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La tesi di Russell sul denotare nei Principles Russell, Bertrand, I principi della matematica, Bollati Boringhieri, Torino, 2011 pp.102-118 La nozione del denotare (come molte nozioni di logica) è stata sinora resa oscura da una mescolanza con la psicologia. Vi è un senso di tale parola secondo cui noi denotiamo, quando additiamo o descriviamo qualcosa o usiamo le parole come simboli di concetti. Non è questo il senso di cui si vuole discutere. Tuttavia il fatto che la descrizione sia possibile (che, facendo uso di concetti, riusciamo a designare qualcosa che non è concetto) è dovuto ad una relazione logica tra alcuni concetti ed alcuni termini in virtù della quale questi concetti denotano quei termini. Questa nozione sta alla base delle teorie della sostanza, del rapporto S/P, dell’opposizione tra cose e idee, tra pensiero discorsivo e percezione immediata, sviluppi errati di una questione che dovrebbe essere discussa in maniera più circoscritta. Si dice che un concetto denota quando, se esso compare in una proposizione, la proposizione non verte sul concetto ma su un termine collegato peculiarmente con il concetto . Qui Russell fa una introduzione confusa. Potremmo ipotizzare (distinguendo denotazione e riferimento) che un termine o una espressione denotano necessariamente il proprio senso (ossia un oggetto noematico) mentre il parlante con quell’espressione si riferisce fallibilisticamente ad un oggetto più concreto di quello noematico all’interno di un livello ontologico predefinito dal contesto di comunicazione.. Se dico “incontrai un uomo”, la proposizione non parla di un uomo: quest’ultimo è un concetto che non va a passeggio per le strade ma vive nel chimerico mondo dei libri di logica. Quello che ho incontrato era una cosa non un concetto, un uomo effettivo con un sarto o un conto in banca etc. Questo presuppone che non solo uomo sia concetto ma lo sia anche un uomo. Il primo concetto ha N oggetti che cadono sotto di esso e che formano una classe che è anche un insieme (ovvero una classe di individui congiunti) mentre il secondo ha un solo oggetto che cade sotto di esso ma indefinito ovvero un insieme unario collegato ad una classe di N individui disgiunti. Perciò si parla di quell’uomo che però non è definito se non all’interno dell’enunciato e la cui individuazione è un’esigenza emergente dalla sua classificazione dal momento che si tratta di un uomo, ovvero uno di numero e ontologicamente determinato ma epistemicamente indefinito e da individuare all’interno di una classe di individui disgiunti. Ancora, la proposizione “qualsiasi numero finito è pari o dispari” è evidentemente vera, ma il concetto “qualsiasi numero” non è né pari né dispari. Sono solo i numeri singoli che sono pari o dispari. Oltre questi non v’è un’altra entità detta “qualsiasi numero” che sia pari o dispari e, se vi fosse, è chiaro che non potrebbe essere né pari né dispari. Quasi tutte le proposizioni che contengono la locuzione “qualsiasi numero” sono false se riferite al concetto qualsiasi numero. Allorchè vogliamo parlare proprio di tale concetto, dobbiamo scrivere la locuzione in corsivo o tra virgolette Qualsiasi numero è un concetto che ha un solo numero sotto di esso ma questo numero è di volta in volta una variabile dal momento che la classe corrispondente a tale concetto è una classe disgiunta (ovvero una classe di ogni numero disgiunto da tutti quanti gli altri e che dunque non compone con tutti quanti gli altri l’insieme di tutti i numeri). Invece numero è un concetto sotto cui cadono tutti i numeri e la cui estensione è la classe e al tempo stesso l’insieme di tutti i numeri. Esso equivale al concetto pari o dispari e questa equivalenza corrisponde a livello concettuale al fatto che ogni numero o qualsiasi numero è pari o dispari.. Spesso si asserisce che l’uomo è mortale, ciò che è mortale morirà ma ci sorprenderebbe sapere che è morto l’uomo (che non muore). Se “l’uomo è mortale” vertesse sull’uomo sarebbe falsa. La proposizione di fatto si riferisce agli uomini e non si parla del concetto uomini ma di ciò che questo concetto denota. L’intera teoria della definizione, dell’identità, delle classi, del simbolismo e della variabile è compresa nella teoria del denotare L’insieme di tutti gli uomini è l’estensione del concetto uomo che sarebbe vuoto se morissero tutti gli uomini e si potrebbe dire “l’uomo si è estinto” così come diciamo “il dodo si è estinto”. Perciò non è che ciò che materialmente succede non abbia alcuna rilevanza per la dimensione dei concetti. Ciò che si riferisce ad ogni uomo indirettamente riguarda anche il concetto uomo perché si riferisce all’estensione di tale concetto (in che misura è irrilevante per un concetto che degli oggetti cadano o meno sotto di esso?). Inoltre qualcuno potrebbe dire che un uomo che non sia mortale non sarebbe uomo dal momento che il concetto mortale, più semplice, costituisce (è una nota caratteristica) del concetto uomo. Infine quando diciamo che l’uomo è un animale razionale possiamo anche non riferirci a tutti gli uomini ma sicuramente diciamo qualcosa del rapporto tra il concetto uomo e il concetto intersezione tra animale e razionale. Un uomo può benissimo essere irrazionale ma in questo modo si estranea dall’umanità. Da ciò forse la tendenza antica a vedere nell’idea (nel concetto) il telos dell’uomo ovvero ciò a cui l’uomo deve approssimarsi, ciò a cui deve adeguarsi (c’è una adeguarsi dell’idea alla realtà ma anche un adeguarsi della realtà all’idea). Nella nuova concezione di Russell c’è una subordinazione dell’Essere alla Realtà mentre nel mondo greco c’è la subordinazione dell’Essere all’Idea. Nella modernità c’è il rifiuto dei ruoli prefissati che gerarchizzavano la società antica ma al tempo stesso l’impossibilità di controllare la realtà (che nell’antichità era però prerogativa dei pochi).. La nozione del denotare può essere ricavata dalle proposizioni S/P da cui sembra dipendere. Le proposizioni più semplici sono quelle in cui troviamo un solo predicato non usato in forma di termine e vi è solo un termine cui l’anzidetto predicato viene riferito. A tali proposizioni si può dare il nome di proposizioni S/P. Alcuni esempi sono: A è, A è uno, A è umano. I concetti che vengono detti predicati potrebbero anche chiamarsi concetti-classe perché danno origine a classi, ma bisogna distinguere tra predicati e concetti-classe. Le proposizioni del tipo soggetto/classe (tipo “A è un uomo”) implicano sempre e sono sempre implicate da altre proposizioni il cui carattere consiste nell’asserire che un individuo appartiene ad una classe. Così gli esempi fatti prima sono equivalenti a: A è un entità, A è un’unità, A è un uomo I concetti sono i predicati (o meglio le proprietà) in quanto oggetti, ovvero le proprietà di cui si predica qualcosa. Sono il risultato di una sorta di rovesciamento meta-linguistico per cui ciò che si trova in posizione predicativa viene riportato in una posizione oggettuale, mentre si può ipotizzare che ciò che si trova in una posizione oggettuale possa essere messo in posizione predicativa solo quando si passa ad un rapporto di equivalenza. Le classi sono poi l’estensione dei concetti.. Queste nuove proposizioni non sono identiche alle primitive, dato che hanno una forma completamente differente. Intanto l’è di queste proposizioni è ora l’unico concetto non usato come termine. Un uomo non è né un concetto né un termine ma un tipo speciale di combinazione di certi termini e cioè di quelli che sono umani “A è umano” e “A è un uomo” sono comunque proposizioni S/P anche perché pure “A corre” è una proposizione S/P se il predicato non è il concetto ma la funzione proposizionale (ciò che corrisponde al verbo grammaticale più il complemento). Nel primo caso abbiamo la proprietà, nel secondo caso abbiamo una relazione tra oggetto e concetto (la quantificazione), il modo con cui un oggetto cade sotto il concetto. Nel primo caso non si chiarisce se ci sono uno o più individui che cadono sotto il concetto che oggettualizza la proprietà, nel secondo invece questo chiarimento avviene. Nel primo caso abbiamo una descrizione parziale, nel secondo caso abbiamo un descrizione che esplicita il suo carattere parziale o definitorio (in quest’ultimo caso se si tratta di una descrizione definita). Nel primo caso si dice semplicemente che un oggetto ha una determinata proprietà ma non si dice se sia l’unico ad averla o uno dei tanti ad averla. Nel secondo caso questo chiarimento viene effettuato.. La relazione di Socrate con un uomo è completamente diversa da quella che Socrate ha con l’umanità. Infatti la proposizione “Socrate è umano” non va considerata, se il punto di vista ora spiegato è corretto, come un giudizio di relazione tra Socrate e l’umanità, poiché questo modo di intendere farebbe comparire umano come termine in “Socrate è umano” “Socrate è uomo” oppure “Socrate è umano” sono due modi di dire che Socrate cade sotto il concetto uomo o sotto il concetto umano. Questi concetti, contrariamente a quello che dice Russell, sono termini. Esso sono concetti diversi che non hanno la stessa estensione dal momento che umano ha diverse accezioni e soprattutto sotto di esso cadono non solo individui appartenenti ad una determinata specie animale ma anche individui appartenenti ad altre specie oltre a comportamenti, insediamenti etc. Un’altra differenza tra uomo e umano è che un uomo cade sotto il concetto uomo in modo diretto mentre sotto il concetto umano cadono diverse specie di oggetti che possono vedersi attribuita la proprietà dell’umanità. Mentre nel caso di uomo abbiamo un concetto-classe nel caso di umano abbiamo un concetto-proprietà. “Socrate è un uomo” indica invece l’appartenenza ad una classe che è l’estensione del concetto uomo ed indica la relazione che potremmo definire quantificativa dell’individuo ad una classe che ha più elementi che non quell’individuo. L’uso cioè dell’articolo serve a determinare il rapporto quantificazionale che ha un individuo rispetto a quella classe (se sia cioè l’unico oggetto a cadere sotto quella classe o se sia uno dei più oggetti che cadono sotto quella classe).. Questa proposizione implica una relazione di Socrate con l’umanità (e cioè implica “Socrate ha umanità”) e che inversamente questa relazione implica tale proposizione soggetto/predicato. Ma le due proposizioni possono essere chiaramente distinte ed è importante che le si distingua, per la teoria delle classi. Abbiamo quindi, per ogni predicato, tre tipi di proposizioni che si implicano reciprocamente e cioè “Socrate è umano”, “Socrate ha umanità” e “Socrate è un uomo”. La prima contiene un termine e un predicato, la seconda due termini e una relazione (il secondo termine essendo identico con il predicato della prima proposizione) mentre la terza contiene un termine, una relazione e una disgiunzione. Vi sono due proposizioni affini espresse dalle stesse parole ovvero “Socrate è un-uomo” (identità di Socrate con un individuo non determinato) e “Socrate è-un uomo” (relazione di Socrate con il concetto-classe uomo) Vanno esaminati prima i concetti utilizzati e poi eventualmente i rapporti di tali concetti con gli oggetti all’interno di una proposizione. Uomo è concetto-classe la cui estensione è la classe di tutti gli uomini intesi come appartenenti alla specie homo sapiens sapiens. Umano è concetto-predicato la cui estensione si ottiene indirettamente individuando l’insieme di tutti gli oggetti che hanno relazione con almeno un individuo appartenente alla classe degli uomini o che condividono con gli uomini un certo numero di note caratteristiche (per cui si parla di comportamento umano, insediamento umano, cane umano etc.). Umanità è il concetto oggettualizzato che non può essere utilizzato come attributo all’interno di un predicato al contrario di uomo e umano che sono prevalentemente utilizzati come attributi ma possono anche occupare il posto di soggetto grammaticale di un enunciato (e quindi di oggetti che saturano una funzione proposizionale costituendo una proposizione). Perciò se si dice “Socrate è uomo” e “Socrate è umano” si tratta di proposizioni S/P dove uomo e umano sono mere proprietà o attributi riconducibili ad un concetto senza passare per l’estensione insiemistica del concetto e dunque senza precisare la relazione quantificata tra l’oggetto e il concetto. Se si dice “Socrate ha umanità” abbiamo la relazione tra due oggetti. Se si dice “Socrate è un uomo” invece la proposizione S/P vede che il cadere dell’oggetto sotto un concetto è quantificato attraverso l’appartenenza di un individuo ad una classe (di un elemento ad un insieme) dove si definisce se l’individuo è l’unico (di un altro insieme esplicitato o meno) ad appartenere a quella classe o è solo uno degli individui appartenenti a quella classe. “Socrate è un uomo” equivale a “Socrate è un elemento dell’insieme degli uomini” per cui la distinzione russelliana tra “Socrate è (un uomo)” e “Socrate è un (uomo)” non ha molta rilevanza (per quanto sia corretta). E’ vero infatti che quando dico “Ho incontrato un uomo” posso voler dire “Ho incontrato un (uomo)” per dire “Ho incontrato un elemento della classe degli uomini” (evidenziando così una duplice determinazione dell’oggetto) e posso voler dire “Ho incontrato (un uomo)” per dire “ho incontrato un elemento della classe degli uomini che non so determinare con altri attributi” (evidenziando così una duplice determinazione dell’oggetto ma anche la mia incapacità di distinguerlo dal resto degli uomini, anche se in realtà dietro tale incapacità si cela l’irrilevanza di una possibile descrizione più nel dettaglio). Tuttavia quando dico “Socrate è un (uomo)” non posso dire che Socrate sia identico ad un elemento per altri versi indeterminato della classe degli uomini dal momento che l’attribuzione del nome vuol dire aver individuato un uomo all’interno della classe degli uomini, tanto che in un ipotetico dialogo dove A dice “nella baracca c’era un uomo” la risposta di B non è “un uomo è zio Tom” ma “quell’uomo è zio Tom” per cui la valenza epistemicamente difettiva di “ho visto un uomo” non può essere trasferita alla proposizione “zio Tom è un uomo” dove l’articolo indeterminativo non ha senso indefinito ma unicamente partitivo (e dunque quantificativo anche se solo apparentemente numerale).. Tuttavia nell’uso linguistico comune ci sono anche differenze semantiche per cui uomo è il corrispettivo del vir latino mentre umano è il corrispettivo dell’homo terenziano (cui nihil humani alienum putandum est) e dunque quando si dice “Socrate è uomo” si dice che Socrate appartiene ad un sottoinsieme aristocratico di uomini mentre se si dice “Socrate è umano” o “Socrate ha umanità” si dice che Socrate non è una bestia e non è come gli uomini che sono simili a bestie, mentre se si dice “Socrate è solo un uomo” si dice che Socrate ha degli uomini sia i pregi (cosa che lo ricomprenderebbe nel sottoinsieme aristocratico) che i difetti (cosa che lo ricomprenderebbe in un sottoinsieme un po’ meno aristocratico). Perciò è difficile, almeno in italiano, che “Socrate è un uomo”, “Socrate è uomo”, “Socrate è un essere umano” e “Socrate è umano” (o “Socrate ha umanità”) siano semanticamente equivalenti. Questo non solo per una funzione metaforica successiva del termine ma anche per una distinzione più antica tra categorie di uomini, distinzione che trova un corrispondenza nella distinzione greca tra anèr e anthropos e in quella latina tra vir e homo. Il concetto-classe differisce poco, se differisce, dal predicato mentre la classe, come opposta al concetto classe, è la somma o congiunzione di tutti i termini che hanno un dato predicato In realtà il concetto-classe può essere l’anello intermedio tra la proprietà e la classe, per cui la classe non è opposta al concetto-classe ma al massimo alla proprietà (che non si collega direttamente alla classe ma ha bisogno per fare questo del concetto-classe). Ci sono casi in cui la necessità di questa mediazione è più evidente come quando la proprietà è una qualità (tipo un colore) per cui bianco/a intesa come qualità ha un concetto che immediatamente si collega ad esso che è bianco che però per collegarsi ad una classe deve passare per un altro concetto e cioè il concetto-classe oggetto bianco per cui ogni oggetto bianco è un elemento della classe che è l’estensione del concetto oggetto bianco e indirettamente anche di bianco. La relazione che