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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II ! DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI LAUREA TRIENNALE CORSO DI STUDI IN STORIA ELABORATO FINALE DI LAUREA IN STORIA CONTEMPORANEA Il ruolo del Pci dalla Resistenza alla Costituzione repubblicana Relatore: Ch.moProf. Andrea D’Onofrio Candidato: Marco Cerotto Matr. N69000797 ANNO ACCADEMICO 2016-2017 !2 INDICE INTRODUZIONE……………………………………………………………..4 CAPITOLO PRIMO La Resistenza 1.1 La crisi del regime fascista……………………………………………………..10 1.2 La “congiura di palazzo” del 25 luglio…………………………………………12 1.3 La prima fase della guerra partigiana: dagli esordi alla mancata liberazione di Roma….……………………………...15 1.4 La seconda fase della guerra partigiana: dalla maturità alla seconda crisi invernale……………………………………...23 1.5 La terza fase della guerra partigiana: dalla pianurizzazione all’insurrezione…………………………………………..29 CAPITOLO SECONDO La strategia politica del Pci: il tripartito 2.1 La politica d’unità nazionale: dall’aprile ’44 all’aprile ’45……………………………………………………36 2.2. Gli Alleati in Italia: dall’occupazione militare alla politica di “contenimento”……………………50 2.3. La precarietà del tripartito: partiti politici in direzione ostinata e contraria………………………………..63 CAPITOLO TERZO Il fallimento del tripartito: la fine di un compromesso storico 3.1 La ricerca di una stabilità politica: la Dc e gli Stati Uniti……..................................................................................71 3.2 La reazione del Pci e la conferma di una linea politica………………………..81 3.3. Il consolidarsi del blocco conservatore: la Dc e il “colpo di mano” di maggio……………….........................................94 3.4 Una nuova fase politica: il Pci all’opposizione…………………………………………………………..109 CAPITOLO QUARTO La Costituzione repubblicana nell’ottica del Pci: una “terza via” per la strategia comunista? 4.1 Il Pci e la Costituzione…………………………………………………………124 CONCLUSIONI………………………………………………………………139 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………...146 !3 A Flavia, anima fragile, dea e bambina. Amore della vita e dell’eternità. !4 INTRODUZIONE In questa tesi si è analizzato il ruolo svolto dal Partito comunista italiano dalla fase resistenziale alla stesura della Costituzione repubblicana. Dalle tesi di tanti storici si può affermare che è proprio dalla fase resistenziale che l’Italia rinasca: dalle ceneri di un passato terrificante, gli italiani per la prima volta, dalla conquista dell’unità, si sono trovati a dover compiere una scelta: la dittatura o la libertà. Esaminare solo i venti mesi di guerra resistenziale non avrebbe permesso lo studio del periodo immediatamente successivo, ossia la ricostruzione del Paese e le prime conquiste della nuova Italia democratica. Ho deciso di compiere quest’analisi attraverso lo studio degli obiettivi strategici di uno dei partiti politici più impegnati in questa delicata fase storica: il Partito comunista. Quali erano gli obiettivi del Pci? Qual era la sua strategia politica? Il mancato successo (elettorale o rivoluzionario) è stato un fallimento? Per rispondere a queste precise domande ho intrapreso uno studio specifico, scelto accuratamente assieme al mio relatore, che ha fornito alla mia tesi risposte concrete e ha appagato la mia ricerca scientifica, in questa che è una prima esperienza. Questa ricerca si divide in quattro capitoli, che attraverso una spiegazione lineare del quadriennio 1943-1947 con l’entrata in vigore della Costituzione nel gennaio ’48, pone l’attenzione sulle strategie del Partito comunista, e nel contempo si impegna nell’analisi della sua interazione con le altre forze politiche nel contesto interno ed internazionale. Nel primo capitolo viene analizzato un quadro sintetico del fenomeno della Resistenza, dalla crisi del regime fascista, alla formazione delle !5 prime bande partigiane, sino all’insurrezione finale. Già da questo capitolo si inizia a far luce sul lavoro svolto dal Partito comunista, dalla sua veloce ricostituzione, alla “svolta di Salerno”, e quindi all’elaborazione di