S
PAS AGGI
COSTITUZIONALI
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S
PAS AGGI
COSTITUZIONALI
rivista semestrale
Anno I - Numero 01- Giugno 2021
ISSN 2732-8236
revisione: Francesca Minutoli
grafica - impaginazione: Enzo Terzi
© ETPbooks 2021
I contenuti di questa rivista sono in Open Access.
Notizie della rivista possono trovarsi sul sito: www.passaggicostituzionali.it
oppure su: https://passaggicostituzionali.blogspot.com
Questa rivista è stata stampata con il contributo del Dipartimento di
Scienze Economiche e Statistiche dell'Università degli Studi di Salerno
Passaggi Costituzionali
aPPunti a marginE dEl KElsEn "ParlamEntarista", tEoriCo di una ConCEzionE rEalistiCa dElla dEmoCrazia
Chi scrive nutre dubbi che un’apodittica sentenza del genere sia davvero
fondata: non è detto che le democrazie riescano sempre e a lungo vincenti e la
stessa sorte di Weimar lo dimostra, né che del resto troppe fra esse siano oggi
davvero in buona salute, come nemmeno può peraltro asserirsi che l’opporsi
frontalmente allo sviluppo della Storia - in luogo di cercare di guidarla senza
subirne le scosse, con un atteggiamento di intelligente duttilità, anche a porsi in
un’ottica conservatrice - sia segno di saggia consapevolezza dell’inevitabile fallimento di ogni impresa emancipatoria collettiva, per cui tanto vale restare fermi.
Certo spesso mi è accaduto di esortare gli studenti che incontravo a leggere e
a meditare i grandi reazionari, perché riflettere sul loro lucido disincanto è il
modo migliore di continuare ad essere democratici, pur senza coltivare troppe
illusioni, ossia imparando che tra rivoluzione e reazione esiste - pur se stretta - la
terza via di coltivare ideali e di provare a tradurli in atto, misurando di volta in
volta realisticamente la differenza tra quanto è possibile ottenere e quanto invece
sia utopico.
Appunti a margine del Kelsen
“parlamentarista”, teorico di una concezione
realistica della democrazia*
di A G
S: 1. - Il Kelsen “parlamentarista” e la concezione «procedurale»
(non già «formalistica») della democrazia. 2. - Il relativismo filosofico-politico,
le (sottaciute) influenze dei «maestri del sospetto» e il significato del «compromesso» democratico-parlamentare. 3. - Alcuni “lasciti” del pensiero democratico
kelseniano in vista delle (possibili) riforme.
1. Senza dubbio il Professore della Scuola di Vienna è stato un attento studioso delle dinamiche parlamentari. Notoriamente, però, ha mostrato di essere
moltissime altre cose. Solo per ricordarne alcune, in ordine sparso: uno dei massimi filosofi del diritto e della politica del Novecento; geniale studioso del diritto
pubblico costituzionale e internazionale; sapiente letterato e, finanche, come in
parte emergerà più oltre, sensibile cultore di antropologia, psicoanalisi, sociologia e storia del pensiero politico-giuridico-economico moderno1.
Perché allora, sin dal titolo, lo si è denominato “parlamentarista”? Il motivo
è presto detto. Si è cercato così di sopperire alla mancanza, nella lingua italiana,
di un termine idoneo ad indicare specificamente colui che è «esperto di democrazia»: un “democratista”, si potrebbe dire, se solo il vocabolario lo consentisse
senza ingenerare equivoci con la parola «democratismo» (dal francese démocratisme), espressione quest’ultima che, dalla Rivoluzione francese in poi, è stata
prevalentemente utilizzata in modo spregiativo per indicare le forme estreme
assunte dal radicalismo democratico giacobino2.
*Articolo sottoposto a referaggio.
1
Tale eclettismo emerge molto bene dalla bibliografia degli scritti di Hans Kelsen redatta
nel 2003. Essa, infatti, conta quasi quattrocento titoli dedicati alla filosofia del diritto, al diritto
costituzionale, al diritto internazionale, alla sociologia, alla filosofia, etc. Si veda, in particolare,
R. W - C. J - K. Z (a cura di), Hans Kelsen stete Aktualität, Wien, 2003, pp.
118-229.
2
Un importante esempio dell’utilizzo spregiativo del termine «democratismo» (o «democraticismo») è possibile trarlo, ad esempio, da B. C, Storia d’Europa nel secolo decimonono,
Milano, 1991, p. 32, il quale scriveva: «[…] il liberalismo aveva compiuto il suo distacco dal democraticismo, che, nella sua forma estrema di giacobinismo, perseguendo a furia e ciecamente le
sue astrazioni, non solo aveva distrutto vivi e fisiologici tessuti del corpo sociale, ma, scambiando il
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E così, poiché il termine “democratista” potrebbe risultare equivoco e, in
ogni caso, per Kelsen il «parlamentarismo» resta «l’unica forma reale possibile
di democrazia»3, ecco spiegate le ragioni per cui si è ritenuto di “definirlo” in
questo modo4.
Ciò premesso, provare a (ri)leggere il Kelsen “parlamentarista” a cent’anni dal
suo primo – strutturato – lavoro dedicato al tema della «democrazia» non è affatto
semplice5. Non solo perché, come in prima battura può venir facile pensare, il
rischio è quello di non aggiungere nulla di nuovo a quanto è stato già ampiamente
scritto o detto da altri ben più autorevoli studiosi6. Tale pericolo naturalmente
esiste, e resta elevato vista l’importanza e la notorietà acquisita dal Kelsen «costituzionalista» nel panorama internazionale7: parafrasando l’incipit di un suo saggio
giovanile, scrivere su Kelsen «sarebbe come portare acqua al mare!»8. Ulteriori difficoltà potrebbero poi scaturire dalla circostanza che la dottrina democratica kelseniana appare essere «una concezione che riflette le strutture dello stato legislativo,
ma non anche quelle dello stato costituzionale di diritto»9. Dunque, in ipotesi, legata alle condizioni politiche vigenti nello «Stato legislativo otto-novecentesco»10.
Tuttavia non sono precipuamente queste le ragioni che qui si ritengono essere “resistenti”, nel senso che appaiono costituire l’ostacolo maggiore ad una
– per così dire – agile rilettura di quello che è stato il «massimo teorico della
democrazia rappresentativa», le cui tesi «sulla rappresentanza politica sono oggi
più che mai attuali»11.
Il motivo che più di tutti rende arduo occuparsi del Kelsen apologeta del parlamentarismo risponde, probabilmente, a logiche esattamente inverse, giacché,
in realtà, «il Kelsen democratico» è rimasto – e tutt’oggi in parte rimane ancora
– lungamente «oscurato» dal «Kelsen teorico del diritto»12. Invero, per ragioni
sia storiche che culturali, la giuspubblicistica si è mostrata molto più interessata
alle implicazioni derivanti dall’applicazione della «dottrina pura» (Reine Rechtslehre) all’interno dello Stato, piuttosto che agli studi di indole democratico-costituzionale.13 Questi ultimi, infatti, a differenza delle categorie schmittiane cui
in quegli anni fu riservato un grande interesse14, sono rimasti lungamente e
popolo con una parte e con una manifestazione, la meno civile, del popolo, con la inorganica folla
schiamazzante e impulsiva, ed esercitando la tirannia in nome del Popolo, era trascorso nell’opposto del suo assunto, e, in luogo della eguaglianza e della libertà, aveva aperto la via all’eguale
servitù e alla dittatura».
3
H. K, Vom Wesen und Wert der Demokratie, J.C.B Mohr, Tübingen, 1929, trad. it.
Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, Bologna, 1981, p. 67.
4
Solo per citare uno dei più recenti contributi che sembra implicitamente sostenere tale
scelta, si veda M. B, Introduzione, in H. K, La democrazia, Bologna, 2017, p. 23,
il quale ritiene che il pensiero democratico kelseniano si caratterizzi per l’esistenza di un legame
«indissolubile» fra «parlamentarismo e democrazia».
5
La prima edizione di «Essenza e valore della democrazia» è, infatti, del 1920. Si veda, H. K, Vom Wesen und Wert der Demokratie, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», Bd.
