Sovranità e leggi fondamentali: alla ricerca di una
dimensione costituzionale nell’Europa moderna
(secc. XV-XVIII)*
elio tavilla
La complessità del tema che propongo in
questo breve saggio rischia di assumere i
termini di un esercizio di ambizione. Proverò comunque ad affrontare la sfida, imponendomi una linea espositiva che eviti di
farsi risucchiare dai potenti vortici della filosofia e della storia politica, non perché da
esse non si debba attingere preziosi e irrinunciabili elementi di riflessione, quanto
perché qui e in questa sede è della dimensione schiettamente giuridica che intendo
dar conto. Dimensione costituzionale come
dimensione, appunto, schiettamente giuridica.
Di questa dimensione, inoltre, sono costretto a dichiarare in limine una difficoltà
di messa a fuoco, dovuta alla poliedricità
del contesto europeo di riferimento, alla
sua inidoneità ad essere compreso sotto
comode etichette omologanti, al fluttuare
di un linguaggio giuridico colto nella sua
fase nascente. Anche per questo, oltre che
per il raggio d’ampiezza di questa sintesi,
non ho potuto tener conto del repubblicanesimo, che pure in alcune aree, come
quella italiana, ha fatto emergere esperienze di altissimo profilo, alcune delle quali
(a Venezia e a Genova soprattutto1) hanno
costituito fonte di ispirazione per alcuni
autori, primo tra tutti Montesquieu.
Insomma, di questa dimensione costituzionale, piuttosto che cogliere la rotonda
consistenza, non è possibile fare altro che
andare alla ricerca. Ed è quanto tenterò di
fare nel circoscritto spazio delle poche pagine che seguono.
Il primo, ineludibile punto di partenza
è quello relativo alla formazione del cosiddetto Stato moderno e alla individuazione
dei suoi elementi qualificanti. Non è certo
possibile in questa sede riassumere il dibattito storiografico che, almeno a partire
dagli anni Settanta del secolo scorso, ha
contribuito a ridimensionare fortemente
le categorie giuspubblicistiche nell’interpretazione delle dinamiche politiche delle
società rinascimentali e d’antico regime:
basti ricordare almeno le pagine di Giorgio Chittolini2. La tradizionale lettura oggettivante ed attualizzante dei processi di
giornale di storia costituzionale / journal of constitutional history 25 / I 2013
161
Fondamenti
formazione dello Stato moderno ha lasciato
il passo ad uno sguardo più problematico,
aperto alla valorizzazione di una policentricità caratterizzante gli assetti politici e le
realtà istituzionali dell’età moderna. Dopo
la faticosa metabolizzazione delle ricerche
di Otto Brunner3, gli studiosi preferiscono
ora parlare di Stato per ceti4, contrassegnato – per usare appunto le parole di Chittolini – «da un forte pluralismo di corpi,
ceti e centri politici all’interno dello Stato
stesso, titolari ognuno di autorità e di poteri»5: si tratterebbe quindi di «un sistema
di istituzioni, di poteri e di pratiche […]
che risultano fra loro intimamente legati e
complementari, in un nesso difficilmente
districabile, in un’unitaria Verfassung…»6.
Dar credito a questa ipotesi interpretativa costringe però a sciogliere preliminarmente l’altro nodo che comunemente
si accompagna al dibattito storiografico
sullo Stato moderno: quello relativo alla
natura centralistica di quel modello di Stato o, piuttosto, alla ‘assolutezza’ dei poteri
sovrani emergenti da quella costruzione a
partire dal sec. XVI7. È ovvio ritenere che
lo Stato per ceti si atteggi a qualcosa di nettamente confliggente con l’identità dello
Stato assoluto o, per meglio dire, con quelle
qualità di fondo che finora all’etichetta di
Stato assoluto era parso naturale associare.
In realtà, le più aggiornate interpretazioni
storiografiche, dopo aver contestato l’affidabilità di una caratterizzazione assolutista
dello Stato moderno, fondata più che altro
sulle costruzioni dei teorici della politica
dei secoli XVI e XVII, hanno provveduto,
più che a ripudiare la categoria dello Stato
assoluto, a ridisegnarne le coordinate sulla
base dei concreti rapporti giuridici operanti all’epoca. La ‘assolutezza’ dello Stato
o, più correttamente, della sovranità prin162
cipesca appare oggi come un programma
politico di trasformazione di alcuni tra i
fondamenti del potere politico ereditati dal
medioevo, programma che, in quanto tale,
non va a sua volta – mi si scusi il calembour –
assolutizzato, ma recepito nella sua più autentica natura, vale a dire come un deciso
indirizzo di governo, costretto comunque
a fare i conti con la complessa rete di corpi sociali e di realtà territoriali portatori
di interessi e di norme autoprodotte concorrenti o addirittura contrastanti l’istanza accentratrice – in ciò consiste in ultima
analisi la formula assolutista – dei sovrani
delle grandi monarchie europee8.
Se vogliamo accogliere questo quadro – ed io credo che esso vada senz’altro
accolto –, tornano utili gli elementi di riflessione avanzati da Maurizio Fioravanti,
il quale ritiene che in tutta l’età moderna
lo Stato giurisdizionale non sia mai completamente tramontato, ma piuttosto abbia
subìto un processo di trasformazione che
ha segnato il passaggio da una signoria territoriale impegnata a razionalizzare poteri
e diritti ad una forma di governo ‘sovrana’
e ‘assoluta’ nel duplice senso a) dell’affermazione di una strategia di concentrazione
di poteri presso la figura del monarca e del
suo entourage, b) della compressione – ma
mai dell’abolizione totale – delle prerogative ‘plurali’ dei ceti e dei territori, secondo
regole condivise e, in certi casi, scritte9. È
quindi possibile affermare, come appunto
fa Fioravanti, che «il crollo definitivo dello
Stato giurisdizionale deve essere spostato
in avanti, al tempo della rivoluzione»10.
Rafforzano questa interpretazione le
lucidissime notazioni offerte da Luca Mannori nelle pagine iniziali della Storia del diritto amministrativo, scritta insieme a Bernardo Sordi11. In piena sintonia con quanto
Tavilla
affermato da Fioravanti, Mannori parla di
«un lungo ‘antico regime’», identificato
con uno spazio politico, almeno sino alla
grande cesura del 1789, «strutturalmente
composito e affollato», avvertendo come
questo pluralismo dei poteri, in passato considerato «quasi un dato residuale,
se non proprio patologico, dello scenario
istituzionale premoderno», sia invece da
individuare come «il pilastro dell’unico
ordine costituzionale da tutti riconosciuto»12. Ora, se è vero che l’ordinamento era
contraddistinto dalla compresenza di protagonisti diversi per origine e provenienza
(ceti, corporazioni, ordini privilegiati, città, territori, feudi ecc.), è naturale individuare la fonte di legittimazione del potere,
nonché il suo ambito concreto di operatività, nella mediazione, e in particolare in
quella forma di mediazione specifica che è
la giurisdizione.
Lo Stato assoluto non deve sparire per
questo dal nostro lessico, ma assunto, come
poc’anzi detto, in un’accezione complessa
e problematica che, forse, meriterebbe di
essere declinata anch’essa al plurale: non
un modello astratto e teorico di Stato assoluto, ma tanti Stati assoluti quanti se ne
profilarono nel mosso contesto europeo
d’età moderna. Le diverse modalità programmatiche di accentramento degli Stati
assoluti europei ebbero quale eminente
obiettivo comune quello di disciplinare e
di rendere coerenti al rafforzamento della
sovranità principesca i ceti e le comunità di
tradizione medievale, i quali, a loro volta,
si attivarono per individuare gli strumenti
giuridici più idonei alla conservazione delle proprie libertates e all’arginamento dei
poteri sovrani.
La potestà sovrana continuerà ad essere fondata sull’esercizio della iurisdictio,
orientata verso i due tradizionali poli, quello della giustizia assicurata mediante pronunce giurisdizionali e quello della normativa – dichiarativa e integrativa, ma anche,
se del caso, derogatoria – intesa a rendere
più efficace la tutela degli ordinamenti vigenti. Accanto alla iurisdictio, assumerà
sempre più rilievo anche l’altra leva della
sovranità, quella del gubernaculum, vale a
dire il potere discrezionale, non giurisdizionale né legislativo, dell’attività politica,
tipicamente rappresentato dai rapporti con
l’estero.
È il caso qui di ricordare come la summa
divisio tra iurisdictio e gubernaculum fosse stata introdotta nel sec. XIII dall’Henry
Bracton del De legibus et consuetudinibus Angliae, e come poi fosse stata ripresa e diffusa, sempre in Inghilterra, ma nei primi
anni del Seicento, da Alberico Gentili nelle
sue tre “dispute” De Potestate regis absoluta.
Il Gentili, per rendere la sovranità compatibile con il patrimonio consuetudinario vigente, aveva ritenuto opportuno, sulla scorta dell’autorità di Baldo, distinguere a sua
volta una potestà regia di natura ‘assoluta’
ed un’altra, parallela, di natura ‘ordinaria’:
Atque absoluta potestas est plenitudo potestatis. Est arbitrio plenitudo, nulli vel necessitati
vel iuris publici regulis subiecta, quod ex Baldo
acceptum dicunt alii, est potestas extraordinaria
et libera, est illa quam in Anglia significamus
nomine regiae Praerogativae. Atque sic interpretes iuris communiter scribunt, esse in principe
potestatem duplicem, ordinariam adstrictam
legibus, et absoluta definiunt, secundum quam
potest ille tollerare ius alienum, etiam magnum,
sine causa13.
