2.4- La tavola unica: piegatura a legno ammorbidito con acqua /
8.2.5- La tavola unica: piegatura a caldo o a vapore
8.3- Il caso italiano: lo scudo da parata
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8.3.1- La triquetra
9- L'ascia
9.1- La francisca
9.2- Le asce longobarde di Benevento: un'analisi
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10- L'arco
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11- L'armatura
11.1- L'elmo
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11.1.1- L'elmo lamellare / 11.1.2- La ricostruzione dell'elmo lamellare di Niederstotzinger,
Heidenheim in Germania
11.2- La corazza
11.3- Le altre protezioni
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11.3.1- Il guanto d'armi
12- Tattica e strategie
12.1- La staffa
12.2- Tecniche ossidionali
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13- Il metallo in Archeologia
13.1- Struttura dei metalli, metallografia e tecniche di indagine
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13.1.1- La struttura interatomica dei metalli / 13.1.2- La struttura cristallina dei metalli /
13.1.3- la struttura cristallina delle leghe / 13.1.4- Meccanismi di deformazione /
13.1.5- Microstruttura di un getto di fusione / 13.1.6 Microstruttura di un metallo lavorato
13.2- L'esame ottico metallografico
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13.2.1- La microscopia metallografica / 13.2.2- La microdurezza / 13.2.3- La campionatura
13.3- Tecniche analitiche composizionali e prove non distruttive
13.4- Corrosione e primo trattamento dei manufatti metallici
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13.4.1- Varietà di corrosione / 13.1.2- Misure di primo trattamento conservativo sullo scavo /
13.4.3- Metodo / 13.4.4- Precauzioni specifiche per diversi metalli
14- Conclusioni
14.1- Il guerriero longobardo di VI secolo
14.2- Il guerriero longobardo di VII secolo
14.3- Il guerriero longobardo di VIII secolo
Bibliografia
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RINGRAZIAMENTI
Giunto finalmente al termine di questo mio percorso di studio, voglio ringraziare innanzitutto la mia
famiglia, che mi è stata vicina, e in particolare mia madre e mio padre che mi hanno sicuramente
permesso di arrivare fino a qui, superando le difficoltà anche economiche; mio fratello, mio cugino
e i miei nonni materni che hanno sempre avuto fiducia in me.
Voglio poi ringraziare Valentina, per avermi sostenuto durante i momenti difficili, ed aver
sopportato le mie lamentele, e la sua famiglia per avermi sempre esortato a continuare nonostante i
periodi intensi e difficili.
Ringrazio il professore Sauro Gelichi, per avermi permesso di svolgere una Tesi di Laurea inerente
all’argomento che più mi sta a cuore, coniugando lo studio con la passione.
In rapida rassegna, poi, ringrazio: tutti i miei amici, e in particolare Bryan, per avermi sempre
spronato; la Dottoressa Elisabetta Docimo e tutti i colleghi del Museo Archeologico del Fiume
Bacchiglione allestito nel Castello di San Martino della Vaneza, senza tralasciare l’ultima castellana
Maria che mi ha sempre sostenuto come una nonna, e Deborah che è sempre stata entusiasta del mio
lavoro.
Ringrazio il Gruppo di Ricostruzione Storica “Suliis As Torc” perché sono come una seconda
famiglia; “A Tears Beyond” per la pazienza portata e la Biblioteca Comunale di Montegalda nella
figura della Dottoressa Ilaria Colasanti per la disponibilità dimostrata.
E infine, ma non ultimo per importanza, un ringraziamento particolare a zia Liliana che mi ha dato
una grande mano a iniziare il mio percorso.
Per non fare torto a nessuno dimenticando qualche nome, ringrazio poi tutti quelli che mi
conoscono e che mi hanno sostenuto.
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1 - INTRODUZIONE
“La Medievistica italiana, salvo eccezioni, continua a considerare
di dubbio gusto occuparsi di guerra con il risultato che,
nel quadro dei nostri studi, la maggior parte di ciò che riguarda
l'organizzazione militare nel medioevo o è convenzionale
e generico oppure ripete schemi storiografici antiquati e di accatto.”
Aldo A. Settia
L'idea e la volontà di scrivere una Tesi di Laurea sull'armamento del guerriero longobardo in Italia,
con preciso riferimento ai dati storici ed archeologici, nasce dall'intento di approfondire un aspettoquello delle armi antiche- che troppo spesso viene relegato a semplice interesse antiquario ma che
risulta molto importante, invece, anche per la gens longobarda, che era fortemente militarizzata, in
sintonia peraltro con il carattere comunque generalizzato e distintivo della società altomedievale.
Le armi antiche, e in questo caso Altomedievali, possono fornire materia di studio preziosa e
completa: un'arma ci può dire come è stata costruita e quindi che livello di conoscenza tecnica
aveva il suo costruttore e se influenzato culturalmente dall'esterno; può darci indizi sul suo uso, e
quindi da chi, come e perchè poteva venire usata; può darci indizi sull'evoluzione dei metodi di
combattimento, e quindi delle strategie di guerra; può fornirci preziose informazioni riguardo gli
aspetti sociali e culturali dell'individuo che la portava.
La guerra, inoltre, è fenomeno omni-presente nella storia dell'essere umano, che in varia misura e in
varie epoche riguarda l'aspetto politico, economico, sociale, culturale, tecnico, morale e psicologico
(Settia, 2006): per studiare una qualsiasi cultura in una qualsiasi epoca storica e cercare di
ricostruirne al completo gli aspetti materiali bisognerebbe pertanto tenerne conto.
Questo lavoro, quindi, vuole presentare la figura del guerriero longobardo in relazione ai reperti
archeologici e alle fonti storiche, ma vuole anche analizzare le singole armi anche con l'ausilio,
laddove possibile, di piccole sperimentazioni che siano in grado di offrire un qualcosa in più del
semplice “elenco” riguardante una panoplia, in modo da avanzare ipotesi sulla possibile
fabbricazione, sui metodi e sugli usi e le tecniche di combattimento; ipotesi che cercherebbero di
spiegare scelte operate sui materiali e sulle evoluzioni stesse delle armi Longobarde.
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2 - UN POPOLO IN ARMI
Contra Langobardus paucitas nobilitat:
plurimis ac valentissimis nationibus cincti non per
obsequium, sed proeliis et periclando tuti sun.
Al contrario, la nobiltà dei Longobardi dipende
dal loro esiguo numero: circondati da numerose
genti valorosissime, si tutelano non con la
sottomissione, ma con aggressioni armate.
Tacito, Germania, 40, I
Quando nel 568 d.C. il Re Alboino si apprestava a salire quello che venne in seguito chiamato
Monte del Re (Paolo Diacono, Hist. Lang.,II,8) per contemplare il suolo italico che si accingeva a
conquistare, dietro di lui stava un popolo che si preparava ad affrontare i due secoli di regno più
importanti della sua storia, arrestando finalmente quel viaggio, misto di realtà e leggenda, che lo
aveva portato dall'estremo Nord-Europa fino ai confini alpini della penisola italica.
La storia dei Longobardi fino alla loro entrata in Italia è una storia di una migrazione, segnata in
larga misura da fatti d'armi più o meno reali, che segue un percorso leggendario dalla Scandinavia
alla Pannonia (l'attuale Ungheria). Proprio da questa terra, lasciandosi alle spalle il popolo dei
Gepidi sconfitto, i Longobardi si mossero verso la penisola Italica dando inizio ad un regno
costellato anch'esso da fatti d'armi più o meno importanti.
Erano, come tutte le società germaniche, innanzitutto un “popolo in armi”, con un codice culturale
assai lontano da quello della civiltà latina: guidati da un'aristocrazia guerriera e da un re
comandante dell'esercito, trovavano fondamento e legittimità nell'attività della guerra (Montanari,
2005).
Le cronache li descrivono come formidabili guerrieri che, dalla loro mitica partenza dalla
Scandinavia, dovettero affrontare nemici agguerriti e sempre più numerosi di loro.
Nel V secolo divennero federati di Bisanzio, che ne apprezzava l'abilità guerriera: si distinsero per
ferocia in Italia combattendo contro i Goti a fianco dell'esercito imperiale.
Quando invasero l'Italia, il loro ordinamento interno era quello di un esercito, tanto è vero che gli
studiosi hanno definito il popolo longobardo proprio come un “popolo-esercito” (La Rocca in
Moro, 2004), che se al momento dell'arrivo incontrò ben poca resistenza da parte bizantina, dovette
successivamente intraprendere azioni di guerra per espandere e mantenere i territori conquistati.
Di seguito quindi si cercherà di esporre un quadro degli eventi bellici a loro collegati in diversa
misura, dalle prime attestazioni storiche della loro presenza come combattenti agli ultimi scontri
presso le Chiuse di San Michele e alla Livenza, che determineranno il totale assorbimento del regno
Longobardo nel Regno Carolingio.
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2.1- Dalle Foci dell'Elba alla Pannonia
“Per la più remota storia dei longobardi le fonti più attendibili sono quelle classiche di Strabone
(Geografia), Tacito (Germania, Annales) e Velleio Patercolo (Historiae romanae ad M. Vinicium
libri), unite a quelle bizantine di Iordanes (De origine actibusbue Getarum) e di Procopio di
Cesarea (De Bello Gothico), ma vi è un'estesa lacuna dall'inizio dell'età imperiale fino alla fine del
V secolo per la quale non vi sono altri riferimenti che le confuse indicazioni di tempo e di luogo
delle fonti longobarde: queste sono l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono, scritta attorno al
780; l'Historia Langobardorum Codicis Gothani, del IX secolo e l'Origo Gentis Langobardorum,
sunto delle più antiche vicende tramandata da un codice di Madrid dell'XI secolo. Qualche dettaglio
si ricava anche dalle fonti merovingie, come la Cronaca di Fredegario, i nove libri della Historia
Francorum di Gregorio di Tours e la Chronica di Mario Aveticense” (Melucco Vaccaro, 1982).
La fonte tradizionalmente ritenuta di maggior importanza per il popolo longobardo rimane
l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono, ma è bene ricordare che è stato più volte ribadito
(Klebel, 1943/ Werner, 1962) che le narrazioni dell'Historia, dell'Origo e del Codex Gothanus
riguardanti le migrazioni nel centro-Europa sono intrise di leggenda e tali devono rimanere.
I Longobardi in Europa
Fonte: Mish, Paroli, 1979
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Il primo evento bellico di cui si ha notizia è ricordato nell' Historia Langobardorum e vede i
Longobardi scontrarsi con i Vandali in una terra chiamata Scoringia, da alcuni identificabile con la
costa baltica tra Kiel e Lubecca, da altri con una zona tra la Vistola e l'Elba. Paolo Diacono, proprio
in occasione di questi scontri, inserisce un evento che si rifà all'origine divina del nome Longobardi,
per il quale il popolo, che prima si chiamava dei Winnili, chiede alla dea Freja (Frea) moglie di
Wotan(Gotan) di assicurare loro la vittoria contro i Vandali. Wotan, scorgendo i Winnili posizionati
a Ovest con le lunghe barbe intrecciate ai capelli, avrebbe esclamato “ Qui sunt isti Langobardi” et
dixit Frea ad Gotan: “Domine, sicut dedisti nomen, da illis et victoriam” (Origo, II; Paolo
Diacono, Hist.Lang., I).
Considerando che la leggenda permea tutta la storia longobarda più antica, non è da escludere che
il testo di Paolo, relativo allo scontro con i Vandali, sia da considerarsi mezzo per dare spunto
all'inserzione dell'origine del nome Longobardi.
Lasciando la leggenda ed analizzando gli scritti degli storici antichi, all'inizio dell'età imperiale
troviamo i Longobardi stanziati all'estremo corso dell'Elba, presso la foce: la notizia di Strabone,
che li vuole situati ai due lati del fiume e quindi sotto la penisola dello Jutland (Geo., VII,1,3, anni
29-7 a.C.), è confermata da Velleio Patercolo (Hist. Rom.,II,106) a proposito della campagna
germanica di Tiberio del 4-5 d.C e da Tacito (Ann.,II, 63; Germ.,41 circa 17 d.C.) (Melucco
Vaccaro, 1982).
Sarebbe da datare al V secolo il secondo scontro di cui si ha notizia riguardante i Longobardi contro
i Bulgari, identificati come Unni, basato però sulla sola testimonianza di Paolo Diacono e non
ubicabile geograficamente in quanto la zona di stanziamento dei Longobardi in questo periodo è
ancora incerta.
Nel 489 li sappiamo stanziati nel Rugiland dopo che Odoacre, insediato in Italia, con due
campagne militari aveva annientato la popolazione dei Rugi che, con mire espansionistiche, puntava
ad estendersi a sud nel Norico ancora romano (Proc.,Bell.Goth.,VI,4). Da questa data, i Longobardi
entrano più direttamente nella sfera di Costantinopoli e durante il regno di Giustiniano (ma già forse
con Anastasio, 419-518) si stabiliscono rapporti di alleanza.
Nel 539, agli inizi della guerra greco-gotica, mentre i Franchi invadono l'Italia Settentrionale, Vitige
chiede aiuto militare ai Longobardi, ma Re Waco lo rifiuta “essendo amico e alleato
dell'imperatore” (Proc.,Bell.Goth.,VI,22). Verosimilmente in un momento della stessa guerra,
Giustiniano, per garantirsi la fedeltà dei Longobardi, dona loro alcune città nel Norico, diversi
castelli della Pannonia e altri territori, insieme a forti somme di denaro. (Proc.,Bell.Goth., III, 33).
Ad avvalorare la veridicità di questi episodi sappiamo che sotto la sovranità di Re Wachone (510540c.a.) il regno Longobardo si estendeva dall'attuale Austria Meridionale verso significative aree
dell'antica provincia della Pannonia, naturalmente fin dove lo permettevano gli Ostrogoti, che
dall'Italia controllavano il sud della stessa Pannonia e il Norico. Il problema, per i Longobardi,
derivava dal fatto che nella zona orientale del bacino carpatico esisteva, dalla caduta di Attila, il
regno dei Gepidi che, dal 535, una volta decaduta la potenza Ostrogota per opera di Giustiniano,
occupavano l'antica città pannonica di Sirmio sulla bassa Sava (Pohl in Moro,2004). Nella stessa
epoca troviamo, quindi, l'espansione di due regni: i Longobardi da una parte e i Gepidi dall'altra; in
questa circostanza i conflitti bellici sarebbero stati inevitabili.
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Le provincie danubiane
Fonte: Werner, 1962
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2.2- Le guerre in Pannonia e l'ascesa di Alboino
Intorno al 550 il re longobardo Audoino condusse 3 guerre contro i Gepidi di Pannonia nel giro di
pochi anni, guerre che terminarono nel 552 con la vittoria longobarda.
Il periodo è lo stesso in cui in Italia Narsete, comandante bizantino, aiutato da contingenti
longobardi, porta a termine la sua vittoria decisiva sul re ostrogoto Totila. E' evidente che i rapporti
di alleanza tra Longobardi e Bizantini sono ancora saldi.
La narrazione di Paolo Diacono, da questo momento in poi, inizia a coincidere con fatti d'armi
sempre più frequenti, che da principio hanno il preciso intento di elevare le gesta del re Alboino,
che porterà il suo popolo in Italia.
Durante le guerre condotte da Audoino contro i Gepidi, il fatto d'armi principale riguarda la grande
battaglia sull' Asfeld, nella quale comparve per la prima volta il figlio del re longobardo, Alboino,
che uccise il figlio del re gepido Turisindo.
Questo è il contesto che da modo a Paolo Diacono di narrare la prima leggenda su Alboino ma che
ci fa conoscere, al di là della puro fatto narrato, un rituale che doveva essere caratteristico delle
culture di influenza germanica, praticato si dai Longobardi ma assecondato, e quindi accettato e
praticato, anche dai Gepidi.
Narra l'Historia Langobardorum che tra i Longobardi vigeva la regola, ancestrale, secondo la quale
il figlio del re non poteva sedersi a tavola con il padre finchè non avesse ricevuto le armi da un re
straniero. Regola che resta più importante perfino di un'azione bellica degna di lode, dato che
Audoino nega al figlio di sedersi a tavolo con lui, nonostante abbia ucciso il figlio del re nemico.
Un rituale, quindi, basato sulla consegna delle armi che conferma il loro valore sacrale e di
legittimazione militare presente nella cultura germanica: “Sempre armati si dedicano ad ogni
attività, di carattere sia pubblico che privato. Ma è loro consuetudine non rivestire le armi prima
di esserne stati ritenuti degni dalla comunità intera.”(Tacito, Germ.,13, I).
Alboino si avventurò quindi nella tana del lupo per farsi accettare dal re Gepido come figlio d'armi,
azione che probabilmente era considerata anche alla stregua di un gesto di pace, e alla corte gepida
ricevette, come posizione d'onore, il posto del figlio del re che egli stesso aveva ucciso. Turisindo,
re gepido, osservò questo fatto con tristezza: “il posto mi è caro”disse “ma non colui che vi siede” e
dopo alcuni battibecchi la questione terminò. Dopo che si era bevuto del vino, però, scoppiò
nuovamente il disaccordo: i Gepidi si presero gioco dell'usanza longobarda di legare i polpacci con
fasce chiare, che ai loro occhi li facevano assomigliare a delle cavalle pezzate. Al che Alboino
rispose che sull'Asfeld tutti avevano potuto vedere con quanta forza quelle cavalle avevano
scalciato sui Gepidi. Si era già messo mano alle spade quando Turisindo si rammentò dell'ospitalità
e del rituale da compiere, fermando la rissa. Quando Alboino infine tornò a casa vittorioso, i
Longobardi si stupirono del suo valore ma anche della lealtà di Turisindo (Pohl in Moro, 2004).
La narrazione paolina prosegue fino ad arrivare a un nuovo fatto bellico tra Longobardi e Gepidi,
tredici anni dopo la Battaglia dell'Asfeld, quando Alboino stesso era divenuto re e Cunimondo,
forse il fratello di Torrismondo figlio di Turisindo, regnava sui Gepidi.
Questa volta la guerra arrivò alle conseguenze estreme in due scontri armati, nel 565 e nel 567.
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L'Italia all'inizio delle conquiste longobarde
Fonte: Moro, 2004
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Sappiamo che entrambe le parti armate cercarono alleati in tutti i modi: Bisanzio si tenne fuori ma
Alboino, a differenza di Cunimondo, riuscì ad avere il supporto dei cavalieri della steppa Avari che
da pochi anni erano apparsi nel basso Danubio- e che con tutta probabilità influenzeranno
l'armamento e lo stile di combattimento longobardo.
Proprio da questo aiuto, deriverebbe uno dei motivi fondamentali dell'abbandono della Pannonia
nonostante la vittoria sui Gepidi: a quanto pare Alboino dovette consegnare, in cambio del sostegno
militare, un decimo di tutto il bestiame longobardo nonché l'intero territorio dei Gepidi.
Cunimondo, messo alle strette, crollò già nel 567 alla prima battaglia contro i Longobardi, senza
intervento degli Avari (Pohl in Moro,2004). Paolo Diacono rende al massimo l'esito dello scontro:
“la Nazione dei Gepidi fu così decimata che da allora non ebbe più re ma tutti quelli che erano
riusciti a scampare alla guerra o furono assoggettati ai Longobardi o, fino ad oggi, gemono sotto il
duro impero degli Unni [Avari] che possiedono la loro terra.” (Paolo Diacono, Hist. Lang., 1,24)
2.3- Le guerre in Italia
Già l'anno successivo della sconfitta dei Gepidi, i Longobardi partirono per l'Italia guidati da
Alboino con un esercito enorme, nel quale erano presenti anche Gepidi, Svevi, Bulgari, Sassoni così
come provinciali pannonici e norici. La spedizione, così come vuole la tradizione, si mise in moto a
Pasqua del 568 con alcune decine di migliaia, forse persino centomila, tra uomini donne e bambini
(Pohl in Moro,2004).
All'arrivo di Alboino che dalla Pannonia, attraversando Emona era giunto a Cividale, la prima
sorpresa per i Longobardi, che si attendevano una resistenza bizantina, fu invece l'assenza di
qualunque iniziativa imperiale. In realtà, sconfiggendo i Goti, i Bizantini avevano privato l'Italia
dell'unico apparato militare in grado di difenderla (Melucco Vaccaro, 1982). La prima fase
dell'espansione avviene dunque “sine aliquo obstaculo” (Paolo Diacono,Hist.Lang.,II,9) e coincide
con tutto il periodo del regno di Alboino: a partire dal 569 vengono conquistati i territori di
Cividale, Aquileia, Treviso, Vicenza, Verona; quindi Trento, Bergamo, Brescia e Milano. I
Longobardi dilagarono poi nell'Italia centrale percorrendo vie interne e rinunciando alla conquista
dei porti e delle zone costiere, fino alla Toscana e all'Umbria (a eccezione di Perugia e Orvieto). Da
qui passarono poi nelle Marche e nell'Abruzzo fino al Sannio; a Benevento, nel 570, venne posta la
sede del ducato meridionale (Melucco Vaccaro, 1982). Nello stesso anno vennero occupate Parma,
Modena, Bologna e Imola. L'unica resistenza fu opposta da Pavia, che capitolò nel 572 dopo un
lungo assedio. In quello stesso anno Alboino muore e viene eletto Clefi, che regnerà fino al 574,
quando anche lui verrà ucciso. Dopo Clefi inizieranno 10 anni di anarchia, durante i quali il potere
del regno longobardo sarà spartito tra i duchi.
In questo periodo di tempo, nel 579 e nel 580, abbiamo l'occupazione di Classe, porto di Ravenna, e
di Perugia ad opera del duca di Benevento Faroaldo.
Con l'elezione nel 584 di Autari, figlio di Clefi, come nuovo re del regno longobardo si apre il
periodo delle guerre sul suolo italiano, conflitti finalizzati ad espandere e proteggere i territori
posseduti.
Appena eletto, Autari sottomette l'Istria e respinge i Franchi intervenuti in Italia spinti da Bisanzio,
che vuole riprendersi i territori perduti.
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L'Italia alla fine del VII secolo.
Fonte: Moro, 2004
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Nel 588 il porto di Classe viene sottratto dall'Esarca ai Longobardi, che però conquistano l'Isola
Comacina.
Nel 591 Agilulfo sale al trono legittimato dal fatto di aver sposato la regina Teodolinda, moglie di
re Autari defunto l'anno prima.
Tra 592 e 593 Agilulfo si vede impegnato nella riconquista di Perugia, nel frattempo sottratta
dall'Esarcato, e nelle guerre a Ravenna, Napoli e Roma, aiutato da Arichis duca di Benevento e
Ariulfo duca di Spoleto. Todi, Orte e Sutri vengono riprese dall'Esarcato nel 592, mentre l'anno
successivo Perugia è di nuovo in mano longobarda. In questo stesso, anno il re è costretto ad una
tregua con i Romani, dietro pagamento di un tributo annuo, in seguito alla sollevazione dei duchi di
Verona, Bergamo e Pavia; tregua che porterà ad una prima pace con i Bizantini nel 598.
I primissimi anni del nuovo secolo (601-602) vedono la conquista e la distruzione di Padova e
l'occupazione di Monselice, Cremona e Mantova. Questi saranno gli ultimi fatti bellici degni di nota
fino all'elezione di re Rotari nel 636. Nel 604, infatti, viene stipulato un trattato di pace con i
Franchi e l'anno successivo con l'Esarca di Ravenna.
Nel 641, con il re Rotari, riprendono per un breve periodo le ostilità: vengono conquistate la
Liguria, la Lunigiana e la città di Oderzo. Alla sua morte (652) viene eletto re Ariperto I, duca di
Asti, dopo un breve periodo di regno del figlio di Rotari, Rodoaldo. Sotto il suo regno, i Longobardi
si convertono ufficialmente al cattolicesimo.
Il 661 vede la divisione del regno Longobardo fra i figli di Ariperto, Pertarito e Godeperto,
quest'ultimo ucciso da Grimoaldo, duca di Benevento, che diventa re deponendo anche Pertarito.
Nel 662 Grimoaldo costringe alla ritirata i Bizantini che avevano assalito il ducato di Spoleto; nel
667 distrugge Oderzo e quattro anni più tardi occupa Forlimpopoli, massacrandone gli abitanti.
Alla morte di Grimoaldo, nel 671, viene ristabilito Pertarito che combatte contro il duca di Trento
Alhais, il quale riesce ad ottenere anche il ducato di Brescia.
Cuniperto subentra al trono nel 688 e cinque anni dopo sopprime nel sangue una nuova ribellione
del duca Alhais, uccidendolo durante la battaglia di Coronate d'Adda (693): questo sarà l'ultimo
fatto d'armi degno di nota fino all'elezione di Liutprando nel 712.
Il 727 vede l'invasione longobarda dell'Esarcato, della Pentapoli e di Sutri; l'anno successivo il re
riduce all'obbedienza i duchi di Spoleto e Benevento, tentando inoltre di penetrare nel ducato
romano ma abbandonando l'impresa.
Nel 738 Liutprando respinge gli Arabi, che si erano spinti fino in Provenza, e l'anno successivo
occupa Ravenna e assedia Roma. Cinque anni dopo stipula un trattato di pace ventennale con il
Papa Zaccaria.
La morte di Liutprando (744) vede l'ascesa di Ratchis, duca del Friuli, e successivamente Astolfo
che nel 750 emana le Leggi Militari e nel 751 espugna Ravenna e conquista definitivamente
l'Esarcato. Infrangendo il trattato di pace, arriva a minacciare Roma( 752), dopo aver occupato
l'Istria e la Pentapoli e aver esteso la sua giurisdizione sui ducati di Spoleto e Benevento.
I Franchi di Pipino il Breve, chiamati in Italia dal Papa in seguito alla minaccia di Astolfo,
assediano i Longobardi in Pavia (754) costringendoli a cedere alla Chiesa di Roma le terre sottratte
ai Bizantini.
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L'Italia sotto il regno di Astolfo (749-756).
Fonte: Moro, 2004
12
Nel 756 Astolfo muore e viene eletto re Desiderio, che associa al trono il figlio Adelchi e nel 772
organizza una spedizione contro Roma, che non viene effettuata per le minacce del Papa.
Il biennio 773-774 vede la caduta definitiva del Regno Longobardo in Italia: Carlo Magno
sconfigge i Longobardi alle Chiuse di San Michele in Val di Susa e assedia Pavia. Desiderio viene
deportato in Francia e Adelchi fugge a Costantinopoli, mentre Carlo Magno assume il titolo di re
dei Franchi e dei Longobardi.
L'ultimo atto bellico di cui si ha notizia, tramandato però da Andrea da Bergamo e dalle cronache
carolingie, riguarda la sollevazione dei Longobardi del Nord-est nel 776: Rotcauso, duca del Friuli e
capo dei ribelli Longobardi, sarebbe stato sconfitto da Carlo Magno alla battaglia sul fiume
Livenza, sebbene l'autore bergamasco riconosca invece un'effettiva vittoria longobarda sui Franchi,
mascherata però da una sottomissione di convenienza dei primi nei confronti dei secondi.
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3- LE LEGGI SULLE ARMI: DA ROTARI AD ASTOLFO
La cultura longobarda era, come tutte le culture dei popoli germanici, una cultura orale, almeno
fino all'assimilazione con il mondo romano.
Le gentes germaniche infatti, dopo la loro penetrazione nelle antiche province dell'impero romano,
andarono incontro ad un'assimilazione più o meno rapida che si completò nel giro di poche
generazioni con la loro acculturazione: nella Spagna o nella Gallia meridionale visigota, nella Gallia
franca e burgunda o nella stessa Italia longobarda, il risultato finale, pur tra mille sfumature locali,
fu il medesimo. La società e la cultura germanica di stampo “tribale” si dissolse sotto l'urto di una
società e di una cultura, come quella romana, ben più complessa, che aveva al suo arco alcune
frecce formidabili come la città, la scrittura e il cristianesimo. E la prima responsabile del
superamento di questo stadio “tribale” da parte delle popolazioni germaniche, stanziate nei paesi
mediterranei e in Gallia, fu la cultura scritta di matrice romano-cristiana.
La tradizione longobarda, quindi, proprio nel momento del suo passaggio dall'oralità alla scrittura,
da una parte perse il dinamismo originario di quella cultura destinata, una volta consegnata alle
regole dello scritto, a mutare profondamente i suoi caratteri originari; dall'altra creò le condizioni
per una forma, sia pure parziale e distorta, di conservazione di contenuti antichissimi (Gasparri,
Azzara, 2005).
Un tale passaggio avviene nel corso del VII secolo con l'Editto di Rotari che, nella sua complessità,
si rivela ben più di una semplice raccolta di una serie di norme penali, radunando infatti la somma
di quelle consuetudini che tutte insieme costituivano le regole generali di vita della gens
Langobardorum. Si trattava di regole solenni, la cui validità era garantita dalla loro antichità e dal
loro sposarsi con una cornice storico-mitica che era quella fornita dal prologo, sia da quello di
Rotari sia da quello successivo.
Dopo Rotari, avvalendosi della possibilità di fare aggiunte all'Editto, prevista nello stesso alla legge
386, il Re Grimoaldo ampliò il corpus normativo così come, dopo di lui, Liutprando, Ratchis,
Astolfo e i principi di Benevento, Arechi II e Adelchi che però non fanno menzione alcuna all'uso
delle armi, aspetto che qui più interessa.
Obbiettivo di questo capitolo è quello di ricercare, in questo corpus, le leggi che in qualche modo si
ricollegano all'uso delle armi e a tutto quello inerente ad esse, per cercare di analizzare l'aspetto
bellico anche e soprattutto in riguardo alla sua ufficializzazione a livello regio e quindi statale.
Per fare questo è opportuno soffermarsi innanzitutto sulla complessa organizzazione sociale e
militare longobarda.
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3.1- Organizzazione sociale e militare
Già durante la loro permanenza in Pannonia, i Longobardi avevano maturato una distinzione ed una
stratificazione sociale, rilevata peraltro dagli archeologi ungheresi nell'analisi delle sepolture: le
tombe maschili infatti presentano delle costanti nel tipo e nell'associazione delle armi, che hanno
permesso di operare una classificazione (Bona, 1974):
1. Tombe contenenti tutte le varietà di armi, decorate con metalli preziosi e abbiante ad oggetti
di corredo e di abbigliamento della più grande varietà e ricchezza
2. Tombe con spada, lancia e scudo
3. Tombe con sola lancia
4. Tombe con arco e frecce
5. Tombe senza armi
L'interpretazione di queste differenze rappresenta, comunque, uno dei nodi problematici di
maggiore difficoltà: è certo che esse rispecchiano distinzioni tra i liberi longobardi caratterizzati dal
possesso delle armi, ma resta difficile metterle in relazione con ruoli e gerarchie su cui le fonti ci
danno confuse indicazioni (Melucco Vaccaro, 1982)
La concezione dello stato dei Longobardi al loro arrivo in Italia, era inizialmente ancora legata alla
loro antica condizione di popolo nomade, quindi non era vincolata al possesso di un territorio e
all'insediamento in una determinata zona: il concetto di “patria” non esisteva.
L'unità era rappresentata dalla stirpe e dalla collettività degli appartenenti a questa, che erano legati
fra loro da legami di sangue , da parentele e dalle consuetudini nazionali che il popolo portava con
se ovunque andasse, e che si tramandavano oralmente di padre in figlio.
Quando il re Rotari nel 643 quindi promulgò l'Editto non fece altro che codificare e mettere per
iscritto queste consuetudini, con alcune aggiunte dettate dalla nuova situazione stanziale del popolo.
Editto rivolto solo alla gens Langobardorum: i Romani ne erano esclusi perchè non facenti parte del
popolo longobardo e, soprattutto, della forza militare.
I Longobardi, infatti, per identificare loro stessi, e quindi il popolo, spesso utilizzavano il termine
exercitus e da ciò si evince che, considerandosi un esercito a tutti gli effetti, le gerarchie e gli
incarichi erano ricoperti dagli stessi “militari” che prima di tutto erano uomini liberi.
Dal punto di vista sociale, infatti, lo “stato” longobardo prevedeva tre classi:
Arimanni: ovvero gli uomini liberi, che rappresentavano il popolo vero e proprio e avevano
il diritto di portare le armi e far parte dell'esercito. L'esercizio delle armi era quindi la
fondamentale condizione della propria libertà personale almeno fino a Liutprando che,
aggiornando l'Editto, concesse diritti giuridici e politici anche ad individui non vincolati
all'uso delle armi.
Aldii: ovvero i “semi-liberi”, soggetti privi di diritti politici e non facenti parte dell'esercito.
Si trattava solitamente di nemici o estranei aggregati al popolo longobardo, o coloni che
vivevano su terra avuta in concessione e a cui erano vincolati con le famiglie.
Servi: che era l'ultima classe sociale, rappresentata da uomini che non avevano alcun diritto
e alcuna capacità giuridica. Venivano considerati come merce, per cui potevano essere
comprati, venduti, scambiati, pignorati.
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A capo del popolo vi era il re e poiché il popolo era l'esercito, il re era anche il comandante supremo
dell'esercito.
