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Tomaso Buzzi
Il principe degli architetti
1900-1981
a cura di
Alberto Giorgio Cassani
saggi di
Guglielmo Bilancioni
Alberto Giorgio Cassani
Enrico Fenzi
Alessandro Mazza
Paola Tognon
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Antichi maestri, anime affini
Alberto Giorgio Cassani
«Gli Antichi Maestri stancano presto se li guardiamo senza farci
nessuno scrupolo e deludono sempre se li sottoponiamo a un esame
approfondito, se, impietosamente, come si suol dire, li rendiamo
oggetto della nostra intelligenza critica. A questo vero e proprio esame
critico non resiste nessuno [...] Leonardo, Michelangelo,
Tiziano, tutto ci svanisce sotto gli occhi in un battibaleno, e alla fine
si riduce a un misero se pur genialissimo espediente per sopravvivere»
Thomas Bernhard, Antichi maestri: Commedia (1985)
Zeitlos
«Allorquando saprete veramente che cosa siano i grandi uomini, vi
renderete conto che il maestro costituisce metà della loro vita.»
Questa “sentenza” di John Ruskin1 vale senz’altro anche per Tomaso
Buzzi, sebbene in modo del tutto particolare: Buzzi, infatti, non ha
avuto maestri contemporanei, ma soltanto “antichi”. In un appunto
del 29 dicembre 1969 egli aveva anto: «I miei disegni dell’Isola Bella
del 1922 si ispirano al Piranesi2. Piranesi, Callot3, Goya4, a distanza di
50 anni, sono ancora per me maestri ammirati e fonte d’ispirazione,
o almeno incitatori a fare»5. «Non inutilmente fummo i primi: continueremo ad esserlo»: questa scritta, che campeggiava all’ingresso
della mostra del libro italiano antico di architettura alla VII Triennale
del 1940, introduceva i visitatori in due sale, la galleria del Rinascimento e la saletta di Vitruvio, che raccoglievano preziosi materiali bibliografici provenienti dalle principali biblioteche italiane6. L’allestimento, curato da Agnoldomenico Pica, vedeva tra gli altri collaboratori anche Tomaso Buzzi7. Da un lato, dunque, pittori e incisori dal Rinascimento all’Ottocento; dall’altro architetti, da Vitruvio al Palladio,
fino al Ledoux. Questo l’ampio arco temporale degli Antichi Maestri
cui Buzzi ha sempre guardato con ammirazione, ma soprattutto
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come stimolo alla sua opera di disegnatore e architetto. Come l’angelo benjaminiano, Tomaso ha attraversato il suo tempo con la testa
volta all’indietro8, rivendicando la sua inattualità, la sua qualità di architetto postumo: «Come si può essere, come vorrei io, un architetto
postumo?», recita un appunto del 19729. Testardamente, contro qualunque contemporaneità: «Per contrasto con la Biennale, ho acquistato oggi 2 volumi sulla pittura italiana del 300 e 400, “per lavarmi
gli occhi” [...] 2 compresse per togliersi lo sporco del mondo»10. Un
desiderio di “inattualità” che si riflette nella sua concezione del
tempo, su cui Buzzi ritorna più volte nei suoi appunti, mediante il termine di Zeitlos, “atemporale”: «Il mio non è Impressionismo perché il
presente è per me l’effimero: mi interessa non l’istante ma quel
tanto di passato che il momento presente porta in sé e quel che ha
in sé di avvenire. […] Cioè un effimero con “colore storico”, e atemporale al tempo stesso (Zeitlose), con controtempo, ma senza
tempo»11; «Tempo fuori dal Tempo (Zeitlose)»12; «Mi piace l’arte fuori
dal Tempo: Zeitlosekunst / Non fuori dal T. o contro il Tempo, ma
senza Tempo, né andar “controcorrente” (contro la corrente del
Tempo)»13: «Indipendentemente dal valore venale e da quello puramente artistico, molti miei quadri hanno (o possono avere) un inte-
66 Il Santo Padre alla Salute, 16.9.1972,
particolare, disegno a biro acquerellato.
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resse per la novità del soggetto, la varietà, la rarità: per opposte ragioni la loro attualità (contemporaneità) è la loro non-temporalità
perché sono “Zeitlosekunst”, cioè fuori del tempo»14 (figg. 67, 68).
La propensione allo Zeitlos si esprime perfino nel modo di comporre di Buzzi architetto e compare precocemente, fin dagli articoli
scritti per «Dedalo». Lungi da qualunque mentalità tassonomica e di
rispetto filologico del passato, Tomaso rimpiange quelle epoche felici
che non conoscevano ancora la classificazione museale e il rigore storicistico: “Le sculture antiche non erano in quell’epoca fortunata
chiuse nei musei, ma entravano a far parte integrale della decorazione
delle sale dove si svolgeva la vita di tutti i giorni»15. Non è forse quello
che ha fatto Buzzi alla Scarzuola, quando ha riutilizzato un portale
proveniente dal palazzo di Diocleziano a Spalato per “incorniciare” l’Acropoli, battezzandolo la “Ianua Cœli” (fig. 69)? Ancor più profetico
dei futuri interventi buzziani è il prosieguo del brano: «Questa disposizione, eminentemente decorativa, delle opere d’arte del passato, che
corrispondeva pienamente alla concezione estetica del tempo, non
andava certo esente da pericoli: le statue erano spesso ritagliate o subivano aggiunte perché avessero le misure volute dagli scomparti, né
troppo si badava a mescolar gli originali antichi a copie moderne pur
di avere il numero dei pezzi che l’architettura richiedeva: difetto dei
tempi, questo, se si vuole, ma difetto di tempi grandi e costruttivi, nei
quali l’archeologia era un’arte viva e gli artisti non mancavano di rispetto agli antichi, che essi adoravano, nell’incastonare, in mezzo alle
opere loro, i capolavori del passato, certi di raggiungere quell’armonia
che nasce sempre dall’unione di opere insigni, anche di tempi diversi.
Era lo stesso spirito per cui tutto il mondo antico era vivificato, con i
suoi miti e le sue favole e le sue leggende, per cui la storia e la geografia parlavano dai muri, rese viva materia d’arte dalla fantasia dei pittori»16. Questo atteggiamento di familiarità con il passato, di sospensione del tempo, naturalmente, si manifesta, in particolare, nei progetti di ristrutturazione. In queste occasioni, Buzzi interviene sul passato senza preoccupazione di rispetto e tutela per le preesistenze:
vedi il caso della chiesa francescana alla Scarzuola, col totale riadattamento dei mobili al suo “modulo” proporzionale – Tomaso era soprannominato “Buzzino” – e conseguente sacrificio delle gambe di
sedie e tavoli; così come la sistemazione di una parte di villa Maser, in
cui Buzzi si confronta “da pari a pari” col Palladio.
Un “eterno presente”, un azzeramento del tempo, che avrà nella
Scarzuola il suo punto di arrivo.
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Rovina, non-finito, teatro
A questa concezione del tempo sono in qualche modo legati l’idea di
“rovina”, di “non-finito” e la metafora del “teatro” – all’interno della
quale si può comprendere quasi tutta l’architettura buzziana, emblematicamente compendiata e “conclusa” in quel non finito che è il
Gran Teatro, nonché “grande rovina”17, della Scarzuola, definita dallo
stesso Buzzi «la metamorfosi di un uomo in una rovina pietrosa»18.
La rovina (figg. 70-72) sembra assumere in Tomaso lo stesso significato che ha per Simmel nel suo celebre saggio del 191119: una dimensione di equilibrio fra artificio e natura, in cui l’artificio ritorna in
parte alla sua dimensione originale, determinando quell’atmosfera di
pace, che in qualche modo non è altro che un arresto del tempo, uno
stato di Zeitlos; quella “pace” che promana dalle rovine, quel paradossale “bilanciamento”, frutto della progressiva “rivincita” delle forze
della natura, dello spirito di gravità, sulla “volontà dello spirito” che ha
tentato di opporvisi20. Ma pace anche in un altro senso, come sottolinea Simmel: «col pezzo che reggiamo in mano noi dominiamo spiritualmente l’intero arco temporale a partire dalla sua creazione, il passato con i suoi destini e le sue vicissitudini è raccolto nel punto d’una
presenza intuibile esteticamente»21.
Non solo. La rovina esprime la perfetta circolarità delle cose, versione buzziana della dialettica vita-forme di simmeliana memoria; la
vita ha bisogno di fissarsi in una forma, ma poi la forma è dissolta
dalla vita: «Il tempo, cioè la mia vita, s’è fatto pietra, costruzione, e le
costruzioni si disperderanno nel Tempo (immagine un po’ proustiana
del Tempo). Il mio tempo mortale s’è trasformato in pietra che mi piacerebbe immortale, e che invece sarà portata via dal Tempo»22.
A quest’accettazione della rovina, però, Buzzi non era arrivato subito. Nei tre saggi dedicati alle architetture di Sabbioneta23, infatti, traspare il rammarico per la scomparsa di gran parte delle fabbriche
realizzate dai Gonzaga (con accenti quasi ruskiniani o alla Victor
Hugo nel suo j’accuse contro i demolitori e, peggio, i restauratori), di
cui elenca un malinconico ubi sunt, riconoscendo, però, al tempo
stesso, il fascino di quelle “grandiose rovine”, distrutto proprio dai “delittuosi” restauri: «Sulle fabbriche gonzaghesche è pesato un tragico
destino: di tanta copia di edifici, costruiti in più secoli, ricchi tutti di
tradizioni tragiche e gloriose, testimonî di purissimi eroismi e di decadenze profonde, documenti di mecenatismo illuminato e di raffinato
gusto d’arte, solo una minima parte ci è conservata. L’opera del
tempo, aiutata da abbandoni secolari, da vandalismi e da spoliazioni
sistematiche, da vampate demolitrici o delittuosamente ricostruttrici,
ha distrutto, senza lasciar tracce, i palazzi e le ville di Goito (ove erano
le pitture celebri del Mantegna) e di Marmirolo, di Belfiore e di Maderno, di Belvedere e di Poggio Reale, dimore splendide per giardini e
parchi. Di Boscofontana e della Favorita rimangono pochi avanzi in
uno stato pietoso, e anche il palazzo di Mantova, quel prodigioso dedaleo ammasso di edifici [come non pensare alla futura Scarzuola?
N.d.A.] è giunto ai nostri tempi così mutilo da essere oggi solo un’ombra di quello che fu. Demolita una gran parte delle costruzioni, coperti
da intonachi gli affreschi, strappati gli arazzi e le tappezzerie, asportati i quadri e le sculture, caduti o rovinati i soffitti e sconnessi i pavimenti, accecate le arcate e le finestre, destinate a vili usi le sale nobilissime, la Reggia di Mantova presentava, non molti anni or sono, l’aspetto desolato di una grandiosa rovina, aspetto pittoresco e tragico
che i recenti restauri e il riordinamento le hanno tolto»24.
Una rovina che non colpisce soltanto le opere, ma soprattutto gli
uomini e le famiglie, che proprio alle opere hanno affidato la speranza di essere ricordati. Figura emblematica, in Buzzi, è quella di
Vespasiano Gonzaga: «Intorno a lui, già fiaccato dalle malattie e
dalle tragedie domestiche, si compiva intanto lo sfacelo della famiglia, con la morte tragica dell’erede maschio, e si tramava la fine dell’indipendenza del suo stato, ché le mal celate insidie dei parenti
Gonzaga suoi vicini contendevano già, lui vivo, la successione alla figlia ed erede Isabella. E forse in lui si rafforzava il convincimento che
tutti i suoi sforzi di legislatore e di fondatore di istituzioni erano vani,
e si preannunciava prossimo lo smembramento delle sue collezioni,
così amorosamente raccolte e ordinate; ma pur doveva regger il
Duca, nella sua ultima fatica, la speranza di lasciar memoria di sé»25.
In ciò la grandezza e la tragedia di Vespasiano – come quella di
Pier Francesco Orsini, meglio noto come “Vicino”26, e di Ippolito d’Este27, verrebbe da aggiungere, per citare solo due committenti che
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69 La “Ianua Cœli” sul palcoscenico
della Scarzuola, 24.10.1974 Scarzuola,
disegno acquerellato.
70 Rovina del Mausoleo di Santa Costanza,
disegno a matita (dal dipinto di Herman
Posthumus, Tempus edax rerum, 1536, olio
su tela, Vaduz, collezione Liechtenstein).
67 Il tempo, disegno acquerellato
(collezione Pieri).
68 Senza titolo, disegno acquerellato
(collezione Pieri).
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71 Prospettiva con rovine, disegno a matita.
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72 Prospettiva con rovina del Colosseo,
disegno a matita.
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Tomaso certamente deve avere sentito come “anime affini”: «Tragico
e grande, nella sua sete di gloria, nella sua lotta contro il tempo, è quest’uomo, piccolo fra i potenti, che si attacca tenacemente alle cose, e
le nobilita con l’arte e a questa si raccomanda per vivere in eterno,
come a quella che, sola, meriterà un po’ di rispetto dagli uomini e dal
tempo: quasi sapesse che solo il suo mecenatismo gli darà fama, che
i suoi lineamenti saranno ricordati nei secoli da un bel bronzo, le glorie
della sua famiglia da molte opere d’arte, la sua vita privata da un palazzo, la sua figura di principe umanista da un’intera città»28.
Buzzi è talmente consapevole, con Jünger, che «non una casa
vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia
implicita, posta quale pietra di fondamento»29, da «cogliere degli edifici in costruzione il momento in cui sembrano una gran rovina»,
come scritto di suo pugno sul disegno della chiesa della Salute in costruzione30 (figg. 73, 74); concetto che ritorna in un altro passo a proposito della predilezione di Tomaso per l’understatement, espresso
proprio attraverso «architetture in costruzione e con aspetto ruinoso»31, nella più totale ambivalenza. Alla fine, è sempre e soltanto la
rovina che rimane, nonostante tutta la vanitas e l’ingens gloriæ cupiditas32 dell’uomo: «I palazzi cambiano proprietà, vengono modificati
o distrutti, le collezioni disperse, dilapidate. Solo le rovine rimangono: come Villa Adriana, villa d’Este, Bomarzo, o le abbazie come
San Galgano in Italia e altre altrove; Leptis, Sabrata, Baalbec, ecc.,
per citare le cose più grandi»33.
Ecco perché forse l’immagine più profondamente buzziana della
rovina è quella ironica e giocosa raffigurata nella magistrale tovaglietta in tulle per un tavolino rotondo dal titolo Il bizzarro terremoto,
o l’analoga tovaglietta chiamata Il vento dell’Olimpo – sempre una
perturbazione sovrumana che trascina, nel suo vortice, caducei,
vasi, frecce alate, sciabole e pianeti34.
Buzzi stesso ha anticipato, e in qualche modo reso nulla, l’azione
del tempo, lasciando quasi tutta la sua opera allo stato di non-finito, di
abbozzo, di frammento: dalle migliaia di appunti sparsi e schizzi conservati nel suo archivio, fino a quella vera e propria “autobiografia in
pietra” che è la Scarzuola. Sul non-finito, che si apparenta anche col
tema della “metamorfosi”, che è altrettanto buzziano, Tomaso ci ha lasciato una serie di brevi cenni sparsi: «[…] amo il non finito, l’Infinito, il
vibrante»35; «Dovrei ottenere il fascino del “Non-Finito” che si apparenta a quello delle Rovine, che entrambi danno all’architettura quella
quarta dimensione che è il Tempo»36, anzione emblematica perché
riassume insieme il tema del “non-finito”, della “rovina” e del “tempo”;
uno stato di incompletezza che, sebbene voluto da Buzzi, e cifra del
suo understatement, a volte provoca in lui qualche rimpianto: «Mi spaventa trovare incomplete tante opere iniziate, che varrebbero, se ne
avessi condotta a termine bene (cioè al mio meglio, de mon mieux) almeno una che, senza essere ahimè un capolavoro, darebbe un po’ di
lustro, di importanza, alle altre non finite. Potrei dire: quanto tempo
sciupato, se quello a loro dedicato non fosse stato tutto “tempo rubato”, o “salvato” da altri lavori più necessari, organici, obbligatorii e anche un po’ redditizi»37. L’importanza del non-finito è tale, che Tomaso
gli dedicherà, addirittura, uno dei suoi sette teatri alla Scarzuola.
La dimensione del teatro conclude la triade che comprende lo Zeitlos e il non-finito. Tutta l’architettura di Buzzi può e forse deve essere
letta sub specie theatri. Non solo perché la vita del suo autore si è
come “pietrificata”, per usare un’espressione di Tomaso stesso, nel
Gran Teatro della Scarzuola, ma perché, come egli ha scritto in un
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75 Prospettiva di città con volo d’uccelli,
disegno a matita.
73 La Salute in costruzione, 7.9.1972, disegno
a china. Sul disegno, tra l’altro, si legge:
«Disegnato al concerto dei virtuosi di Roma
a Ca’ Pisani / (Vivaldi) / come omaggio a
Vivaldi e al Longhena / Cogliere degli edifici
in costruzione il momento in cui sembrano
una gran rovina».
49
74 La chiesa della Salute, olio su tela.
76 77 La scena tragica secondo il Serlio,
disegni a matita.
78 79 La piazzetta di S. Marco a Venezia
idealizzata come scenario (da un disegno
del Serlio), disegni a matita.
80 Louvre Baldassarre Peruzzi / vedi
Old Master Drawings 1937-38 / disegno
della collezione del Vasari, 27.9.1974,
disegno a matita.