Lo ius alienum sine causa di cui parla
Gentili, quel diritto estraneo alle consuetudini operanti nel territorio a cui il sovrano
può ricorrere sine causa – una causa legittima sarebbe potuta consistere, tipicamen163
Fondamenti
Riunione del Senato della Repubblica di Venezia
te, nella tutela dell’ordinamento vigente –,
pone sul tappeto uno dei temi dominanti
non soltanto dell’agone dottrinale, ma anche del concreto intrecciarsi dei rapporti
di forza tra gli attori politici in campo: ci
riferiamo al potere legislativo del sovrano,
che tra fine Cinquecento e primo Seicento, soprattutto in area francese ed inglese,
tende ad emanciparsi dalla sua tradizionale
finalità di garanzia degli iura riconducibili
a corpi e territori, per assurgere invece a
tratto qualificante della sovranità. La potestas condendi leges, ormai slegata al suo
medievale ancoraggio imperiale, assume i
164
contorni dell’assolutezza e, come tale, definisce la natura intrinseca della sovranità14.
Michael Stolleis l’ha scritto con estrema
chiarezza: «Uno dei problemi centrali della storia del diritto e della storia costituzionale è quello del rapporto che sussiste tra
legislazione e nascita dello stato moderno»15.
È nell’ambito di tale rapporto, tutt’altro che lineare, che si sviluppa una nutrita
letteratura politico-giuridica incentrata sul
tema della sovranità, al quale si accompagna regolarmente il tema della “ragion di
stato” – il fattore legittimante delle prerogative principesche in sostituzione di quel-
Tavilla
lo, medievale, della iusta causa –, insieme
all’altro delle leges fundamentales. Con tale
espressione si designava quell’insieme
di norme dell’ordinamento attinenti ad
un certo corpo politico, nel caso specifico alla monarchia: a fronte di una lex regia
(Inst.1.2.6 e D.1.4.1) che ne ipostatizzava la
plenitudo potestatis, le leggi fondamentali si
articolavano in quelle di diritto divino – il
diritto naturale che dettava regole insuperabili anche dall’autorità regia – e in quelle
di diritto umano, le quali regolavano principalmente la successione al trono, la cessione del patrimonio regio, l’indivisibilità
territoriale, ecc.
L’espressione leges fundamentales sembra essere stata usata per la prima volta
dall’avvocato ed ex parlamentare ugonotto Innocent Gentillet in un’opera che
si segnala tra quelle più esplicitamente
orientate ad avversare l’interpretazione
machiavellica della ragion di stato quale legittimazione dell’arbitrio sovrano16:
Discours sur les moyens de bien gouverner et
maintenir en bonne paix un Royaume … contre
Nicolas Machiavel Florentin17. In quel testo
erano qualificate come leggi fondamentali la Loy Salique18 o «la Loy, par laquelle
les terres et provinces unies à la Couronne
de France sont inalienables»19 o, ancora,
assai significativamente, l’autorità degli
Stati Generali, definita come «la seconde
colomne sur laquelle le Royaume est fondé»20. Su tali premesse Gentillet poteva
affermare che «le Prince ne peut abolir
les loix fondamentales de sa Principauté…
Car, si un Prince avoit pouvoir d’abbatre les
fondamens de sa Principauté, il s’abbatroit
et ruineroit soy-mesme, et son estat ne dureroit point»21.
La storiografia, specie quella tedesca,
ha da tempo insistito sulla centralità del-
le leggi fondamentali nella individuazione
delle origini dello Stato moderno e del suo
fondamento costitutivo oltre che, appunto, ‘costituzionale’: penso in particolare a
Johannes Kunisch22, Harro Höpfl23, e, soprattutto, a Heinz Monhaupt24. Ancor più
netto l’assunto di José Maria Maravall, il
quale pone proprio le leges fundamentales
a baricentro della cosiddetta monarchia
assoluta: «Non solo è inammissibile affermare che “dove c’è una legge fondamentale
non ci può essere monarchia assoluta”; di
fatto la monarchia assoluta, sin dal suo inizio, fu il regime stesso della legge fondamentale»25. Come bene ha scritto del resto
anche Italo Birocchi, tali norme, «insieme
al complesso delle leggi divine e naturali,
costituivano un limite al potere assoluto e,
nella loro origine pratico-consuetudinaria,
un segno di partecipazione dei ceti alla vita
dello Stato e una sorta di “costituzione”
d’Antico Regime»26.
Ecco un dato che occorre debitamente
evidenziare: le leggi fondamentali, al di là
dell’indagine circa la loro sostanza e consistenza, si pongono subito e chiaramente
quali fattori di limite al potere sovrano, e
ciò è tanto più giuridicamente significativo in quanto esse emergono in una contingenza storica in cui in Europa si tenta di
praticare una via ‘assolutista’ per l’esercizio
della sovranità.
Gli antagonisti del progetto accentratore vanno generalmente identificati con
quei corpi, con quei ceti e con i rappresentanti di quei territori che, in quanto titolari di libertates e di privilegia radicati nel
tempo, avvertono di quel progetto la carica
‘eversiva’ e distruttiva degli assetti ereditati
dal medioevo, ora coltivati come elementi
identitari di gruppi sociali e di aree geopolitiche. È giocoforza individuare nelle
165
Fondamenti
assemblee – con qualunque termine esse
furono chiamate: parlamenti, stati generali, cortes, diete, Landtage ecc. – le istituzioni che assunsero valenza ‘costituzionale’
nell’esercizio dell’antagonismo di cui si è
detto e che si adoperarono, direttamente
attraverso la dialettica politica o indirettamente attraverso la produzione di una specifica letteratura, per l’elaborazione e per la
diffusione di argomenti giuridici finalizzati
alla tutela delle antiche consuetudini, usati – o piuttosto riusati – come capisaldi di
tutela degli ordinamenti vigenti messi in
pericolo della trasmutazione genetica della
sovranità.
Prima di tentare di mettere a fuoco il
rapporto tra sovrani e assemblee parlamentari, occorre però far cenno ad un altro
decisivo versante giuridico. Finora abbiamo rivolto l’attenzione al valore costituzionale delle leges fundamentales, che tendono
a proporsi, pur nella loro articolata composizione, come un complesso unitario.
Esistono però anche altre fonti giuridiche
a cui dare altrettale valore costituzionale: i patti giurati di governo o di signoria
(Herrschaftsverträge) e i capitoli elettivi e di
assoggettamento (Wahlkapitulationen), comunque venissero chiamati a seconda delle
aree e delle finalità, fecero emergere una
componente pattizia del rapporto tra sovrano e popolo – a cui non era ovviamente
estranea una valenza feudale –, tale da non
costituire soltanto un ulteriore limite alle
prerogative principesche, bensì anche da
incoraggiare un’interpretazione contrattuale del momento costitutivo dello Stato e
dei suoi poteri – che è appunto quanto farà
un robusto filone del giusnaturalismo sei e
settecentesco27. In alcune aree geopolitiche europee tali patti rappresentarono un
elemento per così dire consueto di defini166
zione dei rapporti tra sovrano e rappresentanti dei territori: si pensi alla prassi delle
capitolazioni elettorali dell’area tedesca
– se ne contano ben 16 tra il 1519 (anno di
assunzione di Carlo V d’Asburgo al soglio
imperiale) ed il 1792 –, quelle convenzioni
con cui l’imperatore, individuato dal voto
degli elettori, accettava, prima dell’incoronazione, alcune condizioni postegli come
norma (e limite) al suo governo, normalmente affermanti o confermanti le prerogative sovrane (soprattutto quelle di natura
legislativa) e per contro le libertà e i privilegi dei prìncipi elettori e dei ceti.
Altrove invece, come in Spagna, il fattore pattizio aveva impregnato profondamente la prassi legislativa dei sovrani: i ceti
dell’area iberica, gli estamentos, erano stati
in grado di avviare con la monarchia una
prassi di governo caratterizzata dalla condivisione dell’atto normativo (leggi ‘pazionate’28), che non venne meno neppure
di fronte alle più decise iniziative dei re
spagnoli per affermarsi quali entità politica
‘assolute’.
Potremmo sintetizzare quanto fin qui
detto mettendo plasticamente in scena i
protagonisti dell’agone: da una parte il sovrano – assoluto nell’accezione di cui si è
detto – e dall’altro i ceti e i territori, rappresentati dalle assemblee parlamentari.
Il copione sulla base del quale si agitano
parole e azioni è quello fornito dalle leggi
fondamentali per un verso e dai patti giurati o dalle capitolazioni per l’altro, usati dalle assemblee in funzione di contenimento
o, nei casi più gravi, di censura dei poteri
del sovrano. Possiamo ancora una volta
utilizzare le illuminanti parole di Stolleis,
quando mette insieme leggi fondamentali e atti convenzionali in vista del ruolo
giocato nell’età degli Stati assoluti: «le Le-
Tavilla
ges fundamentales sono […] le costituzioni
dell’Ancien Régime, la base del contratto tra
sovrano e ceti, in virtù del fatto che esse regolavano la successione al trono, ed erano
l’unico documento giuridico scritto – oltre ai patti e agli accordi stipulati secondo
le esigenze del momento – a vincolare il
principe, il quale sotto ogni altro aspetto può considerarsi legibus solutus. Ora»,
continua Stolleis, «quanto più si intensifica la concentrazione assoluta del potere,
tanto più importanti diventano i limiti cui
sottoporla, quali uniche garanzie rimaste
per l’equilibrio dell’intera costruzione»29.
Ecco quella «vera ‘costituzione’ dello Stato», evocata sino a tutto il Settecento, di cui
parla anche Luca Mannori, «nel duplice
senso di ciò che fonda lo spazio politico e di
ciò che garantisce i suoi membri dagli abusi di chi lo governa»30. E con questo quadro appare coerente anche la perspicace
notazione di Pietro Costa, che rileva come
il costituzionalismo, pur modulato sotto
diverse cronologie e declinazioni, può essere unitariamente considerato nella sua
funzione ultima, quella «di teorizzare e di
introdurre limiti al dispiegarsi di una suprema volontà decisionale»31.
Che i parlamentari e i giuristi filoparlamentari siano ricorsi con decisione
e forza alle leggi fondamentali e agli altri
vincoli di carattere pattizio in funzione
anti-assolutista è copiosamente attestato.