Man mano che i Longobardi si fermavano e si stabilizzavano nei luoghi che sarebbero diventati poi
la loro sede definitiva, la loro struttura si “solidificava” e si affermava territorializzando le gerarchie
militari: i vari comandanti, pur mantenendo le loro funzioni militari, ricevevano dal re dei territori
da controllare, assumendo anche funzioni amministrative e giuridiche.
I duchi, duces, erano dopo il re i comandanti militari più elevati e venivano messi a capo di
circoscrizioni molto estese su cui irradiarono il potere, risiedendo molto spesso in una città
chiamata ducato.
A sua volta il territorio soggetto al ducato veniva diviso in sculdascie, che erano circoscrizioni
minori e che prendevano il nome dagli sculdasci (sculdahis), una sorta di ufficiali superiori che
dipendevano direttamente dal duca.
Al di sotto vi erano ancora i decani, probabilmente all'origine comandanti di unità minori a base
decimale (decanie), e i saltari, evidente derivazioni da saltus, inteso forse come una sorte di custode
dei boschi, con compiti di polizia campestre.
Spesso troviamo poi, a fianco del re o più spesso del duca, un funzionario che aveva solo compiti
amministrativi e non aveva nulla a che fare con l'esercito: il gastaldo.
Costui era nominato direttamente dal re e aveva il compito di rappresentare i suoi interessi nei
ducati, di amministrare i beni della corona sparsi nel regno e, in molti casi, controllare i duchi che
avevano velleità autonomistiche troppo marcate.
RE
Gastaldo
Gastaldo
SCULDASCIO SCULDASCIO
DECANO
DECANO
DECANO
Gastaldo
DUCA
DUCA
DECANO
SCULDASCIO
DECANO
DECANO
DUCA
SCULDASCIO
DECANO
DECANO
SCULDASCIO
SCULDASCIO
DECANO
DECANO
DECANO
DECANO
Schematizzazione della scala gerarchica delle autorità longobarde
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REGNO LONGOBARDO: con a capo il re
DUCATO: con a capo il duca, assistito dal gastaldo
SCULDASCIA: con a capo lo scudlascio
DECANIA: con a capo il decano
Schematizzazione della probabile divisione territoriale del regno longobardo
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3.2- L'Editto di Rotari
L'Editto di Rotari, promulgato nel 643, si proponeva come la raccolta meditata di tutto un
patrimonio normativo consuetudinario, trasmesso oralmente, che veniva per la prima volta fissato in
un testo scritto. Ma non tutte le consuetudini o, con parola longobarda cawarfide, penetrano nella
codificazione: molte di esse continuano ad avere propria vita al di fuori dell'Editto, conservando
inalterato il proprio valore. Le testimonianze in tal senso non mancano: le leggi 73, 77 e 173 di
Liutprando, ad esempio, confermano l'esistenza in pieno VIII secolo di antiche cawarfide che si è
continuato ad osservare in relazione a determinati negozi giuridici, e che solo a quell'epoca il
legislatore ritiene di dover inserire nel codice scritto, probabilmente per dar loro maggiore certezza
d'applicazione (Gasparri, Azzara, 2005).
E' forse per questo che l'Editto di Rotari presenta scarsissime se non nulle menzioni alle armi e a
tutto quello ad esse collegato, dalle norme sul possedimento a quello sul reclutamento dell'esercito.
Di seguito si riporteranno, quindi, le leggi che in un qualche modo si ricollegano ad un fattore
bellico o che menzionano l'uso o il possesso di un'arma, analizzandole e cercando di darne un
'interpretazione
Legge 7: “Se qualcuno, combattendo contro il nemico, abbandona il proprio compagno o
commette astalin (cioè lo tradisce) e non combatte insieme a lui, la sua vita sia messa in pericolo”
E' evidente che si esalta il valore del combattimento di gruppo, per fare. La fara infatti era il nucleo
gentilizio armato, l'aggregato familiare o plurifamiliare che basava la propria compattezza sul
legame di parentela e di sangue. Questo modo di combattere era tipico di tutti i Germani, come
peraltro ricorda Tacito: “...una delle principali sollecitazioni al valore è rappresentata dal fatto che
non è la sorte , né una casuale aggregazione a formare la torma o il cuneo (particolare formazione
di guerra), ma i legami familiari. (Tacito, Germ., 7,2). Degna di nota è anche l'interpretazione che
ne da Bognetti (Bognetti, 1957) che rimanda ad una regola di comportamento militare bizantino ed
in particolare a Modestino e Menandro.
Legge 20: “Se un exercitales rifiuta la giustizia dal suo duca, paghi una composizione di 20 solidi
al re e al suo duca”.
Exercitalis è termine largamente presente nell'Editto e nei documenti: indica il liber homo
longobardo colto nella sua qualità di membro del populus-exercitus e perciò stesso soggetto politico
a pieno titolo.
Legge 21: “Se qualcuno rifiuta di andare nell'esercito o in servizio di sculca, dia 20 solidi al re e
al suo duca”
Sculca è termine di origine germanica passato poi nel linguaggio militare tardoimperiale come il
greco skoulkan, presente nello Strategicon dello Pseudo-Maurizio. Indica il soldato in servizio di
guardia o d'esplorazione.
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Legge 278: “Dell'hoberos, cioè della violazione di una corte. Una donna non può violare una
corte, cioè hoberos; appare assurdo che una donna libera, o una serva, possa fare un'azione di
forza con le armi, come un uomo”.
Tralasciando la violazione della corte, la legge ci fa capire come una donna venga esclusa
dall'utilizzo delle armi, sia essa libera o serva, rimarcando, anzi, l'assurdità della cosa.
Legge 307: “Delle armi. Se qualcuno presta semplicemente una sua arma ad un altro e quello che
l'ha ricevuta fa del male a qualcun'altro con essa, non si attribuisca la colpa a colui che l'ha
prestata ma a colui che ha commesso del male con essa. Al contrario, se colui che l'ha prestata ha
dato il suo consenso a che fosse fatto del male, sia compagno dell'altro nel riparare a quel male.”
Legge 308: “Se qualcuno osa prendere le armi di un altro di propria iniziativa e fa del male con
esse, non sia colpa di colui cui appartengono le armi, ma di quello che con esse ha fatto del male.”
Le leggi 307 e 308 chiariscono il concetto, forse banale, della possessione privata delle armi, in
contrapposizione alla concezione “statale” di quelle romane. Il guerriero germanico o comunque
esterno al mondo romano possiede infatti le proprie armi private mentre quelle dell' exercitales
latino sono di proprietà dello “stato”.
Legge 330: “Se qualcuno per difendere se stesso uccide un cane altrui, cioè usando una spada o un
bastone e qualsiasi altra arma tenuta in mano, non si reclami presso di lui purchè si riconosca che
il bastone è come una spada di media grandezza. Ma se glielo scaglia contro e lo uccide,
restituisca ferquido, cioè uno simile.
La legge 330 è interessante sotto il punto di vista tecnico dell'analogia tra un bastone e una spada di
media-grandezza: innanzitutto perchè ci conferma, come vedremo, la caratteristica peculiare della
spada longobarda, ovvero le sue dimensioni (lunga, più lunga in questo caso di un bastone) e,
secondariamente, il suo utilizzo libero come arma da difesa e quindi portata appresso, nettamente in
contrasto anche in questo caso con il mondo romano: ai romani era infatti vietato di aggirarsi
armati.
Legge 359: “Dei giuramenti. Se vi è una causa qualsiasi fra uomini liberi e si deve fornire un
giuramento, se la causa è di 20 solidi o più si giuri sui Santi Vangeli con dodici aiuti, cioè
sacramentali, propri, in modo tale che sei di loro siano nominati da colui che muove l'accusa e il
settimo sia colui che è accusato e cinque siano dei liberi, quali l'accusato vuole, cosicchè siano
dodici. Se la causa è inferiore ai 20 solidi, fino a 12, giurino su armi consacrate: tre se li nomini
chi muove l'accusa e due liberi se li scelga colui che è accusato, quelli che vuole, e il sesto sia lui
stesso. Se la causa è inferiore ai 12 solidi, giurino in tre sulle armi: questo ne nomini uno per sé,
quello se ne procuri un altro e il terzo sia egli stesso.”
Legge 363: “Del giuramento rotto. Un giuramento sia considerato rotto allorquando colui che
viene accusato si riunisce con i suoi sacramentali davanti ai Vangeli Sacri o alle armi consacrate e
non osa giurare, oppure quando egli, o qualcuno dei sacramentali, si sottrae: allora il giuramento
sia considerato rotto.
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Le leggi 359 e 363 ci forniscono il dato interessante riguardante la sempre minore importanza delle
armi (valore tradizionalmente germanico e, se si vuole, non propriamente cristiano) rispetto alla
religione cristiana cattolica alla quale i Longobardi si convertono: per una causa importante, il
giuramento viene effettuato sui Vangeli mentre per cause meno importanti si effettua il giuramento
solo sulle armi, comunque consacrate.
Legge 368: “Dei campioni. Nessun campione presuma, quando va a duellare contro un altro, di
portare su di sé erbe che hanno proprietà malefiche, né altre cose di simile natura, ma soltanto le
sue armi, come sono state stabilite. Se c'è il sospetto che porti le erbe di nascosto, le cerchi il
giudice e se vengono trovate su di lui gli siano strappate e gettate via. Dopo questa ricerca il
campione tenda la mano nelle mani dei parenti o dei suoi colliberti; davanti al giudice rendendo
soddisfazione dica di non avere su di sé nessuna cosa di tale natura, che abbia proprietà
malefiche; quindi vada alla lotta.”
La legge 368, oltre a legittimare il duello tra i due campioni (e quindi giudiziario) con le ripsettive
armi, interessa per la presenza singolare di erbe “magiche”, che farebbe pensare alla persistenza di
una mentalità magico-pagana proprio ad un istituto tipico della tradizione di stirpe (Gasparri, 1983)
3.3 -Le Leggi di Grimoaldo
Grimoaldo fu il primo re che si avvalse della possibilità prevista da Rotari alla Legge 386 di
apportare aggiunte all'Editto. La sua legislazione, databile al 668, è numericamente però assai
ridotta e, come quella di Rotari, è applicabile ai soli Longobardi.
Grimoaldo non aggiunge nulla di rapportabile alle armi: menziona solo il duello giudiziario nelle
prime due leggi.
Legge 1: “Dell'usucapione di trent'anni. Se un servo, o una serva, è tale da trent'anni e la verità
della cosa è stata riconosciuta, cioè che da trent'anni serve il suo padrone, e per superbia o per
una protezione illegittima vuole riscattarsi dal suo padrone con un duello, non glielo permettiamo
in nessun modo; serva invece il suo padrone, come si addice ad un servo o ad una serva. Allo
stesso modo anche se è un aldio: presti ubbidienza al suo padrone come ha fatto per trent'anni e
non gli siano imposti ulteriori nuovi obblighi da parte del suo padrone, ma gli sia consentito di
tenere i propri beni, che ha posseduto a buon diritto per trent'anni.
La legge 1 di Grimoaldo ribadisce che schiavi e semiliberi (aldii) non possono in nessun modo
sfidare a duello e quindi brandire le armi, in quanto non considerati arimanni e quindi uomini liberi.
Legge 2: “Circa i liberi che risultano essere rimasti in libertà per trent'anni, non subiscano alcuna
molestia in duello, ma sia loro consentito di rimanere nella propria libertà. E se qualcuno li
accusa, sia loro consentito di scagionarsi con i propri legittimi sacramentali.
La legge 2 di Grimoaldo ricorda la libertà dell'arimanno, sacra e inviolabile, e permette
(contrariamente a schiavi e semiliberi) di rimanere liberi anche in caso di duello “molesto”,
sfavorevole.
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3.4- Le Leggi di Liutprando
La legislazione di Liutprando riveste caratteri del tutto nuovi, articolandosi in anni diversi, dal 713
al 735. Con Liutprando la legge dell'Editto procede nel senso di una sempre più marcata tendenza
alla territorialità in ossequio ad un modello del potere regio d'impronta romana, che giunge alla
monarchia longobarda tramite il messaggio della Chiesa. Se Rotari aveva posto la legittimità dei
suoi ordinamenti all'interno della tradizione degli antenati, Liutprando la colloca invece in una
dimensione sovrumana, celeste, della quale è partecipe lo stesso re, il cui cuore è nelle mani di Dio.
Per tale via, quindi, il legislatore può cercare di svincolarsi dalle rigide imposizioni della tradizione
di stirpe ed acquisire una maggiore autonomia nella promulgazione della legge, in parallelo con
l'irrobustirsi della sua autorità nei confronti degli altri due poli della struttura politica della gens
longobarda: il popolo-esercito e l'aristocrazia (Gasparri, Azzara, 2005)
Peculiare dell'età Liutprandea, però, è l'introduzione della separazione dei concetti di exercitus e di
populus : la stratificazione sociale in atto all'interno della gens longobarda, che porta
all'identificazione di exercitales con possessores, fa si che populus resti ad indicare gruppi di liberi,
in buona parte di origine romana, che non fanno parte dell'esercito e che non sono tenuti al
giuramento di fedeltà richiesto agli arimanni.
L'età liutprandea, infatti, è un'età di profonde trasformazioni sociali, che portano ad una
stratificazione interna della gens longobarda secondo criteri economici. Viene a costituirsi un ceto
di possessores, dalle origini etniche non sempre rigorosamente individuabili come longobarde, ma
che pure della tradizione longobarda rivendica la piena ed esclusiva eredità; tale ceto finisce per
identificarsi con gli arimanni-exercitales-fideles Longobardi, in contrapposizione ai pauperes,
ormai espulsi dal seno della stirpe (Gasparri, Azzara, 2005)
La legge inoltre, con Liutprando, tende ad acquistare una sua validità per tutti i sudditi e quando si
riferisce al solo longobardo lo precisa (“si quis Langobardus...”).
E' in quest'epoca che acquista un forte impulso l'istituto del gasindiato e la figura nuova del
gasindio: tradotto come “uomo al seguito”, “uomo al servizio” di un potente o meglio di un
pubblico ufficiale, era probabilmente un uomo eminente direttamente legato al re da un forte
vincolo di fedeltà personale che veniva a godere, per questo, di particolare prestigio e di cospicui
vantaggi patrimoniali. Proprio durante il regno di Liutprando il gasindiato si configurava come uno
strumento particolarmente efficace di sostegno dell'autorità del re, in una fase di trasformazione dei
tradizionali rapporti di forza all'interno della società longobarda.
Nemmeno Liutprando, però, nelle sue leggi si riferisce esplicitamente all'uso e al possesso di
armamenti, né fa menzione al sistema di reclutamento o organizzazione dell'esercito.
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Legge 141: “Ci è stato riferito che alcuni uomini perfidi e dotati di un'astuzia malvagia, non
osando di per sé entrare a mano armata o con la forza in un villaggio o in una casa altrui, temendo
la composizione che è prevista nel vecchio editto, fecero radunare le loro donne, quante ne
avevano, libere e serve e le mandarono contro uomini che avevano una forza inferiore; quelle,
presi gli uomini di quel luogo, inflissero loro con violenza ferite ed altri mali, con maggior crudeltà
di quanto facciano gli uomini. Poiché queste cose sono giunte a noi e quegli uomini più deboli
hanno mosso un'accusa per quella violenza, abbiamo provveduto ad aggiungere q questo editto che
se in futuro delle donne osano fare una cosa del genere in qualunque luogo, prima di tutto
stabiliamo che se colà ricevono una qualche violenza od oltraggio, oppure ferite o lesioni, o anche
la morte, coloro che hanno fatto loro un qualche danno o che le hanno uccise per difendersi non
paghino alcuna composizione a quelle donne o ai loro uomini o al loro mundoaldo. Inoltre,
l'autorità preposta a quel luogo in cui ciò è accaduto prenda quelle donne e le faccia decalvare e
frustare per i villaggi vicini a quel luogo, in modo che in futuro le donne non osino commettere una
simile malvagità.[..]. Abbiamo stabilito questo, sia riguardo la punizione sia riguardo la
composizione, perchè non possiamo assimilare un raduno di donne all'harschild e nemmeno una
rivolta di contadini, dal momento che queste cose le fanno gli uomini e non le donne[..].”
La legge 141 di Liutprando non fa altro che ribadire l'estraneità della donna a fatti bellici e utilizzo
di armi. Interessante notare che anche i contadini non possono compiere tali azioni e, addirittura,
non sono nemmeno considerati “uomini”, proprio come le donne.
Proprio da questo è evidente che la società militare longobarda inizia a cambiare: un contadino
potreebbe essere anche un uomo libero, ma già il fatto di essere povero lo esclude dal poter
compiere qualsiasi attività legata alle armi, dalla guerra alla semplice rivolta armata.
Placca bronzea di elmo, con raffigurazione di cavaliere, proveniente dalla tomba I della necropoli di Vendel.
Fonte: Rotili, 1977
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3.5- Le Leggi di Ratchis
Sulla stessa linea della legislazione liutprandina si muovono anche le quantitativamente ben più
ridotte normative di Ratchis (744-749) che consentono di cogliere in modo ancor più evidente
alcune fenomenologie già presenti in epoca anteriore: se ne ricava l'immagine di una società
articolata, soprattutto sotto il profilo economico ma allo stesso tempo segnata da profondi squilibri
contro i quali si esprime lo sforzo di disciplina del re, siano essi gi abusi di potentes che ottengono
indebite esenzioni dal servizio militare o la conclamata corruzione di molti giudici (Gasparri,
Azzara, 2005)
Legge 4: “Inoltre vogliamo e stabiliamo questo, che qualsiasi arimanno quando cavalca con il suo
giudice debba portare con sé lo scudo e la lancia; e cavalchi così dietro di lui. Se viene a palazzo
con il suo giudice, faccia altrettanto. Vogliamo che si faccia tutto questo per un motivo, perchè
l'uomo non sa cosa gli potrà accadere o quale incarico riceverà da noi o in quale terrà dovrà
cavalcare. Ma se qualcuno osa fare diversamente, paghi una composizione di 20 solidi al suo
giudice e se il giudice, il cui arimanno ha tardato a soddisfare tutto questo, non lo costringe a
compiere quello che abbiamo detto sopra, paghi come composizione il proprio guidrigildo al
palazzo del re. Circa l'armamento in ferro e le altre armi o i cavalli, si deve fare così come è già
stato prescritto precedentemente per nostro ordine.
La legge 4 di Ratchis prescrive una composizione che corrisponde nella sua entità numerica a quella
prevista dalla Legge 21 di Rothari per chi si rifiuta di andare nell'esercito o nel servizio di guardia
(sculca): ribadisce quindi ancora l'obbligatorietà del servizio militare anche se è interessante notare
che forse non a caso è rivolto solo a chi “cavalca con il suo giudice” e quindi a chi possiede una
cavalcatura e “armamento in ferro, altre armi o cavalli”. Degno di nota è anche il fatto che non si
accenna minimamente alla spada ma solo alla lancia e allo scudo unitamente a un non precisato
armamento in ferro.
Placca bronzea di elmo con raffigurazione di cavaliere, proveniente dalla tomba I della necropoli di Vendel.
Fonte: Rotili 1977
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3.6- Le Leggi di Astolfo
Nel 750 Astolfo mise finalmente ordine in materia di cavalcature, armi e armature promulgando le
cosiddette “leggi militari” che precisano in modo esatto quei nuovi meccanismi di partecipazione
all'esercito che già con Liutprando erano stati introdotti ma non ancora ufficialmente fissati per
iscritto.
Legge 2: “Circa quegli uomini che possono avere una corazza e pure non ce l'hanno affatto, o
quegli uomini minori che possono avere cavallo, scudo e lancia e pure non li hanno affatto, oppure
quegli uomini che non possono avere, né hanno, di che mettere assieme, stabiliamo che debbano
avere scudo e faretra. Resta fermo che quell'uomo che ha sette case massaricie abbia la sua
corazza con il restante equipaggiamento e debba avere anche cavalli; e se ne ha di più, per questo
numero deve avere i cavalli e il restante armamento. Piace inoltre che quegli uomini che non
hanno case massaricie ed hanno 40 iugeri di terra abbiano cavallo, scudo e lancia; così inoltre
piace al principe circa gli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano la faretra con le
frecce e l'arco”.
Legge 3: “Inoltre, circa quegli uomini che sono mercanti e che non hanno beni fondiari, quelli che
sono maggiori e potenti abbiano corazza e cavalli, scudo e lancia; quelli che vengono dopo
abbiano cavalli, scudo e lancia; quelli che sono minori abbiano faretre con frecce e arco.
Astolfo, quindi, mette ordine nella struttura “militare” del diritto longobardo: la sua opera ci
fornisce materia di studio preziosa per capire la divisione della società e la disponibilità militare
almeno, con certezza, dal 750, anno della promulgazione.
Nella Legge 2 sono distinte quattro categorie di sudditi sulla base della gerarchia e della condizione
economica, non più dell'appartenenza etnica, longobarda o romana. Astolfo, quindi, divide il popolo
del regno in:
proprietari di un numero di case massaricie (fattorie) superiori a sette;
proprietari di almeno sette case massaricie;
proprietari di almeno 40 iugeri di terra, ma non di case massaricie;
uomini minori, cioè chi aveva meno di 40 iugeri di terra o non ne aveva affatto
A questa classificazione, legò la ripartizione degli obblighi in ordine di armamento:
cavalli, armi ed armature al completo, in quantità da fissare progressivamente secondo il
numero delle case massaricie possedute, per i proprietari della prima categoria;
corazza personale, tutto il resto delle armi e dell'armatura di impiego personale ed altri
cavalli, oltre a quello personale, per i proprietari della seconda categoria;
cavallo, scudo e lancia d'impiego personale, per i proprietari della terza categoria;
faretra, frecce ed arco per gli uomini minori della quarta categoria che fossero nella
possibilità di avere uno scudo.
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La Legge 3 riguarda invece i mercanti (negotiantes) ovvero quella classe sociale che, del tutto
estranea alla società longobarda ai tempi della discesa in Italia, si esprimeva solidamente alla metà
dell'VIII secolo, dopo aver ricavato dalla propria attività mercantile proventi tali da acquistare
quello status sociale dal quale derivavano gli obblighi di armamento.
I mercanti vennero suddivisi in:
maggiori e potenti (maiores et potentes)
quelli che vengono dopo (sequentes)
minori (minores)
e a questa ripartizione vennero legati i diversi obblighi:
corazza, scudo e lancia d'impiego personale unitamente al proprio cavallo e ad altri per la
prima categoria;
scudo e lancia d'impiego personale unitamente al proprio cavallo e ad altri per la seconda
categoria;
faretra, arco e frecce per la terza categoria.
Da queste disposizioni appare evidente come ormai l'organizzazione dell'esercito fosse radicalmente
mutata rispetto ai tempi dell'invasione: la struttura per fare doveva ormai risultare superata e
inadeguata.
Questo con ogni probabilità avvenne per due ordini principali di motivi: da un lato, l'introduzione
della possibilità degli esoneri e l'incorporamento dei Romani nei ranghi dell'esercito, dovettero
rendere praticamente impossibile il poter trovare un numero di persone appartenenti alla stessa
stirpe, sufficiente per formare un reparto; dall'altro il fatto di dover combattere contro eserciti di
concezione più moderna, come quello franco e bizantino, costrinse i Longobardi ad adeguarsi.
Appare poi chiaro come in quest'epoca la forza militare longobarda fosse composta in gran parte da
cavalleria, a sua volta composta dalle persone più abbienti del regno, mentre la fanteria sembra
avere un ruolo secondario: il fatto è confermato anche dai ritrovamenti di corredi da cavaliere, più
frequenti dalla metà del VII secolo in poi.
E' interessante quindi notare come già a quest'epoca inizia a delinearsi un fenomeno che sarà poi
tipico di tutto il Medioevo, per cui il cavaliere si identifica con il ricco ed il nobile mentre il fante è,
per antonomasia, il popolano, il contadino e in ogni caso il povero.
25
4- L'ARMAMENTO DEL GUERRIERO LONGOBARDO
Le armi utilizzate dai guerrieri Longobardi erano le armi consuete a tutto l'ambiente merovingio,
con però alcune differenze regionali, che a tutt'oggi non risultano di facile interpretazione.
Particolare importanza per la determinazione dell'armamento utilizzato in età altomedievale
rivestono gli scavi archeologici, anche se la maggior parte delle informazioni in nostro possesso
dipendono dai contesti funerari: almeno fino al VII secolo, alcuni defunti maschi venivano sepolti
con un corredo costituito in gran parte da armi e da accessori e oggetti relativi a quest'ultime.
Va subito detto, però, che le tombe e i loro corredi sono di per sé una fonte di difficile
interpretazione, in quanto frutto di un'attività rituale fortemente selettiva di cui si ignora tutta la
parte immateriale e il contesto socio-culturale in cui il rituale stesso veniva elaborato e attuato
(Paroli in Bertelli, Brogiolo, 2000).
La conseguenza è che la sepoltura costituisce, per dirla come la Paroli, uno “specchio deformato
della realtà”, un insieme di segni da decodificare utilizzando metodologie di analisi proprie degli
studi antropologici e sociologici. Se a questo aggiungiamo che l'archeologia inerente alla cultura
longobarda, a livello italiano, è stata, per tutto il secolo scorso, totalmente negletta e considerata un
settore marginale degli studi antichistici, si comprende come il patrimonio sepolcrale sia andato in
gran parte disperso perchè mal scavato o scavato solo parzialmente con i materiali di corredo
troppo spesso decontestualizzati (Paroli in Bertelli, Brogiolo, 2000).
Essendo impossibile quindi conoscere a pieno questa intricata matassa che è il rituale funerario
impreziosito dal corredo bellico, non ci rimane che esaminare l'armamento Longobardo nelle sue
caratteristiche strettamente tecniche e materiali.
Quello che è certo è che, in vita, la dotazione di armi di ogni guerriero rispondeva a precise
esigenze dettate da appartenenze a gerarchie sociali anche se, al momento, vi sono solo elementi
occasionali, soprattutto nelle fonti scritte, per poterle definire con certezza: fino alla metà dell'VIII
secolo infatti non abbiamo documentazione normativa in materia di armamenti.
Escluse le fonti scritte, rimangono quelle archeologiche. Ma è necessaria molta cautela nel dedurre
da alcune costanti dell'armamento presente nei corredi, gli elementi della gerarchizzazione dei ruoli
sociali.
La scarsissima iconografia, inoltre, e il quasi totale silenzio delle fonti scritte su come fossero
equipaggiati militarmente i Longobardi, ci costringe a basarci quasi esclusivamente sui reperti
provenienti dalle tombe che presentano anch'essi, però, dei limiti precisi ed evidenti, in aggiunta al
fatto che con la fine del VII secolo si cessa gradualmente di inserire i corredi comprendenti armi
nelle sepolture.
In questo capitolo quindi si passeranno in rassegna le armi principali del guerriero Longobardo,
offensive e difensive, maggiori e minori, cercando di valutarle appunto nel loro aspetto tecnico e
funzionale, nelle loro forme evolutive e, ove possibile, nella loro diffusione.
26
Fig.1
Fig.2
Fig.1: Piatto in argento da Isola Rizza con scena di battaglia, inizio del VI secolo.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
Fig.2: Disco bratteato dalla Necropoli Cella di Cividale del Friuli, tomba del Cavaliere, inizio del VII secolo.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
27
Borgo d'Ale (TO): Tomba di cavaliere longobardo, secondo quarto del VII secolo.
Corredo comprendente spatha, scramasax corta, cuspide di lancia a foglia di salice e scudo da parata.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
28
Collegno (TO): T.49, fine del VI- inizio del VII secolo.
Corredo comprendente spatha, piccolo coltello ed elementi della sospensione.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
29
Collegno (TO): T.53, primo trentennio del VII secolo.
Corredo comprendente spatha, cuspide di lancia traforata, scudo da parata, elementi della sospensione e della
cintura multipla.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
30
Collegno (TO): T.17, 660-690 circa.
Corredo comprendente scramasax lunga ed elementi della sospensione.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
31
5- LA LANCIA
La lancia, in latino lancea, hasta, contus, è un'arma in asta da offesa con ferro acuto alla sua
estremità superiore.
Era un'arma offensiva diffusissima tra più popolazioni e in diverse epoche storiche, in diverse
varianti, ma che rispecchiavano sempre un canone prestabilito: un'arma in grado di colpire tenendo
colui che la brandisce a debita distanza dall'avversario. Ha il vantaggio di essere un'arma meno
costosa, ad esempio, di una spada, in quanto la porzione di metallo risulta di gran lunga minore e la
lavorazione stessa non richiede gli stessi requisiti tecnici elevati.
La lancia longobarda era composta da un'asta di legno, che aveva ad un'estremità la cuspide di
metallo e dall'altra, a volte, il fermo o puntale. Poteva avere diverse lunghezze: si andava da quella
ad altezza d'uomo, del tipo di quella raffigurata nella lamina di Agilulfo, a quella molto più lunga,
del tipo raffigurato ad esempio nel piatto di Isola Rizza e nel disco d'oro di Cividale.
Costituzione fondamentale di una lancia.
(dis. Pizzeghello)
32
Composizione fondamentale di una cuspide di lancia generica
(dis: Pizzeghello)
33
5.1- Le tipologie principali di cuspide
I ritrovamenti di cuspidi di lancia confermano l'uso essenziale di due tipi fondamentali di cuspide:
quella a foglia di salice (o ulivo) e quella a foglia d'alloro (o lauro).
La cuspide di lancia a foglia di salice risulta essere la più antica. È formata da una gorbia di forma
troncoconica per l'innesto dell'asta in legno; la lama è stretta ed allungata, a volte priva di
costolatura centrale di rinforzo. La lunghezza è variabile ma generalmente si attesta intorno ai 40
cm, con alcune eccezioni inferiori ai 30 cm (come la cuspide di lancia della tomba 2 di Trezzo
d'Adda); la larghezza massima misurata sulla lama varia dai 3 ai 5 cm. I reperti più significativi
provengono dalle necropoli di Trezzo d'Adda, Nocera Umbra, Brescia-San Bartolomeo, LavisTrento, Borgo d'Ale-Vercelli, Calvisano, Verona, Testona, Benevento, Arsago Seprio, Sovizzo.
I rinvenimenti confermano che questa tipologia di lancia venne prevalentemente usata per tutta la
metà del VI° secolo e i primi decenni del VII°, quando verrà pian piano affiancata prima e sostituita
poi dalla cuspide a foglia di alloro.
Fig.B
Fig.A
Fig.C
Fig.A: Cuspide di lancia a foglia di salice da Sovizzo. Lu.: 39, 3cm, La.: 3,4cm. Fonte: Cini,Ricci,1979
Fig.B: Cuspide di lancia a foglia di salice da Trezzo d'Adda, T.3. Lu.:40,8cm, La.:4,5 cm. Fonte: Roffia, 1986
Fig.C: Cuspide di lancia a foglia di salice da Sacca di Goito, T.97. Lu.: 18,1cm, La.:4,1cm. Fonte: Menotti, 1994
34
Necropoli di Testona (TO): tipologie di cuspidi a “foglia di salice o ulivo”, VI° secolo.
Fonte: Von Hessen, 1971
35
Fig.D: Cuspidi di lancia a foglia di salice da Bassano del Grappa (VI). Fonte: Previtali, 1983
Fig.E: Cuspidi di lancia a foglia di salice fortemente incrostate, da Benevento. Fonte: Rotili, 1997
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La cuspide di lancia a foglia di alloro è formata da una gorbia per l'innesto dell'asta in legno che
però prosegue sulla lama, molto spesso per l'intera lunghezza, riducendosi fino a formare una
costolatura mediana di rinforzo.. Rispetto alla foglia di salice, questa tipologia è più tozza,
arrotondata e di dimensioni minori: la lunghezza si attesta dai 20 ai 30 cm per una larghezza che
rimane tra i 3 e i 4,5 cm. Con tutta probabilità è una tipologia romano-bizantina che viene adottata
dai Longobardi già durante il periodo pannonico ma che è largamente diffusa nelle sepolture
italiane dal periodo dell'immigrazione fino a tutto il VII secolo. I reperti più significativi
provengono dalle necropoli di Santo Stefano in Pertica, Sovizzo, San Salvatore di Maiano, Testona,
Romans d'Isonzo, Bilje e Kranji in Slovenia.
Fig.F e G: Sovizzo (VI): Cuspidi di lancia “a foglia di alloro o lauro, VI-VII° sec. Fonte: Cini, Ricci, 1979
Fig.H: Arsago Seprio: Cuspide di lancia a foglia di alloro o lauro. Fonte : Civico Museo Archeologico di Arsago
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Testona (TO): Cuspidi di lancia “a foglia di alloro o lauro, VII° secolo
Fonte: Von Hessen, 1971
38
5.2- Le tipologie particolari di cuspide
Accanto alle tipologie principali e più diffuse, compaiono delle varianti che, in almeno due casi si
possono ascrivere al territorio italico, cioè adottate dai Longobardi solo dopo il loro arrivo in Italia.
