architettura
FIRENZE
2.2017
genealogie
FIRENZE
UNIVERSITY
PRESS
Periodico semestrale
Anno XXI n.2
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In copertina:
Aldo Rossi ad Atene 1971
foto Gianni Braghieri
DIDA
DIPARTIMENTO DI
ARCHITETTURA
architettura
FIRENZE
via della Mattonaia, 14 - 50121 Firenze - tel. 055/2755433 fax 055/2755355
Periodico semestrale*
Anno XXI n. 2 - 2017
ISSN 1826-0772 (print) - ISSN 2035-4444 (online)
Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997
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chiuso in redazione dicembre 2017
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FIRENZE
architettura
2.2017
per Aldo Rossi
Genealogie
3
Dialogo maieutico con Aldo Rossi
Maria Grazia Eccheli
4
Questo amore azzurro. Aldo Rossi a Samos, lo stupore nella scena di fine estate
Vincenzo Moschetti
12
Pier Luigi Pizzi - Tornare a sognare il già sognato: il ‘Furioso’ televisivo di Luca Ronconi ed
Edoardo Sanguineti
Andrea Volpe
22
Paolo Zermani - Nel Sant’Andrea
Paolo Zermani
38
Herzog & de Meuron - Segni, tracce e latenze. Lavorare con la storia
Un progetto totale di un museo a Colmar
Alberto Calderoni
48
Natalini Architetti e Guicciardini & Magni Architetti - L’ampliamento dell’Opera del Duomo
Adolfo Natalini
58
Aurelio Galfetti - Castelgrande a Bellinzona: rifondare il senso dei luoghi
Francesca Privitera
68
Fabrizio Rossi Prodi Fabio Capanni due scuole - Appunti di scuola
Fabrizio Rossi Prodi
76
Renato Rizzi - La Cattedrale di Solomon a Lampedusa
Susanna Pisciella
86
scritture
Francesco Venezia - L’azione del tempo
Mauro Marzo
92
eredità del passato
La giusta distanza dalle cose. Due opere di Ignazio Gardella
Francesca Mugnai
102
Guido Canella ristrutturazione del Palazzo di Giustizia ad Ancona 1975-1989
Dentro un fragile “resto”
Riccardo Butini
110
Un restauro creativo. 1972 Pierluigi Spadolini e la sede storica del Monte dei Paschi di Siena
Fabio Fabbrizzi
118
ricerche
Wrigth, Rudofsky, Eldem: incontro con la casa giapponese
Serena Acciai
126
percorsi
L’ultima notte. Il concerto dei Pink Floyd a Venezia
Sara Marini
134
Futuro presente
Michelangelo Pivetta
142
cento anni
I tre mausolei di Lenin di Aleksej Viktorovič Ščusev
Federica Rossi
150
eventi
ArtFarm
Maria Grazia Eccheli
160
letture a cura di:
Eliana Martinelli, Alberto Pireddu, Ivan Brambilla, Micol Rispoli, Riccardo Renzi, Giulia Fornai,
Andrea Volpe, Francesca Mugnai, Francesco Collotti
164
genealogie
Firenze Architettura (2, 2017), pp. 164-167
ISSN 1826-0772 (print) | ISSN 2035-4444 (online)
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of the Creative Commons License CC BY-SA 4.0 Firenze University Press
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letture
Kenneth Frampton
A genealogy of modern architecture:
comparative critical analysis of built form
Ashley Simone, (a cura di)
Lars Müller Publishers, Zurich 2015
ISBN: 978-3-03778-369-6
“Genealogy is gray, meticulous, and patiently documentary.” Con questa citazione di Michel Foucault
si apre il recente libro di Frampton, che raccoglie il
lavoro didattico condotto con gli studenti della Columbia University di New York, tra il 2005 e il 2008.
L’intento pedagogico, sviluppato da Frampton già
dai primi anni ’70 e portato avanti in diverse scuole, era quello di formare una coscienza critica nei
confronti della forma architettonica, finalizzata al
progetto di architettura. Nel corso della sua esperienza d’insegnamento, Frampton matura l’idea
che l’analisi di un singolo edificio non è in grado di
rivelare completamente i valori intrinseci della forma; è più efficace invece ricorrere all’analisi comparativa di coppie di edifici simili per dimensione,
epoca e programma funzionale, ma preferibilmente
prodotti da un diverso punto di vista culturale, cioè
da una diversa “tradizione del nuovo”. I quattordici
binomi di edifici qui raccolti consistono in esempi paradigmatici dell’architettura del XX secolo, e
vanno da case private e collettive (Maison Cook,
villa Tugendhat, la Siedlung Halen) fino a edifici
pubblici di varia funzione (la Casa del Fascio, il
Kursaal di San Sebastian, il museo Kimbell).