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bellissimo frammento sparso, rispondendo alla domanda della
“scelta teatrale”, il teatro è «il vero modo, l’unico legittimo in architettura, per ispirarsi, riprendere, riecheggiare forme del passato, modi di
espressione, uso di materiali, manierismi, ecc., senza cadere nel pericolo delle ricostruzioni»38. Nessuno, tra i Grandi Maestri, si è sottratto
alla dimensione teatrale, che ha a che fare con l’Utopia, con la Città
Ideale, con l’ambiguità del reale (La vida es sueño) (figg. 75-84). Uno
splendido appunto parigino, del 1967, li accomuna tutti, sotto il segno
della “finzione” e della “maschera”: «Se il Palladio e lo Scamozzi
(senza parlare del Serlio) / di Baldassarre Peruzzi, delle scenografie
di Raffaello, e / delle pitture del ’400 e ’500 (Mantegna, Botticelli, /
Filippino ecc. ecc. / Intendevano aver costruito dei Teatri all’Antica sul
modello di quelli greci (che poco conoscevano) / e romani / io ho voluto fare le stesse cose, raccogliendo insieme / le esperienze successive, fino a quelle barocche / in un assieme Manieristico / si può parlare di “neo-manierismo” / (uso di scale e scalette in tutte le direzioni,
come nei Pontormo, Tibaldi, Rosso ecc. allungamenti di membrature
architettoniche, corrispondenti all’allungamento delle figure, varietà
di modi alla rustica, / un po’ di mostri; volute sproporzioni di alcune /
parti, statue verdi e fiorite alla Arcimboldi, complicazioni, di significati
allegorici e segreti in pianta una simbologia che / procede e tiene
conto dei trattatisti uso Alberti, Filarete ecc. da quelle [sic!] Borrominiana / ecc., senza dire di Ledoux / / una “summa architettonica / un
che di labirintico spinto all’eccesso, di enchevêtré, di complicato sottilmente, di evocativo, di sinuoso, di antropomorfico, di geometrico,
astronomico, magico” / non senza un richiamo alle architetture di
Caron (scuola / di Fontainebleau) / affastellamento di edifici, di ornamenti (come nei trionfi del Mantegna), in un assieme estremamente
/ composito, che arriva ad un certo surrealismo»39.
Questa scelta teatrale appare evidentissima – oltre che nel
“trionfo” dei Teatri alla Scarzuola (ben sette), con l’Acropoli che fa
addirittura da scena teatrale esterna, inquadrata dalla serliana, al
teatro dell’Arnia (figg. 85-87) –, anche in una straordinaria e apparentemente paradossale operazione compiuta da Buzzi nei suoi
cahiers giovanili. Dall’album n. 4 al n. 18 del fascicolo n. 3: “Album
arte antica e teatro”40, il ventenne Tomaso ha disegnato a matita una
quantità impressionante di tavole e affreschi del Tre-Quattrocento
italiano (soprattutto Giotto, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, Pinturicchio, Carpaccio, Antonio Vivarini, ma anche Duccio, Pietro Lorenzetti, Simone Martini, Piero della Francesca, Botticelli, Paolo Uccello;
quasi nessun Antico Maestro è stato dimenticato) eliminandone
però, praticamente, tutti gli attori, uomini, donne, bambini e animali41, riducendo quei dipinti a delle mere scene teatrali vuote (figg.
88-98). Buzzi, in un appunto del 1970, ci svela il significato di questa
operazione di “cancellazione” della vita dalla scena dell’architettura:
«Alla Scarzuola, salvo la parte sacra, in cui il protagonista è Dio, con
Madonna e Santi, tutto è un teatro e quando qualcuno (e son molte
persone) mi domandano [sic] quali spettacoli farò eseguire, posso
rispondere che, per me, il protagonista è il silenzio; è il creuse de
l’homme (che non è il vuoto)»42, “Creux”: silenzio, vuoto, ma anche
“cavità”, dunque… teatro. Il protagonista è il silenzio della cavea
vuota: nei disegni, come nel Gran Teatro della Scarzuola.
Homo ablatus architecturæ, potremmo dire, parafrasando e rovesciando un motto dello stesso Tomaso: Homo additus architecturæ43.
Ma assenza e presenza sono, nel manicheo Buzzi, le facce della stessa
medaglia, lui mondano ed eremita. Del resto quelle scene urbane44,
84
81 82 Da un disegno degli Uffizi [Baldassarre
Peruzzi] (Geymüller), disegno a matita.
84 Prospettiva urbana, disegno a matita.
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85 Il Teatro dell’Arnia alla Scarzuola / loggia
all’esterno del Palcoscenico, 23.10.1974
Scarzuola, disegno acquerellato.
83 Da un disegno dello Scamozzi per la scena
del teatro di Sabbioneta (Uffizi Firenze),
disegno a matita.
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86 Palcoscenico del Teatro dell’Arnia alla
Scarzuola, 23.10.1974 Scarzuola, disegno
acquerellato.
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87 Il palcoscenico nel Teatro delle Api
alla Scarzuola, 24.10.1974 Scarzuola, disegno
acquerellato.
88 Da l’Annunciazione di Lazzaro Bastiani,
disegno a matita.
52
53
89 Lazzaro Bastiani, Annunciazione,
tempera su tavola, Venezia, Museo Correr.
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90 Da un quadro della Bottega del Vivarini,
6.11.1922, disegno a matita.
54
91 Senza titolo, disegno a matita.
95 (Siena) Da un disegno di Matteo
Di Giovanni, disegno a matita.
92 Da un dipinto del Gozzoli, disegno
a matita.
96 Grattacieli (Beato Angelico), 4.6.1922,
disegno a matita.
93 Da un piatto di nozze fiorentino del 1400,
disegno a matita.
97 Da un disegno di Jacopo Bellini, 3.5.1923,
disegno a matita.
94 Senza titolo, disegno a matita.
98 Senza titolo, disegno a matita.
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99 Chartagine, disegno a matita.
100 Questa città si ciama Attena dificata
da Cicropes, disegno a matita.
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101 Attene, disegno a matita.
102 [Bethulia] Da un intarsio nel pavimento
di Siena di Urbano da Cortona, disegno
a matita.
103 La città di Babilonia, disegno a matita.
104 Troia, disegno a matita.
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107 108 Senza titolo, disegni a matita.
109 Da un dipinto senese del 400, disegno
a matita.
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105 106 Senza titolo, disegni a matita.
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110 Una città. Da un cassone nuziale
fiorentino, disegno a matita.
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tratte dalle fonti più diverse, che riproducono, di volta in volta, Betulia45
(fig. 102), Cartagine (fig. 99), Atene (due volte) (figg. 100, 101), Babilonia (fig. 103), Troia (fig. 104), nonché le vedute urbane di città medievali turrite (e due anche di età romana) (fig. 105), prese da tavole e affreschi46, non sono tutte, forse, prefigurazioni della Scarzuola? (figg.
106-110) E, tutte, orbatæ hominum? L’ultimo disegno della cartellina
riproduce un vento fortissimo che spezza degli alberi47: è forse lui ad
aver spazzato via gli uomini? (fig. 111).
chitettura: il Serlio, il Palladio, il Vignola, il Gallacini53, il padre Pozzo
sulla prospettiva, l’Accolti – il Bibbiena? (esiste il trattato) – vecchi libri di architettura, su San Pietro, sui Palazzi Romani, sui Palazzi Genovesi (del Rubens), i volumi sulle Fabbriche più cospicue di Venezia
(che in verità ho visto presso Gabriele Ferraris)»54. Fondamentale,
dunque, fin dagli anni giovanili, è il rapporto coi libri e quel desiderio
di creare una Biblioteca che si realizzerà nel corso degli anni, in cui i
libri d’architettura degli Antichi Maestri occuperanno un ruolo significativo. In un appunto da Venezia del 1969, Tomaso redige il catalogo dei suoi libri d’architettura d’elezione: «Ho guardato a San
Giorgio il catalogo dei libri di Architettura delle università americane
/ se dovessi fare il catalogo dei miei? / Palladio / Serlio / Pozzo /
[Antonio] Visentini55 / Zannini56 / Vignola / Guarini»57. Un anno dopo,
nel consueto foglio sparso dal titolo Libri alla Scarzuola datato
19.10.1970 Roma, Buzzi an: «nell’Architettura: su Michelangelo / sul
Borromini, Piranesi / Palladio / sui Teorici – sul Disegno: scalette del
braccio nuovo – sulla Prospettiva: locale sotto al Piranesi ecc.»58.
Due anni dopo, la sezione di architettura nella Biblioteca della Scarzuola ha assunto definitivamente il titolo di “Maestri dell’Architettura”: «Nel locale dei Maestri dell’Architettura, con i libri più di valore
come il Serlio, il Vignola, il Palladio, il Vitruvio ecc., ricordare il principe dei bibliofili, l’amico De Marinis59 col suo ritratto, le sue lettere,
ecc., i disegni che lo rappresentano, ecc.»60.
Quali, allora, gli Antichi Maestri di Tomaso? Poco Vitruvio (certamente il trattato, come quasi d’obbligo, nella Biblioteca, e forse solo
un disegno a lui ispirato61) (fig. 112), moltissimo il Serlio e lo Scamozzi
(fig. 113), poi il Palladio, il Borromini (in un appunto esplicitamente
contrapposti, come vedremo), Michelangelo, il Sammicheli (figg. 114116) e il Longhena, pochissimo il Filarete62, il Peruzzi63, Raffaello64, praticamente “rimossi” il Brunelleschi65 e il Bramante66 e, infine, il convitato di pietra, l’Alberti. Il Serlio è, fra tutti, certamente il più “esposto”,
fino ad arrivare a una sorta d’identificazione per la comune sfortuna
critica; l’Alberti il più “nascosto”, ma, forse, come detto, una delle
“anime” più affini a Buzzi. Come si può re, quasi tutti appartenenti al
cosiddetto Manierismo (termine, come sappiamo, che tanti scheletri
storiografici si porta nell’armadio). I loro disegni sono quasi tutti raccolti nel fascicolo n. 7: “Repertori. Grandi architetti del passato” del
Settore Arti Applicate alla Scarzuola. Tra questi Grandi, compaiono disegni da opere di Giulio Romano (figg. 117, 118), del Buontalenti (fig.
119) e dello Zuccari 67 (fig. 120).
Dunque Sebastiano Serlio. La prima attestazione dell’interesse di
Tomaso per l’architetto bolognese è nell’articolo Trascrizione moderna di un antico disegno secondo l’Arch. Tomaso Buzzi, apparso su
«Domus» (fig. 121). Il diletto della lettura del suo trattato (come di
tanti altri del nostro Rinascimento), va oltre il semplice piacere dato
dai classici, perché può sfociare nella scoperta di una sorta di “attualità” di quei progetti: «Avviene spesso, a più d’uno di noi, che pur
non passiamo il tempo a volger vecchi libri, di aprire con vigile interesse i nostri antichi trattati di architettura; e il loro testo e le loro tavole non mancano mai di offrirci, con nuove ragioni di ammirazione,
quel compiuto diletto che la lettura dei classici suol dare.
Inedite alcune, tutte rare o malnote, sono le opere scritte dai nostri
grandi architetti del passato: sì che m’è parso opportuna cosa richiamarmi ad esse e, prima ancora che una ricorrenza centenaria dia, anche a noi, il destro di ristampare alcune delle lor pagine, ho voluto iniziare la pubblicazione di alcuni loro progetti, scegliendoli fra quanti mi
111
Antichi maestri
«Il mio Angelo custode, prima della mia nascita il 30 settembre 1900
avrà avuto cura d’anime: se, come io penso, per una sorta di specializzazione l’Ufficio collocamento dell’Aldilà sceglie gli angeli custodi e questi non ci vengono dati casualmente, ma secondo le loro specifiche qualità adatte alla nostra personalità, posso credere, senza peccare d’umiltà, che il mio è un po’ un Angelo se non d’eccezione abbastanza perito e specializzato, e che, anche in passato ha avuto analoghi incarichi.
Quando, pertanto, scopro, nelle mie letture, delle strane somiglianze (che mi colpiscono) fra me e alcune anime del Passato, delle
identità di vedute, di inclinazioni, di situazioni, di comportamento, di
reazione, ecc. e che, attraverso di Lui, mi venga come una parentela
con questi morti, un’eredità spirituale, una tradizione, una continuità
morale, una vera e propria discendenza ideale: come se l’angelo custode mi portasse non il contagio dei loro vizi e l’immagine luminosa
delle loro virtù, ma le cure già sperimentate con loro, gli strumenti e
le medicine adatte, la pratica medica, l’assistenza e il conforto necessari, la comprensione se non l’indulgenza…»48.
Certamente, tra queste anime affini, l’angelo custode di Buzzi
aveva accompagnato in passato qualcuno degli Antichi Maestri con
cui Tomaso si intrattiene, quasi esclusivamente, per tutta la sua vita
professionale. Non un solo nome, oltre a un raro elogio di Gio Ponti49
ante rottura, si può rintracciare, infatti, negli scritti di Buzzi, che indichi una qualche affinità con architetti contemporanei: sugli antichi
maestri, soltanto, sui loro libri e sulle loro opere, Tomaso ha costruito
il suo immaginario architettonico, fin dagli intensissimi anni di apprendistato quando, dal padre, mancato ingegnere, ma abile disegnatore, apprende quell’arte del disegno d’architettura che Buzzi
porterà a livelli di straordinario virtuosismo. È Tomaso stesso a ricordarcelo in un suo appunto: «Mio padre che, senza essere un cultore, aveva però frequentato il primo anno di ingegneria, disegnava
benissimo e dipingeva in gioventù, si intendeva di costruzione per
aver seguìto certi lavori (la costruzione di parte dell’ospedale da lui
diretto, o delle opere dei nonni, del padre e dello zio ecc.)»50. La Bildung buzziana si svolge tra viaggi e libri d’architettura ereditati dal
prozio, di cui restano testimonianza i numerosissimi disegni riprodotti nei suoi cahiers51. Osservando le date che Buzzi quasi sempre
an in calce sulla destra dei fogli vien quasi da chiedersi come sia
stato possibile disegnare tanto nell’arco di una sola giornata. Il pensiero non può che andare alla famosa pagina dell’Alberti – uno degli
antichi maestri meno citati ma più presenti nel mondo di Tomaso –
del VI libro del De re ædificatoria: Nihil usquam erat antiquorum operum, in quo aliqua laus elucesceret, quin ilico ex eo pervestigarem, siquid possem perdiscere. Ergo rimari omnia, considerare, metiri, lineamentis picturæ colligere nusquam intermittebam, quoad funditus,
quid quisque attulisset ingenii aut artis, prehenderem atque pernoscerem52. È ancora Buzzi che ci ricorda quei testi di formazione: «Ar-
111 Senza titolo, disegno a matita.
112 Vitruvio, 1511, disegno a matita.
60
113 Alla Rocca Pisani, 16.10.1968, acquerello.
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114 Villa Caldogno in Caldogno MDLXX
[di Michele Sammicheli], disegno a matita.
115 Prospetto esterno della Porta Nuova
in Verona (Sammicheli) [Ronzani e Luciolli],
disegno a matita.
62
116 Prospetto esterno Porta S. Zenone
in Verona (Sammicheli) [Ronzani e Luciolli],
disegno a matita.
117 Esterno [di palazzo Te], disegno a matita.
118 Palazzo del Te a Mantova. Interno,
disegno a matita.
119 Porta del Buontalenti sotto il portico
degli Uffizi, disegno a matita.
120 Facciata rustica del casino degli Zuccheri,
disegno a matita.
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paion più significativi per bell’arte di composizione, o più interessanti
per trovate ingegnose, o più pregevoli per franchezza di stile.
Così vivi e sani e pieni di autorità sono i precetti dei nostri classici
dell’architettura, che essi hanno sempre risonanze profonde nei nostri
spiriti moderni; e i loro esempî possono essere ancora utilmente seguiti, sol che si pensi non essere la nostra vita così profondamente mutata, come taluni credono, per i progressi dell’igiene o della tecnica»68.
Fondamentale, soprattutto, è comprendere lo scopo che Buzzi si
prefigge con quest’operazione. Né gusto archeologico o revival, né
“realizzazione differita”, ma volontà di “traduzione moderna” degli
elementi Zeitlosen, per così dire, presenti nel progetto del Serlio:
«Questo lavoro mi son permesso, nel trascrivere alcuni progetti di
case all’italiana, non per spasso di architetto curioso d’esperienze, né
per dimostrare, se pur ve ne fosse ancora bisogno, che i nostri architetti del buon tempo antico sapevano far bello e comodo a un tempo,
in una linea di schietta italianità; e neppure, lontano da me soprattutto un’idea simile, per proporre da costruire ai giorni nostri un progetto del ’500. Nel presentar oggi la quarta fra le case di campagna
ideate dal Serlio, ho voluto solo senza ardir di modificarne troppo la
pianta, tradurla in linguaggio moderno, per render chiare a tutti le
doti, che la fanno veramente nostra e adatta a una vita attiva, piacevole e quieta, ove il lavoro si compia in raccolta solitudine di spirito, lo
svago si passi in socievole compagnia, il riposo si goda in serena contemplazione»69. Lo stesso avverrà con la seconda trascrizione di un
altro progetto del Serlio70 (fig. 122). Ma la vera e propria identificazione di Tomaso col Serlio è esplicita soltanto in due fogli volanti di
trenta e quarant’anni dopo quel primo “incontro”. Nel primo, Buzzi ripensa, con malinconia, «al destino di Sebastiano Serlio, che è così
poco conosciuto come architetto e meriterebbe molto, che ha lasciato il suo nome all’arco Serliano e del quale quasi non resta un’architettura, se non forse a Fontainbleau? Fontanabegliò come scrive il
Cellini». E si chiede: «Varrebbe la pena che io lo studiassi e scrivessi
di lui? Sarebbe un po’ mio destino, poiché di lui mi sono occupato fin
dagli inizi, e ho disegnato dal suo libro particolari di porte, di palazzi,
delle scene teatrali e ho ripreso dai suoi progetti. Poi ho comperato la
sua opera e, prestata a Guido Visconti, duca di Grazzano, non mi è
più stata restituita e lui è morto ad Al Alamein, e poi me l’ha resa la
sorella Nane, e poi me ne ha regalato una bella edizione, che faceva
parte della libreria Landau-Finaly, De Marinis71, ecc.»72.