Nella seconda metà del VII secolo si sviluppa la cuspide di lancia detta ad alette, che durerà ancora
nella prima metà dell' VIII secolo e che troverà largo impiego nel periodo carolingio.
Si tratta di una cuspide molto lunga (in alcuni esemplari fino anche agli 80 cm) con gorbia molto
sottile, lama stretta e allungata e con una leggera costolatura centrale; alla sua base vi sono 2 piccole
alette in metallo la cui funzione risulta tutt'ora dubbia. In questo tipo di lance la copertura metallica
arrivava molto in basso ed era rinforzata alla base, probabilmente, con dei giri di filo di ferro.
Reperti significativi provengono da Sovizzo e Testona.
Fig. A
Fig. B
Fig.C
In questa pagina:
Fig. A: Testona (TO): cuspidi di lancia “ad alette”, VII sec. Fonte: Von Hessen, 1971.
Fig. B: Sovizzo (VI): cuspide di lancia “ad alette”, VII sec. Fonte: Cini, Ricci, 1979
Fig.C: Nocera Umbra, T.6: cuspide di lancia “ad alette”, VII sec. Fonte: Menghin, 1985
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Sempre caratteristica del territorio italico risulta la cuspide di lancia cosiddetta traforata. Si tratta
di una cuspide a foglia di alloro, in metallo forgiato, che presenta due feritoie semilunate all'interno
della lama, da un lato e dall'altro della costolatura centrale. Le dimensioni rispecchiano
generalmente quelle di una normale cuspide a foglia d'alloro, con qualche variazione di misura sulla
larghezza della lama che deve essere più ampia per consentire una migliore lavorazione delle due
feritoie. I reperti più significativi provengono dalle necropoli di Testona (TO), Trezzo d'Adda (MI),
Collegno e Fornovo San Giovanni; tutti fanno riferimento ad un corredo molto prezioso.
Considerando questo fattore unitamente alla relativa fragilità di una cuspide traforata se utilizzata in
battaglia, si può ipotizzare con una buona probabilità un uso atto a sostenere uno stendardo o una
sorta di insegna, in questo caso militare.
Fig.A
Fig.B
In questa pagina:
Fig.A: Testona (TO): cuspidi di lancia traforate, fine VI- inizi VII secolo. Fonte: Von Hessen 1971
Fig.B: Cividale del Friuli (UD): cuspide di lancia traforata, VII secolo. Fonte: Museo Archeologico Nazionale di
Cividale del Friuli, in Balbi,1991
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La tomba 119 di Castel Trosino ha restituito, inoltre, due cuspidi di lancia dall'estremità ricurva
aventi cioè, al posto della normale punta acuminata, un prolungamento di metallo ricurvo.
Considerato il fatto che sono state rinvenute accompagnate da ricco corredo e, soprattutto, da
cuspidi di lancia integre, appare evidente una funzione diversa da quella prettamente bellica,
facendo propendere invece per un'interpretazione legata ad un utilizzo simile a quello della cuspide
traforata. Un riscontro di queste cuspidi lo si ha con il ritrovamento di Castello di Guspergo a
Cividale del Friuli.
Accanto a queste tipologie ve ne sono, infine, alcune di chiara origine non-longobarda: si tratta
delle cuspidi di tipo àvaro, probabilmente adottate già in Pannonia al contatto fra le due culture, ma
certamente databili alla fine del VI-inizi del VII secolo. Si tratta di cuspidi caratterizzate dalla lama
massiccia e stretta, spesso percorsa da scanalature longitudinali, con il punto di incontro tra lama e
gorbia costituito da un rigonfiamento ornamentale formato da due cordonature ad anello delimitate
da solcature. A volte la lama può assumere una sezione romboidale, come nel caso di Sovizzo che
ha un preciso riscontro con la cuspide di San Salvatore di Maiano.
Fig.A
Fig.B
In questa pagina:
Fig. A: Castello di Gusperto, Cividale del Friuli: punta di lancia ritorta. Lu: 25cm. VI-VII secolo. Fonte: Museo
Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli, in Balbi, 1991.
Fig. B: Sovizzo (VI), Punta di lancia di tipo Avaro. Fonte: Cini,Ricci, 1979
41
5.3- Materiali e tecniche di costruzione
La lancia, come abbiamo detto, si rivela essere l'arma offensiva più diffusa tra diverse popolazioni e
in diversi periodi storici.
Sebbene non richieda una conoscenza tecnica elevata per la sua fabbricazione - perlomeno non una
conoscenza tecnica paragonabile a quella impiegata per la fabbricazione di un'arma più importante
come ad esempio una spada - la sua creazione presuppone comunque un livello di abilità alto, una
buona conoscenza delle proprietà metalliche e quindi una certa esperienza a livello di metallurgia.
Per quanto riguarda le cuspidi, la totalità dei reperti di epoca longobarda conferma la lavorazione
del ferro tramite forgiatura e battitura a martello.
L'evoluzione della cuspide di lancia dalla foglia d'ulivo alla foglia d'alloro potrebbe spiegare una
diretta evoluzione tecnica dell'arte metallurgica, concomitante al contatto con la sfera d'influenza
bizantina; dall'altra parte possiamo scorgere il contatto con la popolazione delle steppe dalla
presenza, anche se sporadica, della cuspide avara.
La foglia di salice (o ulivo) risulta la più semplice a livello di fabbricazione. La sua lama è creata
martellando a caldo una barra di ferro fino al suo appiattimento, sbozzando la forma e
successivamente rifinendola a mola. La presenza di una lieve costolatura mediana, ricavata
martellando “a spiovente” le due facce della lama, indica una volontà precisa di rendere solida la
lama nel momento dell'impatto frontale. La gorbia viene allargata alla base della lama stessa,
richiudendola per martellatura “a tubo”, con l'ausilio di un'incudine adatta ad essere inserita
all'interno di una cavità tubolare. La forma è semplice e allungata ma la presenza di molto materiale
all'interno della costolatura mediana abbozzata implica un peso maggiore della lancia in punta. In
definitiva, risulta una cuspide dalla forma semplice ed intuitiva.
La foglia di alloro (o lauro) risulta senza dubbio una forma tecnicamente più complessa della punta
a foglia di salice. Le dimensioni si riducono, creando una forma più tozza e compatta. La quantità di
materiale usato viene anch'essa ridotta in favore di una migliore ripartizione tecnica: aumentando lo
spessore della costolatura mediana si raggiunge lo scopo di irrobustire la cuspide agli impatti
frontali, avendo comunque il vantaggio di appiattire ulteriormente la lama con la conseguente
perdita di peso in punta. La gorbia forma un tutt'uno con la costolatura mediana e viene formata
mediante battitura tubolare su incudine predisposta. Si evolve senza dubbio in seguito ad un
contatto con maestranze diverse, che pian piano inseriscono una forma che risulta più vantaggiosa
rispetto alla precedente.
L'analisi dei resti lignei presenti all'interno della gorbia della cuspide ritrovata nella Tomba T3 di
Trezzo d'Adda rivela l'uso di legno di quercia per la fabbricazione dell'asta, legno quindi molto duro
e resistente. Purtroppo la scarsità di reperti lignei non permette un confronto reale con altre lance
provenienti da luoghi diversi.
42
5.4- Tecniche di combattimento
E' fuori dubbio che un'arma come la lancia si possa, fondalmentalmente, usare in due situazioni
belliche differenti: a piedi e a cavallo. Questo, ovviamente, non presuppone che il metodo di
combattimento sia lo stesso.
5.4.1- Il guerriero appiedato
Esaminando la figura di un combattente appiedato, appare subito chiaro che le modalità di brandire
la lancia possono essere principalmente due, che implicano a loro volta un utilizzo diverso delle
mani:
solo lancia: due mani libere per brandire l'arma offensiva. (fig.1)
lancia e scudo: una sola mano libera per brandire l'arma offensiva (fig.2)
Fig.1
Fig.2
(dis: Pizzeghello)
43
Chiarito questo concetto di base, si può iniziare ad avanzare delle ipotesi sperimentali.
Un guerriero appiedato armato di sola lancia avrà, sostanzialmente, quattro tecniche fondamentali di
uso della lancia:
Utilizzo di punta per infilzare, in un movimento parallelo al terreno, l'avversario:
direzionando la lancia con il braccio che sta anteriormente il braccio posizionato in
posizione posteriore imprimerà la forza necessaria, per poi ritrarla. (Fig.3)
Utilizzo di lama, dal basso verso l'alto o viceversa, per sventrare e sviscerare. Ricordando
che le cuspidi di lancia vengono affilate anche ai lati della lama, per questo movimento è
indispensabile l'utilizzo di entrambe le mani.(Fig. 4)
Utilizzo di botta, brandendo la lancia a due mani per colpire violentemente l'avversario con
fendenti dall'alto verso il basso o da sinistra verso destra e viceversa, spostando le mani
verso l'estremità senza cuspide della lancia e sfruttando il fatto che la lancia è un bastone
con un'estremità metallica che aumenta il danno da botta. E' una tecnica però svantaggiosa
in quanto risulta molto lenta. (Fig.5)
Utilizzo da lancio, scagliando come un giavellotto l'arma. Personalmente sono dell'idea che
per utilizzare l'arma in questo modo sia necessaria, innanzitutto, una dimensione dell'asta
adeguata al peso, pena il lancio nullo e inutile, e in secondo luogo una reale disponibilità di
seconda arma in quanto una volta scagliata la propria lancia, il guerriero la perde nella
maggior parte dei casi, o per rottura dell'asta o per impossibilità nel recupero.(Fig.6)
Fig.3
Fig.4
Fig.5
(dis: Pizzeghello)
Fig.6
44
I possibili utilizzi si riducono notevolmente nel caso di utilizzo contemporaneo di lancia e scudo.
Innanzitutto in questo caso le dimensioni dell'arma influiscono maggiormente: è evidente che un
asta di diametro superiore ai 4 cm inizierebbe a risultare più svantaggiosa se brandita con una sola
mano, special modo se accompagnata da una cuspide di lancia a foglia di salice o di tipo avaro che,
raggiungendo anche i 40 cm e oltre, porterebbe ad un peso eccessivo in punta. Sfortunatamente non
possediamo alcun dato sulle lunghezze effettive delle aste, che ci aiuterebbe a capire e risolvere la
problematica dello sbilanciamento.
Quello che è certo è che il guerriero appiedato con scudo e lancia è costretto ad assumere una
posizione di guardia e di attacco che gli consenta di supplire alla mancanza della mano occupata
dallo scudo, tenendo quindi molto spesso la lancia stretta sotto l'ascella nel caso di scontro frontale.
Brandendo la lancia con una sola mano entra in gioco infatti la forza di gravità che agisce in punta
della lancia tendendo ad abbassarla verso terra (rappresentata dalla freccia rossa in figura).
Gli utilizzi della lancia nel guerriero appiedato con scudo si riducono quindi a tre tipi:
Utilizzo di punta, riparandosi con lo scudo infilzando l'avversario (Fig.7)
Utilizzo di lama, possibile (in relazione alle dimensioni e al peso della lancia) ma
penalizzato dall'instabilità dell'arma guidata da una sola mano, unita all'inerzia sviluppata
durante il movimento rotatorio che tende a rallentare il ricarico dell'arma. (Fig.8)
Utilizzo da lancio, ovviamente vincolato alla disponibilità d'uso di una seconda arma.
(Fig.9)
Fig.7
Fig,8
(dis: Pizzeghello)
45
Fig.9
5.4.2- Il guerriero a cavallo
La scherma di lancia a cavallo, per quanto riguarda la fase longobarda, risulta controversa. La
comparsa e la presenza di finimenti, decorazioni di sella, morsi e speroni nelle sepolture
longobarde, che molto spesso comprendono addirittura il cavallo, ne confermano l'attività bellica
equestre, unitamente alle fonti scritte. Ma il problema sta nell'utilizzo effettivo della lancia a
cavallo.
La presenza della staffa ha sicuramente aperto la strada ad un metodo di combattimento equestre
nuovo, permettendo più evoluzioni sopra alla cavalcatura, rendendo più stabile il cavaliere e tutt'uno
con il cavallo. Questo è il presupposto fondamentale per la scherma di lancia che contraddistinguerà
la cavalleria prettamente occidentale nei secoli successivi: la carica lancia in resta.
Purtroppo le fonti non ci lasciano molto se non il supporre che fosse praticata a livello marginale.
La scherma di lancia a cavallo quindi presuppone diversi utilizzi che sfruttano in varia misura la
presenza del cavallo:
utilizzo di punta, da sopra al cavallo, per infilzare dall'alto verso il basso gli avversari
(Fig.10)
utilizzo di lama, anche se limitato, sfruttando la corsa del cavallo e la rotazione dell'arma
(Fig.11)
utilizzo da lancio, vincolato anche questo dalla disponibilità ad una seconda arma (Fig.12)
la carica lancia in resta, che sfrutta la forza e la velocità d'impatto del cavallo tenendo la
lancia stretta sotto l'ascella e usando il braccio per indirizzarla. (Fig.13)
Fig.10
Fig.11
Fig.12
(dis: Pizzeghello)
Fig.13
46
5.4.3- La questione della cuspide ad alette
Data la forma particolare di questa cuspide, è doveroso fare un accenno ai possibili utilizzi,
cercando spiegare il motivo e la funzionalità di queste protuberanze metalliche.
Personalmente ho formulato due ipotesi:
nella scherma appiedata utilizzata come una sorta di spiedo, con l'asta molto più corta di una
lancia generica, sfruttando le alette come blocco di parata o come deviazione per disarmi e il
la gorbia in ferro molto più lunga per la protezione dell'asta stessa. (Fig.14)
nella scherma appiedata o a cavallo come arma da lancio, con le alette che impediscono di
estrarre facilmente l'arma dal corpo dell'avversario, sfruttando lo stesso principio
dell'angone franco e del più antico pilum romano. (Fig.15)
nella scherma a cavallo come blocco per evitare che, al momento della penetrazione, la lama
entri troppo penalizzando la successiva estrazione. (Fig.16)
Fig.14
Fig.15
Fig.16
(dis: Pizzeghello)
47
6- LA SPATHA
La spada, in latino gladius, spatha, è un'arma bianca lunga che differisce dalla sciabola, con la
quale si vuole volgarmente confondere, in quanto la spada ha sempre lama dritta e tagliente da
ambo le parti.
E' storicamente l'arma offensiva che contraddistingue il guerriero per eccellenza ed è anche la più
costosa: la quantità e la qualità del materiale impiegato unito alla tecnica di fabbricazione e
all'eventuale ornamento richiedono, per la sua commissione e il suo acquisto, uno status
chiaramente di uomo libero, guerriero, e l'appartenenza ad un ceto sociale medio-alto in quanto
difficilmente un individuo di ceto basso terrebbe per sé un oggetto di valore, ipoteticamente razziato
da bottino, che se venduto potrebbe supplire alla mancanza di beni primari.
La spatha è quindi molto più di un'arma: è l'indispensabile complemento dell'identità maschile
longobarda e di quella casta di uomini liberi, gli arimanni, che potevano portarla.
In generale, una spada altomedievale germanica è formata da 4 parti fondamentali (Fig.1):
Lama: è la parte principale costituita dal metallo lavorato e appiattito per formarla
propriamente. Ad un'estremità il metallo viene modellato a “codolo” per l'inserimento
dell'impugnatura.
Elsa o guardia: è la componente metallica o organica che divide l'impugnatura dalla lama
vera e propria con la funzione di proteggere la mano dai colpi ricevuti. Nelle spathe
longobarde è poco pronunciata o addirittura assente
Pomo: costituito da un blocco di metallo forato (ferro o bronzo) che viene ribattuto
all'estremità del codolo, avente funzione di bloccare l'impugnatura alla lama e di bilanciare
la spada appesantendone l'estremità opposta. Nelle spade di fattura longobarda è a sezione
rettangolare, di forma trapezoidale e molto piccolo, dando alla spada uno sbilanciamento
totale in punta della lama.(Fig.2)
Impugnatura: tecnicamente è costituita dall'insieme di elsa, pomo e codolo rivestito ma più
propriamente assume questo nome la parte realmente impugnata dalla mano, ovvero quella
sezione di codolo compresa tra l'elsa e il pomo. Può essere ricoperta di pelle, di legno
oppure entrambi.
La spatha longobarda era in ferro, a due tagli, generalmente più adatta a colpire di taglio che non di
punta. La lunghezza può variare dai 65 cm al metro mentre la larghezza si attesta intorno ai 5 cm.
Operando una suddivisione tipologica, si possono individuare almeno 3 varianti:
la spatha: propriamente detta, simmetrica a due tagli, che misurava dai 75 ai 90 cm e oltre,
con lama molto sottile
la semispatha: spada corta, della lunghezza media di 40 cm
la scramasax: quasi un grosso coltello, ad un solo taglio della quale parlerò oltre.
Le spathe longobarde non subirono particolari variazioni ed evoluzioni durante il periodo di regno
italiano e quindi non possono essere prese in considerazione come elemento datante nelle sepolture.
48
Fig.1: costituzione fondamentale di una spada generica di fattura germanica (dis. Pizzeghello)
Fig 2: Spada generica di fattura germanica (a sinistra) e ipotetica ricostruzione di spatha longobarda a
confronto (a destra). Si noti il pomolo trapezoidale molto più piccolo (indicato dalla freccia) nella spatha
longobarda. (dis.Pizzeghello)
49
Fig.3
Fig.4
Fig.5
Fig.6
Fig.3: Spatha con sezione ovale e pomolo piramidale in bronzo a base rettangolare. Lu: cm 86,8/ La: cm5,1
Fig.4: Spatha con sezione ovale. Lu: cm 97,2/ La: cm 5,15
Fig.5: Spatha con sezione concava da entrambe le parti. Larga scanalatura che percorre quasi tutta la lama terminando
poco prima della punta. Lu: cm 94/ La: cm 4,4
Fig. 6: Spatha con sezione concava da entrambe le parti con larga scanalatura che corre al centro della lama. Pomolo
piramidale in bronzo a base rettangolare. Lu: cm 80,1/ La: cm 3,9.
Fonte: Cini-Ricci 1979
50
Testona (TO): Spathae longobarde VI-VII secolo
Fonte: Von Hessen 1971
51
6.1- Materiali e tecniche di costruzione
La fabbricazione di una spada implica un'elevata conoscenza delle tecniche metallurgiche di
forgiatura essendo la spatha longobarda fabbricata tramite modellazione per martellatura a caldo del
metallo.
Le sollecitazioni alle quali viene sottoposta una spada dal momento della sua creazione al momento
del suo inutilizzo, per rottura o per inumazione nel corredo di sepoltura, sono molteplici e quindi la
maestranza che ne opera la costruzione deve fare in modo che queste intacchino il meno possibile la
struttura stessa dell'arma, consentendole di avere una “vita” più lunga e quindi un utilizzo più
duraturo e funzionale.
Per capire a fondo la struttura di un'arma, come la spatha, ottenuta per il 90% tramite fucinatura a
forgia, dobbiamo necessariamente addentrarci a descrivere, almeno sommariamente, tutto quello
che riguarda il processo di lavorazione del metallo, dalla forma naturale al prodotto finito.
6.1.1- La base di tutto: il ferro
Il ferro è un metallo ben noto sin da periodi assai remoti e in antichità non vi erano insormontabili
difficoltà di natura tecnica che ne impedissero la produzione. Il ferro allo stato naturale, cioè
ricavato e diviso dal minerale, risulta però addirittura un cattivo succedaneo del bronzo e fu solo
con l'acquisizione di metodologie metallurgiche innovative come la cementazione, la tempra e il
rinvenimento che divenne possibile disporre non più di ferro dolce ma di acciaio carburato.
Il primo stadio per la produzione di un manufatto metallico come la spatha è, quindi, avere la
materia prima di partenza, ovvero un massello di ferro già depurato delle sue scorie minerali e
quindi estratto tramite fusione in forno della roccia conglomerante.
Nonostante l'opinione comune, la temperatura non rappresentava un serio ostacolo alla produzione
del ferro: con fornaci abbastanza semplici in pietra e fango, alimentate con carbone di legna e
gestite con un sistema di tiraggio forzato costituito da una coppia di mantici, è stato possibile
ottenere sperimentalmente senza difficoltà temperature di 1200-1250 °C, raggiungendo anche i
1600° C. (Caneva 1990; Caneva, Giardino 1996). Inoltre, sebbene per raggiungere il punto di
fusione del ferro puro sia indispensabile una temperatura di 1536°C, quando il metallo è legato a
carbonio (derivato dalla combustione del carbone di legna) la fusione avviene ad una soglia
nettamente inferiore, intorno ai 1150°C, che non è poi molto distante dai 1083 °C del rame, fuso da
tempi antichissimi.
Nonostante le alte temperature comunque raggiunte, ciò che si estraeva dal forno non era però del
metallo fuso, ma una massa dalla struttura spugnosa, chiamata blumo, costituito da metallo misto a
carbone e scoria, quest'ultima composta da ossido ferroso e silicato di ferro. Il blumo veniva quindi
scaldato nuovamente e ripetutamente martellato: la parte di scoria rimasta inglobata nel metallo
veniva così espulsa meccanicamente mediante martellatura a caldo, saldando tra di loro i globuli di
ferro.
Il prodotto di queste lavorazioni risultava un massello di ferro dolce, dalla struttura continua, ma
disseminata al suo interno da micro-scorie non eliminate, la cui lavorazione richiedeva ancora una
serie di ulteriori processi di martellatura e riscaldamento sulla forgia.
52
6.1.2- La fucinatura
La fucinatura è una lavorazione a caldo utilizzata per dare forma e dimensioni definite a
semilavorati metallici come il blumo risultante dalla precedente lavorazione di estrazione descritta.
La lavorazione veniva eseguita a mano per mezzo di appropriati attrezzi (martelli o mazze) che
deformavano per percussione o per pressione il metallo portato ad elevata temperatura in forgia per
mezzo della quale il materiale raggiunge il massimo grado di malleabilità, che è l'attitudine di un
metallo a essere trasformato, a caldo o a freddo, in forme diverse (spesso lamine) senza screpolarsi
o rompersi.
La fucinatura a caldo mantiene le migliori caratteristiche di resistenza meccanica alla fatica del
materiale lavorato; ciò dipende principalmente dalla fibrosità dei metalli che conferisce loro una
notevole tenacità. Nei pezzi fucinati, infatti, le fibre si deformano durante la battitura e tendono a
seguire la forma del pezzo: non risultando interrotte come una fusione o una lavorazione per
asportazione di materiale, infatti, le fibre integre rendono il pezzo più resistente.
Il fabbro doveva essere una persona esperta, allenata allo sforzo fisico, dotata soprattutto di
sensibilità rispetto al comportamento del metallo e di attitudini a sistemare a occhio lunghezze,
volumi e temperature: come dire che non si poteva divenire fabbri esperti dalla mattina alla sera.
Il massello di ferro veniva posizionato sulla forgia, ovvero sulla struttura atta a contenere le braci
necessarie al riscaldamento del pezzo, che poteva essere anche interrata (Fig.7)
Per aumentare il calore era necessario alimentare costantemente la forgia con ossigeno e quindi aria,
prodotta da mantici probabilmente costituiti da otri di pelle animale, incanalata tramite degli ugelli
che la indirizzavano direttamente sulle braci: da sopra nel caso di forgia interrata e da sotto nel caso
di forgia sopraelevata.
Il metallo inserito nelle braci veniva quindi scaldato e la determinazione della temperatura doveva
essere fatta essenzialmente ad occhio, basandosi sulla luminosità che il pezzo emetteva:
sperimentando la fucinatura odierna sappiamo che il ferro si fucina benissimo quando raggiunge il
colore rosso-arancio, che corrisponde alla temperatura di 1000°-1100°C.
Una volta riscaldato, il pezzo veniva preso con delle pinze e posizionato su di un attrezzo chiamato
incudine, che nella maggior parte dei casi doveva risultare un semplice blocco di metallo piano
molto pesante, adatto a supportare i colpi di martello e di mazza: a questo punto si iniziava a
modellare tramite martellatura (con martelli a diversi pesi e fogge) finchè durava il calore del pezzo,
riposizionandolo in forgia ad ogni suo raffreddamento per riportarlo alla temperatura di lavorazione.
(Fig.8)
Durante l'operazione di martellatura, infatti, il materiale si raffredda perdendo rapidamente la sua
plasticità e obbligando quindi il fabbro a riscaldarlo nuovamente con una nuova “calda” che è il
nome preso dall'operazione di riscaldamento del materiale da fucinare.
Continuando ad effettuare questi passaggi di riscaldamento e battitura, modellando e “stirando” il
materiale seguendo le sue fibre, pian piano il fabbro riusciva a sbozzare la forma della spada,
allungando e appiattendo la lama da un lato, arrotondando e sbozzando il codolo dall'altro.
53
Fig.7: Schema fondamentale di forgia “fuori terra” (sopra) e interrata (sotto), con raffigurazione di due tipi di
mantici a sacca
(dis. Pizzeghello)
54
Fig.8: Alcune tipologie di testa di martello e corrispondenti tracce di lavorazione lasciate sul metallo.
(dis. Pizzeghello)
Sotto: principali lavorazioni di fucinatura.
Fonte: Gaggia 1969
55
6.1.3- Il ferro carburato: l'acciaio
Ho detto più sopra che il ferro allo stato originario è un cattivo succedaneo del bronzo: allo stadio
“puro” infatti possiede qualità meccaniche inferiori a quest'ultimo.
Per renderlo in grado di competere vantaggiosamente è necessario carburarlo, arricchendolo di
carbonio, facendolo in parole povere divenire un acciaio, che è una lega di ferro e carbonio, la cui
percentuale varia fra lo 0,008% e il 2,08%, presente sempre come carburo di ferro, chiamato anche
cementite.
E cementazione o carburazione è il processo termico mediante il quale si provoca la diffusione di
carbonio nel ferro allo scopo di ottenere acciaio superficiale (e nell'acciaio allo scopo di arricchirlo
di carbonio).
Questo procedimento, a mio avviso scoperto per caso, in antichità si otteneva in seguito al contatto
prolungato e ripetuto, nella forgia, del carbone incandescente con il ferro, che operava un processo
di diffusione del carbonio rilasciato dalla combustione del carbone, il quale convertiva
superficialmente il ferro in acciaio.
E' un procedimento termico influenzato, nella maggior parte, dal tempo: lo spessore cementato può
essere di qualche millimetro, a seconda della durata del trattamento; il tenore di carbonio è
massimo in superficie e diminuisce procedendo verso l'interno del pezzo. E' stato osservato come il
tempo necessario per carburare la lama di una spada dello spessore di 3mm sia attorno alle quattro
ore ad una temperatura di 1100°C; al cuore del manufatto si registra comunque sempre un notevole
calo nel contenuto di carbonio rispetto alla periferia (Tylecote, 1962)
Semplificazione figurata degli effetti di cementazione all'interno del metallo in una punta di spada ideologica:
le zone più scure indicano una maggior presenza di carbonio e quindi in lega con il ferro (acciaio).
Vi è una differenza tra i fili della lama (di acciaio più duro) e il cuore (di ferro più tenace).
(dis. Pizzeghello)
56
6.1.4- La tempra e il rinvenimento
La tempra consiste in un raffreddamento rapido del metallo riscaldato, allo scopo di fissare la
struttura posseduta dall'acciaio ad elevate temperature: questa struttura prende il nome di
martensite.
La martensite è una struttura sovra-satura di carbonio nel ferro che compare a temperatura inferiore
a 727° C quando un acciaio viene rapidamente raffreddato dopo essere stato riscaldato a
temperature superiori, conferendo la massima durezza e la massima resistenza a trazione. La
temperatura del riscaldamento è fondamentale per la buona riuscita della tempra: se è troppo bassa,
la trasformazione della struttura di partenza non avviene e quindi non c'è tempra; se la temperatura
è troppo alta il metallo si surriscalda ingrossando i suoi cristalli che si saldano tra loro, provocando
tensioni in fase di raffreddamento con conseguente rottura del pezzo.
Lo sviluppo della tecnica della tempra permise al ferro cementato di raggiungere una durezza
nettamente più elevata rispetto al bronzo, fornendo un materiale adatto alla fabbricazione di armi
principali ed importanti come le spade.
Ma presto ci si accorse di un problema fondamentale: la tempra, anche se effettuata perfettamente,
conferisce la massima durezza e la massima resistenza a trazione, ma anche la massima fragilità al
metallo che crea notevoli problemi in quanto aumenta pericolosamente la percentuale di rottura in
caso di impatto violento (nel nostro caso, la lama della spada che impatta contro una superficie più
dura); un successivo riscaldamento, ad una temperatura inferiore invece, riduceva la percentuale
delle rotture post-tempra.
Tale procedimento è detto rinvenimento e consisteva in un moderato riscaldamento del pezzo in
grado di eliminare effetti di tempra troppo drastici, come l'eccessiva durezza; in tal modo si
rinunciava ad un po' di durezza in favore di manufatti più duttili e meno fragili, adatti ad un uso
bellico in sintonia con quello di una spada.
A livello tecnico il rinvenimento consiste nel riscaldare l'acciaio a temperatura inferiore ai 727°C,
aumentando la resilienza e l'allungamento (e quindi la tenacità) a scapito però della durezza e della
resistenza a trazione. Il raffreddamento, a differenza della tempra, avviene in tempi lunghi, da
quello naturale all'aria a quello molto più graduale in sabbia.
Cividale del Friuli (UD), Necropoli S.Giovanni: spade provenienti da diverse sepolture, VI°-VII° secolo d.C.
Fonte: Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli (UD) in Balbi, 1991
57
6.1.5- La Damaschinatura
Ho accennato al procedimento della cementazione, che ha il principale scopo di arricchire di
carbonio il ferro trasformandolo, in minore o maggiore misura, in ferro carburato e quindi acciaio
almeno in superficie. Ho anche detto che questo procedimento è vincolato dalla durata di
esposizione del ferro al carbonio: più dura la cementazione più sarà elevato il valore di carbonio,
nel nostro caso, all'interno di una lama di spada; maggiore nei fili e via via sempre minore verso il
cuore. Ma una cementazione differente poteva essere effettuata spalmando quelle parti dell'oggetto
finito destinate ad avere maggiore durezza, come i fili della lama, con un impasto costituito da
sostanze carboniose (miscele di carbone, olii e residui organici quali ossa, corno, cuoio, etc..) e
collocando il pezzo in un vaso dove veniva ricoperto con terra inerte e sabbia. Il vaso, sigillato, era
posto nella fornace a una temperatura intorno ai 900°C (il “calor rosso”) e lì lasciato per il tempo
necessario al compiersi del processo di trasferimento del carbonio dal cemento alla superficie del
manufatto.(Giardino, 1998)
Si capisce quindi che, adottando diversi tempi e diversi metodi di cementazione, si possono ottenere
metalli con diverse caratteristiche meccaniche: dai più duri ai più tenaci; dai più plastici ai più
fragili. Riuscire a combinare insieme queste diverse caratteristiche vorrebbe dire creare dei
manufatti di straordinaria funzionalità, adatti agli usi più svariati e, nel caso di una spada, adatti ad
un uso bellico eccezionale.
Ebbene, i fabbri dell'antichità ma soprattutto i fabbri longobardi intuirono il principio della
“combinazione” tra diversi materiali per sfruttare le caratteristiche differenti di ognuno; per fare
questo il primo passo da fare era quello di saldare insieme due metalli.
La saldatura consente di giuntare dei pezzi di metallo previo riscaldamento e trattamento
meccanico, con o senza materiale di apporto. Fin da tempi antichi venivano praticati diversi
procedimenti, ma quello che a noi interessa al fine di trattare della damaschinatura è un particolare
procedimento detto bollitura.
La bollitura veniva effettuata dai fabbri per giungere tra loro pezzi di ferro che venivano portati allo
stato pastoso ( “calor bianco” di 1350°C) nella parte da saldare, immergendola nel fuoco di forgia;
l'unione era quindi ottenuta per pressione o per martellamento. (Giardino, 1998)
La tecnica della bollitura venne utilizzata dai fabbri antichi per saldare assieme lamine di ferro con
diversi livelli di carburazione, quindi differenti per durezza e fragilità, e ottenere così una struttura
complessa molto resistente ed elastica ideale per la produzione soprattutto di lame il cui taglio era
realizzato in buon acciaio. L'alternanza dei metalli, oltre a migliorare le caratteristiche meccaniche,
conferiva un aspetto marezzato alla superficie che era un effetto decorativo molto apprezzato anche
perchè era indice dell'alta qualità dell'oggetto. Questo procedimento prende il nome di
damaschinatura per saldatura (pattern welding) ed è una tecnica molto antica: fra i primi manufatti
così realizzati vi è un coltello egizio dal Ramesseum (900-800 a.C) ma pezzi consimili provengono
anche da altri contesti che attestano la tecnica anche in Etruria nel IV-III° secolo a.C o nell'Europa
centrale nell'età di La Tène.
Le tecnica della damaschinatura per saldatura si diffonde in Europa durante l'Alto Medioevo, fra il
V e il VII secolo d.C.: ne abbiamo buoni esempi in lame francesi di età merovingia e inglesi del
periodo anglosassone.