47, Heft1, 1920, pp. 50-85. Tale edizione è consultabile in lingua italiana in H. K, Essenza
e valore della democrazia, a cura di A. C, Torino, 2004, pp. 3-56. Nove anni più tardi, lo
studioso praghese pubblicherà una seconda edizione più estesa di tale opera, avente il medesimo
titolo. Nel presente contributo, si farà riferimento a quest’ultima versione, già citata in nota 3.
Per completezza, occorre precisare che la vocazione di Kelsen per gli scritti di carattere politico
emerge sin da subito, a partire dal suo libro giovanile Die Staatslehre des Dante Alighieri (1905),
trad. it. Lo Stato in Dante. Una teologia politica per l’Impero, Milano-Udine, 2017, pp. 33 ss., in
cui mostra interesse per le condizioni politiche del XIII secolo. Di indole politica è anche l’altro
suo scritto giovanile, intitolato Concezione politica del mondo ed educazione (1912), rinvenibile in
H. K, Dio e Stato. La giurisprudenza come scienza dello spirito, a cura di A. C, Napoli,
1988, pp. 45-71. Ma, come si evince da G. P, Il pensiero politico di Kelsen, Roma-Bari, pp. 4
ss., è il Kelsen degli anni Venti, che inizia a scrivere sulla democrazia (oltre al già citato Vom Wesen
und Wert der Demokratie, si pensi, anche, a Das Problem des Parlamentarismus, W. Braumüller,
Wien-Leipzig, 1925, trad. it. Il problema del parlamentarismo, in H. K, La democrazia, cit.,
pp. 145-180) e sul socialismo (Sozialismus und Staat, 2 Aufl., Leipzig, 1923, trad. it. Socialismo
e Stato. Una ricerca nella teoria politica del marxismo, Bari, 1978), ad apparire più solidamente
«teorico politico».
6
In Italia, il Kelsen teorico della democrazia è stato oggetto di riflessione soprattutto da parte
di Bobbio e Matteucci. Del filosofo torinese si veda, in particolare, N. B, Stato, governo,
società: per una teoria generale della politica, Torino, 1985; I., Teoria generale della politica, Torino,
1999; I., Liberalismo e democrazia, Milano, 2006. Del secondo, cfr. N. M, Democrazia
e cultura in Hans Kelsen, in H. K, I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna, 1966,
pp. 437 ss. (il saggio è però apparso, per la prima volta, come Introduzione a H. K, Democrazia e cultura, Bologna, 1955, volume che diffonde in Italia la versione del 1929 di Vom Wesen
und Wert der Demokratie).
7
È appena il caso di rammentare che, «per quasi tutti gli anni Venti» del secolo scorso, «Kelsen
– allora membro della Corte costituzionale e principale consigliere giuridico del governo socialdemocratico austriaco – parlerà di democrazia soprattutto come costituzionalista». A ricordarlo è,
ancora, M. B, Introduzione, cit., p. 23.
8
Il riferimento è alla Premessa di H. K, Lo Stato in Dante, cit., p. 31, in cui esordisce
scrivendo: «Scrivere su Dante sarebbe come portare acqua al mare!».
9
L. F, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Roma-Bari, 2021, p. 232.
10
M. B, Stato costituzionale. Sul nuovo costituzionalismo, Modena, 2012, p. 41.
11
Per dirla, ancora, con le parole di L. F, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera
di Hans Kelsen, Roma-Bari, 2016, p. 211.
12
In tal senso A. P, Democrazia senza diritti. In margine al Kelsen democratico, in Sociologia del diritto, 1999, n. 2, p. 31.
13
In tal senso, N. M, Democrazia e cultura in Hans Kelsen, cit., p. 437.
14
Come noto, la «Dittatura», opera uscita in Germania nella prima metà del 1921, è stato il
primo di una serie di studi schmittiani di notevole importanza sul grande tema della «salvezza» della
res publica dalle «eccezioni» che possono destabilizzare la «normalità» del funzionamento degli Stati
costituzionali. Dopo tale studio, infatti, seguono: la «Teologia politica» (1922), «Il Concetto del
Politico» (1927), la «Dottrina della Costituzione» (1928) e, soprattutto, l’appassionata analisi di Carl
Schmitt sulla democrazia weimariana contenuta nel «Custode della costituzione» (1931). Sull’importanza e sull’attualità dei contributi offerti dal grande “antagonista” dello studioso praghese, si veda
il prezioso contributo di Salvatore Prisco, anch’esso ospitato in questo primo numero della Rivista.
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sostanzialmente ignorati dai costituzionalisti italiani. Circostanza, questa, che
pare aver inciso sulla formazione di molti studiosi del nostro Paese, a partire
dagli anni Trenta del secolo scorso15.
Con la conseguenza – ecco emergere la maggiore difficoltà – di doversi qui
succintamente occupare del “parlamentarista” che forse meglio di ogni altro ha
sottolineato l’opportunità di mantenere distinte la dimensione «ideale» da quella «reale» delle forme di governo, in un contesto generale ancora oggi ricco di
più o meno diffusi fraintendimenti ideologici sulla natura delle sue stesse dottrine16. Su tutti, quelli derivanti da mere concezioni «formaliste» del suo pensiero
democratico, in realtà semmai attribuibili (e solo in parte) all’“altro” Kelsen,
ossia al teorico della prima versione della Reine Rechtslehre17.
Contrariamente a quel che spesso si ritiene, non è affatto corretto considerare il Kelsen teorico della democrazia un mero «formalista»18. Al più, come egli
stesso lascia intendere, si tratta di un «formale» sostenitore delle «procedure»
parlamentari che consentono alla «finzione» della «rappresentanza politica» di
realizzare la formazione «dell’ordinamento statale»19.
“Formale” e “formalista” sono termini che rievocano concetti che debbono
restare distinti: mentre il primo ha una carica razionale, il secondo altro non
appare che un pre-giudizio di natura politica. Ed infatti, «come metodo o procedura, la democrazia è soprattutto una forma, di Stato o di governo», in cui «si
deve tener presente che l’antagonismo tra forma e contenuto è soltanto relativo
e che una stessa cosa può sembrare forma da un punto di vista e contenuto o
sostanza da un altro». Cosicché, è sempre Kelsen a parlare, l’«argomento del
‘formalismo’, spesso usato per screditare una certa corrente di pensiero e specialmente uno schema politico, è soprattutto un espediente per nascondere un
interesse antagonistico che è la vera ragione dell’opposizione». Appare allora necessario prestare attenzione a non confondere le due espressioni, in quanto «non
vi è […] mezzo più adatto ad impedire il moto verso la democrazia, a preparare
la via all’autocrazia, a dissuadere il popolo dal desiderio di partecipare al governo, che quello di screditare la definizione della democrazia come procedura
usando l’argomento che essa è ‘formalistica’ e di far credere al popolo che il suo
desiderio è esaudito se il governo agisce nel suo interesse e che esso ha raggiunto
la desiderata democrazia se ha un governo per il popolo»20.
Per utilizzare le parole di Bobbio, quella dello studioso praghese è precisamente «una concezione procedurale della democrazia», ossia «essenzialmente un
15
Come scrive G. G, Introduzione, in H. K, La democrazia, cit., pp. 12-13, sin
dagli anni Trenta del secolo scorso «ciò di cui la cultura italiana si appropriò non furono i temi di
filosofia politica, ma la Reine Rechtslehre e, se mai, la polemica con il giusnaturalismo (ma anche
questa in relazione con la battaglia per il positivismo giuridico di cui la Reine Rechtslehre si atteggiava a campione). L’uditorio dei più fu sordo o forse assordato dagli strepiti del regime mentre la
voce trovava più facile, o meno difficile, parlare dei concetti puri e formali della teoria del diritto,
anziché di quelli, sicuramente più imbarazzanti, di diritto e democrazia, democrazia e capitalismo,
democrazia e socialismo. L’ingiustizia nei confronti di Kelsen fu quindi doppia: da un lato per il
Kelsen della Reine Rechtslehre che fu letto come il santo protettore di qualsiasi sistema politico, e
dall’altro per il Kelsen teorico della democrazia, che fu sostanzialmente ignorato».