Gli studenti sono stati invitati ad analizzare i casi
studio attraverso disegni e testi, sulla base di precise categorie che Frampton determina a partire
dalle implicazioni ontologiche espresse in The human condition di Hannah Arendt a proposito della
produzione umana. Le categorie sono: (1) Type vs.
Context, cioè come l’artificio si adatta alla preesistenza (2) Public, semi-public, private and service
space, cioè come le azioni pubbliche si coniugano
con quelle private (3) Route/Goal, cioè che tipo di
promenades architecturales si svolgono all’interno degli edifici (4) Structure/Membrane, cioè che
grado di espressività tettonica è raggiunto nel rapporto tra struttura e rivestimento (5) Connotational
Summation, cioè quali riferimenti formali e materici
si ritrovano negli edifici.
Alla genealogia dell’architettura moderna si affianca dunque la ricerca di un’ontologia dell’architettura. Ma l’aspetto più interessante di questo
metodo didattico è che la procedura analitica può
diventare essa stessa genealogica, rivelando un
sistema di valori che cambia in base all’evoluzione
della cultura architettonica nel tempo.
Eliana Martinelli
164
Martina D’Alessandro
Oswald Mathias Ungers a Treviri. Due musei
Bononia University Press, Bologna 2015
ISBN: 978-88-6923-091-2
Il volume, frutto della ricerca di dottorato condotta
dall’autrice e seguita da Gianni Braghieri, indaga
il profondo legame scientifico e affettivo che un
architetto instaura con la propria città di sperimentazione, elevandola a messa in opera concreta del
proprio pensiero.
Treviri rappresenta per Ungers più cose simultaneamente. È innanzitutto un “esempio didattico”,
nella sua conformazione per strati indipendenti, su
cui emergono alcuni elementi. È in secondo luogo
un “museo delle idee”, in quanto l’elaborazione di
un progetto complessivo per la città coinvolge in
primis edifici di affezione, che rivestono per l’architetto un significato ben preciso.
Ma Treviri non è solo contenente, è anche contenuto: è infatti essa stessa opera d’arte, “oggetto
di interpretazioni e di trasformazioni per mezzo di
analogie”. Come ben spiega l’autrice, il progetto
per Ungers non è un’operazione di ricostruzione,
ma di “ermeneutica del luogo”, che ricostituisce
nuovo ordine e nuova identità ai fatti urbani.
Attraverso l’esemplificazione di due casi studio e
del loro rapporto con l’archeologia, viene analizzato in maniera ampia il pensiero di Ungers. Con
il Museo delle Thermen am Forum (1988-96) si affronta il tema dell’astrazione. La forma assoluta e
isotropa dell’edificio, concepito come monumento
urbano, risulta separata dal contesto, per immagine e significato. Gli scavi archeologici rappresentano l’opera esposta, dunque dalla loro traccia
non scaturisce nessuna nuova forma. Il nuovo ingresso alle Kaiserthermen (2003-07) è il risultato
di una scelta diversa: l’edificio è un muro abitato,
una stoà che, questa volta, delimita l’archeologia
in un’area urbana aperta. I volumi e i vuoti, in sequenza modulare, assumono plurimi significati: le
stanze diventano pergolati, i pilastri si trasformano
in alberi e infine in bandiere, riportandoci alla mente il castello di Glienicke di Schinkel.
Il volume contribuisce a delineare e a contestualizzare il metodo compositivo di Ungers. Il procedimento per varianti, che prevede lo studio della
formazione e della trasformazione, ricorre in buona
parte dell’architettura tedesca e risente della Gestalttheorie: l’architettura implica la modificazione
della realtà, che è concepita prima di tutto come
una questione formale.