una nuova linea politica che sarà una roccaforte per il partito nei diversi anni a venire. Si evidenza il ruolo attivo svolto dal Pci all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale e il graduale consolidamento, nel corso della fase resistenziale, dei suoi obiettivi strategici per il futuro del Paese. I testi presi in considerazione per lo studio di questo capitolo sono stati diversi, a partire da un classico come Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, storico e protagonista attivo di questo particolare periodo storico. Un testo molto vasto che tende a non trascurare nulla, neppure la passione per chi, come lui, ha vissuto e sofferto gli avvenimenti trattati. L’altro testo utile alla composizione di questo primo capitolo, è stato Storia della Resistenza in Italia di Santo Peli, un testo attuale che offre una sintesi accurata della Resistenza italiana con una spiegazione degli avvenimenti molto più equilibrata rispetto ai tanti libri sulla Resistenza risalenti a quaranta-cinquant’anni fa. Il terzo e ultimo libro preso in considerazione è un testo sulla Resistenza che rappresenta un capolavoro sotto tutti i punti di vista, ovvero Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone, lo storico che per la prima volta ha definito la Resistenza una guerra civile. Il suo pensiero inizialmente è stato contrastato dalla tradizione storica di sinistra, che ha sempre parlato della Resistenza come una guerra di liberazione o patriottica. Pavone non ha negato che essa fu anche guerra di liberazione dallo straniero e patriottica, in quanto si combatteva per salvare la patria, ma ha affermato che fu soprattutto civile, in quanto !6 combattuta tra italiani: quelli che avrebbero voluto conservare la dittatura e quelli che avrebbero voluto instaurare la democrazia. Il tema dominante del secondo capitolo è la strategia politica del Pci: il tripartito. Viene analizzato nei diversi paragrafi, attraverso tale strategia, l’obiettivo ultimo che il Partito comunista perseguiva e che avrebbe voluto attuare. Inoltre viene esaminata la presenza degli Alleati in Italia: la politica che realizzarono e che avrebbero voluto realizzare nella penisola. Si vedrà come gradualmente che gli Stati Uniti emersero come potenza economica che avrebbe guidato l’Italia (e l’Europa), avrebbero richiesto sempre di più una stabilità politica proprio nel Paese che, secondo i loro migliori informatori, stava viaggiando “dritto dritto verso il comunismo”1. Il garante di questa “stabilità politica” sarebbe stata individuata nella Democrazia cristiana, che con il passare del tempo, si sarebbe sempre più allontanata dalla “logica parlamentare” del tripartito. Per lo studio di questo capitolo sono stati presi in esame diversi libri e testimonianze come: Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze di Pietro Secchia, storico e dirigente del Pci, il quale fornisce un’ingente quantità di testimonianze, attraverso la pubblicazione di diversi documenti, quali, comunicati, rapporti informativi e verbali di assemblee e riunioni del Pci tenutesi durante tutto l’arco resistenziale, tenendo sempre in considerazione la linea del partito e i suoi obiettivi futuri. Il testo preso in esame per lo studio della presenza alleata è stato L’alleato nemico: la politica dell’ occupazione anglo-americana in Italia. 1943-1946 scritto dallo storico britannico David W. Ellwood. Per la comprensione del deterioramento del tripartito è stato fondamentale lo 1 David W. Ellwood, L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, 1977, p.235. !7 studio di La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947 elaborato da Severino Galante, studioso di scienze storiche e intellettuale comunista. Infine di vitale importanza è stato lo studio di Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata. L’Italia dal 1943 al 1946 scritto dallo storico napoletano Aurelio Lepre. Il terzo capitolo affronta il sostanziale fallimento della formula tripartita, la reazione del Partito comunista che non fa altro che confermare la giustezza della linea politica seguita sino a quel