Nel secondo foglio volante, scritto a distanza di un lustro, Tomaso si
spinge ad affratellare il Serlio e se stesso in un comune “infelice destino”, quello di non aver visto realizzate gran parte delle sue/loro migliori “Invenzioni”, e di averle dovute “uccidere”, pubblicandole sulle pagine di un libro. E la malinconia di Buzzi si raddoppia nella certezza di
non riuscire nemmeno a scrivere quell’“elogio” del Serlio in un libro
compiuto, che forse, come tanti suoi progetti, non rimarrà che al livello
di schema (ma, come sappiamo, nemmeno a questo): «Ho trovato fra
i miei libri alla Scarzuola un vecchio Elogio di Sebastiano Serlio Bolognese che ho comperato tanti anni or sono, con l’idea di scrivere sul
Serlio, architetto fra i maggiori del suo tempo, che ha avuto un po’ lo
stesso infelice destino mio, di non veder eseguite che pochissime delle
sue Invenzioni, e che ha dovuto ucciderle e pubblicarle nei suoi Cinque
libri dell’Architettura, di cui ho almeno due belle edizioni […].
Il proposito di scrivere un vero libro sul Serlio non potrò mai (forse)
portarlo a termine: dovrei almeno scrivere delle pagine, uno schema,
studiando le opere serliane in Francia (poco è rimasto), ecc. ecc.»73.
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121 Abitazione di campagna secondo il Serlio,
disegno a matita, da Trascrizione moderna
di un antico disegno secondo l’Arch. Tomaso
Buzzi, in «Domus», I, n. 12, 1° dicembre 1928,
p. 21.
122 Abitazione di campagna secondo il Serlio,
disegno a matita, da Antico progetto
d’architettura trascritto da Tomaso Buzzi,
in «Domus», II, n. 2 [14], 1° febbraio 1929, p. 15.
A distanza di soli tre anni, davanti a modellini tratti da quelle opere
“uccise” del Serlio (e dello Juvarra, del Vanvitelli e dei Bibiena), Tomaso si prenderà la sua vendetta sulla “malignità dei tempi”, ricordando come tutte le “Invenzioni” mai realizzate sono confluite in
quella “città dei sogni realizzati” che è la Scarzuola: «A San Giorgio la
mostra di disegni teatrali con modellini tratti dalle stampe (dal Serlio
allo Juvara e al Vanvitelli attraverso i Bibiena ecc.). Ho pensato, una
volta di più, al mio destino (mancato) di architetto teatrale e a quella
sorta di vendetta che mi sto prendendo, finalmente, alla Scarzuola,
esponendo i miei disegni e progetti e costruendo nei varî palcoscenici
e nelle architetture annesse quel che non ho mai potuto “realizzare”
nella mia lunga carriera di architetto, per la malignità dei tempi, e per
la mancanza di fantasia, di grandezza, ecc. dei committenti»74.
Anche Vincenzo Scamozzi è un amore di gioventù. Alle sue architetture progettate a Sabbioneta, Buzzi dedica addirittura tre lunghi
articoli pubblicati su «Dedalo», che restano i suoi unici esercizI di
storico dell’architettura75.
Lo Scamozzi viene letto da Tomaso quasi esclusivamente sub
specie theatri. Al teatro all’antica di Sabbioneta (figg. 123-127) è dedicato, infatti, il primo dei tre saggi (a sottolineare una precedenza e
una preferenza). Addirittura, nel paragone con l’Olimpico e col teatro
Farnese, il teatro scamozziano ne esce vincitore, anche se inspiegabilmente “dimenticato” e in attesa che «gli sia riconosciuto il posto
che si merita»: apparentemente «il teatro di Sabbioneta non può
competere certo in magnificenza con l’Olimpico né in grandiosità col
Farnesiano; pure, accanto alle due fabbriche superbe, esso può affermare caratteri suoi propri di nobiltà, poiché costituisce il termine
di passaggio fra quelle due. Mentre infatti si ricollega strettamente
all’opera palladiana per la purezza delle linee architettoniche e decorative, precede, nella disposizione della pianta e in molti particolari dell’alzato, il teatro dell’Argenta, e prelude già alla forma del teatro moderno, quale poi si sviluppò per opera dei Bibbiena e del Piermarini»76; in realtà, come Buzzi scriverà alla fine del suo saggio, in un
serrato confronto tra l’Olimpico e il teatro di Sabbioneta, quest’ultimo apparirà costruito «secondo leggi più rigorose e più vicine all’antico, più consone ai precetti vitruviani», dunque, in conclusione,
«più moderno dell’Olimpico e più di questo pieno di germi fecondi»77.
Ma lo Scamozzi è letto anche nell’ottica della vanitas punita78. Tomaso si dichiara stupito della damnatio memoriæ che ha colpito il
teatro di Sabbioneta e la interpreta come una sorta di vendetta della
Storia contro il troppo smodato desiderio di Fama del suo autore:
«Par quasi di vedervi una di quelle vendette della posterità, intesa a
punire lo Scamozzi del suo smisurato amore di gloria, che gli faceva
talvolta disconoscere, per l’eccessiva stima del proprio valore, i meriti
del suo grande predecessore [scil. il Palladio]»79. Buzzi non tralascia
di sottolineare continuamente l’ingens gloriæ cupiditas di Vincenzo:
oltre al compenso in denaro per la sua opera, «lodi e onori quanti egli
amava riceverne»80; e, come se non bastasse, lo Scamozzi vi aggiunge del suo, autocelebrandosi, come nel caso della dedica ai Vicentini del teatro Olimpico, di cui in pratica rivendica a sé, in toto, il
merito della costruzione. Uno Scamozzi che, è sempre Tomaso a scriverlo, raggiunta una «fama ormai universale», accettava «lavori in diverse parti d’Europa [...] per l’amore di gloria che l’accendeva».
Ma Buzzi, al tempo stesso, deve essersi identificato molto con lo
Scamozzi, per non essere nemmeno la sua opera omnia sfuggita a
quel peccato di vanitas, punita da posteritas con l’averla condannata
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123 Il teatro di Sabbioneta, disegno a matita
(foto del rilievo).
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124 Il teatro di Sabbioneta (V. Scamozzi).
Veduta dell’esterno, 26.3.1926 Sabbioneta,
disegno a matita.
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allo stato di frammento: di ciò Tomaso si rende perfettamente conto
in molti passi del suo immenso Zibaldone di pensieri: «Che bisogno
ho di scrivere gli abbozzi dei miei libri, sperando un giorno di portarli
a termine? Desiderio di notorietà o di gloria? Non certo per il momento, perché mi accontenterei di averla postuma»81. E ancora: «In
fondo, che cosa desideravo, fin dall’adolescenza? Come Stendhal di
lasciare Grenoble, io sognavo di lasciare Sondrio, di farmi una posizione, a Milano principalmente: sognavo la gloria artistica o qualcosa
che le si avvicinasse, cioè il successo, la notorietà, le donne, la posizione mondana (con un certo snobismo, debbo confessarlo), l’eleganza, gli agi e le delicatezze della vita.
Pensavo veramente, fermamente, ad avere una bella casa, dei begli
oggetti, dei quadri? Ho mai pensato ad una moglie bella, elegante, di
classe, ad una famiglia di acquisto, importante? Ad una famiglia mia,
con figli, nuore e generi, nipotini? Alla ricchezza, alla autorità, al prestigio sociale ho mai teso la mia volontà? Bisogna che mi esamini bene.
Alla rinomanza letteraria?»82.
Proprio Buzzi, infatti, come lo Scamozzi col Palladio, non rinuncia
a paragonare la sua Scarzuola ai famosi teatri costruiti «in epoche
più felici», rivendicando alla fine, per la sua Scarzuola, attraverso un
confronto serrato addirittura con l’Olimpico e l’amato “Antico” di
Sabbioneta del suo Scamozzi, il primato sopra tutti: «Quando sono
portato a confrontare quello che, con mezzi modesti e in “epoca
prava” io cerco di creare, con quanto in epoche più felici, e con
grandi mezzi hanno tentato altri, devo, salvo la modestia, concludere
che qualcosa ho potuto ottenere anch’io. Alla Scarzuola [...] l’assieme del mio Teatro non ha confronti: perché fra i teatri privati
(quello Olimpico di Vicenza è di una accademia) solo il farnesiano a
Parma e prima quello di Sabbioneta non sono come il mio.
La conflagrazione di un teatro all’Aperto e di un teatro al chiuso: le
loro 3 scene sono cieche, mentre le 2 mie sono all’aperto, con una
parte fissa che è più variata che non quella di Vicenza e di Sabbioneta:
il mio Teatro, in più, ha il teatro d’acqua, cioè un prospetto regio, monumentale. Dei ninfei (3 abitabili), l’orchestra che è al tempo stesso Palestra con la sua cavea, il sottoscena che accoglie le piccole Terme con
spogliatoio, un’ala che è Paggeria e Parnaso (a destra) e a sinistra Biblioteca e Foresteria, e sala di musica (degli orchestranti), e Museo e
Patio dell’Infinito [...] Dietro v’è la piscina per naumachie, con l’arca di
Noè, il padiglione di Flora, la sua gradinata e il [rigetto] di verde.
In sostanza v’è più varietà, più ricchezza di idee e fantasia che
non in tutti gli altri»83.
Sabbioneta, infine, è il sogno realizzato di Vespasiano Gonzaga della
Città ideale. Come non pensare che Tomaso non se ne sia ricordato per
la sua Scarzuola? Se, infatti, «il Teatro è certamente, in Sabbioneta, l’opera di architettura più notevole», se, significativamente, è quella che
occupa, nel disegno di Vespasiano, «il posto d’onore, nel cuore della
città»84, non è certo «l’unica, ché il Duca nulla aveva trascurato per fare
della sua capitale una città modello, secondo la concezione del suo
tempo, nel quale progettavano “città ideali” architetti come l’Ammannati, Giorgio Vasari il giovane, e lo stesso Scamozzi». Ma, a differenza
degli architetti summenzionati, che eran rimasti al livello della teoria,
allo Scamozzi «le scene di Vicenza e di Sabbioneta avevano dato modo
di concretare, in scala ridotta, le sue concezioni architettoniche per
gli edifici di un’intera città»85, come sarà, alla fine, Sabbioneta.
Sabbioneta, infatti, fu ridisegnata, dietro intervento diretto del suo
signore, nonché «ingegnere militare valente»86, come capitale del pic-
126
127
125 Interno del teatro con vista sulla scena.
Schizzo di preparazione, disegno a matita.
66
126 Interno del teatro con vista sulla scena.
Disegno prospettico, disegno a matita.
128 Progetto per il concorso del Pensionato
Artistico di Architettura, 1925-26, disegno
a matita e pastello. Vi si legge: «Tormentosi
tempi, 10.10.1925».
127 Il teatro di Sabbioneta. Spaccato della
scena (dal disegno dello Scamozzi agli Uffizi),
13.6.1926, disegno a matita.
129 L’angelo del Risveglio, disegno a biro.
Vi si legge: «una sorta di “jambage” / Angelo o
Diavolo Custode» e «Ricordare il Caravaggio».
67
colo ducato nelle forme di «una città modello»87. Vespasiano, «prima di
tradurla in atto – immagina Buzzi –, vagheggiò a lungo il suo sogno»88:
come non leggervi, ancora, delle precise assonanze autobiografiche?
Il Palladio vs. il Borromini? «Nell’inventario della casa del Borromini / v’era un busto di Seneca e 1 di Michelangelo / e una rappresentazione della Tomba di Michelangelo / a dimostrare, certo, la sua
/ passione per Michelangelo // io pure vorrei avere alla Scarzuola /
un ritratto del Borromini / e uno del Palladio / 2 poli opposti fra i /
miei maestri / già nel 1925 nel mio progetto / per il Pensionato89, era
evidente, / l’influenza del Borromini»90 (fig. 128).
Andrea Palladio e Francesco Borromini, i due opposti Maestri.
Eppure, entrambi essenziali. Una conferma in più, se ce ne fosse bisogno, del “manicheismo” buzziano, del gusto degli opposti, della
contraddizione costruttiva, come riconosce lo stesso Tomaso in un
appunto del 1975, dichiarando la sua familiarità sia con l’Angelo che
con il Diavolo Custode (fig. 129) – il «mio più fedele nemico» –,
«una coppia indissolubile, sempre presente (nella mia concezione
manichea)»91.
Quale l’Angelo e quale il Diavolo? Se guardiamo alla storia della
fortuna critica non possiamo avere dubbi. L’incontro di Buzzi con
l’angelo Palladio avviene molto presto, addirittura sul primo numero
di «Domus», con l’Invito ad un viaggio92. Se nell’incipit Tomaso sembra riconoscere agli Antichi, nel campo della progettazione della
“villa”, una netta superiorità sui Moderni – «se ne possono noverare
in Italia, con i più antichi, anche i più begli esemplari, dappertutto e
in ogni tempo imitati e mai superati»93 –, questo primato, fra tutti gli
Antichi Maestri, spetta al Palladio, «creatore di un tipo caratteristico
di villa, dal quale è nata una magnifica fioritura di fabbriche, costruite tutte, anche nei secoli successivi, con notevole continuità e
omogeneità di carattere»94. In questo, il Palladio ha seguito fedelmente le tracce di altri Antichi Maestri, «ché la villa palladiana è concepita, alla maniera latina, come un organismo di cui fan parte l’edificio per l’abitazione signorile e quelli destinati agli usi agricoli. [...]
Un sereno riposo è dunque quello al quale è destinata la villa, non
privo di occupazioni gradite, che corrisponde al classico “otium cum
dignitate” dei Romani». Ma il tempo del Palladio si può “recuperare”.
Per questo Buzzi disegna la tavola con l’itinerario delle ville palladiane, ispirata, a sua volta, alle «antiche guide destinate ai fedeli visitatori dei Santuari e dei Sacri Monti»95 (figg. 130-132), per reiterare,
una volta di più, «l’invito ad un pellegrinaggio, come quello che architetti, studiosi e amatori di tutti i paesi hanno compiuto in passato,
ogni volta che nell’indirizzo dell’arte si è avuto un ritorno a Palladio».
Quel revival, per Tomaso, è di nuovo attuale, perché «oggi, come allora, ci si volge alle ville palladiane con amoroso interesse per l’acuta
intelligenza che ne ha ispirato la concezione esemplare e ne ha retto
l’architettura, di una somma equilibrata bellezza»96, verrebbe da
dire, quasi sovrastorica (Zeitlos!).
Buzzi non si limiterà ad ammirare il Palladio, ma, ben presto, cercherà di “aguagliarlo” e, se possibile, “superarlo” (come si proporrà
Raffaello nei confronti degli Antichi). Ho già ricordato il paragone tra
la Scarzuola e il teatro Olimpico, da cui sembra uscir vincitrice la
prima, così come il confronto col grande Vicentino che Tomaso accetterà ristrutturando un’ala di villa Maser, su incarico di Marina
Volpi97. Ed è lo stesso Tomaso che, in un appunto del 1971, ricorda,
con evidente compiacimento, a proposito del suo progetto per la
scala di palazzo Cini a Venezia, il giudizio del sovrintendente Rusconi
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che «l’aveva considerata come una scala pura del ’500, quasi palladiana»98. Ma omaggi al Palladio sono anche il progetto di villa Volpi a
Sabaudia nonché i portici a colonne bugnate dei giardini pensili di
Babilonia (fig. 133), esplicito omaggio al cortile porticato della nonfinita villa Sarego a Santa Sofia di Pedemonte (fig. 134).
Del “diabolico” Borromini, oltre l’esplicito rimando del progetto
del Pensionato, resta, oltre a qualche disegno99 (fig. 135), come ulteriore omaggio, la celebrazione in quel Parnaso dell’architettura, che
è l’Acropoli-Sacro Monte della Scarzuola: lì, accanto al Partenone, al
tempio di Ercole vincitore (che Buzzi indica come tempio di Vesta),
alla piramide di Caio Cestio, al Colosseo, al Pantheon, a un obelisco,
a un arco di trionfo e alla torre dell’Orologio di Mantova, spicca il cupolino di Sant’Ivo alla Sapienza (fig. 136). Ma altre citazioni borrominiane sono rintracciabili alla Scarzuola: a cominciare dall’Ape barberiniana100, presente in Sant’Ivo e nel Collegio di Propaganda Fide
(figg. 137, 139), che compare sulla porta dell’Ape regina (fig. 138),
ingresso della Casa-stemma; così come le stelle multipunte sparse
un po’ dappertutto che sono prese ancora dal Sant’Ivo.
Dante, Sammicheli e Piranesi: cosa unisce, per Buzzi, questi tre
Maestri, così apparentemente diversi tra loro? Nient’altro che l’Arsenale di Venezia. Quell’Arsenale a cui Tomaso ha lavorato, per il restauro
dell’ingresso, dal 1970 al 1978, come membro della commissione artistica assieme a Giulio del Balzo e a Bruno Molajoli101 (fig. 140). Questa,
in breve, la vicenda. A seguito dell’appello di Indro Montanelli, l’Avviso
per Venezia, apparso sul «Corriere della Sera» del 5 marzo 1970, del
Balzo propone alla Società Dante Alighieri di adottare «una zona di
quell’“Arzanà de’ Viniziani” del quale Dante aveva cantato il ribollire
della “tenace pece” e che Galileo aveva evocato nei suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche»102. Del Balzo pensa a due “saggi” per portare
a termine i lavori: a Bruno Molajoli, ex capo della Direzione Generale
delle Belle Arti e, appunto, Buzzi (definito, in realtà, più che un “saggio”,
un “ispirato”). «Così, per otto anni, quasi ogni mese fra il 1970 ed il
1978, viaggiammo assieme, in treno e in aereo fra Roma e Venezia, discutemmo insieme per intere giornate su piani e progetti, percorremmo insieme, infinite volte, le darsene, i rii e i rielli dell’Arsenale»103.