compare in “Socrate ha umanità” è caratterizzata del fatto che essa implica ed è implicata da una proposizione con un solo termine in cui l’altro termine della relazione è diventato un predicato. Una classe è una certa combinazione di termini, un concetto-classe è molto affine ad un predicato ed i termini (la combinazione dei quali forma la classe) sono determinati dal concetto-classe. I predicati sono in un certo senso i tipi più semplici di concetti, dato che compaiono nei tipi più semplici di proposizione I predicati sono gli atomi logici russelliani le cui combinazioni costituiscono i soggetti e la cui relazione con più soggetti costituisce le classi. Ad es. la qualità (atomo logico, predicato) bianco con altri predicati (rotondo, ruvido) costituisce i soggetti (ovvero le sostanze come una palla da tennis, quella palla da golf) e in relazione con più soggetti (cavalli, gatti, palline etc.) costituisce la classe degli oggetti bianchi. Il sinolo di predicati è l’oggetto (soggetto, sostanza). Il sinolo tra un predicato e degli oggetti costituisce una classe.. In connessione con ogni predicato vi è una grande varietà di concetti strettamente affini ed è necessario determinare fin dove essi sono distinti. Cominciando ad es. con umano si ha: uomo, uomini, tutti gli uomini, ogni uomo, qualsiasi uomo, l’umanità, la specie umana. Tutti questi, eccetto il primo, hanno un concetto che denota e un oggetto denotato Umano è tutto ciò che pertiene all’uomo e dunque è un concetto diverso da uomo, anche perché umano è un concetto-proprietà mentre uomo è un concetto-classe e perciò ad esso si riportano tutte le descrizioni denotanti oggetti (tutti gli uomini, ogni uomo, qualsiasi uomo). Uomini è un concetto sotto il quale cadono non uomini singolarmente intesi ma insiemi di uomini. L’umanità e la specie umana sono il primo un insieme che è estensione di uomo o di umano, il secondo un concetto delle scienze biologiche che può anche essere concepito come la sua estensione e cioè l’insieme degli individui homo sapiens sapiens.. Abbiamo anche nozioni meno strettamente analoghe di un uomo e qualche uomo che denotano oggetti diversi da se stessi (si indica qui oggetto per indicare sia il singolare che il plurale e anche ad indicare casi di ambiguità come qualche uomo). Si deve ricordare questo vasto apparato connesso con ogni predicato e si deve riuscire a produrre una analisi di tutte le nozioni qui esposte. La combinazione di concetti in modo da formare nuovi concetti, di complessità maggiore dei loro costituenti, è un argomento sul quale vari studiosi di logica hanno scritto moltissimo. Invece la combinazione di termini in modo da formare ciò a cui per analogia si può dare il nome di termini complessi è un argomento su cui si è scritto poco. Tuttavia l’argomento è di importanza vitale per la filosofia della matematica dato che la natura sia del numero che della variabile è connessa proprio a questo punto. Otto parole che ricorrono spesso nella vita quotidiana sono anche caratteristiche della matematica (tutti, ogni, qualsiasi, uno, qualche, alcuni, nessuno, il). Per la correttezza del ragionamento è essenziale che esse siano nettamente distinte l’una dall’altra I quantificatori, che sono costituenti necessari delle descrizioni, indicano il rapporto tra un individuo e la classe a cui appartiene e sono a mio parere un passaggio possibile dalla logica all’aritmetica (e dunque alla matematica). Essi consentono anche di meglio distinguere la logica aletica da quella epistemica (ad esempio a mio parere ogni ha una valenza aletica mentre qualsiasi ha una valenza epistemica).. Intanto è chiaro che una espressione la quale contenga una delle parole citate compie sempre la funzione del denotare. Sarà opportuno distinguere un concetto-classe da un predicato: si dirà che umano è un predicato e uomo un concetto-classe, benché la distinzione sia solo verbale. La caratteristica di un concetto-classe, come distinto dai termini in generale, è che “x è un A” risulta una funzione proposizionale quando e solo quando A è un concetto-classe. Bisognerà ritenere che quando A non è un concetto-classe non si ha una proposizione falsa, ma semplicemente nessuna proposizione, qualsiasi valore venga dato a (x) Diciamo che c’è un denotazione quando abbiamo a che fare con un rapporto quantificato tra oggetto e concetto (e dunque il concetto è un concetto-classe) In caso di un predicato possiamo sempre trasformare un concetto-predicato in un concetto-classe corrispondente (ad es. passare da bianco ad oggetto bianco). Perciò le due situazioni non sono così nettamente distinte. Non si capisce poi cosa intenda Russell quando dice che quando A non è un concetto-classe non si ha nessuna proposizione in “x un A” dal momento che è possibile trasformate un concetto-predicato in un concetto-classe e dal momento che si può anche dire “Giorgio è un buono” senza dover dire obbligatoriamente “Giorgio è un uomo buono”. Oltre tutto quanto si parla dei Trascendentali si usa la descrizione definita (Il Bello) e non quella indefinita ed in questo caso denotare direttamente il predicato è possibile al contrario di quella che è l’intenzione occamistica di Russell, al contrario cioè di quella che è la sua ricerca di nonsensi da censurare.. Questo ci autorizza a distinguere un concetto-classe relativo alla classe nulla (per il quale tutte le proposizioni della forma suddetta sono false) da un termine che non sia un concetto-classe per il quale non vi sono proposizioni della forma suddetta. Ciò spiega pure come un concetto-classe non sia un termine nella proposizione “x è un A” perché A deve avere una variabilità ristretta se la formula ha da continuare ad essere una proposizione. Ora si può dire che una espressione denotante consiste sempre di un concetto-classe preceduto dalle sei parole di cui si è parlato o da un loro sinonimo Va tenuto presente però che il concetto-classe e il termine che non sia un concetto-classe hanno una relazione tra loro. Ovvero è possibile passare dal concetto-predicato ad un concetto-classe ad esso corrispondente per cui la distinzione individuata da Russell non ha conseguenze rilevanti né sulla scienza né sulla metafisica.. Il primo problema che si incontra riguarda al denotare è quello se vi sia un unico modo di denotare sei tipi differenti di oggetti, oppure vi sono modi di denotare tra loro differenti? Nella seconda ipotesi l’oggetto denotato è il medesimo in tutti i sei casi oppure cambia allo stesso modo in cui cambia la maniera di denotarlo? Per affrontare questo problema è necessario in primo luogo spiegare la differenza del significato delle sei parole in questione. Qui sarà opportuno omettere per il momento la parola “il”, dato che essa è in una posizione differente dalle altre ed è sottomessa a limitazioni da cui le altri sono esenti Per quanto riguarda la denotazione essa individua la relazione tra oggetto (oppure oggetti) e concetto. Perciò la denotazione usa lo stesso concetto, ma ci sono diverse forme di denotare che corrispondono a volte allo stesso oggetto a volte ad oggetti diversi (quando si dice “un cane” ci si può riferire a cani diversi). Nei casi in cui la classe definita dal concetto-classe ha solo un numero finito di termini, è possibile omettere del tutto il concetto-classe ed indicare i vari oggetti denotati mediante l’enumerazione dei termini e la connessione ottenuta con et o con vel secondo i casi Perciò i concetti assumono rilevanza soprattutto nel caso gli oggetti che cadono sotto di essi siano di numero infinito e non siano perciò esauribili estensionalmente.. Cominciano a considerare due termini soltanto (ad es. Tizio e Caio). Gli oggetti denotati dai vocaboli tutti, ogni, qualsiasi, uno e qualche (la distinzione tra uno e qualche è fatta in un modo non consacrato dal linguaggio e anche la distinzione tra tutti e ogni è una forzatura dell’uso comune) sono rispettivamente implicati nelle seguenti cinque seguenti proposizioni: A. Tizio e Caio sono due corteggiatori della signorina Smith; B. Tizio e Caio fanno la corte alla signorina Smith; C. Se era Tizio o Caio che avete incontrato, è un ardente innamorato della signorina Smith; D. Se era uno dei corteggiatori della signorina Smith sarà stato Tizio o Caio; E. La signorina Smith sposerà Tizio o Caio. Benché in queste proposizioni siano implicate solo due forme di espressione (Tizio et Caio e Tizio vel Caio) al tempo stesso sono implicate cinque combinazioni differenti: nella prima proposizione sono Tizio e Caio ad essere due e questo non è vero dell’uno e dell’altro separatamente. Tuttavia non è il complesso costituito da Tizio e Caio che è due, perché questo complesso è soltanto uno. Il due si riferisce ad un’autentica combinazione di Tizio con Caio, a quel tipo di combinazione che è caratteristico delle classi Nel caso di “tutti”, si evidenzia come gli individui che appartengono all’insieme B costituiscono anche un insieme A incluso nell’insieme B. Nel caso di “ogni” questa evidenza è più debole. Nel caso di “qualsiasi” c’è la verifica della proposizione universale (scegli a caso un A che è anche un B, oppure se x è A, x è B). Nel caso di “uno” parliamo di un non ben definito appartenente ad una classe. Nel caso di “qualche” parliamo di almeno un x (ma non di tutti) che appartiene ad A e dunque appartiene anche a B. Nel caso di “alcuni” parliamo di più d’uno ma non di tutti.. “Tutti gli A” è un concetto singolo perfettamente definito che denota i termini di A presi tutti insieme. Così presi, tali termini hanno un numero, che può essere perciò considerato, volendo, come una proprietà del concetto-classe, perché è determinato per ogni dato concetto-classe. “Tutti gli A” denota A1 e A2 e A3 … e An E si tratterebbe di una proprietà che può cambiare nel tempo. Ma come si determina? Dovrebbe determinarsi in base a quanti oggetti esistenti cadono sotto il concetto-classe. Torniamo di nuovo al quantificatore esistenziale e alla sua ambiguità o meglio a cosa voglia dire che sotto un concetto cada un oggetto e cosa voglia dire che un determinato concetto corrisponda ad un insieme vuoto. In realtà tutto è legato appunto ai livelli di esistenza che sono gli insiemi da cui si traggono gli oggetti che saturano una variabile all’interno di una funzione proposizionale. Questi insiemi e la loro estensione sono presupposti, sono il frutto di una opzione. Nella seconda proposizione al contrario ciò che è asserito è vero di Tizio e Caio in modo distinto. La proposizione è equivalente a “Tizio corteggia la signorina Smith e Caio corteggia la signorina Smith”. La combinazione indicata con la congiunzione non risulta la stessa del primo caso: nel primo caso riguardava tutti quanti collettivamente mentre nella seconda tutti quanti distributivamente cioè ognuno o ciascuno In realtà anche “tutti” ha un valore distributivo. La differenza forse sta nel fatto che in “ogni” il carattere distributivo tendenzialmente è in un certo senso visibile anche spazio-temporalmente. In genere “andiamo tutti al mare” vuol dire “andiamo tutti insieme” (per cui sembra che si riferisca all’intero insieme che va al mare) mentre “ognuno va al mare” vuol dire che ognuno ci va per conto suo o insieme ad altri indifferentemente. Diciamo che “tutti” (il totus latino, l’intero) esemplifica anche fenomenicamente che si tratta di un insieme, mentre “ogni” l’insieme in qualche senso lo cela. “Tutti” fanno una manifestazione, “ognuno” è membro silente della maggioranza silenziosa. “Tutti” è comunitario, mentre “ogni” è liberale.. Possiamo chiamare la prima una congiunzione numerica (dato che dà origine al numero), la seconda una congiunzione proposizionale dato che la proposizione in cui compare è equivalente ad una congiunzione di proposizioni. Bisognerebbe osservare che la congiunzione di proposizioni di cui qui si parla è di un tipo completamente differente da qualsiasi altra delle combinazioni considerate, essendo in realtà del tipo che si chiama prodotto logico. Le proposizioni sono combinate qua proposizioni e non qua termini. Ogni A” al contrario, benché denoti ancora tutti gli A, li denota in modo differente ovvero separatamente invece che collettivamente. “Ogni A” denota A1 e denota A2 e denota A3 … e denota An Diciamo che il quantificatore “tutti” è collegato al concetto di insieme, cosa che invece non riguarda il quantificatore “ogni”. In entrambi il rapporto tra individui e classe è caratterizzato dall’unicità (ossia si denotano tutti gli elementi di un insieme) e tuttavia nel caso di “tutti” l’insieme, l’estensione del concetto è esplicitamente tematizzata. La terza proposizione presenta il tipo di congiunzione da cui resta definito il qualsiasi. Questa nozione, che sembra a mezza strada tra una congiunzione e una disgiunzione, presenta alcune difficoltà e può essere ulteriormente spiegata nel modo seguente: Siano P e Q due proposizioni differenti, ognuna delle quali implichi una terza proposizione R. Allora la disgiunzione “P vel Q” implicherà R. Ora ipotizziamo che P e Q siano proposizioni che assegnano lo stesso predicato a due soggetti differenti (ad es. “x è A” e “y è A”): allora vi sarà una combinazione dei due soggetti a cui potremo assegnare il predicato in questione, ottenendo che la proposizione risultante sia equivalente alla disgiunzione “P vel Q”. Così supponiamo di avere “Se avete incontrato Tizio, avete incontrato un corteggiatore di Mrs. Smith” e “Se avete incontrato Caio, avete incontrato un corteggiatore di Mrs. Smith”. Da questo si inferisce “Se avete incontrato Tizio o Caio (Se avete incontrato Tizio o avete incontrato Caio), avete incontrato un corteggiatore di Mrs. Smith”. La combinazione di Tizio e Caio indicata qui è la stessa cosa di quella indicata dall’espressione “l’uno o l’altro di essi”. Essa differisce da una disgiunzione per il fatto che implica ed è implicata da un enunciato concernente ambedue: ma in esempi più complicati tale mutua implicazione viene meno. Questo metodo di combinazione differisce in realtà da quello indicato con ambedue ed è anche differente da entrambe le forme di disgiunzione. Magari è adatto il nome di congiunzione variabile Mentre “Ogni A è B” coinvolge solo due concetti e dice che, presi ad uno ad uno, tutti gli A sono B, in “Qualsiasi A è B” non è necessario che tu debba svolgere tutta l’estensione del concetto A, ma è possibile una verifica diciamo “a campione”. I concetti coinvolti come se fossero tre: quelli oggettivi A e B e quello subordinato ad A ma con contenuto variabile (sia quantitativamente che qualitativamente) che ha un ruolo epistemico e cioè elemento di A preso a campione di verifica. Mentre tutti e ogni sono quantificatori ontologici, qualsiasi è un quantificatore incompleto (vuol dire ogni A tu prendi) o meglio un quantificatore epistemico.. “Qualsiasi A” denota solo un A ma non importa assolutamente quale e ciò che è detto sarà ugualmente vero quale che esso sia. Inoltre “Qualsiasi A” denota una variabile A e cioè: qualsivoglia A particolare venga sostituito in luogo di esso, è certo che “Qualsiasi A” non denota questo A particolare; eppure se una qualunque proposizione è vera per qualsiasi A, essa è vera anche per quell’A particolare. “Qualsiasi A” denota A1 o A2 o A3 … o An dove il connettivo “vel” significa che non ha importanza quale prendiamo Qualsiasi A prendiamo (non importa quale) è B proprio in quanto ogni A è B. Ovvero da “Ogni A è B” si deduce che “Qualsiasi A è B” e dunque quest’ultimo è la conferma del primo.. La prima forma di disgiunzione è data da “Se era uno dei corteggiatori della signorina Smith sarà stato Tizio o Caio”. Essa è la forma che denoteremo con l’espressione “un corteggiatore”. Qui sebbene debbono essere stati Tizio o Caio, non è vero che debba essere stato Tizio e neppure che debba essere stato Caio. La proposizione non è dunque equivalente alla disgiunzione di proposizione “deve essere stato Tizio o deve essere stato Caio” “Qualche corteggiatore” indica “Tizio vel Caio vel Sempronio” anche se non denota tutti e tre (come sarebbe se fosse vel) ma solo tutti e tre singolarmente o tutte e tre le coppie combinabili a partire dal terzetto. “Un corteggiatore” indica “Tizio AUT Caio AUT Sempronio” ovvero uno qualsiasi dei tre, ma uno determinato e dunque nessuna coppia e nessun terzetto.. La proposizione infatti non è suscettibile di venire enunciata né come disgiunzione né come congiunzione di proposizioni, eccetto che nella seguente forma molto indiretta: “se non era Tizio, era