momento e l’intenzione di continuare a perseguirla per “vie nazionali e democratiche”. Ma con il “colpo di mano” da parte della Democrazia cristiana nella primavera del ‘47, si apre una nuova fase politica che vede il Pci all’opposizione, estromesso dal posto che occupava al governo già da diversi anni. In questo nuovo contesto, il Partito comunista non rinnegò la linea politica, ma mise in discussione, come si vedrà, la strategia per raggiungere i suoi obiettivi: tenendo in considerazione non solo l’interesse della classe sociale che rappresentava, bensì della nazione intera. Fallito il tripartito e confermata invece la linea politica, l’estate del 1947 rappresenta per il Partito comunista un periodo nuovo, caratterizzato da un nuova organizzazione interna ed esterna. Il Pci si rese conto, in notevole ritardo si potrebbe obiettare, di quanto fosse importante all’interno una strutturazione del partito dai suoi quadri all’ultima sezione, e all’esterno una riorganizzazione dello stesso nei confronti delle masse. Bisognava preparare le masse e organizzarle per dare vita ad agitazioni ben strutturate. I quadri dirigenti del Pci si resero presto conto del lungo periodo di cui avrebbero necessitato per raccogliere i frutti di questa nuova organizzazione del partito. Anche per questo capitolo sono stati utilizzati i testi sovra citati, con particolare riferimento ai libri di Aurelio !8 Lepre e di Severino Galante, incentrati su testimonianze e documenti inediti. Il quarto e ultimo capitolo rappresenta il postulato a cui sono giunto dopo lo studio dei diversi testi: la Costituzione avrebbe potuto rappresentare un’altra strategia per gli obiettivi politici del Partito comunista? Un pensiero che emerge anche in Storia del Partito comunista italiano VI. “Il Partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile scritto dallo storico Renzo Martinelli, in cui sottolinea il realismo dei dirigenti comunisti, che limitati nel realizzare uno Stato socialista, diedero la massima priorità a urgenti questioni istituzionali, come la proclamazione della Repubblica e la convocazione della Costituente, ottenendo in tal modo notevoli passi in avanti per l’Italia. Per questo capitolo mi sono servito anche del testo Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003 di Aurelio Lepre, ma è stato di fondamentale importanza lo studio di Palmiro Togliatti, intervento all’Assemblea Costituente pubblicato dall’Istituto storico Alcide De Gasperi, inerente all’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947. Mentre ad evidenziare l’analogia tra il carattere processuale della Costituzione e della democrazia progressiva è il ricercatore Alexander Höbel in La democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, il quale fornisce una spiegazione lineare sul termine di democrazia progressiva e la sua lontana origine. La Costituzione avrebbe potuto rappresentare per il Partito comunista un punto di partenza, una solida base a cui rifarsi per la ricostruzione democratica del Paese e per realizzare quello Stato di “democrazia progressiva” a cui il Pci ambiva, con la partecipazione di tutte le forze politiche democratiche e progressive. Una tesi che emerge anche in !9 Paolo Ciofi, presidente dell’associazione culturale Futura Umanità che promuove la storia e la memoria del Pci. È stato indispensabile l’analisi della relazione tenuta dal presidente di Futura Umanità sul convegno di Togliatti e la Costituzione, cioè Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo. !10 CAPITOLO PRIMO La Resistenza “Il primo dovere del proletariato è la conquista della democrazia.” Marx-Engels 1.1.La crisi del regime fascista Secondo Roberto Battaglia, storico e protagonista attivo della fase resistenziale, è difficile precisare in quale periodo esatto sia cominciata la crisi decisiva del regime fascista, quando cioè abbia avuto inizio la disgregazione di quelle basi di massa sulle quali esso aveva basato il proprio dominio2. Sicuramente tra le tante motivazioni da lui stesso annoverate e spiegate, e su cui molti storici concordano, la stanchezza della guerra giocò