Lo è anche in Francia, dove la monarchia
compie il più massiccio e coerente sforzo
–peraltro coronato da successo – di messa
in opera di quel programma di accentramento in cui in buona sostanza far consistere, lo si è più volte detto, l’assolutismo
monarchico. Quando nel 1519, nella sua
Monarchie de France32, il giurista e umanista
savoiardo Claude de Seyssel si impegnava a
sostenere le ragioni dell’assolutismo regio,
lo faceva precisando i limiti dell’esercizio
legittimo delle prerogative monarchiche: la
religio (il diritto divino), la iurisdictio (esercitata dai Parlements) e la politia (quanto immutabilmente è ad statum publicum
regni ordinatum)33. I Parlamenti francesi
apparivano come le istituzioni giudiziarie radicate nel passato più risalente della
storia della monarchia francese, tanto da
essere indicati dal giurista e parlamentare
Étienne Pasquier nelle sue Recherches de la
France34 come i migliori alleati del re, che
ne potevano temere le censure solo nel caso
malaugurato di travalicamento abusivo dei
limiti ‘costituzionali’. Del resto, i parlamenti, dotati di iurisdictio, erano naturalmente destinati a tutelare di più e meglio
il patrimonio delle coutumes territoriali e
le leggi fondamentali della monarchia di
quanto non potessero fare gli États Généraux, troppo rapsodicamente riuniti.
Se tali precisazioni potevano comparire
senza contraddizione nei testi di un sostenitore della monarchia come il Seyssel, che
più che una assoluta ne tratteggiava una variante temperata – peraltro presto superata
dai fatti –, a maggior ragione i dubbi sulla
plenitudo potestatis vantata dai re francesi
saranno agitati con maggiore intensità e
vigore nei terribili anni delle guerre di religione. E in effetti proprio dai giuristi ugonotti verranno i maggiori attacchi al programma assolutista dei re francesi. Oltre a
Jean de Coras, che lamentava come ormai
il re francese non si ritenesse più vincolato
alle capitolazioni e agli accordi con i sudditi35, è inevitabile a questo punto ricordare
la celeberrima Franco-Gallia36 con cui l’ugonotto François Hotman contestava nel
1573 i caratteri dell’originarietà e dell’esclusività della souveraineté, proponendo
167
Fondamenti
piuttosto una rivisitazione storica della genesi della monarchia che vedeva nel populus
la sua fonte primaria e inaggirabile: il re, in
tale ottica, diventava la riflessa personificazione politica del vero titolare della sovranità, che era e restava il popolo, il quale la
esercitava attraverso gli Stati generali37.
Com’è noto grazie ad alcuni studi di Antonio Marongiu38, Jean Bodin a sua volta
intervenne per attaccare Hotman proprio
sulla parte più debole della sua trattazione,
quella in cui egli riteneva di poter individuare nelle Cortes spagnole e nel loro alto
magistrato, il Justicia, i legittimi intermediari tra sovrano e sudditi, in una conformazione delle prerogative tale da rendere
credibile una valutazione di ‘superiorità’ di
quegli organi sul re medesimo: si trattava,
palesemente, di una forzatura che non aveva riscontro nella realtà dei fatti. In generale, Bodin era portato a ridimensionare
le tesi di coloro che vedevano nelle istituzioni parlamentari gli effettivi concorrenti
politici dei sovrani; ciò valeva anche per il
decantato parlamento inglese, mentre mostrava un avviso diverso circa lo Ständestaat
tedesco, capace di condizionare realmente
l’ambito di operatività del sovrano/imperatore39.
Giusto in quegli anni del resto, e in particolare nel 1576 – l’anno di pubblicazione
dei Six livres de la République – gli Stati Generali riuniti a Blois – a cui partecipò lo stesso
Bodin – chiesero di elevare una decisione
assunta unanimemente dall’assemblea al
rango di una delle leggi fondamentali del
regno, tale pertanto da non poter essere disattesa dal sovrano: ma Enrico III di Valois,
pur non pregiudizialmente contrario ad
una politica di pacificazione tra cattolici intransigenti e calvinisti, dovette ovviamente
respingere la proposta, così come quel168
la di una convocazione regolare degli Stati
Generali – i quali infatti in Francia, com’è
noto, ebbero vita assai grama, almeno sino
al fatidico approdo dell’89.
Ben sappiamo come proprio Bodin si
sia assunto la responsabilità di spostare
dal piano giurisdizionale a quello legislativo il fulcro della sovranità40 e come abbia
escluso la presenza di qualsivoglia profilo
pattizio, o comunque consensuale, nella
potestas condendi leges: «Puissance absoluë
[…] n’est autre chose que deroger au droit
ordinaire», poteva ben dire il giurista di
Angers41, in ciò riprendendo la tradizione
medievale e canonistica del ius dispensandi,
collocandola però in un contesto interpretativo di valenza tutt’altro differente. Ma
non dimentichiamo neppure come anche
per l’autore dei sei libri De la République l’orizzonte di quella potestas non fosse vuoto e
illimitato, bensì racchiuso nello spazio, pur
amplissimo, del divieto di violazione delle
leggi fondamentali, quali erano da ritenere
quelle divine e naturali, quelle di regolazione della successione al trono, quelle di tutela del patrimonio della Corona.
Il dibattito, in tal modo impostato, forniva agli anti-machiavellici e agli avversari
di Bodin la possibilità di ricorrere alla ricostruzione storica per legittimare una sovranità esercitata attraverso il concorso, su un
piano quanto meno di parità, del monarca
e dei rappresentanti del populus. Si delineava pertanto un filone teorico impegnato a
qualificare le monarchie europee come forme di “governo misto”. Con tale formula,
di palese ascendenza aristotelica, giuristi e
filosofi anti-assolutisti peroravano la inderogabile compartecipazione al potere di re e
di assemblea42. È un’idea che troviamo un
po’ dappertutto in Europa: in Inghilterra
il vescovo John Aylmer a metà Cinquecen-
Tavilla
to sosteneva la bontà del governo misto
guardando all’esperienza di collaborazione tra i monarchi della dinastia Tudor e il
parlamento43, prima che il relativo ideale
fosse diffuso da Thomas Smith nel suo De
Republica Anglorum44; in Francia ne parlava
Charondas le Caron nel suo terzo panegirico
dedicato nel 1567 al Devoir des Magistrats45,
oppure da Bernard de Girard, signore du
Haillan, che nel 1570 giungeva a sostenere
come nello Stato francese convivessero le
tre forme di governo di matrice aristotelica,
vale a dire la monarchia (attraverso il re),
l’aristocrazia (attraverso i parlamenti) e la
democrazia (attraverso gli Stati Generali),
di cui era un convinto propugnatore46; in
Spagna, il giurista aragonese Pedro Calisto
Ramirez, pubblicando nel 1616 il suo trattato sulla lex regia, aveva modo di diffondere
l’idea che anche la monarchia di Filippo III,
sulla scorta dell’evoluzione storica di quella
aragonese, fosse una forma di governo misto47; Stato misto fu definito il Sacro Romano Impero da Christoph Besold in una sua
Dissertatio juridico-politica48, all’unisono
con Benedict Carpzov in un analogo trattato sulla lex regia per i popoli tedeschi49 e
da Johannes Limnaeus nei suoi Juris Publici
Imperii Romano-Germanici libri IX (16291634)50, tutti autori attivi nella prima metà
del sec. XVII.
Nessuna sorpresa se troviamo Jean Bodin e Thomas Hobbes, su due sponde diverse della Manica, uniti nel respingere
nettamente la prospettiva del governo misto51. Il primo smontava pezzo per pezzo
le tesi di chi ne voleva vedere un esempio,
forzatamente e irragionevolmente, nella
monarchia francese52; il secondo, ripercorrendo le vicende della guerra civile inglese nelle pagine del Behemoth (completato
nel 1668 ma pubblicato solo dopo la morte
dell’autore nel 1681), stigmatizzava gli “innamorati della monarchia mista” («in love
with mixarchy, which they used to praise by
the name of mixed monarchy»53).
Proprio l’Inghilterra registrava una
spiccata dialettica tra l’autorità regia e l’aristocrazia feudale (più tardi affiancata
anche dai rappresentanti dei borghi): una
dialettica che, nei suoi tratti più originali,
assurgerà nel Settecento a modello costituzionale ante litteram. In realtà la vita politica
dell’Isola si era precocemente caratterizzata per una prassi di contrattazione (bargaining) con l’assemblea degli ottimati dalla
quale far scaturire la decisione del re, frutto
di mediazione con il baronaggio54. La stessa Magna Charta del 1215, dilavata dalle sue
incrostazioni mitologiche ed attualizzanti,
va letta ed intesa all’interno di questa logica
compromissoria55.
In questa sorta di diarchia di re e parlamento – vero governo misto –dalle radici
assai risalenti, il patrimonio giuridico vigente poteva assurgere ad elemento di regolazione della vita politica, sia nel senso
di mettere a freno le eventuali tentazioni
assolutiste dei sovrani, sia in quello di investire proprio il parlamento del ruolo di
tutore di quel patrimonio.
Già John Fortescue, nel suo De laudibus
legum Angliae – composto tra il 1468 ed il
1471, epoca di guerre civili sotto il regno
di Enrico VI di Windsor56 – aveva potuto
sostenere con orgoglio la qualità superiore
delle leggi inglesi, in quanto sono il risultato «non unius, aut centum solum consultorum virorum prudentia, sed plusquam
trecentorum electorum hominum»57,
come era risaputo che si praticasse nel Parliamentum Angliae. Fortescue non ha esitazioni: la lex regia e il suo principio quod
principi placuit legis habet vigorem58, tanto
169
Fondamenti
caro agli assolutisti, non hanno cittadinanza in Inghilterra, dove i re – benché spesso
riluttanti – sono chiamati a governare regaliter e politice, nel pieno rispetto delle leggi
vigenti. La differenza con il mondo del ius
civile di matrice romana non può essere più
patente59: è nel continente, e soprattutto in
Francia, che i re, sulla base del diritto romano, e soprattutto sulla base della lex regia, «regulant plebem suam [si badi: plebs,
non populus, come in Inghilterra], quo ipsi
ad eorum libitum jura mutant, nova condunt, poenas infligunt et onera imponunt
subditis suis, propriis quoque arbitriis,
contendentium, cum velint, dirimunt lites»60 – che è il regno, appunto, del più
assoluto arbitrio.