Eliana Martinelli
RE–USA
20
american
stories of
adaptive
reuse
A toolkit for post-industrial cities
Matteo Robiglio
3
Invenzione della tradizione
L’esperienza dell’architettura
Antonella Gallo e Giovanni Marras (a cura di)
Il Poligrafo, Padova 2017
ISBN 978-88-7115-935-5
Nell’inaugurare, all’alba del 1954, la nuova stagione della rivista “Casabella”, nel segno di una continuità con la coscienza storica e il “modo di sentire”
degli amici Giuseppe Pagano e Edoardo Persico,
Ernesto Nathan Rogers introduceva una riflessione intorno al fondamentale tema della tradizione
destinata a futuri, fecondi, approfondimenti.
Il libro, curato da Antonella Gallo e Giovanni Marras per i tipi de Il Poligrafo, arricchisce quel dibattito, in-attuale per sua stessa definizione, di nuovi
punti di vista e originali interpretazioni, scaturenti
dal concetto di “invenzione della tradizione” contenuto nel volume The invention of Tradition, a cura
di Eric Hobsbawm e Terence Ranger. Un classico
della letteratura nel campo degli studi storici e antropologici nel quale, mentre si precisa la differenza tra consuetudine e tradizione, progressivamente sfuma la (altrimenti troppo netta distinzione) fra
tradizione e modernità, con la conseguenza che la
stessa identità assume il carattere (progettuale?)
di una costruzione da realizzare.
I contributi di C. Magnani, G. Fabbri, A. Dal Fabbro,
L. Semerani, G. Grassi, A. Monestiroli, B. Albrecht,
M. Meriggi, E. Mantese, C. Eusepi, P. Grandinetti,
L. Monica, V. Bertini, R. Cantarelli, G. Scavuzzo, C.
Torricelli, A. Iorio, G. Rakowitz, G. Marras, P. Montini Zimolo, R. Neri e A. Gallo, sono l’esito prezioso
di un seminario monografico sul tema, organizzato
nell’ambito delle attività promosse dal curriculum in
Composizione architettonica della Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia.
La loro eterogeneità, conseguenza, certo, di una
personale ‘tradizione’ dei singoli autori, restituisce
una (provvisoria) definizione, per dirla con Luciano
Semerani, del rapporto fra tradizione e invenzione
all’interno del complesso mondo della “vita delle
forme”, in altre parole dell’architettura.
Così, lo “spettacolo della storia” di una Damasco
dalla millenaria stratificazione convive con la ricerca
di una possibile geografia dei “luoghi dell’avanguardia antica” e con le straordinarie visioni di Fischer
von Erlach; il ricordo dei maestri con delicati passaggi sulle “terre delle nostre tradizioni ancestrali”, viaggi verso Nord, l’Africa o la Cina, riflessioni
sull’arte e sul “saper fare”, sulla continuità di una
certa consuetudine dell’architettura, sull’aspetto
costantemente inventivo di ogni riferimento a una
tradizione, di là da qualsiasi visione teleologica della cultura e della storia.
Alberto Pireddu
Christoph Mäckler, Frank Paul Fietz, Saskia Göke
Stadtbausteine: Elemente der Architektur
DOM publishers, Berlin 2016
ISBN 978-3-86922-551-7
Ottavo volume pubblicato all’interno della collana
“Bücher zur Stadtbaukunst” curata da Christoph
Mäckler e Wolfgang Sonne, il libro raccoglie una
selezione di foto di architettura esposte in occasione delle “Dortmunder Architekturtage”, il noto appuntamento annuale presieduto tra il 1975 e il 1981
da Josef Paul Kleihues e riavviato a partire dal 2005
dal Deutsches Institut für Stadtbaukunst.
Il volume presenta un centinaio di immagini di progetti contemporanei, ognuno accompagnato da un
autorevole riferimento scelto dal rispettivo autore.
Le coppie di foto sono ordinate in dieci capitoli,
secondo la successione tematica delle singole rassegne presentate tra il 2006 e il 2015: la finestra
su strada, il tetto, l’ingresso, la scala, la facciata,
ornamento e dettaglio, la corte urbana, lo zoccolo
al piano terra, il sistema murario in facciata e balcone – bovindo – loggia.
Oltre ad opere realizzate da autori tedeschi, sono raccolti nel libro esempi di architetti stranieri, tra i quali
figurano i nomi italiani di Paolo Zermani, Francesco
Collotti, Paolo Fusi e Simona Malvezzi. Il contributo
italiano è oltremodo confermato anche dai riferimenti
progettuali, con un’ampia selezione di opere magistrali del nostro ricco patrimonio architettonico.
