TRACCE
Percorsi internazionali di storia contemporanea
Comitato direttivo
Elisa Grandi e Deborah Paci
Nella stessa collana:
Elisa Grandi, Deborah Paci (a cura di)
La politica degli esperti.
Tecnici e tecnocrati in età contemporanea
SULLE SPALLE
DEGLI ANTICHI
Eredità classica e
costruzione delle identità nazionali
nel Novecento
a cura di
Jacopo Bassi e Gianluca Canè
EDIZIONI UNICOPLI
L’Editore ha cercato di reperire tutte le fonti delle illustrazioni, ma alcune restano sconosciute. L’Editore porrà rimedio, in caso di segnalazione, alle involontarie omissioni o ad errori nei riferimenti.
Coordinamento redazionale: Jacopo Bassi, Gianluca Canè
Prima edizione:
Copyright © 2014 by Edizioni Unicopli,
via Andreoli, 20 - 20158 Milano - tel. 02/42299666
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dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633, ovvero dall’accordo
stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio,
Confesercenti il 18 dicembre 2000.
INDICE
p.
7
Introduzione,
di Jacopo Bassi e Gianluca Canè
23
Parte prima
IL MODELLO CLASSICO: L’ARCHEOLOGIA E LA
STORIOGRAFIA COME STRUMENTI POLITICI
25
Il fascismo e la storia greca
di Dino Piovan
39
Il nodo gordiano macedone.
Archeologia, identità etnica e appartenenza politica
di Maja Gori
53
“Romana la terra, cattolica la fede, italici i destini”.
Romanità e italianità a Malta durante il ventennio fascista
di Deborah Paci
69
La tetrarchia di Slobodan Milošević.
Imperatori tardoantichi nella Serbia degli anni Novanta
di Filippo Carlà
83
Parte seconda
NATION-BUILDING ED EREDITÀ CLASSICA
85
La latinità nel Novecento romeno.
I dibattiti intellettuali interbellici e le politiche culturali
comuniste
di Francesco Zavatti
6
Indice
p. 101
Le rappresentazioni dell’età romana nella narrazione
nazionale algerina
di Emmanuel Alcaraz
117
Il Partenone impossibile.
Il classicismo turco dell’Anıtkabir
di Matthew Gumpert
137
Parte terza
LA NAZIONE CONTRO L’IMPERO
L’Impero romano come modello negativo nel nazionalismo
139
Il mito di Masada nello Stato di Israele
di Erminio Fonzo
151
Il druido, il sacerdote e la patria.
La Francia tra il 1870 e il 1919
di Julien Bouchet e Laurent Lamoine
165
L’eroe indomito.
Viriato nella mitologia nazionalista spagnola
di Tomás Aguilera Durán
181
Appendice
BUSSOLE
227
Bibliograia
275
Gli autori
Parte prima
IL MODELLO CLASSICO: L’ARCHEOLOGIA
E LA STORIOGRAFIA COME STRUMENTI POLITICI
IL FASCISMO E LA STORIA GRECA1
Dino Piovan
1. La storia antica in età fascista
I circa due decenni della storia italiana dominati dal fascismo, tra
il 1922 ed il 1943, furono anni di pesante interferenza nel lavoro degli storici e soprattutto di dannosa autarchia culturale. Come ebbe a
dire Arnaldo Momigliano a distanza di parecchi anni, «mancava l’ossigeno. I contatti culturali […] si fecero molto dificili» (Momigliano
1975e, 197). Nell’ambito delle discipline storiche, ad essere fortemente
privilegiata dal regime fu la storia romana. Il fascismo infatti si presentò come erede di Roma, della sua civiltà, del suo Stato e del suo
Impero. Il culto di Roma non fu solo «lo slogan migliore per diffondere i concetti di aggressione e imperialismo» (Momigliano 1986, 131),
ma parte integrante e costitutiva dell’ideologia e della cultura fascista
e si concretizzò in una miriade di iniziative: la fondazione di riviste
quali «Historia», diretta da Ettore Pais, professore di storia romana
all’università di Roma; la nascita di centri studi come l’Istituto di Studi
Romani; le tante celebrazioni, in particolare i tre bimillenari: di Virgilio nel 1930, di Orazio nel 1935 e di Augusto nel 1937; inine una mole
enorme di pubblicazioni, come i «Quaderni augustei» o i «Quaderni dell’impero», miranti perlopiù a «mettere in luce la “continuità”:
tra Roma antica e la Chiesa cattolica, Roma antica e la storia d’Italia,
Roma antica e il fascismo» (Canfora 1980, 85). Caratteristiche comuni
alla produzione antichistica di quei decenni furono l’assimilazione tra
il fascismo e la dittatura cesariana, prima, il regime augusteo poi; in
merito può bastare, a titolo di esempliicazione, la deinizione di Cesare come «la prima Camicia Nera nella storia della nazione» da parte di
1
Alla memoria di Emilio Gabba, studioso impareggiabile della storiograia moderna sul mondo antico.