L’idilliaco quadro offerto dal Fortescue,
forse consapevole di esprimere più che altro un wishful thinking, dovrà fare i conti
con i passaggi normativi a cui la vita parlamentare del regno inglese sarà costretta
a percorrere; a partire il Reformation Parliament, che tra il 1529 ed il 1536 impegnò
duramente i protagonisti della vita istituzionale d’oltre Manica, soprattutto in vista
del conflitto con la Chiesa romana. In particolare appare decisivo, dal nostro angolo
visuale, il Dissolution of the Lesser Monasteries Act del 153661, la norma sollecitata da re
Enrico VIII ed approvata dal Parlamento –
secondo lo schema tipico del King-in-Parliament –, con la quale venivano espropriati
e devoluti alla Corona i beni dei monasteri
minori62. Già Frederick William Maitland,
nella sua storia costituzionale inglese63,
aveva individuato proprio in quella norma
un elemento di rottura con il tradizionale ordine giuridico medievale, in quanto
essa avrebbe espresso una chiara supremazia del potere legislativo parlamentare
(statute-making power) anche in deroga alle
170
consuetudini e alle leggi fondamentali, tra
le quali – ed è questo un dato ulteriore da
porre in debito rilievo in questa sintesi – è
collocato a pieno titolo il diritto di proprietà. Del resto, lo stesso Fortescue aveva
messo in evidenza come l’Inghilterra fosse
un regno dove «nec impune quisque bona
alterius capit sine voluntate proprietarii
eorundem…»; e questo valeva anche per il
re, «quia nullius subditorum suorum bona
juxta leges illas ipse deripere potest sine
satisfactione debita pro eisdem»64. Ma,
evidentemente, il Dissolution Act si poneva
già in un’ottica assai diversa, orientata verso la supremazia degli statutes.
Ora, la specificità del caso inglese poneva un ulteriore aspetto problematico al processo di affermazione del potere legislativo
quando indirizzato alla deroga del patrimonio consuetudinario tradizionale e alle cosiddette leggi fondamentali, in quanto quel
potere era considerato paritariamente in
capo al re e al parlamento. In realtà, già nel
1539 il Proclamation by the Crown Act affiancava al normale statute-making anche un
potere specifico riconosciuto al re – all’epoca ancora Enrico VIII – di emettere proclamations, le quali, benché non potessero
contenere confische o pene capitali, rappresentavano un attentato all’equilibro dei
poteri finora, bene o male, operanti. Nessuna meraviglia quindi se già con Edoardo
VI, nel 1547, il Proclamation Act fu abrogato. Su questa medesima linea di equilibrio
costituzionale, va segnalato anche il Case of
Proclamations del 1610, con cui la Court of
Common Pleas, allora presieduta dal grande
Edward Coke, ribadì il divieto di derogare
alla common law mediante proclami regi:
in particolare vi si affermava che «the King
cannot change any part of the common law,
nor create any offence by his proclamation,
Tavilla
which was not an offence before, without parliament» e, ancor più nettamente,
che «the King has no prerogative but that
which the law of the land allows him»65.
Certo il clima dovette drasticamente mutare, ben più di quanto Giacomo I vi
avesse già contribuito, con il figlio Carlo
I66: fu proprio il potenziale scontro con
quel sovrano – poi divenuto aperto e fatale – a dar vita alla celebre Petition of Right
del 1628, nella quale sono ribaditi molti dei
punti già presenti nella Magna Charta, quali
il divieto di imporre tributi senza l’approvazione del parlamento e la legalità delle
carcerazioni. Sappiamo come questo passaggio non valse ad impedire la guerra civile e il suo drammatico esito. Possiamo qui
limitarci a ricordare come la gloriosa triade
delle cosiddette carte costituzionali inglesi,
dopo la Magna Charta e la Petition of Right, si
sia completata con il Bill of Right del 168967,
con cui la monarchia inglese, ora in mano
di un Orange, veniva sottoposta ad una serie di limiti (rights and liberties), ormai da
considerarsi consolidati: i sovrani, tra l’altro, perdevano la prerogativa di sospendere
il vigore di una legge o di instaurare la legge
marziale, di mantenere un esercito permanente in tempo di pace senza il consenso
del parlamento e di prevalere sul common
law con singoli privilegi.
Proprio la storia inglese, dalla quale
il costituzionalismo contemporaneo verrà ispirato, sembra incarnare in maniera
esemplare la valenza contrattuale insita
nei suoi documenti più importanti: i grandi del regno o il parlamento propongono
umilmente quanto il re si impegna ad accogliere e a non violare. Tale valenza contrattuale, oltre a costituire uno dei motivi
più ricorrenti e di maggior portata del pensiero giusnaturalistico europeo, può essere
L’edizione originale del De iure belli ac pacis di Ugo
Grozio, Parigi, 1625
individuata in molti esiti delle vicende politiche europee. Per quanto meno esemplari e mitizzati delle carte inglesi, sono molti
i patti giurati, capitoli o accordi di governo
che si registrano nel secolo cruciale per la
formazione degli Stati moderni.
Si noti come, nell’età in cui si affermavano prepotentemente le raffigurazioni di
una potestà sovrana ab-soluta dal vincolo
della legge – e ne abbiamo visto, pur sommariamente, le reazioni uguali e contrarie –, venissero opposti, contro l’arcinoto
principio della lex regia68, per un verso il
riferimento agli imperialii contractus legis
vicem obtinentes contenuto in una costituzione giustinianea (C.16.26) e, per l’altro,
il passo di Baldo degli Ubaldi espresso in
occasione della lettura proprio all’Ulpiano di D.1.4.1: «Licet princeps non ligetur
171
Fondamenti
lege legis, ligatur lege conventionis»69.
Insomma, legibus solutus non voleva affatto
dire contractibus solutus: così come i sudditi
sono tenuto al rispetto della legge, i sovrani
lo sono in virtù di vincoli contrattuali.
Ad una lettura di tipo contrattuale era
passibile non soltanto la Magna Charta inglese, ma anche, per restare tra i documenti medievali di lunga durata, anche se meno
branditi dalla dottrina e dalla storiografia,
la Joyeuse Entrée de Brabant del 1356, carta
delle libertà (fiscali e giudiziarie) stipulata tra i rappresentanti di nobiltà clero e
città e la sovrana Giovanna di Brabante70,
considerata una delle fonti storiche della
costituzione belga del 7 febbraio 1831. Ma,
per tornare all’età moderna oggetto della
nostra attenzione, possiamo ricordare le
libertà, i privilegi e le franchigie riconosciute in vim contractus da Francesco I di
Valois agli Stati della Bretagna nel 1515 e a
quelli della Linguadoca nel 1522. Né è possibile tralasciare la capitolazione elettorale
di Francoforte con cui l’imperatore Carlo V
d’Asburgo si impegnava a far osservare le
leggi dell’Impero e di modificarle solo con
il consenso dei principi elettori e dei Länder, documento considerato dalla dottrina
di diritto pubblico tedesco come una delle
fonti dei Grundgesetze. Sullo stesso piano,
memorabile fu anche lo scontro che oppose Ferdinando I, fratello di Carlo V, alla
Boemia, che gli riconobbe i diritti ereditari
solo con la dieta e la relativa capitolazione
del 1545. Inoltre, per restare nella medesima area mitteleuropea, va almeno accennato al passaggio di consegne dei diritti
sovrani sull’Ungheria dagli Jagelloni agli
Asburgo, trasferimento che fu accompagnato da una lunga serie di capitolazioni e
di convenzioni sistemate nel 1514 dal giurista István Werböczy nel suo Tripartitum,
172
opus juris consuetudinarii inclyti Regni Hungariae. E che dire, infine, della Polonia? La
dieta polacca, che procedeva direttamente
all’elezione del re, aveva nel 1501 approvato la legge de non praestanda oboedientia,
conferente ai sudditi – ma in concreto alla
Szlachta, il ceto aristocratico polacco – uno
jus resistendi in caso di esercizio illegittimo
della sovranità. Inoltre, la legge Nihil novi,
approvata dal re Alessandro Jagellone nel
1505, avrebbe impedito ai sovrani qualsiasi
mutamento all’ordinamento vigente senza
il consenso della medesima nobiltà riunita nella Camera dei deputati e nel Senato
della Polonia. E infine, per chiudere questa
precipitosa rassegna, segnaliamo i celebri
Pacta conventa del 1573, con cui la dieta polacca poneva forti limiti al potere del futuro
re di Francia Enrico di Valois, trovatosi a
cingere la corona di Polonia per poco più di
un anno, tra il 1573 e il ’74.
Scrive bene Angela De Benedictis, che
ha valorizzato molti degli esempi poc’anzi
enumerati71, quando nota che la «relazione tra principe e popolo veniva intesa
come una “mutuo consensu et publice contracta obligatio”» e come la «costituzione
dell’ordine statale da parte di parti contraenti un patto era concretamente resa nella
figura giuridica della lex fundamentalis»72.
Si veniva quindi ad instaurare una netta
relazione tra il momento convenzionale
del pactum o della capitolatio e il complesso
delle leges fundamentales, nell’alveo delle quali patti e capitolazioni accedevano
col valore di patrimonio consuetudinario
fondativo del rapporto tra sudditi e corona, anche grazie all’incessante lavorìo di
sistemazione e di conferimento di ‘senso’
storico-politico operato dalla dottrina giuridica73.
