Spostare lo sguardo oltre la filosofia postmoderna e il
neoliberalismo1
di Guido Cusinato
Pubblicato su: PhLab il 4.10.2013
http://www.phenomenologylab.eu/index.php/2013/10/postmoderna‐
neoliberalismo‐cusinato/
1) Spostare lo sguardo verso la periferia
Nel panorama filosofico italiano, a partire dalla fine degli anni Settanta e fino a
poco tempo fa, il tema del rinnovamento (dell’individuo come della società) era stato
praticamente rimosso2. Uno dei motivi di fondo fu la credenza nella tesi, che in un mondo
“postmodernamente” disincantato3, non esistano punti di riferimento o criteri per poter
giudicare come «alienante» un determinato stile di vita e che pertanto l’idea stessa di una
trasformazione dell’individuo, come quella del rinnovamento della società, sia da
considerarsi menzognera, se non uno degli ultimi bagliori di quelle pericolose ideologie che
avevano attraversato i diversi totalitarismi del Novecento. Partendo da queste premesse in
Italia la crisi delle ideologie novecentesche si tradusse nella rinuncia, da parte della politica,
a un’azione propositiva di largo respiro e infine, tranne qualche eccezione individuale, nel
suo implodere, fino a divenire una mera tecnica di gestione di interessi corporativi
1 Anticipo qui due paragrafi di un mio ampio saggio che apparirà a Novembre nel primo numero della
nuova rivista on-line di filosofia «Thaumàzein».
2 Per una piena riabilitazione filosofica di questo termine cfr. R. DE MONTICELLI, Sull’idea di rinnovamento,
Milano 2013.
3
Cfr. J.-F. LYOTARD, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, Paris 1979. Uso però il termine
“postmoderno” fra virgolette in quanto, a mio avviso, la società che oggi si è affermata non rappresenta un
superamento del progetto della modernità, ma per più versi ne costituisce piuttosto una fase ulteriore: in
questo senso è più appropriato definire la nostra epoca come condizione ipermoderna o seconda modernità.
ammantata di tatticismo pragmatico. Come momento eversivo è invece riemerso, in varie
forme, un movimentismo antagonista, che ha visto nelle istituzioni, nelle leggi e nello stato
quasi esclusivamente un apparato repressivo, volto a ostacolare, illegittimamente, il diritto
dell’individuo a un godimento illimitato.
Queste posizioni – al di là dei toni e dei livori politici e ideologici – non hanno saputo
offrire, né da un punto di vista culturale né da un punto di vista politico, alcuna reale
alternativa alla deriva populistico-autoritaria rappresentata dal berlusconismo 4 . La
caratteristica rivoluzionaria del berlusconismo non è affatto la videocrazia, ma l’aspirazione
a una nuova forma di totalitarismo: la creazione del consenso non avviene più attraverso
un’ideologia ascetica e un apparato repressivo, bensì grazie alla promessa di un
ampliamento illimitato degli spazi di libertà e di godimento individuali. In tal modo il
controllo non viene più ottenuto attraverso una morale repressiva, bensì tramite un
progetto di disinibizione di massa. In questo caso la videocrazia non si limita a diffondere
un messaggio politico, bensì mira in primo luogo a esaltare un determinato stile di vita, a
suscitare un sogno o, meglio, un’infatuazione di massa. Finché in questa bolla virtuale
continua a rimanere plausibile l’idea che tutto vada bene e che non ci sia alcuna crisi – in
quanto «i ristoranti sono pieni di gente» – il consenso politico sgorga spontaneamente,
quasi non richiesto, come attaccamento emotivo a tale capacità demagogica di far sognare.