Come risultato a latere di tutto quel lavoro, Tomaso produrrà una serie
di schizzi, incisioni e dipinti (che legherà alla Fondazione Giorgio Cini),
«sintesi disordinata e geniale» di «statue e capitelli, leoni e maschere,
arcate e darsene e padiglioni»104. Una parte di quelle opere verrà esposta in occasione dell’inaugurazione della sede veneziana della Dante
Alighieri il 14 dicembre 1977105. Stefano Rosso-Mazzinghi, rievocando
quelle opere, ha sottolineato gli evidenti rimandi con le Carceri piranesiane, come pure ha suggerito che, a sua volta, il Piranesi deve avere
trasposto negli spazi labirintici di quelle incisioni il ricordo degli ambienti dell’Arsenale106. Non so se sia una coincidenza, ma tutto questo è
quanto afferma Buzzi in due frammenti scritti a Venezia il 7 e l’8 settembre 1972 riguardanti il soggetto del Bucintoro nella sua “tana”. Se
nel primo è ipotizzata la derivazione delle Carceri dalla spazialità dell’Arsenale, colto dalla prosa buzziana in tutto il suo aspetto di mondo
infero (e, infatti, puntuale è l’accenno all’“Arzanà dei Venitiani” dantesco)107; nel secondo Tomaso si interroga sul miglior modo di rendere
teatralmente la scena (né visione frontale, né di scorcio alla Bibiena),
indicando come soluzione il ricorso agli elementi architettonici del Sammicheli, di Longhena (la cui Salute Buzzi amerà incondizionatamente
disegnandola, come visto, più volte e citandone le arricciate volute nell’ingresso degli Inferi alla Scarzuola) (figg. 66, 141-144) e all’“armamen-
132
130 131 Sacro monte di Varese, quinta e ottava
cappella, disegni a matita.
132 Sacro monte di Varese, terzo arco
di trionfo, disegno a matita.
133
134
133 La torre di Babele, La Scarzuola (Terni).
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134 Andrea Palladio, villa Sarego, Santa Sofia
di Pedemonte (Verona), 1569-80.
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135 La Sapienza, Roma (Borromini), disegno
a matita.
136 Il cupolino di Sant’Ivo alla Sapienza
nell’Acropoli, La Scarzuola (Terni).
137 Giacomo Della Porta, Le api nell’attico
del cortile della Sapienza, Roma.
138 L’ape regina sulla porta omonima,
La Scarzuola (Terni).
139 Francesco Borromini, L’ape sulla cornice
della finestra del Collegio di Propaganda Fide,
Roma.
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tario” utilizzato dalla fantasia piranesiana108. Svincolandosi ancor più da
questi schemi, Tomaso produrrà infine alcuni disegni conservati in un
quadernetto alla Scarzuola, dove il Bucintoro, liberatosi dalla “prigione”
della sua tana, arriverà addirittura a “volare”109 (fig. 145).
«...senza dire di Ledoux». La figura di Claude-Nicolas Ledoux110 è
certamente un po’ eccentrica nel panorama buzziano degli Antichi
Maestri. Per il fatto, anzitutto, di non essere così antico (ma nello spirito dello Zeitlos cosa può dirsi “più antico”?), e di non far parte di quel
periodo che ruota attorno al Cinquecento, cui appartengono, come
abbiamo visto, la gran parte dei Maestri. Una cosa, però, accomuna
l’architetto francese ai colleghi della Maniera italiana: quel gusto per
l’assemblaggio, per l’accostamento inusitato del grande e del piccolo,
dell’asimmetria, temi già magistralmente evidenziati, a suo tempo, dagli studi di Emil Kaufmann. Significativamente, il primo libro dello studioso tedesco, Von Ledoux bis Le Corbusier, del 1933111, fa parte della
Biblioteca di Buzzi (e tuttora è custodito nell’archivio). Paradossalmente, alla Scarzuola, il nome del Ledoux va posto accanto a quello
dell’autore dell’Hypnerotomachia Poliphili, come sappiamo, uno dei testi d’elezione di Tomaso, e fonte d’ispirazione per il progetto della Città
buzziana112. Fors’anche più dell’autore del testo, l’enigmatico e “duplice” Francesco Colonna, è da annoverare tra gli Antichi Maestri di
Buzzi l’ignoto autore delle splendide xilografie, che Tomaso ha riprodotto in una serie di grandi fogli. Ma dove sta il rapporto? Proprio in
una delle più belle invenzioni della Scarzuola, che Buzzi non può aver
tratto dall’infolio manuziano: la barca di Poliphilo: «È curioso – an Tomaso in un foglio volante113 – come certe ammirazioni giovanili ritornino a fiorire nella maturità e nella vecchiaia con novello vigore. Ad
esempio, la mia passione per il Poliphilo, che mi interessa molto soprattutto per le illustrazioni, silografie del primissimo cinquecento, che
ho disegnato e studiato, oggi mi pare riviva e si sia incarnata, meglio
dire impietrata nella mia barca, che potrei chiamare di Poliphilo» (fig.
146). Modello esplicito d’ispirazione è stato, con ogni probabilità, il progetto del Ledoux per la Patache de la Rapée (fig. 147), una delle più
stravaganti fra le porte daziarie di Parigi (ma fors’anche le barche “impetrate” che formano i piloni del ponte sulla Loüe, nel progetto per la
città di Chaux). Nel volume del Kaufmann, inoltre, è riportata l’illustrazione della maison-colonne del Désert de Retz di François Barbier e
François Racine de Monville (fig. 148), il proprietario, probabile fonte
d’ispirazione per i “rocchi di colonna” dorici (figg. 149, 150) lungo le
Mura della Città (sull’esterno del teatro dell’Infinito, del Non-Finito o
del Corpo Umano) e per la torre della Meditazione alla Scarzuola114 (fig.
151). La centralità del Ledoux, infine, e soprattutto, è evidente nella citazione che Buzzi fa del famoso “occhio” – quel Coup d’œil du Théâtre
de Besançon115 (fig. 152) (che fa bella mostra di sé, oltre che all’interno,
anche sulla copertina del volume di Kaufmann) – (fig. 153) posto al
centro della scena del Teatrum Mundi della Scarzuola116 (figg. 154, 155),
nonché nella probabile citazione del fallico117 oikema – la casa delle
passioni in cui imparare, attraverso i pericoli del vizio, la virtù matrimoniale – (anch’esso testimoniato nel libro del Kaufmann) citato nel
teatro dell’Infinito, del Non-Finito o del Corpo Umano alla Scarzuola
(fig. 156) (una caverna fallica, inoltre, era prevista anche dietro il mascherone della fontana del Popolo) (fig. 157). Ma tutto il progetto della
ledouxiana città ideale di Chaux può essere visto, assieme alle tante
città ideali rinascimentali, come sottofondo della Scarzuola, nell’ottica
dello Zeitlos, dell’annullamento del tempo e delle differenze fra le epoche, che è proprio del pensiero di Tomaso.
143
140
141
140 Inaugurazione dei restauri [all’Arsenale
di Venezia], 16.11.1974 Venezia, disegno
a biro acquerellato a china.
141 Il Santo Padre alla Salute, 16.9.1972,
disegno a biro acquerellato.
74
142 Interno della Salute per la visita del papa,
9.10.1973 Venezia, disegno a biro acquerellato.
142
143 Baldassarre Longhena, Santa Maria
della Salute, particolare delle volute.
144 Volute dell’ingresso agl’Inferi,
La Scarzuola (Terni).
145 Veduta notturna dell’Arsenale / Come
fantasmi del passato / idea per l’Arsenale,
1973 Venezia.
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146 La barca di Polifilo, La Scarzuola (Terni).
147 Claude-Nicolas Ledoux, Patache de la
Rapée, progetto di porta daziaria sulla Senna.
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148 François Barbier, François Racine
de Monville, Casa-colonna, Désert de Retz,
Chambourcy (Yvelines), fine XVIII secolo.
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151
152 Claude-Nicolas Ledoux, Coup d’œil
du Théâtre de Besançon, da Architecture
de C.-N. Ledoux, a cura di Daniel Ramée,
Lenoir éditeur, Paris 1847, 2 voll., I, tav. 72.
149 Schizzo delle mura esterne
(verso est) della Scarzuola, con indicazioni
sul trattamento del verde, disegno a biro.
153 Emil Kaufmann,Von Ledoux bis
Le Corbusier. Ursprung und Entwicklung
der Autonomen Architektur, Verlag Dr. Rolf
Passer, Leipzig-Wien 1933.
150 Particolare coi “rocchi di colonna”
sulle mura esterne (verso est),
La Scarzuola (Terni).
80
151 Vista della torre della Meditazione
dall’interno della porta di Giona,
La Scarzuola (Terni).
81
154 Schizzo del Teatrum Mundi, 7.5.1967,
disegno a biro.
155 Schizzo della Camera dell’occhio,
7.5.1967, disegno a biro. Vi si legge:
«Camera dell’occhio dedicata a Francesco
Buzzi, grande oculista del 700 che operò
di cataratta G. Parini e che scoprì la Macula
Lutea, in suo onore intitolata Macchia del
Buzzi» e il motto «Sunt lacrimæ rerum».
156 Pianta del teatro dell’Infinito, del
Non-Finito o del Corpo Umano, con annotazioni
sul «Simbolismo alla Scarzuola», 6.12.1969,
disegno a biro.
157 Sezione e pianta della fontana del Popolo
alle pendici del teatro dell’Acqua, disegno
a biro.
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L’Alberti, infine, last but not least118. Anche lui, quasi assente dagli
scritti sparsi di Buzzi119 e poco presente nei suoi cahiers – “rimosso”
da Tomaso, come tutte le altre figure umane, dal disegno riproducente
l’affresco del Pinturicchio con la Dieta di Mantova nella Libreria Piccolomini di Siena120 (fig. 158). Avendo chi scrive già parlato della fondamentale presenza dell’Alberti nell’opera di Buzzi, non resta che aggiungere qui qualche breve riflessione sull’importanza degli emblemi
e dei motti rinascimentali nell’architettura buzziana. Com’è noto, Tomaso prende esplicitamente dall’Alberti la sua impresa: un occhio
alato (fig. 159), pur senza arrivare al punto di far suo anche il motto
«Qvid tvm»121 (fig. 160). Ma il gusto per l’emblematistica non è solo di
derivazione albertiana. Fin dai cahiers giovanili, Buzzi è attratto dai
motti; ne elenco qui alcuni, presi, appunto, dai suoi quaderni: «Mal
dire»122, «Merito et tempore», «Ardo et estingvo», «À bon droit»123, «El
sempre dovere»124, «Non me spavento»125, «Omnis lavs in fine canitvr»126, «Qvid inde»127, «MNHMONEYE»128 (fig. 161), «Espoir en soycy
et loavté»129, «majestate tantum»130. Accanto ai motti, gli emblemi, le
imprese, gli stemmi corrispondenti, di cui Buzzi offrirà più di una versione nei propri blasoni, collocati dappertutto alla Scarzuola131. Quel
gusto per l’invenzione araldica, di cui i disegni arcimboldeschi di Tomaso132 non sono che un’analoga manifestazione, gli è senz’altro venuto dalla frequentazione delle architetture del Cinquecento, come
ben testimonia una pagina del saggio sul palazzo Ducale di Sabbioneta in cui Buzzi descrive, con evidente compiacimento tassonomicolessicale, la straordinaria ricchezza decorativa dei soffitti intarsiati, dipinti e dorati del palazzo: «Sagome intagliate, ove si allineano perline,
fusarole, ovoli e dentelli, oppur si snodano girari di foglie, greche e
meandri, fasce dove campeggiano patere, mensole o borchiette, o si
inseguono festoni di frutta e di fiori fra mascheroni e nastri intrecciati,
girano attorno a lacunari in una ridda ininterrotta di intagli. E nei lacunari, come i capi in mezzo ad eserciti ben ordinati, spiccano i rosoni
trionfanti, a fogliami, a pigne, a trionfi di frutti, a grappoli d’uva, oppure
campeggiano gli stemmi, le imprese o le figurazioni araldiche»133. Ispirandosi a quegli stemmi araldici, Tomaso disegnerà, nell’antiporta del
Quattrova illustrato, edito nel 1931, le «armi di Quattrova», nonché le
«insegne della cuoca onorata e perfetta»: «tracolla del cordone blu,
collare delle bilancie [sic] per la misura, ordine della graticola per gli
arrosti, commenda della mezzaluna per le salse, eccetera»134.
152
153
La Scarzuola: l’emigrante, Adriano e l’ambasciatore
«Ho raccontato sere fa, in società, delle mie costruzioni nel giardino
alla Scarzuola, paragonandomi, per celia, all’emigrante che, ritornato
in patria, si costruisce, secondo dei paesi stranieri in cui ha soggiornato e i gusti dei tempi, lo chalet svizzero, l’isba russa, la pagoda cinese o il padiglione arabo o il giardinetto giapponese; o, all’estremo
opposto, al modo con cui l’imperatore Adriano, nella villa di Tivoli, ha
riunito, in un solo luogo la valle di Tempe, il canopeo, ecc. ecc., in costruzioni che gli ricordavano i paesi dove aveva soggiornato e che gli
erano stati cari: a metà distanza potrei porre quegli ambasciatori che
hanno riunito nelle loro case porcellane e icone russe, bronzi e lacche
cinesi, stampe giapponesi, sculture maya e messicane o peruviane,
totem africani, ecc.»135. Buzzi è stato spesso un emigrante (di lusso,
sugli aerei di Niarkos, Agnelli...136), ha progettato gli arredi per alcune
ambasciate d’Italia all’Estero e deve essersi sentito spesso come
Adriano, svelto a fuggire dalla mondana Roma per rintanarsi nel suo
rifugio. E la Scarzuola è, altrettanto, il luogo del pastiche storico per
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158 (Pinturicchio) Siena, disegno a matita.
159 Leon Battista Alberti (attr.), Impresa
con l’occhio alato recante il motto “Qvid tvm”,
disegno a penna, Firenze, Biblioteca Nazionale
Centrale, Cod. II.IV.38, f. 119 verso, XV secolo.
84
eccellenza, la via Appia piranesiana137, il gran teatro della Memoria di
ciò che è rimasto, nel fondo del setaccio, delle “Invenzioni” (anche di
quelle “uccise” sulla carta) degli Antichi Maestri. La Scarzuola andrebbe vista dall’alto, come un’icnografia: allora ci apparirebbe come
una piccola villa Adriana, un piccolo Campo Marzio piranesiano, con i
suoi incastri, con i suoi snodi (il circolo del tempio-teatro di Apollo
come il Teatro marittimo), ma anche come alcune piante di edifici ledouxiani. E ci apparirebbe un’altra delle fonti delle sue “manierate”
architetture: quel Giovan Battista Montano (figg. 162-164), le cui capricciose invenzioni all’antica, quelle “sperimentali aggregazioni”138
già pre-piranesiane, Tomaso ha non a caso ridisegnato in una serie di
fogli conservati alla Scarzuola139.
Nella Scarzuola tutto il percorso di Buzzi ha un termine e vien
messo in scena: senza alcuna preoccupazione filologica, anche se il
disegno generale esiste certamente nella mente di Tomaso, e qualche volta egli stesso ha pensato di fornircene il bandolo140. Adriano,
dunque, e non certo Tiberio, come Buzzi risponde a Lady Berkeley,
che aveva paragonato la Scarzuola a Capri: «Di Adriano mi piacciono
la poesia, i viaggi, l’eclettismo, la fusione di opposte qualità»141. Un’anima affine, dunque, dagli stessi gusti “manichei”. Tomaso ha disegnato poco villa Adriana – il Serapeo (fig. 165) e il geniale padiglione
a cielo aperto della Piazza d’oro142 –, ma probabilmente si è ricordato
del primo per il Ninfeo di Diana e Atteone alla Scarzuola (figg. 166,
167) (in cui è presente, probabilmente, anche una citazione delle finestre bugnate di palazzo Thiene) (fig. 168), nonché del tempio circolare (oggi privo di copertura), quando ha disegnato il suo teatro di
Apollo “a cielo aperto” (fig. 169). All’interno si eleva il cipresso colpito
dal fulmine (fig. 170) – che in uno schizzo datato 11.4.1970 Roma e in
un altro non datato assurge a gnomone di una meridiana solare (figg.
171, 172) – e dunque “sacro”143 (figg. 173, 174); nei cahiers, inoltre, c’è
un disegno giovanile che riproduce il cortile di Santa Croce a Firenze
con al centro proprio un “gran cipresso”144 (figg. 175, 176).
Ma altre fonti confluiscono nel Gran Teatro della Scarzuola.
Sabbioneta, innanzitutto, a chiudere il cerchio iniziato sulle pagine
di «Dedalo». Come Vespasiano Gonzaga con la sua “piccola
Atene” 145, così anche Tomaso costruisce, come rifugio dalle sue
“battaglie”, la sua “città ideale”: «Quanto più guardo la mia “Città
Buzziana”, più mi piace l’idea della “Città Ideale” come l’avevano
pensata gli architetti nel ’400 e del ’500 (ricordo la “Sforzinda” di
Antonio Averlino detto il Filarete, come è rappresentata nel suo
trattato d’architettura rimasto inedito), e rappresentata [da]i pittori del ’300, ’400, ’500»146 (fig. 177). Città ideale, anzi, di più: la sua
“autobiografia in pietra”.
Un altro parallelo è ipotizzabile tra la Scarzuola e il palazzo Ducale di Sabbioneta: non essendoci documenti sull’architetto del
palazzo, e visto che esso «non palesa l’intervento di un grande architetto, ma piuttosto quello di un committente che sa ben ordinare, che matura il progetto e lo decide prontamente»147, Buzzi
ama pensare che l’autore possa essere lo stesso Vespasiano:
«Tracciato o no dal Duca, il palazzo è la vera immagine del signore;
e un biografo cortigiano avrebbe potuto, senza troppi sforzi, istituire il parallelo fra la casa e l’uomo: quella robusta, senza gentilezze architettoniche, un po’ grossolana, ma di taglio nobile, ma
splendida di ori e di affreschi, e ricca di libri e d’opere d’arte, casa
che è reggia e museo assieme; questi rozzo, violento, uomo d’armi
soprattutto, ma di gran razza, ma ingentilito dalla cultura umani-
162
163
164
160 Il nero e il rosso. Disegni di Tomaso Buzzi
Architetto, disegno a china (collezione Pieri).