Tavilla
La stessa De Benedictis, che alle istituzioni e ai patti di governo dell’area imperiale ha dedicato opportuno spazio, rileva
il grande impegno con cui la giuspubblicistica sei e settecentesca ha evidenziato il
carattere contrattuale costantemente ravvisabile nelle delibere delle diete, recepite
dall’imperatore mediante i Reichsabschiede:
il contratto era quindi «considerato come
il più alto e sicuro strumento per raggiungere forza vincolante, per quanto lo stesso
principe fosse o potesse essere al di sopra
del diritto»74. Contratto vince legge, potremmo grossolanamente riassumere: dalla seconda il sovrano può prescindere, non
dal primo, ritenuto insuperabile.
Credo che l’insistenza con cui il paradigma contrattuale fu impiegato nella prassi dei rapporti politici tra sovrano e rappresentanze cetual-territoriali non sia del
tutto ininfluente nell’affermazione e nella
diffusione di quel medesimo paradigma
sul piano della rappresentazione teorica.
Il modello con cui l’archetipo pattizio viene piegato dal giusnaturalismo – nelle sue
molteplici varianti, da quella hobbesiana a
quella pufendorfiana, a quella, infine, lockiana – raggiunge l’obiettivo di collocare
il consensus sulla linea strategica di confluenza dello stato naturale in quello sociale e di assumerlo quale fonte logicamente
e cronologicamente primaria dello Stato.
L’assolutizzazione del modello consensualcontrattuale, il quale su un altro piano,
quello della prassi, serviva quale strumento giuridico di qualificazione dei rapporti
politici, ne prefigurava in definitiva la sua
‘neutralizzazione’. Alla pluralità dei pacta
tra corpi e sovrano il giusnaturalismo contrattualista affiancava, per sostituirlo, il
singolo pactum originario della costituzione dello Stato. Del resto, ancor prima che
si affermasse la vulgata groziana, Johannes
Althusius, nella sua Politica methodice digesta75, sosteneva che la sovranità non aveva
potere originario, bensì derivato, in quanto è la consociatio – composta di comunità,
provincie e terre – ad avere la titolarità del
potere, pur essendo incapace di esercitarlo
in proprio76.
Come già affermato in premessa, non
intendo qui ripercorrere le linee dell’elaborazione del giuscontrattualismo di matrice groziana, la cui decisività è stata ribadita da una ininterrotta linea storiografica.
In questa sede invece mi preme sottolineare come il pattismo praticato tra Quattro e Cinquecento sia cosa ben diversa dal
contrattualismo teorico sei-settecentesco.
È fondato il valore costituzionale che una
certa storiografia ha attribuito al primo,
finalizzato alla limitazione del potere monarchico e alla tutela delle libertà cetuali
e territoriali; solo del secondo, invece, è
possibile parlare nel senso di una individualizzazione del rapporto politico svincolato dalla concreta dialettica dei poteri corporativi e radicato invece nell’assolutezza
neutralizzante dei diritti soggettivi naturali, non più oggetto di negoziazione, bensì
ricondotti alla loro radice extra-storica77:
diritti, come si direbbe oggi, non negoziabili, ma suscettibili soltanto di norme dichiarative.
I distinguo, forse alquanto brutali, ma
che ritengo assolutamente necessari per
scongiurare interpretazioni indebite dei
processi storici concretamente operanti,
non impediscono certo, e anzi in qualche
misura autorizzano ad individuare elementi di contatto tra pratiche pattizie ed ideologie contrattualistiche, tanto più ricchi di
implicazioni quando metabolizzati da una
dottrina giuridica attenta al dato storico,
173
Fondamenti
più che a quello ideal-tipico o metastorico.
Stolleis a questo proposito ha parlato di un
diritto di natura concreto78, con riferimento
ad autori quali Johann Wolfgang Textor, il
quale, insieme a Samuel Pufendorf, aveva
studiato a Jena sotto il magistero dell’olandese Dominikus Arumaeus, autore
quest’ultimo dei cinque tomi dei Discursus
academici de iure publico79, con i quali si
procede alla «penetrazione del diritto costituzionale vigente in quella materia accademica chiamata politica, cui corrisponde
la graduale estromissione del diritto romano dallo jus publicum»80. Sulla scia dell’insegnamento del maestro, Textor era giunto
a negare che l’impero potesse identificarsi
con la monarchia, «evidenziando come
gradualmente i diritti imperiali abbiano
ceduto il posto alle capitolazioni elettorali, con la conseguente divisione dei diritti
di maestà tra imperatore e ceti» e sottolineando, inoltre, «il carattere contrattuale
delle diete»81. Del resto, sulla stessa linea
si poneva Pufendorf, il quale, non soltanto rilevava come alcuni prìncipi tedeschi
fossero ormai da considerarsi «quasi reges», ma teneva a ribadire nelle pagine del
De Statu Imperii Germanici – edito nel 1667
con lo pseudonimo, com’è noto, di Severino Monzambano – la natura “irregolare”
dell’impero germanico a causa di una sovranità non unitaria, arrivando a concludere come tale disomogeneità potesse rappresentare una minaccia alla struttura e alla
solidità dello Stato medesimo82.
Bisognerà attendere la sistemazione di
colui che è considerato il padre del diritto
costituzionale tedesco, Johann Jakob Moser, realizzata mediante il monumentale
Teutsches Staatsrecht83, per ordinare l’intricata trama dei rapporti giuridici tra le varie realtà istituzionali germaniche secondo
174
una chiave interpretativa che faceva della
dimensione storica un elemento essenziale ed irrinunciabile. Sarebbe interessante – ma debordante gli stretti limiti della
presente sintesi – dar saggio dell’uso della
ricerca storica praticata da tutta una scuola
giuspubblicistica tedesca, che alla documentazione del passato ricorreva per tracciare le linee portanti di quella architettura
complessa e plurale che era l’Impero.
È questo quadro comunque che ha consentito a Erwin Hölzle di sottolineare come
«il diritto dello Stato per ceti» abbia «contribuito in modo sostanziale alla formazione del diritto naturale moderno» e come,
in «questo processo di sviluppo, le libertà
degli antichi ceti» siano state «trasformate
nella libertà, nel senso del diritto naturale»84. Secondo Hölzle è proprio il ricorso
alla storia, e più precisamente alle origini
storiche del fondamento della sovranità,
che ha consentito alla giuspubblicistica europea d’età moderna di evocare in quel lontano passato un contatto con la natura e con
il diritto che dalla natura spontaneamente
sgorga:
Se è il diritto di epoche più antiche, delle origini,
ad essere richiamato, allora si tratta di un diritto
molto legato alla natura e perciò molto vicino al
diritto naturale. Questa vicinanza diventa manifesta nel concetto di contratto sociale, che, in
parte, è dedotto dalla natura dell’uomo, in parte
è inteso dal punto di vista storico-genetico. […]
Il diritto veniva preteso come diritto storico, il
suo valore consisteva proprio nella sua conferma
attraverso la storia85.
Si arriva persino a ritenere, con un suggestivo paradosso, come la tanto declamata
forma assolutista dello Stato moderno non
sia altro che una «una fase di transizione»,
per usare l’espressione di Otto Hintze86,
tra lo Stato per ceti e lo Stato moderno pro-
Tavilla
priamente detto. La reazione corporativa
di quello Stato per ceti avverso i conati accentratori dello Stato assolutista avrebbe
portato quindi alla teorizzazione di ambiti
‘naturali’ di libertà, accompagnata da una
prassi politica di rappresentatività dei ceti
medesimi che sarebbe alla base della intensificazione dell’attività statale.
Questa accentuazione del contesto politico d’area tedesca, area in cui peraltro la
dottrina di diritto pubblico – è bene sottolinearlo – ebbe sviluppo e primazia indiscutibili, non vuol dire che anche altre
aree, come già in parte è stato illustrato,
non abbiano fatto emergere elementi ed
aspetti in seguito utilizzati dal primo costituzionalismo moderno. Di Ancient Constitution si parla correntemente in Inghilterra
già dalla metà del Seicento, in riferimento
al ruolo del Parlamento – e ben sappiamo
come il mito della Happy Constitution inglese produrrà suggestioni fortissime in autori
settecenteschi come Montesquieu e JeanLouis De Lolme87. Tra la fine del Seicento
e i primi anni del Settecento in Francia si
registra una letteratura che, opponendosi alle modalità di governo di Luigi XIV, fa
riferimento ad una “antica costituzione”
francese – che Saint-Simon, ad esempio,
identifica con un patto, osservato per prassi, che garantisce le prerogative dei ceti e
dei corpi intermedi88. Gerhard Oestreich
individua invece nella Spagna la patria di
un «diritto naturale europeo fondato sulla
libertà, in quanto antagonista delle dottrine
assolutistiche», il quale poi venne tra l’altro «recepito dall’ambiente impregnato di
vita per ceti dei Paesi Bassi»89: come non
ricordare, in effetti, l’atto ‘costituente’ con
cui gli Stati Generali delle Province Unite
proclamavano il 26 luglio 1581 la decadenza
di Filippo II come sovrano dei Paesi Bassi,
dichiarando che «Dio non ha creato i popoli schiavi dei loro prìncipi»?90
Due secoli più tardi le colonie americane, sulla base di un diritto di resistenza
rivisitato a fine Seicento da John Locke,
potevano dichiarare la loro condizione di
Stati indipendenti: il giusnaturalismo e il
giuscontrattualismo raccoglievano i loro
più vistosi frutti. Eppure di quei frutti si
erano già intravisti i germogli, prima che
nelle pagine dei trattati politico-filosofici,
nelle prassi di governo e negli assetti consuetudinari tenacemente opposti alle mire
accentratrici dei prìncipi europei cinque e
seicenteschi. Il valore contrattuale dei patti
giurati, delle capitolazioni e di certe leggi; la
limitazione della sovranità attraverso l’affermazione di libertà e prerogative cetuali
e territoriali; l’individuazione di un patrimonio di regole fondamentali fatte assurgere a fattore identitario, e nel medesimo
tempo contenitivo, del potere politico; e,
last but non least, il rispetto della proprietà
come requisito insuperabile del rapporto originario tra suddito e sovrano – sono
tutti elementi con cui il costituzionalismo
settecentesco, ereditandoli dal contesto
giuridico-politico europeo dei due secoli
precedenti, costruì i suoi primi edifici.
