Il Regno dei Nebrodi
Di Danilo Mommo
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Anteprima del libro
Il Regno dei Nebrodi - Danilo Mommo
zio
LA NOTTE IN CUI ARRIVARONO LE NAVI
La notte in cui arrivarono le navi, io, Francesco e Silvia stavamo viaggiando lungo un tratto della strada extraurbana che segue i lineamenti tortuosi della costa siciliana, scavata sui bordi di una roccia a strapiombo sul mare che, di tanto in tanto, aveva il vizio di franare e depositare parte di sé sulla sua cicatrice asfaltata, forse per fare un dispetto agli uomini che di continuo le transitavano addosso, o forse perché è così che fanno tutte le rocce: prima o poi franano.
Erano le tre del mattino e alla radio risuonava una canzone italiana, l’hit di quella estate, il cui testo parlava di feste, di ragazzi, di ragazze, di mare e d’amore. Come ogni hit, l’avevamo imparata passivamente a memoria, ma a settembre non l’avremmo più sentita se non un paio di volte, a ottobre sarebbe scomparsa dalle rotazioni radiofoniche, a novembre il nome della cantante avrebbe iniziato a sfuggirci di mente e a dicembre ce ne saremmo già dimenticati. Forse perché è così che fanno tutte le hit estive: prima o poi svaniscono.
Francesco era mio amico da quasi dieci anni, eravamo compagni di classe alle superiori. Era più robusto di me, aveva i capelli castani a differenza dei miei, più scuri, era un po’ stempiato, aveva un naso a patata ed era di poco più basso di me, ma tutti e due rientravamo nell’altezza media dei maschi del territorio. Silvia era un’amica di entrambi e ci piaceva fin da quando l’avevamo incontrata la prima volta al corso di tennis, a cui tutti e tre continuavamo ad andare insieme. Bassa, ma nella media delle ragazze del nostro territorio, capelli dai riflessi rossastri, pelle chiara e liscia, teneri e grandi occhi verdi, nasino alla francese, fisico curvilineo. Da parte sua, ci trovava simpatici e le piaceva stare con noi.
La luna, intanto, brillava nel cielo, surclassando con narcisismo tutte le stelle attorno a lei e illuminando tutto ciò che poteva, come il mare, la roccaforte saracena, da cui un tempo si avvistavano le navi che si avvicinavano alla costa, e la strada su cui transitava la mia macchina, una piccola utilitaria verniciata di rosso.
Mentre guidavo, parlavamo di cosa fare nei successivi giorni di agosto inoltrato. Io avevo proposto di andare alle isole Eolie, un arcipelago al largo della nostra costa di cui qualche isola si poteva facilmente scorgere all’orizzonte, e Silvia, che era seduta accanto a me, si girò per guardarle. Fu in quel preciso istante che, per la prima volta, la mia amica avvistò le navi.
– Davide – che sono io – Fra, guardate, guardate il mare!
All’orizzonte, in mezzo e a fianco delle isole, erano comparsi i profili scuri di tre navi, che puntavano verso di noi. Mi voltai e, spalancando la bocca dallo stupore, girai anche lo sterzo. La macchina quasi sbandò. Frenai e spensi la radio. Rimase solo il rumore del motore acceso, mentre fissavamo, attoniti, la flotta che ai nostri occhi si faceva sempre più visibile, sempre più grande, sempre più misteriosa e minacciosa. Non avevamo mai visto nulla di simile. Spensi anche il motore e cadde il silenzio.
***
La notte in cui arrivarono le navi, Magda, la farmacista del corpo militare, passeggiava lungo un corridoio del dormitorio maschile, nella caserma del Distretto Saraceno, con il suo inseparabile camice bianco che risaltava sulla pelle olivastra, i lunghi capelli scuri raccolti sulla testa e gli zoccoli sanitari in gomma bianca ai piedi. Si guardava intorno e si compiaceva del silenzio che regnava sovrano. Ogni tanto passavano delle infermiere, giovani e belle, e si salutavano, scambiandosi sguardi di complicità.
Nel laboratorio gestito da Magda, Marco, il suo assistente, depositava i sacchi presi dal magazzino e li catalogava.Era un ragazzotto basso e muscoloso, che aveva frequentato la scuola per chimici e aveva una forte passione per le sostanze psicotrope. In una giornata tipo, passava le mattinate a studiare i procedimenti per riprodurre quelle sintetiche, dopo pranzo si appisolava, nel pomeriggio indagava sull’esistenza di nuovi stupefacenti naturali e curava la piccola piantagione di quelli che aveva in serra, al calar della sera si recava alla caserma militare, cenava con le infermiere, che erano in tutto una ventina, e, quando fuori diventava buio, scendeva nello scantinato, indossava un camice bianco e assisteva Magda nella sintesi di polverine bianche, grigiastre, rossicce o giallognole, amorfe o cristalline.