Continuità storica e rapporto tra architettura e città
sono i presupposti teorici del libro, il quale, riallacciandosi al passato, rimette al centro del progetto
il tema urbano. Come evidenziato da Christoph
Mäckler, nel suo intervento alla settima edizione
delle “Dortmunder Architekturtage”, qui pubblicato
come testo introduttivo, la spazialità e l’immagine
delle architetture contribuiscono fortemente alla
qualità dei luoghi. Gli elementi architettonici, definiti
“Stadtbausteine” – letteralmente “pietre di costruzione della città” –, sanciscono il legame tra edificio
e contesto, secondo una processo induttivo che
dal particolare rimanda al generale, prediligendo
alla speculazione teorica la verifica sperimentale.
Come in un carnet de voyage la successione di
immagini, pur illustrando architetture tra loro spesso geograficamente o concettualmente distanti,
suggerisce una linea operativa tendenzialmente
unitaria capace di evocare visioni possibili di città analoghe, trascendendo la specifica condizione
spazio-temporale degli esempi stessi.
Ivan Brambilla
Matteo Robiglio
RE-USA.
20 american stories of adaptive reuse
JOVIS Verlag GmbH, Berlin 2017
ISBN 978-3-86859-473-7
Con l’espressione adaptive reuse Matteo Robiglio
si riferisce ad un approccio al riuso, ormai internazionale, volto a riproporre il patrimonio industriale
dismesso in maniera creativa: infrastrutture ed edifici
abbandonati vengono rivalutati, rinnovati e riattivati
con modalità affini al nostro tempo, grazie all’inserimento, al loro interno, di attività legate a cultura,
svago, sport, educazione, design, residenza, produzione e mercato contemporaneo. L’autore indaga il
caso studio americano per gli insegnamenti che esso
è in grado di impartire, per il fascino, la forza e il dinamismo delle sue realtà industriali, per il forte senso
civico e comunitario che permea le città statunitensi.
RE–USA ha la triplice natura di libro di viaggio, manuale e saggio teorico, ripartito in tre parti.
La prima si sofferma sull’analisi di progetti di riuso
operati in centri industriali quali Philadelphia, Washington D.C., Pittsburgh, Chicago, Detroit e New
York. Qui l’intenzione è quella di raccontare approcci
alternativi e progetti emblematici di adaptive reuse, di
raffigurare il contrasto o la collaborazione tra processi
pianificati top-down e l’attivismo bottom-up, eventi
effimeri e sfide a lungo termine, iniziative scaturite
dall’azione di volontari locali o da imprenditori immobiliari, rapporto tra comunità e impresa, grandi investimenti e operazioni low-cost, architettura d’élite e
soluzioni fai da te, strategie estensive a grande scala
e interventi puntuali e progressivi.
La seconda parte introduce una serie di strategie per
l’adaptive reuse: illustrando ognuna di esse con riferimenti ai progetti analizzati, ne svela i fattori di successo e sintetizza le lezioni apprese in un kit di strumenti
e guida di facile comprensione, rivolto a chiunque sia
interessato a conoscere di più riguardo a tale pratica
di riuso, o a divenire parte attiva di un processo simile
nel proprio contesto.
La terza ed ultima parte esplora le implicazioni storiche e teoriche dell’adaptive reuse e del suo valore di
pratica sociale, introducendo riferimenti alle diverse
tipologie di spazio industriale.
Le esperienze analizzate mostrano che l’innovazione
è il risultato di pratiche sociali durevoli generate indipendentemente dall’architettura, ma che raggiungono
il loro pieno potenziale se interpretati e valorizzati da
essa. Ripercorrendo i punti cardinali del suo lavoro,
l’autore riflette su quale sia, a tal punto, il ruolo dell’architetto. Lontano da grandi gesti ed autocelebrazione,
ciò che conta è la sua capacità di donare continuità
al passato e al contempo deviarlo in maniera intelligente, negoziando con molteplici attori e in condizioni
mutevoli. La sua capacità creativa è qui chiamata ad
attivare la trasformazione, motivare gli attori, gestire e
ottimizzare il processo.