Caio; e se non era Caio era Tizio” Al tempo stesso “Se è Tizio, non è Caio e se è Caio non è Tizio” (dunque aleticamente è un aut-aut). Naturalmente possiamo dire che sia incerto se Caio e Tizio siano la stessa persona (anche se ciò comporterebbe l’uso di due nomi per la stessa persona e ciò non rispetterebbe le regole formali relative all’attribuzione di un termine singolare). In questo caso se non è Caio o non è Tizio, sarà sicuramente Tizio nel primo caso e Caio nel secondo, ma se è Tizio o se è Caio, non possiamo escludere che sia Caio (non possiamo dire con sicurezza che non sia Caio) nel primo caso e Tizio (non possiamo dire con sicurezza che non sia Tizio) nel secondo. In quest’ultimo caso però non ci sarebbe vera disgiunzione dal punto di vista aletico ma solo dal punto di vista epistemico. Lo stato di cose sarebbe comunque unico mentre il caso della disgiunzione in cui siano vere entrambe le proposizioni prevede che sia vera una congiunzione di proposizioni (siano coesistenti due stati di cose) e non una proposizione sola (in quanto “Ho incontrato Tizio” e “Ho incontrato Caio” avrebbero lo stesso senso essendo Tizio e Caio la stessa persona).. Forma questa che diventa ben presto intollerabile quando il numero dei termini è aumentato oltre il due, e che diventa teoreticamente inammissibile quando il numero dei termini è infinito. Questa forma di disgiunzione denota quindi un termine variabile, cioè, quale che si sia scelto dei due termini, non denota questo termine particolare, eppure denota l’uno o l’altro di essi. In conseguenza di ciò possiamo dire che si tratta di una disgiunzione variabile L’articolo indeterminativo epistemicamente denota l’uno o l’altro di questi, ma aleticamente denota uno solo di essi. Il termine è variabile solo epistemicamente, ma di volta in volta coincide con un individuo determinato.. “Un A” denota una disgiunzione variabile: cioè una proposizione che sia valida per un A può essere falsa riguardo ad ogni A particolare Può essere falsa rispetto ad ogni altro A particolare. In questo caso però l’articolo indeterminativo diventa sempre determinativo se, individuando per quale degli A la proposizione risulta valida, noi possiamo utilizzare un concetto meno comprensivo e tale da essere coinvolto in una descrizione definita.. Onde essa non è riducibile ad una disgiunzione di proposizioni. Ad es. tra un punto qualsiasi e un altro punto qualsiasi giace sempre un punto, ma non sarebbe vero per nessun punto particolare che esso giaccia tra un punto qualsiasi ed un altro punto qualsiasi, essendoci molte coppie di punti di punti tra i quali esso non giace. “Un A” denota A1 o A2 o A3 … o An, quando il connettivo “vel” significa che non va preso nessun A in particolare, proprio come nell’espressione “tutti gli A” noi non dobbiamo prenderne nessuno in particolare Qui Russell meglio avverte la differenza tra i due piani in cui opera una descrizione indefinita. Essa ha come senso qualcosa che può fare riferimento ad ogni oggetto che cade sotto il concetto coinvolto nella descrizione, ma fa oggettivamente riferimento ad uno solo di essi e dunque ad un oggetto ben determinato che cade sotto il concetto coinvolto nella descrizione. Il senso è vago ma il riferimento è determinato (determinato dall’uso dell’unità numerica che è implicata dalla descrizione indefinita). Infine la seconda forma di disgiunzione è data da “La signorina Smith sposerà Tizio o Caio”. Ad essa si darà il nome di disgiunzione costante, dato che o vi si denota Tizio o vi si denota Caio, ma la scelta non è decisa. Ovvero la nostra proposizione ora è equivalente ad una disgiunzione di proposizioni come “La signorina Smith sposerà Tizio o sposerà Caio”. Essa sposerà qualcuno dei due e la disgiunzione denota uno di essi in particolare benché possa denotare l’uno o l’altro in particolare. “Qualche A” denota una disgiunzione costante. Essa denota proprio un termine della classe A, ma il termine denotato può essere qualsiasi termine della classe. Così la proposizione “qualche momento non segue ad un momento qualsiasi” significherebbe che vi fu un primo momento nel tempo, mentre la proposizione “un momento precede un momento qualsiasi” significa esattamente l’opposto, cioè che ogni momento ha i suoi predecessori. “Qualche A” denota A1 o denota A2 o denota A3 … o denota An, quando non è irrilevante quale A sia preso, ma al contrario se ne deve prendere uno particolare La differenza tra “Qualche” ed “Un” sta nel fatto che la prima è la disgiunzione tra l’indefinito singolare “Un” e l’indefinito plurale “Alcuni” (in pratica il concetto più comprensivo che li sussume). Nell’esempio fatto da Russell “un momento precede un momento qualsiasi” non vuol dire che ogni momento ha i suoi predecessori perché “Un” implica che il momento di cui si parla è uno ben determinato e quindi non v’è quantificatore universale mentre “Qualche momento non segue ad un momento qualsiasi” si riferisce a tutti i momenti che non sono l’ultimo momento qualora ve ne sia uno (di momento ultimo). Dunque è “un momento precede un momento qualsiasi” che vuol dire che c’è un primo momento. Certo che esiste un’accezione tipo “Un leone non attaccherebbe mai un uomo” ma si tratta di un caso che può significare “Un qualsiasi leone non farebbe ciò” oppure “Nemmeno un leone farebbe ciò”. Nel primo caso si tratterebbe del quantificatore “qualsiasi” preceduto dal mero numerale, nel secondo caso si tratta del mero numerale e non dell’articolo indeterminativo. . In tal modo le cinque combinazioni risultano tutte distinte l’una dall’altra. Queste cinque combinazioni non danno luogo a termini né a concetti ma solo ed esclusivamente a combinazioni di termini Più precisamente a rapporti quantificati tra oggetto e concetto (quando ci si riferisce all’oggetto o agli oggetti denotati) e poi a rapporti tra concetti (quando conseguentemente si attribuisce qualcosa all’oggetto o agli oggetti denotati).. La prima produce una molteplicità di termini, mentre le altre producono qualcosa di assolutamente peculiare, che non è né uno né molti In realtà nessuna dà conto della molteplicità per cui logicamente la molteplicità è contraddittoria. La prima (tutti) dà conto della molteplicità come unità e come totalità. La seconda e la terza (ogni e qualsiasi) danno conto dell’unità però come concretizzazione della totalità. La quarta (un, uno, una) si presenta come unità indeterminata e dunque come molteplicità realmente disgiunta ma sempre sussunta nell’unità. La quinta (alcuni, qualche) come unità della molteplicità che è sua volta unità di una molteplicità che è totalità.. Le combinazioni sono combinazioni di termini, effettuate senza l’uso delle relazioni. Esiste, in corrispondenza a ciascuna combinazione, almeno se i termini combinati formano una classe, un concetto perfettamente definito, che denota i vari termini della combinazione, combinati in modo specifico La combinazione non è tra termini ma tra termini e concetto anche se si può dire che il rapporto tra termine e concetto è riconducibile ad un rapporto tra termini ed altri termini. Però con il quantificatore universale non c’è un insieme ambiente distinto dai termini denotati. Perciò forse è più corretto parlare di rapporto tra termini (oggetti) e concetto. Possiamo dire però che il rapporto tra sottoinsiemi e insieme ambiente equivale al rapporto tra oggetti e concetto (o meglio tra concetto sovraordinato e concetto subordinato).. Quando si dà un concetto-classe A, bisogna ritenere che siano dati anche i vari termini appartenenti alla classe. E cioè, preso un qualsiasi termine, deve potersi decidere se esso appartiene o no alla classe. In questo modo si può avere una collezione di termini per altra via che non per enumerazione. Se poi una collezione possa venir data in modo ancora diverso dall’enumerazione o dal concetto-classe è molto importante, dato che ci mette in grado di trattare con collezioni infinite. Nel caso di una classe A che abbia un numero di termini estensionalmente elencabile (dunque una classe A con un numero finito di termini N) si possono illustrare queste varie denotazioni nel modo sopra descritto Possiamo trattare di collezioni infinite con il Concetto-classe (l’Idea platonica) perché tu non devi enumerare gli elementi dell’insieme ma solo distinguere di volta in volta se un oggetto cade sotto un concetto. Il concetto-classe è legato al quantificatore qualsiasi che è il quantificatore della verifica finita di una estensione infinita di un concetto. Questa verifica finita dell’Infinito si consuma nel rapporto tra particolare e Universale. . Risulta chiaro dalla discussione suesposta che, vi siano o no metodi differenti di denotare, gli oggetti denotati da tutti gli uomini, ogni uomo etc. sono certamente distinti. Sembra perciò legittimo dire che tutta quanta la differenza sta negli oggetti e che il denotare considerato in se stesso è il medesimo in tutti i casi La differenza sta nel rapporto tra l’oggetto o più oggetti e il concetto sotto cui essi cadono. “Tutti gli uomini” è una descrizione che si riferisce ad un insieme di oggetti che cadono sotto il concetto uomo. Questa descrizione denota quell’insieme. E i diversi casi qui studiati sono diverse descrizioni possibili di quell’insieme. Sono denotazioni diverse dello stesso insieme.. Esistono tuttavia molti difficili problemi connessi con l’argomento che riguardano specialmente la natura degli oggetti denotati. “Tutti gli uomini” (che identificheremo con la classe degli uomini) è palesemente un oggetto non ambiguo (benché grammaticalmente al plurale). Ma negli altri casi il problema non è semplice: sorge infatti il dubbio se si abbia a che fare con un oggetto ambiguo denotato in modo univoco o con un oggetto ben definito denotato in modo ambiguo. Si consideri a tal proposito la proposizione “incontrai un uomo”. E’ assolutamente certo in tal caso che quello che si è incontrato non era un essere ambiguo, ma un uomo perfettamente definito L’oggetto è denotato in modo ambiguo nel senso che le sue proprietà desumibili in quel contesto sono irrilevanti per la sua identificazione ed esso sarà caratterizzato da quello che farà a partire dal momento in cui il parlante lo ha incontrato. Dunque si tratta di una indeterminazione voluta, di una indeterminazione che gioca un ruolo nell’economia della narrazione da parte del parlante.. Nel linguaggio poco fa precisato la proposizione verrebbe espressa con le parole “incontrai qualche uomo” In italiano se dico “incontrai qualche uomo” intendo dire che incontrai più di un uomo e oltre tutto “qualche” è un funtore che ricomprende sia “uno” che “alcuni” e dunque corrisponde ad “almeno uno” e viene usata quando non si sa con esattezza se a saturare una funzione proposizionale siano uno o più oggetti.. Sta però il fatto che l’uomo effettivo, che si è incontrato non costituisce una parte della proposizione in esame, né risulta denotato in modo specifico dalle parole qualche uomo Ovviamente un oggetto reale non è parte di un enunciato il cui senso contiene il concetto sotto cui cade l’oggetto reale e con il quale l’espressione contenuta nell’enunciato denota l’oggetto reale. Ciò però non implica che l’espressione un uomo non denoti quell’oggetto che il parlante ha incontrato. Al massimo si può dire che non lo denota in maniera che chi ascolta possa identificarlo (questo sarebbe possibile con una descrizione definita) ma la denotazione è un rapporto tra l’espressione e l’oggetto e non un rapporto tra l’espressione, l’oggetto e le possibilità conoscitive di chi ascolta. Perché l’oggetto sia denotato da un’espressione denotativa è sufficiente per l’oggetto cadere sotto il concetto coinvolto dall’espressione (la quale si identifica come denotativa sulla base della presenza di quantificatori usati in collegamento con il concetto coinvolto).. Dunque, l’avvenimento concreto che si svolse non è asserito nella proposizione. Quello che vi si asserisce è semplicemente che si verificò un certo evento appartenente ad una classe di eventi concreti Il punto è che l’evento concreto è sempre asserito quale che sia il grado di vaghezza dei concetti coinvolti nell’enunciato. Anzi, quanto più i concetti sono vaghi tanto più l’enunciato ha probabilità di essere vero. Tuttavia nel caso dell’astrazione la verità non va a braccetto con la conoscenza. Perché la conoscenza sia maggiore bisogna raffinare e rendere più concreti i concetti e quindi bisogna rischiare l’errore come nel caso di Kripke “suo marito era gentile con lei”. Si fosse detto “quell’uomo era gentile con lei” l’errore si sarebbe evitato.. In questa mia asserzione entra in gioco tutta la razza umana: se qualsiasi uomo, che esistette o esisterà, non fosse esistito o non dovesse esistere, il valore della mia proposizione sarebbe stato differente Nel senso che sarebbe stata falsa?. E cioè, per esporre lo stesso problema in un linguaggio più intensionale se io sostituissi a uomo uno qualsiasi degli altri concetti-classe applicabili all’individuo che si ebbe l’onore di incontrare, la mia proposizione verrebbe cambiata pur risultando l’individuo in questione altrettanto denotato ora quanto prima Ciò mostra come un fatto possa essere interpretato in tanti modi diversi che però non sono alternativi tra loro (anche se i concetti più comprensivi tendono a diventare l’Altro rispetto al concetto più specifico; nessuno direbbe “Newton è un animale” oppure “Newton è un oggetto” anche se si tratta di proposizioni vere). Resta da discutere la nozione di il. Peano l’ha messa in evidenza dal punto di vista simbolico, con vantaggio per il suo calcolo, ma qui va discussa filosoficamente. Da questa nozione dipendono l’uso dell’identità e la teoria della definizione. Il vocabolo il al singolare è impiegato correttamente soltanto se lo riferiamo ad un concetto-classe che comprende un unico caso. Diciamo il re, il Presidente del Consiglio e così via (s’intende al tempo presente, l’attuale). In tali casi vi è un metodo per denotare un singolo ben definito termine mediante un concetto, metodo che non ci è fornito da nessuna delle cinque parole esaminate poco fa In realtà quando diciamo “Il presidente del Consiglio” sappiamo di mentire se non diciamo “L’attuale Presidente del Consiglio”. Intanto una descrizione definita con una determinazione temporale che non sia un intervallo determinato di tempo è come prendere il pallone con le mani in una partita di calcio. Infatti se tu dici “attuale” (ovvero se tu usi un indicale) l’unicità ne viene di conseguenza (anche se fossero gli unici ventiquattro). E’ l’immanenza indeterminata dell’indicale che non permette il decorso dei valori di una variabile.. E’ grazie a tale nozione che i matematici riescono a dare definizioni di termini che non sono concetti: possibilità questa che illustra la differenza tra la definizione matematica e quella filosofica. Ogni termine è l’unico caso di qualche concetto-classe e così ogni termine è, teoreticamente, suscettibile di definizione purché non si sia adottato un sistema in cui il detto termine sia uno dei nostri indefinibili Le definizioni matematiche di termini che non sono concetti sono però comunque definizioni di concetti in quanto non è immaginabile che in funzione del tempo un concetto sotto cui cade solo un oggetto possa vedere modificata la sua situazione. Bisogna però capire perché la matematica conservi un aspetto estensionale (ovvero non di concetti ma di oggetti cadenti sotto concetti) che evita che essa possa essere ridotta a scienza (logica) del rapporto reciproco tra concetti.. E’ un curioso paradosso ed un enigma per il pensiero simbolico che le definizioni, teoreticamente, non siano altro che enunciati di abbreviazioni simboliche di nessuna importanza per il ragionamento ed ivi inserite soltanto per convenienza pratica, mentre in realtà nello sviluppo di un argomento esse richiedono sempre una somma assai vasta di pensiero e spesso rappresentano alcune delle maggiori realizzazioni dell’analisi . Russell in realtà guarda la definizione da due punti di vista differenti. L’aspetto banale è la scelta del definiendum ossia dell’abbreviazione (del nome proprio, del termine di concetto) mentre l’aspetto non banale è l’esplicitazione del definiens di un termine singolare.. Sembra possibile spiegare questo fatto mediante la teoria del denotare. Un oggetto infatti può essere presente al pensiero, senza che si conosca alcun concetto di cui questo oggetto è il solo caso. E la scoperta di un tale concetto