162 163 Dal Montano, disegni a matita.
161 Gemma antica / Ricordati, disegno
a matita.
164 Disegno da Giovan Battista Montano,
disegno a matita.
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168 Andrea Palladio, palazzo Thiene,
Vicenza, 1542-46.
165 Villa Adriana, Tivoli (Roma), vista
del Serapeo dall’emiciclo del Canopo.
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166 Ninfeo di Diana e Atteone, La Scarzuola
(Terni).
169 Vista del teatro di Apollo (a sinistra),
dell’Organo Arboreo col compasso alato –
fissazione alchemica del mercurio – e
dell’Acropoli (a destra), La Scarzuola (Terni).
167 Schizzo del Ninfeo di Diana e Atteone
con le Ore imprigionate dentro le colonne,
disegno a pastello.
170 Vista del teatro di Apollo dall’ingresso
dei giardini pensili di Babilonia,
La Scarzuola (Terni).
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173 Alberi sacri [dal Reinach], disegno
a matita.
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171 Il patio delle Sconfitte (non dei Trionfi),
schizzo dell’interno e della pianta del tempio
di Apollo alla Scarzuola, con al centro
il cipresso come gnomone della meridiana,
16.4.1970 Roma, disegno a biro.
174 Alberi sacri, disegno a matita.
172 Il patio delle Clizie e delle cicadelline,
schizzo dell’interno del tempio di Apollo
alla Scarzuola, col cipresso-gnomone,
disegno a biro.
176 Ciparisso, disegno a pastello.
Vi si legge: «Ciparisso prende radici fra
le gambe dell’amico» e «paesaggio classico
con rovine» (collezione Pieri).
175 Cortile di S. Croce (da un antico
quadro nel Museo dell’opera di S. Croce),
disegno a matita. Buzzi vi ha scritto:
«nel centro del pozzo vi è un gran cipresso».
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stica, e ornato per la consuetudine di letterati e di artisti; principe
che diceva poter l’uomo ottener fama pel mestiere dell’armi o per
l’esercizio delle arti, e queste e quelle a un tempo coltivava»148. Ma
ancor più che al palazzo Ducale, che è ancora, principalmente, abitazione, la Scarzuola è avvicinabile al palazzo del Giardino di Sabbioneta (come al palazzo Te di Mantova), che, più che semplice dimora, è vero e proprio “rifugio”, “via di fuga”, “luogo di delizia”. Ed è significativo che c’entri il “giardino”, perché, per Tomaso, questo non è
solo «uno dei tanti [...] regni» dell’architettura, ma «fra tutti forse il
più felice»149: «La disposizione planimetrica ci mostra essere l’edificio
non destinato alla vera e propria abitazione del Duca e dei famigliari,
ma piuttosto, com’è a Mantova il Palazzo del Te, un luogo di delizie,
offerto agli svaghi del principe, che vi si poteva ristorare lontano
dalle cure dello Stato, nel godimento delle bellezze della natura, che
il giardino offriva in uno spazio raccolto ed ornato, e nella contemplazione delle opere d’arte; in quel riposo che unico è degno di un
guerriero di cultura umanistica, e che corrisponde al romano “otium
cum dignitate”»150. Non è forse la Scarzuola, per Buzzi, il rifugio dalle
sue “pugne” di architetto “mondano”?
Ma non c’è solo Sabbioneta, naturalmente. La Scarzuola rende
omaggio anche a un altro committente-architetto, quel Vicino Orsini
il cui Sacro Bosco è chiaramente evocato nei tanti “mostri” della
Scarzuola (dal “mascherone” sotto il teatro dell’Acqua, la cosiddetta
fontana del Popolo151 (figg. 178-181), al mostro marino che rimanda a
Giona) (figg. 182, 183). Sacro, come forse un giorno sarà considerata
anche la Scarzuola. Poco dopo aver citato proprio «il bosco di Villa
Orsini a Bomarzo», Tomaso, infatti, aggiunge: «Può anche darsi che,
in futuro, se avrò fatto in tempo a concludere la Scarzuola sia visitata come un luogo Sacro?»152.
E, con Bomarzo, villa d’Este a Tivoli 153. Qui la vicinanza si fa altrettanto esplicita, con la citazione (oltre che delle erme della fontana dell’Organo replicate in quelle del teatro dell’Arnia) (figg. 184,
185) – nell’Acropoli (fig. 186) – della Rometta di Pirro Ligorio (fig.
187), curiosamente mai ricordato nello Zibaldone buzziano: «Per
anni, nei miei abbozzi per quadri, sono stato quasi ossessionato
dall’idea di dipingere delle “Romette”154 (fig. 188) e dei “Sacri Monti”
e, infatti, su questi soggetti ho moltissimi schizzi e disegni e parecchie variazioni dipinte. È curioso che, alla Scarzuola, quasi senza
volerlo, mi è stato possibile averle in pratica, e non in misura piccola
(come sarà il modellino del Sacro Monte), ma in misura abbastanza
grande, sì da poter abitare nei diversi edifici / “Frutto senil in sul
giovenil fiore”»155.
Come qui Tomaso stesso ricorda, a testimoniare la passione per
la “piccola Roma” – una Roma a dimensione delle sue misure – rimangono schizzi e dipinti. Uno, in particolare, sembra addirittura
contenere un presagio: «Riguardo una mia veduta, di fantasia, delle
Romette a Tivoli, iniziata a Milano nell’aprile del 1945, nei momenti
tragici, prima della Liberazione, in cui pensavo, con struggente nostalgia, a Roma, finalmente libera, dal cielo turbato ho dipinto un
raggio che viene diretto, verso il luogo al centro del quadro.
Per una curiosa anticipazione quasi da veggente, il raggio va a
colpire il punto di Trastevere dove, nel 1952, senza saperlo, su indicazione di mia sorella Luciana, ho acquistato un appartamento all’ultimo piano d’un palazzo in condominio, con vista sul Tevere verso
l’arco di Giano, San Giorgio in Velabro, il Tempio di Vesta, quello della
Fortuna Virile, Santa Maria in Cosmedin, il Campidoglio, il Palatino e
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179
177
178
177 Antonio Averlino, detto il Filarete,
Pianta di Sforzinda, disegno a penna
(da Antonio Averlino, detto il Filarete, Trattato
di architettura, Codex Magliabechianus,
Firenze, Biblioteca Nazionale, II, I, 140,
libro VI, f. 43 recto).
178 179 Schizzi della fontana del Popolo,
vista laterale e mascherone centrale,
disegno a biro.
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180 Fontana del Popolo, La Scarzuola (Terni).
181 Parco dei Mostri, Bomarzo (Viterbo),
Orco araldico, col globo terrestre e il castello
tetragono, impresa degli Orsini.
182 Porta di Giona, La Scarzuola (Terni).
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183 Parco dei Mostri, Bomarzo (Viterbo),
l’Orco.
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184 Particolare dell’Erma sull’angolo
del teatro dell’Arnia, La Scarzuola (Terni).
185 Pirro Ligorio, villa d’Este, Tivoli (Roma),
fontana dell’Organo.
186 Schizzo dell’Acropoli, disegno a biro.
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l’Aventino e, nel fondo, l’Esquilino»156. Quel tempio di Vesta (in realtà
di Ercole vincitore) che proprio Buzzi inserirà nell’Olimpo architettonico della sua Acropoli.
Questo quadro, Buzzi lo ricorderà ancora, a distanza di qualche
mese, interrogandosi sulla “curiosa” persistenza di quest’immagine157,
sul ritornare di nuovo, ventinove anni dopo, sullo stesso tema, quasi
fosse una piccola ossessione per questa sorta di “delirii d’architettura”
(come lo erano stati per un’“anima affine”, il Piranesi). Ma, come quasi
tutto in Buzzi, anche questo progetto rimarrà allo stato di abbozzo, di
non-finito: «Le “Romette” le ho riprese anche negli anni successivi,
cioè circa 29 anni dopo, e non le ho mai finite. Vorrei completarne alcune, corniciarle e lasciarle più o meno compiute, da poter mostrare o
esporre nei miei Musei personali, alla Scarzuola. Alcuni bozzetti potrebbero essere sviluppati in formato grande, come “delirii di architettura”, tanto sono affollati di piccoli edifici classici, con obelischi, colonne, cupole, timpani, statue, ecc.»158.
Rifugio, protezione, è dunque la Scarzuola. Ecco perché, per tornare
a Sabbioneta e a tutte le decine di città murate medievali159 che, come
abbiamo visto, Tomaso ha disegnato, con evidente passione, nei suoi
cahiers giovanili, la Scarzuola sta, come loro, «chiusa nel suo giustacuore di mura»160. “Giustacuore”, dal francese justacorps, è propriamente ciò che è “giusto”, cioè “aderente al corpo”161: come la Scarzuola
per Buzzi, perfettamente tagliata sulle sue “misure”162. La Scarzuola,
come Tomaso stesso, è comodamente “rinserrata” dentro una cerchia
di mura, di là della quale spuntano fuori i suoi tetti e le sue torri. Significativamente, Buzzi innalza identici “bastioni” con i suoi scritti: «Costruisco pietra per pietra, accumulando libri su libri cementati con le mie
note marginali, come si murano i mattoni di un muro: la mia muraglia
della Cina, bastione che mi deve difendere dall’esterno ecc.»163 (fig. 189).
Strettamente collegati, dunque, sono lo Zibaldone di pensieri e la
Scarzuola. Ne è consapevole lo stesso Buzzi che, il 21 novembre
1971, rileggendo un suo vecchio appunto del 17 luglio 1948 in cui paragonava i suoi “quaderni” a un “museo interno”, «un palazzo piuttosto vasto nelle dimensioni e non costruito tutto di un pezzo, ma sibbene composto come un Vaticano», un «palazzo incantato della mia
memoria», così commenta: «Rileggendo oggi [...] vedo già nel 1948
prevista la mia Scarzuola!»164.
La Scarzuola non è che la “trasposizione in tufo” di un edificio
fantastico immaginato “per prender sonno”, cioè come antidoto alle
durezze della veglia, della vita activa. Come insegna una sua “anima
affine”, l’Alberti: «E talora […] composi a mente e coedificai qualche
compositissimo edificio, e disposivi più ordini e numeri di colonne
con vari capitelli e base inusitate, e collega’vi conveniente e nuova
grazia di cornici e tavolati. E con simili conscrizioni occupai me
stesso sino che ’l sonno occupò me»165.
Alla fine della sua vita, anche gli Antichi Maestri, a guardarli bene,
con la lente spietata della critica, con quell’ironia tagliente che Buzzi
così pienamente possedeva, gli saranno apparsi, forse, come «i gloriosi antenati di Vespasiano», «pupazzi un poco goffi, buoni tutt’al
più per reggere le corazze in una armeria»166.
Tomaso è stato sempre perfettamente consapevole del fascino e dei
pericoli della Vanitas. Di quell’albertiana ingens gloriæ cupiditas, sempre pronta a sedurci, occorre dunque dubitare: «Omnis lavs in fine canitvr»167, è uno dei motti trascritti da Buzzi, fin dai suoi cahiers giovanili.
Ecco il perché del suo understatement, della sua “sprezzatura”:
non Roma, ma “Romette”, non gloria, ma “gloriette”.
188
189
187 Pirro Ligorio, villa d’Este, Tivoli (Roma),
fontana della Rometta.
188 La fontana della Rometta, olio su cartone.
98
99
189 Chiesa e libro (in mano a un S. Gerolamo),
disegno a matita.
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15-10-2012
13:56
Pagina 100
Voglio ringraziare Marco Solari e Brian Pentland
per la loro cortese ospitalità, per le informazioni
preziose e i suggerimenti fondamentali fornitimi
durante i tanti soggiorni (e pranzi e cene) alla
Scarzuola. Un ringraziamento, ancora, a Fiorenza
Strollo dell’Accademia di belle arti di Ravenna
per aver facilitato il mio spoglio delle annate
di «Domus» e a Paola Rigon della Biblioteca
Classense di Ravenna per il suo puntuale aiuto
nelle ricerche bibliografiche.
Questo saggio, e la cura del libro, non sarebbero
stati possibili senza la pazienza di Marina, che
mi ha supportato e sopportato, in particolare,
durante l’ultimo anno di lavoro.
1 Mattinate fiorentine. Val d’Arno, Il gotico
fiorentino, a cura di Attilio Brilli, Mondadori,
Milano 1984, 2001, p. 64. Ruskin viene citato da
Buzzi due volte: «Ricercare il libro di Ruskin, di cui
mi piaceva forse solo il titolo, Le sette lampade
dell’architettura, che sono i 7 occhi della mia sala
dell’Olimpo», foglio volante 26.9.1970 Scarzuola
(i fogli volanti sono tutti conservati all’Archivio Buzzi
alla Scarzuola); per la seconda si veda il testo di
Fenzi in questo volume. Buzzi cita Turner, il pittore
più amato da Ruskin, a proposito dell’Arsenale:
«Ricordare anche una veduta, abbastanza
fantastica, tutta rossa, di Turner», foglio volante
6.9.1972 Venezia. Su Buzzi e l’Arsenale cfr. Giulio
del Balzo, Tomaso Buzzi e l’Arsenale di Venezia,
s.n.p. [ma 13-17], in Tomaso Buzzi, catalogo della
mostra (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Isola
di San Giorgio Maggiore, s.d. [ma 27 maggio - 19
giugno 1983]), testi di Stefano Rosso-Mazzinghi,
Giulio del Balzo e Andrea Spadini, s.l., s.d.
[ma 1983].
2 Su Piranesi si vedano Cronache veneziane 1973,
c. 32 datata 9.10.1973, nonché i fogli volanti
del 19.10.1970 Roma, recto (a proposito della
Biblioteca di Buzzi), 6.9.1972 e 9.10.1973, cit.,
pp. 78-79 e 80 e soprattutto i disegni di antichità
romane riprodotti da Buzzi e conservati
in Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 3 “Album arte antica e teatro”, album
n. 24 e Archivio Buzzi, settore Arti Applicate,
fasc. n. 6 “Repertori: arte romana da Piranesi”
(con disegni della chiesa di Santa Maria del
Priorato sull’Aventino); ma disegni tratti da sue
incisioni sono anche in: Archivio Buzzi, settore
Disegni giovanili, fasc. n. 1 “Album monografici
città e regioni”, album n. 2, c. 28 e un “teatro”
in Archivio Buzzi, settore Arti Applicate, fasc. n. 1
“Repertori architetture romane”, cart. n. 6.
3 Lo “spirito” di Jacques Callot, il suo segno
rapido e “scattante”, espresso nei suoi Pantaloni
e Zanni della serie dei Capricci di varie Figure
(1616-19) o dei Balli di Sfessania (1621-22),
ritorna in numerosissimi disegni di Buzzi,
in particolare nella serie dei “cuochetti”.
«Registrare la vita nella sua immediatezza è di
fatto una delle caratteristiche principali di Callot»
(Stefania Massari, Francesco Negri Arnoldi, Arte e
scienza dell’incisione. Da Maso Finiguerra a
Picasso, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1987,
p. 185) come di Buzzi.
4 Il nome di Goya compare nel recto e verso del
foglio volante 19.10.1970 Roma, dal titolo: Libri
alla Scarzuola, come una delle sezioni della
Biblioteca di Buzzi.
5 Tomaso Buzzi, Lettere pensieri appunti
1937-1979, a cura di Enrico Fenzi, Silvana Editoriale,
Milano 2000, p. 68.
6 Cfr. VII Triennale di Milano 1940 XVIII, s.l., s.n.,
SAME, Milano 1940, in part. pp. 79-84.
100
7 Oltre ad Alberto Alpago Novello, Mario Faravelli,
Federico Frigerio, Gustavo Giovannoni, Plinio
Marconi, Giovanni Muzio e Guglielmo Pacchioni.
Si veda Anty Pansera, Storia e cronaca della
Triennale, Longanesi & C., Milano 1978, p. 325.
8 «Quella marcia indietro verso la morte con gli
occhi fissi verso la vita, come dice Proust», come
annoterà in un foglio volante datato 29.12.1970,
dipendente da quello contrassegnato 29.12.1970
Roma “Agenda per 1971” Diario.
9 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 79. Si veda,
in parziale controtendenza, il foglio volante
23.10.1979: «Negli anni giovanili si viveva
nel domani: oggi, negli anni senili, vivo nell’altrieri,
più che nello ieri», ivi, p. 98.
10 Foglio volante 19.6 [1960] a Venezia. Si veda
il durissimo j’accuse contro il “conformismo”
degli artisti contemporanei in Tomaso Buzzi,
Lettere..., cit., p. 95 (25.2.1978).
11 Ivi, pp. 97-98 (12.10.1979).
12 Foglio volante 29.12.1970 Roma “Agenda
per 1971” Diario.
13 Foglio volante 29.12.1970 (dipendente
dal precedente).
14 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 94 (25.2.1978).
È la prima parte del foglio volante citato supra 10.
15 I palazzi ducali di Sabbioneta. II, Il Palazzo
del Giardino, in «Dedalo», IX, fasc. IV, settembre
1928, pp. 221-252: 234.
16 Ivi, pp. 234-235.
17 «La Scarzuola = l’Arca delle mie Idee, che mi
sono più care, non navigante ma già incagliata
sul suo Ararat... La Scarzuola che sarà depredata,
spogliata, semi demolita, ed emergerà come
una grossa rovina che già io vedo prender forma,
estesa, variata, patinata, misteriosa perché
incomprensibile ai più», Tomaso Buzzi, Lettere...,
cit., pp. 89-90 (2.3.1975).
18 Ibid.
19 Cfr. Georg Simmel, Die Ruine, in Philosophische
Kultur: Gesammelte Essais, Werner Klinkhardt,
Leipzig 1911, trad. it. di Gianni Carchia, La rovina,
in «Rivista di Estetica», XXI, n. 8, 1981, pp. 121-127.
20 Cfr. ivi, p. 121.
21 Cfr. ivi, p. 127.
22 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 89 (2.3.1975).