***
La notte in cui arrivarono le navi, re Giovanni Saraceno, signore supremo del Regno dei Nebrodi, in Sicilia, e dei suoi tre distretti, Milazzese, Saraceno ed Eoliano, era seduto sul suo divano in ecopelle nera, nel castello della capitale. Mentre si passava e ripassava alla bocca una sigaretta al gusto di cannella, le sue gambe pesanti erano appoggiate su un tavolino di cristallo, su cui giacevano anche una bottiglia di limoncello, un bicchierino di vetro e un posacenere. Sulla parete oltre il tavolino, tra il finto camino che agiva da condizionatore e una libreria in bambù, c’era uno schermo largo 72 pollici, su cui era proiettato il faccione di Carmelo Franchina. Un suo caro amico, nonché comandante del Distretto Eoliano.
– Cosa vuol dire che hai visto delle navi?
– Che stanno arrivando delle navi! Vengono da nord. All’inizio non riuscivo a capire cosa fossero, o non volevo capire, ma adesso che si stanno avvicinando le vedo benissimo. Sono navi, è una flotta di navi, perdio!
– Stai calmo, Carmelo. Che navi sono?
– Navi militari, ne sono sicuro!
– Ma di chi? Hanno uno stemma? Mandami una foto.
– Rodrigo, Giovanni, è Rodrigo! Guarda la foto!
Re Giovanni trasalì, tirò una boccata di fumo che ridusse in cenere un paio di dita della sigaretta e, aguzzando i suoi grandi occhi blu, fissò le navi sullo schermo. Sulla prua, recavano fiere una bandiera gialla con al centro un geco verde.
– Non fate assolutamente nulla, mantenete la calma. Tentare di opporsi è inutile, siete troppo pochi. Rodrigo non vi attaccherà, perderebbe solo tempo.
– Giovanni, gli eoliani sono scesi tutti in spiaggia, le navi ormai sono…
Il comandante Carmelo non fece in tempo a finire la frase che i pixel che riproducevano il suo faccione diventarono grigiastri e, al posto della sua voce, imperversò un ronzio beffardo. Re Giovanni, in un impeto di rabbia, afferrò dunque il bicchiere dal tavolino e lo lanciò contro la parete, colpendo la libreria. Alcuni libri caddero a terra e le loro pagine si aprirono, tra polvere e frantumi di vetro. Uno di questi era il De Bello Gallico, di Giulio Cesare. Vedendolo, re Giovanni si ricordò delle minuziose descrizioni di battaglie e tattiche militari lette quando era giovane, quando ancora era solo un erede al trono. Narrazioni che lo avevano appassionato, ma che credeva appartenessero a un mondo parallelo, quasi fantasioso. Non si aspettava di certo che, all’alba dei cinquant’anni, sarebbe dovuto scendere in un campo di battaglia. Suo nonno, quando aveva comprato il Regno dei Nebrodi, aveva creato un esercito per sicurezza, ma non aveva mai avuto bisogno di combattere, perché c’era il patto di non belligeranza. Né, tantomeno, ebbero mai motivo di sperimentare una guerra suo padre, o qualsiasi altro re della penisola italiana nell’ultimo secolo. Re Giovanni prese in mano la bottiglia di limoncello e la finì in un unico, lungo sorso. Aggrottò la fronte, che sudava copiosamente.
***
La notte in cui arrivarono le navi, il telefono di Vincenzo Valenti, comandante del Distretto Saraceno, strombazzava la sua melodia ripetitiva. Il suono che arrivava fino alle sue orecchie veniva prontamente trasmesso dalle fibre nervose fino al cervello, ma quest’ultimo, rintanato nel mondo dei sogni, sembrava non curarsene.
Vincenzo stava distribuendo le orme dei suoi piedi scalzi su una distesa infinita di sabbia perlacea, finissima, mentre alla sua sinistra un mare sconfinato si perdeva all’orizzonte e si confondeva con l’azzurro del cielo, dove un’enorme luna olivastra gli sussurrava parole dolci, d’amore, con un accento esotico. La luna gli sorrideva e i suoi denti erano bianchissimi, mentre la pelle del viso si contraeva in lievissime rughe d’espressione. Vincenzo camminava verso di lei, con le ginocchia molli e il cuore leggero, bramandola. Dopodiché, come per magia, comparve una moto d’acqua. Senza pensarci troppo, quindi, ci salì sopra e avanzò a tutto gas verso l’orizzonte, creando un solco in mezzo al mare. La sabbia perlacea del fondale, allora, si innalzò fino alla luna e la cinse, donandole un paio di orecchini, una collana e, infine, un camice latteo. Con rinnovata bellezza, dunque, essa lo chiamò a sé in modo più ammaliante e più insistente, sbattendo le sue lunghe ciglia lunari ed esercitando tutta la sua attrazione gravitazionale.
– Vieni, Vincenzo, vieni da me! Sono sola, raggiungimi, ti aspetto!
– Arrivo Magda, arrivo!
Vincenzo, che intanto aveva trasformato la sua moto d’acqua in moto spaziale, indossò quindi un casco sulla testa e si strinse due bombole di ossigeno sulla schiena. Magda, la luna olivastra con il camice bianco, lo attendeva oltre l’atmosfera.
In pochissimo tempo, la spiaggia era diventata un puntino, che si rimpiccioliva sempre di più man mano che lui si allontanava. Salendo, Vincenzo passò anche attraverso le nuvole e di alcune ne raccolse un po’, infilandosene dei pezzetti nelle tasche, come un bambino giocoso. Decise dunque di farne delle palle e le lanciò in aria, ma rimasero sospese,