non costituisce solo un miglioramento nella notazione. La ragione per cui ha palesemente da essere così è che, appena si scopre la definizione, cessa di risultare assolutamente necessario al ragionamento ricordare l’effettivo oggetto definito, dato che soltanto i concetti sono applicabili alle nostre deduzioni. Nel momento della sua scoperta, ci sembra che la definizione sia vera, perché l’oggetto da definirsi era già nella nostra mente. Ma in quanto parte del nostro ragionamento essa però non è vera, bensì puramente simbolica, in quanto ciò che il ragionamento richiede non è di trattare proprio di quell’oggetto, ma solo di trattare dell’oggetto denotato nella definizione In realtà la definizione con una descrizione definita serve ad individuare l’oggetto ma non a conoscerlo completamente. Per cui non è vero che, definito l’oggetto, non sia necessario di tanto in tanto ritornare all’oggetto così com’era prima della definizione (nella misura in cui il termine singolare riassume tutte le descrizioni, definite ed indefinite, possibili dell’oggetto stesso). Ciò a meno che il definiens non sia abbastanza comprensivo da subordinare a sé tutti i concetti sotto cui l’oggetto cade. In questo caso però la definizione sarebbe piuttosto generica.. Nella maggior parte delle vere e proprie definizioni della matematica, ciò che viene definita è una classe di entità e la nozione di il non si presenta allora in modo esplicito. Anche in questo caso però ciò che viene realmente definito è la classe che soddisfa certe condizioni. Poiché una classe è sempre un termine o una congiunzione di termini, mai un concetto. Così la nozione di il entra sempre in gioco nelle definizioni Tuttavia la classe è lo stesso concetto inteso dal punto di vista estensionale. Essa è l’estensione del concetto.. E noi possiamo osservare in generale che l’adeguatezza dei concetti a trattare con le cose dipende interamente dalla non ambiguità della denotazione del singolo termine fornitaci da questa nozione Il concetto adeguato sarebbe quello che ci consente di individuare un oggetto ovvero un concetto coinvolto in una descrizione definita.. Il nesso tra il denotare e la natura dell’identità è importante ed aiuta a risolvere alcuni problemi piuttosto seri. Alla domanda se l’identità sia o no una relazione, e se un tale concetto addirittura esista non è facile rispondere. Si potrebbe dire infatti che l’identità non è una relazione dato che, quando viene asserita giustamente, abbiamo soltanto un unico termine, mentre per una relazione si richiedono due termini . L’identità è una relazione paradossale perché presuppone lo sdoppiamento di un termine (essendo una relazione con se stessi, una relazione riflessiva). Però il carattere riflessivo delle relazioni è comunemente accettato.. Anzi, potrebbe insistere un oppositore, l’identità non può essere, a rigore, proprio nulla. E’ ovvio infatti che due termini non sono identici, né può essere identico un termine, perché con che cosa sarebbe identico? Tuttavia l’identità deve essere qualcosa. Potremo cercare di spostare l’identità dai termini alle relazioni e dire che due termini sono, sotto un certo rispetto, identici quando hanno entrambi una data relazione verso un altro termine L’avere una proprietà in comune può essere considerato come una identità. Bisogna distinguere tra indiscernibilità per cui due oggetti sono identici (nel senso che hanno le stesse proprietà) e l’identità che è la relazione che un oggetto ha con se stesso al di fuori del tempo. Però effettivamente l’identità è una relazione paradossale. I Principles sono interessanti perché Russell coesiste con la dialettica (prima di On denoting; i Principia non sono concepibili senza On denoting).. L’identità deve dunque essere ammessa e la difficoltà relativa ai due termini di essa va affrontata negando nel modo più assoluto che, per l’esistenza di una relazione, siano necessari due termini differenti. Vi devono essere un referente ed un relata, ma non è necessario che essi siano distinti e quando viene affermata l’identità essi non sono distinti Più che non sono distinti si deve dire che non sono due oggetti di numero e che ci sono relazioni che un oggetto ha con se stesso (riflessione). Sorge però la domanda: perché vale sempre la pena affermare una identità? Questa domanda trova risposta nella teoria del denotare. Se noi diciamo “Edoardo VIII è il re” asseriamo una identità. La ragione per la quale vale la pena fare questa asserzione è che in un caso compare il termine vero e proprio, mentre nell’altro prende il suo posto il concetto denotante. Agli scopi della discussione trascuriamo il fatto che Edoardo formi una classe e che il settimo Edoardo formi un classe avente un solo termine: Edoardo VII è praticamente (anche se non formalmente) un nome proprio. Spesso si hanno poi due concetti denotanti, mentre il termine stesso non viene menzionato. Come nella proposizione “Il Papa attuale è l’ultimo sopravvissuto della sua generazione”. Quando è dato un termine, l’asserzione della sua identità con se stesso, benché vera è perfettamente futile e non si fa mai all’infuori che nei libri di logica. Quando invece vengono introdotti i concetti denotanti, l’identità si rivela subito fornita di significato. In questo caso naturalmente è implicata, sebbene non asserita, una relazione del concetto denotante con il termine oppure una relazione dei due concetti denotanti l’uno con l’altro Se ha senso l’identità di un termine con un concetto denotante, perché mai il concetto denotante deve essere senza senso? Certo si può dire che si tratta di segni senza senso ma con la stessa denotazione. In questo caso però la mancanza di senso non implica che il senso non svolga un compito comunicativo. Russell semplicemente contesterebbe che un segno per comunicare qualcosa debba avere un senso. Tuttavia un segno senza senso in mancanza dell’oggetto che denota come potrebbe comunicare qualcosa? Come stabiliamo che un segno non denota alcunché (per mancanza di corrispondenza biunivoca con la realtà? La mente ad ogni segno fa sempre una grande quantità di comparazioni per verificare se ci sia una corrispondenza biunivoca?)?. Il vocabolo è che compare in tali proposizioni non enuncia però questa ulteriore relazione, ma enuncia una pura identità. La parola è è stranamente ambigua e si deve avere molta cura per non confondere tra di loro i suoi diversi significati. Abbiamo: il senso che essa possiede quando asserisce l’essere come in “A è”. Abbiamo il senso dell’identità come in “A è A”. Abbiamo il senso della predicazione come in “A è umano”. Abbiamo il senso di “A è un-uomo” che è molto simile all’identità Si hanno inoltre usi meno comuni come “essere buono è essere felice” proposizione con cui si vuole significare una relazione tra asserzioni (quella relazione che produce quando esiste una implicazione formale) “A è un uomo” è una relazione di appartenenza e al tempo stesso la mediazione tra identità e predicazione (è l’identità con un oggetto che si predica di una proprietà). “Essere buono è essere felice” è una inclusione tra classi.. Riassumendo: quando un concetto-classe compare in una proposizione, preceduto da una delle sei parole tutti, ogni … la proposizione verte di regola non sul concetto formato dalle due parole insieme, ma su un oggetto completamente differente da questo ed in genere non affatto su un concetto, bensì su un termine o un complesso di termini Un concetto accompagnato da quantificatori denota uno o più oggetti in un determinato rapporto con il concetto.. Questo può ricavarsi dal fatto che le proposizioni, in cui tali concetti compaiono, sono generalmente false se riferite ai concetti stessi. E’ possibile considerare e costruire proposizioni su tali concetti, esse non sono però le proposizioni naturali che si fanno impiegando questi concetti Per denotare questi oggetti i concetti vengono usati ma non menzionati. In questi casi i termini usati devono avere un senso per avere una denotazione.. Quando si dice “Qualsiasi numero è pari o dispari” è una proposizione perfettamente naturale mentre “Qualsiasi numero è una congiunzione variabile” è una proposizione che può essere discussa solo all’interno della logica Questa è la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio e vanno usate le virgolette. In casi del tipo ora esaminato noi diciamo che il concetto in questione denota. Si è stabilito che il denotare è una relazione perfettamente stabilita, la stessa in tutti i sei casi e che questi casi si distinguono per la natura dell’oggetto denotato e del concetto denotante. Si è discusso abbastanza ampiamente la natura e la differenza degli oggetti denotati nei cinque casi in cui questi oggetti sono combinazione di termini. In una discussione esauriente sarebbe necessario discutere pure i concetti denotanti; gli effettivi significati di questi concetti, come opposti alla natura degli oggetti che essi denotano, non sono stati discussi negli scorsi paragrafi e non so se oltre a ciò vi sarebbe qualcos’altro da dire su questo argomento. Si è invece discusso il vocabolo il e si è dimostrato che questa nozione è essenziale tanto per quello che i matematici chiamano definizione, quanto per la possibilità di determinare univocamente un termine per mezzo di concetti. Si è scoperto pure che da questo modo di denotare un singolo termine dipende anche l’uso effettivo dell’identità, ma non il suo significato Viene confermato il fatto che per Russell la descrizione indefinita sia oggettivamente ambigua mentre è solo più vaga dal punto di vista epistemico ma denota comunque un oggetto determinato. Il fatto che essa non riesca ad individuare un oggetto non vuol dire che essa non denoti un individuo. Perciò essa non ha rilevanza epistemica ma comunque tramite essa possiamo tematizzare l’esistenza di un oggetto. Oggetti denotati da una descrizione indefinita possono essere computati. La descrizione indefinita inoltre è spesso un abbreviazione nel caso non sia necessario dilungarsi sulle proprietà specifiche degli oggetti denotati. E possibile percepire più oggetti cadenti sotto un concetto grazie alle loro proprietà relazionali senza che possiamo elencare le loro proprietà attributive. Infatti possiamo contare cinque uomini anche se in mancanza di occhiali non possiamo descriverli nel dettaglio. Non è necessario conoscere le proprietà di cinque individui e dunque la natura delle loro differenze per vedere che ci sono cinque individui. Questi cinque individui potrebbero essere indiscernibili.. Cos’è la denotazione (e il ruolo dei quantificatori) Russell sostiene che un concetto denota quando, se esso compare in una proposizione, la proposizione non verte sul concetto ma su un termine collegato peculiarmente con il concetto. Già in questa tesi ci sono delle ambiguità. Si intende per proposizione un enunciato o il senso dell’enunciato stesso? Nel primo caso (la proposizione equivale ad un enunciato) nell’enunciato non compare un concetto ma un termine di concetto. In un enunciato (disciplinato dalla linguistica e non dalla logica) non appaiono concetti ma soggetti e predicati ossia funzioni enunciative assolte da segni Nel secondo caso (la proposizione è il senso dell’enunciato) nell’enunciato c’è una espressione quantificata il cui senso (che appare nella proposizione) può essere inteso sia come un concetto quantificato (il senso dell’espressione denotante) sia come un oggetto (o più oggetti) cadenti sotto un concetto. Il concetto quantificato e l’oggetto (o gli oggetti) cadente sotto un concetto sono equivalenti tra loro e appartengono al livello ideale di esistenza (questo vuol dire che l’essere oggetto non ha nessuna cosa a che fare con la realtà ma riguarda tutti i livelli di esistenza). Si può definire la denotazione come la relazione semiotica per cui l’essere un segno significa stare per un’altra cosa. Sia il segno che ciò che esso denota sono enti (magari distribuiti su diversi livelli ontologici). In questo senso si può ipotizzare che la filosofia si occupa dei concetti e dunque del senso, mentre la scienza si occupa degli oggetti e dunque della denotazione, Tuttavia la concezione che presentiamo qui fa un passo ulteriore asserendo che la filosofia si occupa della denotazione ovvero del rapporto ontologico tra linguaggio e dimensione ideale, mentre le scienze si occupano del riferimento ovvero del rapporto tra dimensione ideale e realtà fisica effettiva. Facendo infatti riferimento alla teoria dei livelli ontologici, una denotazione non verte su un oggetto reale. Ogni espressione denota di volta in volta un senso (e la convenzione linguistica fa di quel senso il senso di quella espressione). E qui bisogna distinguere tra denotazione e riferimento. Mentre la denotazione è propria di una espressione linguistica e verte su un senso (un significato I traduttori italiani hanno fatto un disastro quando hanno tradotto “Bedeutung” con “Significato”. In italiano “Significato” e “Senso” sono equivalenti. Quando domandiamo “Qual è il significato di quello che ha detto?” non ci riferiamo ad oggetti reali o a valori di verità ma al senso delle espressioni proferite.) ovvero su un oggetto ideale, il riferimento è opera del parlante e cerca fallibilisticamente di individuare un oggetto più concreto di quello ideale (che svolge una funzione strumentale) all’interno di un livello ontologico predefinito dal contesto di comunicazione. Ovviamente alla luce di questa considerazioni ha poco senso l’alternativa che ipotizza Russell tra un'unica denotazione e diversi tipi di oggetti e diversi tipi di denotazione ed un solo oggetto. Poiché il senso dell’espressione denotante è un concetto quantificato, la denotazione cambia a seconda del tipo di quantificazione (universale, particolare, singolare) ovvero del tipo di descrizione (definita o indefinita) mentre il contenuto della denotazione cambia a seconda del concetto che viene quantificato dall’oggetto (o dagli oggetti) che cade (o cadono) sotto di esso Nelle espressioni denotanti abbiamo lo stesso concetto e diversi modi con cui singoli oggetti o una pluralità di oggetti si relazionano rispetto al concetto sotto cui cadono mediante l’insieme che ne è l’estensione. Sia gli oggetti che il concetto rimangono identici a se stessi (per quanto riguarda i predicati attributivi e non quelli relazionali) quale che sia l’espressione denotativa utilizzata. Se l’insieme che è l’estensione del concetto ha un numero finito di elementi è possibile una sua esaustiva descrizione estensionale. Il denotare non riguarda tanto i predicati ma i rapporti impliciti (ed epistemicamente già acquisiti) tra soggetto e predicato in quanto le diverse nozioni elencate da Russell attengono alla quantificazione del rapporto tra concetto ed oggetti cadenti sotto di esso. Dunque il denotare non attiene ai predicati presi da soli, né agli oggetti presi da soli (in quest’ultimo caso si tratterebbe di individui assolutamente indeterminati). Il senso dei termini tutti gli uomini, ogni uomo etc. è sicuramente diverso ma la loro denotazione potrebbe essere identica (ad es. nel caso di tutti gli uomini e ogni uomo). La differenza è non solo tra oggetti o differenti modi di denotare, ma principalmente tra insiemi di oggetti e tra relazioni tra concetti e/o insiemi di oggetti. La differenza tra i quantificatori verte essenzialmente su questo. I quantificatori, che sono costituenti necessari delle descrizioni, indicano il rapporto tra un individuo e la classe a cui appartiene e sono a mio parere un passaggio possibile dalla logica all’aritmetica (e dunque alla matematica). L’analisi delle loro differenze consente anche di meglio distinguere la logica aletica da quella epistemica (ad esempio a mio parere ogni ha una valenza aletica mentre qualsiasi ha una valenza epistemica). Le cinque combinazioni di cui parla Russell non vertono tanto su rapporti tra termini (come vorrebbe il filosofo inglese) quanto su rapporti quantificati tra oggetto e concetto (quando ci si riferisce all’oggetto o agli oggetti denotati) e poi a rapporti tra concetti (quando conseguentemente si attribuisce qualcosa all’oggetto o agli oggetti denotati). La combinazione di termini non è disgiunta dalla combinazione di concetti, essendo le classi estensioni di concetti. Dunque non verte su oggetti, ma al massimo su insiemi di oggetti (correlati ovviamente a concetti) o meglio sui rapporti tra insiemi e sui rapporti tra insiemi ed i loro elementi. A questo proposito il rapporto tra