16
Già V. F, Prefazione all’edizione originale Kelsen e Dante, in H. K, Lo Stato in
Dante, cit., p. 24, in occasione di un convegno palermitano del 1965 rammentava, ad esempio,
che «nelle discussioni sulla dottrina kelseniana, non è mancato chi ha rilevato che la Grundnorm,
da cui dipenderebbe la validità di tutto il sistema giuridico, è, dopo tutto, una norma di diritto
naturale». Del resto, di tali possibili fraintendimenti, sembra essere consapevole lo stesso Kelsen
quando scrive che nel «cercare di scoprire i rapporti che intercorrono tra forme di governo e
concezioni del mondo non bisogna anzitutto dimenticare che, nella sua essenza profonda, l’uomo
non è razionale e pertanto non è logico, e che il volere umano ha la possibilità d’imprimere anche
al giudizio una direzione contraria non solo all’originaria inclinazione ma anche ai postulati della
coerenza». Così, mirabilmente, H. K, Forme di governo e concezioni del mondo, in I., Il
primato del parlamento, a cura di C. G, Milano, 1982, p. 42 (l’opera originale è intitolata
Staatsform und Weltanschauung, Tübingen, 1933).
17
Non per nulla è lo stesso Kelsen a sostenere che è «un errore qualificare la Dottrina pura del
diritto come una prosecuzione della dottrina liberale-individualistica dello Stato di diritto, come
democraticismo politico e pacifismo». Cfr. H. K, Formalismo giuridico e Dottrina pura del
diritto, in H. K - R. T, Formalismo giuridico e realtà sociale, a cura di S.L. P,
Napoli, 1992, 44 (il titolo originale è Juristischer Formalismus under reine Rechtslehre, in Juristische
Wochenschrift, 1929, 1723-1726). Del resto, come di recente rammenta G. L, Postfazione,
in S.L. P, Il problema della giustificazione nella filosofia del diritto di Hans Kelsen, Torino,
2014, p. 95, il Kelsen teorico del diritto ha come «progetto […] quello di depurare la scienza
giuridica da qualunque fattore ad essa estraneo». Ad ogni buon conto, ritiene che «l’attualità
dell’opera di Kelsen non vada cercata né nei suoi aspetti teorico-giuridici né in quelli teorico-politici, ma forse proprio nell’integrazione di entrambi», M. B, Introduzione, in H. K,
La democrazia, cit., p. 8, e pp. 30 ss.
18
In tale equivoco è facile cadere forse anche perché i commentatori, ancora oggi, tendono
ad utilizzare indistintamente le espressioni «formale» e «procedurale». È il caso, ad esempio, di
L. F, La costruzione della democrazia, cit., p. 232, che, riferendosi a Kelsen (ma, anche,
alle tesi di Popper, Schumpeter, Ross e Hayek) scrive: «Questa nozione di democrazia viene giustamente chiamata formale o procedurale dato che si identifica sulla base soltanto del “chi” e del
“come” delle decisioni, cioè delle forme […] idonee a garantire che esse siano espressione della
volontà popolare, quali che siano i loro contenuti». È chiaro che non si è in errore a ritenere
quanto appena riportato. Epperò, l’accostamento del termine «formale» accanto a quello di «procedurale», può indurre spesso a ritenere equivalenti – in questo caso erroneamente – le espressioni
«formale» e «formalista».
19
Come puntualizzato in H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 153, «la natura
del parlamentarismo […] può definirsi anche senza il bisogno di ricorrere alla finzione della rappresentanza, e se ne può giustificare il valore anche solo come specifico mezzo tecnico sociale per
la creazione dell’ordinamento statale».
20
Le citazioni sono tratte da H. K, Foundations of Democracy, in Ethics, LXVI (195556), n. 1, parte II, trad. it. I fondamenti della democrazia, in I., La democrazia, cit., pp. 190-191.
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metodo per la selezione dei capi, il cui istituto fondamentale è l’elezione»21. Con
la doverosa puntualizzazione, però, in un certo senso imposta dalla “grammatica
freudiana” dello stesso Kelsen, che nel «complesso, la democrazia non è un terreno adatto all’ideale del capo, non essendo adatto al principio di autorità; e se
il padre, in quanto esperienza primigenia di ogni autorità, rappresenta l’ideale,
la democrazia – secondo il suo concetto – è una società senza padre. Essa vuol
essere una società di equiordinati, possibilmente senza capi. Il suo principio è
il coordinamento, e la fratellanza matriarcale la sua forma primitiva. Sicché, il
trinomio della rivoluzione francese – libertà, uguaglianza, fraternità – assume in
democrazia un significato più profondo che mai»22.
A tale premessa di natura “psicoanalitica” va poi aggiunta un’ulteriore «osservazione antropologica», da ultimo condivisa da un attento conoscitore del
pensiero kelseniano. La democrazia non può tollerare «capi» anche perché, s’è
detto, per Kelsen «la richiesta di democrazia non parte […] da una volontà di
potere, ma dal rifiuto della dominazione […]. La teoria della democrazia è tradizionalmente e in sua natura anarchica»23.
2. Da quanto si è venuti dicendo emerge, in modo evidente, che «la democrazia procedurale» non implica la costruzione di un asfittico e rigido sistema
di organizzazione politica. Poiché «la realtà sociale si oppone a […] il capriccio
dell’aritmetica»24, la determinazione del pubblico interesse non richiede per Kelsen l’ossequioso rispetto di regole e procedure rispondenti alle stringenti logiche
di un presupposto sistema geometrico euclideo25. Quella di Euclide essendo,
peraltro, solo «una delle possibili geometrie» tra le altre26.
N. B, Democrazia, in P. P (a cura di), Elementi di politica. Antologia, Torino,
2014, pp. 108-109.
22
H. K, Forme di governo e concezioni del mondo, in I., Il primato del parlamento, cit.,
p. 51.
23
O. P, Natura e valore della democrazia cento anni dopo. Dalla procedura del compromesso alla trasformazione giurisdizionale, in Dir. pubb., 2020, n. 3, p. 891.
24
H. K, Demokratie, in Schriften der Deutschen Gesellschaft für Soziologie, I. Serie, V. Band,
Verhandlungen des Fünften Deutschen Soziologentages vom 26. bis 29. September 1926 in Wien, Tübingen, 1927, pp. 37-68, trad. it. La democrazia, in I., Il primato del parlamento, cit., p. 29.
25
Come è stato giustamente rilevato, «Kelsen resta anzitutto un giurista: ma un giurista che
proviene dalle regioni di confine del giuridico, da discipline, come il diritto costituzionale e il
diritto internazionale, esposte più di ogni altra alle tentazioni del politico». La stessa «Dottrina
pura (Reine Rechtslehre)», come noto, presenta «forti connotazioni politiche». Così M. B,
Introduzione, in H. K, La democrazia, cit., pp. 8-9.
26
Come scrive in un recente saggio C. V, La matematica è politica, Torino, 2020, p. 22,
la quale inoltre rammenta che la stessa «matematica contemporanea non è specificata e definita
21
260
Qui, ad essere presupposta e, dunque, a valere come “grundnorm” che conferisce “validità” alle teorie democratiche kelseniane, v’è una premessa che appare non già formalista ma razionale: quella del «relativismo» filosofico-politico,
«concezione del mondo che l’idea democratica suppone». Si tratta, in particolare, di «quella direzione della filosofia e della scienza che parte dal positivismo,
cioè dal dato, dal percettibile, dalla esperienza, che può sempre cambiare e che
cambia incessantemente e che rifiuta quindi l’idea di un assoluto trascendente
a questa esperienza». In democrazia, sostiene Kelsen, non può esistere alcun valore o verità assoluta, perché alla «conoscenza umana» sono «accessibili soltanto
verità relative, valori relativi». Di talché in un sistema democratico «ogni verità
e ogni valore – così come l’individuo che li trova – debb[o]no essere pronti, ad
ogni istante, a ritirarsi per far posto ad altri valori e ad altre verità»27.