un ruolo decisivo. Anche lo storico Claudio Pavone afferma che la stanchezza della guerra insieme al desiderio di pace erano sentimenti molto diffusi negli italiani nel 1943. Scrive Battaglia, a differenza di ciò che si verificò per le armate del Terzo Reich, il regime fascista non fece altro che collezionare, fin dal primo momento, sconfitte su sconfitte: dalla campagna di Grecia all’Africa settentrionale3. Per gli italiani svanì rapidamente l’illusione di poter condurre una guerra “parallela”, poiché ben presto venne alla luce l’effettivo rapporto di forze. Gravissima, scrive Lepre, la situazione alimentare: i disagi, le privazioni e le sofferenze, non avevano colpito tutti nello stesso modo. 2 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1964 (I ed. 1953), p.13. 3 Ivi, p.16. !11 Riapparse così quell’antagonismo di classe, che nell’estate del 1940 si era attenuato fin quasi a scomparire, nella speranza che la vittoria, immaginata facile e vicina, potesse risolvere i problemi di tutti, anche della gente comune4. A giudizio di Battaglia, infatti, la situazione economica era tragica e resa intollerabile dalla mancanza di qualsiasi giustizia distributiva: il peso dei sacrifici ricadde tutto “verso il basso”, mentre ne furono esonerati i detentori del potere economico e politico5. La violenza subita con i bombardamenti aerei, la solidarietà con i parenti uccisi o dispersi, la fame e la consapevolezza della superiorità del nemico, concorrevano a far ritenere inane la prosecuzione di una guerra ritenuta ormai irrimediabilmente perduta6. Anche lo stato d’animo dei combattenti al fronte era fortemente incrinato. Momento culminante del fallimento della guerra fascista fu la campagna di Russia. La constatazione da parte dei soldati italiani di essere stati mandati incontro a una morte ritenuta certa, sia per l’equipaggiamento militare inadeguato sia per le condizioni climatiche drammaticamente sfavorevoli, furono elementi che si aggiunsero alla grande menzogna raccontata dalla propaganda fascista sui popoli sovietici, descritti come “popoli selvaggi dell’est” e “barbari”. Lo poterono constatare alcuni soldati italiani che furono accolti da soldati sovietici. A ulteriore riprova, l’esperienza documentata dallo scrittore Mario Rigoni Stern, a quel tempo sergente maggiore degli alpini, che racconta come in un’izba venne offerto a lui e ai suoi commilitoni del cibo7. Anche Pavone mette in risalto come la 4 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, 2004, p.8. 5 Roberto Battaglia, op. cit., p.18. 6 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991, p. 7. 7 Roberto Battaglia, op. cit., p. 45 . !12 campagna di Russia e l’occupazione dei Balcani spinsero molti combattenti a una prima riflessione sulla guerra fascista. Il crescente stupore dei soldati italiani nel vedere coi propri occhi i grandi stabilimenti industriali e la diffusa istruzione nel popolo sovietico resero ancora più evidente la falsità della propaganda fascista. Pavone riporta una testimonianza di Nuto Revelli, in cui lo scrittore descrive l’impatto con i partigiani sovietici che andavano alla fucilazione a testa alta: «Non eravamo che straccioni con arie e pretese da signori. Guardai quei partigiani con grande ammirazione. Mi sentii umiliato»8. 1.2.La “congiura di palazzo” del 25 luglio Pian piano che la situazione generale andava peggiorando, dagli strati popolari a quelli borghesi, arrivando sino alla classe dirigente fascista, scrive Battaglia, si diffondeva un sentimento ostile nei confronti di Mussolini, quasi ritenuto il solo responsabile del disastro del regime 9. Lo storico britannico David W. Ellwood mette in risalto come questa sia stata anche l’opinione di Churchill, riportando una delle frasi più pronunciate dallo statista inglese prima del crollo del regime fascista: «Un uomo e un uomo soltanto, contro la Corona e la famiglia reale italiana, contro il Papa e tutta l’autorità del Vaticano, contro i desideri del popolo italiano», avrebbe costretto l’Italia ad entrare in guerra contro l’impero britannico10. Ellwood riporta il commento di Gaetano 8 Claudio Pavone, op. cit., pp. 81-85. 