Micol Rispoli
165
Fabio Fabbrizzi
IN-SITU
Musealizzazione dell’area archeologica di Frascole
DidaPress, Firenze 2016
ISBN 978-88-9608-047-4
Riccardo Butini
Progetto contemporaneo nel paesaggio
archeologico
DidaPress, Firenze 2016
ISBN 9788896080429
Lorenzo Arruga
Pier Luigi Pizzi Inventore di teatro
Cronologia e ricerca iconografica di Franca Cella
Umberto Allemandi&C., Torino 2006
ISBN 978-88-422-1321-5
Il volume di Fabio Fabbrizzi racconta esperienze
didattiche di progetto sul tema della riqualificazione
generale delle strutture a servizio di un sito archeologico toscano posto nell’alto Mugello. Il lavoro contenuto nel libro nasce da un accordo iniziato nel 2014
fra il Dipartimento di Architettura e la Soprintendenza
Archeologia della Toscana.
Alla presentazione dei progetti sono anticipati saggi
di Saverio Mecca, di Susanna Sarti (funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana), di Laura Paoli (archeologo e direttore scientifico del Museo Archeologico Comprensoriale del
Mugello, Alto Mugello e Val di Sieve), di Claudio Piferi
e di Fabio Fabbrizzi in grado di spiegare da differenti
punti di osservazione la complessità del tema affrontato, con le sue autonome criticità, e le non semplici
condizioni operative.
Risulta di estremo rilievo la riflessione di Fabbrizzi nel
suo saggio riferita alle molteplici impostazioni metodologiche affrontabili e sulle loro differenti ricadute
nel percorso didattico che guida lo studente dall’inizio del progetto fino alla sua espressione finale.
Di tale riflessione godono i progetti degli allievi presentati nella sezione prevalente del volume. Essi sono
connotati da una sensibilità e da una maturità che
sapientemente mette frutto il preliminare percorso
analitico per poi comprendere il difficile rapporto fra
volontà di disegno architettonico e necessità di tutela
dei caratteri autonomi del paesaggio archeologico.
Al progetto infatti viene affidato il ruolo di fenomeno
che accompagna e tutela il luogo senza mai prevaricarlo e senza mai ometterne alcuna componente;
come insieme di azioni volte alla conservazione, il
progetto ha in questo caso l’onere e la difficoltà di
divenire un elemento di protezione, svincolandosi da
sistemi formali che ne potrebbero caratterizzare troppo apertamente un’adesione a parametri o linguaggi
propri ma estranei al contesto. Proprio l’assenza di
un sistema linguistico rintracciabile in tematiche urbane o sistemi relazionali definiti in approfondimenti
tipologici cui il progetto potrebbe poggiare parte della sua composizione, determina una forte assenza
che risulta caratteristica di questo tipo di dimensione
a cavallo fra architettura e paesaggio.
I lavori qui presentati non cadono nel pericoloso tranello dell’attribuzione di un ruolo gerarchico prevalente ad una delle due condizioni, progetto o presenza.
Essi dimostrano invece uno dei fondamentali princìpi
didattici del percorso in Architettura: come l’esercizio
dell’ascolto dei caratteri identitari del luogo, strumento operativo assai difficile soprattutto per i primi anni,
doti gradualmente lo studente di una consapevolezza il cui i progetto non deve e non può permettersi di
rinunciare, in nessuna fase.
Riccardo Renzi
Le rovine sono ancora materia viva?
Basterebbero le poche immagini affiancate al
testo, sapientemente selezionate, a fornire una
sicura risposta: architetture dirute invase da una
rigogliosa vegetazione, che fuoriesce dalle pietre
e dai pavimenti come sangue vivo, e diviene metafora della intrinseca fertilità delle architetture del
passato, solo in apparenza morte.
Il saggio che Butini fornisce delinea, partendo da
questo assunto, un preciso metodo progettuale,
che riflette sui temi della permanenza, dell’ascolto,
della trasmissione.
Le rovine e l’antico divengono sostanza plasmabile, un ‘prezioso deposito’ di modelli e misure,
in cui ritrovare le fondamenta resistenti su cui
appoggiare il progetto d’architettura. Metafora e
testimonianza del mondo passato, esse vivono un
tempo sospeso, una duplice condizione di presenza ed assenza, eterno e provvisorio: in questa
discontinuità è la possibilità di un germoglio, di un
innesto.
L’autore dunque, in una narrazione che si struttura
in tre scritti, sollecita ad abbandonare le ‘novità
sciocche e stravaganti’ e ad interrogarsi sulle cose,
a collaborare con la storia, a esercitare la pratica dello sguardo: è esso lo strumento principale
attraverso cui ricercare, sempre mutevole e per
questo sempre capace di rinnovare e ciclicamente
ridestare a nuova vita il frammento, consentendone letture sempre nuove. Per infine ‘scavare un
suolo ideale’ alla ricerca del progetto, quasi esso
risiedesse, già inscritto, nelle tracce dell’antico, in
attesa di essere scoperto; recuperando, nel comune atto del sottrarre e dello scegliere, un punto di
contatto con la disciplina dell’archeologia.