26
DINO PIOvaN
Emilio Bodrero.2 Un altro tratto comune fu la disputa sull’originalità
della cultura romana rispetto a quella greca, nell’ambito di un complessivo rilancio del mito già risorgimentale, giobertiano-mazziniano,
del «primato» italiano, di cui il principale ideologo fu il ilosofo Giovanni Gentile, ministro dell’istruzione nel primo governo Mussolini
ed anche in seguito una delle personalità più inluenti della cultura nel
Ventennio. Anche se sul piano scientiico la questione, così tipicamente ottocentesca, era al tempo già superata, essa diede spunto a «una
ricerca puntigliosa di quei tratti fondamentali del “genio della stirpe”»
(Bandelli 1991, 391). In particolare, ricorrenti furono «la contrapposizione Grecia-Roma, la svalutazione del primo di questi due poli, la ricerca di una tradizione romana univoca e ben distinguibile […], la svalutazione della democrazia (volentieri relegata tra i disvalori tipici del
mondo greco), ecc.» (Canfora 1980, 82). In sintesi, gli studi di storia
antica videro una divaricazione tra storia romana e storia greca, l’una
infestata oltremisura dalla retorica e dalla propaganda, l’altra depressa ed emarginata anche nell’assegnazione delle cattedre universitarie.
È in tale contesto che va compresa la discussione sulla libertà dei
Greci che nasce all’interno della scuola di Gaetano De Sanctis, allora il
massimo studioso italiano di storia antica ed uno dei pochissimi professori universitari (dodici in totale) che riiutarono di giurare fedeltà al fascismo nel 1931.3 Questa discussione ebbe come protagonisti
il maestro e alcuni tra i suoi migliori allievi ed ex allievi, come Aldo
Ferrabino, al tempo docente all’università di Padova, Arnaldo Momigliano e Piero Treves; questi ultimi due, pur entrambi molto giovani
(il primo era nato nel 1908, il secondo nel 1911), seppero affermarsi
precocemente non solo per il dominio degli strumenti tecnici, ma anche per la capacità di ripensamento critico di temi e problemi basilari.
Non fu solo un dibattito erudito tra studiosi di storia antica, anche per
l’inluenza delle opere e del pensiero di Benedetto Croce, che intorno
al 1930 era considerato il leader culturale dell’antifascismo e che sul
piano storiograico elaborava in maniera compiuta la sua concezione
della storia come storia della libertà. Molteplici le prospettive e le suggestioni che vi si intrecciarono, dall’analisi strettamente ilologica alla
teoria della storia e della storiograia ino alla vera e propria ilosoia
della storia, senza trascurare i risvolti immediatamente politici e ideologici. Forse mai come allora nella cultura italiana la storia greca, sia
perché sottratta all’orgia retorica della romanolatria sia per i suoi con-
La si può leggere ora in Franco 1993, 118.
Sulla vicenda del riiuto del giuramento fascista, cfr. – oltre alla testimonianza di De Sanctis 1970, 143-157 – Goetz 1982 e Goetz 2000.
2
3
Il fascismo e la storia greca
27
tenuti intrinseci, si rivelò il terreno di un serrato confronto sui valori
della libertà politica e di pensiero.
2. La ricerca del valore della storia greca: De Sanctis
Quando il fascismo prende il potere, Gaetano De Sanctis4 era ormai
il più noto tra gli storici italiani del mondo antico. Scientiicamente
era stato allievo di Julius Beloch, lo studioso tedesco chiamato ad insegnare storia antica all’università di Roma dopo il 1870, nell’ambito
di un rinnovamento degli studi perseguito dal nuovo Stato italiano nel
momento in cui aveva annesso lo Stato della Chiesa e fatto di Roma la
sua capitale. Non è esagerato dire che sia stato Beloch ad introdurre
in Italia lo studio moderno della storia greca, fondendo la tradizionale
ricerca ilologica della fonti (la tedesca Quellenkunde) all’uso massiccio degli strumenti offerti dall’economia, dalla statistica e dalla demograia (non si dimentichi che la seconda metà dell’Ottocento è l’epoca
d’oro del positivismo). La tendenza di Beloch era di modernizzare sia
l’economia sia la politica dell’antichità e di postulare «l’unità nazionale come ine “naturale” della storia di una nazione antica» (Momigliano 1955d, 284), secondo la tradizione germanica della Staatsgeschichte, con particolare predilezione per gli Stati forti. Di qui anche
la sua esaltazione di Filippo il Macedone, visto come l’uniicatore della
storia greca e paragonato agli Hohenzollern di Prussia, cosa che tra
l’altro suscitò le vivaci critiche di Croce.5 Da Beloch De Sanctis accolse
fondamentali principi di metodo, come l’analisi delle fonti e il presupposto unitario-nazionale, interpretato tuttavia alla luce della sua
sensibilità di cattolico-liberale, intrisa di spiritualità risorgimentale,
da cui scaturiva la sua critica dell’imperialismo antico e moderno (che
però non si tradusse in anticolonialismo). Di Beloch invece respinse
il materialismo positivistico e il disprezzo dell’individuale, sicché alla
storia sociale ed economica preferì quella politico-istituzionale, riconoscendo il ruolo delle forze morali e intrecciando ricostruzione del
passato e rilessione sul presente. In un certo senso, De Sanctis era
naturalmente predisposto alla lezione crociana sulla contemporaneità
della storia, a cui nel corso del tempo si accostò anche esplicitamente,
Per un compiuto proilo biograico di De Sanctis, cfr. Treves 1991; tra la bibliograia antecedente, si veda almeno Gabba 1971.