58
Ma la caratteristica fondamentale delle lame longobarde è quella di possedere una damaschinatura
propriamente detta, e quindi non per saldatura.
La damaschinatura vera e propria delle spade longobarde consiste in un fine e accurato alternare
superfici di acciaio a basso tenore di carbonio con altre ad elevato tenore oppure con la torsione di
barre di metalli con differenti percentuali di carbonio, successivamente saldate per bollitura.. Tale
tecnica ha comunque vari punti in comune con la più antica tecnica di damaschinatura per
saldatura ma differisce da essa sostanzialmente per il livello di cementazione molto più elevato che
i mastri fabbri erano riusciti ad ottenere, nonché per la maggiore delicatezza della struttura della
lama.
La damaschinatura coniugava un'elevata qualità al pregio estetico di un aspetto caratteristico,
proprietà dovute ambedue alla particolare struttura. Esse sono quindi ben riconoscibili ad
un'osservazione autoptica, a meno che la superficie non risulti alterata o ricoperta da prodotti di
corrosione; anche in tal caso sono comunque facilmente identificabili tramite metallografia o
radiograficamente. (Giardino, 1998)
Fig.2
Fig.1
Fig.4
In questa pagina:
Fig.3
Schema di damaschinatura del tipo “a torsione di barre”.
Fig.1: Vengono predisposte due barre di acciaio a diversa quantità di carbonio (due qualità diverse)
Fig.2: Le barre vengono ritorte a caldo tra di loro
Fig.4: Le barre mentre vengono ritorte a caldo vengono anche saldate tra di loro tramite bollitura
Fig.4: Il risultato della bollitura (saldatura a caldo operata tramite martellatura) delle due barre sarà un
manufatto di acciaio damascato, distinguibile per la superficie marezzata a rosette e striature dovuta alla
composizione diversa delle due barre
(dis. Pizzeghello)
59
6.1.6- La scanalatura longitudinale
Un breve accenno merita la scanalatura longitudinale che presentano alcune spathe longobarde:
scanalatura che percorre tutta la lama dall'impugnatura fino alla punta, su entrambi i lati.
La caratteristica è sporadica nelle lame (ne abbiamo un esempio per quelle ritrovate a Sovizzo) ma è
sufficiente per tentare di darne un'interpretazione tecnica.
La scanalatura, detta anche colasangue, può trovare spiegazione nell'esigenza di alleggerire la lama,
impiegando meno materiale, sfruttando il principio di resistenza dei fili paralleli anche in presenza
di minor materiale fra i due.
Sperimentalmente infatti sappiamo che una lama piena presenta la stessa resistenza ai fili di una
lama scanalata con in più, però, lo svantaggio di possedere più materiale e quindi più peso.
La scanalatura quindi ha lo scopo essenziale di tenere separati i due fili con quel minimo materiale
sufficiente a creare una superficie di congiunzione tra i due.
E' evidente, però, che la fabbricazione di una lama con scanalatura richiede una maestranza più
elevata di quella necessaria per la creazione di una lama piena, e quindi un grado di abilità più
elevato e direttamente proporzionale al costo stesso dell'arma.
Questo potrebbe spiegare la relativa scarsità di lame con scanalatura rispetto alle lame piene, per
quanto damaschinate.
Fig.2
Fig.1
Fig.3
In questa pagina
Fig.1 e 2: Esempio di lama con scanalatura longitudinale
Fig.3: esempio di sezione rilevata sulla lama con scanalatura longitudinale
(dis.Pizzeghello)
60
6.1.7- Le problematiche più comuni
Ho detto che le principali sollecitazioni alle quali è sottoposta una spatha sono di tipo meccanico e
possono portare a diverse conseguenze durante l'uso principale della stessa, ovvero il
combattimento.
Formazione delle “tacche” (Fig.9): ovvero delle scanalature e dei “tagli” sul filo della
lama provocati dalla penetrazione di un'arma più dura. Questa problematica è frequente
durante gli scontri di “lama contro lama” ed è dovuta ad un cattivo indurimento
(cementazione o tempra) dei fili della lama soggetta. Molto spesso identificabili in quanto
conservano il profilo del taglio della lama avversaria.
Piegamento della lama(Fig.10): che si verifica nel caso in cui la lama non abbia sufficiente
elasticità ma possieda un eccessiva malleabilità che comporta una deformazione permanente
del metallo conseguentemente a colpi violenti effettuati o ricevuti o ad una sollecitazione
prolungata nel tempo (una spinta) o improvvisa (una caduta accidentale)
Rottura per fragilità(Fig.11): che si verifica nel caso in cui la lama non abbia sufficiente
elasticità ma non possieda nemmeno malleabilità: è quindi molto dura e fragile. Solitamente
è la conseguenza del trattamento termico di tempra che però non viene succeduto dal
rinvenimento. Riscontrabile in quanto la sezione di rottura presenta la struttura tipica
martensitica formata dalla tempra, ovvero granulosa visibile anche ad occhio nudo.
Rottura per “cricca” (Fig.12): che si verifica per cattivo procedimento di tempra. Se il
trattamento termico di tempra non è uniforme (o viene effettuato a zone) e per
problematiche dovute alla lavorazione, la struttura della lama presenta zone di diversa
tempra, è probabile che tra queste zone si formino delle “cricche”. Essendo la “cricca” una
zona di diversa caratteristica tecnica, se colpita con un colpo violento potrebbe provocare il
distaccamento di un frammento di metallo dal corpo della lama oppure, caso estremo, la
rottura per frattura della lama stessa nel punto d'impatto.
Rottura sul codolo (Fig.13): che è la rottura per fragilità che si verifica nella zona tra il
codolo e la lama, dovuta all'errato angolo di separazione tra queste due parti. Durante colpi
violenti di spatha, infatti, le sollecitazioni si scaricano esattamente in questo punto e se
l'angolo di divisione risulta troppo netto è probabile una sua rottura netta.
Allentamento dell'impugnatura: che può verificarsi in seguito a sollecitazioni costanti che
producono vibrazioni lungo tutto il corpo della spatha. Questo può provocare un
allentamento dell'impugnatura, essendo infilata e ribattuta all'estremità. Il problema si
risolve ribattendo, all'occorrenza, il pomo all'estremità e quindi sottoponendo di nuovo a
pressione l'impugnatura sul corpo della spada.
61
TACCA
Fig.10
Fig.9
Fig.11
(dis.Pizzeghello)
62
Fig.12
CRICCA CON CONSEGENZA DI
ROTTURA DELLA LAMA
CRICCA CON CONSEGUENZA DI
DISTACCAMENTO DEL PEZZO
CRICCHE DI TEMPRA:
NON VISIBILI AD OCCHIO NUDO
ANGOLO STRETTO:
MAGGIOR PROBABILITA' DI ROTTURA
Fig.13
(dis.Pizzeghello)
63
ANGOLO AMPIO:
MINORE PROBABILITA' DI ROTTURA
6.1.8- Il prodotto finito
Riassumendo, il procedimento per formare la lama di una spada comprende:
il reperimento del materiale ferroso (in cava o in commercio)
la sua estrazione
la sua purificazione dalle scorie, trasformandolo in blume
l'operazione di battitura e formatura, che ha il vantaggio di operare una cementificazione
la tempra
il rinvenimento
A queste operazioni dobbiamo aggiungere tutto il lavoro successivo di finitura della lama (molatura,
lucidatura, affilatura) di creazione di elsa e pomo (tramite martellatura o fusione del bronzo in
stampo), di immanicatura (ovvero l'operazione di assemblaggio di elsa, impugnatura e pomo al
corpo principale della spada) e la ribattitura sul pomo dell'estremità del codolo (o del codolo stesso
in caso di mancanza del pomo).
Trattando, infine, di spade longobarde possiamo tranquillamente aggiungere (data la quantità
notevole dei reperti) le lavorazioni di:
damaschinatura
arricchimento delle impugnature tramite materiali preziosi
Si intuisce facilmente, quindi, che il lavoro di creazione di una spada è un lavoro molto lungo,
molto faticoso e, soprattutto, molto costoso che vincola il possedimento di tale arma
all'appartenenza ad una determinata classe sociale.
Da qui l'affermazione che il guerriero longobardo “standard” non necessariamente doveva
possedere una spada, il che ci viene confermato anche dalle Leggi Militari di Astolfo che non
menzionano il possedimento obbligatorio di tale arma, in favore invece della ben più accessibile
lancia. (Ahistvlfi Leges, 2,3 in Gasparri, Azzara, 2005)
Kranj, Slovenia: Spade venute alla luce nel corso degli scavi alla grande necropoli.
Fonte: Moro, 2004
64
6.2- Tipologie particolari: impugnatura ad anelli intrecciati
Tra i reperti di spathe longobarde, merita un cenno la tipologia con impugnatura detta “ad anelli
intrecciati” (ringknaufschwert). Si tratta di spade con pomi particolarmente sfarzosi, in argento
niellato o in oro con decorazioni a cloisonnè e lamine filigranate, a cui erano applicati lateralmente
due anelli intrecciati fra loro.
In Italia ne sono stati trovati cinque esemplari: due a Nocera Umbra (T.1 e T.32), uno ad Imola, una
a Trezzo d'Adda (T.1) e una proveniente da una località ignota e tutt'ora conservata al British
Museum di Londra. Non è un unico caso italiano: in tutta Europa ne sono state trovate 72 di cui 30
in Svezia, 4 in Norvegia, 1 in Ungheria, 11 in Germania, 17 in Gran Bretagna, 4 in Francia e 5, per
l'appunto, in Italia.
Si tratta di un manufatto apparso per la prima volta nella prima metà del VI° secolo d.C.,
probabilmente in Scandinavia. Da qui si diffuse poi nel resto d'Europa agli inizi del VII° secolo
arrivando anche ai Longobardi. Data la sua ricchezza era un oggetto che apparteneva sicuramente a
personaggi di rango sociale molto elevato.
Nocera Umbra (PG): T.1 e T.32: Impugnature di spade “ad anelli intrecciati” con decorazioni in oro a lamine
filigranate, prima metà del VII° secolo d.C.
Fonte: Museo dell'Alto Medioevo, Roma in Balbi, 1991
65
Trezzo d'Adda (MI), T.1: impugnatura di spada ad anelli intrecciati
in bronzo dorato e argento, con decorazioni a niello. Primo quarto del VII° secolo.
Fonte: Roffia, 1986
A lato: ipotetica ricostruzione della spada
Fonte: Del Tin Swords
66
6.3- Elementi correlati: la sospensione e il fodero
Un'arma come la spatha, quindi un'arma bianca da taglio molto costosa e importante, necessita di un
fodero che le permetta innanzitutto di essere trasportata e secondariamente di essere mantenuta
efficiente e quindi protetta dagli agenti esterni che possono danneggiarla.
Il fodero, a sua volta, deve essere sostenuto da un sistema di cinghie che ne assicurino la stabilità e
la giusta aderenza al corpo (un fodero troppo mobile risulterebbe più d'impaccio che d'utilità),
permettendo al guerriero effettuare i più svariati movimenti soprattutto durante un combattimento.
Per quanto riguarda il fodero, sappiamo che era costituito di materiale organico (cuoio o legno o
una combinazione di entrambi) con, molto spesso, dei rinforzi di metallo ai lati e in punta.
Il fodero della spada rinvenuta nella tomba T.1 di Trezzo d'Adda era guarnito da due anelli aurei,
decorati con motivi ad intreccio, di cui uno posto all'imboccatura e uno posto probabilmente in
corrispondenza del puntale: non è l'unico caso di fodero ornato di metalli preziosi e di complesse
lavorazioni applicate.
Il fodero della tomba T1 di Trezzo d'Adda ci ha restituito dei resti organici grazie ai quali è stato
possibile ricostruirne la struttura: era costituito da un corpo in legno di ontano (molto probabilmente
composto da assicelle) e rivestito in cuoio.
Frequentemente, nelle sepolture, si trovano due piccole staffe metalliche a ponticello in
corrispondenza del fodero le quali, con tutte le probabilità, erano applicate o sul lato esterno una
sopra l'altra o sulla parte anteriore affiancate e servivano a far passare le due cinghie di sospensione
della cintura.
Il sistema di sospensione del fodero era relativamente semplice: si trattava di una cintura principale
che cingeva il guerriero in vita e dalla quale scendevano due cinghie minori che sostenevano la
spada. Il tutto veniva poi sorretto da una cinghia regolabile (bandoliera) che veniva fatta passare
sopra la spalla opposta al lato di sospensione dell'arma, avente la funzione di agevolare e sostenere
il peso.
Ricostruzione del sistema di sospensione di una spatha
Fonte: De Marchi, Cini 1988
67
E' opportuno chiarire un concetto: la cintura era un elemento fondamentale del costume del
guerriero di stirpe germanica sia per la sua funzione pratica, appunto, di fermare l'arma in vita sia
per il suo valore magico-apotropaico legato all'oggetto in sé (nella mitologia norrena, ad esempio,
Thor vedeva accresciuti i suoi poteri grazie a dei guanti e ad una cintura) e nella particolare
decorazione raffigurata.
La cintura faceva già parte del costume longobardo al momento della migrazione in Italia e il tipo
più usato era quello cosiddetto “a cinque pezzi”che, anche con alcune variazioni, rimarrà in uso per
tutto il VII° secolo d.C.
La cintura a cinque pezzi è così chiamata dal numero di guarnizioni metalliche che la costituivano:
una fibbia con placca mobile, di solito di forma triangolare
una controplacca, della stessa forma
un puntale a “U” o a “becco d'anatra”
una placca di forma romboidale che con tutte le probabilità serviva a fissare la bandoliera
alla cintura principale
Nella seconda metà del VI° secolo d.C. le guarnizioni metalliche erano in oro negli esemplari più
sontuosi da parata o in ferro in quelli più comuni, con una decorazione in agemina che imitava la
tecnica a cloisonnè.
Negli ultimi anni del VI° secolo, primi del VII° secolo d.C. appare il cosiddetto “tipo Civezzano” in
ferro, composto dai cinque pezzi e decorato con agemina in argento.
Questo tipo di cintura durerà fino alla metà del secolo VII° per lasciare spazio poi ad un'evoluzione
sia nelle forme dei pezzi, molto più sagomati, sia nel loro numero che tenderà ad aumentare
arricchendosi di plachette e puntalini secondari, nello stile decorativo che vedrà il sopravvento di
motivi geometrici e floreali di derivazione mediterranea.
Sempre nei primi anni del VII° secolo d.C. appare una variante della cintura a cinque pezzi che
presenta le guarnizioni metalliche in bronzo fuso: è sempre composta da fibbia, placca e
controplacca triangolari; puntale a “becco d'anatra” mentre le placche secondarie sono solitamente
più di una, di forma trapezoidale, e presentano spesso un foro passante per la sospensione della
spatha a cui questa cintura è solitamente associata.
Questi elementi hanno forme massicce e ben definite e l'unico elemento decorativo presente è
costituito da borchiette bronzee con bordi perlati disposte in prossimità degli angoli. Di solito si
indica questo genere di cintura come “tipo S.Maria di Zevio”, dalla località veronese dove è stato
rinvenuto l'esemplare più completo ed elegante.
68
Sopra: Povegliano (VR), T.4: Guarnizioni bronzee per cintura a cinque pezzi, prima metà del VII° secolo
Fonte: Museo di Castelvecchio, Verona in Balbi, 1991
Sotto: Sovizzo (VI): Guarnizioni bronzee di cintura a cinque pezzi, metà del VII° secolo
Fonte: Cini-Ricci 1979
69
Fig.A
Fig.B
Fig.C
Fig.A: Cividale del Friuli (UD), necropoli di Santo Stefano, T.1: guarnizioni auree di cintura, prima metà VII°
secolo. Fonte: Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli in Balbi, 1991
Fig.B: Santa Maria di Zevio (VR): guarnizioni bronzee di cintura a cinque pezzi. Fonte: Von Hessen 1988
Fig.C: Salcano, T.18: Completo di cintura in ferro ageminato. Fonte: Moro, 2004.
70
6,4- Principali tecniche di combattimento
La spatha longobarda, così come la lancia, può essere sostanzialmente usata sia in combattimento
appiedato (Fig.14) sia in combattimento equestre (Fig.15) e anzi, proprio la sua forma e la sua
tipologia (lunga, a due tagli, adatta a colpire più di taglio che di punta) farebbero pensare ad un suo
uso prevalentemente equestre, fatto che confermerebbe l'appartenenza ad uno status elevato del
guerriero che se la poteva permettere.
E' importante in questa sede chiarire un concetto fondamentale su cui si basa la sperimentazione
schermistica: per il periodo considerato (VI°-VIII° secolo) non abbiamo purtroppo dei trattati veri e
propri sulla scherma di qualsiasi arma che potrebbero illustrarci l'uso e le tecniche impiegate, se non
vaghi riferimenti a combattimenti di gruppo (che tratterò più avanti). I primi trattati schermistici
risalgono ai primissimi secoli del basso medioevo e se da un lato possono venirci utili per operare
una sorta di “licenza schermistica” immaginando che le tecniche adoperate, ad esempio, nel X°
secolo d.C. siano simili a quelle che venivano adoperate tre secoli prima, dall'altro ci creano un
impedimento materiale in quanto nel giro di tre secoli, in un periodo di tempo come la transizione
dell'anno Mille, le armi impiegate iniziano ad evolversi sempre più rapidamente fino ad arrivare al
pieno basso medioevo dove si riscontra un'innovazione di cadenza addirittura decennale tra i vari
armamenti da offesa e da difesa.
Ne consegue quindi che per azzardare un metodo sperimentale schermistico bisogna,
principalmente, studiare l'arma che ci si appresta ad adoperare, valutandone la struttura, i vantaggi e
gli svantaggi.
6.4.1- Il guerriero appiedato
Così come per la lancia, anche la spatha poteva venire usata con lo scudo o da sola; a tal proposito è
però doveroso notare che il concepimento di una spatha longobarda è pressochè sempre “ad una
mano”, ovvero con l'impugnatura atta ad ospitare una mano sola. Ne consegue che la norma era
quella di usare contemporaneamente spatha e scudo; l'eccezione era rappresentata dalla perdita
dello scudo, dalla sua rottura o dall'impedimento del braccio atto a sostenerlo: in questi casi la spada
veniva brandita da sola, ma essendo questa un' eccezione basata più sull'immaginazione forzata di
un combattimento, mi limiterò ad analizzare le tecniche impiegate con il solo uso di spatha e scudo,
che è comunque anche l'abbinamento più frequente rilevato nelle sepolture longobarde in Italia.
Fig.14
(dis. Pizzeghello)
71
Fig.15
Innanzitutto per chiarire la gamma di “colpi” effettuabili con una spada generica di fattura
longobarda è essenziale, come ho detto, richiamare le caratteristiche stesse dell'arma.
La spada longobarda è in genere:
lunga (anche fino al metro e oltre)
ad una mano (cioè impugnabile con una sola mano)
appesantita in punta (e quindi possiede il baricentro molto spostato in avanti sulla lama,
dovuto alla leggerezza o alla mancanza di un pomo fungente da contrappeso)
più adatta a colpire di taglio che di punta (molto spesso le punte sono ogivali e poco
pronunciate)
a due tagli (e quindi utilizzabili sia in un verso che in un altro)
Da queste caratteristiche della spada longobarda possiamo subito capire che le tecniche di scherma
con un'arma simile sono alquanto limitate: la gamma di colpi effettuabili in un duello singolo è
piuttosto ridotta per non dire quasi minima, se non fosse per la “ripetizione” speculare dello stesso
movimento, solamente traslato nello spazio.
Un guerriero appiedato armato di scudo e spatha longobarda avrà sostanzialmente a disposizione 5
colpi fondamentali che, se osservati bene, si riducono allo stesso movimento effettuato però da
direzioni diverse:
il fendente (Fig.16): la spatha viene sollevata sopra la testa e viene abbassata violentemente
e verticalmente contro l'avversario. E' un colpo molto potente perchè oltre al peso dell'arma
in punta, sfrutta completamente la forza di gravità unita alla forza impressa dal combattente
che la brandisce.
Il mandritto (Fig.17): è un fendente abbassato diagonalmente e non verticalmente.
Acquista il nome dal fatto che viene effettuato in maniera “dritta” e quindi naturale rispetto
alla mano che tiene la spada: se il combattente brandisce l'arma con la mano destra, il
mandritto verrà effettuato da in alto a destra fino in basso a sinistra; se il combattente
brandisce l'arma con la mano sinistra il colpo sarà l'esatto contrario.
Il manrovescio (Fig.18): è un fendente abbassato diagonalmente e non verticalmente.
Acquista il nome dal fatto che è il contrapposto al mandritto ovvero viene effettuato al
rovescio: se il combattente brandisce l'arma con la mano destra, il manrovescio verrà
effettuato da in alto a sinistra fino in basso a destra; se il combattente brandisce l'arma con la
mano sinistra il colpo sarà l'esatto contrario.
Il mezzano (Fig.19): è un colpo che si può effettuare sia in maniera “dritta” che “rovescia”
ma differisce dai precedenti due colpi per la zona che va a colpire, ovvero il “mezzo busto”.
Il colpo viene effettuato parallelamente al terreno, sia verso il fianco sinistro sia verso il
fianco destro dell'avversario.
L'affondo (Fig.20): è il colpo effettuato usando la punta della spatha e protendendosi verso
l'avversario. Può sostanzialmente colpire qualsiasi parte del corpo.
Il mandritto e il manrovescio possono essere effettuati anche entrambi dal basso verso l'alto
aumentando di 2 la gamma dei colpi. E' importante sottolineare il fatto che comunque qualsiasi
colpo è vincolato alla posizione del corpo, dello scudo e della distanza tra i due combattenti.
72
Fig.16
Fig.17
Fig.19
Fig.18
Fig.20
(dis. Pizzeghello)
73
6.4.2- Il guerriero a cavallo
A differenza della scherma di lancia a cavallo, per la scherma di spatha equestre possiamo avere
delle sicurezze ulteriori essendo questa basata sul semplice utilizzo di una barra contundente, simile
ad una mazza, utilizzabile con una mano (è il principio basilare della spada) che ha in più il
vantaggio di tagliare oltre che provocare danni da urto.
In sostanza i colpi utilizzati da un combattente a cavallo sono gli stessi ripresi dal combattimento
appiedato che sfruttano, però, l'altezza raggiunta montando una cavalcatura e quindi, utilizzando
una spatha lunga, in una mischia ledono la parte vitale per eccellenza dei guerrieri appiedati
avversari, ovvero la testa.
Nel caso di scontro tra due guerrieri a cavallo, i colpi si ridurrebbero a scambi di mandritti,
manrovesci e fendenti ma il combattimento risulterebbe svantaggioso per entrambi, avendo al di
sotto una cavalcatura che non segue precisamente i movimenti del cavaliere, risultando più
d'impaccio che di aiuto.
Analizzando quindi solamente un guerriero a cavallo armato di spada che si lancia all'interno di una
mischia di guerrieri appiedati, le tecniche a disposizione sono sostanzialmente 2 e dipendono non
dall'utilizzo della spada ma dall'andatura della cavalcatura:
Fendenti, mandritti e manrovesci verso destra e verso sinistra (Fig.21): portati da sopra
il cavallo verso il basso e quindi verso le teste degli avversari, colpendo alternatamente
prima su un fianco e poi su un altro. Sono colpi effettuabili con un andatura mediamente
sostenuta così da riuscire a ricaricare in tempo utile ogni colpo e, soprattutto, impedire la
sosta prolungata del cavallo nel mezzo della mischia.
Mandritti e manrovesci roteati al galoppo (Fig.22): portati da sopra il cavallo,
sporgendosi da un lato o dall'altro verso il basso e, in un movimento roteato, effettuati
colpendo parallelamente al terreno o perpendicolarmente ad esso, dal basso verso l'alto.
Sfrutta la velocità del cavallo lanciato al galoppo e risulta un colpo difficilmente parabile e
deviabile da terra vista la velocità acquisita dalla mole della cavalcatura.
Fig.21
Fig.22
(dis.Pizzeghello)
74
E' doveroso accennare al fatto, però, che il cavallo fino almeno alla nascita ufficiale della cavalleria
pesante che carica a lancia in resta, è stato usato molto spesso per permettere al cavaliere di
raggiungere comodamente e in meno tempo possibile il luogo di combattimento, per poi scendere a
terra e combattere appiedato.
Talvolta invece, come ricorda Jean Flori parlando della più tarda cavalleria basso-medievale, i
cavalieri scendevano da cavallo mescolandosi e combattendo insieme ai fanti come avvenne, per
esempio, ad Hastings (1066), Dorylèe (1098), Brèmules (1119), Bourgthèroulde (1124), Lincoln
(1141), Crècy (1346) e Poiters (1356).
Questo “utilizzo” dei cavalieri appiedati prova che l'importanza militare della carica di cavalleria
nelle battaglie era meno determinante di quanto si creda.
La presenza dei cavalieri tra i fanti presentava infatti un doppio vantaggio: da una parte rassicurava
i combattenti appiedati ed evitava loro un fuggi fuggi troppo veloce; dall'altra toglieva ai cavalieri
ogni possibilità di fuga spingendoli così ad una lotta ad oltranza. (Flori, 2006)
Vicenza, Museo Civico: spathe longobarde a sezione concava e larga scanalatura (lunghezza massima
cm104,2). Quella con il pomolo ovoidale è carolingia.
Fonte: Previtali, 1983
75
7- LA SCRAMASAX
La scramasax è una specie di grossa daga, simile per le dimensioni al gladio romano, propria delle
popolazioni germaniche. La lama ad un solo taglio, leggermente arcuata, lunga circa 60 cm, è larga
e piatta, con la costola assai spessa.
Si tratta quindi essenzialmente di un grosso coltello dalla lama robusta dotato spesso di un'ampia
scanalatura, su entrambe le facce della lama, delimitata da due solcature parallele che corrono lungo
tutto il dorso; talvolta questa decorazione è sostituita da due o più solchi paralleli.
Anche se, come già visto, l'impiego di metallo con le relative abilità tecniche necessarie per la sua
lavorazione risultava accessibile solo ad un numero di individui in condizione, essenziale, di portare
le armi e in grado di permettersele, quest'arma prevedeva una tecnica di lavorazione molto più
semplice di quella usata per la fabbricazione di una spada: la scramasax veniva forgiata e modellata
martellando a caldo un semplice lingotto di ferro.
E' costituita, quindi, da un solo corpo fondamentale in metallo al quale veniva applicata
l'impugnatura che, come per le spade, era in materiale organico (legno, osso, cuoio o la loro
combinazione). Come la spatha, il corpo metallico veniva modellato in lama e codolo e alcuni
esemplari (come a San Salvatore di Maiano) ci hanno restituito una ghiera di bronzo che si
collocava nella zona dell'elsa con il solo scopo di dividere l'impugnatura dalla lama (o abbellire il
manufatto) in quanto si presenta come un'elsa totalmente aderente al corpo e non pronunciata, del
tutto inutile quindi in un combattimento.
Fig.1
Fig.2
Povegliano, località Ortaia (VR), Tomba 1:
Fig.1: Scramasax in ferro, codolo piatto a sezione rettangolare, appuntito, lama traingolare con due
scanalature. Lu: 48,3/ La: 4,5. Prima metà del VII secolo
Fig.2: Coltello di ferro dalla punta spezzata, immanicatura rettangolare e codolo trapezoidale. Si trovava sopra
il sax. Lu: 19 cm/ La: 2,1. Prima metà del VII secolo.
Fonte: Moro, 2004.
76
Schema di composizione principale di una scramasax standard e sua ipotetica ricostruzione
(dis. Pizzeghello)
77
E' fuori dubbio che, date le dimensioni inferiori ad una spada, il suo uso possa essere stato
essenzialmente di due tipi:
come arnese impiegato quotidianamente, ad esempio, per la caccia, i lavori agresti, il taglio
generico di cordame, cibi, pellame, etc..
come arma impiegata nel caso di combattimento ravvicinato
In Italia è frequente nelle regioni settentrionali mentre è molto rara o del tutto assente nelle
necropoli dell'Italia centro-meridionale; essendo un'arma originaria dell'Europa centro-orientale è
probabile che i Longobardi l'abbiano adottata grazie ai contatti con le popolazioni nomadi della
steppa, in quanto è frequente anche nelle sepolture della Pannonia.
Come la spatha, la scramasax veniva sicuramente portata all'interno di un fodero di materiale
deperibile, costituito probabilmente da una larga striscia di cuoio, ripiegata su se stessa e cucita.
Spesso si rinvengono borchie o bottoncini di rinforzo della cucitura, in bronzo e raramente in oro o
argento, disposti in modo da formare dei motivi ornamentali. Talvolta erano applicate anche alcune
placchette di varie fogge e dimensioni così come un puntale metallico (raro) come ci dimostrano gli
esemplari di scramasax provenienti da Orsaria (UD) e San Salvatore di Maiano (UD).
Frequentemente è stato ritrovato un coltellino associato alla scramasax, che farebbe pensare alla
presenza di un fodero più piccolo cucito assieme avente lo scopo di custodire questo attrezzo di
dimensioni minori, con chiaro utilizzo quotidiano.
Fig.A
Fig.B
In questa pagina
Fig.A: Ricostruzione di fodero di scramasax con coltellino
fonte: De Marchi, Cini, 1988
Fig.B: Orsaria (UD): Puntale bronzeo di fodero di scramasax, I metà del VII secolo
fonte: Museo Archeologico Nazionale Cividale del Friuli in Balbi, 1991
78
San Salvatore di Maiano (UD): tre scramasax medio lunghi. Di quello centrale viene ingrandito il dettaglio della
ghiera in bronzo (a destra). II metà del VII secolo
fonte: Museo Archeologico, Nazionale Cividale del Friuli in Balbi, 1991
79
7.1- Evoluzione
Le scramasax longobarde, in Italia, sono rare nel VI secolo: di dimensioni ridotte, hanno una lama
sottile e corta tra i 30 e 40 cm mentre nella prima metà del VII secolo diventano più robusti e più
lunghi, fino a raggiungere i 50 cm.
Nella seconda metà del VII secolo, molto probabilmente in concomitanza con l'aumentare
dell'importanza della cavalleria, le scramasax si allungano fino ad arrivare anche agli 80 cm,
diventando così delle vere e proprie sciabole pesanti e resistenti, perdendo evidentemente quel
doppio carattere di strumento agreste e arnese da guerra per favorire solo ed esclusivamente
quest'ultimo.
Fig.1
Fig.2
Fig.3
Fig.4
In questa pagina
Fig.1: Grande scramasax in ferro che presenta una doppia ghiera in bronzo nell'elsa e una doppia scanalatura
lungo il dorso che termina poco prima della punta. Lu: 63,6 cm; La: 4,9 cm
Fig.2: Scramasax in ferro con doppia scanalatura che termina prima della punta mancante. Lu: 43cm; La 4,5
cm
Fig.3: Scramasax in ferro con doppia scanalatura e ghiera in ferro nell'elsa. Lu: 32 cm; La: 4 cm.
Fig.4: Scramasax in ferro che presenta sei linee incrociate tra la scanalatura. Lu: 29, 2 cm; La 3,2 cm
Fonte: Cini-Ricci 1979
80
7.2- Elementi correlati: la cintura multipla
Se per la sospensione della spada sappiamo che il guerriero longobardo utilizzava generalmente la
cintura “a cinque pezzi” vista precedentemente, per la sospensione della scramasax era solito
utilizzare una cintura diversa.
Nei primi decenni del VII secolo, infatti, con l'apparire dei primi corredi da cavaliere appare anche
un altro genere di cintura che prende il nome di “cintura multipla”. Questa pare avesse avuto una
doppia funzione: di semplice ornamento, in occasione di feste e parate, e di sospensione della
scramasax: nella maggior parte dei casi, infatti, si rinviene in associazione di quest'arma e, spesso,
in contemporanea alla cintura “a cinque pezzi”.
La cintura multipla era formata da una cinghia principale e sottile che aveva, ad un'estremità, una
linguetta metallica e, all'altra, una fibbia con placca fissa. In alcuni casi vi era anche un passante
rettangolare.
A questa cinghia erano poi applicate numerose cinghie secondarie che pendevano da essa e che
avevano alle loro estremità delle linguette metalliche. Nel punto in cui venivano applicate queste
cinghiette alla cinghia principale, vi erano delle placche.
Le prime cinture di questo tipo usate dai Longobardi avevano le parti metalliche costituite da
metallo prezioso ma già nella prima metà del VII secolo in molti casi venivano sostituite da
imitazioni in ferro.
Le prime imitazioni erano ornate con spirali e volute ageminate; poi verso la metà del VII secolo
prese il sopravvento l'ornamentazione zoomorfa, contemporaneamente all'evoluzione della tecnica
di lavorazione: da questo momento i motivi non vengono più riportati sui pezzi ad agemina ma sono
eseguiti con la tecnica della placcatura, per cui il disegno viene intagliato su di una superficie
placcata.