La pubblicazione affianca al contributo teorico,
completandone il ragionamento, una selezione di
lavori prodotti all’interno del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura I, esercizi di composizione sul possibile legame tra il progetto e i temi
dell’antico, delle rovine e del paesaggio archeologico.
Tuttavia in un ragionamento che sembra condurci
dal generale al particolare, si ritrova, nelle pieghe,
anche il percorso inverso: se, in una dilatazione di
scala, intendiamo il paesaggio italiano contemporaneo come una grande rovina, fatta di frammenti di paesaggi già stati, allora il metodo tracciato
acquista carattere universale e pare estendersi a
tutta la pratica architettonica dell’oggi: in un continuo corpo a corpo con il tempo, soltanto i progetti
capaci di interrogare il passato senza rimpiangerlo, potranno ‘far convivere le parti’, avvicinando ‘i
tempi dell’architettura fino a farli coincidere’.
Giulia Fornai
“Questo libro [...] ha la speranza di aiutarvi a entrare in queste invenzioni, di capirle e viverle a vostro
modo, come in teatro. «Come in teatro» vuol dire
una cosa tanto semplice che a scriverla pare lapalissiana, ma non è: che Pizzi in teatro ha fatto sempre
e solamente teatro. Non c’è spettacolo in mezzo secolo che non abbia pensato e realizzato per andarsi
a confrontare là, in scena, con gli attori o i cantanti e
il pubblico, nel momento della verità.”
Così si apre il primo volume (il secondo, Pier Luigi
Pizzi Bis! sempre pubblicato da Allemandi, sempre
con testi di Lorenzo Arruga e apparati curati da
Franca Cella, è uscito nel 2015) che raccoglie le
scenografie, i costumi e le architetture della visione che Pizzi ha costruito nell’arco della sua vita.
Un’opera, quella del Maestro milanese, che con
misurata eleganza ha segnato e continua a segnare la storia del teatro di prosa, del cinema e della
lirica italiana.
Organizzato in due parti, il volume illustra le collaborazioni di Pizzi con la Compagnia dei Giovani,
col solo Giorgio De Lullo per le regie liriche, con
Luca Ronconi e con altri importanti registi e poi,
nella seconda sezione, quelle di Pizzi con Pizzi;
ovvero il suo lavoro di regista lirico che lo ha rivelato al mondo come uno degli interpreti più autorevoli dell’opera barocca e del repertorio di Rossini.
Fotografie e disegni che documentano non solo
la straordinaria forza del suo operare ma anche la
sua dimensione etica, il suo senso dello spazio e
la sua cura nel concepire la dispositio di elementi che nel corso degli anni si andranno a rarefare
non rinunciando però a caricarsi di significato. La
figura di Pizzi che emerge dalle pagine di questa
ponderosa monografia è in buona sostanza quella
di un potente architetto, costruttore di una bellezza la cui sorte non si gioca nell’attimo dell’apertura del sipario di ogni atto, alla ricerca del facile
applauso, ma al contrario nel momento finale della
rappresentazione, quando è la coerenza del fare
ad essere sottoposta al giudizio del pubblico, al
trionfo, all’immediata sensazione di perdita per
aver assistito durante lo spettacolo alla fragile
rivelazione del mistero del rito teatrale. Come diceva Manfredo Tafuri a proposito del Teatro del
Mondo di Rossi, ‘l’effimero è eterno’. Queste pagine consegnano a noi architetti-lettori un’analoga
dimensione di architettonica monumentalità.
Andrea Volpe
166
Alberto Pireddu
In limine
Firenze University Press, Firenze 2017
ISBN 978-88-6453-519-7
La “grande triade” descritta da Renè Guenon è
un’immagine cosmologica dove la relazione fra il
cielo, la terra e l’uomo è evocata dal simbolo della
croce. L’uomo si trova all’incrocio delle due linee:
la verticale per il cielo e l’orizzontale per la terra. Se
l’architettura è la casa dell’uomo, anch’essa occupa, insieme al suo abitante, il centro della croce,
ovvero il nodo dove può realizzarsi la contemporanea appartenenza al cielo e alla terra. In limine è
una raccolta di saggi che riflettono su questa felice
condizione di soglia, tanto connaturata all’opera
architettonica da potersi considerare il discrimine
tra ciò che è architettura e ciò che non lo è. L’analisi colta di Alberto Pireddu, che poggia su di una
importante letteratura architettonica e filosofica,
si rivolge al rapporto con la terra, penetrando fino
alle radici del costruire.