5
Croce 1930, vol. II, 247.
4
28
DINO PIOvaN
pur non diventando mai un discepolo di Croce, con cui anzi ebbe talora scontri polemici.6
Sul piano ideologico e politico, De Sanctis proveniva da una famiglia di funzionari dello Stato pontiicio che dopo il 1870 si era riiutata
di servire il nuovo Stato unitario; una svolta fondamentale fu quindi
nella sua gioventù la convinta adesione all’Italia unita ed il sostegno,
anche attivo, alla sua politica coloniale. Tuttavia la mancanza di un
partito cattolico fece sì che solo dopo la Prima guerra mondiale, con la
fondazione del Partito popolare, partecipasse attivamente alla vita politica, fondando a Torino l’Associazione cattolica di cultura, nel 1920,
con la scopo di diffondere il pensiero cattolico nella cultura e candidandosi senza successo alle elezioni per il Partito popolare.7 Netta fu
la contrarietà al fascismo, che si espresse pubblicamente già con l’adesione al Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce nel
1925 e poi, più clamorosamente, con il riiuto del giuramento nel 1931,
nonostante gli giungessero sollecitazioni in senso contrario perino
dal Papa. In quel momento De Sanctis insegnava storia greca all’università di Roma, dove era arrivato da Torino nel 1929 ereditando la
cattedra di Beloch.
Di storia greca De Sanctis si era occupato in gioventù con un volume, Atthìs,8 incentrato sulla nascita dello Stato dalle strutture tribali
arcaiche, un processo a suo parere indissociabile dalla libertà della polis. Su ciò inluivano sia la lezione della storiograia tedesca sia l’esperienza del Risorgimento italiano, come più tardi riconobbe lui stesso.9
Poi per quasi trent’anni si era dedicato alla storia romana, scrivendo
un’opera monumentale che gli aveva procurato fama e riconoscimenti
internazionali: nel 1925 era stato insignito di una laurea honoris causa a Oxford assieme a Winston Churchill. È solo alla ine degli anni
Venti che egli torna alla storia greca: la coincidenza con il mutamento
di regime politico è signiicativa e non casuale. Ma se l’atmosfera si era
fatta poco respirabile nell’ambito degli studi romani, anche gli studi
di storia greca non conoscevano un momento felice. Il suo ex allievo
Aldo Ferrabino aveva portato all’estremo la concezione, già propria di
Beloch, dell’unità nazionale come criterio di valutazione della storia
di un popolo e, constatando l’incapacità del popolo greco di approdare all’indipendenza ed unità della nazione modernamente pensata, ne
6
Sulle differenze tra storicismo crociano e storicismo desanctisiano, cfr. Accame 1957; sui rapporti talvolta dificili con Croce, cfr. Dionisotti 1989, 27-64.
7
Su tutto ciò, si veda Accame 1975, con ampia documentazione; più sinteticamente D’Orsi 2000, 27-29 e 157-159.
8
La prima edizione dell’opera è del 1898, la seconda, riveduta, del 1912.
9
Cfr. De Sactis 1936, 97.
Il fascismo e la storia greca
29
aveva dichiarato il fallimento, non senza echeggiare temi propri dell’ideologia fascista.
Fu questa presa di posizione che stimolò De Sanctis ad esprimere per la prima volta in modo esplicito la sua concezione della storia
greca nella prolusione del corso romano nel 1929: Essenza e caratteri
della storia greca,10 dove per un verso ribadiva fermamente il principio dell’unità nazionale come canone interpretativo della storia greca,
dall’altro però ne escludeva Omero e la storia arcaica, giacché di storia
di un popolo si dovrebbe parlare solo se c’è la coscienza di essere tale
e la volontà di collaborazione: il risultato paradossale è di far iniziare
la storia greca nel 481 a.C., cioè dal giuramento antipersiano di gran
parte delle città greche. Da questa storia andrebbero inoltre esclusi coloro che non parteciparono all’alleanza (i Greci d’Occidente e Creta).
D’altro canto, il vero ostacolo all’unità nazionale era la libertà delle poleis contro cui i vari tentativi egemonici (di Atene, Sparta o Tebe) non
potevano che fallire. Se la battaglia di Cheronea inaugurerebbe una
nuova fase, neppure essa, dopo il breve regno di Alessandro Magno,
avrebbe portato ad una reale uniicazione, sicché è impossibile parlare
di una storia politica dell’Ellenismo e neppure del periodo seguente
alla conquista di Roma.