sottoinsiemi e insieme ambiente equivale al rapporto tra oggetti e concetto (o meglio tra concetto sovraordinato e concetto subordinato). Un concetto classe preceduto da un quantificatore equivale ad un oggetto che cade sotto un concetto oppure (il che è sostanzialmente lo stesso) ad un concetto quantificato. La proposizione verte su questo oggetto ma è traducibile nella maggior parte dei casi in una proposizione che descrive un rapporto tra concetti (o tra estensioni di concetti). Russell dice che, se si sostituisse a “un uomo” uno qualsiasi degli altri concetti-classe applicabili all’oggetto incontrato, la proposizione muterebbe, pur rimanendo lo stesso l’individuo in questione. In realtà la proposizione è il senso dell’enunciato e quello che muta, cambiando il concetto-classe (e quindi la descrizione) è appunto il senso. Quest’ultimo è la relazione che l’individuo ha con altri individui o concetti, la funzione logica e/o ontologica che l’individuo svolge. Il senso cambia perché la proposizione non verte solo sull’oggetto, ma (come volevasi dimostrare) sulla relazione tra oggetto e concetto. L’oggetto denotato può essere lo stesso ma in questo caso la denotazione ha un valore metafisico in quanto si basa sull’ipotesi dell’identità ad es. tra l’oggetto che cade sotto il concetto uomo e l’oggetto che cade sotto il concetto ingegnere. Ciò che è immanente all’enunciato o al termine è il senso che ne è il correlato principale. La denotazione è solo contingente ed ipotetica. Il fatto che non venga denotato un individuo particolare ma sempre una classe è proprio di tutti i termini denotanti (anche i presunti nomi propri) per cui il senso (il concetto) è ciò che di fatto un termine esprime al di là dell’intenzione fallibile di riferirsi ad un oggetto più concreto. Russell dice che il denotare è lo stesso ma gli oggetti sono diversi. A questo punto però se gli oggetti sono diversi essi devono essere comprensivi del quantificatore e ciò implica che, avendo l’espressione denotativa come corrispettivo un termine, “Tutti gli uomini” non è più una funzione insatura che viene integrata con la proposizione ma è un oggetto che a sua volta satura la funzione proposizionale. Se invece si insiste sulla natura insatura della combinazione tra quantificatore e concetto-classe allora si deve dire che il quantificatore è parte della denotazione (che dunque è una relazione che non è sempre la stessa) o quanto meno appartiene alla dimensione intermedia tra segno e oggetto denotato, ovvero la dimensione del senso. Uomo, Umano, Umanità Russell vorrebbe operare delle nette distinzioni tra ad es. “A è umano” e “A è un uomo”. In realtà, al di là del fatto che “A è umano” può essere tradotto in “A è un essere umano” e dunque la differenza tra i due enunciati è più nella forma grammaticale che nella forma logica, va detto che queste sono comunque proposizioni S/P anche perché pure “A corre” è una proposizione S/P anche se il predicato non è il concetto ma la funzione proposizionale (ciò che corrisponde al verbo grammaticale più il complemento). Nel primo caso abbiamo la proprietà (“umano”), nel secondo caso abbiamo una relazione tra oggetto e concetto (la quantificazione), il modo con cui un oggetto cade sotto il concetto. Nel primo caso non si chiarisce se ci sono uno o più individui che cadono sotto il concetto che oggettualizza la proprietà, nel secondo invece questo chiarimento avviene. Nel primo caso abbiamo una descrizione parziale, nel secondo caso abbiamo un descrizione che esplicita il suo carattere parziale o definitorio (in quest’ultimo caso se si tratta di una descrizione definita). Nel primo caso si dice semplicemente che un oggetto ha una determinata proprietà ma non si dice se sia l’unico ad averla o uno dei tanti ad averla. Nel secondo caso questo chiarimento viene effettuato. Inoltre Russell sbaglia a dire che un uomo non sia un concetto né un termine. In realtà l’espressione significa un termine cadente sotto un concetto e dunque può essere considerato sia come un termine sia come un concetto quantificato (che si tratti anche di un concetto lo si evince dal fatto che sotto un uomo cadono di volta in volta tutti gli uomini) Russell dice che la proposizione “Socrate è umano” non va considerata come un giudizio di relazione tra Socrate e l’umanità, poiché questo modo di intendere farebbe comparire umano come termine in “Socrate è umano”. A parte che andrebbe spiegato più nel dettaglio (ed in maniera più convincente) perché umano non possa essere considerato un termine, Socrate è uomo” oppure “Socrate è umano” sono due modi di dire che Socrate cade sotto il concetto uomo o sotto il concetto umano. Questi concetti, contrariamente a quello che dice Russell, sono termini. Esso sono concetti diversi che non hanno la stessa estensione dal momento che umano ha diverse accezioni e soprattutto sotto di esso cadono non solo individui appartenenti ad una determinata specie animale ma anche individui appartenenti ad altre specie oltre a comportamenti, insediamenti etc. Un’altra differenza tra uomo e umano è che un uomo cade sotto il concetto uomo in modo diretto mentre sotto il concetto umano cadono diverse specie di oggetti che possono vedersi attribuita la proprietà dell’umanità. Mentre nel caso di uomo abbiamo un concetto-classe nel caso di umano abbiamo un concetto-proprietà. “Socrate è un uomo” indica invece l’appartenenza ad una classe che è l’estensione del concetto uomo ed indica la relazione che potremmo definire quantificativa dell’individuo ad una classe che ha più elementi che non quell’individuo. L’uso cioè dell’articolo serve a determinare il rapporto quantificazionale che ha un individuo rispetto a quella classe (se sia cioè l’unico oggetto a cadere sotto quella classe o se sia uno dei più oggetti che cadono sotto quella classe). Umano è tutto ciò che pertiene all’uomo e dunque è un concetto diverso da uomo, anche perché umano è un concetto-proprietà mentre uomo è un concetto-classe e perciò ad esso si riportano tutte le descrizioni denotanti oggetti (tutti gli uomini, ogni uomo, qualsiasi uomo). Uomo è concetto-classe la cui estensione è la classe di tutti gli uomini intesi come appartenenti alla specie homo sapiens sapiens. Umano è concetto-predicato la cui estensione si ottiene indirettamente individuando l’insieme di tutti gli oggetti che hanno relazione con almeno un individuo appartenente alla classe degli uomini o che condividono con gli uomini un certo numero di note caratteristiche (per cui si parla di comportamento umano, insediamento umano, cane umano etc). Umanità è il concetto oggettualizzato che non può essere utilizzato come attributo all’interno di un predicato al contrario di uomo e umano che sono prevalentemente utilizzati come attributi ma possono anche occupare il posto di soggetto grammaticale di un enunciato (e quindi di oggetti che saturano una funzione proposizionale costituendo una proposizione). Perciò se si dice “Socrate è uomo” e “Socrate è umano” si tratta di proposizioni S/P dove uomo e umano sono mere proprietà o attributi riconducibili ad un concetto senza passare per l’estensione insiemistica del concetto e dunque senza precisare la relazione quantificata tra l’oggetto e il concetto. Se si dice “Socrate ha umanità” abbiamo la relazione tra due oggetti. Se si dice “Socrate è un uomo” invece la proposizione S/P vede che il cadere dell’oggetto sotto un concetto è quantificato attraverso l’appartenenza di un individuo ad una classe (di un elemento ad un insieme) dove si definisce se l’individuo è l’unico (di un altro insieme esplicitato o meno) ad appartenere a quella classe o è solo uno degli individui appartenenti a quella classe. “Socrate è un uomo” equivale a “Socrate è un elemento dell’insieme degli uomini” per cui la distinzione russelliana tra “Socrate è (un uomo)” e “Socrate è un (uomo)” non ha molta rilevanza (per quanto sia corretta). E’ vero infatti che quando dico “Ho incontrato un uomo” posso voler dire “Ho incontrato un (uomo)” per dire “Ho incontrato un elemento della classe degli uomini” (evidenziando così una duplice determinazione dell’oggetto) e posso voler dire “Ho incontrato (un uomo)” per dire “ho incontrato un elemento della classe degli uomini che non so determinare con altri attributi” (evidenziando così una duplice determinazione dell’oggetto ma anche la mia incapacità di distinguerlo dal resto degli uomini, anche se in realtà dietro tale incapacità si cela l’irrilevanza di una possibile descrizione più nel dettaglio). Tuttavia quando dico “Socrate è un (uomo)” non posso dire che Socrate sia identico ad un elemento per altri versi indeterminato della classe degli uomini dal momento che l’attribuzione del nome vuol dire aver individuato un uomo all’interno della classe degli uomini, tanto che in un ipotetico dialogo dove A dice “nella baracca c’era un uomo” la risposta di B non è “un uomo è zio Tom” ma “quell’uomo è zio Tom” per cui la valenza epistemicamente difettiva di “ho visto un uomo” non può essere trasferita alla proposizione “zio Tom è un uomo” dove l’articolo indeterminativo non ha senso indefinito ma unicamente partitivo (e dunque quantificativo anche se solo apparentemente numerale). Tutte e tre le proposizioni (“Socrate è umano”, “Socrate ha umanità” e “Socrate è un uomo”) contengono rapporti tra termini: la prima un rapporto predicativo, la seconda un rapporto relazionale, la terza un rapporto di appartenenza. Russell è costretto a distinguere “Socrate è un-uomo” (identità di Socrate con un individuo non determinato) e “Socrate è-un uomo” (relazione di Socrate con il concetto-classe uomo) per negare che il rapporto di appartenenza sia asserito tramite una identità. Uomini invece è un concetto sotto il quale cadono non uomini singolarmente intesi ma insiemi di uomini. L’umanità e la specie umana sono il primo un insieme che è estensione di uomo o di umano, il secondo un concetto delle scienze biologiche che può anche essere concepito come la sua estensione e cioè l’insieme degli individui homo sapiens sapiens. Tuttavia nell’uso linguistico comune ci sono anche differenze semantiche per cui uomo è il corrispettivo del vir latino mentre umano è il corrispettivo dell’homo terenziano (cui nihil humani alienum putandum est) e dunque quando si dice “Socrate è uomo” si dice che Socrate appartiene ad un sottoinsieme aristocratico di uomini mentre se si dice “Socrate è umano” o “Socrate ha umanità” si dice che Socrate non è una bestia e non è come gli uomini che sono simili a bestie, mentre se si dice “Socrate è solo un uomo” si dice che Socrate ha degli uomini sia i pregi (cosa che lo ricomprenderebbe nel sottoinsieme aristocratico) che i difetti (cosa che lo ricomprenderebbe in un sottoinsieme un po’ meno aristocratico). Perciò è difficile, almeno in italiano, che “Socrate è un uomo”, “Socrate è uomo”, “Socrate è un essere umano” e “Socrate è umano” (o “Socrate ha umanità”) siano semanticamente equivalenti. Questo non solo per una funzione metaforica successiva del termine ma anche per una distinzione più antica tra categorie di uomini, distinzione che trova un corrispondenza nella distinzione greca tra anèr e anthropos e in quella latina tra vir e homo. Uomo forse non denota un oggetto (denota invece il concetto ‘uomo’ ed è dunque un termine singolare di concetto) ma nemmeno uomini da solo denoterebbe (se si seguisse la tesi di Russell) mentre la specie umana è una espressione denotativa che non ha lo stesso rapporto con umano che hanno le altre espressioni (la specie umana non è la classe degli uomini, ma un concetto della biologia che indica qualcosa di più complesso). Nelle proposizioni S/P abbiamo l’estensione a livello semantico di una descrizione (e dunque una interpretazione) di dati sensoriali come quando vediamo un oggetto bianco ed interpretiamo l’oggetto come soggetto grammaticale e il bianco come proprietà di quel soggetto (e dunque predicato). Ovviamente un empirista alla Locke o alla Whitehead potrebbe vedere nell’oggetto un insieme di predicati (di proprietà) e un idealista un insieme intersezione di diverse estensioni di concetti. Probabilmente la relazione S/P è solo una visione parziale (e dunque asimmetrica) di una intersezione di estensioni di concetto (o di un insieme di proprietà). Concludendo Uomo è il concetto (noema) sotto il quale cade ogni uomo. Umano è il predicato che si attribuisce almeno ad ogni uomo Umanità è l’insieme di tutti gli uomini o la proprietà detenuta da ogni uomo Quantificatori universali (Tutti, ogni, qualsiasi) Il quantificatore universale produce un insieme (essendo basato sulla congiunzione) mentre gli altri quantificatori producono o insiemi potenza (nel caso di “ogni A”) o insiemi epistemico-modali (nel caso dei restanti quantificatori). Tutti indica la classe come uno in modo atemporale. Quando sono Tizio e Caio ad essere due abbiamo a che fare con tutti o con l’intero insieme? Nessuno dei due è due ma non si può dire nemmeno che tutti sono due. Tizio e Caio fanno la corte alla signorina Smith si presta sia a tutti che ad ogni. Forse più a tutti. Quando gli individui facenti parte di una classe sono presentati estensionalmente attraverso una congiunzione in maniera esaustiva abbiamo tutti. Se era Tizio o Caio che avete incontrato, è un ardente innamorato della signorina Smith può essere meglio reso con Sia che fosse Tizio sia che fosse Caio, è ardentemente innamorato della signorina Smith. Mentre invece Se era uno dei corteggiatori della signorina Smith sarà stato Tizio o Caio è meglio reso come esemplificazione da Se corteggiava la signorina Smith si trattava di Tizio o di Caio (questi due casi in modo che l’articolo indeterminativo o pronome indefinito non compaia nella espressione che ne esemplifica il senso). Mentre La signorina Smith sposerà Tizio o Caio non rende qualche che invece può essere esemplificato nei casi in cui abbiamo a che fare con più di una alternativa (più di due elementi) come quando diciamo mangio qualche cosa che può implicare sia che si mangi una cosa che se ne mangino di più. Anche “tutti” ha un valore distributivo. La differenza forse sta nel fatto che in “ogni” il carattere distributivo tendenzialmente è in un certo senso visibile anche spazio-temporalmente. In genere “andiamo tutti al mare” vuol dire “andiamo tutti insieme” (per cui sembra che si riferisca all’intero insieme che va al mare) mentre “ognuno va al mare” vuol dire che ognuno ci va per conto suo. Diciamo che “tutti” (il totus latino, l’intero) esemplifica anche fenomenicamente che si tratta di un insieme, mentre “ogni” l’insieme in qualche senso lo cela. “Tutti” fanno una manifestazione, “ognuno” è membro silente della maggioranza silenziosa. “Tutti” è comunitario, mentre “ogni” è liberale. Solo introducendo una nuova convenzione si può attribuire a “Tutti gli A” una funzione solo collettiva e non anche distributiva. In questo caso si potrebbe dire che “Tutti gli A” corrisponde ad una congiunzione (cosa che non si può dire per “Ogni A” dove c’è solo la funzione distributiva ma manca quella collettiva) e che indica la totalità dell’insieme o meglio il fatto che tutti gli elementi dell’insieme fanno parte anche di un altro insieme nello stesso tempo e/o nello stesso contesto (collettivamente). Tutti gli elementi di un insieme sono una molteplicità determinata grazie ad un numero (mentre in “Ogni A” il numero è escluso) e tuttavia questa proprietà dell’insieme è del tutto contingente per cui non credo sia considerabile come proprietà del concetto-classe. Contrariamente a ogni, tutti può avere anche una funzione pronominale (e non solo attributiva) come nel caso della risposta “Tutti” alla domanda “Quanti ne sono rimasti?”