23 Cfr. infra 75.
24 I palazzi ducali di Sabbioneta. II, Il Palazzo
del Giardino, cit., p. 222. Ancora di cattivi restauri
parla Buzzi riferendosi al salottino posto
all’angolo estremo del palazzo del Giardino, cfr.
ivi, p. 236, nonché al camerino dei Cesari, cfr. ivi,
p. 240 (ma si veda anche il finale dell’articolo). Per
fortuna, accanto ai delittuosi restauri, ve ne sono
anche di “provvidenziali”: «Un provvidenziale
restauro è stato iniziato, per i più importanti
affreschi del Campi, a cura della Soprintendenza
e dell’amministrazione civica di Sabbioneta»,
ivi, pp. 251-252.
25 Il Palazzo Ducale di Sabbioneta - III,
in «Dedalo», X, vol. II, 1929-30, pp. 272-301:
300-301.
26 Il Sacro Bosco è citato da Buzzi in almeno due
fogli volanti: Scarzuola 29.12.1967 Parigi, verso,
e Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 89 (2.3.1975).
27 Oltre che nell’Acropoli della Scarzuola,
evidente citazione della Rometta di villa d’Este,
nei quadri a olio che proprio la Rometta
ritraggono, e in un disegno in Archivio Buzzi,
settore Arti Applicate, fasc. n. 12 “Repertori: varie”,
cart. n. 2, villa d’Este è ricordata da Buzzi
nell’articolo Alcune recenti architetture
da giardino costruite nel parco della villa Bernocchi
a Stresa dall’architetto Alessandro Minali,
in «Domus», II, n. 9 [21], 1° settembre 1929,
pp. 15-20, in Scarzuola. Frontespizi, Venezia 1973,
c. 4, 14.9.1972 e in Tomaso Buzzi, Lettere..., cit.,
p. 89 (2.3.1975).
28 Il Palazzo Ducale di Sabbioneta - III, cit., p. 301.
29 Auf den Marmorklippen, Neske, Pfullinge 1951,
trad. it. di Alessandro Pellegrini, Sulle scogliere di
marmo, introduzione di Quirino Principe, Guanda,
Parma 1988, p. 104.
30 Datato 7.9.1962 e riprodotto in Tomaso Buzzi,
cit., fig. 1.
31 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 66
(17.12.1969).
32 È quella smodata vanità che Leon Battista
Alberti rimprovera ai flores nell’intercenale
omonima. Cfr. Leon Battista Alberti, Intercenali
inedite, a cura di Eugenio Garin, Sansoni, Firenze
1965, pp. 16-17.
33 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 89 (2.3.1975).
Ma la rovina può essere anche la rappresentazione
dell’Inferno (che è pur sempre Zeitlos!): nel
palazzo del Giardino, a Sabbioneta, nel breve
corridoio con volta a botte a cassettoni di stucco
e con le pareti affrescate – che porta dalla sala
“dei Miti” alla saletta di Enea –, nel fondo della
scena con Orfeo che tenta di commuovere
Plutone ed Euridice perché lascino libera Euridice,
Buzzi ricorda «una curiosa rappresentazione
paesistica dell’Inferno, reso con una veduta
di città in rovina, popolata dai supplizi dei dannati
e attraversata dallo Stige, su cui naviga la barca
di Caronte», I palazzi ducali di Sabbioneta. II,
Il Palazzo del Giardino, cit., pp. 244 e 246.
34 Fonti di entrambe, così come del tondo in pizzo
di Burano dal titolo La caccia di Diana (tema caro
a Buzzi, vista la presenza centrale di Atteone alla
Scarzuola), e della tovaglia da tè La pesca nel lago
in organtis bianco ricamata a punti variati – una
vera e propria scena nilotica – (presentata alla
Triennale del 1933, su cui cfr. Giulia P. Vimercati,
I lavori femminili alla Triennale [I parte],
in «Domus», VI, n. 65, maggio 1933, pp. 248-251;
l’immagine è a p. 251) sono le raffigurazioni
dei pavimenti a mosaico romani, in particolare
i cosiddetti “asaroton”, i “pavimenti non spazzati”
(su cui si veda, in questo volume, il saggio di Paola
Tognon), che Buzzi ha disegnato in Archivio Buzzi,
settore Arti Applicate, fasc. n. 14 “Repertori:
Mosaici classici (Motivi per pavimenti Sale
da Pranzo)”, cart. n. 1. Per queste opere di Buzzi,
cfr. le fotografie che illustrano l’articolo di Ugo
Nebbia, Quello che ho portato ad Amsterdam,
in «Domus», IV, n. 44, agosto 1931, pp. 23-28).
Si veda anche il merletto a fuselli raffigurante un
Colosseo e un faro sulla costa, una scena marina
di genere (cfr. Giulia P. Vimercati, I lavori femminili
alla Triennale [II parte], in «Domus», VI, n. 67,
luglio 1933, pp. 388-391; l’immagine è a p. 391).
35 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 62
(30.5.1967).
36 Ivi (16.11.1967).
37 Foglio volante 15.8.1967 Bormio, recto e verso.
38 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 63 (12.2.1969).
39 Foglio volante Scarzuola 29.12.1967 Parigi,
recto.
40 Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili.
41 Con pochissime eccezioni: solo in quattro
casi compaiono degli esseri umani e, in uno,
un levriero.
42 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., pp. 69-70
(9.3.1970).
43 «Chi ha detto che l’arte è “Homo additus
naturæ”? Io amo definirmi “Homo additus
architecturæ”, e i miei disegni rappresentano
(o vogliono rappresentare) proprio questo, cioè
la presenza umana, dell’individuo o della folla,
in mezzo alle architetture», ivi, p. 79 (17.9.1972).
44 Archivio Buzzi, settore Arti Applicate, fasc. n. 8
“Repertori: scene teatrali”, cart. n. 4.
45 Riprodotta, in opus sectile, nel pavimento
della cattedrale di Siena.
46 Che compaiono ripetutamente dall’album n. 4
al 18 del fasc. n. 3 “Album arte antica e teatro”,
in Archivio Buzzi, settore Arti Applicate, già sopra
ricordato.
47 Avvicinabile al tema del Bizzarro terremoto
e del Vento dell’Olimpo, sopra ricordati.
48 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 53 (14.6.1957).
49 Cfr. Le ceramiche italiane all’Esposizione di
Monza, in «Dedalo», XI, fasc. IV, settembre 1930,
pp. 241-260: 247.
50 Tre mezzi fogli volanti pinzati insieme e datati
24.1.1963 Roma. In un appunto di uno dei suoi
tanti abbozzati diari, Buzzi ricorderà come,
negli anni ginnasiali, a completare gli studia
humanitatis, ci fossero, oltre alla pittura,
alla scultura, alla musica anche «le arti decorative
e architettoniche», Diario 1.1.1971 Roma.
51 Come ricorda la sorella Fernanda, «Viaggiando
aveva sempre fra le mani un piccolo albo su cui
disegnava [in scala] monumenti, edifici ed anche
particolari di una porta antica, di una loggia
di un arco, che sarebbero sfuggiti ad una mente
meno sagace / Perciò lo chiamavano / L’occhio»,
lettera anepigrafa e non datata, ma scritta
dalla sorella, come mi segnala Marco Solari.
52 Leon Battista Alberti, L’architettura
[De re ædificatoria], testo latino e traduzione
a cura di Giovanni Orlandi, introduzione e note
di Paolo Portoghesi, Il Polifilo, Milano 1966, VI, 1,
p. 443 («Tutti gli edifici dell’antichità che potessero
avere importanza per qualche rispetto, io li ho
esaminati, per poterne ricavare elementi utili.
Incessantemente ho rovistato, scrutato, misurato,
rappresentato con schizzi tutto quello che ho
potuto, per potermi impadronire e servire di tutti
i contributi possibili che l’ingegno e la laboriosità
umana mi offrivano», ivi, p. 442).
53 Si veda infra 55.
54 Tre mezzi fogli volanti pinzati insieme e datati
24.1.1963 Roma, già cit.
55 Antonio Visentini (Venezia, 1688-1782) è
ricordato all’inizio degli Elementi d’architettura
lodoliana (1a ed. Roma 1786) dal veneziano Andrea
Memmo, cavaliere e procuratore di San Marco,
nonché ambasciatore della Serenissima presso
la Santa Sede, come il prezioso assistente alla
consultazione dei volumi d’architettura della
biblioteca del console britannico a Venezia,
Joseph Smith, libri che gli «fecero distinguere
e preferire quella [scil. architettura] che chiamasi
castigata». Nella I, il Memmo così ricorda
la figura del Visentini: «Il Visentini fu non solo
celebre intagliatore in rame d’opere
architettoniche, di che ne fan prova le vedute
di Venezia del rinomato Antonio Canal, e la sua
iconografia della ducal chiesa di s. Marco,
pubblicata in Venezia 1761. in gran folio; ma fu
anco uno de’ più castigati architetti, come osservar
si può da molti suoi dipinti della dominante, e
fabbriche pur anche, tra le quali quelle del signor
Smith in Venezia ed in Mojano. Si distinse ancora
più degli altri architetti veneziani del tempo suo
con le osservazioni critiche che veggonsi aggiunte
al trattato di Teofilo Gallaccini sopra gli errori
degli architetti, stampato in Venezia dal Pasquali
nel 1771. in folio» (Andrea Memmo, Elementi
d’architettura lodoliana ossia l’arte del fabbricare
con solidità scientifica e con eleganza non
capricciosa, libri tre, Edizione corretta ed
accresciuta dall’Autore, vol. 1, Fratelli Battara,
Zara e Milano 1833, ripr. anast. Mazzotta,
Milano 1973, pp. 3-4). Teofilo Gallaccini
101
(o Gallacini; Siena, 1564-1641), come abbiamo
visto, è citato da Buzzi nell’appunto del 1963
(si veda precedente) come uno dei suoi testi di
formazione, a tracciare, dunque, un milieu
di trattatistica legata a Venezia, città d’elezione
di Buzzi, in cui abiterà spesso, anche a seguito
dell’incarico del restauro dell’Arsenale.
Teofilo Gallaccini è stato autore di numerose
opere di carattere architettonico: I principi
della geometria, lo Zibaldone di architettura
e meccanica, Della nobiltà dell’architettura,
De capitelli delle colonne, Teoriche e pratiche
di prospettiva scenografica e, soprattutto,
il Trattato sopra gli errori degli architetti
(London, British Library, King’s Mss., 281),
stampato a Venezia da Giambatista Pasquali
nel 1767 a cura di Antonio Visentini.
56 Si tratta di Giuseppe (o Gioseffe) Viola Zanini,
autore del Della architettura, Francesco Bolzetta,
Padova 1768.
57 Foglio volante 11.10.1969 Venezia.
58 Foglio volante 19.10.1970 Roma, recto e verso.
59 Tammaro De Marinis (Napoli, 1878 - Firenze,
1969), noto bibliofilo, lavorò a lungo con l’editore
Olschki e divenne in seguito uno dei maggiori
antiquari librari d’Italia. Il De Marinis è ricordato
ancora da Buzzi, due giorni dopo, nel foglio
volante 21.7.1972 Roma, recto e verso, già cit.
60 Foglio volante 19.7.1972 [s.l.].
61 Quel “Tempio circolare” del frontespizio
dell’edizione veneziana del 1511, M. VITRVVII DE
ARCHITECTVRA LIB 10; il trattato viene inoltre
citato nel saggio I palazzi ducali di Sabbioneta. II,
Il Palazzo del Giardino, cit., p. 221 come uno
dei testi posseduti da Vespasiano, e da lui
inseparabile finanche nella tenda da campo
delle sue campagne di guerra.
62 Filarete è ricordato due volte negli scritti della
Scarzuola: in Scarzuola. Frontespizi, Venezia
1973, cit., c. 4, 14.9.1972, passo citato infra,
nonché nel foglio volante Scarzuola 29.12.1967
Parigi; due suoi disegni sono riprodotti da Buzzi
in Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili, fasc. n. 2
“Album città varie e arte antica”, album n. 3, c. 11
(Duomo di Bergamo) e ibid., fasc. n. 3 “Album arte
antica e teatro”, album n. 21, c. 5 (fontana?).
63 Citato nel foglio volante Scarzuola 29.12.1967
Parigi e di cui Buzzi riproduce soltanto (oltre
al progetto per San Pietro, in Archivio Buzzi,
settore Disegni giovanili, fasc. n. 2 “Album città
varie e arte antica”, album n. 16, c. 75 verso),
ma significativamente, la scena teatrale
agli Uffizi, in Archivio Buzzi, settore Arti Applicate,
fasc. n. 8 “Repertori: scene teatrali”, cart. n. 4.
64 Di Raffaello – che è citato solo nel foglio
volante Scarzuola 29.12.1967 Parigi, Buzzi
riproduce la chiesa di Sant’Eligio, con proporzioni
armoniche, e un dettaglio architettonico tratto
dal Geymüller, in Archivio Buzzi, settore Disegni
giovanili, fasc. n. 2 “Album città varie e arte
antica”, album n. 16, rispettivamente alle cc. 68
e 77 (oltre ad una nave tratta da un suo disegno
in Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili, fasc. n. 3
“Album arte antica e teatro”, album n. 16, c. 28).
65 Solo due disegni: un capitello della chiesa
di Santa Maria dei Pazzi a Firenze e un altro
tratto dalla Sagrestia di Santo Spirito a Firenze, in
Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili, fasc. n. 2
“Album città varie e arte antica”, album n. 9, c. 2,
cui si potrebbe aggiungere la placchetta in
argento al Louvre, ma da Buzzi attribuita a Pietro
da Milano, in Archivio Buzzi, settore Disegni
giovanili, fasc. n. 3 “Album arte antica e teatro”,
album n. 13, c. 35.
66 Citato, in compagnia del Serlio, solo una volta
nell’articolo su Villa Pizzigoni a Bergamo
dell’arch. Giuseppe Pizzigoni. Testo di Tomaso
Buzzi, in «Domus», I, n. 3, 15 marzo 1928, pp. 18-21
a p. 20: «Di fronte al cancello ha inizio la scalea,
a gradini curvi di pietra, con semicerchi
contrapposti, secondo un bel motivo ripreso
dal Bramante e dal Serio». Una quasi identica
citazione è riportata nella didascalia a p. 18:
«È interessante questo gioco di scalée, ripreso
dal Bramante e dal Serio».
67 Vi compaiono, precisamente, in dodici
cartelline, nell’ordine: Giulio Romano, il Borromini,
Ant[onio] Gherardi [Rieti 1638 - Roma 1702],
il Palladio, il Sammicheli, Galeazzo Alessi e
B[artolomeo] Bianco [Como 1590 - Genova 1657],
Bartolomeo Ammannati, il Buontalenti,
Michelangelo, il Vasari, lo Zuccari e il Dosio.
Al Serlio sono dedicati l’album n. 19 in Archivio
Buzzi, settore Disegni giovanili, fasc. n. 2 “Album
città varie e arte antica”, nonché la cart. n. 2
del fasc. n. 8 “Repertori: scene teatrali” in Archivio
Buzzi, settore Arti Applicate. Ma altri architetti
sono citati anche soltanto una volta: Jacques
Androuet du Cerceau, sebbene solo per
il suo trattato Leçons de perspective (1576),
Pellegrino Tibaldi, anche se come pittore, accanto
al Pontormo e a Rosso Fiorentino e, fra questi,
ancora il Mantegna, il Botticelli, Filippino Lippi
(in Scarzuola 29.12.1967 Parigi). Interessante,
inoltre, l’accenno alle «architetture di Caron
(scuola / di Fontainebleau)» e all’«affastellamento
di edifici, di ornamenti», tipico dei dipinti
del francese e della sua scuola, che rimanda ancora
una volta a quell’aspetto teatrale, cui tutto il foglio
volante Scarzuola 29.12.1967 Parigi fa riferimento,
e che si esprimerà pienamente alla Scarzuola.
Buzzi si riferisce alle architetture che fanno
da sfondo ai suoi quadri, come ad esempio
nell’Augusto e la Sibilla (o la Sibilla di Tivoli)
del 1585 al Louvre, in cui compaiono, dietro a un
monumento con due colonne tortili posto in primo
piano, una reinterpretazione del tempietto romano,
nonché diversi archetti trionfali “capricciosi”.
68 Trascrizione moderna di un antico disegno
secondo l’arch. Tomaso Buzzi, in «Domus», I, n.
12, dicembre 1928, pp. 20-21: 20.
69 Ivi, p. 21.
70 Cfr. Antico progetto d’architettura trascritto
da Tomaso Buzzi, in «Domus», II, n. 2 [14],
1° febbraio 1929, pp. 14-15.
71 Sul De Marinis si veda supra 59.
72 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., pp. 62-63
(31.12.1967).
73 Foglio volante 21.7.1972 Roma, recto e verso.
74 Note sul corpo umano. Venezia 1972
(all’interno: Venezia 1972 e 1975), c. 99 recto
e verso, 17.9.1975. Non è forse l’Acropoli della
Scarzuola, la traduzione in tufo della scena
tragica descritta dal Serlio (e citata da Buzzi
stesso nel saggio Il “Teatro all’antica” di Vincenzo
Scamozzi in Sabbioneta, in «Dedalo», VIII, fasc.
VIII, gennaio 1928, pp. 488-524: 508-509).
75 Il “Teatro all’antica” di Vincenzo Scamozzi
in Sabbioneta, cit.; I palazzi ducali di Sabbioneta. II,
Il Palazzo del Giardino, cit.; Il Palazzo Ducale
di Sabbioneta - III, cit. Oltre a questi articoli,
Buzzi dedica allo Scamozzi molti disegni: l’intero
fascicolo n. 10 “Repertori: Scamozzi” (in Archivio
Buzzi, settore Arti Applicate), composto da due
cartelline che contengono, la prima, disegni del
Santuario delle sette chiese, che riprende il tema,
caro a Buzzi, dei “Sacri Monti” (su cui si veda
infra in questo testo), e di villa Duodo, poi villa
Balbi Valier, a Monselice e, la seconda, i disegni
della scena fissa del teatro Olimpico di Vicenza
e del teatro all’antica di Sabbioneta; è presente,
inoltre anche una rappresentazione scamozziana
del Colosseo tratta dal D’Aviler (Haye, 1736), in
Archivio Buzzi, settore Arti Applicate, fasc. n. 1
“Repertori architetture romane”, cart. n. 6.