9 Ivi, pp.22-23. 10 David W. Ellwood, L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana 1943-1946, Milano, 1977, p.50. !13 Salvemini, in cui critica i britannici per aver addossato interamente a Mussolini la responsabilità della guerra fascista, e per aver esortato il popolo italiano a sbarazzarsi di un “solo uomo”. Churchill rivolgendosi alla maggioranza degli italiani, la esortava a limitarsi a sostituire al fascismo con Mussolini un fascismo senza Mussolini e tutto sarebbe andato per il meglio. In questo modo Salvemini avrebbe posto, secondo Ellwood, con fermezza l’accento sulla evidente “falsità” della condotta politica anglo-americana nei confronti dell’Italia in questo periodo: la posta in gioco non sarebbe stata l’ideologia democratica contro l’ideologia fascista, “la salvezza dei popoli” contro regimi dittatoriali, ma la convivenza tattica tra occupanti e occupati e il potere geopolitico in senso classico 11. La situazione era grave. Il 10 luglio 1943 le forze anglo-americane iniziarono l’attacco alla Sicilia e nei giorni seguenti, afferma Battaglia, la flotta alleata riversò sulla costa dell’isola l’armata d’invasione, costituita da 150.000 uomini. L’esercito italiano, privo di ogni mezzo moderno di guerra, subì una pesante sconfitta, che aggravò pesantemente il morale dei combattenti: maturò il cosiddetto “antifascismo di guerra”, come nel caso della campagna di Russia12. Nel frattempo si stava movendo anche il Vaticano. Secondo Sandro Magister, il 1942 e il 1943 sarebbero stati gli anni decisivi per il futuro del Paese: si intensificarono i contatti tra Washington e la Santa Sede. Monsignor Tardini affermò, dopo diversi incontri con il diplomatico Myron Taylor, che gli Stati Uniti “si sentono forti”, e inoltre “son sicuri di vincere” la guerra. Aggiunse poi che gli Stati Uniti si stavano preparando a “riordinare l’Europa come meglio avrebbero creduto”. Fu 11 Ivi, pp.50-52. 12 Roberto Battaglia, op. cit., p.66. !14 in quello stesso periodo che il conte Giuseppe Dalla Torre, direttore del quotidiano della Santa Sede l’ «Osservatore Romano», consegnò al diplomatico statunitense un memorandum a proprio nome che già prefigurava un futuro politico italiano fondato su una collaborazione tra borghesia, burocrazia statale e forze cattoliche a garanzia americana13. Il 19 luglio 1943 venne bombardata Roma dall’aviazione americana. Questo episodio, secondo Battaglia, fu il motivo che fece riunire il Gran Consiglio del fascismo qualche giorno dopo 14, quasi come l’ultima goccia che fa traboccare un vaso. Furono queste e altre le pressioni che portarono il Gran Consiglio a riunirsi la sera del 24 luglio dove prevalse la linea che avrebbe estromesso Mussolini dalla sua carica governativa, ovvero quella BottaiGrandi-Ciano che raccolse 19 sì, 7 no e un solo astenuto. Secondo Battaglia sarebbe stata questa la fine per il Duce, ma questi ancora nelle ore seguenti cercò d’illudersi recandosi presso il re; ma sarebbe stato proprio Vittorio Emanuele III, dopo un breve incontro a Villa Savoia, ad autorizzare il suo arresto. Mussolini venne arrestato all’uscita della villa del re da un capitano dei carabinieri. Il potere a questo punto era nelle mani di due uomini: Vittorio Emanuele III e Badoglio 15. A giudizio di Lepre, la caduta di Mussolini non fu il risultato di un progetto pensato organicamente e attuato coerentemente, ma la conseguenza di una serie di azioni non coordinate e fortemente influenzate dalla rapida evoluzione della situazione militare16. Mentre lo storico e dirigente comunista Pietro Secchia sostiene, nel suo libro del 1973 sul Partito comunista e la guerra 13 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943 – 1978, Roma, 1979, pp.6-7. 14 Roberto Battaglia, op. cit., p.67. 15 Ivi, pp.68-69. 