Per un verso, quindi, De Sanctis riaffermava il principio unitario
caro alla storiograia ottocentesca, reso meno esteriore: esso si può
ravvisare solo a partire da un moto almeno apparente di “coscienza
nazionale”; in ciò si ravvisa anche la ricezione del pensiero di Croce,
che concepiva la storia politica come svolgimento cosciente dei popoli.11 L’esito coerente è che la storia greca diventa una successione di
efimere egemonie, destinate al tramonto subito dopo avere raggiunto
il loro culmine. D’altro canto egli riiutava di considerare, come faceva
Beloch, la monarchia macedone come la vera risolutrice della storia
greca, né accettava la via di Droysen, negando all’Ellenismo il fondamento di storia politica: entrambe le soluzioni avrebbero signiicato
negare il valore della libertà delle poleis in cui, alla ine, ritrovava il valore più profondo di quella storia, sia etico sia politico. Semmai tornava alla lezione di George Grote, lo storico inglese che, a metà dell’Ottocento, aveva scritto una monumentale storia greca ispirata ai principi
del liberalismo radicale; né forse si può trascurare l’inlusso di Croce e
della sua storia della libertà.
De Sanctis 1932, 5-27. Signiicativo che il libro uscisse con Laterza, la casa
editrice di Croce, certo per suo suggerimento.
11
Cfr. Croce 1930, vol. II, 249-251.
10
30
DINO PIOvaN
Questa rimeditazione travagliata trova un’ulteriore espressione
nella seconda prolusione, non pronunciata per via dell’espulsione
dall’università: Essenza e caratteri della storia antica.12 Qui De Sanctis riconosce nella storia antica il presupposto, ideale e reale, della civiltà moderna, specialmente per il fondamentale principio della libertà di pensiero; nel contempo però va considerata molto negativamente
la tendenza all’imperialismo che la percorre ino alla ine, perché le
varie egemonie si affermano negando la libertà e quindi preparando
la propria rovina. Non solo la storia greca, ma tutta la storia antica si
chiude secondo De Sanctis con un insuccesso.
L’approdo di questo appassionato ripensamento è costituito dalla
Storia dei Greci (I ed. 1939), di cui si noti anzitutto il titolo: non “storia greca” ma “storia dei popoli greci”. In apertura l’autore dichiara di
trattare ancora la storia politica greca, salvo subito negarne la possibilità concettuale, per la mancanza di unità di sviluppo: di storia politica si può parlare solo per l’interdipendenza con la storia della civiltà.
Accanto, quindi, al problema dell’unità dei Greci, sempre rinviata e
mai attuata, una notevole importanza viene data alla democrazia ateniese e ai valori etico-culturali: a spiccare sono la libertà politica e la
libertà di ricerca, la Ionia del VI secolo a.C. e l’Atene del V secolo a.C.,
Tucidide e Socrate. Il punto d’arrivo di questo itinerario è una sorta di
separazione tra storia della civiltà e storia politica, pur senza una compiuta teorizzazione: Kulturgeschichte accanto ed oltre la tradizionale
Staatsgeschichte e tale anzi da legittimarla. Se qui sia più forte l’eco
della Storia di Europa di Croce o il ritorno a motivi del classicismo
tedesco tra XVIII e XIX secolo è dibattuto.13
Qualcosa di analogo a questa separazione storiograica tra politica
e cultura caratterizzava intanto anche l’uomo De Sanctis. Nel suo antifascismo De Sanctis non ebbe esitazioni né ripensamenti, nonostante
le conseguenze pesanti del riiuto del giuramento, che gli costò non
solo la cattedra, ma perino l’interdizione dalle biblioteche pubbliche,
come egli stesso ricordò nella sue memorie.14 Tuttavia egli continuò
senza apparente turbamento a dirigere la sezione di Antichità classiche per l’Enciclopedia Italiana, l’opera diretta da Giovanni Gentile,
che di quel giuramento era stato il vero ispiratore. Il ilosofo, certo,
aveva voluto De Sanctis ed altri studiosi antifascisti come collaboratori all’impresa, secondo l’ambizioso principio che essa doveva espri-
De Sanctis 1932, 29-61.
L’inluenza di Croce è affermata da Momigliano 1961, 117, ma negata da Sasso 1985, 229.
14
Cfr. De Sanctis 1970, 143-157.
12
13
Il fascismo e la storia greca
31
mere non un programma di partito, ma la cultura italiana nella sua
interezza e nelle sue voci migliori; ma non c’è dubbio ch’egli mirasse
a «guidare gli intellettuali italiani verso una osmosi con il fascismo»,
anche se forse è un po’ esagerato affermare che l’Enciclopedia sia stata
«il principale strumento attraverso cui il regime operò una politica
culturale» (D’Orsi 2001, 41-42).
