Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
Sovranità e leggi fondamentali: alla ricerca di una dimensione costituzionale nell’Europa moderna (secc. XV-XVIII)* elio tavilla La complessità del tema che propongo in questo breve saggio rischia di assumere i termini di un esercizio di ambizione. Proverò comunque ad affrontare la sfida, imponendomi una linea espositiva che eviti di farsi risucchiare dai potenti vortici della filosofia e della storia politica, non perché da esse non si debba attingere preziosi e irrinunciabili elementi di riflessione, quanto perché qui e in questa sede è della dimensione schiettamente giuridica che intendo dar conto. Dimensione costituzionale come dimensione, appunto, schiettamente giuridica. Di questa dimensione, inoltre, sono costretto a dichiarare in limine una difficoltà di messa a fuoco, dovuta alla poliedricità del contesto europeo di riferimento, alla sua inidoneità ad essere compreso sotto comode etichette omologanti, al fluttuare di un linguaggio giuridico colto nella sua fase nascente. Anche per questo, oltre che per il raggio d’ampiezza di questa sintesi, non ho potuto tener conto del repubblicanesimo, che pure in alcune aree, come quella italiana, ha fatto emergere esperienze di altissimo profilo, alcune delle quali (a Venezia e a Genova soprattutto1) hanno costituito fonte di ispirazione per alcuni autori, primo tra tutti Montesquieu. Insomma, di questa dimensione costituzionale, piuttosto che cogliere la rotonda consistenza, non è possibile fare altro che andare alla ricerca. Ed è quanto tenterò di fare nel circoscritto spazio delle poche pagine che seguono. Il primo, ineludibile punto di partenza è quello relativo alla formazione del cosiddetto Stato moderno e alla individuazione dei suoi elementi qualificanti. Non è certo possibile in questa sede riassumere il dibattito storiografico che, almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha contribuito a ridimensionare fortemente le categorie giuspubblicistiche nell’interpretazione delle dinamiche politiche delle società rinascimentali e d’antico regime: basti ricordare almeno le pagine di Giorgio Chittolini2. La tradizionale lettura oggettivante ed attualizzante dei processi di giornale di storia costituzionale / journal of constitutional history 25 / I 2013 161 Fondamenti formazione dello Stato moderno ha lasciato il passo ad uno sguardo più problematico, aperto alla valorizzazione di una policentricità caratterizzante gli assetti politici e le realtà istituzionali dell’età moderna. Dopo la faticosa metabolizzazione delle ricerche di Otto Brunner3, gli studiosi preferiscono ora parlare di Stato per ceti4, contrassegnato – per usare appunto le parole di Chittolini – «da un forte pluralismo di corpi, ceti e centri politici all’interno dello Stato stesso, titolari ognuno di autorità e di poteri»5: si tratterebbe quindi di «un sistema di istituzioni, di poteri e di pratiche […] che risultano fra loro intimamente legati e complementari, in un nesso difficilmente districabile, in un’unitaria Verfassung…»6. Dar credito a questa ipotesi interpretativa costringe però a sciogliere preliminarmente l’altro nodo che comunemente si accompagna al dibattito storiografico sullo Stato moderno: quello relativo alla natura centralistica di quel modello di Stato o, piuttosto, alla ‘assolutezza’ dei poteri sovrani emergenti da quella costruzione a partire dal sec. XVI7. È ovvio ritenere che lo Stato per ceti si atteggi a qualcosa di nettamente confliggente con l’identità dello Stato assoluto o, per meglio dire, con quelle qualità di fondo che finora all’etichetta di Stato assoluto era parso naturale associare. In realtà, le più aggiornate interpretazioni storiografiche, dopo aver contestato l’affidabilità di una caratterizzazione assolutista dello Stato moderno, fondata più che altro sulle costruzioni dei teorici della politica dei secoli XVI e XVII, hanno provveduto, più che a ripudiare la categoria dello Stato assoluto, a ridisegnarne le coordinate sulla base dei concreti rapporti giuridici operanti all’epoca. La ‘assolutezza’ dello Stato o, più correttamente, della sovranità prin162 cipesca appare oggi come un programma politico di trasformazione di alcuni tra i fondamenti del potere politico ereditati dal medioevo, programma che, in quanto tale, non va a sua volta – mi si scusi il calembour – assolutizzato, ma recepito nella sua più autentica natura, vale a dire come un deciso indirizzo di governo, costretto comunque a fare i conti con la complessa rete di corpi sociali e di realtà territoriali portatori di interessi e di norme autoprodotte concorrenti o addirittura contrastanti l’istanza accentratrice – in ciò consiste in ultima analisi la formula assolutista – dei sovrani delle grandi monarchie europee8. Se vogliamo accogliere questo quadro – ed io credo che esso vada senz’altro accolto –, tornano utili gli elementi di riflessione avanzati da Maurizio Fioravanti, il quale ritiene che in tutta l’età moderna lo Stato giurisdizionale non sia mai completamente tramontato, ma piuttosto abbia subìto un processo di trasformazione che ha segnato il passaggio da una signoria territoriale impegnata a razionalizzare poteri e diritti ad una forma di governo ‘sovrana’ e ‘assoluta’ nel duplice senso a) dell’affermazione di una strategia di concentrazione di poteri presso la figura del monarca e del suo entourage, b) della compressione – ma mai dell’abolizione totale – delle prerogative ‘plurali’ dei ceti e dei territori, secondo regole condivise e, in certi casi, scritte9. È quindi possibile affermare, come appunto fa Fioravanti, che «il crollo definitivo dello Stato giurisdizionale deve essere spostato in avanti, al tempo della rivoluzione»10. Rafforzano questa interpretazione le lucidissime notazioni offerte da Luca Mannori nelle pagine iniziali della Storia del diritto amministrativo, scritta insieme a Bernardo Sordi11. In piena sintonia con quanto Tavilla affermato da Fioravanti, Mannori parla di «un lungo ‘antico regime’», identificato con uno spazio politico, almeno sino alla grande cesura del 1789, «strutturalmente composito e affollato», avvertendo come questo pluralismo dei poteri, in passato considerato «quasi un dato residuale, se non proprio patologico, dello scenario istituzionale premoderno», sia invece da individuare come «il pilastro dell’unico ordine costituzionale da tutti riconosciuto»12. Ora, se è vero che l’ordinamento era contraddistinto dalla compresenza di protagonisti diversi per origine e provenienza (ceti, corporazioni, ordini privilegiati, città, territori, feudi ecc.), è naturale individuare la fonte di legittimazione del potere, nonché il suo ambito concreto di operatività, nella mediazione, e in particolare in quella forma di mediazione specifica che è la giurisdizione. Lo Stato assoluto non deve sparire per questo dal nostro lessico, ma assunto, come poc’anzi detto, in un’accezione complessa e problematica che, forse, meriterebbe di essere declinata anch’essa al plurale: non un modello astratto e teorico di Stato assoluto, ma tanti Stati assoluti quanti se ne profilarono nel mosso contesto europeo d’età moderna. Le diverse modalità programmatiche di accentramento degli Stati assoluti europei ebbero quale eminente obiettivo comune quello di disciplinare e di rendere coerenti al rafforzamento della sovranità principesca i ceti e le comunità di tradizione medievale, i quali, a loro volta, si attivarono per individuare gli strumenti giuridici più idonei alla conservazione delle proprie libertates e all’arginamento dei poteri sovrani. La potestà sovrana continuerà ad essere fondata sull’esercizio della iurisdictio, orientata verso i due tradizionali poli, quello della giustizia assicurata mediante pronunce giurisdizionali e quello della normativa – dichiarativa e integrativa, ma anche, se del caso, derogatoria – intesa a rendere più efficace la tutela degli ordinamenti vigenti. Accanto alla iurisdictio, assumerà sempre più rilievo anche l’altra leva della sovranità, quella del gubernaculum, vale a dire il potere discrezionale, non giurisdizionale né legislativo, dell’attività politica, tipicamente rappresentato dai rapporti con l’estero. È il caso qui di ricordare come la summa divisio tra iurisdictio e gubernaculum fosse stata introdotta nel sec. XIII dall’Henry Bracton del De legibus et consuetudinibus Angliae, e come poi fosse stata ripresa e diffusa, sempre in Inghilterra, ma nei primi anni del Seicento, da Alberico Gentili nelle sue tre “dispute” De Potestate regis absoluta. Il Gentili, per rendere la sovranità compatibile con il patrimonio consuetudinario vigente, aveva ritenuto opportuno, sulla scorta dell’autorità di Baldo, distinguere a sua volta una potestà regia di natura ‘assoluta’ ed un’altra, parallela, di natura ‘ordinaria’: Atque absoluta potestas est plenitudo potestatis. Est arbitrio plenitudo, nulli vel necessitati vel iuris publici regulis subiecta, quod ex Baldo acceptum dicunt alii, est potestas extraordinaria et libera, est illa quam in Anglia significamus nomine regiae Praerogativae. Atque sic interpretes iuris communiter scribunt, esse in principe potestatem duplicem, ordinariam