. Se ciò costituisca però un indizio filosoficamente e logicamente rilevante non è dato sapere: si può ipotizzare che la risposta a quella domanda (che non può essere “ogni”) evidenzi come tutti possa riferirsi al rapporto di equivalenza tra due insiemi (o più precisamente tra l’estensione di un concetto e un insieme o ancora tra un insieme e i suoi termini) mentre ogni non lo fa. In conclusione possiamo dire che tutti denota la congiunzione dei termini di un insieme. Diciamo che il quantificatore “tutti” è collegato al concetto di insieme, cosa che invece non riguarda il quantificatore “ogni”. In entrambi il rapporto tra individui e classe è caratterizzato dall’unicità (ossia si denotano tutti gli elementi di un insieme) e tuttavia nel caso di “tutti” l’insieme, l’estensione del concetto è esplicitamente tematizzata. L’espressione “Ogni A” è richiamata da “Tizio corteggia la signorina Smith e Caio corteggia la signorina Smith” ma non è richiamata da “Tizio e Caio corteggiano la signorina Smith” che invece richiama tutti. Più che la differenza tra congiunzione numerica e congiunzione proposizionale (che richiama anche tutti) abbiamo che tutti è una congiunzione di termini di un insieme, ogni è la congiunzione dei sottoinsiemi monadici di un insieme. “Ogni A” denota separatamente tutti gli elementi di un insieme in quanto denota gli insiemi monadici (i concetti monotermini o le loro estensioni) correlati ai singoli elementi. Mentre “Ogni A è B” coinvolge solo due concetti e dice che, presi ad uno ad uno, tutti gli A sono B, in “Qualsiasi A è B” non è necessario che tu debba svolgere tutta l’estensione del concetto A, ma è possibile una verifica diciamo “a campione”. I concetti coinvolti come se fossero tre: quelli oggettivi A e B e quello subordinato ad A ma con contenuto variabile (sia quantitativamente che qualitativamente) che ha un ruolo epistemico e cioè elemento di A preso a campione di verifica. Mentre tutti e ogni sono quantificatori ontologici, qualsiasi è un quantificatore incompleto (vuol dire ogni A tu prendi) o meglio un quantificatore epistemico. Qualsiasi A prendiamo (non importa quale) è B proprio in quanto ogni A è B. Ovvero da “Ogni A è B” si deduce che “Qualsiasi A è B” e quest’ultimo è la conferma del primo. “Qualsiasi A” non denota una semplice disgiunzione che sarebbe vera anche se una certa proposizione non fosse vera per uno degli A ma denota in maniera disgiuntiva la congiunzione degli elementi di un insieme. “Qualsiasi A” più che una cosiddetta congiunzione variabile fa pensare all’implicazione corrispondente alla congiunzione: se [(a1 è A) et (a2 è A)] allora [(a1 è A) implica (a2 è A)]. Dunque a “Tutti gli a sono A” corrisponde “se x è a, allora x è A”. Dunque “Qualsiasi A” corrisponde alla possibilità di saturare la variabile con qualsiasi oggetto cadente sotto un concetto dato subordinato al concetto corrispondente alla proprietà attribuita nella funzione proposizionale. Il qualsiasi corrisponde alla saturazione della variabile che è in quanto tale a campione (e dunque disgiuntiva) ma che verifica sempre l’ipotesi. Possiamo dire dunque che “Qualsiasi A” sia la congiunzione tra congiunzione dei termini e disgiunzione degli insiemi monadici correlati ai singoli termini (tra congiunzione aletica e disgiunzione epistemica). Qualsiasi numero è un concetto sotto cui cadono tutti i numeri anche se ad esso non è collegato un insieme, o meglio non è collegato un insieme che sia la congiunzione dei suoi elementi quando piuttosto un insieme che sia la disgiunzione dei suoi elementi (si tratterebbe di un insieme forse definibile come modale e la variabile sarebbe un tipo di insieme del genere). Non si può dire che qualsiasi numero sia pari né che sia dispari, ma si può dire che qualsiasi numero è pari o dispari. Bisogna solo individuare la logica (modale?) che presiede a tale paradosso. Qualsiasi numero è un concetto che ha un solo numero sotto di esso ma questo numero è di volta in volta una variabile dal momento che la classe corrispondente a tale concetto è una classe disgiunta (ovvero una classe di ogni numero disgiunto da tutti quanti gli altri e che dunque non compone con tutti quanti gli altri l’insieme di tutti i numeri). Invece numero è un concetto sotto cui cadono tutti i numeri e la cui estensione è la classe e al tempo stesso l’insieme di tutti i numeri. Esso equivale al concetto pari o dispari e questa equivalenza corrisponde a livello concettuale al fatto che ogni numero o qualsiasi numero è pari o dispari Qualsiasi numero finito è un concetto tra le cui note caratteristiche c’è il concetto di essere pari o dispari. Dunque, mentre ogni singolo numero è o pari o dispari (in senso esclusivo), qualsiasi numero si può definire come indifferentemente pari o dispari. Russell la differenza tra il concetto pari o dispari e il singolo numero pari e il singolo numero dispari la fa diventare la differenza tra un oggetto e un concetto inteso mentalisticamente, ma in realtà si tratta di due oggetti di ordine diverso. Dunque è corretto dire “qualsiasi numero finito è pari o dispari” mentre non si può dire né che qualsiasi numero sia pari né che qualsiasi numero sia dispari, ma questo non perché certe proprietà non si predicano di concetti, ma perché queste proprietà non si possono predicare di tutti gli individui della classe dei numeri. Si può dire che qualsiasi numero è pari o dispari perché tutti i numeri sono pari o dispari, mentre non si può dire qualsiasi numero è primo in quanto non tutti i numeri sono primi. Di un concetto cioè sono predicabili altri concetti nel senso del rapporto di subordinazione tra concetti, mentre di ogni oggetto che cade sotto un concetto si può dire che è predicabile di un concetto nel senso che esso cade sotto un concetto. Cadere sotto un concetto ed essere subordinato ad un concetto son due relazioni ricomprese nella relazione essere predicabile di un concetto così come padre e madre sono ricompresi sotto genitore. Dire al plurale “i singoli numeri” non fornisce un risultato più concreto di qualsiasi numero. Avrebbe avuto rilevanza in questo contesto solo dire “solo 5 singoli numeri sono pari o dispari”. Anche sotto il concetto singolo numero cade qualsiasi numero. Concludendo Tutti gli A come congiunzione dei termini di un insieme. Ogni A come congiunzione dei sottoinsiemi monadici di un insieme “Qualsiasi A” come la congiunzione tra congiunzione dei termini e disgiunzione degli insiemi monadici correlati ai singoli termini (tra congiunzione aletica e disgiunzione epistemica). Quantificatori particolari (o esistenziali): un uomo Russell, nonostante distingua tra “Socrate è (un uomo)” e “Socrate è un (uomo)” (il che è un errore ma si approssima alla verità), purtuttavia non riconosce il fatto che “un uomo” è una espressione che ha una natura ambivalente. Esso può riferirsi al concetto un uomo sotto cui cade di volta in volta un uomo e uno soltanto ma sotto il quale, di volta in volta, possono cadere tutti gli uomini, anche se uno alla volta. Perciò la sua estensione è un insieme disgiuntivo, in questo caso un insieme monoide (nel senso di un insieme ad un solo elemento) che ha al suo interno una variabile con un ambito specifico di variabilità (ovvero può essere saturato solo da oggetti che cadono sotto il concetto uomo). Perciò non solo uomo un concetto ma anche un uomo. Il primo concetto ha N oggetti che cadono sotto di esso e che formano una classe che è anche un insieme (ovvero una classe di individui congiunti) mentre il secondo ha un solo oggetto che cade sotto di esso ma indefinito ovvero un insieme unario collegato ad una classe di N individui disgiunti. In questa forma un uomo è usato prevalentemente in enunciati metalinguistici, mentre sia in “ho incontrato un uomo” sia in “Socrate è un uomo” “un uomo” sta per un oggetto cadente sotto il concetto uomo, contrariamente a quello che sembrano pensare sia Frege che Russell. Quest’ultimo conseguentemente al primo errore (considerare un uomo solo un termine di concetto) ne compie un secondo quando dice che “ho incontrato un uomo” non parla di un uomo perché un uomo è un concetto. Un uomo denota allora l’individuo reale con cui si è incontrato il parlante? Il problema non si pone in termini alternativi: un termine cerca sempre di individuare qualcosa ma esprime alla fine sempre un concetto (è uno dei paradossi della funzione semiotica). Ovviamente un oggetto reale non è parte di un enunciato il cui senso contiene il concetto sotto cui cade l’oggetto reale e con il quale l’espressione contenuta nell’enunciato denota l’oggetto reale. Ciò però non implica che l’espressione un uomo non denoti quell’oggetto che il parlante ha incontrato. Al massimo si può dire che non lo denota in maniera che chi ascolta possa identificarlo (questo sarebbe possibile con una descrizione definita) ma la denotazione è un rapporto tra l’espressione e l’oggetto e non un rapporto tra l’espressione, l’oggetto e le possibilità conoscitive di chi ascolta. Perché l’oggetto sia denotato da un’espressione denotativa è sufficiente per l’oggetto cadere sotto il concetto coinvolto dall’espressione (la quale si identifica come denotativa sulla base della presenza di quantificatori usati in collegamento con il concetto coinvolto). Perciò va detto che le descrizioni (definite o indefinite) stanno alternativamente (rispettivamente a livello metalinguistico o a livello di linguaggio-oggetto) sia per un concetto monoide (o monotermine) sia per un oggetto cadente (unico o insieme ad altri oggetti) sotto un concetto. Da un certo punto di vista si potrebbe anche considerare “ho incontrato un uomo” una sorta di proposizione metalinguistica (tipo “è successo qualcosa di definito” ma questo qualcosa è nei fatti ancora indefinito) o almeno una funzione proposizionale nel senso che introduce un’altra proposizione più dettagliata in cui ci sia un nome proprio (tenendo presente che tutte le proposizioni sono in realtà funzioni proposizionali). Un uomo si può considerare un termine che ha un certo rapporto con una classe. Quando si dice che Socrate è un uomo è come se si dicesse che Socrate è lo stesso (identico) di un elemento della classe degli uomini e dunque che Socrate è un elemento della classe degli uomini. Dunque essendoci l’identità c’è anche l’appartenenza alla classe perché un uomo vuol dire un elemento della classe degli uomini. “Socrate è un uomo” dunque equivale a “Socrate è un elemento dell’insieme degli uomini” per cui la distinzione russelliana tra “Socrate è (un uomo)” e “Socrate è un (uomo)” non ha molta rilevanza. E’ vero infatti che quando dico “Ho incontrato un uomo” posso voler dire “Ho incontrato un (uomo)” per dire “Ho incontrato uno ed un solo elemento della classe degli uomini” e posso voler dire “Ho incontrato (un uomo)” per dire “ho incontrato un elemento della classe degli uomini che non so (o che non voglio) determinare con altri attributi” (evidenziando così l’irrilevanza di distinguerlo dal resto degli uomini). Tuttavia quando dico “Socrate è un (uomo)” non posso dire che Socrate sia identico ad un elemento per altri versi indeterminato della classe degli uomini dal momento che l’attribuzione del nome vuol dire aver individuato un uomo all’interno della classe degli uomini, tanto che in un ipotetico dialogo dove A dice “nella baracca c’era un uomo” la risposta di B non è “un uomo è zio Tom” ma “quell’uomo è zio Tom” per cui la valenza epistemicamente difettiva di “ho visto un uomo” non può essere trasferita alla proposizione “zio Tom è un uomo” dove l’articolo indeterminativo non ha senso indefinito ma unicamente partitivo (e dunque quantificativo anche se solo apparentemente numerale). In “ho incontrato un uomo” l’oggetto è denotato in modo ambiguo nel senso che le sue proprietà desumibili in quel contesto sono irrilevanti per la sua identificazione ed esso sarà caratterizzato da quello che farà a partire dal momento in cui il parlante lo ha incontrato. Dunque si tratta di una indeterminazione voluta, di una indeterminazione che gioca un ruolo nell’economia della narrazione da parte del parlante. La proposizione “incontrai un uomo” si riferisce ad un uomo determinato (per chi parla), ma il senso è un oggetto che può essere uno qualsiasi (per chi ascolta e non per chi parla) degli elementi della classe degli uomini. Non c’è paradosso né contraddizione dal momento che il concetto espresso nel senso, proprio perché comprensivo e vago, includendo qualsiasi uomo include certamente anche l’uomo determinato di cui si parla. Più il concetto è comprensivo e vago più tale inclusione è possibile (più è difficile l’errore che poteva conseguire da una descrizione più dettagliata) e più tale informazione è poco utile (l’informazione più è dettagliata e potenzialmente utile più è soggetta ad errore) Quando si parla di un uomo abbiamo un oggetto perfettamente determinato dal punto di vista ontologico (ma il linguaggio in questo caso non c’entra), definito numericamente anche dal punto di vista epistemico e molto parzialmente definito dal punto di vista del cadere sotto concetti perché ne viene esplicitato solo uno. Questa incompletezza fa sì che esso non si differenzi dagli altri che cadono sotto il concetto uomo. Perché ciò accada è necessario esplicitare tutti i concetti sotto cui cade ogni oggetto appartenente alla classe degli uomini (o quanto meno farne una descrizione definita che corrisponda a verità). Un uomo è un concetto sotto il quale cade l’oggetto denotato da “un uomo” o meglio è il concetto sotto cui cade un solo oggetto di cui però non si sanno altri concetti sotto i quali esso cade (dunque esso è un oggetto vago). Spesso si descrive un uomo che si è incontrato aggiungendo dei predicati contingenti (un’azione che ha compiuto mentre lo guardavamo) o dei predicati legati alle sue proprietà sensibili (colore dei capelli, forma del naso) che servano a determinarlo. Suggestioni dialettiche a partire dalle descrizioni (indefinite e definite) Volendo considerare la funzione metaforica (poetica o mitica) del linguaggio a volte proprio l’espressione un uomo (o figlio d’uomo) nella sua genericità denota l’universale e l’esemplarità che lo concretizza (nel caso del Figlio d’Uomo si tratta del Cristo). L’anonimato dell’uomo è propedeutico al senso ed alla concretezza del Concetto. Un uomo ci prepara alla contemplazione dell’Idea di uomo e non nel senso greco dell’uomo bello e buono di Sofocle (questo sarebbe singolare), ma nel senso del qualsiasi uomo insito nel termine “il prossimo” (che è il termine di una serie, un membro del popolo della terra. L’errore di Russell nel sostenere che “ho incontrato un uomo” si riferisce ad un uomo reale ben definito che non sarebbe parte della proposizione esaminata (sarebbe il noumeno di Kant o l’oggetto indeterminato solo epistemicamente del realismo) ci rimanda comunque alla dialettica tra determinato (che è indeterminato a parte il suo essere determinato) e indeterminato (che è determinato dal suo essere indeterminato), dialettica che si sintetizza nella variabile x, la quale è determinatezza dell’indeterminato (non è y) e non è tutto ciò che è determinato (perché non essendo y e z ha un ambito specifico di variabilità) e dunque implica una indeterminatezza del determinato che è alla fine un concetto sotto cui cadono più oggetti (non basta parlare di determinato per uscire perciò fuori dal misticismo apofatico). Quando diciamo un uomo ci riferiamo a qualcosa di determinato (un certo individuo) ma esprimiamo qualcosa di indeterminato (tra gli oggetti che cadono sotto il concetto uomo). Quando diciamo invece che Dio non è conoscibile, vogliamo riferirci a qualcosa di indeterminato ma lo facciamo determinandolo quanto meno rispetto ad altre cose. Valga in questo senso anche la comparazione tra Un uomo e il Figlio d’uomo (come l’indeterminazione si riferisca a qualcosa di determinato e come l’articolo definito suggerisca il Concetto). Un uomo determinato ma incognito (una sorta di noumeno) può essere uno qualsiasi degli individui facenti parte del decorso di valori di una variabile. L’ignoto invece, potendo essere qualsiasi cosa, è la cifra dell’universale ovvero dell’ambito di variabilità della x (il passaggio dal noumeno al Concetto, da Kant ad Hegel). Quantificatori particolari (esistenziali): un, qualche, alcuni Non bisogna confondere i quantificatori universali che si riferiscono a qualcosa di determinato nella sua universalità (se dico “tutti i moschettieri” dico un numero determinato di moschettieri e dico i moschettieri Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan, mentre se dico “dei moschettieri” non dico né una quantità determinata né mi riferisco a determinati individui) con i quantificatori esistenziali. Ovvio che anche il quantificatore universale contenga un grado di indeterminazione, in quanto non si può mai sapere quali e quanti siano “tutti gli A” quale che sia il concetto A, ma si tratta di un grado di indeterminazione molto più basso di quello dei quantificatori particolari o esistenziali. In altri termini mettere sullo stesso piano quantificatori universali e quantificatori esistenziali vuol dire confondere Indeterminazione ontologica o positiva (ossia l’indeterminazione costituita dall’infinità in atto