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40 N. 2 Musica Quei resti mortali di Franco Fabbri PINK FLOYD Their Mortal Remains trad. dall’inglese di Alessia Monti e Manoli Traxler, pp. 320, € 55, V&A Publishing, Londra 2017 I l volume, nell’edizione originale inglese, è nato insieme alla mostra he Pink Floyd Exhibition: heir Mortal Remains, allestita presso il Victoria and Albert Museum di Londra. Anche l’edizione italiana porta il copyright della V&A Publishing, e formalmente è soltanto distribuita da Skira (anche se ne porta il marchio in costa); esce anticipando l’allestimento della medesima mostra presso il Macro di Roma, aperta almeno ino al 29 aprile. Con lo stesso titolo della mostra – e con in copertina un’illustrazione a stampa lenticolare che riproduce, a seconda dell’angolazione dalla quale la si guarda, il prisma di he Dark Side of the Moon e lo stesso cristallo frantumato – il libro ha un aspetto magniico: 320 pagine di grande formato, in carta patinata di grammatura assai consistente, con centinaia di illustrazioni. Non è propriamente il catalogo della mostra, ma si basa sugli stessi materiali ed è curato dagli stessi curatori: sicuramente i visitatori se lo vorranno portare via, anche perché le mostre immersive del Victoria and Albert, come quella su David Bowie che ha inaugurato il ilone, sono esperienze intense (e afollate), e quando si esce si ha voglia di ripensarci su con calma. Ma questa è anche – o proprio – la funzione dei cataloghi. Le illustrazioni comprendono copertine di dischi, manifesti di concerti, ritagli di giornale, fotograie del gruppo dal vivo o in studio, riproduzioni di partiture, bozzetti di scenograie e materiale di scena, strumenti musicali ed efetti, sistemi di proiezione: tutte immagini rare, in buona parte provenienti dagli archivi degli stessi componenti dei Pink Floyd, e capaci di soddisfare le curiosità di un pubblico variegato, dal fan allo scenografo, dal collezionista di strumenti allo studioso della psichedelia e delle controculture. Insomma, ben di più del solito coffee table book per fan del rock benestanti e attempati, anche perché oltre alle immagini è presente un certo numero di saggi e testi illustrativi: una prefazione di Audrey Powell, il curatore della mostra; un resoconto delle origini del gruppo, irmato dal loro primo produttore discograico, Joe Boyd; un saggio di taglio critico-letterario sul fascino del “pastorale” e sulla sua presenza nella poetica dei Pink Floyd, di Rob Young; una panoramica sulla carriera del gruppo dai primi dischi ino all’uscita di Syd Barrett, compilata dal giornalista musicale Jon Savage (curiosamen- te, noto per i suoi scritti sul punk); un’ampia e apprezzabile disamina della produzione dei Pink Floyd dagli esordi ino all’ultimo album, sotto il proilo musicale, condotta dal compositore Howard Goodall; un contributo (forse il più nuovo e interessante) sugli aspetti visuali e scenograici del lavoro del gruppo, scritta a quattro mani da Victoria Broackes e Anna Landreth Strong; una rassegna di tutti gli album, uno per uno, stesa da Mark Blake, un altro giornalista musicale; un ricordo di Storm horgerson, fotografo e designer, co-autore della famosa copertina di he Dark Side of the Moon e di molti altri lavori graici per i Pink Floyd, scritto dal suo socio Audrey Powell. Qui la nitida forma cristallina del libro mostra qualche incrinatura. Intanto, manca qualsiasi accenno biograico sugli autori dei saggi, che non avrebbe rubato molto spazio. Poi, purtroppo, si capisce presto che un vero curatore del libro (per la parte testuale) non c’è. Faccio un esempio, che può apparire marginale e banale, ma non lo è. Nel suo resoconto, Joe Boyd ricorda che uno strumento importante per la creazione del suono dei primi Pink Floyd era l’Echorec Binson, e lo descrive come “un primitivo echo a nastro che era stato utilizzato in maniera alquanto prosaica nei primi dischi degli Shadows”. Intanto, perché “echo”? In italiano si dice “eco”, cari traduttori. Ma poi, l’Echorec non era a nastro: si distingueva dagli apparecchi più primitivi proprio perché il suono veniva registrato su un tamburo metallico, non su nastro. Strano che un produttore non lo sappia. L’Echorec fu l’eco d’elezione di molti gruppi ino alla metà degli anni settanta e oltre: era fabbricato a Milano, in via Padova, dalla piccola azienda di prodotti elettroacustici dell’ingegner Bini, che aveva dedicato il nome della ditta al iglio, Bin-Son (capito?). Non risulta che l’avessero usato gli Shadows, e lascia perplessi il giudizio personale di Boyd che l’uso dell’eco sulla chitarra da parte degli Shadows fosse “prosaico”, se è vero che un gran numero di chitarristi inglesi diventati famosi negli anni sessanta (incluso un certo David Gilmour) dichiarò che uno dei maggiori stimoli a imparare a suonare era stato il suono della Fender di Hank B. Marvin, il chitarrista degli Shadows, col suo “primitivo eco a nastro”. Dettaglio da fanatici della strumentazione rock? Allora, proviamo a pensare cosa succederebbe se in un saggio su Picasso, contenuto nel catalogo di una mostra, si afermasse che Guernica era stato dipinto con pittura acrilica su una tavola di legno (era tempera su tela). Ahinoi, di cose così se ne trovano varie, ad esempio quando Goodall aferma che negli studi di Abbey Road c’era una console a 8 canali, “nuova di zecca” nel 1970. Avrà inteso dire un registratore a 8 piste, perché ad Abbey Road c’era una console (leggi: mixer) a dodici canali già tre anni prima (quella usata per Sgt. Pepper’s). Oppure, quando dice che il gruppo prende il nome dai due bluesmen