16 Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, Bologna, 2008, p.258. !15 di liberazione, che il 25 luglio sarebbe stato il risultato immediato di una “congiura di palazzo”, architettata con molte esitazioni ed indecisioni dai gruppi “economici monopolisti” per tentare, sganciandosi dal fascismo, di “salvare il salvabile”. Fu il tentativo della monarchia, “buttando a mare Mussolini e gli altri gerarchi”, di salvare se stessa creando un governo conservatore, burocratico e militare, che tenesse a freno il più possibile le masse popolari 17. In effetti le esortazioni di Churchill e il diffuso malcontento popolare trovarono sfogo nella sola personalità di Mussolini, ritenuto il solo colpevole di tutti i disastri del regime fascista. A tal proposito il Gran Consiglio colse il momento decisivo per emarginare dalla scena il capo del Governo. Per questo senso Secchia fornisce una valida tesi definendo il 25 luglio una vera e propria congiura di palazzo. 1.3.La prima fase della guerra partigiana: dagli esordi alla mancata liberazione di Roma L’8 settembre 1943, scrive Santo Peli, venne diffuso per radio il testo dell’armistizio firmato cinque giorni prima a Cassibile, in base al quale lo Stato italiano dichiarò formalmente di non essere più in guerra con gli anglo-americani. La dissoluzione dello Stato fascista, con il venir meno di riferimenti non solo istituzionali, ma anche ideologici con l’onnipresenza del regime, determinò un vuoto, una sconvolgente perdita di punti di riferimento18. Il 17 Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943–1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano,1973, pp.74-75. 18 Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Torino, 2015 (I ed. 2006), pp.14-15. !16 venir meno della presenza statale, afferma Pavone, poteva essere avvertita come un senso di smarrimento o come un’occasione di libertà. Prima ancora poteva essere immediatamente vissuto come eccezionale momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere. Lo stesso autore riporta una testimonianza lasciata da un colonnello inglese che descrisse questa esperienza: «Quando un villaggio sta per settimane in terra di nessuno, fra le nostre linee e quelle nemiche, la gente non ruba e non si ammazza, ma s’aiuta l’un con l’altro in modo incredibile. Tutto ciò è assurdo e meraviglioso. Arriviamo noi e mettiamo su gli indispensabili uffici e servizi dell’AMG (Allied Force Headquarters) e gli italiani subito si dividono, si bisticciano, si azzuffano per sciocchezze, si denunziano fra loro. La concordia di prima si disfa in faide e vendette di ogni tipo. Davvero incredibile»19 . Questa è la situazione che riporta Pavone durante i quarantacinque giorni di totale confusione dopo l’armistizio, affermando che però, tale situazione, non era ancora definibile come prima fase resistenziale20. Battaglia, come già detto, protagonista attivo di questo periodo storico, sostiene che è difficile individuare un momento preciso della nascita della resistenza armata. In una situazione che versava completamente nel caos, emersero le prime formazioni di nuclei partigiani, ma si trattava solo di primi focolai di Resistenza, formati da gruppi di sbandati e da reparti militari in disfacimento21. Tuttavia nel momento in cui le truppe tedesche cominciarono a formalizzare la loro violenza e quando, subito dopo, i fascisti crearono la Repubblica sociale, quando cioè il vuoto istituzionale fu in qualche modo riempito da un diverso sistema di 19 Claudio Pavone, op. cit., p.23. 20 Ivi , pp.24-25. 21 Roberto Battaglia, op. cit., pp.134-137. !17 autorità, la scelta da compiere, dichiara Pavone, divenne più dura e drammatica: per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani vissero in varie forme un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto era di particolare rilevanza educativa per la generazione che nella scuola elementare aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: «Quale deve essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza! »22. Il significato primo di libertà che assunse la scelta resistenziale era implicito nel suo essere un atto di disobbedienza verso chi aveva la forza di farsi obbedire. A tal proposito Battaglia scrive che il primo periodo della vita partigiana sarebbe stato caratterizzato da questo senso gioioso di fare da sé, di avere finalmente rotto ogni vincolo con la