Questa contraddizione di De Sanctis può essere compresa solo alla
luce di quel senso di missione al servizio della nazione italiana a cui si
sentiva chiamato come studioso e come cattolico. In questa separazione tra politica e cultura si rivela una profonda e forse non del tutto
consapevole connessione tra storiograia e vita, davvero emblematica per uno storico che concepiva la prima come tensione tra passato
e presente ed in questa bipolarità cercava la contemporaneità della
storia.15
3. Il fallimento della storia greca: Ferrabino
Aldo Ferrabino era stato uno dei più promettenti allievi di De Sanctis e di Beloch; aveva compiuto gli studi tra Torino e Roma, tra il
1910 e il 1916, acquisendo una solida preparazione ilologico-erudita,
ma non rimanendo insensibile al fascino della ilosoia idealistica di
Croce e Gentile e avvertendo anzi in maniera sempre più urgente l’esigenza di una ilosoia della storia che illuminasse e riempisse di senso
quella erudizione e sopperisse con le proprie certezze alle incertezze
delle congetture storico-ilologiche. I suoi studi di storia greca sono
accompagnati da una intensa saggistica di teoria storiograica negli
anni Venti, in cui è chiaro l’allontanamento da Croce e l’avvicinamento
a Gentile;16 se da un lato abbraccia l’identiicazione di ilosoia e storia, dall’altro propone un radicale dualismo tra vero e falso, concreto e
astratto, bene e male, contrapponendo la storia civile, incentrata sulla
forza organizzata in eserciti, alla storia eterna, unione dell’anima con
Dio: in altre parole, pessimismo storico versus metastoria morale-religiosa. Nella storia comunemente intesa, ed anzitutto nella storia greca, Ferrabino non trovava più alcun senso, come traspare già nell’Impero atheniese (1927), in cui sia l’impero ateniese sia i politici di Atene
sono condannati come incapaci di realizzare l’unità del popolo greco.
Nei confronti della democrazia ateniese egli manifesta solo sarcasmo
Cfr. De Sanctis 1939, vol. I, 9-10.
Questi saggi sono raccolti in Ferrabino 1962, opera esplicitamente dedicata
alla memoria di Giovanni Gentile. Per un’analisi più dettagliata, cfr. Piovan 1996.
15
16
32
DINO PIOvaN
e disprezzo: il popolo di Atene gli appare una massa «inquieta e mutevole», «ben lungi dal capire e valutare la consistenza effettuale di ciò
che applaudiva» nelle assemblee, tale che «dimenticava presto, mutava spesso, sacriicava agli idoli nuovi gli idoli vecchi» (Ferrabino 1927,
45; 57; 410). Questa critica alla democrazia antica è in consonanza
con il biasimo verso la democrazia moderna proprio del fascismo; in
particolare, nel momento in cui la forza viene assunta a legge suprema dello Stato, dificile non percepire un inlusso diretto del pensiero
politico di Gentile, sostenitore di uno Stato etico senza distinzione tra
Stato, famiglia e società civile. Gentile, vale la pena ricordarlo, presentava il proprio pensiero come «liberalismo assoluto», ma in realtà
offriva una identiicazione tra autorità e legge che non distingueva tra
consenso libero, manipolato o estorto; non stupisce che sia parsa una
teoria dello Stato totalitario.17
Il saggio in cui la concezione di Ferrabino si dispiega appieno è La
dissoluzione della libertà nella Grecia antica (1929), in cui la storia
greca viene interpretata come dominata dal conlitto tra libertà delle poleis e aspirazione all’egemonia, ossia tra libertà e potenza, che
esplode nel V secolo a.C. con i tentativi da parte di Atene e poi di altre
città di realizzare un’unione, tutti falliti; ma se l’unità era impossibile, deve essere ritenuto giusto allora l’asservimento a Roma. Rispetto
alle due grandi tendenze della storiograia ottocentesca sulla Grecia
antica, riassunte nei nomi di Grote e Beloch, Ferrabino respinge l’idea
di dramma della libertà propria del primo, mentre del secondo contesta la tesi di Filippo il Macedone come uniicatore. L’incapacità dei
Greci di scegliere tra libertà e potenza comporta per lui il giudizio di
fallimento della storia greca, mentre il giusto equilibrio sarebbe stato raggiunto dai Romani, gli unici nel mondo antico a realizzare una
perfetta sintesi di individualità ed universalità, anarchia e panarchia,
democrazia e teocrazia, tale da fondare la nazione italiana.
Che qui si sentano gli echi dell’ideologia fascista è innegabile, anche se si è cercato talvolta di minimizzarla o negarla.18 Ma il valore
anche politico della posizione di Ferrabino emerge chiaro là dove l’idea liberal-crociana è equiparata a quella greca, deinita «arbitraria e
inorganica libertà delle iniziative individuali e delle brame» (Ferrabino 1931, 391), per non dire dell’esaltazione della romanità, svolta sempre più con temi, toni e lessico fascisti: mentre la Grecia è associata
a democrazia ed anarchia, e l’Oriente a servitù e teocrazia, Roma è il
Cfr. Bobbio 1990, 155-160.
Minimizza Accame 1980, 339, ma cfr. Cagnetta 1990, 115-117; fraintende
Mazzarino 1980, 350 sgg. Su Ferrabino e il fascismo, cfr. Canfora 1980, 78-79.
17
18
Il fascismo e la storia greca
33
vero punto di equilibrio, la fusione di autorità e popolo, creatrice del
concetto di nazione, «ente conciliatore tra le parti avverse dei pochi
e dei molti» (Ferrabino 1937, 137). Non si dimentichi che il fascismo,
oltre a presentarsi come l’erede legittimo di Roma, pretendeva al contempo di rappresentare il superamento dell’antitesi tra capitalismo e
bolscevismo attraverso la nazione e il corporativismo interclassista.