Da ciò discende un importante assunto: le «procedure» democratiche debbono essere ancillari e strumentali soprattutto alla realizzazione del più ampio
pluralismo politico-sociale, qualunque natura esso abbia. Invero, argomenta
Kelsen, la democrazia «è quella forma di Stato che meno si difende dai suoi
nemici. Sembra essere suo destino tragico quello di doversi tenere in seno anche il suo nemico più feroce». Se essa «resta fedele a se stessa, deve sopportare
anche un movimento volto alla distruzione della democrazia, deve garantire a
questo movimento, come ad ogni altra convinzione politica, le stesse possibilità
di sviluppo»28.
Per tali ragioni, con lucido disincanto, egli prova a guardare oltre «la nube
delle apparenze ideologiche»29. Non occorre, cioè, ingenerare o rafforzare mitologiche illusioni che da sempre albergano il mare magnum dell’ideologia democratica: «nell’abisso si può portar con sé solo la speranza che l’ideale della
libertà sia indistruttibile e che quanto più sprofonda con tanta maggior passione
tornerà a vivere»30.
dai numeri o dagli enti geometrici ma dalla relazione tra essi» e, soprattutto, «dalle relazioni con
noi. […] il trito due più due fa sempre quattro o uno vale uno sono affermazioni discutibili, la
cui natura si disvela e si specifica nell’ambiente in cui esse si enunciano. Pensate a uno vale uno:
1=9/9=1x0,999… e dunque, per la proprietà transitiva 1=0,999…». (pp. 25-26 e p. 50). Si veda
anche infra, nt. 49.
27
H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., pp. 139-141.
28
Così H. K, Zur Soziologie der Demokratie, in Der Österreichische Volkswrite, 19, Jahrgang, 1926, Heft 8/9, pp. 209-211 e pp. 239-242, trad. it. Sociologia della democrazia, in A.
C (a cura di), Sociologia della democrazia, Napoli, 1991, pp. 49-50.
29
H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 61.
30
Op. ult. cit., p. 50.
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Nei «casi limite», sembra voler dire, non sarà certo una qualche forza di tipo
normativo ad evitare le catastrofi politico-sociali (ad esempio una rivoluzione,
un colpo di Stato, una crisi economica, una pandemia etc., tutte situazioni che
possono portare alla «dittatura»). Conclusione, quest’ultima, a cui in qualche
modo giunge anche Carl Schmitt quando immagina la «sospensione» dei poteri
costituiti per far fronte allo «stato d’eccezione»: poteri, attribuiti al «sovrano»
chiamato a «decidere», provenienti dalla «nuda forza», non già dal diritto. In
quei frangenti, infatti, la fonte «sulla produzione» – su questo i due Autori sembrano trovarsi d’accordo – non può che essere un incidente della storia disancorato dalle regole costituite in qualsiasi forma di Stato e di governo. Per quanto
poi, come noto, mentre Kelsen tenta di riportare lo «spazio vuoto» nuovamente
venutosi a creare all’interno di una politica fondata sulla dialettica parlamentare,
Schmitt sembra invece accontentarsi di un qualsiasi tipo di riempimento della
normatività annientata dall’«eccezione», finanche autocratica31.
In Kelsen, invero, esattamente al contrario di quel che professa Schmitt, ogni
minaccia alla tenuta delle istituzioni democratiche (il celeberrimo «stato d’eccezione», sia interno che esterno, sia naturale che artificiale), non può essere risolta
con la mera sospensione delle garanzie costituzionali e lo sbilanciamento dei poteri
sul capo dell’Esecutivo. E tanto perché, verrebbe da dire, gli stati d’eccezione, se
realisticamente si tiene conto di un arco temporale anche solo di medio periodo,
non sembrano affatto rappresentare un’eccezione. In qualsiasi forma essi si manifestino sono destinati ciclicamente a ripresentarsi, apparendo un grave errore
ritenerli soltanto una patologia. Ciò potrebbe essere sostenuto se oggetto di studio
fosse il contingente o, al più, l’analisi di brevi parentesi storiche in cui si osservano
le condizioni esistenti in una circoscritta e limitata frazione temporale. Ma se si
guarda alla continuità del funzionamento degli ordinamenti costituzionali in una
prospettiva che voglia mantenere la forma di governo democratica, la variabile
dell’«eccezione» non può che logicamente ritenersi fisiologica e trasformarsi in una
costante presupposta, in quanto inevitabile e imprevedibile ripresentarsi del “caso
limite” nel corso della vita di qualsivoglia comunità sociale organizzata32.
E così, seguendo il ragionamento kelseniano, una democrazia che cercasse di
sopravvivere alla fisiologia delle «eccezioni» con l’autorità e la forza cesserebbe «di
essere una democrazia». Evidentemente perché «un potere popolare non può continuare ad esistere contro il popolo», «non può farsi prendere nella funesta contraddizione di ricorrere alla dittatura per difendere la democrazia». In tutti questi
casi, la reazione democratica sembra piuttosto imporre un atteggiamento lucido e
razionale di intelligente difesa delle istituzioni democratiche (per quanto da ristrutturare), affinché la necessità e l’urgenza gestita dalle “decisioni” di chi è “sovrano”
non metta fuori gioco quantomeno il controllo degli organi rappresentativi33. Per
una democrazia costituzionale, cedere nei frangenti “eccezionali” alle sirene di una
qualsiasi forma di potere dal tenore autoritario, potrebbe significare soltanto rischiare di incorrere in un’inutile e dannosa contraddizione. Forse, la più funesta34.
Il Kelsen “parlamentarista” che scrive a difesa dei governi democratici muove,
pertanto, da una ben chiara consapevolezza: il discorso democratico è intriso di
assoluti ideologici e rassicuranti dogmatiche, le cui principali virtù appaiono forse
consistere nella sorprendente capacità di rimanere in vita nella mente degli uomini,
mentre la storia, intanto, le erode. Precondizioni, queste, che in generale non sembrano affatto sorprenderlo, in quanto «al di sopra degli uomini che sulla terra lottano per il potere, si combattono (per così dire, nell’aria) le loro idee e ideologie»35.
Epperò, tale stato delle cose egli prova a renderlo “terreno”, tentando di ancorare il discorso democratico a principi di realtà. Il modo in cui sembra agire è
presto detto. Come si accennava, appare decisamente innervare e strutturare le
sue tesi sull’«essenza e valore della democrazia» attingendo argomenti – ab imis
fundamentis – dal pensiero critico dei massimi interpreti del «relativismo filosofico». Dunque, non solo da Kant36 e Spinoza37, ma soprattutto da quelli che Paul
31
Come si desume, già, dalla lettura di C. S, Definizioni della sovranità, in I., Le
categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, Bologna, 2013, pp. 33 ss.
32
Anzi, se si pensa alla «sacertà» nel mondo contemporaneo e al fatto che «l’emergenza diventa la regola», la questione diventa quella di ricercare soluzioni al grave problema dell’assorbimento
del «potere legislativo» in quello «esecutivo», che di fatto ha trasformato le Repubbliche «parlamentari» in sostanziali Repubbliche «governamentali». Il riferimento non può che essere alle acute
riflessioni di G. A, Stato di eccezione. Homo sacer, II, 1, Torino, 2003, pp. 21-32.
33
Sul punto, si pensi a quanto invece è accaduto lo scorso anno, allorché il Governo, al fine
di fronteggiare l’emergenza pandemica Covid-19, ha scelto di limitare le libertà costituzionali con
meri dd.P.C.M, mettendo fuori gioco l’organo rappresentativo. Prassi, questa, fortunatamente
abbandonata dall’attuale Esecutivo Draghi, il quale, per far fronte ai «casi straordinari di necessità
e d’urgenza» ha scelto di adottare, nel pieno rispetto della Costituzione (art. 77), decreti-legge.
Per gli opportuni approfondimenti sia consentito, in argomento, rinviare ad A. G, Lo «stato
d’emergenza» ai tempi del Covid-19: una possibile fonte di risarcimento del danno?, in Diritti fondamentali, disponibile all’indirizzo www.dirittifondamentali.it, 25 marzo 2020.
34
Sembra potersi desumere questo leggendo la parte conclusiva del capitolo Difesa della democrazia, rinvenibile nel già citato H. K, Sociologia della democrazia, cit., pp. 49-50.