76 Il “Teatro all’antica” di Vincenzo Scamozzi
in Sabbioneta, cit., pp. 488 e 490.
77 Ivi, p. 520.
78 Quella vanitas di cui va esente Vespasiano
Gonzaga: «Uomo d’ordine, che non ama
l’imprevisto, uomo d’azione che rifugge
dall’incompiuto, Vespasiano sa proporzionare
alle sue forze quanto viene ideando: non inizia
mai una fabbrica se non ne ha prima ben fissato
il piano d’assieme, né procede senza aver la
certezza di bastar da solo a condurla a termine»,
Il Palazzo Ducale di Sabbioneta - III, cit., p. 272.
79 Il “Teatro all’antica” di Vincenzo Scamozzi
in Sabbioneta, cit., p. 490.
80 Ivi, p. 498.
81 Foglio volante 29.11.1963 “in treno per Genova”.
82 Foglio volante 9.3.1963 Roma.
83 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., pp. 59-60
(2.12.1966).
84 Il “Teatro all’antica” di Vincenzo Scamozzi
in Sabbioneta, cit., p. 496.
85 Ivi, p. 520.
86 Ivi, p. 491.
87 Ibid.
88 Ibid.
89 Si tratta del progetto per il Pensionato
artistico nazionale di Roma del 1926, di cui Buzzi
disegna un teatro-giardino sul mare, prima
sperimentazione del tema che realizzerà più tardi
alla Scarzuola, come scrive lo stesso Buzzi in un
foglio volante datato 5.7.1969: «Quando nel 1925
(o 1926?) Corrado Pavolini, anteponendomi,
come di gran lunga il migliore dei concorrenti
al Pensionato Artistico Nazionale, sopra non
solo agli architetti che si presentavano, ma
agli scultori, pittori e decoratori, scriveva
sul Messaggero (?) che per veder costruito il mio
teatro all’aperto occorrevano i papi, i principi
e i mecenati del Rinascimento, non sapeva
che forse bastava l’architetto da solo, poco più
di quarant’anni dopo, a creare, con i suoi mezzi
personali modesti, con quasi le sue stesse mani,
un teatro fors’anche più grandioso, tutto in pietra,
ecc.». Sul concorso del Pensionato si veda
Concorso per il Pensionato artistico, in
«La Tribuna», 11 febbraio 1926. Buzzi ricorda
il progetto in un foglio volante datato 5.7.1969.
90 Foglio volante non datato.
91 Cfr. Note sul corpo umano…, cit., c. 81 verso
(non numerate), 7.9.1975.
92 Invito ad un viaggio, in «Domus», I, n. 1,
15 gennaio 1928, p. 20.
93 Ibid.
94 Ibid.
95 Dei “Sacri Monti”, in particolare quello
di Varese, cui è dedicata la cartellina di disegni
n. 4 in Archivio Buzzi, settore Arti Applicate,
fasc. n. 11 “Repertori: Opere e Luoghi”, Buzzi si
ricorderà come fonte d’ispirazione alla Scarzuola:
cfr., in questa cartellina, il disegno del terzo arco
di trionfo che ispira molto probabilmente la già
citata “Ianua Cœli”, che inquadra l’Acropoli della
Scarzuola. Sul tema dei Sacri Monti, oltre al foglio
volante 2.1.1971 Roma citato infra, si vedano
anche i disegni dello scamozziano Santuario
delle sette chiese di Monselice, citati alla 75.
96 Invito ad un viaggio, cit., p. 20.
97 Su questo intervento si veda il saggio di
Alessandro Mazza in questo volume. Inoltre, come
al solito, viene ricordato in Scarzuola 29.12.1967
Parigi e anche in Tomaso Buzzi, Lettere..., cit.,
p. 73 (21.10.1970).
98 Ivi, p. 75 (3.10.1971).
Ar_Buzzi_02_Cassani_LTC1
15-10-2012
99 Oltre alla seconda cartellina del fasc. n. 7
“Repertori. Grandi architetti del passato”
(Archivio Buzzi, settore Arti Applicate), già
ricordato supra, rimangono alcuni disegni di
pannelli decorati, particolari da dipinti e mobili,
nonché il disegno della sua casa presso San Carlino
in Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili, fasc.
n. 2 “Album città varie e arte antica”, album n. 19.
Cfr. anche Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 31
(28.4.1975).
100 Sul significato delle api, cfr. Tomaso Buzzi,
Lettere..., cit., pp. 75-76 (21.11.1971). Il simbolismo
delle api è fondamentale alla Scarzuola, dal
momento che Buzzi ha dedicato loro addirittura
uno dei sette teatri, quello dell’Arnia.
101 Per la bibliografia sui lavori all’Arsenale si
veda supra la 1. L’Arsenale è ricordato anche,
come fonte della Scarzuola, in un foglio volante
datato 17.7.1948 [s.l.], ma con aggiunte del
26.4.1956, del 25.12.1958 e del 21.11.1971.
A quest’ultima, molto probabilmente, visto
il recente incarico per il restauro, data la
buzziana.
102 Giulio del Balzo, Tomaso Buzzi e l’Arsenale
di Venezia, cit., [pp. 14-15].
103 Ivi, [p. 15].
104 Ivi, [p. 16].
105 Cfr. ivi, [p. 17].
106 Disegni veneziani di Tomaso Buzzi,
in Tomaso Buzzi..., cit., [p. 11].
107 «Gli schizzi che precedono, improvvisati
oggi, dopo aver visitato nella mattinata i lavori
di restauro all’ingresso dell’Arsenale (insieme
all’amico del Balzo e a Molajoli, faccio parte della
commissione artistica che deve sovrintendere
a questa opera, che si esegue con i fondi
appositamente raccolti dalla Dante Alighieri
in tutto il mondo), schizzi che insistono nella mia
idea di dipingere il Bucintoro nella sua tana, mi
fanno pensare nuovamente alla mia idea che
le “Carceri d’invenzione” del Piranesi, nelle
quali tutti i critici (come il Focillon ecc.) vedono
la derivazione dalle scene teatrali che il P. deve
aver visto chissà quante volte dei molti teatri
aperti e operanti, con scene architettoniche,
nella sua formazione giovanile a Venezia, traggano
la loro ispirazione da quanto il Piranesi deve aver
visto nell’Arsenale di Venezia. Qui le architetture
cinquecentesche del Sammicheli, senza dire
quelle romaniche e gotiche dei secoli precedenti,
con arcate monumentali, pilastri e colonne
robuste, zoccoli, bugnati, travature possenti
e nere, sono accompagnati da scale e scalette
e ponti mobili, argani, corde, catene, fumate
di pece, operai (arsenalotti) al lavoro, verricelli,
carrucole, lanterne, ancore e fasci di remi,
cioè tutto un armamentario che ritroviamo
nelle fantasie piranesiane. (Ricordare l’effetto
che l’Arzanà dei Venitiani ha fatto su Dante, che
nella Divina Commedia gli dedica i versi famosi)»,
foglio volante 6.9.1972 Venezia.
108 «Negli schizzi che seguono, rappresentanti
il Bucintoro nell’Arsenale, nella sua “Tana”,
v’è una certa monotonia d’impianto, nel taglio
architettonico della scena, che invece non deve
essere, come molte scene teatrali, troppo
rigidamente frontale né deve avere la veduta
angolare (che è di maniera bibbienesca). Posso
arricchire le architetture con qualche elemento
sammicheliano, bugnature potenti, mensoloni
grezzi, colonne o pilastri (un po’ come quelli della
Dogana), trofei marinari come quelli di alcuni
monumenti funebri di Dogi o di Capitai do Mar,
102
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cariatidi alla Longhena e, nei primi piani,
carrucole, verricelli, corde, catene, scale, scale
mobili, travoni, cavalletti, ecc.
Anche un brulichìo di arsenalotti al lavoro,
nelle tane vicine, con fumate dei calderoni
di pece, sì da rendere anche il frastuono.
Studiare un po’ gli squeri ancora esistenti e
operanti, come, mi pare, uno presso San Trovaso,
un altro presso l’ospedale, i quali, probabilmente,
si valgono ancora di attrezzature antiche e
di metodi di lavoro tradizionali. Anche certi effetti
di scorcio del Ponte di Rialto, della Zecca, ecc.,
potrebbero servire. Studiare pertanto
le architetture sammicheliane di Venezia
e Verona, Palmanova, ecc.», 7.9.1972 Venezia.
109 Cfr. Scarzuola. Frontespizi, Venezia 1973,
cit., in cui a c. 41, datato 1973, si legge l’appunto:
«veduta notturna dell’Arsenale / nel cielo,
appesi come nelle chiese gli ex-voto, i modelli
del Bucintoro e delle Galee e Galeazze avvolti
nel fumo delle loro bocche da fuoco / come
fantasmi del passato».
110 Claude-Nicolas Ledoux è citato almeno due
volte negli appunti buzziani: nel foglio volante, già
ampiamente ricordato, contrassegnato Scarzuola
29.12.1967 Parigi e in Tomaso Buzzi, Lettere...,
cit., p. 73 (21.10.1970).
111 Von Ledoux bis Le Corbusier: Ursprung und
Entwicklung der Autonomen Architektur, Verlag
Dr. Rolf Passer, Leipzig-Wien 1933.
112 Nel verso di Scarzuola 29.12.1967 Parigi,
Buzzi ricorda, fra le opere che hanno ispirato
il progetto della Scarzuola, «il Polifilo di Frate
Francesco Colonna».
113 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 59
(27.11.1966).
114 Della colonna parla in modo ammirato,
con evidente amplificatio, anche Charles-Joseph
de Ligne, autore citato da Buzzi (si veda infra),
in I giardini di Belœil, a cura di Barbara Briganti
e Anna Jeronimidis, Sellerio, Palermo 1985, p. 133.
115 Architecture de C.-N. Ledoux, a cura di Daniel
Ramée, Lenoir éditeur, Paris 1847, 2 voll., I, tav. 72;
sull’incisione, cfr. le fondamentali riflessioni
di Anthony Vidler in Claude-Nicolas Ledoux
1736-1806: Architecture and social reform
at the end of the ancien regime, The MIT Press,
Cambridge Mass.-London 1990, trad. it. ClaudeNicolas Ledoux 1736-1806, Electa, Milano 1994,
p. 161. Buzzi ricorda un altro “colpo d’occhio”:
«Per il frontespizio di una mia raccolta di schizzi,
col titolo “gli occhi di Argo”. “Colpi d’occhio”,
ricordando il titolo del principe de Ligne Coup
d’œil sur Bellœil» [sic], scritto sotto il disegno di
un occhio in Scarzuola. Frontespizi, Venezia 1973,
cit., c. 5, 22.9.1975. Charles-Joseph de Ligne
ereditò dal padre Claude Lamoral II la proprietà
di famiglia di Belœil, che nel corso degli anni
in parte trasformò, “anglicizzando”, come scrisse,
il giardino francese. In particolare nel grande
vertugadin a nord-ovest, Ligne progettò un
esotico villaggio tartaro di capanne rustiche, un
parco inglese con due tempietti, quello di Morfeo
e una rovina con cascata su un’altura, con tre
facciate diverse dedicate, ognuna, a una divinità;
nel parco inglese Ligne disegnò anche un piccolo
ma intricato giardino filosofico, i cui diversi
percorsi, a volte popolati di trabocchetti,
rappresentavano il percorso della vita umana
(cfr. Barbara Briganti, Il paradiso perduto, in
Charles-Joseph de Ligne, I giardini di Belœil, cit.,
pp. 11-28: 23). Sul suo parco, Ligne scrisse
appunto quel Coup d’œil sur Belœil et sur une
grande partie des jardins d’Europe (Belœil 1781,
trad. it. I giardini di Belœil, cit.), ricordato da
Buzzi. Come non vedere nel principe un’“anima
affine” a Tomaso (il giardino di Polifilo e
il tempietto di Flora e Pomona alla Scarzuola
richiamano direttamente il giardino filosofico e
il tempio di Flora di Belœil)? Sul de Ligne si vedano
Ernest de Ganay, Le prince de Ligne et les jardins,
in «La Revue de Paris», 15 luglio 1935, pp. 400-413
e Monique Mosser, Le architetture paradossali
ovvero piccolo trattato sulle “fabriques”, in
Monique Mosser, Georges Teyssot, L’architettura
dei giardini d’Occidente dal Rinascimento
al Novecento, Electa, Milano 1990, in part.
pp. 259-265.
116 Come scrive Jean Starobinski
(in L’Invention de la liberté, 1700-1789, Éditions
Gallimard, Paris 2006, edizione riveduta e
corretta, trad. it. di Manuela Busino-Maschietto,
L’invenzione della libertà 1700-1789, Abscondita,
Milano 2008, p. 175), l’uomo, nell’occhio
di Ledoux, «è al tempo stesso costruttore, attore
e spettatore», esattamente come per Buzzi.
117 In un foglio volante non datato Buzzi ha
disegnato una serie di “classici” occhi alati,
accompagnandoli con la scritta: «Se firmassi
i miei disegni (o i miei quadri) / sempre con
l’occhio volante?». Noto qui, en passant, che
Buzzi ha disegnato, in un altro foglio volante,
una serie di “falli alati”. Laurie Schneider,
nel suo articolo Leon Battista Alberti: Some
Biographical Implications of the Winged Eye
(«The Art Bulletin», LXXII, n. 2, giugno 1990,
pp. 261-269), collega l’immagine tradizionale del
“phallus alato” (che ha, in più, un corpo “leonino”)
di epoca romana, ma anche precedente, con
l’immagine della figura “paterna” (p. 266).
118 Sulla presenza dell’Alberti nel pensiero e nelle
opere di Buzzi mi permetto di rimandare al mio
saggio Migrazioni di un simbolo. Gli occhi volanti
di Tomaso Buzzi, in «Casabella», LXVIII, n. 722,
maggio 2004, pp. 79-87.
119 Viene citato, come tanti altri, nel solito foglio
volante Scarzuola 29.12.1967 Parigi; inoltre, in
un fascicolo e un quadernetto, Buzzi ha ricopiato
alcuni estratti dal discorso commemorativo
di Corrado Ricci su Leon Battista letto a Rimini
il 5 settembre 1904 e pubblicato da Zanichelli
l’anno successivo col titolo Leon Battista Alberti.
Discorso tenuto in Rimini nel V centenario
dalla sua nascita.
120 Cfr. Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 3 “Album arte antica e teatro”,
Pinturicchio, Libreria Piccolomini a Siena, con
la scena della Dieta di Mantova, ibid., album n. 5,
c. 34; ma bisogna ricordare gli schizzi degli
emblemi dei Rucellai tratti dai fregi marcapiano
della facciata di palazzo Rucellai e dal tempietto
del Santo Sepolcro a Firenze, in Archivio Buzzi,
settore Arti Applicate, fasc. n. 9 “Repertori:
da trattati”, progressivo n. 1; nonché i numerosi
disegni che Buzzi dedica al tempio Malatestiano,
dal rivestimento architettonico albertiano,
ai bassorilievi di Agostino e della sua bottega:
cfr. Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 1 “Album monografici città e regioni”,
album n. 1: Rimini (nelle cc. 21 e 22 Buzzi
riproduce i principali edifici di Firenze, tra cui
anche Santa Maria Novella) e album n. 2,
cc. 19-22 (la c. 23 è dedicata alla Biblioteca
Malatestiana di Cesena); nonché ibid., fasc. n. 2
“Album città varie e arte antica”, album n. 13,
cc. 5, 6 e 8, mentre alle cc. 29 e 30 Buzzi riprende
il tempietto del Santo Sepolcro in San Pancrazio
e la chiesa della Santissima Annunziata a Firenze.
121 Che però compare in due disegni di Buzzi
riproducenti l’occhio alato albertiano: cfr. il mio
Migrazioni di un simbolo..., cit., p. 83 e p. 87, 37; i
due schizzi sono pubblicati, rispettivamente col n.
1 e col n. 8, alle pp. 79 e 81.
122 Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 1 “Album monografici città e regioni”,
album n. 9, c. 22.
123 Tutti motti sforzeschi, in Archivio Buzzi,
settore Disegni giovanili, fasc. n. 2 “Album città
varie e arte antica”, album n. 1, c. 19.
124 Tratta da una «pittura murale della cascina
Mirabello presso Milano», ivi, c. 21.
125 Ivi, album n. 16, c. 42.
126 Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili, fasc.
n. 3 “Album arte antica e teatro”, album n. 12, c. 8.
127 Ivi, album n. 14, coperta.
128 Archivio Buzzi, settore Arti Applicate,
fasc. n. 2 “Repertori: Architettura romana tarda”.
Vi si legge la scritta: «Gemma antica – Ricordati».
129 Motto posto sotto un tempio circolare e due
palme-ali (?), in Archivio Buzzi, settore Arti
Applicate, fasc. n. 15 “Repertori: Mobili XVI-XVII
sec., soffitti lignei e pavimenti”, cart. n. 3.
130 A commento, nei fogli volanti di un
quadernetto, del disegno della copertina che
riporta un occhio alato colpito nella pupilla
da una freccia, su uno sfondo di piccoli occhi
disposti secondo linee diagonali. Cfr. il mio
Migrazioni di un simbolo..., cit., p. 87.
131 A cominciare da quello che s’incontra,
realizzato in un ferro battuto ormai rosso
di ruggine, subito dopo aver lasciato il sagrato
cintato con la via Crucis posto davanti alla chiesa
francescana e aver attraversato il cancello
collocato sulla sinistra del sagrato stesso: dove,
accanto all’occhio alato a palmette incrociate,
compare, in alto, una turrita rappresentazione
della Scarzuola.