degli elementi di un insieme) e Indeterminazione epistemica o negativa (ossia l’indeterminazione costituita dalla difficoltà di individuare un determinato elemento di un insieme), anche se l’Indeterminazione epistemica può essere un indizio di quella ontologica, dal momento che la difficoltà cognitive sono spesso legate all’infinità dell’oggetto della conoscenza e l’impossibilità di individuare un determinato elemento di un insieme sono spesso collegate al carattere infinito dell’estensione di un concetto (al numero infinito degli elementi di un insieme). Intenderemo preliminarmente Qualcuno o Qualcosa come Almeno un (che si riferisce al sottoinsieme B avente uno o più elementi e incluso in un insieme A che è a sua volta estensione di un concetto). Se il sottoinsieme è unario possiamo riferirci ad esso anche tramite l’articolo indefinito (un) mentre se ha più elementi, ci possiamo riferire ad esso anche tramite il pronome indefinito (alcuni). Stabilito questo, riflettendo sulle tesi di Russell possiamo dire in primo luogo che “Qualche corteggiatore” indica “Tizio vel Caio vel Sempronio” anche se non denota tutti e tre (come sarebbe se fosse vel) ma solo tutti e tre singolarmente o tutte e tre le coppie combinabili a partire dal terzetto. “Un corteggiatore” indica “Tizio AUT Caio AUT Sempronio” ovvero uno qualsiasi dei tre, ma uno determinato e dunque nessuna coppia e nessun terzetto. In secondo luogo “se non era Tizio, era Caio; e se non era Caio era Tizio” implica al tempo stesso “Se è Tizio, non è Caio e se è Caio non è Tizio” (dunque aleticamente si tratta di un aut-aut). Naturalmente possiamo dire che sia incerto se Caio e Tizio siano la stessa persona (anche se ciò comporterebbe l’uso di due nomi per la stessa persona e ciò non rispetterebbe le regole formali relative all’attribuzione di un termine singolare). In questo caso se non è Caio o non è Tizio, sarà sicuramente Tizio nel primo caso e Caio nel secondo, ma se è Tizio o se è Caio, non possiamo escludere che sia Caio (non possiamo dire con sicurezza che non sia Caio) nel primo caso e Tizio (non possiamo dire con sicurezza che non sia Tizio) nel secondo. In quest’ultimo caso però non ci sarebbe vera disgiunzione dal punto di vista aletico ma solo dal punto di vista epistemico. Lo stato di cose sarebbe comunque unico mentre il caso della disgiunzione in cui siano vere entrambe le proposizioni prevede che sia vera anche una congiunzione di proposizioni (siano coesistenti due stati di cose) e non esclusivamente una proposizione sola (in quanto “Ho incontrato Tizio” e “Ho incontrato Caio” avrebbero lo stesso senso essendo Tizio e Caio la stessa persona oppure in quanto ho incontrato sia Tizio che Caio). L’articolo indeterminativo epistemicamente denota l’uno o l’altro di questi, ma aleticamente denota uno solo di essi. Il termine è variabile solo epistemicamente, ma di volta in volta coincide con un individuo determinato. Il fatto che una proposizione che sia valida per un A possa essere falsa riguardo ad ogni A particolare non implica che essa non debba essere vera per almeno un A particolare e cioè per quell’A per cui è valida. Va preso cioè un A particolare (al contrario di quel che dice Russell) ma l’espressione non ci consente di dire quale sia quell’A. “Un A” denota una disgiunzione variabile: cioè una proposizione che sia valida per un A può essere falsa perciò rispetto ad ogni altro A particolare. In questo caso però l’articolo indeterminativo diventa sempre determinativo se, individuando per quale degli A la proposizione risulta valida, noi possiamo utilizzare un concetto meno comprensivo e tale da essere coinvolto in una descrizione definita. Russell, facendo l’esempio dei punti meglio avverte la differenza tra i due piani in cui opera una descrizione indefinita. Essa ha come senso qualcosa che può fare riferimento ad ogni oggetto che cade sotto il concetto coinvolto nella descrizione, ma fa oggettivamente riferimento ad uno solo di essi e dunque ad un oggetto ben determinato che cade sotto il concetto coinvolto nella descrizione. Il senso è vago ma il riferimento è determinato (determinato dall’uso dell’unità numerica che è implicata dalla descrizione indefinita). La differenza tra “Qualche” ed “Un” sta nel fatto che la prima è la disgiunzione tra l’indefinito singolare “Un” e l’indefinito plurale “Alcuni” (in pratica il concetto più comprensivo che li sussume). Nell’esempio fatto da Russell “un momento precede un momento qualsiasi” non vuol dire che ogni momento ha i suoi predecessori perché “Un” implica che il momento di cui si parla è uno ben determinato e quindi non v’è quantificatore universale mentre “Qualche momento non segue ad un momento qualsiasi” si riferisce a tutti i momenti che non sono l’ultimo momento qualora ve ne sia uno (di momento ultimo). Dunque è “un momento precede un momento qualsiasi” che vuol dire che c’è un primo momento. Certo che esiste un’accezione tipo “Un leone non attaccherebbe mai un uomo” ma si tratta di un caso che può significare “Un qualsiasi leone non farebbe ciò” oppure “Nemmeno un leone farebbe ciò”. Nel primo caso si tratterebbe del quantificatore “qualsiasi” preceduto dal mero numerale, nel secondo caso si tratta del mero numerale e non dell’articolo indeterminativo In italiano se dico “incontrai qualche uomo” intendo dire che incontrai più di un uomo (altrimenti si direbbe “incontrai qualcuno”) e oltre tutto “qualche” è un funtore che ricomprende sia “uno” che “alcuni” e dunque corrisponde ad “almeno uno” e viene usata quando non si sa con esattezza se a saturare una funzione proposizionale siano uno o più oggetti. Se dico che ho incontrato un corteggiatore della signorina Smith posso aver incontrato Tizio vel Caio, ma ho incontrato effettivamente Tizio aut Caio. L’uso del concetto corteggiatore della signorina Smith opera una prima selezione per cui devo aver incontrato Tizio vel Caio (e all’interno di questa coppia posso aver incontrato Tizio vel Caio), ma l’articolo indefinito è al tempo stesso un numerale (etimologicamente anche in inglese) e dunque non si sa se sia stato Tizio vel Caio (livello epistemico) ma deve essersi trattato di Tizio aut Caio (essendo uno non si dà il caso della tavola di verità della disgiunzione per cui sono entrambi in quanto l’articolo indeterminativo è comunque singolare e cioè l’indeterminazione è qualitativa non quantitativa). Possiamo dire che “un A” corrisponde ad una disgiunzione degli elementi di un insieme di volta in volta ben precisa (si tratta di quello e non di altri) ovvero ben determinata in relazione ad una ben determinata funzione logica (predicato attribuito) ma che giustamente varia al variare della funzione logica stessa. Più precisamente si tratta dell’unione tra una alternativa (disgiunzione esclusiva) monadica tra termini a livello aletico e di una disgiunzione (inclusiva) monadica tra termini a livello epistemico. “Un A” indica una disgiunzione monadica. “Alcuni A” indica una disgiunzione poliadica (in entrambi i casi più precisamente si tratta dell’unione tra una esclusiva aletica ed una inclusiva epistemica). “Qualche A” è una espressione dal senso più vago che è la disgiunzione tra la disgiunzione monadica e quella poliadica. “Qualche A” indica “Uno o più A” o “Almeno un A” ed esclude “Tutti gli A” se inteso in senso aletico e non epistemico (il quadrato dei quantificatori è tale solo epistemicamente mentre è aleticamente un triangolo rovesciato). Qualche è in realtà un quantificatore ambiguo o meglio esso comprende più quantificatori. Infatti sta per uno o alcuni. Per cui è più corretto distinguere tra la versione ambigua e quella univoca dell’indefinito distinguendo tra un x e un determinato x. Il risultato è perlocutoriamente riducibile al medesimo, ma l’importante è che (stabilito che si tratti di una convenzione euristica) sia assolta la differente funzione semiotica delle due diverse locuzioni. Se qualche uomo, almeno un uomo, alcuni uomini sono riferimenti epistemicamente vaghi, un uomo non esprime un uomo determinato per quanto denoti contraddittoriamente qualcosa di indeterminato? Almeno numericamente esso è univoco. E dunque ha a che fare più con il predicato (e dunque con il concetto) o più con un oggetto? E tutti gli uomini non è determinato e dunque denotante un insieme di oggetti quale che sia il numero e l’identità degli elementi dell’insieme denotato? In che senso ci troviamo in questo caso ad avere a che fare più con un concetto che con degli oggetti? Se, come dice Russell, con una proposizione all’interno della quale c’è “qualche uomo” viene implicata l’intera processione degli esseri umani di tutte le età, questo dovrebbe valere anche per un uomo o qualsiasi uomo o tutti gli uomini. I quantificatori non si riferiscono a individui o a insiemi concreti, ma al rapporto tra individui o insiemi di uomini (tra cui anche insiemi unari) e la classe degli uomini. In questo senso gli individui che possono essere denotati all’interno di questi rapporti sono variabili e dunque in tale variabilità può essere riconosciuta una intera processione di uomini. Viene confermato il fatto che per Russell la descrizione indefinita sia oggettivamente ambigua mentre è solo più vaga dal punto di vista epistemico ma denota comunque un oggetto determinato. Il fatto che essa non riesca ad individuare un oggetto non vuol dire che essa non denoti un individuo. Perciò essa non ha rilevanza epistemica ma comunque tramite essa possiamo tematizzare l’esistenza di un oggetto. Oggetti denotati da una descrizione indefinita possono essere computati. La descrizione indefinita inoltre è spesso un abbreviazione nel caso non sia necessario dilungarsi sulle proprietà specifiche degli oggetti denotati. E possibile percepire più oggetti cadenti sotto un concetto grazie alle loro proprietà relazionali senza che possiamo elencare le loro proprietà attributive. Infatti possiamo contare cinque uomini anche se in mancanza di occhiali non possiamo descriverli nel dettaglio. Non è necessario conoscere le proprietà di cinque individui e dunque la natura delle loro differenze per vedere che ci sono cinque individui (beninteso nella stessa sezione spazio temporale). Questi cinque individui potrebbero essere indiscernibili. E ciò per il fatto che essi vengono distinti e computati non per le loro proprietà attributive ma per le loro proprietà relazionali (e proprio per questo è necessario che i cinque individui condividano la stessa sezione spazio-temporale). L’uomo è mortale L’insieme di tutti gli uomini è l’estensione del concetto uomo che sarebbe vuoto se morissero tutti gli uomini e si potrebbe dire “l’uomo si è estinto” così come diciamo “il dodo si è estinto”. Perciò non è che ciò che materialmente succede non abbia alcuna rilevanza per la dimensione dei concetti. Ciò che si riferisce ad ogni uomo indirettamente riguarda anche il concetto uomo perché si riferisce all’estensione di tale concetto (in che misura è irrilevante per un concetto che degli oggetti cadano o meno sotto di esso?). Inoltre qualcuno potrebbe dire che un uomo che non sia mortale non sarebbe uomo (dal momento che il concetto mortale, più semplice, costituisce (è una nota caratteristica) del concetto uomo. Infine quando diciamo che l’uomo è un animale razionale possiamo anche non riferirci a tutti gli uomini ma sicuramente diciamo qualcosa del rapporto tra il concetto uomo e il concetto intersezione tra animale e razionale. Un uomo può benissimo essere irrazionale ma in questo modo si estranea dall’umanità. Da ciò forse la tendenza antica a vedere nell’idea (nel concetto) il telos dell’uomo ovvero ciò a cui l’uomo deve approssimarsi, ciò a cui deve adeguarsi (c’è una adeguarsi dell’idea alla realtà ma anche un adeguarsi della realtà all’idea). Nella nuova concezione di Russell c’è una subordinazione dell’Essere alla Realtà mentre nel mondo greco c’è la subordinazione dell’Essere all’Idea. Nella modernità c’è il rifiuto dei ruoli prefissati che gerarchizzavano la società antica ma al tempo stesso l’impossibilità di controllare la realtà (che nell’antichità era però prerogativa dei pochi), La proposizione “l’uomo è mortale” può avere due significati: il primo che ogni uomo è mortale, la seconda che la stessa specie umana potrebbe estinguersi. Il fatto che il concetto uomo possa riconfigurarsi come categoria biologica o meglio come specie (con una relazione con la realtà empirica molto più forte) rende la proposizione vera anche non dico con il concetto ma almeno con la specie. Inoltre si può ben dire che la proposizione vale anche per il concetto dal momento che significa che uomo è subordinato a mortale che costituisce una sua nota caratteristica. Dunque la dimensione empirica e quella ideale non sono identiche ma sono corrispondenti. “L’uomo è mortale”, volendo risolvere la questione con un approccio nominalistico, può voler dire “Gli uomini muoiono” oppure “Gli uomini sono mortali”, mentre “mortale” vuol dire “soggetto alla morte” ovvero “che può morire” o “che deve morire”. Si potrebbe risolvere la cosa anche dicendo che “L’uomo è mortale” significa non tanto che tutti gli individui della specie uomo prima o poi muoiono, ma che la stessa specie uomo è soggetta all’estinzione, anche in questo caso qualcuno potrebbe dire che la morte è propria dell’individuo biologico, mentre l’estinzione è un predicato diverso per quanto analogo (rientrano entrambi del più comprensivo “avere fine” che è applicabile anche ad una roccia che si frantumi o ad un edificio che viene abbattuto) che si applica non all’individuo (per quanto un morto può essere il caro estinto) ma alla specie e, mentre per morire un individuo basta che cessi le proprie attività vitali, perché si estingua una specie è necessario che a morire sia l’ultimo individuo appartenente ad essa. “L’uomo è mortale” significa che tutti gli oggetti che cadono sotto il concetto uomo sono oggetti che cadono sotto il concetto mortale. Il concetto uomo cade sotto il concetto mortale che è una sua nota caratteristica. La metafisica può dire così che l’uomo è mortale nel senso che l’uomo da sempre muore, è ab aeterno mortale, è eterno nella sua mortalità, perché la mortalità è connaturata alla sua essenza e costruttivamente alla sua definizione. E così anche la poesia può dire “perché morire e far morire è un’antica usanza che suole aver la gente”. “Gli uomini sono mortali” è più concreta di “L’uomo è mortale”? Il pluralismo conferisce concretezza? Ma l’astrazione non consiste nel dare un solo nome comune a più individui (uomini)? Non è già nel plurale l’astrazione? Riferendo l’universale alla molteplicità di individui non si contrabbanda una ontologia pluralista per visione concreta del mondo? Da un punto di vista platonico “l’uomo è mortale” e “Carlo è mortale” dimostrano che la subordinazione di un concetto ad un altro concetto e l’appartenenza di un individuo ad una classe, nonostante la distinzione operata da Peano, sono relazioni entrambe riconducibili ad una relazione più comprensiva (così come marito e moglie sono riconducibili a coniuge). Tuttavia, eliminate le interpretazioni modali di mortale, si può dire che va spiegato il paradosso dialettico per cui il concetto atemporale uomo sia predicabile della mortalità. Un neopositivista potrebbe dire che si tratta di una predicazione scorretta o un errore di grammatica logica, ma niente apparentemente impedisce che “l’uomo è mortale” sia considerabile un enunciato perfettamente sensato. La verità della dialettica è che l’idea platonica (o il concetto hegeliano) sono predicabili nella loro specificità (nel loro essere questo o quell’altro concetto) anche di predicati che contraddicono il loro essere idee o concetti, senza che tali predicati debbano essere attribuiti agli oggetti che cadono sotto di loro e non a se stessi in quanto concetti. Forse il carattere modale dei predicati (quasi ad un predicato corrisponda una facoltà, una potenzialità) è dovuto proprio ad una interpretazione del paradosso, per cui il fatto che in momenti diversi nel tempo tutti gli uomini muoiano è reso possibile dal fatto che vi sia una relazione ideale eterna tra l’idea uomo e l’idea mortale, vi sia una soggezione (potenziale), una subordinazione dell’uomo al mortale. Questa soggezione è eterna perché eterne sono le idee e l’eternità di uomo è nel suo sempiterno morire (il Venerdì Santo speculativo), sempiterno morire che viene riscattato dal pensiero filosofico e dalla memoria poetica (Foscolo), funzioni