Solo nella piena consapevolezza di questo percorso – che è prima di tutto un percorso storico-giuridico – può assumere
illuminante consistenza l’insegnamento di
Nicola Matteucci, che definiva il costituzionalismo come «la tecnica giuridica delle
libertà», vale a dire come quel laboratorio
teorico che «non guarda tanto a “chi” deve
governare, ma a “come” si deve governare,
perché mira soprattutto a una limitazione
del governo attraverso il diritto»91.
175
Fondamenti
* Il saggio qui presentato è il frutto
elaborato di una relazione svolta
al convegno L’ordine costituzionale
come problema storico, organizzato
dalla Società Italiana di Storia del
Diritto e tenutosi a Parma nelle
giornate del 15 e del 16 dicembre
2011.
1 Una dimensione costituzionale è
stata colta, per ultimi, dai contributi di C. Povolo, Un sistema giuridico repubblicano: Venezia e il suo
stato territoriale (secoli XV-XVIII), e
di R. Savelli, Che cosa era il diritto
patrio di una repubblica?, entrambi
in I. Birocchi, A. Mattone (a cura
di), Il diritto patrio tra diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX),
Roma, Viella, 2006, rispettivamente alle pp. 297 ss. e 255 ss.
2 Soprattutto quelle del saggio Il
‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato, in G.
Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a
cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra
medioevo ed età moderna, Bologna,
Il Mulino, 1994, pp. 553 ss.
3 Mi riferisco naturalmente al
classico Land und Herrschaft.
Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Südostdeutschlands im Mittelalter, Baden bei
Wien, Rohrer (1939); tr. it. Terra e
potere, Milano, Giuffrè, 1983, specialmente alle pp. 157 ss., oltreché
ai saggi composti tra il 1939 ed il
1958 e riuniti sotto il titolo Neue
Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Göttingen, Vandenhoeck
& Ruprecht (1968); tr. it. a cura
di P. Schiera, Per una nuova storia
costituzionale e sociale, Milano,
Vita e Pensiero, 1970, in ispecie il
saggio I diritti di libertà nell’antica
società per ceti, pp. 201 ss.
4 O anche di “costituzioni” per ceti:
cfr. ad es. O. Hintze, Tipologia delle costituzioni per ceti in occidente,
in Id., Stato e società, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 222 ss. Sul radicamento “regionale” dello Stato
– o sistema – per ceti, insiste D.
Gerhard, Regionalismo e sistema
per ceti: tema di fondo della storia
europea, in E. Rotelli, P. Schiera (a
cura di), Lo Stato moderno, vol. I:
Dal medioevo all’età moderna, Bo-
176
5
6
7
8
9
10
11
12
13
logna, Il Mulino, 1971, pp. 193 ss.
Chittolini, Il privato cit., pp. 567568.
Ivi, p. 569.
Luca Mannori ha opportunamente notato come «Lo sgretolarsi
[…] dell’immagine dello Stato
moderno come entità monolitica
ed omogenea, come grande progetto artificiale impostosi vittoriosamente sull’entropia della
storia», sia destinato in realtà ad
aprire «un nuovo spazio di ricerca», a condizione però di «cominciare a pensare un’indagine
di segno opposto rispetto a quella
praticata per lungo tempo dagli
storici delle istituzioni», cioè
evitando di «cercare a ritroso, in
un passato sempre più remoto,
i presunti tratti originari dello
Stato moderno», L. Mannori,
Genesi dello Stato e storia giuridica
[a proposito di: Origini dello Stato. Processi di formazione statale in
Italia fra medioevo ed età moderna,
a cura di G. Chittolini, A. Molho,
P. Schiera, Bologna, Il Mulino,
1994], in «Quaderni fiorentini»,
n. 24, 1995, p. 504. Una rassegna
critica sulla relativa storiografia
in L. Blanco, Note sulla più recente
storiografia in tema di ‘Stato moderno’, in «Storia. Amministrazione.
Costituzione. Annali dell’Istituto
per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica», n. 2, 1994, pp.
259 ss.
Si vedano a tal proposito le penetranti osservazioni in D. Quaglioni, La sovranità, Roma-Bari,
Laterza, 2004, pp. 45 ss.
M. Fioravanti, Stato e costituzione,
in Id. (a cura di), Lo Stato moderno
in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 3-14.
Ivi, p. 13.
L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari,
Laterza, 2001, pp. 5 ss.
Ivi, pp. 13.
Alberico Gentili, Regales disputationes tres, vol. I: De potestate Regis
absoluta, Londini, apud Thomam
Vautrollerium, 1605, pp. 10-11.
Cfr. D. Panizza, Il pensiero politico
di Alberico Gentili. Religione, virtù
14
15
16
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20
21
22
e ragion di stato, in Alberico Gentili. Politica e religione nell’età delle
guerre di religione, Atti del convegno (San Ginesio, 17 maggio
1987), Milano, Giuffrè, 2002, p.
182.
Un «fatto rivoluzionario», come
lo definisce Nicola Matteucci in
Le origini del costituzionalismo moderno, in L. Firpo (a cura di), Storia delle idee politiche economiche e
sociali, Torino, UTET, 1980, vol. I,
p. 567.
M. Stolleis, Stato e ragion di Stato
nella prima età moderna, Bologna,
Il Mulino, 1998, vol. I, p. 146.
Cfr. P.D. Stewart, Innocent Gentillet e la sua polemica antimachiavellica, Firenze, La Nuova Italia,
1969.
I. Gentillet, Discours sur les moyens
de bien gouverner et maintenir en
bonne paix un Royaume ou autre
Principauté, divisé in trois parties,
assavoir, du Conseil, de la Religion et
de la Police que doit tenir un Prince,
contre Nicolas Machiavel Florentin,
[Genève], s.e., 1576. Pubblicato
anche come Anti-Machiavel (cfr.
ed. par C.E. Rathé, Genève, Droz,
1968).
Gentillet, Discours cit., p. 49. Sulla
centralità della Legge salica, Guillaume Postel pubblicò nel 1522 un
volumetto (La loy Salique. Les origines et auctoritez de la Loy Gallique
nommée communement Salique,
Paris, en la rue Sainct Jacques aux
Cicongnes, 1522): cfr. S. Testoni
Binetti, Casualità e contingenza
nella definizione delle leggi fondamentali. Guillaume Postel e il dibattito sulla legge Salica, in F. Biondi
Nalis (a cura di), Studi in memoria
di Enzio Sciacca, vol. I: Sovranità, democrazia, costituzionalismo,
Milano, Giuffrè, 2008, pp. 425.
Si veda anche R.E. Giesey, Le rôle
méconnu de la loi Salique. La succession royale, XIVe-XVIe siècles,
Paris, Les Belles Lettres, 2007.
Gentillet, Discours cit., p. 51.
Ivi, p. 50.
Ivi, p. 48.
Staatsverfassung und Mächtepolitik. Zur Genese von Staatenkonflikten im Zeitalter des Absolutismus,
Tavilla
23
24
25
26
27
28
Berlin, Duncker & Humblot,
1979, pp. 49 ss.
Fundamental Law and the Constitution in Sixteenth-Century France,
in R. Schnur (Hrsg.), Die Rolle der
Juristen bei der Entstehung des modernen Staats, Berlin, Duncker &
Humblot, 1986, pp. 327.
Die Lehre von der “Lex Fundamentalis” und die Hausgesetzgebung europäischer Dynastien, in J. Kunisch
(Hrsg.), Der dynastische Fürstenstaat. Zur Bedeutung von Sukzessionsordnungen für die Entstehung
des frühmodernen Staates, Berlin,
Duncker & Humblot, 1982, pp. 3
ss.; Von den “leges fundamentales”
zur modernen Verfassung in Europa.
Zum begriffs-und dogmengeschichtlichen Befund (16.-18. Jahrhundert), in «Ius Commune», n. 25,
1998, pp. 121 ss.; Öffentliches Recht
in Gestalt der “Leges Fundamentales” in mittelalterlichen Alten Reich,
in «Giornale di storia costituzionale», n. 21, 2011, pp. 25 ss.
J.A. Maravall, Le origini dello Stato
moderno, in E. Rotelli, P. Schiera
(a cura di), Lo Stato moderno, vol.
I: Dal medioevo all’età moderna,
cit., p. 82.
I. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine.
Fonti e cultura giuridica nell’età
moderna, Torino, Giappichelli,
2002, pp. 98-99. Osservazioni
importanti dello stesso Italo Birocchi sul tema delle leggi fondamentali in rapporto con il costituzionalismo moderno in La carta
autonomistica della Sardegna tra
antico e moderno. Le “leggi fondamentali” nel triennio rivoluzionario
(1793-96), Torino, Giappichelli,
1992, in particolare alle pp. 159
ss.
Cfr. P. Prodi, Il sacramento del
potere. Il giuramento politico nella
storia costituzionale dell’Occidente,
Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 197
ss.
Su cui si vedano i vari saggi raccolti nel volume El pactismo en
la historia de España, Madrid,
Instituto de España, 1980, in
particolare quello di J. Vallet de
Goytisolo, Valor jurídico de las leyes
paccionadas en el Principado de Ca-
29
30
31
32
33
34
35
taluña, pp. 75 ss.
Stolleis, Stato e ragion di Stato cit.,
p. 151.
Mannori-Sordi, Storia del diritto
amministrativo cit., p. 18.
P. Costa, Democrazia politica e
Stato costituzionale, Napoli, ESI,
2006, p. 9.