adstrictam legibus, et absoluta definiunt, secundum quam potest ille tollerare ius alienum, etiam magnum, sine causa13. Lo ius alienum sine causa di cui parla Gentili, quel diritto estraneo alle consuetudini operanti nel territorio a cui il sovrano può ricorrere sine causa – una causa legittima sarebbe potuta consistere, tipicamen163 Fondamenti Riunione del Senato della Repubblica di Venezia te, nella tutela dell’ordinamento vigente –, pone sul tappeto uno dei temi dominanti non soltanto dell’agone dottrinale, ma anche del concreto intrecciarsi dei rapporti di forza tra gli attori politici in campo: ci riferiamo al potere legislativo del sovrano, che tra fine Cinquecento e primo Seicento, soprattutto in area francese ed inglese, tende ad emanciparsi dalla sua tradizionale finalità di garanzia degli iura riconducibili a corpi e territori, per assurgere invece a tratto qualificante della sovranità. La potestas condendi leges, ormai slegata al suo medievale ancoraggio imperiale, assume i 164 contorni dell’assolutezza e, come tale, definisce la natura intrinseca della sovranità14. Michael Stolleis l’ha scritto con estrema chiarezza: «Uno dei problemi centrali della storia del diritto e della storia costituzionale è quello del rapporto che sussiste tra legislazione e nascita dello stato moderno»15. È nell’ambito di tale rapporto, tutt’altro che lineare, che si sviluppa una nutrita letteratura politico-giuridica incentrata sul tema della sovranità, al quale si accompagna regolarmente il tema della “ragion di stato” – il fattore legittimante delle prerogative principesche in sostituzione di quel- Tavilla lo, medievale, della iusta causa –, insieme all’altro delle leges fundamentales. Con tale espressione si designava quell’insieme di norme dell’ordinamento attinenti ad un certo corpo politico, nel caso specifico alla monarchia: a fronte di una lex regia (Inst.1.2.6 e D.1.4.1) che ne ipostatizzava la plenitudo potestatis, le leggi fondamentali si articolavano in quelle di diritto divino – il diritto naturale che dettava regole insuperabili anche dall’autorità regia – e in quelle di diritto umano, le quali regolavano principalmente la successione al trono, la cessione del patrimonio regio, l’indivisibilità territoriale, ecc. L’espressione leges fundamentales sembra essere stata usata per la prima volta dall’avvocato ed ex parlamentare ugonotto Innocent Gentillet in un’opera che si segnala tra quelle più esplicitamente orientate ad avversare l’interpretazione machiavellica della ragion di stato quale legittimazione dell’arbitrio sovrano16: Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un Royaume … contre Nicolas Machiavel Florentin17. In quel testo erano qualificate come leggi fondamentali la Loy Salique18 o «la Loy, par laquelle les terres et provinces unies à la Couronne de France sont inalienables»19 o, ancora, assai significativamente, l’autorità degli Stati Generali, definita come «la seconde colomne sur laquelle le Royaume est fondé»20. Su tali premesse Gentillet poteva affermare che «le Prince ne peut abolir les loix fondamentales de sa Principauté… Car, si un Prince avoit pouvoir d’abbatre les fondamens de sa Principauté, il s’abbatroit et ruineroit soy-mesme, et son estat ne dureroit point»21. La storiografia, specie quella tedesca, ha da tempo insistito sulla centralità del- le leggi fondamentali nella individuazione delle origini dello Stato moderno e del suo fondamento costitutivo oltre che, appunto, ‘costituzionale’: penso in particolare a Johannes Kunisch22, Harro Höpfl23, e, soprattutto, a Heinz Monhaupt24. Ancor più netto l’assunto di José Maria Maravall, il quale pone proprio le leges fundamentales a baricentro della cosiddetta monarchia assoluta: «Non solo è inammissibile affermare che “dove c’è una legge fondamentale non ci può essere monarchia assoluta”; di fatto la monarchia assoluta, sin dal suo inizio, fu il regime stesso della legge fondamentale»25. Come bene ha scritto del resto anche Italo Birocchi, tali norme, «insieme al complesso delle leggi divine e naturali, costituivano un limite al potere assoluto e, nella loro origine pratico-consuetudinaria, un segno di partecipazione dei ceti alla vita dello Stato e una sorta di “costituzione” d’Antico Regime»26. Ecco un dato che occorre debitamente evidenziare: le leggi fondamentali, al di là dell’indagine circa la loro sostanza e consistenza, si pongono subito e chiaramente quali fattori di limite al potere sovrano, e ciò è tanto più giuridicamente significativo in quanto esse emergono in una contingenza storica in cui in Europa si tenta di praticare una via ‘assolutista’ per l’esercizio della sovranità. Gli antagonisti del progetto accentratore vanno generalmente identificati con quei corpi, con quei ceti e con i rappresentanti di quei territori che, in quanto titolari di libertates e di privilegia radicati nel tempo, avvertono di quel progetto la carica ‘eversiva’ e distruttiva degli assetti ereditati dal medioevo, ora coltivati come elementi identitari di gruppi sociali e di aree geopolitiche. È giocoforza individuare nelle 165 Fondamenti assemblee – con qualunque termine esse furono chiamate: parlamenti, stati generali, cortes, diete, Landtage ecc. – le istituzioni che assunsero valenza ‘costituzionale’ nell’esercizio dell’antagonismo di cui si è detto e che si adoperarono, direttamente attraverso la dialettica politica o indirettamente attraverso la produzione di una specifica letteratura, per l’elaborazione e per la diffusione di argomenti giuridici finalizzati alla tutela delle antiche consuetudini, usati – o piuttosto riusati – come capisaldi di tutela degli ordinamenti vigenti messi in pericolo della trasmutazione genetica della sovranità. Prima di tentare di mettere a fuoco il rapporto tra sovrani e assemblee parlamentari, occorre però far cenno ad un altro decisivo versante giuridico. Finora abbiamo rivolto l’attenzione al valore costituzionale delle leges fundamentales, che tendono a proporsi, pur nella loro articolata composizione, come un complesso unitario. Esistono però anche altre fonti giuridiche a cui dare altrettale valore costituzionale: i patti giurati di governo o di signoria (Herrschaftsverträge) e i capitoli elettivi e di assoggettamento (Wahlkapitulationen), comunque venissero chiamati a seconda delle aree e delle finalità, fecero emergere una componente pattizia del rapporto tra sovrano e popolo – a cui non era ovviamente estranea una valenza feudale –, tale da non costituire soltanto un ulteriore limite alle prerogative principesche, bensì anche da incoraggiare un’interpretazione contrattuale del momento costitutivo dello Stato e dei suoi poteri – che è appunto quanto farà un robusto filone del giusnaturalismo sei e settecentesco27. In alcune aree geopolitiche europee tali patti rappresentarono un elemento per così dire consueto di defini166 zione dei rapporti tra sovrano e rappresentanti dei territori: si pensi alla prassi delle capitolazioni elettorali dell’area tedesca – se ne contano ben 16 tra il 1519 (anno di assunzione di Carlo V d’Asburgo al soglio imperiale) ed il 1792 –, quelle convenzioni con cui l’imperatore, individuato dal voto degli elettori, accettava, prima dell’incoronazione, alcune condizioni postegli come norma (e limite) al suo governo, normalmente affermanti o confermanti le prerogative sovrane (soprattutto quelle di natura legislativa) e per contro le libertà e i privilegi dei prìncipi elettori e dei ceti. Altrove invece, come in Spagna, il fattore pattizio aveva impregnato profondamente la prassi legislativa dei sovrani: i ceti dell’area iberica, gli estamentos, erano stati in grado di avviare con la monarchia una prassi di governo caratterizzata dalla condivisione dell’atto normativo (leggi ‘pazionate’28), che non venne meno neppure di fronte alle più decise iniziative dei re spagnoli per affermarsi quali entità politica ‘assolute’. Potremmo sintetizzare quanto fin qui detto mettendo plasticamente in scena i protagonisti dell’agone: da una parte il sovrano – assoluto nell’accezione di cui si è detto – e dall’altro i ceti e i territori, rappresentati dalle assemblee parlamentari. Il copione sulla base del quale si agitano parole e azioni è quello fornito dalle leggi fondamentali per un verso e dai patti giurati o dalle capitolazioni per l’altro, usati dalle assemblee in funzione di contenimento o, nei casi più gravi, di censura dei poteri del sovrano. Possiamo ancora una volta utilizzare le illuminanti parole di Stolleis, quando mette insieme leggi fondamentali e atti convenzionali in vista del ruolo giocato nell’età degli Stati assoluti: «le Le- Tavilla ges fundamentales sono […] le costituzioni dell’Ancien Régime, la base del contratto tra sovrano e ceti, in virtù del fatto che esse regolavano la successione al trono, ed erano l’unico documento giuridico scritto – oltre ai patti e agli accordi stipulati secondo le esigenze del momento – a vincolare il principe, il quale sotto ogni altro aspetto può considerarsi legibus solutus. Ora», continua Stolleis, «quanto più si intensifica la concentrazione assoluta del potere, tanto più importanti diventano i limiti cui sottoporla, quali uniche