Durante la seconda metà del VII secolo le linguette metalliche della cintura e delle cinghiette
secondarie tendono ad allungarsi e ad assottigliarsi sempre di più mentre l'ornamentazione
zoomorfa viene man mano sostituita da un motivo geometrico.
Anche se questo tipo di cintura viene normalmente associato alla sospensione della scramasax, sulla
base di alcuni ritrovamenti italiani non è da escludere che in alcuni rari casi la cintura multipla sia
stata usata per portare la spatha.
E' stata trovata infatti assieme alla sola spatha nelle tombe 1 e 119 di Nocera Umbra, nella tomba 90
di Castel Trosino e nella tomba 2 della necropoli dell'Arcisa.
Due scramasax corti (27 cm) ed un coltellino. Metà del VI secolo.
Fonte: Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli in Balbi, 1991
81
Sopra:ricostruzione del sistema di sospensione della scramasax con cintura multipla
Sotto: ricostruzione di vari tipi di cinture sospensorie
Fonte: Cini-Ricci 1979
82
7.3- Tecniche di combattimento
Per parlare delle tecniche di combattimento impiegate con la scramasax, è doveroso operare prima
di tutto una distinzione basata sull'evoluzione stessa dell'arma.
Si è detto che dall'inizio del VI alla seconda metà del VII secolo la scramasax ha avuto una sua
precisa evoluzione, passando da esemplari poco più grandi di un grosso coltello fino a diventare
un'autentica sciabola. E' chiaro quindi che questa sua evoluzione si è basata su esigenze prettamente
belliche: risulterebbe infatti svantaggioso e addirittura controproducente l'utilizzo di una scramasax
di VII secolo per dei lavori quotidiani.
La prima grande distinzione da operare, quindi, è quella relativa alla tipologia della scramasax che,
per semplicità, dividerò in:
scramasax corta
scramasax lunga (Langsax)
La scramasax corta, a mio parere, nasce come arnese da impiegare in diverse situazioni ma legate
essenzialmente alla quotidianità: avendo una lama tozza, corta, appuntita e affilata da un solo lato
ben si presta ad essere impiegata per diversi lavori di:
agricoltura: impiegata a guisa di accetta può decortecciare, appuntire, tagliare piccoli rami,
tagliare cordame, etc..
allevamento e caccia: impiegata per macellare animali di allevamento, cacciare selvaggina,
difesa dalle fiere, scuoiare, conciare, etc...
quotidianità: impiegata per tagliare il cibo, per lavori di manutenzione che necessitano il
taglio di vegetazione, arbusti, etc..
A questi si aggiunge l'impiego bellico: un arnese di ferro, affilato da un lato e con una punta,
difficilmente non verrà sfruttato in caso di combattimento.
La scramasax corta, proprio per questa sua caratteristica, è un'arma utilizzabile corpo a corpo
durante un contatto stretto che presuppone una distanza ridotta tra i due avversari. Può essere usata
anche a cavallo ma la sua evoluzione nel parametro della lunghezza rivela una chiara esigenza di
modificarne la tipologia per l'impiego soprattutto equestre; per questo analizzerò il combattimento a
cavallo in relazione alla scramasax lunga, limitando l'analisi per la scramasax corta al guerriero
appiedato.
(dis:Pizzeghello)
83
7.3.1- Il guerriero appiedato con scramasax corta
Per analizzare le tecniche di combattimento principali è innanzitutto necessario chiarire che:
la scramasax corta è più leggera di una spatha e quindi più maneggevole
la scramasax corta, per essere efficace, è vincolata ad una distanza ridotta tra i due
combattenti
la scramasax corta può essere portata in contemporanea alla spatha, alla lancia o ad
entrambe
la scramasax corta può essere usata con lo scudo o senza
Innanzitutto con la scramasax si possono impiegare gli stessi colpi fondamentali della spatha e
quindi:
il fendente
il mandritto
il manrovescio
il mezzano
l'affondo
con lo svantaggio di portare, però, dei colpi meno potenti in quanto l'arma possiede un peso minore
rispetto alla spatha.
Proprio questo fattore, unito alla maggiore maneggevolezza, consente però di cambiare modo di
impugnatura dell'arma, cosa che con una spatha è fattibile ma di sicuro inutile e anzi
controproducente.
La scramasax corta, infatti, si può impugnare:
a mano dritta (Fig.1): come una spatha
a mano contraria (Fig.2): come un pugnale
Fig.1
Fig.2
(dis: Pizzeghello)
84
Impugnando la scramasax corta a mano dritta, la si può impiegare quindi come una spatha.
Impugnando la scramasax corta a mano contraria il guerriero avrà a disposizione una gamma di
colpi non propriamente classificabili perchè basati tutti essenzialmente sull' attacco atto ad infilzare
in punti diversi l'avversario, proprio come un pugnale (Fig.3 e 4).
Fig.3
Fig.4
(dis. Pizzeghello)
85
7.3.2- Il guerriero a cavallo con scramasax lunga
La scramasax lunga è l'evoluzione dell'originario grosso coltello: la comparsa graduale di questa
tipologia nelle sepolture con corredo chiaramente equestre conferma l'esigenza di possedere
un'arma impiegabile durante il combattimento a cavallo.
Avendo dimensioni comunque ridotte rispetto ad una spatha, permette un uso più concreto durante
la cavalcatura: i colpi saranno sostanzialmente quelli effettuabili con una spatha ovvero:
Fendenti, mandritti e manrovesci verso destra e verso sinistra
Mandritti e manrovesci roteati al galoppo
con l'agginuta di tecniche prettamente sviluppate in relazione all'evoluzione stessa dell'arma,
ovvero:
Fendenti, mandritti e manrovesci dall'alto della cavalcatura (Fig.5): in posizioni diverse
effettuabili sfruttando la maneggevolezza dell'arma, permettendo di sporgersi dal cavallo al
trotto o al galoppo e colpendo gli avversari dal torace in su
Combattimento ravvicinato tra guerrieri a cavallo (Fig.6): grazie agli ingombri minori
rispetto ad una spatha, che permettono colpi più veloci e precisi, sbilanciandosi meno dalla
cavalcatura.
Fig.5
Fig.6
(dis: Pizzeghello)
86
8- LO SCUDO
Lo scudo, in latino scutum, clypeus, oltre ad essere l'arma difensiva più importante e diffusa in
diverse culture e in diverse epoche storiche, era, per le popolazioni germaniche, un'arma
estremamente carica di significato tanto che in battaglia risultava più importante perfino delle altre
armi: “Riportano dal campo di battaglia i cadaveri anche in caso di scontri dall'esito incerto, e
considerano colpa gravissima l'abbandono dello scudo sul campo: al disertore non è permesso di
assistere ai sacrifici ne di prendere parte alle assemblee, tanto che molti, sopravvissuti al
combattimento, per porre fine alla loro infamante condizione si impiccano” (Tacito,Germ.,6, 4)
Ai giovani guerrieri, in occasione del loro primo combattimento, veniva consegnato lo scudo quale
simbolo di iniziazione alla guerra e il suo abbandono sul campo di battaglia era quindi motivo di
disonore. Il corpo del guerriero caduto in battaglia veniva trasportato sul suo scudo e con la
cerimonia di “innalzamento sugli scudi” veniva sanzionata l'elezione del re (Moro, 2004). La sua
posizione nella sepoltura è varia: si poteva trovare appoggiato alle pareti laterali, all'altezza del capo
o dei fianchi o deposto sopra la cassa, ad altezza del viso.
Lo scudo longobardo era generalmente di forma rotonda o ellittica e costituito da 3 parti principali:
il corpo: si tratta dello scudo vero e proprio, costituito da legno molto spesso rivestito di
cuoio. Poteva essere formato da una tavola intera o da più listelle affiancate e sovrapposte,
fissate le une alle altre.
L'umbone: è la porzione metallica che serve ad ospitare e riparare la mano che impugna lo
scudo.
L'impugnatura: può essere interamente metallica, interamente lignea o una combinazione
tra i due materiali e serve ad impugnare lo scudo.
87
VISTA ANTERIORE
VISTA POSTERIORE
Schemi ricostruttivi di scudo germanico standard e parti costitutive
(dis.Pizzeghello)
88
8.1- Tecniche costruttive ed evoluzione
In base a delle stime approssimative possiamo ipotizzare che uno scudo longobardo misurasse dai
60 ai 90 cm di diametro: purtroppo non possediamo dati certi se non qualche frammento relativo al
corpo che, però, non è sufficiente per ricostruire le dimensioni effettive.
Era in legno spesso ricoperto di cuoio, con l'umbone metallico centrale sulla faccia esterna e
l'impugnatura, frequentemente metallica, applicata sul retro mediante borchie.
L'impugnatura poteva essere di due tipi:
a braccio unico arcuato: il più diffuso in Italia
a braccio terminante a forcella: molto più raro
L'umbone metallico è fondamentale per conoscere l'epoca di appartenenza dello scudo, in quanto la
sua forma ha subìto un'evoluzione costante dall'arrivo dei longobardi in Italia.
Nella fase pannonica e nei primi anni della permanenza in Italia (VI secolo), l'umbone è di
dimensioni modeste, di diametro di circa 20 cm, con la falda relativamente stretta, la parte centrale
conica e la coppa a cono appiattito, spesso recante sulla sommità un bottone sporgente in ferro
circolare (Fig.1). In quest'epoca gli umboni sono fissati al corpo con cinque chiodi ribattuti o cinque
borchie di ferro, circolari e piatte.
Alla fine del VI e agli inizi del VII secolo la forma cambia: le dimensioni aumentano fino a
superare i 20 cm di diametro, la falda si allarga, la parte centrale rimane conica mentre la coppa
inizia ad arrotondarsi fino a diventare, attraverso passaggi intermedi, emisferica (Fig.2). Le borchie
di fissaggio in ferro vengono sostituite da quelle in bronzo dorato, decorate a motivi geometrici e
punzonati.
Cividale del Friuli (UD), tomba detta di Gisulfo: impugnatura metallica con braccia a forcella, prima metà del
VII secolo.
Fonte: Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli in Balbi, 1991
89
Fig.1
Fig.2
Schematizzazione delle tipologie di umboni longobardi, dalla forma originaria di VI secolo (Fig.1) a quella finale
di VII secolo (Fig.2). I fori e le borchiature sono omesse per semplicità.
(dis: Pizzeghello)
90
Il rinvenimento, nelle tombe di Trezzo d'Adda, di alcune parti organiche di scudo, ha permesso di
ricostruirne ipoteticamente le varie fasi della lavorazione.
Innanzitutto possiamo ipotizzare che fossero presenti due tipologie di corpo:
il corpo pieno: ovvero ricavato da un'unica tavola di legno
il corpo fasciato: ovvero ottenuto assemblando diverse listelle di legno
Per quanto riguarda il corpo pieno, dapprima il disco di legno veniva tagliato da una pianta di
diametro adeguato alla dimensione finita dello scudo: il taglio poteva avvenire per segagione o
spacco (Fig.3).
Il corpo fasciato invece prevede l'impiego di tavole di dimensioni minori affiancate una all'altra e
tenute insieme da traversi chiodati nella parte posteriore, per poi ritagliare il corpo di forma
circolare (Fig.4). Si ipotizza però anche l'impiego di una fasciatura verticale sovrapposta e tenuta
assieme da una fasciatura orizzontale, con il vantaggio di fornire un'elevata resistenza (Fig.5).
Lo spessore della tavola o dell'insieme di tavole, dedotto dalla lunghezza dei chiodi, poteva variare
da 0,8 a 1,2 cm.
Veniva poi praticato il foro centrale corrispondente all'umbone mentre a parte veniva preparata
un'anima lignea che si sarebbe inserita successivamente nell'impugnatura metallica. Quest'ultima
veniva poi fissata al corpo mediante chiodi ribattuti. Infine lo scudo veniva ricoperto interamente di
cuoio e vi veniva applicato l'umbone.
Fig.3
Fig.4
Fig.5
(dis: Pizzeghello)
91
Sovizzo (VI): diverse tipologie di umboni.
Tipo1: Umbone in ferro, con stretta bordatura, parte centrale conica e cupola a cono appiattito. Manca di una
parte. H: 7cm; Ø max: 17,9cm. Seconda metà del VI secolo
Tipo 2: Umbone in ferro, con bordatura abbastanza larga, parte centrale conica e cupola a forma di cono con
pareti leggermente convesse. H: 6,15 cm; Ø max: 17,5cm. Fine del VI secolo.
Tipo 3: Umbone in ferro, con bordatura larga, parte centrale troncoconica e calotta emisferica. In cima alla
cupola presenta un chiodo con testa appiattita piuttosto larga. H: 10,6 cm; Ø max: 19,7 cm. Inizi VII secolo.
Tipo4: Umbone in ferro, con larga bordatura, parte centrale troncoconica e cupola emisferica. H: 9,5 cm; Ø
max: 9,4cm. VII secolo.
Fonte: Cini-Ricci 1979
92
8.2- Scudo concavo o scudo piatto?
Si è detto che la totale mancanza di reperti organici relativi al corpo dello scudo, di dimensioni
sufficientemente ampie, non ci permette di operare una ricostruzione esatta e comprovata di
quest'arma difensiva.
L'unico parametro che ci permette di dare una forma al corpo ligneo dello scudo è l'impugnatura,
caratterizzata dal fatto che le braccia di fissaggio si estendono per molto al di fuori dell'effettiva
zona impugnata. Possiamo quindi ipotizzare con una buona certezza che la lunghezza totale
dell'impugnatura si avvicini di molto alla misura effettiva del diametro dello scudo.
Ma le impugnature ritrovate ci presentano un altro problema ovvero quello della forma effettiva
dello scudo. Molte impugnature, infatti, risultano diritte mentre altre risultano leggermente arcuate,
facendo pensare ad una forma convessa dello scudo longobardo.
In mancanza di certezze in entrambe le direzioni, dobbiamo ipotizzare che gli scudi longobardi
potessero essere:
scudi piatti (Fig.6)
scudi convessi (Fig.7)
E' opportuno quindi analizzare queste due tipologie di scudo, ipotizzando le tecniche di costruzione
per capirne vantaggi e svantaggi.
Fig.6
Fig.7
(dis: Pizzeghello)
93
Testona (TO): Umboni e impugnature di scudo, seconda metà del VI secolo. Si noti l'impugnatura a braccia
arcuate a sinistra e quella a braccia diritte a destra.
Fonte: Von Hessen 1971
94
Fig. A
Fig. B
Fig. C
Fig. D
Fig. E
Fig. F
In questa pagina:
Fig.A: Povegliano (VR): umbone a cupola conica schiacciata e tesa stretta con quattro ribattini. Seconda metà
del VI secolo. (Museo di Castelvecchio, Verona)
Fig.B: Umbone a calotta bassa e tesa stretta, fine VI secolo. (Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli)
Fig.C: Fornovo San Giovanni, Caravaggio (BG): umbone a calotta emisferica con ribattino alla sommità. Inizi
VII secolo (Civico Museo Archeologico, Bergamo)
Fig. D: Umbone a calotta emisferica con un ribattino alla sommità. Inizi VII secolo (Museo Archeologico
Nazionale, Cividale del Friuli)
Fig.E: Umbone a calotta emisferica carenata all'unione con la fascia mediana troncoconica. VII secolo. (Museo
Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli)
Fig. F: Umbone a calotta emisferica con ribattino a testa piatta sulla sommità. Inizi del VII secolo. (Museo
Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli)
95
8.2.1- Lo scudo piatto
E' la tipologia più semplice da costruire: può essere costituito da un'unica tavola o da listelle
affiancate e tenute insieme da traversi o da un'ulteriore fasciatura sovrapposta in senso contrario.
E' generalmente ipotizzabile dal rinvenimento di impugnature che non presentano una curvatura,
ovvero sono diritte rispetto al loro asse.
Lo scudo piatto può essere usato agevolmente ma presenta il principale svantaggio nel fatto che non
riesce a scaricare la tensione del colpo ricevuto, in quanto se l'arma impatta violentemente contro la
sua superficie piana, la forza d'impatto viene completamente ricevuta non avendo modo di essere
scaricata in alcuna direzione. Inoltre, lo scudo piatto sarà soggetto all'usura del bordo, utilizzabile
anche come arma offensiva, dovuta alle parate che consentono alla lama avversaria di penetrare a
fondo nelle venature del legno o tra listella e listella nel caso di fasciatura.
Esempi di ipotizzabile scudo piatto ce li forniscono le impugnature ritrovate a Testona , Cividale del
Friuli, Fornovo San Giovanni, Kajdacs.
Fornovo San Giovanni, Caravaggio (BG):
Umbone di scudo a calotta emisferica su fascia mediana troncoconica. Tesa larga munita di cinque ribattini. H:
9 cm; Ø: 20,7 cm. VII secolo.
A lato: Impugnatura con alette ripiegate e due braccia dritte terminanti con due ribattini circolari per il
fissaggio al corpo ligneo. L:cm 42, 6. VII secolo.
La tipologia delle braccia ipotizza la forma piatta dello scudo.
Fonte: Civiche Raccolte Archeologiche, Milano in Balbi, 1991
96
8.2.2- Lo scudo convesso
Lo scudo convesso rappresenta la tipologia più complessa riguardante gli scudi longobardi. I
ritrovamenti di impugnature con braccia arcuate, come ad esempio a Testona, Vicenza e Trezzo
d'Adda, ne confermerebbero l'uso.
Si tratta di una forma che presenta il vantaggio fondamentale, rispetto allo scudo piatto, di riuscire a
scaricare la forza d'impatto delle armi avversarie, siano da taglio, da botta o da punta. Inoltre, la
particolare forma permette una copertura migliore dalla spalla al fianco.
Stabilire con certezza la tecnica di fabbricazione dello scudo convesso risulta azzardato, considerato
che gli unici dati certi che abbiamo sono quelli della sperimentazione odierna.
Lo scudo convesso viene, per facilità, fabbricato con la tecnica della fasciatura ma non è esclusa la
sua fabbricazione tramite tavola unica che, comunque, rimane molto più complessa.
Vicenza, Museo Civico:ricostruzione ideale di uno scudo longobardo e umboni in ferro.
Fonte: Previatli, 1983
97
8.2.3- La fasciatura su dima
Sperimentalmente, risulta essere il metodo più semplice e che garantisce il miglior risultato.
Consiste nel creare una dima (dischi sovrapposti di diametro diverso l'uno dall'altro) di legno e
iniziare a inchiodare su di essa delle listelle di legno di spessore ridotto, preventivamente lasciate
ammorbidire in acqua o rese malleabili con il calore del fuoco, prima in un senso e poi in un altro,
intervallandole a strati di resina calda che, una volta essiccata, li assembla come una colla. Il tutto
viene poi rivestito da una spessa crosta di cuoio che garantisce l'assemblaggio e, soprattutto, la
resistenza.
La tecnica della fasciatura su dima si rivela essere, ad oggi, il metodo migliore per la creazione di
uno scudo convesso, in quanto a prodotto finito coniuga i massimi valori di resistenza ed elasticità
rapportati al procedimento della lavorazione. La dima, inoltre, una volkta creata risulta utilizzabile
per la creazione di altri scudi in serie.
DIMA
RESINA
LISTELLE
IN
VERTICALE
Rappresentazione schematica di fasciatura su dima
(dis: Pizzeghello)
98
LISTELLE
IN
ORIZZONTALE
8.2.4- La tavola unica: piegatura a legno ammorbidito con acqua
Consiste nel tagliare una tavola unica circolare di spessore ridotto e, dopo averla lasciata in
ammollo in acqua per un tempo sufficiente, sospenderla su di una struttura di appoggio sul bordo
posizionando un peso nel suo centro, in modo che quest'ultimo agisca dall'alto verso il basso
creando la convessità (Fig.8). L'operazione viene effettuata su un numero di tavole sufficiente a
creare lo spessore desiderato, tavole che verranno assemblate poi tramite incollatura a resina e
chiodatura. Il tutto verrà poi ricoperto di crosta di cuoio.
Si tratta di un metodo molto più dispendioso e complicato della fasciatura su dima, vincolato al
diametro della pianta dalla quale ricavare le tavole e dalla diversa curvatura di ciascuno strato che
non sarà mai uguale ad un altro.
Fig.8
Fig.9
Rappresentazione schematica di piegatura a legno ammorbidito con acqua e veduta in pianta della disposizione
del peso P e dei punti di appoggio sul bordo (Fig.9).
(dis: Pizzeghello)
99
8.2.5- La tavola unica: piegatura a caldo o a vapore
E' lo stesso procedimento di quello per ammorbidimento con acqua che , però, sfrutta il calore di un
fuoco acceso o di un generatore di vapore per effettuare la piegatura.
Le tavole vengono posizionate sulla struttura di appoggio sul bordo, con un peso al centro. Sotto di
esse viene acceso un fuoco oppure viene posizionato un generatore di vapore (pentola o recipiente
con acqua): il calore nel primo caso e il vapore nel secondo provocano la distensione delle fibre
legnose che, influenzate dal peso, acquistano la convessità desiderata.
Oltre ad avere gli stessi svantaggi della tecnica per ammorbidimento con acqua, presenta la
necessità di avere a disposizione fuoco e quindi combustibile, un recipiente adatto alla bollitura
dell'acqua e una costante supervisione per evitare, nel caso della piegatura a caldo, che le fiamme
lambiscano la superficie della tavola.
Rappresentazione schematica di piegatura a caldo o a vapore.
(dis:Pizzeghello)
100
8.3- Il caso italiano: lo scudo da parata
Un genere di scudo particolare, che appare all'inizio del VII secolo, è lo “scudo da parata”
(prunkshild): compare nelle sepolture dell'Italia centro-settentrionale anche se alcuni esemplari sono
stati trovati nei territori transalpini abitati da Alamanni e Bavari.
Scudi di questo tipo, o più propriamente reperti inerenti a tale arma, sono stati trovati in tombe per
lo più con corredo ricco e prezioso, riferibili perciò a defunti di elevato rango sociale: risulta però
difficile definire questa categoria di scudi ovvero la sua connessione con particolari gradi della
carriera militare , civile pubblica, nobiliare o tutte contemporaneamente.
Si differenziano dagli altri scudi per la maggiore decorazione, sia a livello costruttivo ( i materiali
impiegati sono più preziosi e quindi conferiscono un'estetica diversa), sia a livello ornamentale
(presentano spesso delle decorazioni applicate successivamente): le tipologie più semplici
riportavano delle borchie in bronzo dorato sulla falda, all'apice dell'umbone e frequentemente su
tutta la superficie dello scudo.
Altre tipologie avevano delle lamine in bronzo dorato o di rame applicate alla sommità dell'umbone
che potevano essere a forma di croce a quattro o sei braccia della stessa lunghezza.
Lucca, San Romano: ricostruzione dello scudo da parata.
Fonte: Fuchs, 1940
101
Decorazioni di scudi da parata del VII secolo
fonte: Werner, 1962
102
8.3.1- La triquetra
Fra le decorazioni più preziose e più complesse degli scudi da parata vi era quella della triquetra,
cioè un vortice di tre teste di animali fantastici o di rapaci, uniti al centro dai lunghi colli che
ruotano sullo stesso asse.
La decorazione di questi animali, punzonata, presentava delle file variamente disposte di triangolini
e puntini, mentre l'occhio dell'animale era solitamente dato dalla testa del chiodino di fissaggio
all'umbone.
La triquetra era un motivo ornamentale di origine mediterranea anche se molto comune presso le
genti di etnia celtica. La testa di rapace, invece, era un simbolo molto diffuso in ambiente
germanico ed era legato all'iconografia guerriera: si ipotizza che questo simbolo servisse per porre il
guerriero sotto la protezione di Odino (Wotan/Godan per i Longobardi delle origini) che era spesso
raffigurato come un'aquila.
A conferma di questa usanza religiosa, le tombe T.1 di Trezzo d'Adda e T.1 di Nocera Umbra
hanno restituito delle guarnizioni in oro di cintura multipla recanti ciascuna, sul puntale principale,
un medaglione contenente un'aquila.
Rappresentazione di triquetra standard.
Fonte: Werner, 1962
103
A
B
C
E
H
Tipologie di triquetre:
A: Fornovo San Giovanni (BG)
B: Cellore d'Illasi (VR)
C: Testona (TO)
D: Offanengo (CR), T.1
E: Brescia
F: Castel Trosino (AP), T.9
G: Castel Trosino (AP), T.10
H: Scanzo (BG)
I: Ischl an der Alz
fonte: De Marchi, Cini, 1988
104
D
F
G
I
Fig.A
Fig.B
Fig.C
Fig.D
Fig.E
In questa pagina:
Fig. A e B: Scanzo, Rosciate (BG): umbone di scudo da parata con decorazione in bronzo a triquetra, metà VII
secolo. Fonte: Balbi, 1991.
Fig.C e D: Cividale del Friuli, tomba di Gisulfo: umbone di scudo da parata con decorazione cruciforme in
bronzo, metà VII secolo. Fonte: Balbi, 1991
Fig. E: Stabio, Canton Ticino: decorazioni di scudo da parata, secondo terzo del VII secolo. Fonte: Bertelli,
Brogiolo, 2000
105
Scudi da parata più sontuosi presentavano, inoltre, ulteriori decorazioni costituite da lamine in
bronzo dorato a forma di guerriero, di cavaliere, di pavone o altri animali, di trifoglio spesso
distribuite su tutto lo scudo; i dettagli interni di queste figure erano ottenute a punzone.
E' significativo il ritrovamento di uno scudo da parata datato al VII secolo, venuto alla luce nel
1986 a Boffalora d'Adda, in provincia di Milano: l'umbone, in ferro e a calotta emisferica, presenta
sulla sommità una decorazione a forma di croce in rame dorato mentre la tesa, larga, è decorata da
borchie e da cinque lamine, dorate anch'esse, a forma di cavallino.
La superficie dello scudo è a sua volta ornata da altre borchie e da lamine a forma di aquila ad ali
spiegate.
Boffalora d'Adda (MI), T.2: lamina in bronzo dorato appartenente alla decorazione di uno scudo da parata e
raffigurante un'aquila ad ali spiegate, secondo quarto del VII secolo.
Fonte: Depositi della Soprintendenza della Lombardia, Milano, in Balbi, 1991
106
Sovizzo (VI): Umbone in ferro di scudo da parata, con larga bordatura, parte centrale conica e cupola
emisferica. Sulla cupola è fissata, con una borchia in bronzo dorato, una croce a braccia sagomate anch'essa in
bronzo dorato, fissata all'estremità dei bracci da un piccolo chiodo di bronzo dorato a capocchia semisferica.
All'interno delle braccia reca la raffigurazione di un guerriero stante e armato. H: 9,5 cm. Ø max
ricostruibile: 20,6 cm. E' uno dei pochi esemplari a recare raffigurazioni umane. Prima metà del VII secolo.
Fonte: Cini-Ricci 1979
107
Generalmente, con il nome “scudo da parata” si identifica una tipologia di scudo che difficilmente
poteva essere impiegata in battaglia, proprio per le preziose decorazioni che potevano venire
rovinate. L'ipotesi plausibile riguardo l'utilizzo di tale arma, quindi, risulta quella di evidenziare il
proprio status sociale tra gli arimanni: una sorta di aristocrazia guerriera.
Non è un caso che gli elementi di scudi da parata vengano ritrovati solo in abbinamento ad armi e
corredi di notevole fattura e, nel caso delle tombe di Trezzo d'Adda e Collegno, abbinati alla punta
di lancia traforata, cosa che farebbe pensare a sepolture di funzionari regi o individui di alto rango
politico, a cui venivano affidati gli stendardi e le insegne del potere.
Proprio la Tomba T.53 di Collegno, però, ci ha restituito l'umbone dello scudo da parata con una
rottura sulla calotta che per l'andamento del profilo sembra causata dal colpo di un'arma da taglio
che suggerirebbe il reale uso dello scudo in battaglia, confermando l'attività effettivamente svolta in
vita dal possessore.
Collegno (TO), T.53: Umbone di scudo da parata. Primo trentennio del VII secolo
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
108
9- L'ASCIA
L'ascia (o scure), in latino securis, anche se considerata l'arma nazionale franca era invece diffusa
presso tutti i popoli che avevano contatti con l'area merovingia e viene infatti rinvenuta soprattutto
nelle sepolture di quest'area, dalla metà del V secolo all'inizio del VII.
E' costituita essenzialmente da 2 parti fondamentali:
l'impugnatura: (o manico), che è solitamente di legno e può avere diverse lunghezze: dal
manico corto per le scuri da lancio o da corpo a corpo, impugnata con una mano, al manico
lungo, impugnabile con due mani, per il combattimento pesante ravvicinato. Talvolta il
manico può allungarsi fino a divenire lungo più del guerriero che la brandisce, divenendo
così una vera e propria arma in asta.
la testa: (o lama), di fatto la parte contundente dell'arma, in metallo, di diverse forme e
dimensioni quindi di diverso peso. Poteva avere una sola parte prolungata e affilata (la lama
propriamente detta o penna) oppure due parti opposte affilate (bipenne). La scure impiegata
in battaglia si riconosce per la caratteristica curvatura, più o meno accentuata, della lama
verso il basso, che prende il nome di barba e che nei secoli successivi connoterà l'ascia
cosiddetta barbuta.
Il peso della testa poteva essere variabile e molto spesso grazie ad esso, unitamente alla forma,
possiamo risalire all'effettivo impiego: teste che rientrano in un peso dai 300 ai 600 grammi
ipotizzano un utilizzo prettamente da lancio o ad una mano mentre pesi da 600 a 900 e oltre
lasciano pensare ad un utilizzo come arma a due mani da combattimento pesante e in asta, anche se
risulta pressochè impossibile stabilire con certezza le reali possibilità fisiche di un guerriero del
tempo. Dal più tardo Arazzo di Bayeux, infatti, notiamo i Sassoni di Harold che utilizzano delle
scuri da lancio impugnate però a due mani e aventi un manico lungo e una grossa testa.
109
Composizione fondamentale di un'ascia generica e schematizzazione di varie dimensioni e varie forme di ascia.
(dis: Pizzeghello)
110
Anche se viene identificata come un'arma fondamentale per la cultura merovingia, l'ascia è
considerata uno strumento di guerra secondario in quanto nasce come arnese da lavoro legato a
mansioni quotidiane come il taglio di legname ma anche come attrezzo per lavori di carpenteria,
diretta evoluzione delle asce più antiche, in bronzo, che presentavano l'innesto ad alette o a
cannone.
Con il termine francisca, l'ascia da combattimento compare per la prima volta nel XX libro delle
Origines di Isidoro di Siviglia, redatte intorno al 630 d.C., e da qui deriverebbe appunto il termine
Franchi, popolo abilissimo nell'uso bellico di questo attrezzo.
Procopio, nel De Bello Gothico, si sofferma ad illustrarne l'uso da parte di questi ultimi: “[i
Franchi]...avevano solo poche truppe a cavallo, a seguito del capo, le uniche armate di lancia,
mentre tutti gli altri erano privi di archi e di lance e portavano ciascuno una spada, uno scudo e
una scure, che aveva il ferro robusto e tagliente da entrambe le parti e un'impugnatura di legno
cortissima. Scagliavano al comando questa scure tutti insieme, e al primo assalto solevano
infrangere gli scudi dei nemici e ucciderli”.(Proc. Bell. Goth., II, 25)
E' interessante quindi notare l'effetto devastante che quest'arma produceva una volta scagliata: la
testa della scure era pesante in modo da produrre un forte impatto sul bersaglio, ma poiché l'arma
non era equilibrata (il peso era tutto in punta), la sua traiettoria in volo non era molto regolare.
Il suo uso quindi richiedeva un'abilità non da poco e questo ci viene dimostrato proprio da Paolo
Diacono in occasione di un episodio inerente il re Autari che rivela la propria identità ad un gruppo
di sbalorditi Bavari sferrando un terribile colpo di scure contro un albero: “Igitur Authari cum iam
prope Italiae fines venisset sequmque adhuc qui eum deducebant Baioarios haberet, erexit se
quantum super equum cui praesidebat potuit et toto adnisu securiculam, quam manu gestabat, in
arborem quae proximior aderat fixit eamque fixam reliquit, adiciens haec insuper verbis “ Talem
Authari feritam facere solet”. Cumque haec dixisset, tunc intellexerunt Baioarii qui cum eo
comitabantur, eo ipsum regem Authari esse.” (Paolo Diacono, Hist. Lang, III, 30)
In Italia, i ritrovamenti di ascia sono rari e non databili con sicurezza. I reperti più significativi
provengono da Testona (TO), Povegliano (VR) e Benevento e riguardano teste di ascia con il lato
superiore diritto e il lato inferiore con la barba piuttosto pronunciata.
Povegliano (VR), T.4: ascia in ferro di tipo barbuto. VII secolo.
Fonte: Museo di Castelvecchio, Verona in Balbi, 1991
111
Testona (TO): asce di VI e VII secolo
Fonte: Von Hessen 1971
112
9.1- La francisca
La francisca, che “caractèrise les tombes franques dès le dèbut des Grandes Invasions” e che,
“encore abondante au VI sìecle” (Salin, 1952) risale, almeno per quel che riguarda il territorio del
regno merovingico, al massimo al V secolo.