C. de Seyssel, La Grande Monarchie de France, Paris, par Regnault Chauldière, 1519.
Il passo di Seyssel è stato recentemente ripreso da M. Caravale,
Alle origini del diritto europeo. Ius
commune, droit commun, Common Law nella dottrina giuridica
della prima età moderna, Bologna,
Monduzzi, 2005, p. 156. Nelle
pagine a seguire il medesimo A.
passa in rassegna il dibattito dei
giuristi francesi cinque-secenteschi circa la consistenza e l’efficacia delle loix fondamentales. Sul
Seyssel politico e storico, si veda
il volume collettivo P. EichelLojkine (éd.), Claude de Seyssel.
Écrire l’histoire, penser la politique
en France, à l’aube des temps modernes, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2010, in particolare il saggio di J.M. Constant,
La monarchie tempéré prônée par
Claude de Seyssel: une idée d’avenir
dans le monde politique français,
aux XVIe et XVIIe siècles, pp. 153 ss.
É. Pasquier, Les recherches de la
France, ruveuës et augmentées de
quatre livres, Paris, chez Iamet
Mettayer et Pierre l’Huillier,
1596. Sul Pasquier, V. Piano Mortari, Diritto romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 109 ss.; D.
Thickett, Estienne Pasquier (15291615). The Versatile Barrister of 16th
Century France, London, Regency,
1979; Matteucci, Le origini del costituzionalismo cit., pp. 576-578 e
596-599; M. Yardeni, Enquêtes sur
l’identité de la “nation France” de la
Renaissance aux Lumières, Seyssel,
Champ-Vallon, 2004, pp. 71 ss.;
J.H. Dahlinger, Étienne Pasquier
on Ethics and History, New York,
Peter Lang, 2007.
J. de Coras, Question politique: s’il
est licite aux subjects de capituler
36
37
38
39
40
41
42
43
avec leur prince (1570), ed. R.M.
Kingdon, Genève, Droz, 1989.
F. Hotman, Franco-Gallia (1573),
ed. by R.E. Giesey, Cambridge,
Cambridge University Press,
1972.
Cfr. D.R. Kelley, François Hotman.
A revolutionary’s ordeal, Princeton, Princetown University Press,
1973; C. Vivanti, Assolutismo e tolleranza nel pensiero politico francese
del Cinque e Seicento, in Firpo (a
cura di), Storia delle idee cit., vol.
4/I, pp. 41 ss.; J.G.A. Pocock, The
Ancient Constitution and the Feudal
Law. A Study of English Historical
Thought in the Seventeenth Century.
A Reissue with a Retrospect, Cambridge, Cambridge University
Press, 1987, pp. 16 ss.; P. Costa,
Civitas. Storia della cittadinanza in
Europa, vol. 1: Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 81 ss.; P.A. Mellet, Les Traités Monarchomaques.
Confusion des temps, résistance
armée et monarchie parfaite (15601600), Genève, Droz, 2007.
A. Marongiu, Il Parlamento in Italia nel medio evo e nell’età moderna.
Contributo alla storia delle istituzioni parlamentari dell’Europa occidentale, Milano, Giuffrè, 1962,
p. 558; Id., Dottrine e istituzioni
politiche medievali e moderne. Raccolta, Milano, Giuffrè, 1979, pp.
315-317 e 367-368.
Cfr. Marongiu, Dottrine cit., pp.
322-323.
Costa, Civitas cit., pp. 70-71.
Il passo è opportunamente valorizzato da D. Quaglioni, I limiti
della sovranità. Il pensiero di Jean
Bodin nella cultura politica e giuridica dell’età moderna, Padova,
CEDAM, 1992, p. 22.
Si vedano i contributi raccolti
da M. Gaille-Nikodimov in Le
Gouvernement mixte. De l’idéal
politique au monstre constitutionnel en Europe (XIIIe-XVIIe siècle),
Publications de l’Université de
Saint-Étienne, Saint-Étienne,
2005. Cfr. anche M. Fioravanti,
Costituzione, Bologna, Il Mulino,
1999, pp. 51 ss.
J. Aylmer, An Harborowe for Faith-
177
Fondamenti
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46
47
ful and Trewe Subjectes, agaynst
the late blowne Blaste, concerninge
the Governmente of Wemen, wherin be confuted all such reasons as
a stranger of late made in that behalf, with a breife exhortation to
Obedience, Strasborowethe [i.e.
London, by John Day] 1559, rist.
Amsterdam, Theatrum Orbis
Terrarum, 1972. Cfr. P.A. Lee, ‘A
Body Politique to Governe’: Aylmer,
Knox and the debate on Queenship,
in «The Historian», n. 52, 1990,
pp. 242 ss., e A.N. McLaren, Political Culture in the Reign of Elizabeth
I: Queen and Commonwealth, 15581585, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, pp. 59 ss.
Pubblicato postumo a Londra nel
1583. L’edizione più recente è a
cura di M. Dewar, edito a Cambridge, Cambridge University
Press, 2009. Cfr. M Dewar, Sir
Thomas Smith. A Tudor Intellectual
in Office, Athlone Press, London,
1964.
L. Le Caron (pseud. Charondas),
Panégyrique III: du Devoir des magistrats…, Paris, R. Estienne,
1567. Su Le Caron, M. Foisil, La
loi et le monarque absolue selon les
Pandectes ou Digestes du droit français de Charondas le Caron (XVIe s.),
in La formazione storica del diritto
moderno in Europa, Atti del III
Congresso internazionale della
Società Italiana di Storia del Diritto (Firenze 25-29 aprile 1973),
Firenze, Olschki, 1977, vol. I, pp.
221 ss.
B. de Girard du Haillan, De l’Estat
et Succez des affaires de France…,
Paris, P. L’Huiller, 1571. Cfr. V. De
Caprariis, Propaganda e pensiero
politico in Francia durante le guerre
di religione, Napoli, ESI, 1959, vol.
I, pp. 257 ss.
P.C. Ramirez, Analyticus tractatus
de lege regia, qua in principes suprema et absoluta potestas translata
fuit, cum quadam corporis politici
ad instar phisici, capitis et membrorum connezione, Caeseraugustae,
apud Ioanne à Lanaja & Quartanet, 1616. Cfr. P. Fernández Albaladejo, Materia de España. Cultura
politica e identidad en la España
178
48
49
50
moderna, Madrid, Marcial Pons,
2007, pp. 65 ss.
C. Besold, Dissertatio singularis
de statu reipublicae mixto, in Id.,
Dissertatio politico-iuridica de
majestate in genere eiusque juribus
specialibus, in tres sectiones distributa, Argentorati, sumptibus
haeredum Lazari Zetzneri, 1625,
pp. 210 ss. Cfr. M. Stolleis, Storia
del diritto pubblico in Germania,
vol. I: Pubblicistica dell’Impero e
scienza di polizia, 1600-1800, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 116-117,
160-161, e R. von Friedeburg, The
juridification of natural law: Christoph Besold’s claim for a natural
right to believe what one wants, in
«The Historical Journal», n. 53.1,
2010, pp. 1 ss. Si veda anche M.
van Gelderen, Q. Skinner, Republicanism and Constitutionalism in
Early Modern Europe, Cambridge,
Cambridge University Press,
2002, vol. I, pp. 211-212.
B. Carpzov, De Capitulatione Caesarea, sive de Lege regia Germanorum tractatus, Bicurgicorum
Metropoli, impensis J. Birckneri, 1623, a cui farà seguito, dello
stesso Autore, il Commentarius
in legem regiam Germanorum, sive
capitulationem
imperatoriam…
Accessit tenor capitulationum Caroli
V, Ferdinandi I, Maximiliani II…,
Lipsiae, sumptibus A. Kühnen,
1640. Cfr. R. Hoke, Die Souveränitätslehredes Benedict Carpzov, in
H. Haller, C. Kopetzki, R. Novak,
S. L. Paulson, B. Raschauer, G.
Ress, E. Wiederin (Hrsg.), Staat
und Recht. Festschrift für Günther
Winkler, Wien, Springer, pp. 319
ss. Sul Carpzov, si veda da ultimo
il volume collettaneo curato da G.
Jerouschek, W. Schild, W. Gropp,
Benedict Carpzov: Neue Perspektiven
su einem umstrittenen säschischen
Juristen, Tübingen, Edition diskord, 2000.
J. Limnaeus, Tomus primus iuris
publici imperii Romano Germanici, quo tractatur de principiis iuris
publici, de Germanorum origine,
Argentoratim typis & sumptibus Friderici Spoor, 1657. Cfr.
Stolleis, Storia del diritto pubbli-
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59
co in Germania, vol. I, cit., pp.
270-271. Sul Limnaeus, R. Hoke,
Die Reichsstaatsrechtslehre des Johannes Limnaeus. Ein Beitrag zur
Geschichte der deutschen Staatswissenschaft im 17. Jahrhundert,
Aalen, Scientia Verlag, 1968.
Cfr. Fioravanti, Costituzione cit.,
pp. 71 ss.
Cfr. A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2001,
pp. 214-215.
T. Hobbes, Behemoth, or the Long
Parliament, ed. by S. Holmes,
Chicago, Universty of Chicago
Press, 1990, pp. 116-117. La piena
sovranità della monarchia francese si contrapponeva, per Bodin,
alla deplumata aquila dell’impero
tedesco (cfr. Stolleis, Stato e ragion di stato cit., p. 223).
Cfr. R.D. Congleton, Perfecting
Parliament. Constitutional Reform,
Liberalism and the Rise of Western
Democracy, Cambridge, Cambridge University Press, 2011,
specialmente pp. 266 ss.
Cfr., ad es., G. Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Milano, Feltrinelli,
2006, pp. 24-25, e Costa, Civitas
cit., Roma-Bari, 1999, p. 33. Sul
testo alla base del costituzionalismo inglese si veda lo studio
fondamentale di J. C. Holt, Magna
Carta, Cambridge, Cambridge
University Press, 1992².
Un’efficace sintesi del pensiero
politico-giuridico del Fortescue
in A. Cromartie, Common law,
counsel and consent in Fortescue’s
political theory, in C. Carpenter,
L. Clark (eds.), The Fifteenth Century, vol. IV, Political culture in
late Medieval Britain, Woolbridge,
Boydell, 2004, pp. 45 ss.