È qui che si verifica il corto circuito di una certa filosofia “postmoderna”: la tesi che
ogni valore etico e ogni forma di limitazione del godimento sia una fabulazione moralistica,
diventa essa stessa funzionale alla fabulazione narcotizzante del berlusconismo. Del resto,
se effettivamente non esistono fatti, ma solo interpretazioni, non finisce per imporsi il
punto di vista del più forte? E affermare che l’unico criterio di verità è l’anything goes, non
equivale a scambiare la verità per ciò che s’impone ogni sera nelle immancabili risse
televisive dei talk shows? Inizialmente la filosofia “postmoderna” svolse un’importante
funzione di rinnovamento, specie nella sua pars destruens. Da diverso tempo tale funzione
4 Sul fenomeno del berlusconismo concordo con molte delle tesi presenti nel saggio di M. PERNIOLA,
Berlusconi o il '68 realizzato, Milano-Udine 2011. Eventualmente il rischio è che il paragone con l’ormai lontano
Sessantotto – a cui per lo meno va riconosciuto il merito di aver contribuito a una liberazione della corporeità
al di fuori della morale repressiva e di aver messo in discussione la struttura autoritaria della famiglia
patriarcale – finisca con il mettere in secondo piano da un lato le numerose contiguità della filosofia
“postmoderna” italiana con il berlusconismo, e da un altro lato le ambiguità di quei settori dell’integralismo
cattolico che, in nome di una difesa ideologica dei valori non negoziabili, ha negoziato un’avvilente adesione
politica e culturale al berlusconismo.
propulsiva si è però decisamente esaurita5. Di fronte a questi risultati sarebbe opportuno
avere il coraggio di voltare pagina, iniziando a spostare lo sguardo verso nuove forme
emergenti di pensiero filosofico o verso la periferia, riconsiderando magari con più
attenzione filosofi e tematiche che fino a qualche anno fa venivano emarginate o guardate
con sospetto.
Il problema è quello di elaborare un modello capace di spiegare la dinamica
dell’orientamento nelle società liquide. Una delle convinzioni ancora oggi più radicate e
diffuse è rappresentata dalla “menzogna romantica” secondo cui lo spontaneismo del
sentire sarebbe sufficiente a guidare la vita umana, e ogni forma di orientamento si
risolverebbe in una sua corruzione e istituzionalizzazione, cioè in un atto repressivo. Ciò
che è stato spesso escluso – o non è stato neppure preso in considerazione – è che il sentire
sia invece come un seme che ha bisogno di germinare e crescere, e che solo giunto a
maturazione sia in grado d’inaugurare una propria forma d’orientatività. Che quindi
l’orientamento abbia bisogno di una maturità affettiva e che questa sia a sua volta il
risultato graduale dell’aver cura di sé.
Nel 1980 Guattari e Deleuze – in alternativa al modello razionale ad albero basato su
di un sistema centrico, una comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti – hanno
proposto un modello a rizoma, cioè un sistema a-centrico e non significante, in cui non
esiste un vertice e ogni punto è liberamente connesso a qualsiasi altro6. Sei anni prima,
nell’Économie libidinale 7 , Lyotard aveva contestato ogni forma di orientamento che si
traducesse in un contenimento pulsionale. Lo stesso Lyotard andò poi oltre le tesi
contenute in questo testo, ma esse sintetizzano in modo molto efficace un importante
retroterra culturale della filosofia “postmoderna”: ogni forma di limitazione del godimento
va rifiutata in nome dell’accettazione della realtà capitalistica per quello che è. Pertanto va
eliminata anche «l’idea di rivoluzione che è diventata, e che forse è sempre stata, una
5
Va osservato che anche i tre filosofi che sono stati maggiormente associati alla filosofia “postmoderna”
– ossia Lyotard, Foucault e Derrida – dall’inizio degli anni ottanta, a vario titolo, hanno preso criticamente le
distanze dalla piega che stava assumendo questo movimento. Su questo punto cfr. M. FERRARIS, Perseverare è
diabolico, in: «alfabeta2», 2011, ora consultabile in: http://www.alfabeta2.it/2011/11/10/perseverare-e-diabolico/. Lo
stesso Lyotard cerca una nuova fonte di orientamento nel sentimento estetico, confrontandosi con l’analitica
del sublime della terza Critica kantiana, cfr. LYOTARD, Leçons sur l’Analitique du sublime, Paris 1991.
6 G.
7
DELEUZE, F. GUATTARI, Mille Plateaux, Paris 1980.