Il fatto che nelle tombe del IV secolo di germani al soldo di Roma scoperte in Gallia non se ne siano
rinvenuti esemplari, fa credere infatti che essa debba risalire almeno al V, quando è documentata
dalla francisca di Childerico I, il re merovingio sepolto nel 482, e quindi al periodo delle grandi
invasioni (Rotili, 1977); a quell'epoca, in area merovingia, essa deve aver rappresentato soprattutto
il perfezionamento tecnico che ha consentito di attuare anche in quella zona un più antico concetto
bellico.
“Teutonico ritu soliti torquere cateias”, scriveva già Virgilio (Virgilio, Aeneidos libri XII, VII,
741); alla stessa abitudine di lanciare l'ascia, esercitata con abilità straordinaria, alludeva Sidonio
Apollinare con le parole “excusisse citas vastum per inane bipennis et plagae praescisse
locum”(Sidonio Apollinare, Carmina, V), e ancora Procopio, nel De Bello Gothico, ricordava che i
soldati di Teodeberto se ne servivano per fracassare gli scudi dei nemici, come ho citato più sopra.
Se queste fonti, che hanno una diversa collocazione cronologica, hanno uguale validità, il lancio
dell'ascia all'epoca longobarda doveva costituire, dunque, una vera e propria tecnica di
combattimento già da molti secoli. Si deve perciò necessariamente ritenere che la diffusione
dell'ascia da lancio non sia stata uniforme e soprattutto che la sua origine sia più antica: lo stesso
termine cateia usato da Virgilio parrebbe celtico o illirico.
Il fatto che l'ascia da lancio si sia diffusa con lentezza è probabilmente legato alla risoluzione dei
problemi che la investono completamente: dal problema balistico ai più generali problemi tecnici.
Il Salin ha riassunto in termini chiari il problema della francisca (Salin, 1952).
Una normale ascia, cioè un'ascia che venga divisa in parti uguali dal proprio asse e che abbia
questo perpendicolare all'asse del manico, insomma una comune ascia simmetrica (Fig.1), può
essere utilizzata egregiamente per il combattimento corpo a corpo o come attrezzo, ma non è adatta
al lancio. “Si l'on frappe d'aplomb, il n'y a pas, en A, risque de rupture” (Salin,1952), ma qual'ora
venga usata per questo scopo può subire una frattura proprio in questo punto.
Fig.1: impatto di un'ascia simmetrica.
Fonte: Salin, 1952
113
Compiuta una rotazione “nècessarie pour rendre le jet efficace” (Salin, 1952), infatti, si conficca
nel corpo C che deve distruggere non di taglio ma di punta e cioè secondo un asse di impatto
diverso da quello naturale dell'arma. Per gli effetti combinati della forza con la quale raggiunge
l'obbiettivo e della traiettoria, vale a dire l'asse balistico che forma con l'asse del manico un angolo
superiore ai 90°, il punto B tende a venire in C e in A si determina un “point de rupture” (Salin,
1952).
Un'ascia da lancio deve avere, perciò, caratteristiche costruttive ben diverse: essenzialmente deve
poter raggiungere l'obbiettivo con una traiettoria, e cioè con un asse balistico, tale che coincida con
l'asse dell'ascia (Fig.2) In tal caso, infatti, l'ascia si conficca nel corpo che deve colpire C secondo il
proprio asse naturale e perciò, nonostante la forza d'impatto, il punto B non si sposta verso C ed in
A non si produce rischio di rottura (Rotili, 1977).
Un'ascia del genere deve avere, però, un asse che formi con quello del manico un angolo di circa
135°: tale asse la rende tuttavia inadatta al corpo a corpo o ad altri usi nei quali l'attrezzo venga
impiegato secondo un asse perpendicolare al manico, poiché in questo caso si produrrebbe un punto
di rottura in A. Questa ascia “idèal en matière de jet” rimane perciò piuttosto un “engin de jet
thèorique” (Salin, 1952).
Fig.2: Impatto di un oggetto da lancio teorico
Fonte: Salin, 1952
114
Tra questi due estremi, “les envahisseurs germaniques ont su fabriquer une hache de jet
susceptible, en mème temps, de servir au corps à corps” (Salin, 1952), cioè un'ascia che ha
contemporaneamente le caratteristiche tecniche dello strumento teorico da getto e dell'ascia
simmetrica con asse normale al manico, vale a dire un attrezzo capace di raggiungere l'obbiettivo C
secondo una traiettoria e quindi un asse balistico che, pur non coincidendo con l'asse naturale, non
ne diverge molto e al tempo stesso impiegabile nel corpo a corpo secondo un asse perpendicolare al
manico, pure non molto distante da esso (Fig.3) (Rotili, 1977). Un'ascia del genere in pratica è
attraversata da due assi e non possiede l'asse naturale del quale si parlava: è perciò asimmetrica ed
ha una forma tutta particolare.
Con “la supèrieure P du tranchant [..] bien dègagèe, lègèrment dèveloppèe et incurvèe”stretta al
centro, con un collare di immanicatura robusto e con “un renfort T” che “prolonge la douille”
(Salin, 1952), per effetto della forma e della distribuzione dei pesi, riesce a conficcarsi in C,
secondo un asse AP che forma con l'asse del manico un angolo di circa 115°, che è una condizione
abbastanza vicina a quella dell'”engine de jet thèorique”: il punto B non tende a venire in C ed ina
A non si ha alcun rischio di rottura; d'altra parte l'ascia può essere usata per il corpo a corpo o per
altri scopi
secondo un asse d'impatto xy normale a quello del manico che in pratica l'attraversa tutta mentre il
rinforzo esistente in T evita la rottura in A.
Fig.3: Francisca ideale.
Fonte: Salin, 1952
115
9.2- Le asce longobarde di Benevento: un'analisi
Se le asce longobarde ritrovate a Povegliano (VR) e a Testona (TO) ci dimostrano che i Longobardi
utilizzavano anche l'ascia come arma da corpo a corpo, le due asce della necropoli di Benevento ci
confermano anche l'uso dell'ascia come arma da lancio: sono infatti sicuramente asimmetriche e
presentano caratteristiche tali che le fanno più vicine a quel tipo di ascia germanica adatta come
arma, appunto, da lancio ma utile anche nel combattimento corpo a corpo che, dalla sua diffusione
tra i Franchi, ha preso il nome di francisca.
La francisca esiste in diverse forme: indicate dal Salin (fig.4), esse costituiscono variazioni di un
unico tema e attestano la perizia dei fabbricanti e l'impegno posto nella ricerca di soluzioni diverse.
Le due asce di Benevento richiamano in particolare il tipo F.I-C. Sembrano, perciò, inserirsi nella
gamma delle varietà di quest'arma e in tal senso orientativi appaiono i riscontri che ad esse si
offrono: nel peso, compreso fra i 300 e i 900 grammi, richiamano quest'arma (Rotili, 1977).
Ma perchè l'attribuzione alla gamma di varietà della francisca possa riosultare assolutamente sicura,
è necessario verificare che della francisca posseggano le caratteristiche tecniche.
Fig.4
Fig.5
Fig.4: Suddivisione tipologica della francisca (Fonte: Salin, 1952)
Fig.5: le asce di Benevento. (Fonte: Rotili, 1977)
116
Quanto a quest'ultime, può valere naturalmente l'osservazione che se le asce del tipo F. I-C, al quale
gli esemplari beneventani appartengono, sono dotate delle stesse caratteristiche della francisca, pure
per le due asce longobarde in esame si dovranno supporre le medesime possibilità d'impiego. Ma
conta soprattutto che in esse, in pratica, esistano i due assi che il Salin ha individuato nella
francisca; uno xy normale all'asse del manico che doveva renderle adatte al colpire “d'aplomb”,
anche se esse non appaiono del tipo più maneggevole, ed un altro AP, che si può definire asse di
impatto o balistico (Fig.6) (Rotili, 1977).
Fig.6
Fig.6: Ricostruzione e balistica delle asce rinvenute a Benevento
Fonte: Rotili, 1977
117
L'individuazione del primo asse appare chiara, quella del secondo può suscitare qualche problema
ma si deve osservare che , come l'altro, esso è la risultante della struttura stessa dell'oggetto. Questo
presenta un taglio abbastanza ampio nel lato superiore sviluppato e incurvato fino a terminare in un
robusto sperone a sezione triangolare ben visibile nell'ascia n.2, solo ipotizzabile, ma con
sufficiente sicurezza, nell'ascia n.1, in quanto lì l'ascia presenta tracce di evidente frattura. Ora, tale
sperone acuminato e penetrante, altro non può essere che la parte dell'ascia appositamente
predisposta per fracassare il bersaglio: dopo che questa, a seguito del lancio, compiuta qualche
rotazione necessaria ad imprimerle velocità, anche per effetto della distribuzione dei pesi, aveva
solcato l'aria nella posizione d'impatto raffigurata, si conficcava infatti nel bersaglio proprio con
questa parte, non a caso robusta. Penetrava perciò, con una posizione limitata, dal profilo curvo
irregolare o a raggio variabile.
L'asse di questa porzione, AP, costituito dalla normale alla corda, è l'asse di penetrazione e quindi di
impatto: tale asse forma con quello del manico un angolo di circa 114° sia nell'ascia n.1 che
nell'ascia n.2 ed è perciò l'asse balistico che il Salin individua nella francisca.
Come in questa, esso consente all'ascia di colpire l'obbiettivo senza che il punto B si sposti verso C,
determinando in A un punto di frattura, o di raggiungere il bersaglio in maniera tale che il punto B
si sposti tanto poco verso C da con sentire ad A di resistere alle tensioni che si determinano (Rotili,
1977).
A questo punto appare certo che le asce di Benevento siano due esemplari di francisca
confermando, per quanto il numero di reperti sia assolutamente ridotto, la conoscenza e almeno
l'utilizzo di quest'arma come arma da lancio anche presso il guerriero longobardo in Italia..
118
10- L'ARCO
L'arco, in latino arcus, è uno strumento da lancio costituito da un elemento flessibile le cui
estremità sono collegate da una corda tesa che ha la funzione di imprimere il movimento del
proiettile chiamato freccia.
Tecnicamente, l'arco è composto da 3 parti fondamentali:
il corpo principale: che è l'elemento flessibile costituito a sua volta da 2 flettenti e
un'impugnatura rigida. Solitamente costituito di solo legno adatto (tasso e nocciolo, che
hanno un'ottima elasticità e resistenza a trazione) ma non raramente costituito da più
materiale affiancato e fasciato con tendine animale. In questo caso l'arco pernde il nome di
composito.
gli alloggi per la corda: situati e ricavati alle due estremità del corpo principale. Raramente
possono essere di metallo, applicati al materiale organico del corpo.
la corda: che, una volta tesa, serve a deformare il corpo principale e, quando rilasciata,
scagliare la freccia. Costituita di fibre vegetali ritorte ed intrecciate o tendini animali.
FLETTENTI
C
O
R
P
O
ALLOGGI PER LA CORDA
Composizione fondamentale di un arco standard, con in particolare l'alloggio per la corda.
Dis: Pizzeghello
119
In ambiente longobardo e franco l'arco divenne di uso comune dopo le guerre sostenute contro gli
Avari e gli Slavi, ma non è esclusa l'influenza bizantina nell'uso di tale arma. L'innovazione infatti,
che venne anche disposta successivamente da Carlo Magno con un capitolo di legge, potrebbe
essere stata ispirata dalla lettura dei trattatisti latini di età tardo imperiale come l'Epitoma rei
militaris di Vegezio.
Per i Bizantini, infatti, l'arco consentiva di evitare il combattimento ravvicinato con le popolazioni
germaniche di cui si temeva l'impeto e la temerarietà: gli arcieri a cavallo erano, ad esempio, una
specialità sofisticata e di notevole rilevanza operativa. A loro si rivolge un elogio di Procopio, che
ricorda come erano capaci di volteggiare abilmente con il cavallo, scagliando frecce in ogni
direzione (Ravegnani, 2004).
I Italia i ritrovamenti sono rarissimi e di solito in tombe non molto ricche, confermandone così la
dotazione a guerrieri longobardi di bassa condizione economica, come si ricava anche dalla lettura
delle “leggi militari” di Astolfo. Gli unici elementi in grado di testimoniare l'uso di arco, frecce e
faretra sono le punte di freccia: hanno diverse forme e non è possibile dare loro una precisa
datazione.
La faretra doveva essere in pelle o in cuoio e con tutte le probabilità presentava una struttura rigida
all'imboccatura che permetteva di tenerla aperta. Nella tomba T.119 di Castel Trosino, infatti, è
stata rinvenuta un'imboccatura di faretra in lamina d'argento con quattro fascette dello stesso
materiale che reggevano la parte in pelle mentre sono stati ritrovati anellini, grappette e staffette in
argento e in bronzo appartenenti alla cinghia che reggeva la faretra. Nella medesima sepoltura sono
state ritrovate due ghiere d'argento, a tronco di cono, che servivano per l'alloggiamento della corda
alle due estremità del corpo principale.
Stabilire con precisione come quest'arma, che comunque era secondaria, venisse usata risulta
pressochè impossibile, dato che non abbiamo reperti conservati per stabilire forme, dimensioni e,
conseguentemente, potenze di tiro (libraggio).
Quello che è certo è che comunque l'arco richiedeva una certa abilità: lo sappiamo almeno per
quanto riguarda i diretti interessati dei Longobardi, ovvero i Bizantini: la tecnica di tiro di cui
facevano uso, considerata superiore a quella persiana, consisteva nel tendere la corda dell'arco fino
all'orecchio destro, cosa che dava al proiettile una forza “capace di uccidere sempre chi si trovava a
tiro senza che vi fossero scudi o corazze in grado di sostenere l'urto”(Ravegnani, 2004).
La loro abilità era resa particolarmente evidente dall'assenza di staffe nei cavalli e dal peso
dell'armatura, di cui la sola corazza secondo una fonte più tarda si aggirava sui 16 kg circa (Kolias,
1988). Questa abilità veniva naturalmente conseguita attraverso un addestramento accurato che è
delineato con chiarezza nelle varie fasi dello Strategicon di Maurizio: andava dall'apprendimento
dell'equitazione e dall'uso delle armi individuali fino a complesse esercitazioni di reparto e di unità
superiori (Ravegnani, 2004).
120
Fig.A
Fig.B
Fig.A: Povegliano (VR): tre punte di freccia. Fonte: Museo di Castelvecchio, Verona, in Balbi,1991
Fig.B: Testona (TO): sei punte di freccia. Fonte: Von Hessen, 1971
121
Gli unici elementi certi che sono in grado di testimoniare l'uso dell'arco presso i Longobardi, sono le
punte di freccia che hanno le forme più diverse ma hanno l'inconveniente che non si possono datare
con precisione.
Sono solamente ipotizzabili due classificazioni, ovvero frecce da caccia e frecce da guerra, anche se
la divisione potrebbe essere solamente teorica o comunque raramente rispettata, dato che una
freccia da caccia, a parte rari casi, servirà egregiamente anche alla causa bellica, e viceversa.
Volendo però provare ad analizzare comunque le tipologie più frequenti, avremo:
cuspidi di freccia “a forcella” (fig.1): impiegate sicuramente per la caccia al volatile, in
quanto leggere e aventi la caratteristica, appunto, della “forcella” che nel caso di
sfioramento del volatile, riesce a tranciare l'ala facendolo precipitare.
Cuspidi di freccia a “coda di rondine” (fig.2): Impiegate sicuramente per la caccia alla
selvaggina ma utilizzabili anche come proiettile bellico. La particolare conformazione “a
coda di rondine” rende difficoltosa l'estrazione della cuspide dall'animale, creando una ferita
molto grave che porterà, se inferta in zona vitale, a morte certa anche a distanza di poco
tempo, permettendo al cacciatore un recupero successivo della preda.
Cuspidi di freccia a “foglia di salice” (fig.3): Impiegate indifferentemente per la caccia e
per la guerra, data la forma molto semplice da realizzare e quindi conevniente.
Cuspidi di freccia “a tre alette” o di tipo “Avaro” (fig.4): realizzate sicuramente per un
uso bellico in quanto la particolare conformazione crea nel bersaglio una ferita che si
rimargina difficilmente, causando morte per dissanguamento o, nei casi minori, infezione da
ferita esposta. Una cuspide simile ha inoltre il vantaggio di riuscire a smagliare maglie ad
anelli nonché sfondare corazze poco spesse di cuoio e metallo. Caratteristico in questo caso
l'innesto a codolo che favorisce un distaccamento della punta, la quale resta infissa nel corpo
dell'avversario.
Fig.A
Fig.B
In questa pagina:
Fig.A: Sacca di Goito, T.157: Punta di freccia “a coda di rondine”, Lu:11 cm; apertura alette: 5,6 cm. Fonte:
Menotti, 1994
Fig.B: Sacca di goito, T.128: Punta di freccia romboidale, Lu: 9,7cm; La:3,1 cm. Fonte: Menotti, 1994
122
Fig.1
Fig.3
Fig.2
Fig.4
Dis. Pizzeghello
123
In questa pagina:
San Giusto (TA), T.61: punte di freccia di diverse forme. VI-VII secolo.
1-2-3: cuspidi di freccia di tipo Avaro “a tre alette”
4-5-6: cuspidi di freccia “a foglia di salice”
7: singolare cuspide a spiedo appuntito
8: cuspide “a coda di rondine”
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
124
11- L'ARMATURA
L'armatura, per definizione, è l'insieme delle armi difensive usate dai guerrieri, dall'antichità fino
alla diffusione delle armi da fuoco.
Perciò il termine, usato spesso in modo errato per identificare la sola protezione per il torace, non
riguarda un singolo accessorio, ma le protezioni intese nel loro insieme, nelle loro parti, che con il
passare del tempo divenivano sempre più importanti e complesse: dalle semplici e scarse armature
dell'antichità (molto spesso in cuoio) fino a quelle cinquecentesche, che proteggevano l'intero corpo
grazie ad un sistema di fissaggio fra varie piastre metalliche.
Per parlare dell'armatura, però, è necessario considerare alcune problematiche:
l'armatura di metallo completa difficilmente si ritrova nelle sepolture: a parte rari casi,
essendo composta da elementi costosissimi, si preferirà riutilizzarla piuttosto che inumarla,
preferendo invece depositare armi di minor valore e sicuramente più diffuse;
l'armatura organica per la maggior parte dei casi si decompone completamente senza
lasciare traccia ma solamente ipotizzando il suo uso, meglio se unita ad inserti e parti
metalliche che, conservandosi, ci permettono di avanzare delle ipotesi ricostruttive;
dato il costo elevato delle sue parti, non tutti potevano permettersi un'armatura completa e
raramente anche un'armatura incompleta.
Premessa quindi la scarsa diffusione dell'armatura, dovuta anche alla privatizzazione degli
armamenti nella cultura germanica, possiamo comunque analizzare quest'insieme di armi difensive
appartenenti anche alla cultura longobarda.
I rari ritrovamenti di armature in Italia, che trovano comunque precisi riscontri anche con reperti
provenienti dall'estero, confermano che l'armatura longobarda sostanzialemnte doveva comporsi di:
elmo
corazza
A questi due elementi dobbiamo aggiungere sicuramente qualche altra sorta di protezione,
influenzata anche dalle vicine culture Bizantine, Avare e, indirettamente, orientali come quelle degli
Unni.
In questo capitolo si cercherà, quindi, di analizzare l'armatura del guerriero longobardo, laddove
possibile in quanto ad oggi i reperti riferibili a quest'insieme di protezioni risultano assai ridotti.
125
11.1- L'elmo
L'elmo interamente metallico, di norma, non viene ritrovato facilmente nelle sepolture: doveva
essere quindi abbastanza raro. Sicuramente era un elemento accessibile a personaggi illustri o
abbienti, come aristocratici e capi militari, e se già il possedimento di un elmo metallico semplice
implicava l'appartenenza ad uno status sociale elevato, gli esemplari sontuosamente decorati
dovevano appartenere probabilmente a persone facenti parte dell'apparato di comando, come duchi
o persino sovrani.
Corrispondeva per di più ad un piccolo caschetto in metallo o ad una semplice calotta di ferro o
cuoio che veniva ricoperta all'interno da materiale di imbottitura, come pelo o stoffa grossolana.
Alcune maglie rettangolari di ferro, rinvenute nelle tombe longobarde, avevano invece
probabilmente lo scopo di proteggere la nuca. Non mancavano però anche elmi dotati di protezione
frontale o di grande pregio come quello conico tipo Baldenheim, rinvenuto in località
Roccascalegna e conservato presso il museo di Ancona, tutto ricoperto di lamine d'oro, con radi
fregi geometrici e guarnito da guanciali traforati nell'orlo per cucirvi la fodera di pelle, o come
quello dello stesso tipo rinvenuto a Giulianova e conservato al museo di Berlino, con graffite strane
figure fra cui un guerriero in lotta con dei mostri (Moro, 2004).
Elmo conico rinvenuto in località Roccasalegna
fonte: Moro, 2004
126
Fig.1
Fig.2
Fig.3
In questa pagina, confronti esteri con l'elmo di Roccasalegna
Fig.1: Ricostruzione di elmo tipo Baldenheim in plexiglass, con frammenti di reperti provenienti da Lubiana
(SL). Fonte: Moro, 2004
Fig.2: Elmo di tipo Spangenhelm da Kriegergrab von Steinbrunn nel Burgenland (Vienna). Fonte: Menghin,
1985
Fig.3: Ricostruzione di Spangenhelm. Fonte: Menghin, 1985
127
11.1.1- L'elmo lamellare
L'elmo lamellare, Feder- o Lamellenhelm, era costituito da un cestello di lamelle in ferro
sovrapposte l'una all'altra , legate tra di loro per mezzo di sottili strisce di cuoio.
Le dimensioni delle lamelle erano di circa 2 cm di larghezza per circa 10 cm di altezza; l'estremità
superiore dell'elmo era costituita da una calottina emisferica, con un picciuolo, o apex, che con tutte
le probabilità serviva ad inserire materiale organico come piume o code di cavallo: un esemplare di
questa calottina, di 6,2 cm di diametro, è stato trovato nella tomba 119 di Castel Trosino.
Al bordo inferiore erano applicati due paraguance, o paragnatidi, che si legavano sotto al mento;
sempre al bordo inferiore, ma in corrispondenza della nuca, era applicata una maglia di ferro ad
anelli o a lamelle. Nella parte anteriore dell'elmo era inserita la placca frontale, costituita da una
lamina in ferro o bronzo, di forma rettangolare, in cui venivano ritagliate ,le arcate sopraciliari e la
protezione nasale: nella Tomba 119 di Castel Trosino e nella Tomba 6 di Nocera Umbra sono stati
rinvenuti 2 esemplari di questi frontali.
Nelle tombe longobarde talvolta si trovano frammenti di lamelle solo dietro alla nuca del defunto,
ma non si trovano tracce dell'elmo: ciò può spingere a ipotizzare con più probabilità la diffusione di
elmi in materiale organico (cuoio) con il solo paranuca in lamelle metalliche.
Le maggiori informazioni sull'elmo lamellare ci vengono da una preziosa scoperta a
Niederstotzingen in Germania, che ha restituito un esemplare lamellare piuttosto integro di elmo
lamellare e di relativa corazza (che vedremo successivamente), che ha permesso di operare una
ricostruzione che trova precisi confronti con gli scarsi reperti trovati in Italia.
11.1.2- La ricostruzione dell'elmo lamellare di Niederstotzingen, Heidenheim in Germania
La ricostruzione (Fig.4 e Fig.5) è relativa ad un elmo a lamelle leggero (Spangenfederhelm),
conservato in frammenti (cimiero a calotta cilindrica, rinforzo frontale in ferro, alcune lamelle della
calotta, frammenti delle paragnatidi e frammenti del paranuca in maglia metallica) proveniente dalla
Tomba 12 della piccola necropoli nobiliare alamanna di Niederstotzingen.
La sepoltura conteneva le salme di tre individui maschi adulti che sulla base del corredo, in
particolare dell'elmo e di una corazza, sono interpretabili come guerrieri di elevato rango sociale.
Anche se in Italia, come detto, sono noti due manufatti di questo tipo da Nocera Umbra e Castel
Trosino, solo con la scoperta di Niederstotzingen è stato tuttavia possibile elaborare un'ipotesi
ricostruttiva che prevede, inoltre, la presenza, al di sotto delle lamelle, di una spessa calotta
protettiva in cuoio per la testa (Bertelli, Brogiolo, 2004).
La ricostruzione ha trovato un significativo riscontro nella lamina di Agilulfo, a sua volta
interpretata come frontale di un elmo di questo tipo, dove i guerrieri a lato del re indossano una
corazza ed un elmo a lamelle; inoltre, il fatto che 3 dei suoi bordi siano costeggiati di piccoli fori
confermerebbe la sua destinazione ad essere legata alla parte frontale dell'elmo, unitamente ai fori
posizionati sulle arcate sopraciliari, aventi probabilmente lo scopo di tenere fissato il materiale di
imbottitura interna.
Proprio il legame con il mondo longobardo ha fatto ipotizzare che l'elmo di Niederstotzingen sia di
provenienza italiana e testimoni la partecipazione degli inumati della piccola necropoli alle
campagne militari dell'esercito franco nell'ultimo trentennio del VI secolo.
128
Elmo lamellare di Niederstotzingen. Vista frontale.
Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
129
Elmo lamellare di Niederstotzingen. Vista laterale
fonte: Menghin, 1985
130
Fig. 4
Fig.5
Fig.6
Fig.4: Lucca, Lamina cosiddetta di Agilulfo. Fonte: Bertelli, Brogiolo, 2000
Fig.5: Particolare della Lamina di Agilulfo. Si notino le corazze e gli elmi lamellari. Fonte: Bertelli, Brogiolo,
2000
Fig.6: Nocera Umbra, Tomba T.6: Lamina frontale di elmo. Fonte: Menghin, 1985
131
11.2- La corazza
Sulla scorta del “Dizionario terminologico relativo ai mezzi di difesa” (nato per l'Intervento del
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e dell'Istituto Centrale per il Catalogo e la
Documentazione, per uniformare la schedatura delle armi antiche dal medioevo all'età moderna)
(Boccia, 1982), la corazza era una forma di armamento difensivo costituita da una serie di placche
di medie dimensioni, assicurate ad un supporto in cuoio o tela ed embricate in modo da sovrapporsi
lungo i margini, onde mantenere una certa mobilità e garantire una discreta flessibilità all'insieme
(Vignola in Gelichi, 2008).
Se ne distinguevano vari tipi: i Franchi in età carolingia, ad esempio, indossavano la brunia, o
bruina, costituita da una veste pesante di stoffa rinforzata con il cuoio, sulla quale venivano cucite
piccole placche di metallo disposte a squame di pesce: alcuni cavalieri così armati sono raffigurati
nelle miniature del Psalterium Aureum di San Gallo della seconda metà del IX secolo (Moro, 2004).
I Longobardi sono raffigurati in più di un'occasione armati di una corazza lamellare che trova
precisi riscontri, ancora, con quella di Niederstotzingen: raffigurati, perchè è interessante notare
come in Italia i resti di lamelle di corazze in ferro o in bronzo siano molto rari. Probabilmente
corazze in dotazione più diffuse erano normalmente realizzate con solo materiale organico, mentre
quelle in metallo non venivano tesaurizzate nelle tombe ma passavano da una generazione all'altra
come peraltro dimostra il più tardo testamento del marchese Everardo del Friuli (864-667) (Moro,
2004).
Fig.1
Fig.2
Esempi diversi di raffigurazione relativa alla corazza lamellare:
Fig.1: Trezzo d'Adda, T.5: particolare di lamina decorativa di scudo. Fonte Balbi, 1991
Fig.2: Particolare del Piatto di Isola Rizza. Fonte: Menghin, 1985
132
Le corazze lamellari erano costituite da circa 600 o 700 lamelle sovrapposte e legate le une alle altre
da stringhe di cuoio, e disposte a fasce orizzontali.
La corazza ritrovata a Niederstotzingen era composta da due parti: una inferiore che copriva la zona
del bacino fino alle alle cosce, e una superiore che copriva il torace; era priva di maniche ed era
sostenuta da due specie di bretelle, anch'esse costituite da lamelle.
Questa tipologia era arrivata in Europa attraverso gli Avari: un esemplare di corazza lamellare è
stato trovato in una tomba avarica di Kunszentmàrton , in Ungheria (Balbi, 1991).
Ma la sua origine non è avarica: si tratta di un'evoluzione di armi più orientali. Ne sono stati trovati
esemplari in tombe a Kerc, nella Russia meridionale, e a Kasr-i-abunasr in Iran; a Qyzil, presso
Kuca nel Turkestan orientale, nella cosiddetta “grotta dei pittori” è stato trovato un affresco che
mostra cavalieri armati di elmi e corazze a lamelle, lance spade e archi (Balbi, 1991).
Oltre alla lamellare descritta, ve n'era poi un altro tipo costituito da un pezzo unico che andava dal
collo fino alle ginocchia: era dotato di maniche, che terminavano poco sopra il gomito, e aveva due
spacchi laterali che ne rendevano più agevole l'uso a cavallo.
Quest'ultimo tipo era conosciuto anche dai Bizantini che iniziarono ad usarlo prima dei Longobardi:
questo genere di corazza è raffigurato sul piatto d'argento di Isola Rizza (VR), in una scena di
guerra in cui un cavaliere, che indossa elmo e corazza a lamelle, trafigge con la lancia un guerriero
a piedi che indossa casacca e pantaloni con bordi ricamati. Un altro guerriero giace a terra morto.
I due fanti sono chiaramente dei Germani mentre dubbia invece è la nazionalità del cavaliere che
potrebbe essere sia un bizantino che un longobardo, dato che entrambi conoscevano elmo e corazza
a lamelle.
Il fatto però che il piatto sia stato datato al VI secolo fa pensare che si tratti di un bizantino, dato che
a quell'epoca i Longobardi non avevano ancora adottato l'armatura.
Ricostruzione del sistema di legatura di una corazza lamellare longobarda.
A destra: Lubiana (SL): 6 lamelle di corazza.Lu: da 8,8 a 9,2 cm. La: da i,1 a i,94 cm. Fonte: Moro,2004
133
Ricostruzione della corazza lamellare di Niederstotzingen.
Fonte: Menghin, 1985
134
11.3- Le altre protezioni
In un passo dell'Historia Langobardorum, Paolo Diacono menziona, oltre alla corazza e all'elmo,
anche gli schinieri: “Seno, diacono della chiesa ticinese [...] gli disse: “Mio signore e re, se tu
muori in guerra il tiranno Alahis ci ucciderà tutti tra supplizi. Ti piaccia perciò il mio consiglio.
Dai a me la tua armatura e io andrò a combattere contro questo tiranno..”. Poiché il re negava
questo consenso, i pochi fedeli che erano con lui si misero a pregarlo di accettare la proposta del
diacono. Vinto alla fine, perchè era di animo buono, dalle loro preghiere e lacrime, diede al
diacono la sua corazza, l'elmo, gli schinieri e le altre armi e lo mandò al suo posto nella battaglia”
(Paolo Diacono, Hist.Lang, V,40); ma nelle tombe longobarde non si sono mai trovati degli
schinieri integri, ma solo dei frammenti metallici che avrebbero potuto farne parte.
11.3.1- Il guanto d'armi
La Tomba T.90 di Castel Trosino ha restituito un elemento rettangolare di maglia costruita con
anelli di ferro che conserva ampie tracce di cuoio mineralizzato; la maglia si presenta fortemente
incurvata e il suo sviluppo in larghezza giunge sino a oltre 8 cm.
Elementi rettangolari di maglia provengono anche dalla tomba 119 della stessa necropoli e dalle
tombe 16, 79, 145 di Nocera Umbra: essi sono stati interpretati inizialmente come “maglie per
brunire i finimenti” poi come parti del coprinuca di un elmo o parti di una cotta d'armi (Paroli,
1995). Va notato che nella Tomba 119 di Castel Trosino la maglia ad anelli piccoli compare
associata sia alla maglia con anelli più grandi, che è sicuramente associabile all'elmo, sia alla
corazza a lamelle: il che porta ad escludere che si tratti di parte dell'elmo o della corazza anche se
questo tipo di maglia in ferro è comunque da connetter all'armamento. Ci aiuta ad interpretare
meglio l'oggetto un gruppo di dodici lamelle di ferro e bronzo dalla necropoli di Sovizzo (Vicenza),
che sono state rinvenute associate e originariamente collegate tra loro, con un bordo fortemente
sagomato, tutte forate all'estremità, ed una con una serie di fori sul lato rettilineo. Le lamelle di
Sovizzo formano un rettangolo di dimensioni analoghe agli esemplari di Castel Trosino (12x8 cm)
ed erano chiaramente destinate ad essere fissate ad un altro materiale.
A questo gruppo di reperti si possono aggiungere altre due lamelle simili in bronzo fortemente
dorato di 13 cm di lunghezza, provenienti dall'atelier della Crypta Balbi in Roma (Paroli, 1995).