35
H. K, Forme di governo e concezioni del mondo, cit., p. 40.
36
Della cui filosofia è debitore soprattutto il Kelsen della dottrina pura. Lì dove si occupa,
come è noto, della condizione logico-trascendentale della Grundnorm, applicando per analogia
un concetto della teoria kantiana della conoscenza. Cfr. H. K, Lineamenti di dottrina pura
del diritto, Torino, 2000, p. 98 ss. (la prima versione è del 1934, intitolata Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik). Sull’epistemologia neokantiana, si veda poi, in
una prospettiva «monista» di ordinamento internazionale sagacemente prospettata dal Kelsen, A.
C, Presentazione, in H. K, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Milano, 1989, pp. XIII-XX.
37
In particolare, dello Spinoza autore del Tractatus theologico-politicus, come di recente
262
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Ricoeur ha suggestivamente chiamato «maestri del sospetto», ossia Freud, Marx
e Nietzsche38. Influenze, queste ultime, non di rado trascurate dagli studiosi
o, questa l’impressione, comunque lasciate scivolare ben oltre lo sfondo di un
quadro complessivo del suo pensiero democratico39.
Beninteso, non si sta qui sostenendo che le riflessioni kelseniane abbiano in
qualche modo a che fare con la materiale brutalità dei «murari» rapporti tellurici
politicamente rinvenibili, ad esempio, nello schmittiano «Nomos der Erde»40.
Si tratta pur sempre, però, di tesi che allignano nella conflittualità del «reale
movimento storico» (Marx), caratterizzato dall’«eterno ritorno» (Nietzsche) della dialettica dei due «tipi ideali» e antitetici di espressione del potere che, da sempre, alimentano lo «strato psichico» (Freud) dei sistemi politico-sociali: da una
sostiene P.G. M, Presentazione. Kelsen e Dante, oltre Schmitt?, in H. K, Lo Stato in
Dante, cit., pp. 13 ss.
38
P. R, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano, 1967, pp. 46 ss.
39
È sufficiente anche solo sfogliare gli scritti democratici di Kelsen per accorgersi che, più o
meno esplicitamente, in ciascuno di essi (a volte persino nel titolo) vi sono continui riferimenti
al pensiero critico dei «maestri del sospetto». Le influenze di Freud sono evidentissime, al punto
che, A. C, Scienza e democrazia. Il decisionismo critico di Hans Kelsen, in H. K, Sociologia della democrazia, cit., p. 9, scrive: «che per Kelsen lo strato psichico costituisca lo strato «più
profondo» è un dato che emerge in tutti gli scritti del giurista, almeno nel suo periodo viennese e
in generale europeo». Anche l’influenza di Karl Marx non è difficile da rilevare. Di quest’ultimo,
infatti, pur criticando a più riprese i risultati a cui giungono le sue analisi (si veda, da ultimo,
H. K, The Communist Theory of Law, New York, 1955, trad. it. La teoria comunista del
diritto, Milano, 1956) sembra comunque accettare parte dell’analisi storico-materialistica. Non
meno complicato è, poi, ritrovare numerose argomentazioni nietzschiane a sostegno di molte
tesi del Kelsen democratico. Su tutte, la concezione dei «valori» e delle «morali» presupposta
dal suo relativismo filosofico-politico. Se poi si tiene conto anche del suo ultimo lavoro, Secular
Religion, pubblicato postumo soltanto di recente (2012) dall’Hans Kelsen-Institut di Vienna, non
sembra residuare alcun dubbio su quanto l’influenza di tali autori abbia accompagnato tutta la
carriera dello studioso praghese. In quest’opera, infatti, il cui fine è quello di dimostrare che è
«errato» considerare le ideologie politiche affermatesi nel periodo illuminista come una teologia
gnostica dell’epoca moderna, si ritrova non soltanto il grande interesse di Kelsen per i «maestri del
sospetto», ma anche quello per il pensiero critico di Proudhon, Saint-Simon, Comte e Lessing.
Influenze, anche queste, che se si leggono con attenzione gli scritti democratici implicitamente
emergono già in quegli anni. Si veda H. K, Religione secolare. Una polemica contro l’errata
interpretazione della filosofia sociale, della scienza e della politica moderne come “nuove religioni”,
Milano, 2014, pp. 3 ss.
40
Si veda C. S, Il Nomos della Terra nel Diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Milano, 1991, p. 59, secondo cui «nomos» sta ad indicare «la forma immediata nella quale
si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, […], vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva […]. Nomos
è la misura che distribuisce il terreno e il suolo della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data dell’ordinamento politico, sociale e religioso. […]. In particolare,
il nomos può essere definito come un muro, poiché anche il muro si basa su localizzazioni sacrali».
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parte, l’«assolutezza» del potere fondato sull’«idea» di «autocrazia» tipica delle
«personalità autoritarie o dispotiche»; sul versante opposto, l’illimitatezza del
potere espressione dell’«autodeterminazione politica» dei singoli individui, presupposto anarchico dell’«ideale della democrazia». Ideologie che, nella loro massima espressione concepita dalla «volontà di potenza» (Nietzsche) di entrambi
i «tipi caratteriologici» (Freud), non soltanto «non si sono attuate pienamente
mai e in nessun luogo», ma, soprattutto, fanno riferimento ad una «realtà» –
quella dei conflitti politico-sociali (Marx) – che «offre sempre una mescolanza
di elementi propri di entrambe, nella quale prevalgono ora quelli dell’uno ora
quelli dell’altro tipo ideale»41.
E così, in considerazione delle numerose «verità» di cui è inevitabilmente
portatrice la conflittuale realtà sociale, emergono in tutta la loro importanza
le due grandi direttive kelseniane sul corretto funzionamento delle democrazie
parlamentari. Innanzitutto, vista la molteplicità dei valori e degli interessi vigenti nelle società capitalistiche e secolarizzate, la necessità di rifuggire dal rischio
che soltanto alcuni di essi, attraverso «organizzazioni corporative», possano assolutizzarsi sino a condurre al «dominio dittatoriale di una classe sull’altra»42. In
secondo luogo e in stretta logica consequenziale, l’organizzazione di un sistema
assembleare in grado di realizzare le condizioni affinché i gruppi politici possano addivenire ad un «compromesso» risultante dalla più intensa dialettica tra
«maggioranza» e «minoranza» parlamentare43. Condizione, quest’ultima, che ha
la possibilità di inverarsi allorché l’elezione dei rappresentanti avvenga attraverso
l’adozione di formule elettorali di stampo «proporzionale»44.
41
Le citazioni sono tratte da H. K, Forme di governo e concezioni del mondo, cit., pp. 4143; I., I fondamenti della democrazia, cit., p. 234. Sempre del Maestro praghese, in argomento
appare imprescindibile la lettura di L’amor platonico, Bologna, 1985.
42
H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 93.
43
In questa ipotesi, infatti, Kelsen ritiene che «una dittatura della maggioranza sulla minoranza non è possibile, a lungo andare, per il semplice fatto che una minoranza, condannata a non
esercitare, nel modo più assoluto, nessuna influenza, finirà col rinunciare alla sua partecipazione
– soltanto formale e perciò per lei senza valore e perfino dannosa – alla formazione della volontà
generale, togliendo con ciò alla maggioranza – che già per definizione non è possibile senza la
minoranza – il suo carattere stesso di maggioranza. […]. Tutta la procedura parlamentare tende a
creare un medio termine fra gli interessi opposti, una risultante delle forze sociali di senso contrario. I diversi interessi dei gruppi rappresentati in Parlamento, potranno esprimersi, manifestarsi in
una procedura pubblica trovando, in quella parlamentare, le garanzie necessarie. E se la caratteristica procedura dialettico-contraddittoria parlamentare ha un senso alquanto profondo, tale senso
potrà essere soltanto quello di fare della tesi e dell’antitesi degli interessi politici, in qualsiasi modo,
una sintesi. […] non […] una verità superiore, assoluta, un valore assoluto superiore agli interessi
dei gruppi, ma un compromesso». H. K, op. ult. cit., pp. 97-98.