LYOTARD, Économie libidinale, Paris 1974, tr. it. Milano 2012.
piccola idea da nulla» 8. La vera rivoluzione consisterebbe nello «smettere di vedere il
mondo alienato e persone da salvare o da aiutare o da servire»9. Di conseguenza la teoria
dell’alienazione di Marx va contestata come l’ennesima affabulazione sull’esistenza di una
realtà migliore di quella che c’è e sulla relativa pratica per trasformare il mondo. Non
essendoci alienazione, va rimosso non solo il concetto di rinnovamento, ma anche ogni
forma di correzione, di cura o di terapia del godimento. Non è un caso allora che Lyotard
fondi il pensiero dell’«economia libidinale» proprio sull’orrore verso la «terapeutica»:
Ed ecco la domanda: perché voi, intellettuali politici, vi chinate sul proletariato? [...] Capisco che vi si
odi, se si è proletari, non perché siete borghesi, privilegiati dalle mani fini, ma perché non osate dire la sola
cosa importante da dire, che si può godere ingollando l’inculata del capitale, i prodotti del capitale, le barre di
metallo, i polistireni, i libri, i panini imbottiti, ingollandone tonnellate fino a crepare – e invece di dire questo
[...]
vi chinate e dite: ah, ma questa è alienazione, non sta bene; aspettate, sta per arrivare la vostra
liberazione, stiamo lavorando per liberarvi da questo perfido attaccamento alla servitù, vi restituiremo la
dignità. [...] Certo che soffriamo, noi, i capitalizzati, ma questo non vuol dire che non godiamo, né che quello
che vorreste offrirci come rimedio [...] non ci disgusti ancora di più, abbiamo orrore della terapeutica10
Quando Lyotard scopre le potenzialità dell’«economia libidinale», e critica le politiche
di tesaurizzazione e di restrizione del credito che inibiscono la libidine alla base della
speculazione finanziaria11, vista come «un modo con cui la potenza può intensificarsi»,12 si
contrappone certo al capitalismo ascetico della prima modernità, quello descritto da Max
Weber, non però al capitalismo compulsivo della seconda modernità, quello ben
rappresentato dal broker Gordon Gekko nel film Wall Street (1987)13.
È possibile rovesciare lo schema proposto da Lyotard e immaginare una forma
d’orientamento che non coincida con la repressione? E, in tal caso, è possibile individuare
la fonte di questo orientamento non autoritario in direzione degli antichi temi della cura sui,
ripresi e riattualizzati in particolare da Pierre Hadot e Michel Foucault? È chiaro che anche
8 Ivi,
9
p. 134.
Ivi, p. 135.
10 Ivi,
11
p. 130.
Ivi, p. 247.
12 Ivi,
p. 255.
13 Mi ero già soffermato sul passaggio da un capitalismo ascetico a un capitalismo disinibente in:
CUSINATO, La Totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, Milano 2008, pp. 157-158.
la cura sui può ridiventare funzionale alla repressione. Per questo la questione da porre è la
seguente: a quali condizioni le pratiche dell’aver cura diventano un processo di formazione
e di liberazione del desiderio, quindi un «esercizio del desiderio», e non piuttosto un’ennesima
variante del tentativo pedagogico e repressivo di normalizzare e raddrizzare
ortopedicamente il godimento?
2) Il concetto di libertà
All’inizio degli anni Ottanta nelle «società dell’iperconsumo»14 si sono simultaneamente
affermati il neoliberalismo sul piano politico ed economico (Margaret Thatcher e Ronald
Reagan) e un diffuso relativismo nichilista sul piano filosofico. Altrettanto contemporaneo
è stato il loro declino, che può essere fatto coincidere con la crisi economico-finanziaria
iniziata nel 200815. Si tratta di una coincidenza cronologica o fra il laissez faire filosofico e la
deregulation economica sussiste un qualche rapporto di funzionalità? A mio avviso alla base
di entrambe è individuabile una comune radice, rappresentata da un preciso concetto di
libertà: pur essendo formalmente in contrasto fra loro, ambedue intendono la libertà come il
diritto a estendere illimitatamente le proprie potenzialità e considerano ogni limite o valore
– che non sia il rispetto puramente formale della libertà altrui – come un inutile impaccio o
un residuo moralistico, tanto da fare della deregulation in campo economico ed etico il
proprio credo. È questo il concetto di libertà su cui si è basato lo sviluppo economico e
culturale nelle società dell’iperconsumo.
Eppure questo modello di libertà si sta rivelando sempre più incapace d’orientare
l’umanità di fronte alle nuove sfide in campo economico, sociale, etico e politico. Michel
Serres aveva ipotizzato che l’inquinamento ambientale sia, in ultima analisi, il prodotto di
un più originario inquinamento mentale: alla base dell’attuale sistema di produzione vi
sarebbe un pensiero intossicato, un «inquinamento noologico», che ha disseminato una
concezione distorta della natura e dello sviluppo. Per riconquistare un equilibrio con la
natura, Serres propone un contract naturel in cui l’uomo dovrebbe imparare, attraverso la
14
Sul concetto di «società dell’iperconsumo», cfr. G. LIPOVETSKY, Le bonheur paradoxal, Paris 2006.