Fermo restando che si tratta di componenti dell'armamento, come indicano sia le maglie che le
lamelle, simili per concezione generale a quelle delle corazze , rimane l'unica interpretazione
possibile quella del guanto d'armi, un accessorio indispensabile per il combattimento con la spada o
lo scramasax che, non essendo forniti di guardia, lasciavano completamente sguarnita la mano.
Riguardo alla cronologia, l'uso del guanto con il rinforzo di maglia sembra limitato alla fine del VI
secolo, primo terzo del VII, quando iniziano a comparire i guanti con il rinforzo a lamelle (Paroli,
1995).
Essendo in mancanza di altre testimonianze archeologiche su differenti tipi di protezione diversi da
corazza, elmo e guanto d'armi, possiamo considerare, fino a prova contraria, che il guerriero
longobardo non utilizzasse più nulla riguardante l'armatura difensiva.
135
Fig.1
Fig.2
Fig.1: Castel Trosino, T.90: guanto d'armi in maglia di ferro e cuoio. Fonte: Paroli, 1995
Fig.2: Sovizzo (VI): lamelle di probabile guanto d'armi. Fonte: Cini, Ricci,1979
136
12- TATTICA E STRATEGIE
Sulle tattiche usate in combattimento dai Longobardi, non sappiamo praticamente nulla: nessuna
fonte tratta in maniera specifica di questo argomento e le poche descrizioni di battaglie sono molto
vaghe. Dobbiamo quindi supporre e ipotizzare.
Al momento della conquista l'esercito longobardo doveva essere formato in prevalenza da fanteria,
probabilmente appoggiata da nuclei di fanteria leggera: nelle tombe di VI secolo infatti non si
trovano parti di equipaggiamento da cavaliere il che fa presumere che coloro che combattevano a
cavallo fossero privi di speroni, staffe e che usassero selle molto leggere, se non addirittura solo una
coperta.
Le tattiche usate erano probabilmente un misto dell'irruenza sfrenata, tipica delle popolazioni
germaniche, con le più raffinate tecniche di combattimento imparate al servizio dei Bizantini
(Balbi,1991).
Questi ultimi usavano schierare le fanterie su più linee nel senso della profondità: se la prima linea
cedeva vi erano le altre indietro a sostenere l'urto e, inoltre, questo tipo di schieramento permetteva
di sventare attacchi a sorpresa ai lati e alle spalle.
Sui fianchi dello schieramento veniva posta la cavalleria leggera che aveva il compito di attaccare il
nemico ai lati o sul retro e di proteggere le fanterie amiche.
Quando i due eserciti venivano a contatto, la battaglia si trasformava in un'immensa mischia e il
combattimento si frantumava in una miriade di duelli personali dove le qualità di ogni singola arma,
insieme alla bravura del guerriero, venivano sfruttate al massimo.
Una parziale conferma di queste ipotesi ci viene da un brano tratto dallo Strategicon, un'opera
sull'arte militare scritta dallo pseudo-Maurizio, uno storico bizantino vissuto tra la fine del VI e i
primi venti, trent'anni del VII secolo. In questo brano, l'autore parla brevemente dei cosiddetti
“popoli-biondi” cioè dei Franchi e dei Longobardi che i Bizantini incontrarono in Italia tra il 554 e
il 572:
“I popoli biondi fanno gran conto della libertà; sono audaci, imperturbabili in battaglia,
ardimentosi ed irruenti; disprezzano chi si dimostra vile e chi si ritira, sia pure per poco.
Disdegnano senza difficoltà la morte, combattono copro a corpo in modo violento, sia a cavallo
che a piedi. Quando durante una battaglia equestre, come può accadere, sono ridotti alle strette,
tutti quanti come un sol uomo, scendono dai cavalli e si schierano come fanti, anche se sono pochi
contro molti cavalieri, senza mai cessare dal combattimento. Sono armati di scudi, lance e spade:
amano il combattimento a piedi e gli assalti impetuosi. Nei combattimenti si schierano, sia a piedi
come a cavallo, non i reparti di numero definito, non in moirai o in mere ma per tribù e riuniti gli
uni agli altri per parentela di sangue e per vincoli di amicizia, per cui spesso quando degli amici
loro cadono nella mischia, si espongono assieme al pericolo in battaglia, nell'intenzione di
vendicarli. Il fronte del loro schieramento in battaglia è regolare e concentrato, ma gli attacchi a
piedi e a cavallo li fanno in modo violento e sfrenato, senza paura, come se fossero isolati. Non
ubbidiscono ai loro comandanti e non se ne preoccupano, al di fuori di ogni astuzia e di ogni
misura di sicurezza; disprezzano anzi ogni tipo di formazione, soprattutto di cavalleria, adatta al
momento. Si lasciano facilmente corrompere dai soldi perchè ne sono avidi; li abbattono le
vessazioni e le disgrazie. Quanto i loro animi sono audaci ed impetuosi, tanto i loro fisici sono
137
soggetti alle impressioni e sensibili, incapaci di sopportare facilmente delle fatiche. Soffrono
inoltre il caldo eccessivo, il freddo, la pioggia, la mancanza di cibo e soprattutto di vino, e ogni
dilazione del combattimento. Nelle battaglie equestri li mettono in difficoltà i luoghi di difficile
accesso e di folta vegetazione, mentre sostengono facilmente agguati tesi contro i fianchi e la
retroguardia del del loro schieramento, pur non preoccupandosi in alcun modo di disporre misure
di sicurezza ed esploratori. Si riesce invece a disperderli facilmente anche con una fuga simulata e
con una rapida conversione contro di loro.
Spesso sono posti in grave difficoltà da attacchi notturni di arcieri a cavallo perchè pongono i loro
accampamenti in modo sparso. Bisogna poi, durante le battaglie contro di loro, cercare prima di
tutto di entrare con aggiramento nel loro schieramento in campo aperto, soprattutto agli inizi;
servirsi in seguito di ben concentrate insidie e soprattutto di colpi di mano e inganni; trarre in
lungo e differire il momento dell'azione; far finta di intavolare trattative con loro , in modo che il
loro coraggio e la loro volontà di combattere vengano indeboliti o dalla mancanza di cibo o dal
freddo. E' possibile ottenere un tale risultato quando il nostro esercito sta accampato in luoghi di
difficile accesso e fortificati, in cui essi, armati di lancia, non possono per la natura del luogo
ingaggiare in modo conveniente un corpo a corpo” (Maurizio, Strategicon, XI, 4)
Da questo brano si possono trarre degli spunti interessanti circa l'organizzazione e la tecnica
militare longobarde nel periodo dell'immigrazione.
Innanzitutto abbiamo la conferma che combattevano per fare, che preferivano il combattimento a
piedi rispetto a quello a cavallo e che la battaglia si trasformasse sempre in un insieme di duelli
personali.
Dal secondo quarto del VII secolo in poi, nelle tombe longobarde si trovano sempre più spesso
equipaggiamenti da cavaliere, oltre all'armamento normale formato da lancia, spada e scudo. Nelle
tombe più ricche si trovano corazza, speroni, morso, briglie e sella. In quelle meno sontuose si
trovano solo le briglie mentre nel VII secolo appaiono anche, seppur molto raramente, le staffe in
metallo che, però, ritengo personalmente già conosciute, probabilmente in materiale deperibile.
E' chiaro dunque come da questo momento presso i Longobardi, la cavalleria assunse un ruolo
sempre più importante nell'esercito, fino a diventare l'arma fondamentale (come peraltro già
osservato riguardo le Leggi militari di Astolfo).
Inoltre si può dedurre che nel 750, esistevano una cavalleria pesante, dotata di corazza, e una
leggera dotata di sola lancia e scudo: la fanteria doveva essere stata relegata ad un ruolo secondario,
probabilmente veniva im piegata solo come supporto alla cavalleria essendo infatti dotata di arco e
frecce.
Questo repentino cambiamento nella struttura dell'esercito fu dovuto all'influenza degli Avari che
nel VII secolo premevano sempre di più sull'Europa Occidentale e che aveva nel cavallo il
principale strumento di guerra: strumento che gli Avari usavano con un'abilità eccezionale e al
quale avevano applicato rivoluzionarie innovazioni tecniche, come la staffa e la sella a bordi
rialzati, che davano al cavaliere una grande stabilità e sicurezza e quindi la possibilità di combattere
agevolmente a cavallo (Balbi,1991).
138
12.1- La staffa
A questo punto un cenno merita la staffa, elemento di fondamentale importanza per dare stabilità al
cavaliere.
La staffa ha una storia lunghissima che comincia nell'Estremo Oriente intorno al II secolo a.C.
Furono i popoli nomadi cavalieri, gli Avari in primo luogo, a portarla in Occidente nel VII secolo e
a trasmetterla ai Longobardi, sui quali potè forse valere l'influenza di Bisanzio che aveva
certamente contatti con L'Oriente (Moro, 20054).
Quello della diffusione della staffa fu un processo molto lungo, nel corso del quale essa,
inizialmente a mio parere fatta di cuoio, assunse la forma e adottò i materiali metallici.
Le staffe sono poco presenti nelle necropoli longobarde in Italia e tutte quelle ritrovate sono
attribuibili al VII secolo. Fino a pochissimi anni fa si conoscevano solo una coppia di staffe in
bronzo provenienti da Castel Trosino e due esemplari in ferro da Borgomasino in Piemonte; ad essi
si sono aggiunte un paio di staffe a Cividale del Friuli, un altro paio a Ischia di Castro presso
Viterbo, e una serie più numerosa di staffe provenienti da Campochiaro nel Molise (Moro, 2004)
12.2- Tecniche ossidionali
Anche i Longobardi, per espugnare una città assediata o conquistare una fortezza, fecero uso di
tecniche ossidionali e quindi di macchine da guerra. I cronisti del tempo non sono però mai precisi
nella descrizione dei mezzi utilizzati durante gli assedi; espressioni ricorrenti nelle cronache
altomedievali come diversis machinis od inauditis machinis non ci consentono certo una corretta
identificazione degli strumenti impiegati (Moro, 2004).
Sicuramente si trattava di macchine rozze, imitazioni delle macchine belliche bizantine: quando i
Longobardi conquistarono le principali città dell'Italia settentrionale, ebbero ragione delle mura di
cinta prevalentemente a colpi di ariete che è probabile non fosse altro che una semplice e
rudimentale grossa trave.
La macchina da guerra più utilizzata, per efficacia e facilità di costruzione, era la petraria: una
catapulta per il lancio delle pietre. Era formata da un massiccio telaio in legno nella cui parte
centrale era disposto l'organo di propulsione formato da due fasci di materiale elastico. Racchiuse
fra queste matasse si trovava un braccio, costituito da un robusto palo, munito di fionda con
proiettile che, mediante un argano, veniva compresso in basso. Facendo agire il congegno di scatto,
il palo andava a battere con violenza , a fine corsa, contro una superficie inclinata, consentendo in
tal modo al proiettile di iniziare la sua corsa a parabola.
La petraria era in grado di scagliare corpi contundenti all'altezza di 40 m e ad una distanza di oltre
50: cambiando l'attacco della fionda, si poteva variare sia la gittata che l'elevazione.
Durante l'assedio di Benevento del 663 l'Imperatore Costante II utilizzò una petraria per il lancio ,
nella città assediata, della testa decapitata di un longobardo, ritenuto colpevole di aver annunciato al
duca Romualdo l'imminente arrivo, i suo sostegno, di suo padre, il re Grimoaldo (Moro, 2004).
139
13- IL METALLO IN ARCHEOLOGIA
Il metallo (che sia allo stato puro o in lega) è il materiale fondamentale costitutivo di un'arma e
anche nel caso in cui non lo fosse (come ad esempio per uno scudo che, abbiamo visto, è composto
in larga misura da materiale organico) rimane comunque il materiale che più spesso si conserva fino
a noi, permettendoci di operare una ricostruzione più o meno esatta, più o meno ipotetica dell'arma
che stiamo studiando.
I manufatti in metallo (dai monili alle armi, passando per le suppellettili di uso quotidiano) erano un
bene prezioso: per questo motivo venivano custoditi con cura e, quando fuori uso, riciclati. Nei
contesti archeologici sono dunque molto rari e, in taluni casi poi, a seconda del tipo di terreno, i
reperti in metallo possono subire un accentuato processo di degrado: questo fenomeno riguarda in
maniera specifica i manufatti di ferro (facilmente ossidabili), ma in taluni casi anche in lega di rame
(Gelichi, 1997). Ciò significa che, anche quando non venivano riciclati e dunque si rinvengono in
scavo, gli oggetti in metallo non sono sempre di facile lettura e interpretazione (Gelichi, 1997).
Il rinvenimento di un manufatto metallico inerente, nel nostro caso, all'armamento, innesca tutta
una serie di problematiche relative alle proprietà chimico-fisiche del metallo, che devono essere
necessariamente conosciute dall'archeologo: il metallo, infatti, è estremamente reattivo nei confronti
di diversi agenti che fanno parte dell'ambiente esterno e la non conoscenza di queste reazioni, unita
a procedure scorrette di pulizia, stoccaggio e conservazione, potrebbe portare al degrado del
manufatto stesso, al suo danneggiamento irreparabile o addirittura alla sua distruzione.
In questo capitolo si prenderanno in considerazione gli aspetti tecnici del metallo, analizzandone le
strutture chimico-fisiche e illustrando le diverse metodologie di studio, accennando infine alle
problematiche riscontrabili durante l'operazione di scavo alle metodologie di conservazione e
restauro.
140
13.1- Struttura dei metalli, metallografia e tecniche d'indagine
13.1.1- La struttura interatomica dei metalli
Le proprietà fisiche, chimiche e meccaniche dei metalli sono dovute alla loro struttura interna:
mentre le proprietà chimiche sono legate alla struttura dell'atomo e in particolare alla
configurazione degli elettroni che orbitano attorno al nucleo, quelle fisiche e meccaniche sono
essenzialmente connesse con le modalità con cui si aggregano fra loro i vari atomi che compongono
il corpo metallico. Le particolari caratteristiche di questi materiali e la loro conduttività vengono
oggi spiegate con la teoria delle bande: nei metalli, i livelli energetici degli elettroni delle orbite più
esterne sono ravvicinati, formando quindi delle bande. I solidi cristallini presentano una banda di
conduzione, in cui si trovano gli elettroni che possono più o meno liberamente muoversi nel
cristallo, e una banda di valenza, cui appartengono invece gli elettroni con livelli energetici simili,
ma privi di mobilità nel cristallo. Ne discende una distinzione dei solidi in conduttori,
comunemente detti metalli, la cui banda di conduzione è completamente occupata, e isolanti, nei
quali questa banda è invece vuota; si differenziano anche classi intermedie, come i semiconduttori,
che sono cattivi conduttori poiché la loro banda di conduzione è solo parzialmente occupata.
La caratterizzazione di un materiale può quindi non solo essere effettuata sulla base della sua
composizione, ma anche sulla base di misure, come la conducibilità o la conduzione del calore, che
consentono di distinguere tra loro i metalli sulla base della teoria delle bande (Wolson, Pasachoff,
1995)
Una teoria più tradizionale tende invece a spiegare il comportamento dei metalli facendo ricorso al
cosiddetto legame metallico (Cottrel, 1968).
A differenza dello stato gassoso e di quello liquido, lo stato solido si caratterizza per una grande
compattezza, prodotta dall'enorme intensità con cui le forze interatomiche inibiscono le possibilità
di movimento dei singoli atomi.
Nei metalli tali forze di coesione sono costituite appunto dal legame metallico. Si è già detto come i
metalli perdano facilmente elettroni: infatti i loro elettroni che ruotano nelle loro orbite più esterne,
molto più allargate ed eccentriche rispetto a quelle degli elementi non metallici, tendono a separarsi
dall'atomo originario, che si trasforma quindi in una particella elettricamente positiva (ione
positivo). Gli elettroni liberi formano così una sorta di “gas elettronico” negativo, che circonda e
lega il reticolo di ioni positivi: questa struttura rende ragione dell'alta conducibilità termica ed
elettrica, dovute alla mobilità degli elettroni impegnati nel legame metallico; inoltre, giacchè gli
elettroni di legame uniscono fra di loro gli atomi senza dare luogo a legami direzionali, un metallo
può essere sottoposto a deformazioni plastiche senza che la sua struttura venga alterata
sensibilmente (Giardino, 1998).
141
13.1.2- Struttura cristallina dei metalli
Gli atomi dei metalli sono disposti nello spazio seguendo un ordinato reticolo geometrico chiamato
reticolo cristallino. Esso è costituito dalla riunione di molte unità, dette anche celle elementari, che
sono figure semplici di forma regolare che aggregano un limitato numero di atomi.
Le celle elementari della maggior parte dei metalli appartengono ai sistemi cubico, nelle sue varietà
a facce centrate e a corpo centrato, ed esagonale nella varietà esagonale compatta (Fig.1).
In molti dei metalli più comuni, come rame, argento, oro, piombo e nichel, gli atomi sono disposti
secondo il sistema cubico a facce centrate: la cella fondamentale è costituita da un cubo con un
atomo a ogni angolo e uno al centro di ciascuna faccia. Tale reticolo ha una struttura assai compatta
e regolare, con piani di scorrimento ben definiti: i metalli che cristallizzano in questo modo sono
quindi molto deformabili, duttili e malleabili, oltre che buoni conduttori sia di calore che di
elettricità (Giardino, 1998)
Nel sistema cubico a corpo centrato, invece, si ha un atomo a ogni angolo e uno al centro del cubo,
il che conferisce alla struttura una minore compattezza; i metalli che seguono questo sistema, quali
ferro e cromo, sono quindi maggiormente resistenti alla deformazione e posseggono un più elevato
punto di fusione.
Il grado di compattezza dei metalli che cristallizzano secondo il sistema esagonale compatto,come
lo zinco, è intermedio fra quello dei due precedenti (Greaves, Wrighton 1960/ Matteoli 1954).
Altri metalli infine, alcuni dei quali estesamente utilizzati in antico, appartengono a sistemi diversi,
come il romboedrico, di cui fanno parte l'arsenico, l'antimonio, il mercurio e il bismuto, e il
tetragonale a corpo centrato come lo stagno ordinario.
Fig.1: Sistemi cubico a facce centrate (A), cubico a corpo centrato (B) ed esagonale compatto (C).
Fonte: Giardino 1998
142
13.1.3- Struttura cristallina delle leghe
In un solido, un atomo estraneo al reticolo cristallino costituito da una data matrice (solvente)
composta da atomi di specie diversa, può sostituire uno degli atomi della matrice (soluzione di
sostituzione) oppure occupare lo spazio vuoto esistente tra gli interstizi del solvente (soluzione
interstiziale). La scelta fra l'una e l'altra possibilità è legata alle dimensioni relative dei due tipi di
atomi: la soluzione di sostituzione si verifica infatti quando gli atomi del soluto e quelli del solvente
sono simili fra loro come nel bronzo (rame e stagno) e nell'ottone (rame e zinco); nella soluzione
interstiziale invece gli atomi del soluto sono molto più piccoli di quelli del solvente, come si
verifica nel caso delle leghe ferro-carbonio: qui gli atomi di un metallo (il ferro) interagiscono con
quelli di un non-metallo (il carbonio) avente un raggio atomico assai ridotto (Giardino, 1998)
13.1.4- Meccanismi di deformazione
Esercitando su di un metallo uno sforzo di limitata intensità, quello tornerà nella sua forma e
dimensioni primitive al cessare della sollecitazione (deformazione elastica). Sottoponendolo però ad
una sollecitazione maggiore, anche una volta cessata la causa deformante, esso manterrà nuove
forme e dimensioni diverse da quelle iniziali: la deformazione sarà quindi permanente.
La spiegazione di questa proprietà risiede nel comportamento dei singoli cristalli metallici
sottoposti a deformazione plastica. Tale deformazione avviene mediante lo scorrimento relativo di
blocchi del cristallo lungo alcuni piani preferenziali paralleli, in maniera tale, però, che forma e
dimensioni del reticolo cristallino restino immutate (Fig.2) (Giardino, 1998)
L'incrudimento consiste nell'aumento dello sforzo necessario a incrementare la deformazione, man
mano che questa progredisce (Bartocci, Marianeschi, 1960)
Fig.2: Schema di deformazione plastica di un cristallo metallico sottoposto a trazione, in tre stadi successivi: i
pallini neri rappresentano gli atomi.
Fonte: Bartocci, Marianeschi, 1960
143
13.1.5- Microstruttura di un getto di fusione
I metalli e le leghe al di sopra di una certa temperatura liquefano: è necessaria quindi una certa
energia termica per rompere i legami del reticolo cristallino, trasformando così il liquido in solido.
All'opposto, durante il raffreddamento gli atomi si riavvicinano e si ristabilisce il reticolo:
inizialmente si formano nella massa liquida dei microcristalli costituiti da aggregati di atomi
disposti secondo il reticolo cristallino (germi); attorno a essi, per accrescimento, si aggiungono gli
altri atomi fino a costruire dei cristalli più grossi. Giacchè in una massa liquida vi sono
numerosissimi germi, questi nella loro crescita indipendentemente verranno inevitabilmente in
contatto fra loro. Sono dette bordi o contorni le superfici di contatto, irregolari, dei singoli cristalli,
questi ultimi comunemente chiamati grani cristallini o semplicemente grani. Le superfici di
contatto fra grani adiacenti appaiono in una sezione metallografica come linee sottili (Fig.3)
(Giardino, 1998).
Le dimensioni dei grani sono in rapporto al numero di germi presenti nella massa fusa; questi ultimi
dipendono a loro volta da vari fattori, quali la temperatura iniziale del liquido, la velocità di
raffreddamento, la presenza d'impurità, ecc..
In particolare va rilevato che più veloce è il raffreddamento della colata, più i grani sono numerosi e
piccoli: se il raffreddamento è sufficientemente lento, l'accrescimento dei cristalli metallici si
sviluppa seguendo un andamento arborescente, con rami principali da cui si dipartono rami
secondari, terziari, ecc.. perpendicolari gli uni agli altri. Questa particolare struttura è detta dendrite
(Fig.4) (Giardino, 1998).
Quando il metallo è puro, la massa solida, tutta omogenea, si deposita sia sui rami che negli spazi
fra di essi: non sarà quindi di norma possibile riscontrare traccia nel metallo solido di questo
meccanismo di accrescimento. Sarà evidenziabile invece una struttura a grani più o meno
irregolarmente esagonali, tutti all'incirca delle stesse dimensioni ed equiassiali (Fig.5): l'aspetto
irregolare dei cristalli deriva dal fatto che essi si disturbano reciprocamente durante la crescita
(Giardino, 1998).
Diverso è invece il caso delle leghe, giacchè durante il raffreddamento avvengono dei fenomeni di
segregazione nei loro componenti: i rami della dendrite, che sono i primi a solidificare, sono quindi
costituiti dal metallo a punto di fusione più alto e che conseguentemente solidifica per primo,
mentre gli spazi interdendritici vengono riempiti dal metallo che solidifica per ultimo. E' così
possibile, mediante opportune tecniche di preparazione metallografica, evidenziare le eterogeneità
chimiche mettendo in risalto le dendriti (Fig.6) (Giardino, 1998).
L'esame metallografico di un oggetto fuso che non abbia subito alcun processo di lavorazione,
evidenzierà quindi una diversa struttura a seconda che esso sia stato prodotto con un metallo
praticamente puro (grani) o una lega (dendriti): l'osservazione di tali strutture in un reperto antico
dimostra dunque che esso è un getto di fusione: è questo non solo il caso, tipico, dei lingotti ma
anche di oggetti o parti di essi che per qualche motivo non siano stati ulteriormente lavorati, come
scarti di fusione, statue, bronzetti, portali (Giardino, 1998).
144
Fig.3
Fig.4
Fig.5
Fig.6
Fig.3: Schema di accrescimento dei grani cristallini. (Fonte: Bartocci, Marianeschi, 1960)
Fig.4: Schema di una dendrite. (Fonte: France, Lanord , 1980)
Fig.5: Microfotografia di un lingotto piano-convesso di rame pressochè puro (96%) di età nuragica: struttura a
grani. (Fonte: Giardino, 1998)
Fig.6: Microfotografia di un portale medievale toscano in bronzo: struttura ramificata. (Fonte: Giardino, 1998)
145
13.1.6- Microstruttura di un metallo lavorato
Vari sono i trattamenti meccanici cui i manufatti metallici vengono sottoposti per conferire loro le
necessarie caratteristiche di forma, durezza, ecc.. Martellatura, torsione, trafilatura, laminazione
sono alcuni dei più comuni processi utilizzati a tale scopo: essi non solo modificano la
miscrostruttura del metallo, ma anche le sue proprietà meccaniche: vengono infatti incrementate sia
la durezza che la fragilità.
Lo studio metallografico dei reperti antichi consente di stabilire, esaminando le alterazioni
strutturali a livello macroscopico, quali processi di lavorazione siano stati impiegati dal fabbro
fornendo quindi preziosi indizi non solo sulle capacità del singolo operatore, ma anche sulle nozioni
tecniche conosciute e in uso presso una determinata cultura (Fig.7).
Fig.7: Quadro schematico delle modifiche microstrutturali di un metallo (appartenente al sistema cubico a
facce centrate, esagonale o ottaedrico) sottoposto a trattamenti meccanici e termici.
Fonte: Scott, 1991
146
Un getto di fusione è, come si è detto, costituito da grani o da dendriti. Il processo di martellatura
produze l'appiattimento di tali strutture, così come di eventuali inclusi; la deformazione è tanto
maggiore quanto più intensa è stata la martellatura: in un metallo lavorato plasticamente a freddo si
osserveranno quindi grani o dendriti allungati nella direzione dello stiramento (Giardino, 1998).
Oltre un certo limite, però, il metallo diviene eccessivamente duro e fragile e può facilmente
rompersi (incrudimento). Se si vuole continuare la lavorazione è quindi necessario sottoporre il
pezzo a ricottura, cioè a un opportuno riscaldamento che consenta di ottenere la ricristallizzazione e
la riduzione delle tensioni interne al materiale, annullando gli effetti dell'incrudimento.
La temperatura di ricristallizzazione è di norma alquanto elevata, sebbene inferiore a quella di
fusione (tab.1) (Bartocci, Marianeschi, 1960); in alcuni metalli, come il piombo o lo stagno, cade
invece a temperature uguali o inferiori a quella ambiente: la loro estrema malleabilità è proprio
legata alla impossibilità di incrudirli a temperatura ambiente (Anderson et al., 1980). Nell'eseguire
la ricottura è necessario tenere conto del fattore tempo: se troppo breve gli effetti dell' icrudimento
potrebbero non venire eliminati, mentre se eccessivamente lungo potrebbe prodursi un'indesiderata
crescita dei grani, con conseguente indebolimento strutturale del manufatto (Bartocci, Marianeschi,
1960).
Tab.1: Temperature minime di ricristallizazione di alcuni metalli (°C).
Fonte: Bartocci, Marianeschi, 1960
147
Quando un materiale viene incrudito senza che segua la ricottura si è in presenza di lavorazione a
freddo; si ha invece lavorazione a caldo quando i due processi sono praticamente concomitanti,
come nel caso di un manufatto scaldato al calor rosso e immediatamente martellato.
La lavorazione a freddo abbassa le temperature di ricristallizzazione: è stato infatti osservato che il
rame puro, intensamente lavorato, può ricristallizzare a 120° C, il ferro a 560°C, lo zinco a 10°C, lo
stagno e il piombo a -12°C (Scott, 1991).
Metallograficamente la ricottura produce la sostituzione delle strutture deformate dalla lavorazione
a freddo con nuovi grani regolarmente formati, indipendentemente dal fatto che in origine vi fossero
dendriti o grani.
La ricristallizzazione che ha luogo con la ricottura di un metallo lavorato a freddo induce alla
formazione di geminati di geminati di ricottura nella maggior parte dei metalli appartenenti al
sistema cubico a facce centrate, esagonale o ottaedrico; è questo il caso, in particolare, del rame,
dell'argento, dell'oro, del piombo, dell'antimonio e delle loro leghe. I geminati sono degli elementi
caratteristici che all'osservazione microscopica metallografica appaiono delimitati da linee parallele,
che formano come delle bande all'interno dei grani, o almeno in alcuni di essi (Fig.8) (Giardino,
1998).
Tali bande sono in realtà cristalli identici a quelli che costituiscono i grani che li contengono, ma di
diverso orientamento.
Un'eventuale, ulteriore lavorazione a freddo causerà la distorsione non solo dei grani, ma anche dei
geminati.
Nel caso di metalli intensamente lavorati a freddo possono osservarsi mediante un attacco di
sostanze chimiche le linee di incrudimento, una serie di sottili linee parallele all'interno di taluni
grani (Fig.9): esse sono le linee di scorrimento del cristallo sottoposto a deformazione plastica, rese
evidenti poiché le zone incrudite offrono minore resistenza ai reattivi chimici.
Fig.8
Fig.9
Fig.8: Microfotografia di una fibula protostorica laziale in lega di rame: struttura a grani poligonali geminati
Fig.9: Microfotografia di una fibula protostorica laziale in lega di rame: struttura a grani poligonali con linee di
incrudimento al loro interno.
Fonte: Giardino,1998
148
13.2- L'esame ottico metallografico
13.2.1- La microscopia metallografica
Lo studio della microstruttura dei manufatti viene normalmente effettuato esaminando al
microscopio metallografico un campione di metallo opportunamente preparato: tale microscopio
differisce da quello usato in biologia o in geologia poiché mentre in questi ultimi l'illuminazione e
l'osservazione del campione viene fatta in trasparenza, nel primo il soggetto viene osservato a luce
riflessa (Giardino, 1998). L'osservazione viene quindi fatta per riflessione della luce da parte della
superficie metallica, che deve quindi essere preventivamente levigata e lucidata a specchio
(Matteoli, 1954).
13.2.2- La microdurezza
Particolarmente sentito è il problema di misurare la durezza di un dfato metallo. Vari sono i sistemi
che sono stati elaborati a tale scopo, ma il più diffuso è quello dell'impronta, che consiste nel
misurare le dimensioni di un'impronta impressa da un corpo molto duro, di norma un acciaio
durissimo o un diamante, di forma e dimensione standard sul pezzo da provare, impegando una
forza nota per un tempo determinato (Bartocci., Marianeschi 1960 /Boyer, 1976).
Nel sistema Vickers il corpo penetratore è costituito da una piccola piramide di diamante a base
quadrata, nel Brinnel da una sfera d'acciaio duro, nel Rockwell sia da un cono di diamante che da
una sferetta d'acciaio. Nel settore dell'archeometallurgia viene comunemente impiegato il sistema
Vickers, mentre non trovano impiego il test di Brinnel e quello di Rockwell, applicati invece
nell'industria (Giardino, 1998).
Le dimensioni della piramide, e quindi quelle delle impronte prodotte, sono infatti così ridotte da
risultare praticamente invisibili a occhio nudo, nell'ordine di decimi di millimetro; la misura si
effettua quindi con un microdurometro applicato a un microscopio metallografico. Date le
dimensioni dell'impronta è necessario preparare la zona di superficie da saggiare: si effettua infatti
in genere su campioni già inglobati in resina e lucidati. Data la generale disomogeneità caratteristica
dei manufatti antichi e la ridottissima superficie sulla quale viene effettuata la prova Vickers è
necessario effettuare sul campione un certo numero di misurazioni (evitando ovviamente porosità o
inclusioni) dalle quali ricavare poi un valore medio (Giardino, 1998).
149
13.2.3- La campionatura
Le indagini su un manufatto antico non possono prescindere da un'accurata ispezione sia macro che
microscopica della sua superficie esterna. Questa, oltre a rivelare la presenza di eventuali tracce
d'uso, che possono fornire indicazioni sull'impiego del manufatto o sulle tecniche di affilatura delle
lame, fornirà le necessarie indicazioni sui punti dove effettuare le campionature o le misurazioni
dirette superficiali nel caso si utilizzino tecniche di indagine non distruttive. In entrambi i casi si
tenderà a evitare le aree di corrosione, a meno che non siano proprio esse oggetto della ricerca. Per
ovvi problemi di conservazione, le dimensioni dei campioni prelevabili dai manufatti artistici o
archeologici sono sempre assai ridotte (in genere l'osservazione dovrebbe farsi su una superficie di
2-4 millimetri quadrati) (Giardino, 1998).
Il prelievo costituisce un'operazione estremamente delicata, in cui la primaria esigenza di non
danneggiare in alcun modo il reperto deve combinarsi con la necessità di campionare un punto
realmente significativo ai fini delle informazioni che si ricercano: se ad esempio si desiderano dati
sulle tecniche di lavorazione effettuate in antico su uno strumento da taglio, sarà necessario
prenderne in esame la lama, verosimilmente incrudita, piuttosto che il corpo, che potrebbe invece
rivelare una struttura da getto di fusione.
Nel caso di oggeti di dimensioni contenute è sempre preferibile eseguire il prelievo mediante
microlama azionata a mano, avendo cura di non alterare la sagoma del pezzo, piuttosto che con
carotatrici, che producono fori di dimensioni eccessive e spesso deturpanti (Giardino, 1998).
