Perché studiare l’attesa? Perché l’attesa la fa da padrona nella maggior parte del tempo, nei momenti più ordinari e meno ordinari dell’esistenza, attraverso le forme aspettualizzate del vissuto (il compiuto e l’incompiuto, il perfettivo...
morePerché studiare l’attesa? Perché l’attesa la fa da padrona nella maggior parte del tempo, nei momenti più ordinari e meno ordinari dell’esistenza, attraverso le forme aspettualizzate del vissuto (il compiuto e l’incompiuto, il perfettivo e l’imperfettivo, etc.): di fatto, aspettiamo al panificio e dal dottore, al supermercato e dal meccanico, al pronto soccorso e in parrocchia, davanti un ascensore e dietro un semaforo, al cospetto di un tizio e alle spalle di un altro, al botteghino di un teatro e aspettano pure, molte volte, i migranti dopo lo sbarco, infreddoliti, scampati alla traversata in mare aperto. Aspettiamo noi, aspettano gli altri. La domanda che rivolgo a me stesso e al lettore, allora, è la seguente: che vuol dire, oggigiorno, in un’epoca pensata da molti studiosi come estremamente mobile, indugiare nell’attesa e nell’ascolto? Prendendo piede da questa osservazione, a partire da un vissuto in parte autoetnografico, prendo in conto congiuntamente la nozione di attesa e di aspettualizzazione al fine di mostrarne una valenza talvolta inaspettatamente positiva, comunque fondativa dal punto di vista antropologico. Parlo dunque concretamente dell’attesa e dell’aspettualizzazione della temporalità mettendole in scena nell’intreccio prodotto con l’intersecarsi di alcuni miei spaccati di vita (al bar, dopo un convegno; nella sala d’attesa di un medico) e ricorrendo al contempo ad alcuni usi dell’attesa praticati da parte di due antropologi: Malinowski e Clifford. Se per Malinowski la ricerca sul campo si svolge all’insegna del perfettivo, del concluso e puntuale che annulla il valore positivo dell’attesa, per Clifford al contrario la ricerca è dell’ordine dell’imperfettivo e del non concluso, durativo e iterativo; se per Malinowski la ricerca è aspettualizzata dall’ordine della programmazione che annulla il valore del caso e dall’ostentazione dell’azione che offuscherebbe il valore dell’attesa, per Clifford la ricerca è aspettualizzata dal caso e dai processi polifonici in atto. Su questa base comparativa, il mio saggio è volutamente costruito in modo da tenere il lettore – man mano che vengono esposti alcuni principi di base dell’attesa e dell’aspettualizzazione – sul filo della narrazione e dell’attendere. Alcune strategie retoriche da me utilizzate allo scopo sono la digressione e l’intercalare dell’enunciazione, l’indugiare e l’esitazione, il ‘pensiero che si pensa’ (Lotman) e il ‘pensiero al di fuori di sé’ (Foucault): in questo modo, l’attesa è introdotta praticamente nel meccanismo stesso di produzione e ricezione del saggio che il lettore legge. Per quanto riguarda l’attesa stessa intesa dal punto di vista esistenziale, propongo di assaporarne il valore di ‘azione in sé che tende a risolversi in un suo compimento che indugia invece nel suo stesso darsi’. A questo fine, vengono da me discussi alcuni studiosi dell’attesa che ne prospettano definizioni ‘politiche’ e ‘retoriche’: Greimas (l’attesa come fondamento della sintassi emotiva), Barthes (l’attesa come scenografia del luogo in cui si attende l’amato), Bourdieu (l’attesa come forma di imposizione del proprio potere sull’altro), Van Gennep (l’attesa come componente fondamentale dell’agire nella sua forma ritualizzata), Crapanzano (l’attesa come forma di anticipazione cristallizzata dalla speranza). Infine, proponendo il neologismo concettuale di ‘aspettatività’, indico alcune vie da perseguire al fine di meglio cogliere la dimensione temporale e agentiva implicita nell’agire e non-agire umano. L’essere umano, per gradi diversi, è infatti dotato di aspettatività: cioè di una qualche competenza ad aspettare che ingloba il sapere sull’azione. Di conseguenza, nella mia ipotesi, l’attesa va pensata in potenza e in atto: come un preliminare pratico del grado di agentività individuale e sociale. Questo affondo teorico mi serve, inoltre, a mettere a fronte una nozione di vita intesa linearmente e una nozione di vita più magmatica – quella che io prediligo – in cui si mostra tutto il valore della torsione zigzagante del tempo e del caso. Ma non è tutto. Oltre che per riflettere sul valore dell’attesa in antropologia e nell’esistenza, ho scritto questo saggio con un altro intento meno evidente: fare riferimento a quelle citazioni d’altri autori che, in passato, nei miei scritti, avevo già utilizzato per meglio spiegare il mio pensiero. Questo mio espediente mi apparenta al modo di concepire la scrittura da parte dei membri dell’Oulipo i quali si imponevano di redigere i loro testi a partire da una o più costrizioni testuali e letterarie. Nel mio caso, la costrizione a cui ho fatto capo è la citazione d’altri autori già da me stesso utilizzati in altri miei scritti. A che può valere in antropologia, ci si può chiedere, questo espediente apparentemente letterario? Direi che le costrizioni testuali sono sovente anche costrizioni d’ordine cognitivo. Redigere un testo a partire da ‘invarianti legate’ obbliga, infatti, a pensare/pensarsi per decentramenti. Dal mio punto di vista, questo principio è essenziale: la forza dell’antropologia risiede proprio nella capacità di continuo decentramento teorico ed esistenziale. E, concettualmente e operativamente, recuperare il valore dell’attesa negli studi antropologici significa rivedere innovativamente, nel bene e nel male, il modo in cui la dimensione cognitiva si intreccia con quella agentiva ed emotiva nel mondo odierno.