garanzie rimaste per l’equilibrio dell’intera costruzione»29. Ecco quella «vera ‘costituzione’ dello Stato», evocata sino a tutto il Settecento, di cui parla anche Luca Mannori, «nel duplice senso di ciò che fonda lo spazio politico e di ciò che garantisce i suoi membri dagli abusi di chi lo governa»30. E con questo quadro appare coerente anche la perspicace notazione di Pietro Costa, che rileva come il costituzionalismo, pur modulato sotto diverse cronologie e declinazioni, può essere unitariamente considerato nella sua funzione ultima, quella «di teorizzare e di introdurre limiti al dispiegarsi di una suprema volontà decisionale»31. Che i parlamentari e i giuristi filoparlamentari siano ricorsi con decisione e forza alle leggi fondamentali e agli altri vincoli di carattere pattizio in funzione anti-assolutista è copiosamente attestato. Lo è anche in Francia, dove la monarchia compie il più massiccio e coerente sforzo –peraltro coronato da successo – di messa in opera di quel programma di accentramento in cui in buona sostanza far consistere, lo si è più volte detto, l’assolutismo monarchico. Quando nel 1519, nella sua Monarchie de France32, il giurista e umanista savoiardo Claude de Seyssel si impegnava a sostenere le ragioni dell’assolutismo regio, lo faceva precisando i limiti dell’esercizio legittimo delle prerogative monarchiche: la religio (il diritto divino), la iurisdictio (esercitata dai Parlements) e la politia (quanto immutabilmente è ad statum publicum regni ordinatum)33. I Parlamenti francesi apparivano come le istituzioni giudiziarie radicate nel passato più risalente della storia della monarchia francese, tanto da essere indicati dal giurista e parlamentare Étienne Pasquier nelle sue Recherches de la France34 come i migliori alleati del re, che ne potevano temere le censure solo nel caso malaugurato di travalicamento abusivo dei limiti ‘costituzionali’. Del resto, i parlamenti, dotati di iurisdictio, erano naturalmente destinati a tutelare di più e meglio il patrimonio delle coutumes territoriali e le leggi fondamentali della monarchia di quanto non potessero fare gli États Généraux, troppo rapsodicamente riuniti. Se tali precisazioni potevano comparire senza contraddizione nei testi di un sostenitore della monarchia come il Seyssel, che più che una assoluta ne tratteggiava una variante temperata – peraltro presto superata dai fatti –, a maggior ragione i dubbi sulla plenitudo potestatis vantata dai re francesi saranno agitati con maggiore intensità e vigore nei terribili anni delle guerre di religione. E in effetti proprio dai giuristi ugonotti verranno i maggiori attacchi al programma assolutista dei re francesi. Oltre a Jean de Coras, che lamentava come ormai il re francese non si ritenesse più vincolato alle capitolazioni e agli accordi con i sudditi35, è inevitabile a questo punto ricordare la celeberrima Franco-Gallia36 con cui l’ugonotto François Hotman contestava nel 1573 i caratteri dell’originarietà e dell’esclusività della souveraineté, proponendo 167 Fondamenti piuttosto una rivisitazione storica della genesi della monarchia che vedeva nel populus la sua fonte primaria e inaggirabile: il re, in tale ottica, diventava la riflessa personificazione politica del vero titolare della sovranità, che era e restava il popolo, il quale la esercitava attraverso gli Stati generali37. Com’è noto grazie ad alcuni studi di Antonio Marongiu38, Jean Bodin a sua volta intervenne per attaccare Hotman proprio sulla parte più debole della sua trattazione, quella in cui egli riteneva di poter individuare nelle Cortes spagnole e nel loro alto magistrato, il Justicia, i legittimi intermediari tra sovrano e sudditi, in una conformazione delle prerogative tale da rendere credibile una valutazione di ‘superiorità’ di quegli organi sul re medesimo: si trattava, palesemente, di una forzatura che non aveva riscontro nella realtà dei fatti. In generale, Bodin era portato a ridimensionare le tesi di coloro che vedevano nelle istituzioni parlamentari gli effettivi concorrenti politici dei sovrani; ciò valeva anche per il decantato parlamento inglese, mentre mostrava un avviso diverso circa lo Ständestaat tedesco, capace di condizionare realmente l’ambito di operatività del sovrano/imperatore39. Giusto in quegli anni del resto, e in particolare nel 1576 – l’anno di pubblicazione dei Six livres de la République – gli Stati Generali riuniti a Blois – a cui partecipò lo stesso Bodin – chiesero di elevare una decisione assunta unanimemente dall’assemblea al rango di una delle leggi fondamentali del regno, tale pertanto da non poter essere disattesa dal sovrano: ma Enrico III di Valois, pur non pregiudizialmente contrario ad una politica di pacificazione tra cattolici intransigenti e calvinisti, dovette ovviamente respingere la proposta, così come quel168 la di una convocazione regolare degli Stati Generali – i quali infatti in Francia, com’è noto, ebbero vita assai grama, almeno sino al fatidico approdo dell’89. Ben sappiamo come proprio Bodin si sia assunto la responsabilità di spostare dal piano giurisdizionale a quello legislativo il fulcro della sovranità40 e come abbia escluso la presenza di qualsivoglia profilo pattizio, o comunque consensuale, nella potestas condendi leges: «Puissance absoluë […] n’est autre chose que deroger au droit ordinaire», poteva ben dire il giurista di Angers41, in ciò riprendendo la tradizione medievale e canonistica del ius dispensandi, collocandola però in un contesto interpretativo di valenza tutt’altro differente. Ma non dimentichiamo neppure come anche per l’autore dei sei libri De la République l’orizzonte di quella potestas non fosse vuoto e illimitato, bensì racchiuso nello spazio, pur amplissimo, del divieto di violazione delle leggi fondamentali, quali erano da ritenere quelle divine e naturali, quelle di regolazione della successione al trono, quelle di tutela del patrimonio della Corona. Il dibattito, in tal modo impostato, forniva agli anti-machiavellici e agli avversari di Bodin la possibilità di ricorrere alla ricostruzione storica per legittimare una sovranità esercitata attraverso il concorso, su un piano quanto meno di parità, del monarca e dei rappresentanti del populus. Si delineava pertanto un filone teorico impegnato a qualificare le monarchie europee come forme di “governo misto”. Con tale formula, di palese ascendenza aristotelica, giuristi e filosofi anti-assolutisti peroravano la inderogabile compartecipazione al potere di re e di assemblea42. È un’idea che troviamo un po’ dappertutto in Europa: in Inghilterra il vescovo John Aylmer a metà Cinquecen- Tavilla to sosteneva la bontà del governo misto guardando all’esperienza di collaborazione tra i monarchi della dinastia Tudor e il parlamento43, prima che il relativo ideale fosse diffuso da Thomas Smith nel suo De Republica Anglorum44; in Francia ne parlava Charondas le Caron nel suo terzo panegirico dedicato nel 1567 al Devoir des Magistrats45, oppure da Bernard de Girard, signore du Haillan, che nel 1570 giungeva a sostenere come nello Stato francese convivessero le tre forme di governo di matrice aristotelica, vale a dire la monarchia (attraverso il re), l’aristocrazia (attraverso i parlamenti) e la democrazia (attraverso gli Stati Generali), di cui era un convinto propugnatore46; in Spagna, il giurista aragonese Pedro Calisto Ramirez, pubblicando nel 1616 il suo trattato sulla lex regia, aveva modo di diffondere l’idea che anche la monarchia di Filippo III, sulla scorta dell’evoluzione storica di quella aragonese, fosse una forma di governo misto47; Stato misto fu definito il Sacro Romano Impero da Christoph Besold in una sua Dissertatio juridico-politica48, all’unisono con Benedict Carpzov in un analogo trattato sulla lex regia per i popoli tedeschi49 e da Johannes Limnaeus nei suoi Juris Publici Imperii Romano-Germanici libri IX (16291634)50, tutti autori attivi nella prima metà del sec. XVII. Nessuna sorpresa se troviamo Jean Bodin e Thomas Hobbes, su due sponde diverse della Manica, uniti nel respingere nettamente la prospettiva del governo misto51. Il primo smontava pezzo per pezzo le tesi di chi ne voleva vedere un esempio, forzatamente e irragionevolmente, nella monarchia francese52; il secondo, ripercorrendo le vicende della guerra civile inglese nelle pagine del Behemoth (completato nel 1668 ma pubblicato solo dopo la morte dell’autore nel 1681), stigmatizzava gli “innamorati della monarchia mista” («in love with mixarchy, which they used to praise by the name of mixed monarchy»53). Proprio l’Inghilterra registrava una spiccata dialettica tra l’autorità regia e l’aristocrazia feudale (più tardi affiancata anche dai rappresentanti dei borghi): una dialettica che, nei suoi tratti più originali, assurgerà nel Settecento a modello costituzionale ante litteram. In realtà la vita politica dell’Isola si era precocemente caratterizzata per una prassi di contrattazione (bargaining) con l’assemblea degli ottimati dalla quale far scaturire la decisione del re, frutto di mediazione con il baronaggio54. La stessa Magna Charta del 1215, dilavata dalle sue incrostazioni mitologiche ed attualizzanti, va letta ed intesa