J. Fortescue, De laudibus legum
Angliae, edited by S.B. Chrimes,
Cambridge, Cambridge University Press, 1942, p. 40.
Su tale formula, si vedano le notazioni ancor oggi assai suggestive
di Brunner, Terra e potere cit., pp.
552 ss.
In realtà il diritto romano ha
tramandato anche principî di
Tavilla
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sapore anti-assolutistico, come
quello di sottoposizione alla legge (Digna vox maiestate regnantis
legibus alligatum se principem profiteri, C.1.14[17].4) e di consenso rappresentativo (quod omnes
tangit, ab omnibus comprobetur,
C.5.59.5.2). Cfr. quanto rileva A.
Padoa Schioppa, Italia ed Europa
nella storia del diritto, Bologna, Il
Mulino, 2003, pp. 321-324 e 349352.
Fortescue, De laudibus legum Angliae cit., p. 80.
In J.R. Tanner, Tudor constitutional documents, A.D. 1485-1603, with
an historical commentary, Cambridge, Cambridge University
Press, 1930, pp. 58 ss.
Cfr. L.F. Solt, Church and State in
Early Modern England, 1509-1640,
Oxford, Oxford University Press,
1990, pp. 30 ss.
F.W. Maitland, The Constitutional
History of England. A course of lectures delivered, Cambridge, Cambridge University Press 1908, pp.
253 ss.
Fortescue, De laudibus legum Angliae cit., p. 86.
Cit. in R.F.V. Heuston, Essays in
constitutional law, London, Stevens & Sons, 1961, p. 60. Cfr.
anche Matteucci, Le origini del costituzionalismo cit., pp. 611-612.
Lo stesso Coke aveva già altrove
definito fundamental law quella
relativa all’intangibilità del common law: cfr. Caravale, Alle origini
del diritto europeo cit., p. 224. Sul
tema si veda anche J.W. Gough,
Fundamental Law in English Constitutional History, Oxford, Clarendon Press, 1955, pp. 30 ss. Su
Edward Coke e sulla sua influenza
sul costituzionalismo moderno, J.
Beauté, Un grand juriste anglais: Sir
Edward Coke (1552-1634). Ses idees
politiques et constitutionnelles ou
aux origines de la democratie occidentale moderne, Paris, Presses
Universitaires de Frances, 1975.
Si vedano anche L. D’Avack, Potere
legislativo e potere giurisdizionale
nel pensiero di Sir Edward Coke, in
Studi in onore di P.A. D’Avack, vol.
IV, Milano, Giuffrè, 1976, e Costa,
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76
Civitas cit., pp. 188 ss.
Sulle prerogative monarchiche
teorizzate e praticate dai due sovrani Stuart, G.A. Ritter, Diritto
divino e prerogative dei re inglesi,
1603-1640, in E. Rotelli, P. Schiera
(a cura di), Lo Stato moderno, vol.
III: Accentramento e rivolte, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 69 ss.,
nonché G. Burgess, Absolute Monarchy and the Stuart Constitution,
Yale, Yale University Press, 1996.
Su cui si veda almeno L.G. Schwoerer, The Declaration of Rights,
1689, Baltimore, John Hopkins
University Press, 1981.
Sul dibattito olandese (in particolare nelle opere di Gronov, Huber, il Perizonius e Schoock) relativo all’interpretazione da dare
alla lex regia – in realtà senatoconsulto più che legge – tra translatio
e concessio, si veda F. Lomonaco,
“Lex regia”: diritto, filologia e “fides
historica” nella cultura politico-filosofica dell’Olanda di fine Seicento,
Napoli, Guida, 1990.
Cfr. J. Canning, The Political
Thought of Baldus de Ubaldis,
Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 241.
Cfr. A. Clerici, Costituzionalismo,
contrattualismo e diritto di resistenza nella rivolta dei paesi Bassi
(1559-1581), Milano, Franco Angeli, 2004.
De Benedictis, Politica cit., pp.
288 ss.
Ivi, p. 292.
Cfr. Mohnaupt, Von den “leges fundamentales” cit.; Id., Öffentliches
Recht in Gestalt der “Leges Fundamentales” cit.
De Benedictis, Politica cit., p.
294.
J. Althusius, Politica methodice
digesta et exemplis sacris et profanis
illustrata, Herbornae Nassoviorum, ex Officina Christophori
Corvini, 1603.
Cfr. oltre alle classiche pagine di
O. von Gierke, Giovanni Althusius
e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche, Torino,
Einaudi, 1943, anche G. Duso,
Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius: la dottrina
77
del patto e la costruzione del regno,
in «Quaderni Fiorentini», n.
25, 1996, pp. 65-126; Costa, Civitas cit., pp. 88 ss.; D. Quaglioni,
Quale modernità per la “Politica”
di Althusius?, in «Quaderni fiorentini», n. 39, 2010, pp. 631 ss.
Si vedano anche i saggi riuniti da
F. Ingravalle e C. Malandrino nel
volume Il lessico della “Politica”
di Johannes Althusius. L’arte della
simbiosi santa, giusta, vantaggiosa
e felice, Firenze, Olschki, 2005.
Di philosophical contractarianism
(di matrice hobbesiana) non sovrapponibile a un constitutional
contractarianism ereditato dalla prassi istituzionale di lunga
durata parlano Harro Höpfl e
Martyn P. Thompson in The History of Contract as a Motif in Political
Thought, in «American Historical
Review», n. 84, 1979, pp. 919 ss.
Si legga in particolare quanto gli
Autori scrivono a p. 941: «The
history of contractualism subsequent to Hobbes is, indeed,
in part a record of the adaptations and modifications of the
language Hobbes consolitated.
This language spoke of “natural
right”, “natural liberty”, “natural
equality”, “condition of nature”,
“covenant”, and “sovereignity” –
best described as the language of
philosophical contractarianism,
because the theoretical ambitions
and the aimed-for generality of
thought of those who employed it
tended to be greater than that of
the alternative language, best described as constitutional contractarianism. This second language
set covenant within the terminological context of “fundamental
law”, “fundamental rights” or
“liberties”, “original contract”,
and “ancient” or “fundamental
constitution”. In constitutional
contractarianism particular positive laws and the institutional
inheritance of specific polities
were most relevant and important, rather than universal propositions about all men and all polities. This was, in effect, the direct
continuation of the kind of think-
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Fondamenti
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83
ing found in the works of Hotman,
Mornay, Bèze, and Althusius. The
contractual language consolidated by Hobbes – the language in
which the famous contractualist
treatises of Pufendorf, Spinoza, Locke, Thomasius, Christian
Wolff, Vattel, Rousseau and Fichte
were written – has received by far
the most attention in the secondary literature. Constitutional contractarianism has, by contrast,
been almost entirely neglected.
But the continuing and quite distinct tradition of constitutional
contractualism remained in vital
strand in the fabric of the early
history of contractarianism».
Stolleis, Stato e ragion di Stato cit.,
p. 122.
Jena, J. Beithmann, 1616-1623.
Stolleis, Stato e ragion di Stato cit.,
p. 121.
Ivi, p. 123.
Cfr. M. Stolleis, Textor und Pufendorf über die Ratio Status Imperii im
Jahre 1667, in R. Schnur (Hrsg.),
Staatsräson. Studien zur Geschichte eines politischen Begriffs, Berlin,
Duncker & Humblot, 1975, pp.
441 ss.
In 50 volumi (Nürnberg, Leipzig,
Ebersdorf, 1737-54). Sul Moser,
K.S. Bader, Johann Jacob Moser,
180
84
85
86
87
in M. Müller, R. Uhland (Hrsg.),
Lebensbilder aus Schwaben und
Franken, Stuttgart, Kohlhammer,
1960, pp. 92 ss.; R. Rürup, J.J. Moser. Pietismus und Reform, Wiesbaden, Steiner, 1965; E. Schömbs,
Das Staatsrecht Johann Jacob Mosers (1701-1785). Zur Entstehung
der historischen Positivismus in der
deutschen Reichspublizistik des 18.
Jahrunnderts, Berlin, Speyer &
Peters, 1968; M. Walker, Johann
Jakob Moser and the Holy Roman
Empire of the German Nation,
Chapel Hill, University of North
Carolina, 1981.
E. Hölzle, Frattura e continuità
nell’evoluzione moderna della “libertà” tedesca, in Rotelli, Schiera
(a cura di), Lo Stato moderno cit.,
vol. I, p. 95.
Ivi, p. 96.
O. Hintze, Condizioni storiche generali della costituzione rappresentativa, in Id., Stato e società cit.,
p. 133. Sul dibattito sulle costituzioni cetuali in area asburgica, L.
Bussi, Fra unione personale e Stato
sovranazionale. Contributo alla
storia della formazione dell’Impero
d’Austria, Milano, Giuffrè, 2003,
pp. 252 ss.
Cfr. C.P. Courtney, Montesquieu e
Burke, Oxford, Blackwell, 1963.
88
89
90
91
Cfr. E. Sciacca, Il problema del costituzionalismo nella storia del pensiero politico moderno. Alcune questioni metodologiche, ora in Studi
in memoria di Enzo Sciacca, vol. II:
Liber amicorum, Milano, Giuffrè.
2008, p. 7; De Benedictis, Politica
cit., p. 341.
G. Oestreich, Problemi di struttura dell’assolutismo moderno, in E.
Rotelli, P. Schiera (a cura di), Lo
Stato moderno, vol. I, cit., p. 174.
Cfr. C. Vivanti, Le guerre di religione nel Cinquecento, Roma-Bari,
Laterza, 2007, p. 68. Sul dibattito
teorico connesso con il moto di
indipendenza olandese, si veda
M. Van Gelderen, The Political
Thought of the Dutch Revolt, 15551590, Cambridge, Cambridge
University Press, 1992.
N. Matteucci, Costituzionalismo,
in Enciclopedia delle scienze sociali,
Roma, Treccani, 1992, vol. II, p.
522.