Il campione viene successivamente montato in plastica termoindurente o a freddo con resine
epossidiche. Così preparato esso viene accuratamente levigato con carte smeriglio sempre più fini,
lavando in acqua corrente il campione a ogni passaggio e ruotandolo di volta in volta di 90° in
modo da cancellare le rigature prodotte dalla precedente operazione; la lucidatura finale si fa infine
su dischi rotanti rivestiti con panni imbevuti di sospensioni di sostanze abrasive (pasta diamantata o
allumina); il pezzo viene quindi osservato al microscopio metallografico per determinare la
presenza di eventuali inclusioni, come microscorie, cristalli di solfuri o globuletti di piombo, di
difetti di fusione, come cavità, porosità, microfessure, e di fenomeni di corrosione (Giardino, 1998).
Dopo aver documentato fotograficamente tali elementi, si passa all'attacco mediante specifici
reattivi chimici per mettere in evidenza la struttura metallografica del campione. La scelta del
reattivo è effettuata in funzione sia del tipo di metallo che si sta analizzando, che dello scopo della
ricerca: spesso infatti una particolare struttura viene meglio evidenziata da una piuttosto che da
un'altra preparazione.
Accanto a queste tecniche più tradizionali e diffuse ne esistono anche altre, maggiormente rispettose
dell'integrità del manufatto: esse prevedono che l'esame metallografico avvenga direttamente
sull'oggetto, mediante lucidatura e attacco di una ridotta superficie opportunamente scelta, senza
effettuare alcun prelievo, operazione comunque traumatica per un reperto; questo metodo si presta
ad affiancarsi ad altri sistemi di indagine non invasivi, come la fluorescenza X, consentendo così di
ottenere dati sia sulla struttura che sulla composizione chimica (Giardino, 1998).
L'evoluzione dei videomicroscopi, prodotti in dimensioni sempre più contenute, e dei sistemi di
misura ED-XRF, oggi portatili, consente di effettuare le indagini simultaneamente nel luogo di
conservazione del pezzo, senza sottoporlo a spostamenti; è inoltre possibile documentare le varie
fasi dell'intervento mediante immagini trasferibili in un computer (Giardino et al., 1996)
150
13.3- Tecniche analitiche composizionali e prove non distruttive
Numerose sono oggi le tecniche analitiche a disposizione degli studiosi, che consentono di ottenere
dati sulla composizione della lega. La scelta del metodo da seguire va comunque fatta a monte e
deve essere unicamente dettata dal quesito storico-archeologico o conservativo a cui si vuole dare
risposta per mezzo delle indagini archeometriche (tab.2) (Craddock, 1995).
Le tecniche più diffuse in campo archeometallurgico sono le seguenti:
fluorescenza X, fluorescenza X non dispersiva, spettroscopia di emissione x indotta da
protoni: per effettuare analisi elementari quantitative e qualitative in maniera
sostanzialmente non distruttiva; sono di agevole applicabilità, ma la radiazione impiegata ha
una ridotta penetrazione, consentendo quindi di analizzare solo la parte superficiale del
manufatto. Prima di effettuare misure di fluorescenza è quindi necessario rimuovere
localmente l'eventuale strato di patina sino a far affiorare il metallo, a meno che non si
desiderino informazioni proprio sulla patina stessa;
spettrometria di assorbimento atomico: per analisi elementari quantitative di elevatissima
sensibilità, permette di determinare concentrazioni nell'ambito delle parti per milione;
necessita però del prelievo di materiale, sebbene in quantità assai ridotta;
diffrattometria a raggi X: per analisi qualitative, quantitative e cristallografiche delle
sostanze cristalline, di cui consente di riconoscere il reticolo, determinando così la sostanza
in esame;
spettroscopia al plasma: per analisi elementari qualitative e quantitative di elevata
sensibilità, consente l'identificazione degli elementi in tracce, ma necessita del prelievo di
materiale, sebbene in quantità assai ridotta;
spettrometria di massa: permette la separazione e la determinazione qualitativa dei vari
isotopi di un elemento, che differiscono appunto per la massa, e viene applicata nell'esame
del rapporto isotopico del piombo; ha elevata sensibilità, ma l'alto costo dell'attrezzatura e la
difficoltà nella preparazione in laboratorio dei campioni ne limitano l'applicazione;
attivazione neutronica: per analisi elementari qualitative e quantitative, opera su piccoli
reperti in maniera sostanzialmente non distruttiva; possiede elevata penetrazione e permette
quindi l'analisi dell'intero pezzo, tuttavia, data la crescente penuria di idonee sorgenti di
neutroni, incontra sempre maggiori difficoltà di realizzazione.
Ad esse si affiancano altre tecniche, che forniscono informazioni di altro tipo, necessarie allo studio
tecnologico e conservativo del manufatto, documentando disomogeneità composizionali, forme di
corrosione e difetti strutturali. Vanno fra queste ricordate:
la radiografia e la gammagrafia: per evidenziare strutture interne, invisibili all'occhio nudo;
sono tipicamente prove non distruttive;
gli ultrasuoni: per l'ispezione e la caratterizzazione interna del manufatto; non distruttiva,
trova prevalente impiego nello studio di opere di non piccole dimensioni.
Si tenga presente che la radiografia e la gammagrafia possono produrre alterazioni nelle terre di
fusione contenute all'interno delle statue, impedendo la loro datazione per termoluminescenza;
possono inoltre modificare il colore di decorazioni in vetro e smalto (Giardino, 1998)
151
Nella comparazione dei dati composizionali ottenuti con metodi differenti è necessario tenere conto
delle caratteristiche proprie di ciascuno di essi: a seconda della diversa sensibilità, elementi definiti
presenti solo in “tracce” o in quantità “non rilevabili” secondo una tecnica, potrebbero invece essere
perfettamente quantizzabili con un'altra; nella valutazione si deve comunque considerare che,
essendo i materiali antichi disomogenei, ben difficilmente indagini condotte in punti diversi dello
stesso oggetto daranno risultati totalmente identici (Giardino, 1998).
152
13.4- Corrosione e primo trattamento dei manufatti metallici
I metalli e le leghe presentano una forte reattività, abbiamo detto, nei confronti di diversi agenti
dell'ambiente esterno, in particolare l'acqua, l'ossigeno e l'anidride carbonica e solforosa. Il termine
corrosione indica appunto il processo, di natura essenzialmente chimica, per cui questi elementi si
combinano con i diversi reagenti producendo un graduale deterioramento dei metalli stessi,
consistente generalmente nella loro trasformazione in ossidi.
La presenza di acqua scatena i meccanismi elettrochimici di corrosione, assenti in ambiente
asciutto: in una soluzione acquosa le superfici metalliche si comportano infatti come elettrodi di una
pila, sviluppando delle correnti (le correnti di corrosione) che sono responsabili della formazione
dei prodotti di alterazione (Anderson et al., 1980).
La tendenza alla corrosione è diversa fra i vari metalli; è massima per i metalli alcalino-terrosi
(sodio, calcio, magnesio), mentre decresce progressivamente per l'alluminio, il ferro e il rame sino a
essere nulla per l'oro e il platino, che ne sono praticamente immuni (Giardino, 1998).
In alcuni casi l'ossidazione avanza progressivamente sempre più in profondità, fino a degradare
completamente il metallo: ne è un tipico esempio la ruggine prodotta dall'acqua e dall'ossigeno sul
ferro, squamosa e scarsamente compatta; in altri, i prodotti iniziali di corrosione impediscono
invece l'ulteriore diffusione del processo, producendo uno strato protettivo di ossido superficiale
fortemente aderente, uniforme e insolubile, la cosiddetta patina che, isolando il metallo, arresta il
progredire del degrado per un fenomeno detto di passivazione (Giardino,1998). Tale fenomeno si
osserva ad esempio nel rame e nelle sue leghe, nel nichel, nell'alluminio, nel cromo, nel piombo e
nell'argento.
I metalli possono subire il degrado non soltanto in ambiente umido, ma anche in quello secco, per
attacco diretto di elementi corrosivi, principalmente gassosi (corrosione secca). Il principale agente
corrosivo è l'ossigeno, che tende ad ossidare il metallo: è questo un tipo di corrosione che si
sviluppa soprattutto ad alte temperature, mentre è trascurabile a temperatura ambiente: interessa e
interessava quindi principalmente il lavoro di fabbri e fonditori.
153
13.4.1- Varietà di corrosione
Diverse sono le varietà di corrosione che possono colpire i metalli (Fig.1):
la corrosione generalizzata è un attacco uniforme che interessa l'intera superficie del
manufatto, ricoprendolo interamente di prodotti di corrosione: rientrano ad esempio in
questa categoria la patinatura del rame, delle sue leghe e l'offuscamento dell'argento;
la corrosione localizzata si presenta invece esclusivamente su alcuni punti dell'oggetto, con
varia estensione in profondità. Un caso particolarmente grave è costituito dal pitting, che si
manifesta su metalli passivati, dei quali penetra lo strato protettivo producendo profonde
cavità. Essa costituisce, per la sua aggressività e velocità, uno dei maggiori problemi
conservativi per i metalli archeologici ed è legata alla presenza di particolari ioni in
soluzione, in particolare cloruri (Scully, 1990).
la corrosione intergranulare e quella intragranulare si manifestano entrambe a livello
microscopico, la prima lungo i bordi dei grani, la seconda al loro interno. Presentano una
certa gravità nei manufatti antichi poiché possono indebolirne la struttura senza che
esteriormente se ne abbiano segni apparenti.
Fig.1: Varietà di corrosione:
A: corrosione generalizzata
B: corrosione localizzata (pitting)
C: corrosione intergranulare
D: corrosione intragranulare
Fonte: Giardino, 1998
154
13.4.2- Misure di primo trattamento conservativo sullo scavo
La conservazione dei manufatti metallici che si rinvengono nel corso dello scavo archeologico è
assai spesso problematica: tranne che in alcuni rari casi, è difficilmente disponibile sul campo un
restauratore specializzato mentre i metalli necessiterebbero, di norma, di un trattamento immediato.
Purtroppo quindi tali cure sono spesso rinviate al momento del definitivo intervento conservativo in
laboratorio e i reperti possono subire nel frattempo un gravissimo e talora inarrestabile degrado.
Fra il momento della sepoltura e quello del dissotterramento, i pezzi infatti stabiliscono un
equilibrio fisico-chimico con le condizioni del microambiente nel quale si trovano, condizioni
variabili a seconda del tipo di suolo (Tab.1), che si sono verosimilmente mantenute
sufficientemente stabili per vari secoli (Giardino,1998).
Al momento del rinvenimento, con l'esposizione all'aria, alla temperatura e all'umidità esterne, tali
condizioni cambiano bruscamente e in misura drammatica, innescando i processi di corrosione: da
qui la necessità, da parte di chi opera in un cantiere archeologico, di arrestare o almeno di rallentare
l'insorgere di questi processi.
Un ulteriore pericolo da non sottovalutare, per la salvaguardia del reperto, è legato a trattamenti di
pulizia effettuati da mani inesperte, magari allo scopo di rendere immediatamente leggibile un
oggetto fortemente incrostato (come ad esempio una moneta), ma che talora portano al risultato di
graffiarlo irreparabilmente, o addirittura di causarne lo sbriciolamento; è quindi indispensabile che
qualsiasi operazione venga condotta sul campo da non specialisti sia reversibile e possa quindi
venire corretta in laboratorio (Giardino, 1998). Ciò è particolarmente evidente quando si renda
indispensabile usare dei consolidanti o degli adesivi, che devono avere una composizione tale da
non intaccare il metallo, essere facilmente rimovibili e venire usati in quantità minime (Giardino,
1998).
E' preferibile che persone inesperte evitino di rimuovere dai reperti metallici anche soltanto lo
sporco superficiale; in presenza di ossigeno l'immersione del metallo in acqua instaura facilmente
processi corrosivi o li accelera qualora siano già attivi. Si consideri che talora l'acqua corrente può
essere fortemente clorata o salina e quindi dannosa per i metalli, per i quali è comunque necessario
usare acqua distillata (Giardino, 1998). Per eliminare il terriccio dal reperto è consigliabile quindi
l'uso a secco di un pennello non troppo duro, evitando assolutamente di rimuovere la corrosione
mentre una pulizia poco accorta può inoltre eliminare le tracce di eventuali materiali organici
conservatisi per mineralizzazione nella patina, come le fibre di una stoffa che avvolgeva il pezzo o i
frammenti della custodia in legno o in cuoio di un'arma.
Va sempre tenuto conto della fragilità dell'oggetto metallico che si rinviene sullo scavo, spesso
affetto da microfessurazioni non immediatamente visibili perchè nascoste dallo sporco o dalla
patina. E' quindi necessario estrarlo dal terreno con la massima delicatezza, dapprima ripulendolo
dal terriccio con un pennello e isolandolo, per poi scavare leggermente al di sotto di esso e
sollevarlo sostenuto dal pacchetto di terra; la ripulitura avverrà solo nel laboratorio da campo
(Giardino, 1998).
155
Tab.1: effetto dei tipi di suolo sui diversi metalli
Fonte: Sease, 1987
156
13.4.3- Metodo
Il reperto, tranne qualora sia in ferro, va temporaneamente posto in una busta di carta, affinchè si
asciughi lentamente: se collocato infatti nella plastica appena uscito dallo scavo, l'umidità da esso
stesso prodotta potrebbe avviare processi di corrosione.
L'oggetto va dapprima pulito accuratamente con un pennello, poi impregnato per capillarità con una
soluzione al 10% di Paraloid B72, usando come solvente alcool o acetone e non acqua, per non
incrementare la corrosione; qualora sia necessario un ulteriore rinforzo può risultare consigliabile
applicare una garzatura, sempre ricorrendo a una soluzione non acquosa di Paraloid (Sease, 1987).
Non va mai intrapreso alcun tentativo di incollaggio dei frammenti, che dovrebbe poi essere quasi
certamente smontato all'atto del restauro definitivo, provocando la perdita di frammenti del bordo di
frattura.
Una fase da curare con attenzione è quella dell'imballaggio, poiché il reperto dovrà restare nel suo
contenitore in attesa dello studio o dell'intervento di restauro definitivo per un certo periodo di
tempo: è indispensabile quindi che soltanto materiali inerti vengano a contatto con l'oggetto. La
carta di giornale ad esempio, altamente acida, può essere usata solo come riempimento di grosse
scatole destinate a contenere più pezzi già impacchettati individualmente: queste ultime però non
devono mai venire collocate al sole con oggetti dentro, perchè si forma rapidamente al loro interno
della condensa che ne bagna il contenuto (Giardino,1998).
Per mantenere l'ambiente asciutto, nell'imballaggio contenente il metallo, va posto del gel di silice,
assicurandosi che questo non sia a diretto contato con il pezzo, cui cederebbe altrimenti l'umidità
assorbita: un semplice sistema consiste nel mettere il gel di silice in una bustina di polietilene,
forandola con un ago; l'imballaggio va poi ermeticamente chiuso.
Il reperto va infine posto in una scatola rigida, avendo cura che si frapponga, fra esso e le pareti del
contenitore, una sostanza in grado di assorbire gli urti, come polistirolo espanso o, specialmente nel
caso di reperti minuti, bambagia (Fig.2).
Fig.2: Imballaggio di reperti metallici.
Fonte: Giardino, 1998
157
13.4.4- Precauzioni specifiche per i diversi metalli
Le precauzioni sovraesposte sono valide praticamente per tutti i manufatti metallici che possono
rinvenirsi nel corso di uno scavo archeologico; vi sono però alcune ulteriori precauzioni che sono
specifiche dei diversi tipi di metalli e leghe.
Il rame e le sue leghe assumono spesso patine di diversi colori, dal verde, all'azzurro, al rossiccio
che, però, non danneggiano il metallo sottostante ma lo preservano da ulteriori fenomeni di
degrado. Particolarmente dannose sono invece le patine contenenti cloruri, spesso presenti nei
bronzi recuperati in suoli salini e in quelli di provenienza marina: queste, in presenza di umidità e
ossigeno, producono in brevissimo tempo la cosiddetta “peste del bronzo” (pitting), un processo di
corrosione attiva localizzata di natura elettrochimica autorigenerantesi ( Giardino,1998).
Sull'oggetto sono osservabili dei punti coperti da una sostanza pulverulenta di colore verde brillante
o verde biancastro, al di sotto della quale si riscontrano delle cavità crateriformi o a punta di spillo,
che intaccano profondamente il metallo; tale tipo di corrosione necessita, oltre che di una pulitura
meccanica con rimozione dei cloruri, anche di particolari trattamenti stabilizzanti, operazioni queste
che non possono essere compiute se non da personale specializzato, cui i pezzi devono pervenire il
prima possibile, impacchettati con gel di silice ( Marabelli, 1995).
Nel caso di oggetti in leghe d'oro, è opportuno ricordare che processi di corrosione potrebbero
essere in atto a carico del componente meno nobile, ad esempio dell'argento o del rame, e che
quindi la struttura del manufatto potrebbe essere in realtà debole; specie nel caso delle leghe con
rame è anche possibile che i prodotti di degrado di questo giungano a coprire la superficie del
reperto, rendendo difficile riconoscerlo come oro (Giardino, 1998).
Il ferro nel terreno è soggetto, in presenza di ossigeno e acqua, a un'intensa corrosione; tale reazione
produce scaglie e grumi di ossidi che possono facilmente giungere a interessare l'intera massa
metallica, deformando talora l'oggetto anche in misura notevole: il manufatto in ferro va quindi
sempre considerato molto fragile ed estratto dal terreno con precauzione.
I reperti in ferro umidi (e quindi anche quelli di provenienza marina) non vanno lasciati a contatto
dell'ossigeno dell'aria, magari nel tentativo di asciugarli ricorrendo alla ventilazione naturale, che
attiva e incrementa i processi di degrado; si deve procedere a un loro rapido asciugamento, magari
ricorrendo a lampade infrarossi, prima di imballarli nella plastica con gel di silice oppure non
asciugarli affatto ma immergerli in soluzione riducente di solfito di sodio (Marabelli, 1995).
Spesso la ruggine ingloba piccoli ciottoli o altri reperti: non è mai opportuno tentare di separarli,
specie se oppongono una qualche resistenza, poiché questo potrebbe provocare la rottura
dell'oggetto.
Il piombo di scavo, come pure il peltro, presenta una patina bianca-grigiastra pulverulenta e, specie
se il processo di corrosione è avanzato, si rompe facilmente; è necessario quindi tenere conto della
fragilità di questi materiali quando li si rimuove dal suolo e quando li si maneggia; talora può
rendersi necessario il consolidamento (Giardino, 1998). Non necessitano comunque di essere
impacchettati con gel di silice, essendo materiali abbastanza stabili, ma sono soggetti alla
corrosione da parte di vapori causati da sostanze organiche: vanno perciò evitati contenitori in
legno, cartone e carta comune.
158
L'argento si presenta al momento della scoperta coperto da una patina nera, grigiastra o anche
bianca; se è in lega con il rame, i prodotti di corrosione di quest'ultimo possono ricoprirlo
interamente (Giardino, 1998).
E' in genere assai fragile e tende a spezzarsi molto facilmente per la presenza di lesioni e di
microcricche, legate non soltanto alla corrosione, ma anche talora all'acuirsi di antichi difetti di
fabbricazione: va quindi asportato dal terreno con estrema cautela e maneggiato con delicatezza,
poichè la più lieve pressione potrebbe romperlo.
159
14- CONCLUSIONI
Al termine di tutta questa esposizione ed analisi dell'armamento longobardo, possiamo quindi
tentare di ricostruire la figura del guerriero, tenendo conto delle precise evoluzioni tecniche ma
anche sociali.
14.1: Il guerriero longobardo di VI secolo
Al momento dell'entrata in Italia, l'esercito longobardo era formato da tutti gli uomini liberi in grado
di portare le armi, con distinzioni di classe basate sostanzialmente sull'armamento, che era
individuale e che ci permette di distinguere tra guerrieri di rango elevato e guerrieri di rango
minore, tutti comunque impiegati in combattimento. Il forte legame, costituito dal mito
dell'ascendenza comune, che vi era tra la gens, costituiva anche la colonna portante del
combattimento di gruppo: i Longobardi, in questo periodo, combattevano, come la maggior parte
dei Germani, schierati per fare, ovvero legati tra di loro da vincoli di parentela e amicizia.
Le sepolture datate a quest'epoca ci restituiscono reperti che, interpretati, permettono di ipotizzare
l'equipaggiamento effettivo del guerriero longobardo di VI secolo.
L'arma offensiva principale risultava la lancia con la cuspide a foglia di salice e, in rari casi verso la
fine del secolo, con la cuspide a sezione romboidale propria della cultura Avara. Accanto a questa,
che era comunque l'arma più diffusa perchè impiegabile anche da un semplice cacciatore nello
svolgimento della sua attività, vi era lo scudo: con il corpo di materiale organico (legno e cuoio),
possedeva l'umbone metallico di modeste dimensioni, con la calotta conica e la falda troncoconica;
era fissato al corpo con cinque borchie di ferro e l'unico ornamento che poteva avere, era un bottone
situato alla sommità della calotta.
Lancia e scudo erano quindi le armi principali in questo periodo, alle quali dobbiamo aggiungere la
scramasax che però, come ci dimostrano i ritrovamenti, era rara e sostanzialmente poco più grande
di un grosso coltello, adatta quindi all'uso quotidiano e, secondariamente, bellico; facile inoltre
ipotizzare che i meno abbienti (quelli che in seguito verranno chiamati minores) usassero arco e
frecce, di sostanziale reimpiego dalla caccia, utili per reparti di supporto.
Guerrieri di più alto rango portavano, assieme a lancia e scudo, anche la spatha: di acciaio temprato,
chiusa in un fodero di materiale organico, era appesa ad una cintura del tipo “a cinque pezzi”; se
portavano elmi, questi dovevano essere costituiti da caschetti di cuoio, poiché nelle sepolture di VI
secolo non ne abbiamo traccia, come non abbiamo testimonianze di equipaggiamenti da cavaliere,
che testimonierebbero la composizione prevalentemente di fanteria dell'esercito longobardo di VI
secolo.
Ciò non esclude comunque l'utilizzo del cavallo già in quest'epoca: se diamo fede, ad esempio, alle
parole di Paolo Diacono, che narra un episodio relativo alla fanciullezza di Grimoaldo: “Uno di
essi, considerando che il loro fratellino Grimoaldo era troppo piccolo per tenersi su un cavallo in
corsa, pensò essere meglio per lui morire di spada che sopportare il giogo della schiavitù, e voleva
ucciderlo. Aveva già alzato la lancia per colpirlo, quando il fanciullo tra le lacrime esclamò: “Non
uccidermi, perchè posso tenermi sul cavallo”. Quello, tesa la mano, lo afferrò per un braccio e lo
fece sedere sul dorso nudo di un cavallo e lo esortò a tenersi saldamente. Il fanciullo, afferrate le
briglie, seguì i fratelli nella fuga.” (Paolo Diacono, Hist.Lang.,IV,37) possiamo dedurre che
160
cavalcare a pelo, quindi senza sella e staffe, era un'azione comunque praticata e formalmente dagli
uomini adulti. Il giovane Grimoaldo viene collocato sopra ad un cavallo che possiede solo briglie,
destinato ad un guerriero adulto che, in quanto tale, aveva “la forza per tenersi su un cavallo in
corsa”.
La cavalleria in quest'epoca, quindi, poteva svolgere sostanzialmente funzioni di perlustrazione e
di disturbo: era una forza veloce, leggera e che non doveva occupare un ruolo determinante nelle
battaglie.
14.2- Il guerriero longobardo di VII secolo
Dallo stanziamento in Italia, inizia un'evoluzione graduale che riguarda tutte le armi del guerriero
longobardo: dalla fine del VI alla metà del VII, la forza bellica longobarda inizia a trasformarsi
gradualmente, grazie a perfezionamenti dovuti anche all'incontro con l'influenza mediterranea da un
lato e, successivamente, avara dall'altro.
Inizia a venire usata la cuspide di lancia a foglia d'alloro che sarà usata in contemporanea con la
cuspide a foglia di salice ma che gradualmente la soppianterà, molto probabilmente grazie alle
migliori caratteristiche tecniche come il minor peso e il minor materiale a parità di resistenza;
l'assegnazione di cariche “statali” comporta la comparsa, rara, di “aste regie” collegabili alle cuspidi
traforate e ritorte, confermate peraltro da Paolo Diacono: “Mentre tutti e due gli schieramenti
combattevano con accanimento, un uomo dell'esercito del re, di nome Amalongo, che era solito
portare l'asta del re, percuotendo forte un greco con la stessa asta ad entrambe le mani, lo sollevo
in aria dalla sella su cui cavalcava sopra la propria testa” (Paolo Diacono, Hist.Lang..,V,10),
mentre fanno la loro comparsa le cuspidi “ad alette”.
Accanto alla lancia, che come abbiamo visto è l'arma fondamentale, troviamo lo scudo che inizia a
subire un graduale processo di evoluzione: l'umbone metallico cambia forma, divenendo più grande
e mutando la calotta conica in calotta emisferica, che sarà la forma definitiva adottata dai
Longobardi del VII e dell'VIII secolo; accanto agli esemplari più modesti, costituiti dall'umbone
assemblato al corpo dalle cinque borchie in ferro, compaiono quelli sempre più complessi: dalla
sostituzione delle borchie in ferro con borchie in bronzo dorato alla creazione di veri e propri “scudi
da parata”, composti dal corpo disseminato di borchie, e decorazioni in lamina preziosa, e
dall'umbone impreziosito con decorazioni dorate come motivi cruciformi e aquile disposte in
triquetra. Lo scudo da parata si sviluppa in ambiente italiano e conferma l'affermazione della classe
guerriera, che gradualmente non sarà più composta da tutti gli uomini liberi ma dagli uomini liberi
più abbienti.
La scramasax inizia ad essere usata con più frequenza: la forma si evolve e si allunga per divenire
un'arma a tutti gli effetti: associata ad una propria cintura (la cintura multipla), con tutte le
probabilità era impiegata nel combattimento a cavallo.
Non a caso, dal secondo quarto del VII secolo, inizia a diffondersi l'armamento da cavaliere che,
nelle tombe meno ricche, è costituito dalle parti metalliche dei finimenti, del morso e degli speroni e
nelle tombe più ricche comprende anche elementi della sella: queste erano in legno e cuoio e gli
esemplari più sontuosi avevano decorazioni in oro, come testimoniano gli esemplari rinvenuti a
Nocera Umbra e a Castel Trosino; con il contatto degli Avari, si trasmette pure la staffa che aprirà
un nuovo modo di cavalcare e di combattere, permettendo di rimanere più saldi sopra al cavallo.
161
L'affermazione del cavaliere conferma la creazione di un nuovo status che non era, comunque, un
solo fatto tecnico: le persone al vertice della società si presentavano come cavalieri di fronte alla
comunità nella quale vivevano, sia prendendo parte, a cavallo, con armamento completo alle
spedizioni militari a seguito del re o del loro duca, sia negli altri momenti pubblici fra i quali
centrale, per la sua forza, era quello del rituale connesso alla sepoltura. Così infatti si spiegano i
ricchi corredi da cavaliere e anche i più tardi testamenti dell' VIII secolo, profondamente influenzati
dalla cultura ecclesiastica, nei quali tornano le menzioni di cavalli e oggetti propri del corredo da
cavaliere (Moro, 2004).
La spatha inizia ad essere forgiata con la tecnica della damaschinatura, aumentando il prezzo e
diminuendo quindi il numero di guerrieri in grado di permettersela: associata alla cintura a cinque
pezzi, che è sempre più lavorata, raggiunge le forme massime di ricchezza con le spade aventi il
pomolo “ad anelli intrecciati”, peraltro rinvenute proprio assieme a corredi da cavaliere.
Alla fine del VII secolo inizia gradualmente a venire meno il combattimento per fare intese ancora
come gruppi legati da vincoli di sangue, anche per l'incorporamento nei ranghi dell'esercito di
individui non longobardi: per questo periodo ipotizziamo, però, una leggera confusione
organizzativa che spingerà infatti il re Astolfo a mettere ordine nell'esercito, con le “leggi militari”
del 750.
14.3- Il guerriero longobardo di VIII secolo
L'VIII secolo vede il declino del regno longobardo con la sconfitta ad opera di Carlo Magno e il
definitivo incorporamento della gens langobardorum nel regno franco.
In questo periodo, fine dell'evoluzione dell'armamento, si afferma il principio di reclutamento in
base alla condizione economica, già ipotizzabile all'epoca di Liutprando ma regolamentato
ufficialmente da Astolfo con le sue leggi del 750, e non più in base al principio del solo uomo libero
longobardo: più beni un uomo possedeva, più poteva (e anzi era obbligato per legge) ad armarsi.
Punto fermo restava l'esclusione dall'attività guerriera degli schiavi e dei semiliberi (e delle donne)
mentre, di contro, il reclutamento si estendeva anche ai romani o ai non longobardi presenti nel
regno: gli unici requisiti erano infatti la condizione economica e la libertà personale; da ciò si può
tranquillamente intuire che il combattimento per fare era ormai impossibile da mettere in pratica.
La fanteria, che nel 568 all'epoca della migrazione in Italia costituiva la maggior parte dell'esercito,
ora rappresentava una minima parte: armata per la maggiore con arco, frecce, scudo e, ipotizzabile
ma rara, lancia o coltellaccio (entrambi di riutilizzo dalla caccia), era formata da uomini minori
ovvero chi aveva scarsi possedimenti e, in generale, chi non poteva permettersi almeno un cavallo.
Accanto alla fanteria combattevano quelli che oggi potremmo definire appartenenti alla borghesia:
con corazza leggera (ed eventuale elmo in materiale organico), lancia, scudo ed eventuale
scramasax, cavalcavano su selle di materiale organico, munite di staffe di cuoio, e fornivano con
tutte le probabilità supporto come cavalleria leggera, d'esplorazione o di riserva.
Massima forza e importanza aveva la cavalleria pesante: composta da uomini liberi con un elevato
status sociale dovuto ai possedimenti o alla ricchezza derivata dal loro lavoro (come i mercanti),
erano tenuti ad avere un'armatura completa (raramente interamente in metallo, lamellare, ma più
spesso in materiale organico o misto), scudo e lancia. A queste si associava la spatha, che andava
dagli esemplari più sobri fino a quelli riccamente lavorati, e la scramasax lunga, adatta ai
162
combattimenti equestri. I corredi da cavaliere confermano l'uso di impreziosire briglie, selle,
speroni e di usare, anche se limitatamente, staffe di materiale metallico, come bronzo o ferro.
Cinture a cinque pezzi e cinture multiple, entrambe con gli elementi metallici riccamente
lavorati,connotavano la classe equestre aristocratica che, durante le cerimonie, adoperava lo scudo
da parata impreziosito da lavorazioni in lamina metallica anche se, come abbiamo visto in almeno
un caso, non si esclude l'utilizzo di tale arma difensiva durante azioni di guerra vera e propria.
Infine rara, ma attestata, risultava l'ascia che se era utilizzabile da boscaioli o carpentieri facenti
parte dei minores, nella variante della francisca, e quindi avente una lavorazione più complessa,
poteva essere usata anche dall'aristocrazia, come dimostra l'episodio citato del re Autari.
Raffigurazione ipotetica di cavaliere longobardo con armatura completa. VIII secolo.
Fonte: Moro, 2004
163
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ESTRATTO PER RIASSUNTO DELLA TESI DI LAUREA E
DICHIARAZIONE DI CONSULTABILITA' (*)
Il sottoscritto/a MATTIA PIZZEGHELLO
Matricola n. 813666
Facoltà LETTERE E FILOSOFIA
iscritto al corso di
laurea
laurea magistrale/specialistica in:
CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI
Titolo della tesi (**): IL GUERRIERO LONGOBARDO IN ITALIA. Analisi dei dati archeologici [.]
DICHIARA CHE LA SUA TESI E':
Consultabile da subito
Riproducibile totalmente
Venezia, 14 - 06 - 2010
Consultabile dopo
Non riproducibile
mesi
Non consultabile
Riproducibile parzialmente
Firma dello studente
(spazio per la battitura dell'estratto)
Analisi delle fonti scritte relative all'armamento longobardo: le cronache delle battaglie, le
leggi e gli editti, le tattiche e le strategie.
Analisi dei reperti archeologici relativi all'armamento offensivo proprio della panoplia
longobarda: lancia, spatha, scramasax, ascia, arco.
Analisi dei reperti archeologici relativi all'armamento difensivo proprio della panoplia
longobarda: scudo, elmo, corazza, altre protezioni.
Excursus sul metallo in archeologia: il riconoscimento delle fasi di lavorazione e dei
trattamenti effettuati, le analisi in laboratorio, le modalità di scavo, conservazione e restauro.
(**) il titolo deve essere quello definitivo uguale a quello che risulta stampato sulla copertina dell'elaborato
consegnato al Presidente della Commissione di Laurea (*) Da inserire come ultima pagina della tesi. L'estratto
non deve superare le mille battute
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