all’interno di questa logica compromissoria55. In questa sorta di diarchia di re e parlamento – vero governo misto –dalle radici assai risalenti, il patrimonio giuridico vigente poteva assurgere ad elemento di regolazione della vita politica, sia nel senso di mettere a freno le eventuali tentazioni assolutiste dei sovrani, sia in quello di investire proprio il parlamento del ruolo di tutore di quel patrimonio. Già John Fortescue, nel suo De laudibus legum Angliae – composto tra il 1468 ed il 1471, epoca di guerre civili sotto il regno di Enrico VI di Windsor56 – aveva potuto sostenere con orgoglio la qualità superiore delle leggi inglesi, in quanto sono il risultato «non unius, aut centum solum consultorum virorum prudentia, sed plusquam trecentorum electorum hominum»57, come era risaputo che si praticasse nel Parliamentum Angliae. Fortescue non ha esitazioni: la lex regia e il suo principio quod principi placuit legis habet vigorem58, tanto 169 Fondamenti caro agli assolutisti, non hanno cittadinanza in Inghilterra, dove i re – benché spesso riluttanti – sono chiamati a governare regaliter e politice, nel pieno rispetto delle leggi vigenti. La differenza con il mondo del ius civile di matrice romana non può essere più patente59: è nel continente, e soprattutto in Francia, che i re, sulla base del diritto romano, e soprattutto sulla base della lex regia, «regulant plebem suam [si badi: plebs, non populus, come in Inghilterra], quo ipsi ad eorum libitum jura mutant, nova condunt, poenas infligunt et onera imponunt subditis suis, propriis quoque arbitriis, contendentium, cum velint, dirimunt lites»60 – che è il regno, appunto, del più assoluto arbitrio. L’idilliaco quadro offerto dal Fortescue, forse consapevole di esprimere più che altro un wishful thinking, dovrà fare i conti con i passaggi normativi a cui la vita parlamentare del regno inglese sarà costretta a percorrere; a partire il Reformation Parliament, che tra il 1529 ed il 1536 impegnò duramente i protagonisti della vita istituzionale d’oltre Manica, soprattutto in vista del conflitto con la Chiesa romana. In particolare appare decisivo, dal nostro angolo visuale, il Dissolution of the Lesser Monasteries Act del 153661, la norma sollecitata da re Enrico VIII ed approvata dal Parlamento – secondo lo schema tipico del King-in-Parliament –, con la quale venivano espropriati e devoluti alla Corona i beni dei monasteri minori62. Già Frederick William Maitland, nella sua storia costituzionale inglese63, aveva individuato proprio in quella norma un elemento di rottura con il tradizionale ordine giuridico medievale, in quanto essa avrebbe espresso una chiara supremazia del potere legislativo parlamentare (statute-making power) anche in deroga alle 170 consuetudini e alle leggi fondamentali, tra le quali – ed è questo un dato ulteriore da porre in debito rilievo in questa sintesi – è collocato a pieno titolo il diritto di proprietà. Del resto, lo stesso Fortescue aveva messo in evidenza come l’Inghilterra fosse un regno dove «nec impune quisque bona alterius capit sine voluntate proprietarii eorundem…»; e questo valeva anche per il re, «quia nullius subditorum suorum bona juxta leges illas ipse deripere potest sine satisfactione debita pro eisdem»64. Ma, evidentemente, il Dissolution Act si poneva già in un’ottica assai diversa, orientata verso la supremazia degli statutes. Ora, la specificità del caso inglese poneva un ulteriore aspetto problematico al processo di affermazione del potere legislativo quando indirizzato alla deroga del patrimonio consuetudinario tradizionale e alle cosiddette leggi fondamentali, in quanto quel potere era considerato paritariamente in capo al re e al parlamento. In realtà, già nel 1539 il Proclamation by the Crown Act affiancava al normale statute-making anche un potere specifico riconosciuto al re – all’epoca ancora Enrico VIII – di emettere proclamations, le quali, benché non potessero contenere confische o pene capitali, rappresentavano un attentato all’equilibro dei poteri finora, bene o male, operanti. Nessuna meraviglia quindi se già con Edoardo VI, nel 1547, il Proclamation Act fu abrogato. Su questa medesima linea di equilibrio costituzionale, va segnalato anche il Case of Proclamations del 1610, con cui la Court of Common Pleas, allora presieduta dal grande Edward Coke, ribadì il divieto di derogare alla common law mediante proclami regi: in particolare vi si affermava che «the King cannot change any part of the common law, nor create any offence by his proclamation, Tavilla which was not an offence before, without parliament» e, ancor più nettamente, che «the King has no prerogative but that which the law of the land allows him»65. Certo il clima dovette drasticamente mutare, ben più di quanto Giacomo I vi avesse già contribuito, con il figlio Carlo I66: fu proprio il potenziale scontro con quel sovrano – poi divenuto aperto e fatale – a dar vita alla celebre Petition of Right del 1628, nella quale sono ribaditi molti dei punti già presenti nella Magna Charta, quali il divieto di imporre tributi senza l’approvazione del parlamento e la legalità delle carcerazioni. Sappiamo come questo passaggio non valse ad impedire la guerra civile e il suo drammatico esito. Possiamo qui limitarci a ricordare come la gloriosa triade delle cosiddette carte costituzionali inglesi, dopo la Magna Charta e la Petition of Right, si sia completata con il Bill of Right del 168967, con cui la monarchia inglese, ora in mano di un Orange, veniva sottoposta ad una serie di limiti (rights and liberties), ormai da considerarsi consolidati: i sovrani, tra l’altro, perdevano la prerogativa di sospendere il vigore di una legge o di instaurare la legge marziale, di mantenere un esercito permanente in tempo di pace senza il consenso del parlamento e di prevalere sul common law con singoli privilegi. Proprio la storia inglese, dalla quale il costituzionalismo contemporaneo verrà ispirato, sembra incarnare in maniera esemplare la valenza contrattuale insita nei suoi documenti più importanti: i grandi del regno o il parlamento propongono umilmente quanto il re si impegna ad accogliere e a non violare. Tale valenza contrattuale, oltre a costituire uno dei motivi più ricorrenti e di maggior portata del pensiero giusnaturalistico europeo, può essere L’edizione originale del De iure belli ac pacis di Ugo Grozio, Parigi, 1625 individuata in molti esiti delle vicende politiche europee. Per quanto meno esemplari e mitizzati delle carte inglesi, sono molti i patti giurati, capitoli o accordi di governo che si registrano nel secolo cruciale per la formazione degli Stati moderni. Si noti come, nell’età in cui si affermavano prepotentemente le raffigurazioni di una potestà sovrana ab-soluta dal vincolo della legge – e ne abbiamo visto, pur sommariamente, le reazioni uguali e contrarie –, venissero opposti, contro l’arcinoto principio della lex regia68, per un verso il riferimento agli imperialii contractus legis vicem obtinentes contenuto in una costituzione giustinianea (C.16.26) e, per l’altro, il passo di Baldo degli Ubaldi espresso in occasione della lettura proprio all’Ulpiano di D.1.4.1: «Licet princeps non ligetur 171 Fondamenti lege legis, ligatur lege conventionis»69. Insomma, legibus solutus non voleva affatto dire contractibus solutus: così come i sudditi sono tenuto al rispetto della legge, i sovrani lo sono in virtù di vincoli contrattuali. Ad una lettura di tipo contrattuale era passibile non soltanto la Magna Charta inglese, ma anche, per restare tra i documenti medievali di lunga durata, anche se meno branditi dalla dottrina e dalla storiografia, la Joyeuse Entrée de Brabant del 1356, carta delle libertà (fiscali e giudiziarie) stipulata tra i rappresentanti di nobiltà clero e città e la sovrana Giovanna di Brabante70, considerata una delle fonti storiche della costituzione belga del 7 febbraio 1831. Ma, per tornare all’età moderna oggetto della nostra attenzione, possiamo ricordare le libertà, i privilegi e le franchigie riconosciute in vim contractus da Francesco I di Valois agli Stati della Bretagna nel 1515 e a quelli della Linguadoca nel 1522. Né è possibile tralasciare la capitolazione elettorale di Francoforte con cui l’imperatore Carlo V d’Asburgo si impegnava a far osservare le leggi dell’Impero e di modificarle solo con il consenso dei principi elettori e dei Länder, documento considerato dalla dottrina di diritto pubblico tedesco come una delle fonti dei Grundgesetze. Sullo stesso piano, memorabile fu anche lo scontro che oppose Ferdinando I, fratello di Carlo V, alla Boemia, che gli riconobbe i diritti ereditari solo con la dieta e la relativa capitolazione del 1545. Inoltre, per restare nella medesima area mitteleuropea, va almeno accennato al passaggio di consegne dei diritti sovrani sull’Ungheria dagli Jagelloni agli Asburgo, trasferimento che fu accompagnato da una lunga serie di capitolazioni e di convenzioni sistemate nel 1514 dal giurista István Werböczy nel suo Tripartitum, 172 opus juris consuetudinarii inclyti Regni Hungariae. E che dire, infine, della Polonia? La dieta polacca, che procedeva direttamente all’elezione del re, aveva