vita civile del regime fascista che tante amarezze e dolori aveva dato: si trattava dell’orgoglio di essere e sentirsi chiamare ribelli 23. Peli afferma che nella società italiana la vita dei partiti politici era cessata con l’instaurarsi del regime fascista. Con il parziale ritorno alla libertà, nell’agosto del 1943, sono circa 3.000 i militanti comunisti rilasciati dalle carceri e dal confino. L’organizzazione comunista, di fatto l’unica già esistente, basata su quadri e disciplina lungamente sperimentati, fu la più tempestiva nel cogliere le nuove opportunità; già dal ’42 infatti riprese una nuova edizione clandestina del quotidiano comunista «l’Unità». Anche per quanto riguarda gli scioperi del marzo ’43, il Pci si mostrò il partito più preparato a dirigere le masse operaie. La Democrazia cristiana, partito destinato a diventare, assieme al Pci, uno dei due grandi partiti di massa del dopoguerra, conobbe tra il ’42 e il ’43 una lunga fase di gestazione, praticamente assente nelle agitazioni di 22 Claudio Pavone, op. cit., pp.27-30. 23 Roberto Battaglia, op. cit., pp.188-189. !18 marzo su citate24. La storia del gruppo dirigente della Dc, a giudizio dell’illustre politologo Giorgio Galli, tra l’8 settembre ’43 e il 25 aprile ’45 è la storia di un gruppo dirigente la cui linea generale fu di attendere la completa liberazione del territorio nazionale da parte degli eserciti anglo-americani, dedicandosi all’organizzazione di un partito che trova nelle parrocchie e nell’Azione cattolica i suoi principali punti di riferimento organizzativi 25. Dello stesso giudizio è anche Magister, il quale afferma che l’adesione alla Dc di militanti della lotta di liberazione sarebbe stato un fenomeno diffuso, ma sarebbe restata sempre una scelta estranea a qualsiasi linea della Chiesa e del partito. Infatti, all’indomani dell’8 settembre, le varie organizzazioni cattoliche tennero a Roma un vertice. La riunione si chiuse con un nulla di fatto: alla tesi di un’immediata adesione alla lotta partigiana sostenuta dai cattolici comunisti, la Dc contrappose la parole d’ordine dell’attesismo, nella previsione di un intervento rapido e decisivo degli eserciti alleati26. Il 9 settembre 1943, il Comitato nazionale delle opposizioni assunse la denominazione di Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e lanciò un appello per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le competeva nel consesso delle nazioni libere e democratiche27. Peli sottolinea che l’inverno ’43 fu ancora la stagione del dubbio, ma la Resistenza già nell’estate del ’44 avrebbe conquistato consistenza, coesione e notevole capacità operativa. Le tappe fondamentali di questo consolidamento furono costituite dalla “svolta di Salerno”, nell’aprile 24 Santo Peli, op. cit., p.39 25 Giorgio Galli, Storia della Democrazia cristiana, Bari, 1978, p.38. 26 Sandro Magister, op. cit., p.37. 27 Santo Peli, op. cit., pp.37-42. !19 ’44, e dalla costituzione del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (Cvl), un paio di mesi dopo. La svolta di Salerno ebbe un’importanza vitale per il percorso della Resistenza. Ma, come scrive lo stesso Battaglia, prima ancora dell’azione che avrebbe svolto Togliatti, si realizzò un’altra attività, meno clamorosa, volta a superare le posizioni di intransigentismo ideologico promossi dal Congresso di Bari del Cln: l’opera di conciliazione e di mediazione di Benedetto Croce, coadiuvato da Enrico De Nicola. Come il giurista spiegò al filosofo, non ci sarebbe stato bisogno di un’abdicazione effettiva, ma sarebbe bastato che il re delegasse i suoi poteri a un luogotenente e in tal modo egli sarebbe sparito dalla scena appagando l’ira “giacobina” del Cln28. Anche Peli giudica la “svolta di Salerno”, ovvero la decisione del leader del Partito comunista Palmiro Togliatti di proclamare irrealistica la pregiudiziale antimonarchica che aveva congelato in uno sterile muro contro muro il governo del Sud e il Cln, un momento decisivo. Secondo Togliatti, era ormai indispensabile varare un governo di unità nazionale, inserendo i partiti politici antifascisti