Intervistato dall’autore, Kenneth Frampton desume da Semper una intrinseca opposizione tra il
basamento e la copertura, dove tuttavia è il primo
“quello veramente fondamentale”. Da qui prende
le mosse la ricerca di Pireddu, che individua nel
contatto con la terra il punto in cui l’architettura
realizza e determina la propria condizione di limen.
Uno dopo l’altro i saggi compongono, come tessere di mosaico, un’immagine ricca di sfumature,
dove questo stato di sospensione appare declinato nelle sue molteplici accezioni in virtù della specifica relazione che ogni volta l’architettura instaura
con il suolo: ora affondandovi, ora emergendone,
ora sfiorandolo. Dai tumuli tronco-conici di Eccheli
e Campagnola per il crematorio di Verona alla piramide pompeiana di Francesco Venezia, dai blocchi
cavi di Portela sulle scogliere della Galizia al basamento abitato di Campo Baeza a Cádiz, fino allo
scrigno di Cellini per le navi di Istanbul, l’architettura appare sempre sospesa fra gli opposti termini
di uno stesso sistema: terra e cielo, terra e mare,
particolare e universale, natura e artificio, storia e
memoria, idea e materia, concreto e astratto, attimo ed eterno, e così via. Ma è il luogo infine, come
ci ricorda anche Francesco Collotti nella intensa
prefazione, a suggerire con quali radici un’architettura possa (e debba) sorgere dalla terra, a dettare le modificazioni del tipo atte a consolidare la
relazione tra l’una e l’altra, ed è sempre il luogo a
determinare i caratteri di quella fondamentale condizione di soglia “magistralmente sospesa nell’indefinibile (perché necessaria) tensione tra una verità da rivelare e una da costruire”.
Francesca Mugnai
Federica Visconti
Pompeji
Città moderna/Moderne Stadt
Ernst Wasmuth Verlag, Tübingen Berlin 2017
ISBN 978 3 8030 0937 1
ISSN 2364-7663
La presenza dell’antico produce progetto. In tre gradi. Primo, Pompei. Città antica, percorso attraverso la
forma della città. Secondo, Oltre Pompei esperienze
progettuali di costruzione della città o parti di essa,
debitrici alla città antica. Terzo, Pompei analoga dove
si indaga, attraverso il progetto e il disegno soprattutto, la lezione ancora oggi operante della struttura
urbana. Apparentemente del tutto inattuale, la straordinaria attualità di Pompei sta per gli architetti nel
superare la sua natura di sito sospeso e misteriosamente indicibile, per divenire – oggi come allora – luogo abitato, interno plausibile, relazione tra sequenze
di spazi e recinti (Carlo Moccia). Rispetto all’archeologo, è dell’architetto facitore di forme il privilegio di
guardare a Pompei come città operante, ritrovata negli esempi migliori del Moderno che hanno riflettuto
sulle gerarchie tra pieni e vuoti, conferendo valore a
quelle proporzioni ed a quei rapporti che son capaci
di generare forme che son corti, recinti, muri. Pompei
si ritrova per parti, per geometria rettificata, per sogno che prende corpo nelle ricerche per la città orizzontale di Diotallevi e Marescotti, nel frammento di
città che è l’unità di Libera al Tuscolano. Pompei non
ha mai smesso di progettare. Sta forse un po’ stretta
agli archeologi e agli storici questa idea di una città
che non si è mai cristallizzata, malgrado la morte violenta che l’ha fermata. Lo stesso Maiuri, controverso
e tuttavia straordinario custode, racconta di come lo
studio della casa, cellula e nucleo essenziale di ogni
abitato urbano, sia ancora oggi possibile comprendere il problema spirituale culturale e umano dell’abitare. La rilessione sulla città antica è ancora duqneu
una riflessione su che cosa sia casa, che cosa sia
abitare. Dunque alcuni disegni di parti di città di Ernst
May, Siza, Hilberseimer e Mies, forzati sulla pianta
della città antica sono strumenti di misura del progetto. Quasi una verifica per calibrare lo strumento.