nel 1501 approvato la legge de non praestanda oboedientia, conferente ai sudditi – ma in concreto alla Szlachta, il ceto aristocratico polacco – uno jus resistendi in caso di esercizio illegittimo della sovranità. Inoltre, la legge Nihil novi, approvata dal re Alessandro Jagellone nel 1505, avrebbe impedito ai sovrani qualsiasi mutamento all’ordinamento vigente senza il consenso della medesima nobiltà riunita nella Camera dei deputati e nel Senato della Polonia. E infine, per chiudere questa precipitosa rassegna, segnaliamo i celebri Pacta conventa del 1573, con cui la dieta polacca poneva forti limiti al potere del futuro re di Francia Enrico di Valois, trovatosi a cingere la corona di Polonia per poco più di un anno, tra il 1573 e il ’74. Scrive bene Angela De Benedictis, che ha valorizzato molti degli esempi poc’anzi enumerati71, quando nota che la «relazione tra principe e popolo veniva intesa come una “mutuo consensu et publice contracta obligatio”» e come la «costituzione dell’ordine statale da parte di parti contraenti un patto era concretamente resa nella figura giuridica della lex fundamentalis»72. Si veniva quindi ad instaurare una netta relazione tra il momento convenzionale del pactum o della capitolatio e il complesso delle leges fundamentales, nell’alveo delle quali patti e capitolazioni accedevano col valore di patrimonio consuetudinario fondativo del rapporto tra sudditi e corona, anche grazie all’incessante lavorìo di sistemazione e di conferimento di ‘senso’ storico-politico operato dalla dottrina giuridica73. Tavilla La stessa De Benedictis, che alle istituzioni e ai patti di governo dell’area imperiale ha dedicato opportuno spazio, rileva il grande impegno con cui la giuspubblicistica sei e settecentesca ha evidenziato il carattere contrattuale costantemente ravvisabile nelle delibere delle diete, recepite dall’imperatore mediante i Reichsabschiede: il contratto era quindi «considerato come il più alto e sicuro strumento per raggiungere forza vincolante, per quanto lo stesso principe fosse o potesse essere al di sopra del diritto»74. Contratto vince legge, potremmo grossolanamente riassumere: dalla seconda il sovrano può prescindere, non dal primo, ritenuto insuperabile. Credo che l’insistenza con cui il paradigma contrattuale fu impiegato nella prassi dei rapporti politici tra sovrano e rappresentanze cetual-territoriali non sia del tutto ininfluente nell’affermazione e nella diffusione di quel medesimo paradigma sul piano della rappresentazione teorica. Il modello con cui l’archetipo pattizio viene piegato dal giusnaturalismo – nelle sue molteplici varianti, da quella hobbesiana a quella pufendorfiana, a quella, infine, lockiana – raggiunge l’obiettivo di collocare il consensus sulla linea strategica di confluenza dello stato naturale in quello sociale e di assumerlo quale fonte logicamente e cronologicamente primaria dello Stato. L’assolutizzazione del modello consensualcontrattuale, il quale su un altro piano, quello della prassi, serviva quale strumento giuridico di qualificazione dei rapporti politici, ne prefigurava in definitiva la sua ‘neutralizzazione’. Alla pluralità dei pacta tra corpi e sovrano il giusnaturalismo contrattualista affiancava, per sostituirlo, il singolo pactum originario della costituzione dello Stato. Del resto, ancor prima che si affermasse la vulgata groziana, Johannes Althusius, nella sua Politica methodice digesta75, sosteneva che la sovranità non aveva potere originario, bensì derivato, in quanto è la consociatio – composta di comunità, provincie e terre – ad avere la titolarità del potere, pur essendo incapace di esercitarlo in proprio76. Come già affermato in premessa, non intendo qui ripercorrere le linee dell’elaborazione del giuscontrattualismo di matrice groziana, la cui decisività è stata ribadita da una ininterrotta linea storiografica. In questa sede invece mi preme sottolineare come il pattismo praticato tra Quattro e Cinquecento sia cosa ben diversa dal contrattualismo teorico sei-settecentesco. È fondato il valore costituzionale che una certa storiografia ha attribuito al primo, finalizzato alla limitazione del potere monarchico e alla tutela delle libertà cetuali e territoriali; solo del secondo, invece, è possibile parlare nel senso di una individualizzazione del rapporto politico svincolato dalla concreta dialettica dei poteri corporativi e radicato invece nell’assolutezza neutralizzante dei diritti soggettivi naturali, non più oggetto di negoziazione, bensì ricondotti alla loro radice extra-storica77: diritti, come si direbbe oggi, non negoziabili, ma suscettibili soltanto di norme dichiarative. I distinguo, forse alquanto brutali, ma che ritengo assolutamente necessari per scongiurare interpretazioni indebite dei processi storici concretamente operanti, non impediscono certo, e anzi in qualche misura autorizzano ad individuare elementi di contatto tra pratiche pattizie ed ideologie contrattualistiche, tanto più ricchi di implicazioni quando metabolizzati da una dottrina giuridica attenta al dato storico, 173 Fondamenti più che a quello ideal-tipico o metastorico. Stolleis a questo proposito ha parlato di un diritto di natura concreto78, con riferimento ad autori quali Johann Wolfgang Textor, il quale, insieme a Samuel Pufendorf, aveva studiato a Jena sotto il magistero dell’olandese Dominikus Arumaeus, autore quest’ultimo dei cinque tomi dei Discursus academici de iure publico79, con i quali si procede alla «penetrazione del diritto costituzionale vigente in quella materia accademica chiamata politica, cui corrisponde la graduale estromissione del diritto romano dallo jus publicum»80. Sulla scia dell’insegnamento del maestro, Textor era giunto a negare che l’impero potesse identificarsi con la monarchia, «evidenziando come gradualmente i diritti imperiali abbiano ceduto il posto alle capitolazioni elettorali, con la conseguente divisione dei diritti di maestà tra imperatore e ceti» e sottolineando, inoltre, «il carattere contrattuale delle diete»81. Del resto, sulla stessa linea si poneva Pufendorf, il quale, non soltanto rilevava come alcuni prìncipi tedeschi fossero ormai da considerarsi «quasi reges», ma teneva a ribadire nelle pagine del De Statu Imperii Germanici – edito nel 1667 con lo pseudonimo, com’è noto, di Severino Monzambano – la natura “irregolare” dell’impero germanico a causa di una sovranità non unitaria, arrivando a concludere come tale disomogeneità potesse rappresentare una minaccia alla struttura e alla solidità dello Stato medesimo82. Bisognerà attendere la sistemazione di colui che è considerato il padre del diritto costituzionale tedesco, Johann Jakob Moser, realizzata mediante il monumentale Teutsches Staatsrecht83, per ordinare l’intricata trama dei rapporti giuridici tra le varie realtà istituzionali germaniche secondo 174 una chiave interpretativa che faceva della dimensione storica un elemento essenziale ed irrinunciabile. Sarebbe interessante – ma debordante gli stretti limiti della presente sintesi – dar saggio dell’uso della ricerca storica praticata da tutta una scuola giuspubblicistica tedesca, che alla documentazione del passato ricorreva per tracciare le linee portanti di quella architettura complessa e plurale che era l’Impero. È questo quadro comunque che ha consentito a Erwin Hölzle di sottolineare come «il diritto dello Stato per ceti» abbia «contribuito in modo sostanziale alla formazione del diritto naturale moderno» e come, in «questo processo di sviluppo, le libertà degli antichi ceti» siano state «trasformate nella libertà, nel senso del diritto naturale»84. Secondo Hölzle è proprio il ricorso alla storia, e più precisamente alle origini storiche del fondamento della sovranità, che ha consentito alla giuspubblicistica europea d’età moderna di evocare in quel lontano passato un contatto con la natura e con il diritto che dalla natura spontaneamente sgorga: Se è il diritto di epoche più antiche, delle origini, ad essere richiamato, allora si tratta di un diritto molto legato alla natura e perciò molto vicino al diritto naturale. Questa vicinanza diventa manifesta nel concetto di contratto sociale, che, in parte, è dedotto dalla natura dell’uomo, in parte è inteso dal punto di vista storico-genetico. […] Il diritto veniva preteso come diritto storico, il suo valore consisteva proprio nella sua conferma attraverso la storia85. Si arriva persino a ritenere, con un suggestivo paradosso, come la tanto declamata forma assolutista dello Stato moderno non sia altro che una «una fase di transizione», per usare l’espressione di Otto Hintze86, tra lo Stato per ceti e lo Stato moderno pro- Tavilla priamente detto. La reazione corporativa di quello Stato per ceti avverso i conati accentratori dello Stato assolutista avrebbe portato quindi alla teorizzazione di ambiti ‘naturali’ di libertà, accompagnata da una prassi politica di rappresentatività dei ceti medesimi che sarebbe alla base della intensificazione dell’attività statale. Questa accentuazione del contesto politico d’area tedesca, area in cui peraltro la dottrina di diritto pubblico – è bene sottolinearlo – ebbe sviluppo e primazia indiscutibili, non