4. La libertà greca secondo lo storicismo: Momigliano
Arnaldo Momigliano, nato da una famiglia ebraica piemontese, si
laurea a Torino con De Sanctis nel giugno 1929, a soli 21 anni, con una
tesi sull’opera di Tucidide, frutto sia della lezione desanctisiana sulla
critica delle fonti sia, almeno in parte, dello stimolo costituito dall’Impero atheniese di Ferrabino, sia inine, in certa misura, del diverso
modo di intendere la storia della storiograia di Croce.19 Da Ferrabino
Momigliano riprende la considerazione del carattere egoistico dell’imperialismo ateniese, ma non la tesi di un’ideologia dell’unità nazionale
che si opporrebbe alla polis. La rilessione del giovane studioso prosegue in quegli anni molto intensamente come attesta la recensione, nel
1931, ad una breve memoria di Croce su Constant e Jellinek intorno
alla differenza tra la libertà degli antichi e quella dei moderni,20 in
cui è nella celebre conferenza parigina di Constant del 1819 che viene individuato il punto di partenza per una discussione sulla storia
della libertà a partire dal mondo antico. L’importanza di questa breve
recensione non è da sottovalutare, in quanto essa appare, retrospettivamente, come la premessa teorica e lo schizzo progettuale dei temi
e problemi che rimarranno centrali in tutta la lunghissima attività di
Momigliano. Il giovane studioso si dice d’accordo con Constant e con
Croce nel deinire la libertà greca come il diritto di partecipare al governo, mentre solo più tardi, con l’Ellenismo e la rottura del legame
tra libertà e speciica forma di governo, si affermerebbe una nozione
di libertà più interiorizzata, destinata a contrapporsi allo Stato, prima
con il giudaismo, poi con il cristianesimo, che sottomette lo Stato alla
coscienza religiosa: «lo Stato, già condizione della libertà e poi limite
della libertà, ora diventava realizzazione della libertà stessa» (Momigliano 1975b, 907), anticipando la libertà moderna.
Per un verso viene qui accolta la nozione della differenza tra la
libertà antica e quella moderna, per l’altro elaborato uno schema di
19
20
Sulla tesi di laurea di Momigliano, cfr. Piovan 1997.
Cfr. Croce 1931, 294-301 e Momigliano 1975b.
34
DINO PIOvaN
sviluppo e di progressivo arricchimento del concetto di libertà nel
mondo antico, in cui ogni fase ha un suo valore e civiltà greca, ellenistica, giudaica e romana conluiscono e si riannodano, attraverso
il cristianesimo, alla storia e alla coscienza moderne. Questa concezione teorica, che molto deve allo storicismo idealistico, sta alla base
dei saggi successivi, anzitutto di quello su Demostene,21 pervaso del
valore della libertà greca e non disprezzato come in Ferrabino, ma
comunque incapace di superare la logica particolaristica della polis.
Un’alternativa idealogica nel IV secolo a.C. viene ravvisata nell’ideale di pace comune22 e in quegli intellettuali, da Isocrate a Teopompo,
che magari inconsapevolmente contribuirono a preparare la strada a
Filippo e a facilitarne il successo, cooperando a superare la Grecità
nell’Ellenismo.23 Filippo quindi non è visto come un bruto dominatore che distrusse la civiltà greca e neppure come il fondatore di uno
Stato nazionale greco, alla Beloch, bensì come a sua volta portatore di
valori quali la pace, la concordia, la ine dell’oppressione reciproca; di
più: «Filippo è all’origine (per l’Occidente) di una mentalità che porterà alla dissoluzione la insuficiente troppo egoistica libertà dei Greci,
come poi quella dei Romani dell’età repubblicana e non si dissolverà
a sua volta se non quando il Cristianesimo porrà le condizioni per lo
sviluppo di una libertà […] altruistica ed umana» (Momigliano 1934,
179). Nel contempo Momigliano, ripercorrendo gli studi moderni sulla
Grecia antica, proponeva il ritorno al primo Droysen, lo scopritore del
concetto di Ellenismo come unità culturale e religiosa, integrato dalla
coscienza della fondamentale funzione dell’Impero romano come tramite tra Ellenismo e cristianesimo, secondo la lezione della Weltgeschichte di Hegel.24
Questa visione della storia greca era il frutto dell’incontro tra il metodo ilologico-storico della scuola desanctisiana e la concezione storicistico-crociana di uno sviluppo razionale, in cui ciò che precede viene
superato da ciò che segue e non c’è spazio per momenti che siano solo
negativi.25 A tratti si direbbe che Momigliano accogliesse anche l’unità
di ilologia e ilosoia proposta da Croce: il valore universale, ilosoico,
è la libertà, studiata, ilologicamente, nelle sue articolazioni concrete, anche se a volte trapela un certo disagio al riguardo, come nella
premessa al Filippo, dove afferma che bisogna accertare i fatti prima
Momigliano 1975c.
Momigliano 1966b.
23
Momigliano 1934, 183-199.