preferiti di Syd Barrett, Pink Anderson e Floyd Council (lo scrivono tutti i biograi), quando Boyd nel suo saggio ricorda che Barrett aveva trovato quei nomi nelle note di copertina (scritte da Paul Oliver) di un disco di un altro bluesman, e – prima di averli mai ascoltati – aveva pensato che i loro nomi suonavano bene. Savage, a sua volta, aferma che il 1966 fu l’ultimo anno in cui le vendite dei singoli superarono quelle degli album (invece fu il 1967). Quando non sono gli autori a prendere qualche stecca, ci pensano i traduttori. Fanno dire a Boyd che nel giugno del 1967 “la psichedelica Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band riecheggiava ovunque”, ma avrebbero dovuto usare il maschile, riferendosi all’album, non a una delle sue canzoni (sia pure eponima): casomai, quelle che riecheggiavano ovunque erano Lucy in the Sky with Diamonds, o A Day in the Life. E si inventano un genere, il whimsy pop (nel testo di Goodall: ma l’autore intendeva “pop stravagante”). Inevitabilmente, poi, una chord progression diventa (in vari punti) una “progressione di accordi”, ma in italiano progressione ha un signiicato speciico, si dovrebbe dire sequenza. Insomma, è la solita storia: quando si tratta di popular music, per qualche ragione, il rigore che si pretenderebbe in qualsiasi altra impresa critica latita. Che fatica... www.francofabbri.net F. Fabbri ha insegnato popular music all’Università di Torino L’Italia dominava nel genere misto di Vittorio Coletti Ilaria Bonomi ed Edoardo Buroni LA LINGUA DELL’OPERA LIRICA pp. 325, € 28, il Mulino, Bologna 2017 I laria Bonomi ed Edoardo Buroni collaborano da anni in ricerche sulla lingua dei libretti d’opera e sull’italiano in musica e hanno ora messo a frutto la loro lunga esperienza in questo libro di sintesi, costituito, come da formato della collana in cui appare, da un proilo storico (curato da Bonomi) una sezione antologica (di Buroni) e una vasta bibliograia. È un libro ricco di dati essenziali e di molti dettagli, di immediata utilità didattica. Si capisce che la decisione sull’impostazione dell’ampio proilo di apertura non deve essere stata facile, perché i due autori sono ben consapevoli, e più volte lo dicono, del fatto che i libretti d’opera sono tanto un prodotto di serie quanto una serie di opere diverse, dotate di caratteristiche speciiche, per cui si è sempre indecisi se puntare sui tratti di genere, comuni o su quelli diferenziali. Bonomi ha cercato una sintesi ragionevole tra i due aspetti, disegnando per sommi capi il genere all’insegna della cronologia (capitoli per secoli) e approfondendo all’interno i casi di librettisti e libretti più signiicativi ma anche più originali. Il risultato inale è convincente e dà idea tanto delle continuità quanto delle diversità nella produzione e tra i produttori di un testo letterario il cui strepitoso successo ci fa troppo spesso dimenticare di quante e quali abilità diverse sia stato frutto. Nel proilo di Ilaria Bonomi i grandi spaccati cronologici risaltano con le loro caratteristiche principali e possono aiutare anche l’odierno spettatore dell’opera a non interpretare la lingua letteraria di un libretto secentesco come quella di uno ottocentesco, anche se entrambe sono per lui estranee e distanti. Ogni età ha un suo approccio particolare alla lingua dei libretti, anche in rapporto al gusto letterario dominante. Quella barocca degli inizi ospita con moderazione le arguzie della poesia del tempo; quella settecentesca vi esalta la sua ricerca di simmetrie ed equilibri tra versi e sintassi; quella romantica forza la frase per piegarla al massimo alle esigenze della musica. L’italiano dei libretti, Bonomi e Buroni lo dicono subito all’apertura delle loro sezioni, non è mai isolabile dal suo rapporto con la musica: inché la musica non prende il sopravvento (opera barocca) o nelle zone in cui lo fa meno (recitativi secchi) la lingua dei libretti gareggia con quella poetica in igure, battute anche comiche e concettismi, che quando invece prevale la manipolazione musicale non sono più o non sono altrettanto praticabili. Solo Mozart, Rossini, Verdi, Puccini e pochi altri (compositori!) riusciranno a compensare le due energie, quella linguistica e quella musicale, salvando la comunicazione verbale e l’espressione musicale. Un caso da manuale è quello del plurilinguismo comico (italiano, dialetti, lingue straniere) che funziona meglio con il lento procedere dei bassi cantanti in zone di recitativo che col nervoso e acuto slancio dei tenori nelle arie che aievoliscono la percezione delle parole. Discorso parallelo si può fare per i brani di un libretto decisivi per la comprensione della vicenda rappresentata, a volte aidati ai cori e quindi tutt’altro che facilmente comprensibili, per cui librettista e compositore debbono cercare un diicile equilibrio tra esigenze informative e distensioni musicali. Il libro di Bonomi e Buroni dà modo al lettore di attraversare questo lato straordinario della nostra storia culturale e linguistica passando per brani scelti, sia nel proilo di Bonomi che nell’antologia di Buroni, con molto buon gusto e originalità, e analizzati con cura e inezza: una piccola miniera che dà anche a prima vista l’idea di quanto sia incredibilmente ricco, vario, questo genere misto in cui l’Italia ha per tre secoli dominato l’Europa e grazie al quale l’italiano poetico è cantato ancora oggi in tutti i maggiori teatri del mondo. vittorio.coletti@lettere.unige.it Funambolica, acquerello e tempera su carta intelata 2013 V. Coletti insegna storia della lingua italiana all’Università di Genova