vuol dire che anche altre aree, come già in parte è stato illustrato, non abbiano fatto emergere elementi ed aspetti in seguito utilizzati dal primo costituzionalismo moderno. Di Ancient Constitution si parla correntemente in Inghilterra già dalla metà del Seicento, in riferimento al ruolo del Parlamento – e ben sappiamo come il mito della Happy Constitution inglese produrrà suggestioni fortissime in autori settecenteschi come Montesquieu e JeanLouis De Lolme87. Tra la fine del Seicento e i primi anni del Settecento in Francia si registra una letteratura che, opponendosi alle modalità di governo di Luigi XIV, fa riferimento ad una “antica costituzione” francese – che Saint-Simon, ad esempio, identifica con un patto, osservato per prassi, che garantisce le prerogative dei ceti e dei corpi intermedi88. Gerhard Oestreich individua invece nella Spagna la patria di un «diritto naturale europeo fondato sulla libertà, in quanto antagonista delle dottrine assolutistiche», il quale poi venne tra l’altro «recepito dall’ambiente impregnato di vita per ceti dei Paesi Bassi»89: come non ricordare, in effetti, l’atto ‘costituente’ con cui gli Stati Generali delle Province Unite proclamavano il 26 luglio 1581 la decadenza di Filippo II come sovrano dei Paesi Bassi, dichiarando che «Dio non ha creato i popoli schiavi dei loro prìncipi»?90 Due secoli più tardi le colonie americane, sulla base di un diritto di resistenza rivisitato a fine Seicento da John Locke, potevano dichiarare la loro condizione di Stati indipendenti: il giusnaturalismo e il giuscontrattualismo raccoglievano i loro più vistosi frutti. Eppure di quei frutti si erano già intravisti i germogli, prima che nelle pagine dei trattati politico-filosofici, nelle prassi di governo e negli assetti consuetudinari tenacemente opposti alle mire accentratrici dei prìncipi europei cinque e seicenteschi. Il valore contrattuale dei patti giurati, delle capitolazioni e di certe leggi; la limitazione della sovranità attraverso l’affermazione di libertà e prerogative cetuali e territoriali; l’individuazione di un patrimonio di regole fondamentali fatte assurgere a fattore identitario, e nel medesimo tempo contenitivo, del potere politico; e, last but non least, il rispetto della proprietà come requisito insuperabile del rapporto originario tra suddito e sovrano – sono tutti elementi con cui il costituzionalismo settecentesco, ereditandoli dal contesto giuridico-politico europeo dei due secoli precedenti, costruì i suoi primi edifici. Solo nella piena consapevolezza di questo percorso – che è prima di tutto un percorso storico-giuridico – può assumere illuminante consistenza l’insegnamento di Nicola Matteucci, che definiva il costituzionalismo come «la tecnica giuridica delle libertà», vale a dire come quel laboratorio teorico che «non guarda tanto a “chi” deve governare, ma a “come” si deve governare, perché mira soprattutto a una limitazione del governo attraverso il diritto»91. 175 Fondamenti * Il saggio qui presentato è il frutto elaborato di una relazione svolta al convegno L’ordine costituzionale come problema storico, organizzato dalla Società Italiana di Storia del Diritto e tenutosi a Parma nelle giornate del 15 e del 16 dicembre 2011. 1 Una dimensione costituzionale è stata colta, per ultimi, dai contributi di C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano: Venezia e il suo stato territoriale (secoli XV-XVIII), e di R. Savelli, Che cosa era il diritto patrio di una repubblica?, entrambi in I. Birocchi, A. Mattone (a cura di), Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), Roma, Viella, 2006, rispettivamente alle pp. 297 ss. e 255 ss. 2 Soprattutto quelle del saggio Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 553 ss. 3 Mi riferisco naturalmente al classico Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Südostdeutschlands im Mittelalter, Baden bei Wien, Rohrer (1939); tr. it. Terra e potere, Milano, Giuffrè, 1983, specialmente alle pp. 157 ss., oltreché ai saggi composti tra il 1939 ed il 1958 e riuniti sotto il titolo Neue Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht (1968); tr. it. a cura di P. Schiera, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano, Vita e Pensiero, 1970, in ispecie il saggio I diritti di libertà nell’antica società per ceti, pp. 201 ss. 4 O anche di “costituzioni” per ceti: cfr. ad es. O. Hintze, Tipologia delle costituzioni per ceti in occidente, in Id., Stato e società, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 222 ss. Sul radicamento “regionale” dello Stato – o sistema – per ceti, insiste D. Gerhard, Regionalismo e sistema per ceti: tema di fondo della storia europea, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, vol. I: Dal medioevo all’età moderna, Bo- 176 5 6 7 8 9 10 11 12 13 logna, Il Mulino, 1971, pp. 193 ss. Chittolini, Il privato cit., pp. 567568. Ivi, p. 569. Luca Mannori ha opportunamente notato come «Lo sgretolarsi […] dell’immagine dello Stato moderno come entità monolitica ed omogenea, come grande progetto artificiale impostosi vittoriosamente sull’entropia della storia», sia destinato in realtà ad aprire «un nuovo spazio di ricerca», a condizione però di «cominciare a pensare un’indagine di segno opposto rispetto a quella praticata per lungo tempo dagli storici delle istituzioni», cioè evitando di «cercare a ritroso, in un passato sempre più remoto, i presunti tratti originari dello Stato moderno», L. Mannori, Genesi dello Stato e storia giuridica [a proposito di: Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1994], in «Quaderni fiorentini», n. 24, 1995, p. 504. Una rassegna critica sulla relativa storiografia in L. Blanco, Note sulla più recente storiografia in tema di ‘Stato moderno’, in «Storia. Amministrazione. Costituzione. Annali dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica», n. 2, 1994, pp. 259 ss. Si vedano a tal proposito le penetranti osservazioni in D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 45 ss. M. Fioravanti, Stato e costituzione, in Id. (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 3-14. Ivi, p. 13. L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 5 ss. Ivi, pp. 13. Alberico Gentili, Regales disputationes tres, vol. I: De potestate Regis absoluta, Londini, apud Thomam Vautrollerium, 1605, pp. 10-11. Cfr. D. Panizza, Il pensiero politico di Alberico Gentili. Religione, virtù 14 15 16 17 18 19 20 21 22 e ragion di stato, in Alberico Gentili. Politica e religione nell’età delle guerre di religione, Atti del convegno (San Ginesio, 17 maggio 1987), Milano, Giuffrè, 2002, p. 182. Un «fatto rivoluzionario», come lo definisce Nicola Matteucci in Le origini del costituzionalismo moderno, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche economiche e sociali, Torino, UTET, 1980, vol. I, p. 567. M. Stolleis, Stato e ragion di Stato nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. I, p. 146. Cfr. P.D. Stewart, Innocent Gentillet e la sua polemica antimachiavellica, Firenze, La Nuova Italia, 1969. I. Gentillet, Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un Royaume ou autre Principauté, divisé in trois parties, assavoir, du Conseil, de la Religion et de la Police que doit tenir un Prince, contre Nicolas Machiavel Florentin, [Genève], s.e., 1576. Pubblicato anche come Anti-Machiavel (cfr. ed. par C.E. Rathé, Genève, Droz, 1968). Gentillet, Discours cit., p. 49. Sulla centralità della Legge salica, Guillaume Postel pubblicò nel 1522 un volumetto (La loy Salique. Les origines et auctoritez de la Loy Gallique nommée communement Salique, Paris, en la rue Sainct Jacques aux Cicongnes, 1522): cfr. S. Testoni Binetti, Casualità e contingenza nella definizione delle leggi fondamentali. Guillaume Postel e il dibattito sulla legge Salica, in F. Biondi Nalis (a cura di), Studi in memoria di Enzio Sciacca, vol. I: Sovranità, democrazia, costituzionalismo, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 425. Si veda anche R.E. Giesey, Le rôle méconnu de la loi Salique. La succession royale, XIVe-XVIe siècles, Paris, Les Belles Lettres, 2007. Gentillet, Discours cit., p. 51. Ivi, p. 50. Ivi, p. 48. Staatsverfassung und Mächtepolitik. Zur Genese von Staatenkonflikten im Zeitalter des Absolutismus, Tavilla 23 24 25 26 27 28 Berlin, Duncker & Humblot, 1979, pp. 49 ss. Fundamental Law and the Constitution in Sixteenth-Century France, in R. Schnur (Hrsg.), Die Rolle der Juristen bei der Entstehung des modernen Staats, Berlin, Duncker & Humblot, 1986, pp. 327. Die Lehre von der “Lex Fundamentalis” und die Hausgesetzgebung europäischer Dynastien, in J. Kunisch (Hrsg.), Der dynastische Fürstenstaat. Zur Bedeutung von Sukzessionsordnungen für die Entstehung des frühmodernen Staates, Berlin, Duncker & Humblot, 1982, pp. 3 ss.; Von den “leges fundamentales” zur modernen Verfassung in Europa. Zum begriffs-und dogmengeschichtlichen Befund (16.