44
Per Kelsen, infatti, «bisogna che venga garantito che possibilmente tutti gli interessi di
partito possano esprimersi ed entrare in concorso, affinché il compromesso finale intervenga fra
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Sembra proprio essere questo il modo con cui l’ingegno kelsensiano traduce in teoria della «democrazia reale» il relativismo filosofico-politico di cui si
è detto45. Consentendo ai gruppi politici di minoranza, entrati in Parlamento
grazie al sistema elettorale proporzionale, di essere «un mezzo per influire sulle decisioni della maggioranza». Ed è esattamente quest’ultimo il significato,
tutt’oggi spesso strumentalizzato dai critici delle sue tesi, da attribuirsi al «principio di maggioranza» vigente negli organi assembleari46. Non a caso, imponendo l’inclusione delle minoranze nella formazione della decisione politica,
è Kelsen stesso a scrivere che «sarebbe comunque meglio chiamarlo principio
maggioritario-minoritario»47.
In democrazia, «la relatività del valore che una determinata confessione politica proclama, l’impossibilità di rivendicare per un programma politico, per un
ideale politico, un valore assoluto […] costringe imperiosamente a respingere
anche l’assolutismo politico». Nessuna forza politica, sia essa temporaneamente
al governo o all’opposizione, detiene verità. L’espressione «maggioranza» è così
diventata «parola d’ordine» e «meta di coloro che sono per la libertà intellettuale,
per una scienza liberata dalla credenza in dogmi e ai miracoli, fondata sulla ragione umana e sul dubbio della critica». E dunque, se si vuole restringere il campo semantico di una espressione tanto abusata, fare appello alla «democrazia»
non può che significare innanzitutto una cosa: invocare e credere nei postulati
del «relativismo» filosofico-politico48.
Questo sembra suggerire in modo cristallino il Kelsen “parlamentarista” alle
forze politiche chiamate ad organizzare i metodi di produzione normativa in
uno Stato, oltre che, naturalmente, agli studiosi della scienza giuridica e politica interessati a comprendere la realtà del fenomeno democratico moderno. Le
regole «procedurali» (legislative, costituzionali e dei regolamenti camerali) sono
asservite allo scopo della realizzazione dei «principi» del relativismo politico.
Se si vogliono comprendere a fondo le teorie democratiche kelseniane, sembra
quindi doversi partire dalla corretta comprensione di quei principi e non, come
invece spesso accade, concentrarsi sulla formalità delle regole procedimentali,
evidentemente rispondenti ad una logica di stretta consequenzialità applicativo-normativa concepita a garanzia di quei postulati filosofico-politici49.
3. Non serve andare ancora oltre per comprendere quanto la concezione della democrazia kelseniana altro non sia che una teoria profondamente legata alla
realtà delle cose, ossia ai rapporti di forza materialmente esistenti tra le parti sociali50. Ed infatti, diversamente dallo «Stato» che Kelsen ritiene essere «soltanto
il contenuto specifico di una coscienza, il cui accumulo di massa real-psicologica
resta, quanto al suo concetto, di significato problematico»51, la «democrazia»
viene invece considerata come «il punto di equilibrio verso il quale il pendolo
politico, oscillante a destra e a sinistra, dovrà sempre ritornare»52.
loro. Garanzie in tal senso offre la procedura che si svolge in seno ad un Parlamento fondato sul
sistema elettorale proporzionale». Tutte cose, queste, che non si verificano adottando una formula
elettorale maggioritaria: se applicata nella sua purezza, «in Parlamento sarebbe rappresentata solo
la maggioranza». H. K, op. ult. cit., pp. 101-103.
45
Sul punto sembra converge O. P, Natura e valore della democrazia cento anni
dopo, cit., pp. 896-897, il quale rileva che proprio il «relativismo epistemologico-ideologico» presupposto da Kelsen, «gli permetterà anche meglio di esporre il valore della democrazia stessa».
46
Come ancora rammenta O. P, ibidem, poiché «la conoscenza di valori assoluti è
impossibile», per Kelsen «si possono conoscere e difendere solamente valori relativi. Il principio di
maggioranza è la traduzione giuridica di questa osservazione».
47
H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 98.
48
Le citazioni sono ancora tratte da H. K, op. ult. cit., pp. 142-143.
Tornano qui ancora utili le argomentazioni contenute nel già citato saggio di Chiara Valerio
(La matematica è politica, v. supra, nt. 26), ex studiosa di “scienze esatte” (matematica e fisica) e
oggi vivace scrittrice socialmente impegnata. Scopo dell’Autrice è quello di dimostrare quanto di
fatto «democrazia» e «matematica» rispondano a logiche simili. Nell’agile libro, l’«anarchica conservatrice» (è lei a definirsi così nelle prime pagine), parte dal seguente assunto: l’«assoluto» è solo
«un punto di vista […] una scelta, una responsabilità emotiva, culturale, giuridica, politica […]
che indica uno dei tanti modi di controllo e oppressione». La «verità assoluta» dunque non esiste,
perché «il relativismo è la realtà», in quanto «non implica che tutti i punti di vista siano uguali,
ma che esistano» (p. 9). E così, poiché la «democrazia» come la «matematica» non rappresenta
un «assoluto», ma solo un «linguaggio», una «grammatica» che rifugge dal «principio di autorità»,
è possibile allora sostenere che «la democrazia è matematica» nella misura in cui «si basa su un
sistema condiviso di regole continuamente negoziabili e continuamente verificabili» (pp. 52-53 e
pp. 59-60). L’Autrice, che non cita Kelsen, ma mostra di conoscere il pensiero di Walter Benjamin
(Angelus Novus), Giorgio Agamben (Homo Sacer) e Stefano Rodotà (Diritto di avere diritti), nel
tentare di spiegare la funzione delle regole procedurali in una democrazia “matematico-costituzionale”, sembra in parte rifarsi alla concezione democratica dello studioso praghese (p. 71 ss.). O
meglio, per evitare fraintendimenti, le assonanze sembrano rinvenirsi nella funzione che entrambi
attribuiscono alle «regole procedurali»: quella di evolvere in modo partecipato e quanto più possibile condiviso non già un sistema dogmatico di verità assolute, ma un ordine «che non ammette
principi di autorità» (p. 50).
50
Sul punto sembra convergere anche M. B, Introduzione, cit., p. 25., il quale sostiene
che il Kelsen teorico della democrazia muova «da una visione classistica e conflittualistica dei
rapporti sociali imparentata con quella marxista».
51
H. K, Il concetto di Stato e la psicologia sociale. Con particolare riguardo alla teoria delle
masse di Freud, in I., La democrazia, cit., p. 399.
52
H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., p. 108.
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Mosso da un grande senso di realtà, il Kelsen democratico è stato soprattutto
un «liberale di sinistra»53 che non si è battuto in astratto per il mito della «crazia
del demos», ma per il reale e costante rafforzamento di «atti di crazia». Di «atti di
potere», cioè, posti in essere dai rappresentanti delle varie classi, tesi alla migliore
realizzazione del «compromesso socialdemocratico»54.
Kelsen, invero, consapevole delle problematiche cui può andare incontro
una rigida architettura di regole parlamentari in una società pluralistica in cui
decisivo è il ruolo giocato dai partiti politici, tenta di perfezionare il sistema
assembleare con alcuni correttivi.
Suggerisce, in particolare: a) il ricorso all’istituto referendario «sul deliberato
parlamentare e non sulla legge già promulgata e vigente»55; b) una maggiore
considerazione dell’iniziativa legislativa popolare, peraltro congegnata in modo
da non ostacolare il lavoro della cittadinanza attiva: le Camere non dovrebbero
ricevere «un progetto di legge già elaborato», bensì soltanto «la semplice indicazione di certe direttive generali» utili ad orientare l’attività legislativa56; c) l’integrazione delle commissioni parlamentari, a seconda della «natura delle leggi da
discutere e da votare», con «esperti» individuati dal «partito politico», affinché
si giunga a «delle buone leggi nei diversi campi della vita pubblica»57; e, non da
ultimo, d) l’introduzione di forme di controllo degli eletti da parte degli elettori
«organizzati in partito» (c.d. mandato di partito) che, lì dove le leggi elettorali
prevedano l’adozione di «liste bloccate», possano finanche determinare la perdita del mandato per il singolo parlamentare58.