132 Giuseppe Arcimboldi è, anch’egli, uno degli
Antichi Maestri di Buzzi. I suoi quadri (così come
i disegni del Petitot) ispirano le allegorie buzziane
della “Giornata dell’uva” (La giornata dell’uva,
in «Domus», III, n. 11 [35], novembre 1930, p. 45),
e della “Giardiniera all’italiana” (“La giardiniera
all’italiana”. Omaggio alla mostra del giardino
italiano, in «Domus», IV, n. 42, giugno 1931, p. 52).
Per un esplicito collegamento tra Buzzi e
Arcimboldi si veda l’articolo di Bruno Moretti,
Di Buzzi della musica e dell’Arcimboldi, in «Domus»,
V, n. 49, gennaio 1932, p. 57, in particolare per
quel che riguarda le allegorie disegnate da Buzzi
in E.V. Quattrova, La cucina elegante ovvero
il Quattrova illustrato, con prefazione di Piero
Gadda e 32 disegni di Tomaso Buzzi e di Gio Ponti,
Domus S.A. Editoriale, Milano 1931: «Vorrei
scommettere che nessuno dei miei innumerevoli
lettori s’era prima d’oggi immaginato che Buzzi
e anche la celebre Quattrova, per quel suo gran
trattare di natura morta e di cucina elegante,
fossero lontani discepoli nientemeno che di
Giuseppe Arcimboldi, pittor milanese fiorito
fra il 1530 e il 1593.
Fu l’Arcimboldi, ai suoi tempi, celebrato, non
solo come autore di ritratti, ma anche, al dir
del Morigia, come “inventore di diverse honorate
bizzarie” le quali poi, altro non erano se non
strambe figure umane dalle membra fatte or
di fronde, di frutta e di fiori per darti, poniamo,
l’immagine di Flora, or di pesci, di molluschi, di
foche o d’alghe marine, per comporre un’allegoria
dell’acqua, or invece di botti, d’orcioli, di spine e
d’imbuti, come si vede nella figura del “Cantiniere”,
antico e inconsapevole antenato della “Cuoca
fantomatica” di Buzzi e dell’altre piacevoli
invenzioni che sono nel “Quattrova illustrato”».
Nel Quattrova, esattamente, compaiono:
«la cuoca fantomatica» (p. 6), lo «scheletro
della buona ed onesta cuciniera» (p. 50),
«Soccorsa, o la cuoca autonoma» (p. 86) e,
infine, «Filina, o la cuoca acrobata» (p. 118).
Ad allegorie arcimboldesche appartiene anche il
progetto “Il nuovo Parnaso” (su cui si veda anche,
in questo volume, il saggio di Paola Tognon).
Il progetto è presentato su «Domus», VI, n. 72,
dicembre 1933, p. 657 insieme a un’allegoria
della radio «che si legge in due modi, diritto
e capovolto, come quelli a capriccio che si
facevano nel ’700 e nell’’800», e vi si annunciano
anche una Briggidia, una Golfidia, una Euradia,
una Filmidia ecc. – ancora una volta, dunque,
una riattualizzazione dell’Antico – cioè la serie
di disegni dedicati alle “muse d’oggi”. Buzzi ne
pubblicherà tre: Briggidia («Domus», VII, n. 73,
gennaio 1934, p. 17), Golfidia («Domus», VII, n. 73,
gennaio 1934, p. 55) ed Euradia («Domus», VII,
n. 77, maggio 1934, p. 45). Ma nell’archivio
di Buzzi sono conservate anche le raffigurazioni
di Barinnia (la musa del Bar), Filmidia, La Réclame
e Psicomene. Cfr. Archivio Buzzi, settore Arti
Applicate, fasc. n. 75 “Muse moderne”. Sulle Muse
buzziane cfr. Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 92
(20.9.1975): «Riprendere i miei disegni delle
nuove Muse, le Muse d’oggi un po’ alla BraquePicasso nel colore: Radio, Film, Sport, Velocità,
Rumore, Violenza, Disordine, Anarchia, Stultitia,
Oblio, ecc.». Gli originali della “Giornata dell’uva”
e della “Giardiniera all’italiana” sono conservati
in Archivio Buzzi, settore Arti Applicate, fasc. n. 74
“Costumi di fantasia e giardineschi”.
L’Arcimboldi torna nella Pomona del tempietto
di Flora e Pomona: «Per il padiglione di Flora
alla Scarzuola [...] trofeo agricolo sopra una
Pomona arcimboldesca in pietra scolpita, cioè
col corpo composto di frutta (e pochi fiori)
anche gigantesche, come angurie, poponi,
zucche, zucchine ecc. (cavate dallo stesso blocco
o messe insieme con i pezzi che ho già pronti
e altri tratti dal modello che è a Roma). Il trofeo
deve lasciar vedere il Castello di Montegiove
(ma nascondere il traliccio della linea elettrica)
come elemento di fondo del paesaggio»,
Scarzuola. Frontespizi, Venezia 1973, cit., c. 11,
22.9.1972. Arcimboldesca è anche l’allegoria
dello “Spauracchio-Spaventapasseri”, realizzata
assemblando rottami di ferro e collocata nel
boschetto nei pressi della Barca di Polifilo, su cui
si veda Adriano Alpago Novello, Un’inedita follia.
L’incredibile acropoli. La Scarzuola di Tomaso
Buzzi: “delirio d’architettura” o lucida
anticipazione culturale?, in «Casa Vogue», n. 162,
aprile 1985, pp. 230-243: 238.
133 Il Palazzo Ducale di Sabbioneta - III, cit.,
pp. 283-284.
134 E.V. Quattrova, La cucina elegante…, cit.,
p. 169.
135 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., pp. 60-61
(12.1.1967).
136 Cfr. ivi, pp. 53-54 (2.8.1958).
137 Buzzi cita proprio la via Appia nella c. 23
del quaderno Museo navale 1974, in un appunto
datato 2.9.1973 Venezia.
138 Manfredo Tafuri, L’architettura del
Manierismo nel Cinquecento europeo, Officina
Edizioni, Roma 1966, p. 245.
139 Cfr. Archivio Buzzi, settore Arti Applicate,
fasc. n. 1 “Repertori architetture romane”,
cart. n. 3: “Edifici romani dal Montano” e ibid.,
fasc. n. 15 Repertori: “Mobili XVI-XVII sec., soffitti
lignei e pavimenti”, cart. n. 2: “Soffitti lignei
e scomparti di pavimento”.
103
140 «Hanno ragione, in modi diversi, sia Paolo
Misciattelli, che Uguccione di Sorbello, che
Fernande, che Ester Bonaccossa ed altri quando
dicono che debbo scrivere un libro, come
una guida per visitare la Scarzuola e coglierne
certi significati segreti, certe implicazioni,
il simbolismo, che è classico, medievale,
rinascimentale, manieristico, barocco e anche,
perché no? decadente, nascosto e magico,
il complesso estremamente manieristico spinto
all’eccesso, altrimenti i contemporanei e i posteri
non capiranno quasi nulla di certi significati
riposti, appena accennati come echi lontani
e riflessi sbiaditi semicancellati anche letterari,
come i ricordi delle ville di Plinio, il promemoria
di Montaigne, il “Ab Olympo” di Mantegna,
il bosco di Villa Orsini a Bomarzo, il Polifilo
di Frate Francesco Colonna, Serlio, ecc. i Capricci
e le Follies, le fantasie», foglio volante Scarzuola
29.12.1967 Parigi, verso; cfr. anche Tomaso Buzzi,
Lettere..., cit., p. 90 (2.3.1975); e Note sul corpo
umano…, cit., c. 99, recto e verso, 17.9.1975.
141 Tomaso Buzzi, Lettere..., cit., p. 78
(15.5.1972).
142 Archivio Buzzi, settore Arti Applicate, fasc. n. 1
“Repertori architetture romane”, cart. n. 3.
143 Nei suoi cahiers giovanili Buzzi ha riprodotto
una marca tipografica del Cinquecento: una
quercia secca in alto e germogliante in basso con
un cartiglio: «Spes Iovis qvercvs fvlmine advsta
viret», in Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 3 “Album arte antica e teatro”, album n. 12,
c. 12. Buzzi ha inoltre disegnato una serie di alberi
sacri in Archivio Buzzi, settore Arti Applicate,
fasc. n. 14 “Repertori: Mosaici classici (Motivi
per pavimenti Sale da Pranzo)”, cart. n. 1.
144 Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 2 “Album città varie e arte antica”, album
n. 15, c. 15 verso. Cipresso che non è altro che
la metamorfosi di Ciparisso: cfr. Tomaso Buzzi,
Lettere..., cit., p. 89 (2.3.1975). Un cipresso
si eleva anche nel primo e nel terzo giardino
dell’Hypnerotomachia Poliphili. Sul Poliphilo
come fonte della Scarzuola si veda il saggio
di Enrico Fenzi in questo volume.
145 Sabbioneta, in fondo, viste le sue limitate
dimensioni, non è che una città in miniatura –
«ogni edificio sabbionetano è ridotto alle giuste
proporzioni» (Il “Teatro all’antica” di Vincenzo
Scamozzi in Sabbioneta, cit., p. 524), scrive
Buzzi – anche se versione in folio della città
disegnata dallo Scamozzi all’interno del teatro.
Ma non avviene forse lo stesso anche nella
Scarzuola? Non è questa la versione ampliata
di quel “sedicesimo” di città che è l’Acropoli?
146 Scarzuola. Frontespizi, Venezia 1973, cit.,
c. 4, 14.9.1972.
147 Il Palazzo Ducale di Sabbioneta - III, cit.,
p. 276.
148 Ibid.
149 Alcune recenti architetture da giardino...,
cit., p. 19. In questo, Buzzi sembra essere
perfettamente d’accordo con Francis Bacon:
«God Almightie first Planted a Garden. And
indeed, it is the Purest of Humane pleasures. It is
the Greatest Refreshment to the Spirits of Man;
Without which, Buildings and Pallaces are but
Grosse Handy-works: And a Man shall ever see,
that when Ages grow to Ciuility and Elegancie,
Men come to Build Stately, sooner then to Garden
Finely: As if Gardening were the Greater
Perfection» (cfr. Mario Melchionda, Gli “Essayes”
di Francis Bacon. Studio introduttivo testo critico
e commento, Olschki, Firenze MCMLXXIX, p. 343,
cap. XLVI: Of Gardens).
150 I palazzi ducali di Sabbioneta. II, Il Palazzo
del Giardino, cit., p. 230.
151 In uno schizzo non datato della “Fontana”
Buzzi ha scritto, in basso: «enorme mascherone
nel centro del teatro, fra le 2 scalee a rappresentar,
quasi a contrafforti della Maschera teatrale,
il Populazzo»; e, in alto: «Dietro al mascherone
vi saranno le “Latrinæ” sì che gli occhi saranno
le finestre, le nari la ventilazione, e la boccaccia,
almeno simbolicamente, la Fogna (in odio
alla Plebe sciocca e trionfante)».
152 Foglio volante Scarzuola 29.12.1967 Parigi,
verso.
153 Che, con villa Aldobrandini a Frascati, «è quasi
il paradiso delle architetture da giardino», Alcune
recenti architetture da giardino..., cit., p. 19.
154 Una sorta di “prima” Rometta è quella
disegnata da Buzzi nel cartone per la vetrata
realizzata da Pietro Chiesa dal titolo Stracittà
(«Domus», I, n. 6, 15 giugno 1928, p. 21).
Vi compare una specie di “acropoli” romana,
in cui si riconoscono il Pantheon, il Colosseo, il
teatro di Marcello, la colonna Traiana, la piramide
di Caio Cestio, un obelisco e tre archi trionfali. Vi è
dunque già prefigurata l’Acropoli della Scarzuola.
Il titolo rimanda alla tendenza della letteratura
italiana del primo dopoguerra ad aprirsi verso
le forme più moderne della cultura europea, in
contrapposizione all’ideologia dello “strapaese”,
che, al contrario, è quella tendenza letteraria dello
stesso periodo che s’ispirava soprattutto alla vita
e alla tradizione italiana, non senza una vena
di nazionalismo, in polemica contrapposizione
a ogni forma di cosmopolitismo ed esterofilia.
Cfr. lo schizzo di Buzzi del “bar strapaesano”
in G[io] P[onti], Una sala da pranzo per una casa
di campagna secondo l’architetto Tomaso Buzzi,
in «Domus», II, n. 7 [19], 1° luglio 1929, pp. 22-23.
Il disegno è a p. 23.
155 Pitture, Autobiografia, Vecchie idee
e Scarzuola, 2.1.1971 Roma.
156 Autobiografia e Pitture, 20.3.1972 Roma.
157 «Mi sembra curiosa la persistenza
dell’immagine della Rometta, com’è costruita
al fondo del viale delle Cento Fontanelle,
nel giardino della Villa d’Este a Tivoli, immagine
che mi ha suggerito alcuni quadri abbozzati
nel 1943 e 1945: uno di essi lo dipingevo, a Milano,
con colori tragici, il 25 aprile 1945, giorno della
Liberazione, o meglio, il giorno precedente, chiuso
in casa» Scarzuola. Frontespizi, Venezia 1973,
cit., c. 4, 14.9.1972.
158 Ibid.
159 Splendidi quattro appunti anti nei suoi
cahiers giovanili con le descrizioni di Siena,
di Perugia, di San Gimignano e di Assisi: «Vie di
Siena = sdruccioli – rampe. Costarelle – chioschi.
Chioschetti – vicoli. – casa stretta a casa, porta
vicino a porta, finestra accanto a finestra. tutto
legato – tutto connesso intimamente. – archi
innumerevoli legano le facciate e i fianchi delle
case – passaggi a parete fanno comunicare
tra loro le abitazioni – terrazze e giardini pensili
permettono visite senza cerimonie. – cortili neri
e accigliati – vecchie fontane sussurranti –
sventaglianti il capelvenere della vaschetta
consunta. – e cupole e torri e campanili si vedono,
di tra le case, dal sotto in su, come pavesati dai
festoni dei panni stesi, che si dondolano appena
nell’aria morta dei vicoli – e ovunque reliquie
murate, stemmi, ciglio di capitelli, bifore cieche,
scritte stracciate, sedili di pietra che l’amore
generoso = al passante = l’ipocrisia prudente
faceva apparecchiare lungo il piede dei palazzi;
sotto le mensole massicce delle finestre terrene –
caratt. le finestrelle del “limbo”», Archivio Buzzi,
settore Disegni giovanili, fasc. n. 1 “Album
monografici città e regioni”, album n. 4, c. 22 recto
e verso; «La città varia e caratteristica – Ogni
edificio è fatto per il posto che occupa e non mai
il posto è stato modificato per l’edificio –
L’architetto è stato geniale perché mancava
di libertà: costretto a seguire le indicazioni del
terreno si è mostrato più ricco di idee – Viuzze
tutte ombre, ripide – tra le facciate delle vecchie
case, una su una giù, una fatta alta alta, una fatta
bassa bassa, coi tetti sporgenti a visiera,
membrati di legno – chiesette umiliate in fondo
alle piazze. – ogni casa fa specie a sé: le varietà
non si contano. non sono uniformi che
nell’assenza di uniformità. – Case che furon
chiese, campanili che erano torri – baluardi
una volta case, giardini dov’eran fortezze,
muri piantati sugli abissi e abissi formati là
dov’eran mura –», ivi, album n. 5, c. 29 recto;
«S. Gimignano dalle belle torri – Le viole
di Santa Fina. – città piccola – erta di torri,
canora di fontane. rintoccante di campane, fiorita
alle crociere delle finestre quattrocentesche
di violaciocche d’oro, di gerani fiammeggianti
e di garofani sanguigni – Torri snelle – palazzi
massicci, campaniletti scapitozzati, e tutti
occhieggianti di archetti e finestrelle e fioriti
di fregi e di stemmi. – e tutto bigio, del bigio
verdastro e come sordamente vibrante della
pietra del paese –», ivi, album n. 6, c. 19 recto;
«ASSISI. S. Francesco e Santa Chiara. – Le case
si aggrappano, su su, per varî colli. E le radici
dell’una paiono crescere sul tetto dell’altra –
barbacani simili a spalle poderose che reggono
nella lotta per l’altezza – case sui trampoli – case
sui gradini – case snelle come torri, case merlate
e tarchiate. – mille ferite e mille cicatrici – mille
ricordi di guerra e di pazienza – di forza rude
e di mistico raccoglimento. caratt. le “porte
del morto”», ivi, album n. 7, c. 19.
160 Il “Teatro all’antica” di Vincenzo Scamozzi
in Sabbioneta, cit., p. 520.
161 Indica una giubba maschile, lunga fino
al ginocchio e stretta alla vita da una cintura,
usata specialmente nei secoli XVII e XVIII.
162 Che le dimensioni minuscole di quasi tutti gli
spazi chiusi, ma anche all’aperto, della Scarzuola
derivino, oltre che dal “modulo” di Buzzi – noto
per la sua bassa statura, da cui il soprannome
di “Buzzino” – anche dai “famosi camerini di
Mantova” e dal “salottino” del palazzo del Giardino
di Sabbioneta? Cfr. I palazzi ducali di Sabbioneta.
II, Il Palazzo del Giardino, cit., p. 236.
163 Foglio volante 16.0.1957 [s.l.]. Ma si vedano
anche gli schizzi per un «muro di libri» e per una
«piramide di libri», foglio volante [s.d. né l.].
164 Foglio volante 17.7.1948 [s.l.], con l’aggiunta:
riletto il 26.4.956 e il 25.12.1958 e il 21.11.1971 a
Roma, e con un punto interrogativo, in alto, sotto
la data primitiva, a segnare, come suggerisce
Enrico Fenzi, il dubbio sul luogo.
165 Leon Battista Alberti, Profugiorum
ab ærumna libri III, in Leon Battista Alberti,
Opere volgari, a cura di Cecil Grayson, vol. II: Rime
e trattati morali, Laterza, Bari 1966, pp. 105-183:
181-182.
166 Il Palazzo Ducale di Sabbioneta - III, cit.,
p. 289.
167 Cfr. Archivio Buzzi, settore Disegni giovanili,
fasc. n. 3 “Album arte antica e teatro”, album n. 12,
c. 8.