-18. Jahrhundert), in «Ius Commune», n. 25, 1998, pp. 121 ss.; Öffentliches Recht in Gestalt der “Leges Fundamentales” in mittelalterlichen Alten Reich, in «Giornale di storia costituzionale», n. 21, 2011, pp. 25 ss. J.A. Maravall, Le origini dello Stato moderno, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, vol. I: Dal medioevo all’età moderna, cit., p. 82. I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 98-99. Osservazioni importanti dello stesso Italo Birocchi sul tema delle leggi fondamentali in rapporto con il costituzionalismo moderno in La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno. Le “leggi fondamentali” nel triennio rivoluzionario (1793-96), Torino, Giappichelli, 1992, in particolare alle pp. 159 ss. Cfr. P. Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 197 ss. Su cui si vedano i vari saggi raccolti nel volume El pactismo en la historia de España, Madrid, Instituto de España, 1980, in particolare quello di J. Vallet de Goytisolo, Valor jurídico de las leyes paccionadas en el Principado de Ca- 29 30 31 32 33 34 35 taluña, pp. 75 ss. Stolleis, Stato e ragion di Stato cit., p. 151. Mannori-Sordi, Storia del diritto amministrativo cit., p. 18. P. Costa, Democrazia politica e Stato costituzionale, Napoli, ESI, 2006, p. 9. C. de Seyssel, La Grande Monarchie de France, Paris, par Regnault Chauldière, 1519. Il passo di Seyssel è stato recentemente ripreso da M. Caravale, Alle origini del diritto europeo. Ius commune, droit commun, Common Law nella dottrina giuridica della prima età moderna, Bologna, Monduzzi, 2005, p. 156. Nelle pagine a seguire il medesimo A. passa in rassegna il dibattito dei giuristi francesi cinque-secenteschi circa la consistenza e l’efficacia delle loix fondamentales. Sul Seyssel politico e storico, si veda il volume collettivo P. EichelLojkine (éd.), Claude de Seyssel. Écrire l’histoire, penser la politique en France, à l’aube des temps modernes, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2010, in particolare il saggio di J.M. Constant, La monarchie tempéré prônée par Claude de Seyssel: une idée d’avenir dans le monde politique français, aux XVIe et XVIIe siècles, pp. 153 ss. É. Pasquier, Les recherches de la France, ruveuës et augmentées de quatre livres, Paris, chez Iamet Mettayer et Pierre l’Huillier, 1596. Sul Pasquier, V. Piano Mortari, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 109 ss.; D. Thickett, Estienne Pasquier (15291615). The Versatile Barrister of 16th Century France, London, Regency, 1979; Matteucci, Le origini del costituzionalismo cit., pp. 576-578 e 596-599; M. Yardeni, Enquêtes sur l’identité de la “nation France” de la Renaissance aux Lumières, Seyssel, Champ-Vallon, 2004, pp. 71 ss.; J.H. Dahlinger, Étienne Pasquier on Ethics and History, New York, Peter Lang, 2007. J. de Coras, Question politique: s’il est licite aux subjects de capituler 36 37 38 39 40 41 42 43 avec leur prince (1570), ed. R.M. Kingdon, Genève, Droz, 1989. F. Hotman, Franco-Gallia (1573), ed. by R.E. Giesey, Cambridge, Cambridge University Press, 1972. Cfr. D.R. Kelley, François Hotman. A revolutionary’s ordeal, Princeton, Princetown University Press, 1973; C. Vivanti, Assolutismo e tolleranza nel pensiero politico francese del Cinque e Seicento, in Firpo (a cura di), Storia delle idee cit., vol. 4/I, pp. 41 ss.; J.G.A. Pocock, The Ancient Constitution and the Feudal Law. A Study of English Historical Thought in the Seventeenth Century. A Reissue with a Retrospect, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 16 ss.; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. 1: Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 81 ss.; P.A. Mellet, Les Traités Monarchomaques. Confusion des temps, résistance armée et monarchie parfaite (15601600), Genève, Droz, 2007. A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel medio evo e nell’età moderna. Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, Milano, Giuffrè, 1962, p. 558; Id., Dottrine e istituzioni politiche medievali e moderne. Raccolta, Milano, Giuffrè, 1979, pp. 315-317 e 367-368. Cfr. Marongiu, Dottrine cit., pp. 322-323. Costa, Civitas cit., pp. 70-71. Il passo è opportunamente valorizzato da D. Quaglioni, I limiti della sovranità. Il pensiero di Jean Bodin nella cultura politica e giuridica dell’età moderna, Padova, CEDAM, 1992, p. 22. Si vedano i contributi raccolti da M. Gaille-Nikodimov in Le Gouvernement mixte. De l’idéal politique au monstre constitutionnel en Europe (XIIIe-XVIIe siècle), Publications de l’Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne, 2005. Cfr. anche M. Fioravanti, Costituzione, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 51 ss. J. Aylmer, An Harborowe for Faith- 177 Fondamenti 44 45 46 47 ful and Trewe Subjectes, agaynst the late blowne Blaste, concerninge the Governmente of Wemen, wherin be confuted all such reasons as a stranger of late made in that behalf, with a breife exhortation to Obedience, Strasborowethe [i.e. London, by John Day] 1559, rist. Amsterdam, Theatrum Orbis Terrarum, 1972. Cfr. P.A. Lee, ‘A Body Politique to Governe’: Aylmer, Knox and the debate on Queenship, in «The Historian», n. 52, 1990, pp. 242 ss., e A.N. McLaren, Political Culture in the Reign of Elizabeth I: Queen and Commonwealth, 15581585, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pp. 59 ss. Pubblicato postumo a Londra nel 1583. L’edizione più recente è a cura di M. Dewar, edito a Cambridge, Cambridge University Press, 2009. Cfr. M Dewar, Sir Thomas Smith. A Tudor Intellectual in Office, Athlone Press, London, 1964. L. Le Caron (pseud. Charondas), Panégyrique III: du Devoir des magistrats…, Paris, R. Estienne, 1567. Su Le Caron, M. Foisil, La loi et le monarque absolue selon les Pandectes ou Digestes du droit français de Charondas le Caron (XVIe s.), in La formazione storica del diritto moderno in Europa, Atti del III Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto (Firenze 25-29 aprile 1973), Firenze, Olschki, 1977, vol. I, pp. 221 ss. B. de Girard du Haillan, De l’Estat et Succez des affaires de France…, Paris, P. L’Huiller, 1571. Cfr. V. De Caprariis, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione, Napoli, ESI, 1959, vol. I, pp. 257 ss. P.C. Ramirez, Analyticus tractatus de lege regia, qua in principes suprema et absoluta potestas translata fuit, cum quadam corporis politici ad instar phisici, capitis et membrorum connezione, Caeseraugustae, apud Ioanne à Lanaja & Quartanet, 1616. Cfr. P. Fernández Albaladejo, Materia de España. Cultura politica e identidad en la España 178 48 49 50 moderna, Madrid, Marcial Pons, 2007, pp. 65 ss. C. Besold, Dissertatio singularis de statu reipublicae mixto, in Id., Dissertatio politico-iuridica de majestate in genere eiusque juribus specialibus, in tres sectiones distributa, Argentorati, sumptibus haeredum Lazari Zetzneri, 1625, pp. 210 ss. Cfr. M. Stolleis, Storia del diritto pubblico in Germania, vol. I: Pubblicistica dell’Impero e scienza di polizia, 1600-1800, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 116-117, 160-161, e R. von Friedeburg, The juridification of natural law: Christoph Besold’s claim for a natural right to believe what one wants, in «The Historical Journal», n. 53.1, 2010, pp. 1 ss. Si veda anche M. van Gelderen, Q. Skinner, Republicanism and Constitutionalism in Early Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, vol. I, pp. 211-212. B. Carpzov, De Capitulatione Caesarea, sive de Lege regia Germanorum tractatus, Bicurgicorum Metropoli, impensis J. Birckneri, 1623, a cui farà seguito, dello stesso Autore, il Commentarius in legem regiam Germanorum, sive capitulationem imperatoriam… Accessit tenor capitulationum Caroli V, Ferdinandi I, Maximiliani II…, Lipsiae, sumptibus A. Kühnen, 1640. Cfr. R. Hoke, Die Souveränitätslehredes Benedict Carpzov, in H. Haller, C. Kopetzki, R. Novak, S. L. Paulson, B. Raschauer, G. Ress, E. Wiederin (Hrsg.), Staat und Recht. Festschrift für Günther Winkler, Wien, Springer, pp. 319 ss. Sul Carpzov, si veda da ultimo il volume collettaneo curato da G. Jerouschek, W. Schild, W. Gropp, Benedict Carpzov: Neue Perspektiven su einem umstrittenen säschischen Juristen, Tübingen, Edition diskord, 2000. J. Limnaeus, Tomus primus iuris publici imperii Romano Germanici, quo tractatur de principiis iuris publici, de Germanorum origine, Argentoratim typis & sumptibus Friderici Spoor, 1657. Cfr. Stolleis, Storia del diritto pubbli- 51 52 53 54 55 56 57 58 59 co in Germania, vol. I, cit., pp. 270-271. Sul Limnaeus, R. Hoke, Die Reichsstaatsrechtslehre des Johannes Limnaeus. Ein Beitrag zur Geschichte der deutschen Staatswissenschaft im 17. Jahrhundert, Aalen, Scientia Verlag, 1968. Cfr. Fioravanti, Costituzione cit., pp. 71 ss. Cfr. A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 214-215. T. Hobbes, Behemoth, or the Long Parliament, ed. by S. Holmes, Chicago, Universty of Chicago Press, 1990, pp. 116-117. La piena sovranità della monarchia francese si contrapponeva, per Bodin, alla deplumata aquila dell’impero tedesco (cfr. Stolleis, Stato e ragion di stato cit., p. 223). Cfr. R.D. Congleton, Perfecting Parliament. Constitutional Reform, Liberalism and the Rise of Western Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, specialmente pp. 266 ss. Cfr., ad es., G. Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 24-25, e Costa, Civitas cit., Roma-Bari, 1999, p. 33. Sul testo alla base del costituzionalismo inglese si veda lo studio fondamentale di J. C. Holt, Magna Carta, Cambridge, Cambridge University Press, 1992². Un’efficace sintesi del pensiero politico-giuridico del Fortescue in A. Cromartie, Common law, counsel and consent in Fortescue’s political theory, in C. Carpenter, L. Clark (eds.), The Fifteenth Century, vol. IV, Political culture in late Medieval Britain, Woolbridge, Boydell, 2004, pp. 45 ss. J. Fortescue, De laudibus legum Angliae, edited by S.B. Chrimes, Cambridge, Cambridge University Press, 1942, p. 40. Su tale formula, si vedano le notazioni ancor oggi assai suggestive di Brunner, Terra e potere cit., pp. 552 ss. In realtà il diritto romano ha tramandato anche principî di Tavilla 60 61 62 63 64 65 sapore anti-assolutistico, come quello di sottoposizione alla legge (Digna vox maiestate regnantis legibus alligatum se principem profiteri, C.1.14[17].4) e di consenso rappresentativo (quod omnes tangit, ab omnibus comprobetur, C.5.59.5.2). Cfr. quanto rileva A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 321-324 e 349352. Fortescue, De laudibus legum Angliae cit., p. 80. In J.R. Tanner, Tudor constitutional documents, A.D. 1485-1603, with an historical commentary, Cambridge, Cambridge University Press, 1930, pp. 58 ss. Cfr. L.F. Solt, Church and State in Early Modern England, 1509-1640, Oxford, Oxford University Press, 1990, pp. 30 ss. F.W. Maitland, The Constitutional History of England. A course of lectures delivered, Cambridge, Cambridge University Press 1908, pp. 253 ss. Fortescue, De laudibus legum Angliae cit., p. 86. Cit. in R.F.V. Heuston, Essays in constitutional law, London, Stevens & Sons, 1961, p. 60. Cfr. anche Matteucci, Le origini del costituzionalismo cit., pp. 611-612. Lo stesso Coke aveva già altrove definito fundamental law quella relativa all’intangibilità del common law: cfr. Caravale, Alle origini del diritto europeo cit., p. 224. Sul tema si veda anche J.W. Gough, Fundamental Law in English Constitutional History, Oxford, Clarendon Press, 1955, pp. 30 ss. Su Edward Coke e sulla sua influenza sul costituzionalismo moderno, J. Beauté, Un grand juriste anglais: Sir Edward Coke (1552-1634). Ses idees politiques et constitutionnelles ou aux origines de la democratie occidentale moderne, Paris, Presses Universitaires de Frances, 1975. Si vedano anche L. D’Avack, Potere legislativo e potere giurisdizionale nel pensiero di Sir Edward Coke, in Studi in onore di P.A. D’Avack, vol. IV, Milano, Giuffrè, 1976, e Costa, 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 Civitas cit., pp. 188 ss. Sulle prerogative monarchiche teorizzate e praticate dai due sovrani Stuart, G.A. Ritter, Diritto divino e prerogative dei re inglesi, 1603-1640, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, vol. III: Accentramento e rivolte, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 69 ss., nonché G. Burgess, Absolute Monarchy and the Stuart Constitution, Yale, Yale University Press, 1996. Su cui si veda almeno L.G. Schwoerer, The Declaration of Rights, 1689, Baltimore, John Hopkins University Press, 1981. Sul dibattito olandese (in particolare nelle opere di Gronov, Huber, il Perizonius e Schoock) relativo all’interpretazione da dare alla lex regia – in realtà senatoconsulto più che legge – tra translatio e concessio, si veda F. Lomonaco, “Lex regia”: diritto, filologia e “fides historica” nella cultura politico-filosofica dell’Olanda di fine Seicento, Napoli, Guida, 1990. Cfr. J. Canning, The Political Thought of Baldus de Ubaldis, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 241. Cfr. A. Clerici, Costituzionalismo, contrattualismo e diritto di resistenza nella rivolta dei paesi Bassi (1559-1581), Milano, Franco Angeli, 2004. De Benedictis, Politica cit., pp. 288 ss. Ivi, p. 292. Cfr. Mohnaupt, Von den “leges fundamentales” cit.; Id., Öffentliches Recht in Gestalt der “Leges Fundamentales” cit. De Benedictis, Politica cit., p. 294. J. Althusius, Politica methodice digesta et exemplis sacris et profanis illustrata, Herbornae Nassoviorum, ex Officina Christophori Corvini, 1603. Cfr. oltre alle classiche pagine di O. von Gierke, Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino, Einaudi, 1943, anche G. Duso, Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius: la dottrina 77 del patto e la costruzione del regno, in «Quaderni Fiorentini», n. 25, 1996, pp. 65-126; Costa, Civitas cit., pp. 88 ss.; D. Quaglioni, Quale modernità per la “Politica” di Althusius?, in «Quaderni fiorentini», n. 39, 2010, pp. 631 ss. Si vedano anche i saggi riuniti da F. Ingravalle e C. Malandrino nel volume Il lessico della “Politica” di Johannes Althusius. L’arte della simbiosi santa, giusta, vantaggiosa e felice, Firenze, Olschki, 2005. Di philosophical contractarianism (di matrice hobbesiana) non sovrapponibile a un constitutional contractarianism ereditato dalla prassi istituzionale di lunga durata parlano Harro Höpfl e Martyn P. Thompson in The History of Contract as a Motif in Political Thought, in «American Historical Review», n. 84, 1979, pp. 919 ss. Si legga in particolare quanto gli Autori scrivono a p. 941: «The history of contractualism subsequent to Hobbes is, indeed, in part a record of the adaptations and modifications of the language Hobbes consolitated. This language spoke of “natural right”, “natural liberty”, “natural equality”, “condition of nature”, “covenant”, and “sovereignity” – best described as the language of philosophical contractarianism, because the theoretical ambitions and the aimed-for generality of thought of those who employed it tended to be greater than that of the alternative language, best described as constitutional contractarianism. This second language set covenant within the terminological context of “fundamental law”, “fundamental rights” or “liberties”, “original contract”, and “ancient” or “fundamental constitution”. In constitutional contractarianism particular positive laws and the institutional inheritance of specific polities were most relevant and important, rather than universal propositions about all men and all polities. This was, in effect, the direct continuation of the kind of think- 179 Fondamenti 78 79 80 81 82 83 ing found in the works of Hotman, Mornay, Bèze, and Althusius. The contractual language consolidated by Hobbes – the language in which the famous contractualist treatises of Pufendorf, Spinoza, Locke, Thomasius, Christian Wolff, Vattel, Rousseau and Fichte were written – has received by far the most attention in the secondary literature. Constitutional contractarianism has, by contrast, been almost entirely neglected. But the continuing and quite distinct tradition of constitutional contractualism remained in vital strand in the fabric of the early history of contractarianism». Stolleis, Stato e ragion di Stato cit., p. 122. Jena, J. Beithmann, 1616-1623. Stolleis, Stato e ragion di Stato cit., p. 121. Ivi, p. 123. Cfr. M. Stolleis, Textor und Pufendorf über die Ratio Status Imperii im Jahre 1667, in R. Schnur (Hrsg.), Staatsräson. Studien zur Geschichte eines politischen Begriffs, Berlin, Duncker & Humblot, 1975, pp. 441 ss. In 50 volumi (Nürnberg, Leipzig, Ebersdorf, 1737-54). Sul Moser, K.S. Bader, Johann Jacob Moser, 180 84 85 86 87 in M. Müller, R. Uhland (Hrsg.), Lebensbilder aus Schwaben und Franken, Stuttgart, Kohlhammer, 1960, pp. 92 ss.; R. Rürup, J.J. Moser. Pietismus und Reform, Wiesbaden, Steiner, 1965; E. Schömbs, Das Staatsrecht Johann Jacob Mosers (1701-1785). Zur Entstehung der historischen Positivismus in der deutschen Reichspublizistik des 18. Jahrunnderts, Berlin, Speyer & Peters, 1968; M. Walker, Johann Jakob Moser and the Holy Roman Empire of the German Nation, Chapel Hill, University of North Carolina, 1981. E. Hölzle, Frattura e continuità nell’evoluzione moderna della “libertà” tedesca, in Rotelli, Schiera (a cura di), Lo Stato moderno cit., vol. I, p. 95. Ivi, p. 96. O. Hintze, Condizioni storiche generali della costituzione rappresentativa, in Id., Stato e società cit., p. 133. Sul dibattito sulle costituzioni cetuali in area asburgica, L. Bussi, Fra unione personale e Stato sovranazionale. Contributo alla storia della formazione dell’Impero d’Austria, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 252 ss. Cfr. C.P. Courtney, Montesquieu e Burke, Oxford, Blackwell, 1963. 88 89 90 91 Cfr. E. Sciacca, Il problema del costituzionalismo nella storia del pensiero politico moderno. Alcune questioni metodologiche, ora in Studi in memoria di Enzo Sciacca, vol. II: Liber amicorum, Milano, Giuffrè. 2008, p. 7; De Benedictis, Politica cit., p. 341. G. Oestreich, Problemi di struttura dell’assolutismo moderno, in E. Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno, vol. I, cit., p. 174. Cfr. C. Vivanti, Le guerre di religione nel Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 68. Sul dibattito teorico connesso con il moto di indipendenza olandese, si veda M. Van Gelderen, The Political Thought of the Dutch Revolt, 15551590, Cambridge, Cambridge University Press, 1992. N. Matteucci, Costituzionalismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Treccani, 1992, vol. II, p. 522.