Come lo definisce P. P, Presentazione, in H. K, Il primato del parlamento, cit.,
p. IX, il quale rammenta che, sebbene «non abbia avuto la tessera del partito socialista», ad ogni
modo «la concezione politica di Kelsen era quella di un liberale di sinistra, convinto della necessità di un intervento statale nell’economia, ma anche della assenza di alternative alla democrazia
parlamentare».
54
Sembra essere questa la visione, esplicitamente influenzata dal pensiero di Kelsen (oltre che
in parte da Weber e Schumpeter), di M.L. S, Democrazia. Storia di un’idea tra mito e
realtà, Milano, 2020, p. XVI e pp. 486-493, il quale – chiarito che la «democrazia è stata un mito
potente, che, in senso proprio, ha avuto attuazione […] unicamente in due momenti e luoghi:
nell’antica Atene, con il suo apogeo nell’età di Pericle e, limitatamente alla parte del demos dotata
di proprietà, istruzione e diritto di voto, tra Sette e Ottocento nei paesi occidentali dotati di
istituzioni parlamentari» – lucidamente ritiene che anche nei Paesi dotati di istituzioni liberaldemocratiche, la realizzazione dell’ideale democratico non ha mai visto «il popolo al potere», ossia
l’affermarsi della «crazia del demos». Piuttosto, «le masse hanno conquistato poteri parziali ma
importanti» che propriamente consistono in «atti di crazia quali in primo luogo i successi nell’estensione, grazie agli interventi riformatori, dei diritti, e nel miglioramento materiale degli strati
inferiori. Dunque, più che di «crazia del demos», sembra più corretto doversi parlare di «atti di
crazia», da intendersi come «atti di potere» a «beneficio dei ceti più deboli fatti riconoscere in sede
legislativa dai partiti». Sono queste, realisticamente, le condizioni in cui storicamente si è espresso
l’ideale della democrazia, che ad oggi ha «trovato la sua migliore realizzazione nel compromesso
socialdemocratico».
55
Qui Kelsen suggerisce ai legislatori che proprio al fine di rafforzare l’istituto parlamentare
«sarebbe profittevole […] che i professionisti della politica, che oggi sono appunto i membri del
Parlamento, cercassero di reprimere la loro d’altronde comprensibile avversione contro l’istituto
del referendum» e lasciassero esprimere «il popolo su di un testo semplicemente votato dal Parlamento piuttosto che su di una legge già pubblicata ed entrata in vigore». In alcuni casi, come
ad esempio quando è stata «una minoranza qualificata del Parlamento» a sostenere il ricorso alla
volontà popolare (ipotesi esclusa dall’art. 75 della nostra Costituzione), persino «si renderebbe necessario sciogliere il Parlamento qualora il responso popolare risultasse contrario ad un deliberato
di esso. Con le nuove elezioni verrebbe così a formarsi un nuovo Parlamento, del quale se non
si può asserire ancora che sia la genuina espressione della volontà popolare, si potrà per lo meno
affermare con sicurezza che con questa volontà non si è già messo in contrasto». Così H. K,
Il problema del parlamentarismo, cit., pp. 154-155; e I., Essenza e valore della democrazia, cit.,
pp. 80-81.
56
Anche su questo fronte, i suggerimenti di Kelsen meriterebbero maggiore considerazione.
Egli prosegue, infatti, dicendo che «se gli elettori non hanno il diritto di dare istruzioni obbligatorie ai loro uomini di fiducia in Parlamento, al popolo dovrebbe essere lasciata almeno la possibilità
di dare suggerimenti che consentano al Parlamento di orientare la propria attività legislativa». E,
trattandosi di «direttiva generale», il Parlamento dovrebbe essere «obbligato a trattarla secondo
la consueta procedura». H. K, Il problema del parlamentarismo, cit., p. 155; e I., Essenza e
valore della democrazia, cit., p. 81.
57
Tale via, peraltro ancora oggi rievocata da alcuni studiosi (v. da ultimo F. S, Il sistema
delle commissioni parlamentari alla prova del ridimensionamento della rappresentanza politica, in
Forum di Quaderni costituzionali, 2021, n. 1, pp. 646 ss. disponibile all’indirizzo www.forumcostituzionale.it), per Kelsen intanto sembra però percorribile in quanto non conduca la democrazia
costituzionale verso una perniciosa «organizzazione corporativistica» della rappresentanza. Cfr. H.
K, Il problema del parlamentarismo, cit., pp. 159-161; e I., Essenza e valore della democrazia,
cit., pp. 85-87.
58
Sul punto occorre però qualche precisazione. Come detto nel testo, il Maestro praghese
ammette il c.d. mandato di partito, non già un mandato imperativo tout court. Ed infatti, egli
specifica che «non si può certo più pensare ad un ritorno del mandato imperativo nella sua antica
forma; ma le innegabili tendenze che oggi si manifestano in questo senso possono, fino a un
certo grado essere levate a forme compatibili con la struttura dell’organismo politico moderno.
Già l’introduzione del sistema proporzionale ha reso necessaria una organizzazione di partito più
rigida di quanto non la esigesse il semplice sistema della maggioranza. Perciò oggi non si può
respingere in modo categorico l’idea di un controllo permanente dei deputati da parte dei gruppi
di elettori costituiti in partiti politici. La possibilità di realizzare giuridicamente questo controllo,
esiste. E un contatto permanente, stabilito fra deputati e corpo elettorale e garantito dalla legge,
potrebbe riconciliare le masse col principio parlamentare. L’irresponsabilità del deputato di fronte
ai suoi elettori, che è senza dubbio una delle cause essenziali del discredito in cui oggi è caduta
l’istituzione parlamentare, non è affatto, come trapelava dalla dottrina del XIX secolo, un elemento necessario». Quanto poi alla revoca del mandato, Kelsen non lascia dubbi. È ammissibile
a quattro condizioni collegate tra loro: 1. deve riguardare parlamentari eletti in «liste bloccate»
(egli parla di «lista chiusa» o «lista vincolata»). In tali casi, infatti, «se l’elettore […] non ha più
influenza sulla scelta dei deputati e l’atto del voto si riduce piuttosto ad una professione di appartenenza ad un determinato partito e se il candidato riceve il mandato dall’elettore per il solo fatto
di appartenere al suo partito, diventa perfettamente logico che il deputato decada dalla sua funzione quando cessa di appartenere al partito che lo ha mandato al parlamento»; 2. deve sussistere
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Si tratta, come è evidente, di correttivi che appaiono ancora di grande attualità e che meriterebbero di essere considerati con un’attenzione ben maggiore
di quella sinora ricevuta nel nostro Paese. Basti pensare all’utilizzo che di tali
strumenti è stato fatto da forze politiche come il MoVimento Cinque Stelle:
impiegati non già per il rafforzamento della centralità del Parlamento (à la Kelsen), ma come un’alternativa volta all’applicazione di regressivi quanto perniciosi meccanismi di democrazia (etero)diretta, di fatto tesi a privatizzare l’attività di
indirizzo politico dello Stato59.
Un altro aspetto importante affrontato dallo studioso praghese – e che riguarda, tutt’oggi, «il problema del parlamentarismo» – è poi quello relativo
alla mancanza di una regolamentazione pubblicistica dei partiti politici. Questi
ultimi, invero, ancora adesso «si presentano nella forma floscia di associazioni
libere», quando invece «la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici», da essi dipendendo «la formazione della volontà dello Stato». Qui
Kelsen, criticando le «legislazioni» e le «costituzioni» che non danno sufficiente
importanza all’«organizzazione del ‘popolo’ in partiti», afferma che essi debbono
essere considerati, vista l’insostituibile funzione svolta, veri e propri «organi costituzionali dello Stato»60.