15 Relativamente al significato epocale della crisi finanziaria del 2008, come crisi del «capitalismo tecnonichilista», cfr. M. MAGATTI, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Milano 2012. Del
lavoro di Magatti condivido in particolare l’analisi che affronta il rapporto fra capitalismo e desiderio.
virtù del ritegno, a contenere entro giusti limiti l’espansione della propria potenza, e a
spostare l’obiettivo dell’esistenza dalla logica del possesso a quella della creatività16.
Alla base dell’inquinamento noologico c’è dunque un concetto di libertà inteso
come espansione autoreferenziale del proprio sé. Per ipotizzare un modello di sviluppo
alternativo è importante immaginare un secondo livello della libertà che sappia confrontarsi
con il limite, con il rispetto della natura, con la presenza dell’altro e, in definitiva, con la
realtà. La prima forma di libertà rappresenta solo la libertà dal bisogno. L’aspetto più tragico è
che l’individuo che l’assolutizza, e che quindi si crede autonomo nell’esercizio della scelta
incondizionata, in realtà è eteronomo, in quanto il confine del proprio sé, ch’egli si sforza,
con tenacia eroica, di espandere, gli è già stato impresso dall’allevamento mediatico di
massa. Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per quelle tesi che, riecheggiando
Rousseau, cadono in un’apologetica dell’immediatezza del sentire, cioè di un sentire che,
colto nel suo spontaneismo, esprimerebbe una purezza incontaminata, senza rendersi
conto che invece proprio esso riflette nel modo più conformistico il flusso del sentire
comune. È solo in uno sforzo di trascendere tale immediatezza che il sentire può esprimere
un orientamento eversivo.
Che non sia bastato seguire l’imperativo del godimento illimitato per liberare
l’individuo è del resto il risultato empirico che emerge dalle analisi del sociologo
Christopher Lasch sulla società nordamericana degli anni Settanta e Ottanta: la mancanza
di un quadro d’orientamento e di riferimento valoriale, lungi dal favorire la creatività
umana, rischia d’implodere in una cultura narcisista autoreferenziale e di generare un «io
minimo»17.
Ma come pensare un secondo livello della libertà? Finora si è tentato di definire la
singolarità a partire dalla continuità di stati o eventi psicologici o somatici, oppure dal
processo autoreferenziale della riproduzione del proprio sé. In questa prospettiva la libertà
si limita a riflettere una scelta o una decisione di ciò che si è già. Diverso è il caso di una
singolarità che venga concepita come il risultato di un percorso espressivo di rottura e di
deviazione ontologica. Qui la libertà viene a coincidere con l’inaugurazione di un nuovo
inizio: la presa di distanza critica dal proprio sé diventa un esercizio quotidiano di
16
M. SERRES, Le Contrat naturel, Paris 1990.
17 Cfr. C. LASCH, The Culture of Narcissism. American Life in an Age of Diminishing Expectations, New York
1979; ID., The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, New York 1984. Su questi temi cfr. anche A.
EHRENBERG, La Fatigue d’être soi. Dépression et société, Paris 1998.
trasformazione per imparare a vedersi in una prospettiva nuova, fino ad arrivare a viversi
come una vera e propria sorpresa. Questa sorpresa deriva dal fatto di scoprire che non
siamo un insieme di affanni, impegni, banalità, che si sono depositati come incrostazioni
sul sé, fino a renderlo irriconoscibile, ma qualcosa di cui valga la pena prendersi cura. Si
tratta di un atto catartico, che sfocia nella scossa della meraviglia perché allontana da un
materiale inerte e fa entrare in contatto con una dimensione della singolarità che è
combustibile pronto a infiammarsi. Senza un atto di autotrascendimento l’essere umano
passerebbe invece la propria esistenza a prendersi cura del superfluo. In tal senso
l’autotrascendimento assume la forma di un ridestamento, che corrisponde a un diverso
modo di orientare e posizionare il proprio essere nel mondo, imparando a «girare lo sguardo»
verso ciò che sta più a cuore.