culturali che sono fondate sull’atemporalità delle Idee. Concetti, classi e predicati I predicati sono gli atomi logici russelliani le cui combinazioni costituiscono i soggetti e la cui relazione con più soggetti costituisce le classi. Ad es. la qualità (atomo logico, predicato) bianco con altri predicati (rotondo, ruvido) costituisce i soggetti (ovvero le sostanze come una palla da tennis, quella palla da golf) e in relazione con più soggetti (cavalli, gatti, palline etc.) costituisce la classe degli oggetti bianchi. Il sinolo di predicati è l’oggetto (soggetto, sostanza). Il sinolo tra un predicato e degli oggetti costituisce una classe. I concetti sono i predicati (o meglio le proprietà) in quanto oggetti, ovvero le proprietà di cui si predica qualcosa. Sono il risultato di una sorta di rovesciamento meta-linguistico per cui ciò che si trova in posizione predicativa viene riportato in una posizione oggettuale, mentre si può ipotizzare che ciò che si trova in una posizione oggettuale possa essere messo in posizione predicativa solo quando si passa ad un rapporto di equivalenza. Le classi sono poi l’estensione dei concetti. Un concetto non compare in una proposizione (a meno che per proposizione non si intenda il senso dell’enunciato): in una proposizione (o meglio in un enunciato) compaiono soggetti e predicati ossia funzioni enunciative assolte da segni (parole) il cui senso (per alcuni di essi) può essere un concetto e la cui denotazione potrebbe essere un oggetto. Tutto da stabilire è quanto le funzioni enunciative abbiamo nell’ambito del senso e del suo rapporto con la denotazione proiezioni solo logiche o anche epistemiche. Il fatto che [un segno all’interno della denotazione ha un senso e può denotare un oggetto che sono entrambi altri dal segno] costituisce la relazione semiotica che il linguaggio instaura con altre dimensioni (una delle quali è la realtà empirica). Il fatto che nel linguaggio può esserci anche un riferimento (diretto o indiretto) al linguaggio stesso o al suo senso costituisce la natura autopredicativa (riflessiva, dialettica) evidente nel pensiero e nel linguaggio ma che potrebbe non essere esclusiva solo di questi due ambiti. Le proposizioni che usano dei concetti spesso non sono le proposizioni che menzionano questi stessi concetti. Le seconde stanno in questi casi ad un livello superiore alle prime nella gerarchia logico-linguistica. A questo proposito la differenza tra “Qualsiasi numero è pari o dispari” e “Qualsiasi numero è una congiunzione variabile” è particolarmente interessante in quanto c’è una differenza tra livelli della gerarchia logico-linguistica ma il livello meta- non sembra riferirsi all’espressione linguistica. Qual è dunque questa differenza? Quando parliamo di congiunzione non ci riferiamo alla particella grammaticale (livello segnico) ma ad un insieme di termini e di proposizioni riguardanti i suddetti termini (livello semantico). Nel primo caso si parla degli oggetti denotati (la proprietà di essere pari o dispari vale per tutti i numeri) mentre nel secondo caso si attribuisce una proprietà non a tutti i numeri ma alla funzione logica saturata in questo caso dall’oggetto numero. Nel primo caso l’oggetto è matematico (i numeri) cui si attribuisce una proprietà matematica. Nel secondo caso l’oggetto è logico (l’esempio del quantificatore qualsiasi) ed appartiene ad un insieme di oggetti logici. Nel primo caso ciò di cui si parla sono i numeri. Nel secondo caso ciò di cui si parla è un quantificatore logico. Non si tratta però di metalinguaggio ma di metalogica o di meta-semantica. Ovvero Qualsiasi numero non va messo tra virgolette come se fosse considerato come espressione linguistica ma va solo messo in corsivo perché va trattato come un contenuto logico-semantico. Un concetto-classe è un oggetto (molto simile se non identico alla classe come uno) a livello metalogico di quello che è il predicato a livello di linguaggio-oggetto. Con il passaggio dal linguaggio oggetto al metalinguaggio il predicato da oggetto implicito (non usabile come soggetto enunciativo) diventa oggetto esplicito (usabile come soggetto enunciativo). La classe invece è un insieme di termini ovvero una congiunzione di essi. E’ controverso dire se appartenga al linguaggio-oggetto o al metalinguaggio (la classe come uno sembrerebbe appartenere al metalinguaggio mentre come la classe come molti al linguaggio oggetto) Il concetto-classe può essere l’anello intermedio tra la proprietà e la classe, per cui la classe non è opposta al concetto-classe ma al massimo alla proprietà (che non si collega direttamente alla classe ma ha bisogno, per fare questo, del concetto-classe). Ci sono casi in cui la necessità di questa mediazione è più evidente come quando la proprietà è una qualità (tipo un colore) per cui bianco/a intesa come qualità ha un concetto che immediatamente si collega ad esso che è bianco che però per collegarsi ad una classe deve passare per un altro concetto e cioè il concetto-classe oggetto bianco per cui ogni oggetto bianco è un elemento della classe che è l’estensione del concetto oggetto bianco e indirettamente anche di bianco. Come abbiamo già detto un concetto classe preceduto da un quantificatore equivale ad un oggetto che cade sotto un concetto oppure ad un concetto quantificato. La proposizione verte su questo oggetto ma è traducibile nella maggior parte dei casi in una proposizione che descrive un rapporto tra concetti (o tra estensioni di concetti). C’è un denotazione quando abbiamo a che fare con un rapporto quantificato tra oggetto e concetto (e dunque il concetto è un concetto-classe) In caso di un predicato possiamo sempre trasformare un concetto-predicato in un concetto-classe corrispondente (ad es. passare da bianco ad oggetto bianco). Perciò le due situazioni non sono così nettamente distinte. Non si capisce poi cosa intenda Russell quando dice che quando A non è un concetto-classe non si ha nessuna proposizione in “x un A” dal momento che è possibile trasformate un concetto-predicato in un concetto-classe e dal momento che si può anche dire “Giorgio è un buono” senza dover dire obbligatoriamente “Giorgio è un uomo buono”. Oltre tutto quanto si parla dei Trascendentali si usa la descrizione definita (Il Bello) e non quella indefinita ed in questo caso denotare direttamente il predicato è possibile al contrario di quella che è l’intenzione occamistica di Russell, al contrario di quella che è la sua ricerca di nonsensi da censurare. Concetto-classe ed Infinito Dice Russell che Nei casi in cui la classe definita dal concetto-classe ha solo un numero finito di termini, è possibile omettere del tutto il concetto-classe ed indicare i vari oggetti denotati mediante l’enumerazione dei termini e la connessione ottenuta con et o con vel secondo i casi. Perciò i concetti assumono rilevanza soprattutto nel caso gli oggetti che cadono sotto di essi siano di numero infinito e non siano perciò esauribili estensionalmente. Possiamo trattare di collezioni infinite con il Concetto-classe (l’Idea platonica) perché tu non devi enumerare gli elementi dell’insieme ma solo distinguere di volta in volta se un oggetto cade sotto un concetto. Il concetto-classe è legato al quantificatore qualsiasi che è il quantificatore della verifica finita di una estensione infinita di un concetto. Questa verifica finita dell’Infinito si consuma nel rapporto tra particolare e Universale. Quando una collezione è data tramite il concetto-classe (e non l’enumerazione estensionale) è già possibile trattare con collezioni infinite ed anche con collezioni infinite è possibile usare le denotazioni corrispondenti ai quantificatori poiché questi ultimi prescindono dal numero degli elementi di un insieme e riguardano solo il rapporto di eventuale inclusione (totale, parziale, nulla) tra due insiemi (che possono essere anche infiniti). Grazie a Platone e Aristotele è possibile (almeno parzialmente) parlare dell’Infinito nonostante essi considerassero il concetto con diffidenza. Il fatto che possiamo dire “qualsiasi numero è pari o dispari” per cui in un solo concetto sussumiamo una serie infinita di singoli numeri è anche la dimostrazione che noi intuiamo l’Infinito e ne conosciamo alcune proprietà. Il fatto che l’enunciato in questione sia strutturato come una tautologia non ne indebolisce l’importanza in quanto non sempre nella negazione (in questo caso dis-pari) sono contenute (o sono intese come contenute) tutte le alternative. Si potrebbe sempre verificare l’eventualità di un numero per cui la stessa alternativa pari/dispari sarebbe improponibile. Il fatto che tale possibilità non vi sia può essere considerata una intuizione sintetica a priori. Nozioni come l’Infinito, i termini denotanti concetti, rendono esplicito ciò che presupponiamo riferendoci a ciò che non è concetto. Quindi non si tratta di cose di cui dobbiamo mostrare l’esistenza, o meglio non si tratta di cose di cui dobbiamo cercare il corrispettivo nella realtà effettiva, ma enti che si danno alla mente (noemi), enti che si danno principalmente attraverso l’uso che la nostra mente ne fa. Perciò il loro darsi non è temporalmente immediato, ma è di certo epistemicamente immediato. Tali idee sono originarie in quanto, avendo un dominio illimitato, non sono costruttivamente costituibili. Descrizioni definite ed oggetti matematici Quanto alle descrizioni definite quando diciamo “Il presidente del Consiglio” sappiamo di mentire se non diciamo “L’attuale Presidente del Consiglio”. Intanto una descrizione definita con una determinazione temporale che non sia un intervallo determinato di tempo è come prendere il pallone con le mani in una partita di calcio. Infatti se tu dici “attuale” (ovvero se tu usi un indicale) l’unicità ne viene di conseguenza (anche se fossero gli unici ventiquattro). E’ l’immanenza indeterminata dell’indicale che non permette il decorso dei valori di una variabile. Russell riconosce l’importanza della definizione (e dunque della descrizione definita con l’articolo determinativo) per la conoscenza. Al tempo stesso però incorre in qualche errore quando ad es. parla di definizione non vera ma puramente simbolica solo perché essa coglierebbe solo un concetto sotto cui l’oggetto cade unico. Questo però è un requisito sufficiente per l’identificazione dell’oggetto (a volte non bisogna sapere tutti i concetti sotto cui esso cade per individuarlo). Russell guarda la definizione da due punti di vista differenti. L’aspetto banale è la scelta del definiendum ossia dell’abbreviazione (del nome proprio, del termine di concetto) mentre l’aspetto non banale è l’esplicitazione del definiens di un termine singolare. E’ vero però che la definizione con una descrizione definita serve ad individuare l’oggetto ma non a conoscerlo completamente. Per cui non è vero che, definito l’oggetto, non sia necessario di tanto in tanto ritornare all’oggetto così com’era prima della definizione (nella misura in cui il termine singolare riassume tutte le descrizioni, definite ed indefinite, possibili dell’oggetto stesso). Ciò a meno che il definiens non sia abbastanza comprensivo da subordinare a sé tutti i concetti sotto cui l’oggetto cade. In questo caso però la definizione sarebbe piuttosto generica. Altro poi è l’oggetto che è l’unico elemento di una classe ed altro è la classe che soddisfa certe condizioni. In quest’ultimo caso la descrizione definita è anche descrizione definita di un concetto che è apparentemente subordinato ad un altro ma di fatto equivalente ad esso Quanto all’applicazione di tali nozioni all’ambito matematico vanno poste anzitutto alcune domande: Quali termini matematici non sono concetti? Ci sono oggetti matematici che non siano al tempo stesso concetti sotto cui cadono altri tipi di oggetti (es. empirici)? Il sapere matematico è così esatto da potersi esprimere con descrizioni definite ovvero con oggetti cadenti unici sotto il concetto? Con oggetti quasi non distinguibili dai concetti sotto cui cadono? Le definizioni matematiche di termini che non sono concetti sono comunque definizioni di concetti in quanto non è immaginabile che in funzione del tempo un concetto sotto cui cade solo un oggetto possa vedere modificata la sua situazione. Bisogna però capire perché la matematica conservi un aspetto estensionale (ovvero non di concetti ma di oggetti cadenti sotto concetti) che evita che essa possa essere ridotta a scienza (logica) del rapporto reciproco tra concetti. La differenza tra conoscenze empiriche e la matematica probabilmente sta nel fatto che in quest’ultima disciplina i concetti sono abbastanza determinati (esatti, complessi) da avere un unico oggetto che cade sotto di essi. Vero è come dice Russell però che ogni oggetto cade unico sotto un concetto. La cosa interessante è trovare concetti sotto cui cade solo un oggetto che non abbiano note caratteristiche equivalenti alle proprietà dell’oggetto (probabilmente in matematica accade questo: la somma di 2+2 cade sotto un concetto semplice ma si risolve solo nell’oggetto complesso 4). Nelle scienze empiriche il fatto che un oggetto cada unico sotto un concetto è il più delle volte contingente mentre non è così in matematica. Bisogna capire perché (forse c’entra il fatto che gli oggetti matematici sembrano essere anche concetti). L’identità Quando si asserisce una identità forse in realtà si asserisce, nella maggior parte dei casi, una equivalenza (tra segni, tra sensi, tra oggetti) rispetto a dimensioni o ad insiemi di proprietà considerate rilevanti nel contesto del discorso. Dire che due termini sono identici quando entrambi hanno una data relazione verso un terzo termine comporta un circolo vizioso. Infatti nella definizione dell’identità c’è una esemplificazione del concetto di identità dal momento che la data relazione che entrambi i termini avrebbero verso un terzo dovrebbe essere la stessa relazione (ovvero, dati i termini A, B e C, A risulta identico a B se entrambi hanno la stessa relazione R con C) Se esistono per ogni relazione due termini, il fatto che i termini siano due implica che essi non siano lo stesso (che non c’è quella che lo stesso Russell chiama identità numerica). Dunque la congettura fatta per risolvere il problema deve essere o quella che per identità si intende semplicemente la similarità ad un certo grado oppure l’equivalenza sotto uno o più aspetti. L’identità tra concetti denotanti (o tra un termine e un concetto denotante) è il termine medio tra l’identità tautologica e la predicazione. A è un uomo” è una relazione di appartenenza e al tempo stesso la mediazione tra identità e predicazione (è l’identità con un oggetto che si predica di una proprietà). Invece “essere buono è essere felice” è identità tra concetti (o predicati) non tra asserzioni perché in questo caso non si asserisce niente (l’asserzione presuppone il modo indicativo o una proposizione molecolare: “essere buono è essere felice” non è una identità tra asserzioni ma è a sua volta un’asserzione). L’identità in senso radicale è una relazione paradossale perché presuppone lo sdoppiamento di un termine (essendo una relazione con se stessi, una relazione riflessiva). Però il carattere riflessivo delle relazioni è comunemente accettato. Russell giustamente evidenzia come l’identità non tautologica tra un termine e un concetto denotante o tra due concetti denotanti sia conoscitivamente significativa. L’episteme è forse proprio l’individuazione di quante più descrizioni definite e quante più equivalenza tra descrizioni definite si possano individuare. A questo proposito quanto più i concetti sono vaghi tanto più l’enunciato ha probabilità di essere vero. Tuttavia nel caso dell’astrazione la verità non va a braccetto con la conoscenza. Perché la conoscenza sia maggiore bisogna raffinare e rendere più concreti i concetti e quindi bisogna rischiare l’errore come nel caso di Kripke “suo marito era gentile con lei”. Si fosse detto “quell’uomo era gentile con lei” l’errore si sarebbe evitato. Specchietto riassuntivo Uomo = noema, concetto; Umano = predicato; Umanità = insieme; ogni uomo = tutti i sottoinsiemi unari congiunti di un insieme; qualsiasi uomo = tutti i sottoinsiemi unari disgiunti di un insieme; tutti gli uomini = tutti gli elementi di un insieme; un uomo = tutti i sottoinsiemi unari alternativi di un insieme; qualche uomo = tutti i sottoinsiemi disgiunti unari e non unari di un insieme; alcuni uomini = tutti i sottoinsiemi disgiunti non unari di un insieme.