L’architettura è l’espressione di pensieri che prendono corpo negli spazi (Uwe Schröder), e vi è una scala
e una misura che danno conto di come si stabilisca
un rapporto tra l’uomo e i luoghi abitati, le forme – ora
come allora – sono corte, strada e piazza, tipi che
non solo tengono insieme luoghi distanti, ma soprattutto che rendono contemporanea la città antica.
Infine circa il disegno. La ricerca grafica di Claudia Sansò, che accompagna tutto il libro in modo
chiaro e essenziale, ancora una volta ci rafforza nel
pensiero che solo col disegno gli architetti conoscono. Uno strumento difficile, ma di altissima responsabilità civile.
Il tutto raccontato in volume collettivo molto piccolo, molto denso, ben stampato per i tipi di un editore prestigioso.
Francesco Collotti
Salvatore Settis
CIELI D’EUROPA Cultura, creatività, uguaglianza
UTET, Milano 2017
ISBN 978-88-511-5014-3
La storia, la cultura, persino le rovine delle città d’Europa ci mettono al sicuro? RiOgni cultura umana decifra
il mondo a partire dalla propria esperienza. Abbiamo
difficoltà ad analizzare il nuovo per quello che è. Tendiamo, insomma, più a riconoscere che ad analizzare:
in quel che ci accade intorno (…) ravvisiamo affinità o
identità con quel che abbiamo già vissuto. Siamo dunque sicuri di capire fino in fondo, oppure riconosciamo
sulla base di pregiudizi, alcuni cruciali sviluppi di fenomeni del nostro tempo? La domanda è diretta: siamo
sicuri di intendere non solo per quel che sono, ma per
quel che rivelano, le distruzioni intenzionali di opere
d’arte, l’incuria che affligge i monumenti e i paesaggi,
il declino delle città storiche e il diffondersi dei ghetti urbani? L’incipit della recensione qui a fianco pone una
questione analoga in termini positivi, da architetti, ma
sempre girando intorno alla constatazione secondo cui,
anche nel rimetter mano alla città, stiamo disimparando
a convivere con il nostro passato, a cui non sappiamo
più guardare se non con nostalgia o con disagio (avevamo già recensito qui qualche anno fa il futuro del classico, sempre di Settis). Se ben sapessimo distinguere
e analizzare, non ci toccherebbe – quale esercizio di
misura – rimetter mano a Pompei per guardare avanti
e tracciare la città futura. Mettere in cornice e imbalsamare, oppure – al contrario – saper cogliere l’energia
contenuta nel gesto iniziale e portarla avanti? Guardiamo a Pompei per nostalgia oppure con occhio volto al
progetto? Città di rovine? Viviamo una stagione in cui vi
è chi fa festa distruggendo (dai Buddha di Bamyian fino
a Palmira). Le iconoclastie non sono mai la negazione
in toto del passato, ma la scelta, ritualizzata e mirata, di
distruggere qualcosa per esaltare qualcos’altro. Vale poi
a tal proposito la considerazione che quando si indirizza
su un’opera d’arte, per paradosso, l’azione dell’iconoclasta ne riafferma in qualche modo il duraturo potere,
che dalla devastazione e nonostante la devastazione
può perfino risultare accresciuto. La riflessione di Settis
abbraccia una vicenda molto più ampia, che non la sola
indignazione per l’iconoclastia di propaganda, toccando un’altra specie di distruzione che è vera perdita di
memoria: la violenza che devasta le città, i paesaggi, le
memorie storiche, che ne cancella i fragili palinsesti in
nome del mercato. Si tratta qui della crisi in corso di una
società, della sua decadenza culturale, morale e politica. Ma proprio le rovine sono la condizione per la ripartenza, incentivo efficace alla rinascita, ritorno all’energia
creativa delle origini (Settis/Jackson). Nella città della
peste (Camus) memoria degli esuli e memoria dei prigionieri corrono il rischio di non servire più a nulla accomunate da rassegnazione, indifferenza, cinismo. Che
cosa sarà dunque una memoria d’Europa condivisa tra
abitanti di lunga data e nuovi recentissimi arrivi? Sarà
questa memoria un materiale da costruzione che dalla
decadenza guidi verso una nuova rinascenza?
Francesco Collotti
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ISSN 1826-0772
9 771826 077002