24
Cfr. Momigliano 1955b e Momigliano 1955c.
25
Illuminante l’espressione «razionalità del ritmo di quella storia» in Momigliano 1934, 179.
21
22
Il fascismo e la storia greca
35
di interpretarli, per quanto poco ilosoica sia la distinzione.26 Né va
forse sottovalutata un’altra componente della formazione spirituale di
Momigliano, quella ebraica, l’eredità di una plurisecolare tradizione
di cultura non ancorata ad una nazione, ma cosmopolitica e universalistica.27 Certo, in quegli anni Momigliano cercava di accordare questa
matrice ebraica con l’appartenenza alla nazione italiana; di qui, tra
l’altro, l’analogia tra l’integrazione delle identità regionali nel Risorgimento e il conluire dell’identità ebraica nella nuova Italia ed anche il
netto riiuto del progetto sionista di tornare in Palestina.28 Se si tiene
conto che proprio in quell’anno il nazionalsocialismo prendeva il potere in Germania, ben si comprende che l’indagine storica momiglianea
non era estranea a preoccupazioni intellettuali e morali che sorgevano
dal presente: non è quindi azzardato parlare di storia contemporanea
nel senso crociano.
Quanto al rapporto tra Momigliano e il fascismo, esso è stato più
volte oggetto di dibattito vivace e perino polemico dopo la sua morte,
specie in seguito alla pubblicazione di documenti inediti: dapprima la
prolusione che Momigliano pronunciò nel 1936 a Torino, uscita postuma a cura dell’amico Dionisotti con l’avvertenza a collocarla nel suo
speciico contesto;29 qualche anno dopo emerse tra le carte giovanili
anche una tessera datata 1928 del GUM (Gruppo universitario musicale), al tempo afiliato al GUF (Gruppo universitario fascista),30 che
diede lo spunto ad un’accesa discussione sulle pagine del «Times Literary Supplement» sulle possibili simpatie del giovane storico verso
il regime fascista.31 Qualche anno dopo fu scoperta la lettera scritta
al ministro Bottai nel 1938, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali che avevano espulso gli ebrei dalle università, in cui Momigliano
elenca i “meriti” fascisti sia propri sia familiari, allo scopo di ottenere
un trattamento meno pesante; aspra la polemica che ne seguì sulla
stampa italiana.32
Momigliano 1934, VII.
Cfr. Pesante 2002.
28
Cfr. ad es. Dionisotti 1989, 19-20 e la lettera antisionista del 1937 citata in
Polverini 2006, 18.
29
Dionisotti 1989, 97-103 (109-130 per il testo dell’inedito); cfr. Canfora 1990;
Franco 2008, 438-439.
30
Di Donato 1995, 219.
31
Harris 1996a e Harris 1996b, Murray 1996, Cornell 1996, Dionisotti 1996 e
Dionisotti 1997, Ridley 1996.
32
Per la lettera di Momigliano, cfr. Fabre 2001; per la polemica, gli interventi
di Canfora in Fiori 2001, di Di Donato 2001, di Stille 2001. Condivisibile Franco
2008, 434.
26
27
36
DINO PIOvaN
Non è possibile qui esaminare in dettaglio né i singoli documenti
né le diverse valutazioni su di loro. In sintesi, direi che la tessera del
1928 non è di per sé cosa signiicativa, poiché non si trattava di un
gruppo politico; più signiicativa è la tessera del Partito fascista presa
negli anni successivi, anche perché non era obbligatoria per chi volesse insegnare all’università, a differenza del giuramento; era però
un fatto abbastanza normale per chi voleva fare carriera negli organi
statali e non implica quindi necessariamente adesione ideologica al
regime. La lettera del 1938, poi, va inquadrata nel suo contesto: quello
di chi si trova improvvisamente senza lavoro, cacciato da una carriera così brillantemente intrapresa senza avere né un’alternativa professionale né un patrimonio personale suficiente a sostenere sé e la
propria famiglia. La lettera era un atto indubbiamente umiliante per
chi la scriveva, ma è simile a molte altre scritte nelle stesse circostanze
da ebrei che con il regime avevano paciicamente convissuto per molti anni o l’avevano attivamente sostenuto; testimonia, insomma, di
un momento drammatico della vita dell’uomo Momigliano senza per
questo macchiare lo studioso. Non sembra tuttavia nemmeno possibile dire, come ha fatto Dionisotti, che Momigliano fosse antifascista;
sembra più esatto dire che cercò di convivere con il regime da cui dipendeva la sua posizione professionale, ben consapevole dei rischi che
si potevano correre in caso di dissenso, come lui stesso ricordò anni
dopo.33 La collaborazione all’Enciclopedia Italiana, per cui scrisse in
sette anni circa 200 voci, è signiicativa di un’ambiguità che fu comune a moltissimi altri; come si è già chiarito, Gentile voleva fare di essa
uno strumento di costruzione del consenso tra gli intellettuali nonché
di promozione culturale per il regime anche fuori d’Italia, al punto da
saper coinvolgere anche notori antifascisti come De Sanctis o, restando all’antichistica, Plinio Fraccaro e Samuele Levi della Vida, a cui lasciò dei margini di autonomia, pur riservando a collaboratori idati
le voci più politicamente importanti o culturalmente delicate.34 Forse
anche del giovane Momigliano si potrebbe ripetere quel che disse di sé
Norberto Bobbio quando esaminava in maniera autocritica la propria
compromissione giovanile: «la grande massa dei giovani apparteneva
a quella zona grigia […] che era un po’ fascista e un po’ no, fascista in
certe circostanze e non fascista in certe altre, che sapeva anche eser-
Momigliano 1966c, 304: «la realtà ovvia era che, per lo stesso fatto di entrare
nell’Università, nelle scuole storiche e nell’enciclopedia, ci s’inseriva in organismi
fascisti, dove l’imbarazzo era costante e la cautela diventava abito».