Chiaramente non è pensabile, e neppure auspicabile, che tali soggetti indefettibili del circuito della rappresentanza politica possano oggi giungere ad una
«trasformazione» in organi disciplinati interamente dal diritto pubblico61. Ma
le pregnanti argomentazioni di Kelsen sul ruolo svolto dai partiti all’interno
di una forma di governo parlamentare sembrano, al contempo, contenere un
monito di straordinario rilievo anche per il legislatore democratico contemporaneo. Specie dopo l’entrata in vigore della l. cost. n. 1/2020 – che, come noto,
ha notevolmente ridotto la rappresentanza politica attraverso il “taglio” del numero dei parlamentari – non appare infatti più rinviabile una legge di attuazione
dell’art. 49 Cost., capace di assicurare una effettiva «democrazia interna» alle
forze politiche, senza la quale difficilmente «rappresentanza» e «rappresentato»
potranno uscire dal pantano della crisi in cui da tempo sono sprofondati62.
Un ultimo accenno, viste le problematiche istituzionali squadernate dalla pandemia, merita un’altra grande questione affrontata dal Kelsen “parlamentarista”:
quella che attiene alle fisiologiche istanze di autogoverno provenienti dai vari enti
politico-amministrativi presenti nel territorio di uno Stato che riconosce, come il
nostro, le «autonomie locali». Nello specifico, Kelsen si preoccupa di assicurare
che la decisione politica adottata dallo Stato centrale non venga poi contraddetta
dalle decisioni provenienti da articolazioni politiche territorialmente decentrate.
Si pensi, per restare all’emergenza sanitaria, alle difficoltà avvertite dal Governo
nella gestione dei piani vaccinali, rispetto ai quali ciascuna Regione ha più volte
mostrato di voler procedere in modo indipendente dalla volontà statale63.
Mettendo da parte i pur fondamentali aspetti che coinvolgono elementari
istanze di uguaglianza nello spazio nazionale, le indicazioni di Kelsen rivolte ai
legislatori che volessero assicurare coerenza democratica all’interno dello Stato non
sembrano lasciare dubbi: non tutte le competenze tra i vari enti politico-rappresentativi possono concorrere sul piano legislativo, dunque essere propriamente
«democratiche», risultando funzionale alla democrazia stessa che molte delle predette competenze restino invece «autocratiche», ossia lasciate nella disponibilità
dell’Amministrazione chiamata ad «eseguire» la voluntas legislatoris64.
«un’organizzazione salda e relativamente stabile degli elettori in partiti» (non già partiti politici
«che si formano soltanto in vista di una determinata elezione»); 3. spetta esclusivamente al «partito
politico i cui interessi risultano danneggiati» proporre «l’inizio del procedimento che porta alla
perdita del mandato» (non già al Parlamento, che potrebbe “proteggere” il parlamentare, specie se
di maggioranza); 4. a verificare l’esistenza delle condizioni che possono determinare la decadenza
dalla carica deve essere «un tribunale indipendente ed imparziale». Cfr. H. K, Il problema
del parlamentarismo, cit., pp. 157-158; e I., Essenza e valore della democrazia, cit., pp. 82-85.
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Su tali aspetti, anche per i necessari riferimenti alla sterminata letteratura che da più angolazioni si è occupata del tema, sia permesso rinviare ad A. G, Il Gruppo parlamentare. Profili
evolutivi di un soggetto della rappresentanza politica, Bari, 2019, pp. 172-184 e pp. 254-295.
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Si veda H. K, Essenza e valore della democrazia, cit., pp. 55-65, il quale ammonisce:
«solo l’illusione o la ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici».
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È proprio Kelsen ad auspicare esattamente una «trasformazione dei partiti politici in organi
costituzionali della formazione della volontà dello Stato» (v. H. K, op. ult. cit., p. 103, corsivo aggiunto).
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In argomento la dottrina appare tendenzialmente compatta. Sul punto, come ha precisato
A.M. N, La proiezione della trasformazione dei partiti politici sulla forma di governo e sulla
legislazione elettorale, in Diritti fondamentali, 2018, n. 1, p. 3, disponibile all’indirizzo www.dirittifondamentali.it, il problema di fondo sembra essere precipuamente questo: «l’organo rappresentativo […] non deve essere o divenire un mero strumento del partito o delle decisioni del gruppo
direttivo dello stesso, se non si vuole sminuire il ruolo del circuito Parlamento-Governo e dello
stesso articolo 49 della Costituzione (nel quale si utilizza il verbo “concorrere”)».
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Qui si fa riferimento alle acute riflessioni che Kelsen dedica ai rapporti che dovrebbero
intercorrere tra legislazione (democratica) e amministrazione (autocratica). In particolare, v. H.
K, Essenza e valore della democrazia, cit., pp. 110-132.
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Come rammenta O. P, Natura e valore della democrazia cento anni dopo, cit., p.
895, «Kelsen vede nella democratizzazione della produzione normativa infra-legislativa una tendenza anti-democratica, perché tale da deviare dalla regola generale democraticamente adottata.
Se concettualmente la norma concretizzante della legge generale può farsi in modo democratico,
strutturalmente tale democratizzazione si mostra anti-democratica rispetto alla produzione della
norma che vale per tutti ed è varata dall’organo che rappresenta l’insieme degli elettori. Dunque,
e di nuovo concettualmente, un’amministrazione autocratica può meglio servire una legislazione
democratica».
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Passaggi Costituzionali
Ciò significa, ad esempio, che qualora si decidesse di mettere mano al Titolo
V della nostra Costituzione, non solo alcune delle attuali competenze legislative
«concorrenti» dovrebbero essere attribuite alla competenza «esclusiva» dello Stato (si pensi a quella sanitaria), ma si dovrebbe anche trovare costituzionalmente
il modo di impedire che le Regioni (e, in generale, ogni altro ente fornito di
autonomia normativa) «si mettano troppo facilmente in deliberato contrasto
con le leggi votate dal parlamento centrale»65.
Una soluzione, forse, potrebbe essere quella di dotare precipuamente tali
soggetti di competenze normative di rango secondario, ridisegnando l’architettura delle competenze primarie su un modello di Stato amministrativamente
«decentrato», ma costituzionalmente in grado per davvero di risultare «un[o] e
indivisibile»66.
Del resto, tale ultimo ambizioso risultato, seppur all’interno di una società
molto più complessa di quella che aveva sotto gli occhi il Maestro praghese,
non si capisce come possa essere ottenuto se non ripartendo dalla centralità del
Parlamento e dalla smarrita forza della sua fonte: la legge.
H. K, La democrazia, in I., Il primato del parlamento, cit., p. 17, il quale premette:
«Se il territorio dello stato viene suddiviso in grandi circoscrizioni amministrative, le province, e
queste a loro volta in circoscrizioni più piccole, i distretti, e l’amministrazione di questi territori
viene affidata – in armonia con l’idea di democrazia – a collegi eletti dai cittadini degli stessi
territori in modo che al disotto del governo centrale vi sia immediatamente la rappresentanza
della provincia e al di sotto di questa la rappresentanza del distretto, allora è più che probabile
che questi organi di autogoverno – specie se la loro composizione politica, i loro rapporti di
maggioranza sono diversi da quelli dell’organo legislativo centrale – non considereranno affatto
loro scopo supremo la legittimità dei loro atti ma si metteranno troppo facilmente in deliberato
contrasto con le leggi votate dal parlamento centrale. La volontà del tutto – quale si esprime attraverso l’organo legislativo centrale – rischia di essere paralizzata dalla volontà della parte – quella
espressa dai singoli organi di autogoverno». Ecco perché, conclude Kelsen, un ordinamento statale
che si scompone in vari enti minori deve preferibilmente essere «un sistema che unisce elementi
democratici ed autocratici».
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Come vuole che sia l’art. 5 della Carta repubblicana. Naturalmente ciò non esclude che
ciascuna Regione, come del resto è per i Comuni, le Province e le Città metropolitane, possa avere
colori politici diversi da quelli dello Stato. Non è in discussione il pluralismo politico-istituzionale.
La questione, piuttosto, riguarda propriamente l’ordine delle fonti e (il disordine) delle competenze tra i vari enti dotati di autonomia. Inoltre, a beneficiarne sarebbe anche la mole del contenzioso
pendente dinanzi al giudice delle leggi, non a caso negli ultimi anni orientato a “riportare al centro” le competenze legislative di quelle che sono state definite dalla stessa Consulta materie c.d.
“trasversali”. In argomento, v. A. D’A, Diritto regionale, Torino, 2013, pp. 163 ss.
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SINTESI DEI CONTRIBUTI/ ABSTRACT