34
Su Gentile e l’Enciclopedia Italiana, cfr. Turi 2002; sulla sezione di antichità
classiche, si veda Cagnetta 1990.
33
Il fascismo e la storia greca
37
citare lo spirito critico di volta in volta, giudicando buone o cattive le
decisioni del duce e dei gerarchi» (Bobbio 2004).
5. Demostene apostolo della libertà: Treves
Nelle varie rievocazioni di questo dibattito sulla libertà dei Greci la
posizione di Piero Treves è stata spesso poco valorizzata quando non
completamente ignorata.35 In realtà, per quanto fosse il più giovane
tra tutti, il suo contributo non manca né di originalità né di vigore.
Non si può qui che accennare all’ambiente familiare da cui proveniva il giovane Treves:36 iglio di Claudio, già deputato socialista a
ine Ottocento e nemico personale di Mussolini, apparteneva ad un
ambiente di borghesia laica e riformista, amante della poesia e della
letteratura, ancorata nella cultura tanto italiana quanto europea. Determinante per il percorso di Piero fu poi l’incontro con Gaetano De
Sanctis, seguendo il quale si trasferì da Torino a Roma dove si laureò,
nel novembre 1931, a soli vent’anni. Il lavoro fu pubblicato in volume
all’inizio del 1933 dall’editore Laterza grazie alla mediazione di Croce,
con il titolo Demostene e la libertà greca; non si tratta di una vera
biograia di Demostene, ma della ricostruzione di un periodo di storia
greca, dalla battaglia di Cheronea (338 a.C.) alla morte dell’oratore
(321 a.C.); la prospettiva non è quella tradizionale della puntuale disamina di eventi né dell’analisi minuta delle fonti, ma semmai di una
storia etico-politica secondo il modello crociano, in cui a contare sono
le forze morali e spirituali, le differenti idealità politiche e culturali,
più che le strategie militari o l’organizzazione; la svalutazione della
igura di Demostene e l’esaltazione di Filippo come arteice dell’unità
nazionale greca vengono entrambe respinte. Se da un lato si riconoscono i limiti della concezione demostenica che faceva coincidere la
libertà di Atene con l’egemonia sulla Grecia, dall’altro l’oratore viene celebrato per l’altissimo senso morale e spirituale della lotta per
la libertà e paragonato più volte a Mazzini, entrambi «apostoli della
libertà» (Treves 1933, 67; 131).
Il libro fu severamente recensito sia da parte di studiosi allineati
al fascismo37 sia da Momigliano, che lo rimproverò, tra l’altro, di ac35
Neppure lo nomina ad es. Tessitore 1984, un saggio peraltro utile per l’inquadramento ilosoico di questo dibattito. Sulla sfortuna del libro di Treves, cfr.
Casali 1980, 146.
36
Essenziale per la ricostruzione del suo percorso biograico e culturale Pertici
1994 e Franco 2011.
37
Signiicative citazioni in Franco 2011, XVI-XVII.
38
DINO PIOvaN
costare in modo antistorico libertà antica e libertà moderna siorando il «vaniloquio» (Momigliano 1975d, 939): un giudizio a dir poco
ingeneroso. In realtà Treves sapeva distinguere tra concetti antichi e
moderni ben più di quanto ammetta Momigliano e netto è in lui, per
esempio, il riconoscimento del concetto droyseniano di Ellenismo; ciò
che però Treves fermamente riiuta è la visione teleologica abbracciata
da Momigliano, l’idea che il «ritmo razionale della storia» debba indurre a svalutare la causa dei vinti, i quali invece contribuiscono a fare
la storia sia condizionando il vincitore sia continuando ad inluenzare
le generazioni successive con il loro esempio. «Nessuna victa causa
[…] fu nella storia così viva e incitatrice e operante quanto la victa causa di Demostene», capace di donare ai posteri «una parola, non peritura, di libertà» (Treves 1933, 192-193). Quello di Treves era un libro
mosso da autentico fervore ideale e sorretto da una solida conoscenza
delle fonti antiche, di cui non si può sminuire il coraggio, specie se lo
si paragona alla produzione del tempo. E tale valore fu colto davvero:
è signiicativo che esso iguri nella lista di libri che circolavano tra i
giovani antifascisti ricordata da Aldo Capitini.38
38
Cfr. Capitini 1966, 100.