in un governo che si sarebbe impegnato a fondo nella lotta di liberazione, garantendo per il dopoguerra il diritto popolare a scegliere tra monarchia e repubblica. Peli pone l’accento su questo cambio di rotta improvviso, dovuto al prolungato soggiorno di Togliatti in Unione Sovietica e soprattutto al suo incontro, pochi giorni prima del rientro in Italia, con Stalin29, che gli avrebbe suggerito di assumere questa nuova linea politica. Ma Peli non è l’unico ad avanzare una tesi del genere, anche lo storico Massimo Legnani, in «Resistenza e repubblica. Un dibattito ininterrotto», afferma che Togliatti assecondò la politica estera sovietica, che come vedremo al prossimo capitolo, aveva 28 Roberto Battaglia, op. cit., pp.250-253. 29 Santo Peli, op. cit., pp.79-83. !20 già dato per scontato l’inserimento dell’Italia nella sfera d’influenza anglo-americana. Un atteggiamento moderato da parte dell’Urss che di fatto tese a giustificare il suo futuro progetto politico nell’Europa orientale e balcanica 30. Oltre agli interessi della politica estera sovietica però, esisteva anche l’interesse da parte di Palmiro Togliatti per il progetto politico da proporre al suo partito una volta rientrato in Italia, il quale, come scrive Alexander Höbel, era in porto già da diversi anni31. Infatti al suo rientro, Togliatti affermò che la priorità sarebbe stata quella di liberarsi dai nazi-fascisti, unendo dunque tutte le forze antifasciste e “nazionali”. Poi precisò che l’obiettivo dei comunisti era quello di costruire un “regime democratico e progressivo”, una “nuova democrazia” che avrebbe sradicato il Paese dal fascismo e gli avrebbe dato una nuova Costituzione32. I partiti antifascisti compresero l’importanza di questa “svolta” e di fatto l’accettarono. Dinanzi ad atteggiamenti diffidenti di alcuni partiti politici, Togliatti intervenne impostando la questione in questo modo: «Nessuna libertà potrà essere garantita al popolo italiano fino a che i nazisti non saranno cacciati dal territorio nazionale. Bisogna quindi intensificare lo sforzo di guerra per liberare il paese. Costituiamo dunque un governo di unità nazionale e in tal modo faremo fare anche un passo notevole alla situazione»33. Il leader del Pci dimostrò che bisognava uscire da una situazione caratterizzata dall’esistenza da una parte, di un governo investito del 30 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea, dicembre 1988, n.213, pp.819-823. 31 Alexander Höbel, La democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-13. 32 Ibidem. 33 Pietro Secchia, op. cit., p.395. !21 potere ma privo di autorità perché privo dell’adesione dei partiti di massa, dall’altra parte di un movimento di massa autorevole, quale il Cln, ma escluso dal potere. Di conseguenza, era di fondamentale importanza varare un governo di unità nazionale. Secchia mette in evidenza come l’iniziativa di Togliatti “scoppiò come una bomba” suscitando negli altri partiti della giunta e del Cln vivaci discussioni, ma i più non poterono disconoscerne il realismo; ne accettarono l’impostazione e comunque ne subirono l’influenza34. Tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’44, scrive Peli, le formazioni partigiane dell’Italia centrale risultarono incapaci di coinvolgere le masse popolari nella guerra di liberazione, come stava invece avvenendo al Nord: la liberazione di Roma fu opera degli Alleati. Unica eccezione risultano le “Quattro giornate di Napoli”: un’insurrezione spontanea, frutto dell’esasperazione popolare, che portò alla liberazione della città prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane. Per la prima volta i “lazzari si schierarono dalla “parte giusta” comprendendo dove stava la barbarie e dove la civiltà35. Mentre la mancata difesa di Roma rappresenta, a giudizio di molti storici, uno dei limiti della Resistenza. Peli riconduce questo fallimento a più cause: debolezza e divisione interne del Cln romano, mancanza di una classe operaia e atteggiamenti favorevoli al compromesso sostenuti anche dal Vaticano 36. Proprio il Vaticano, per Battaglia, è l’attore principale della mancata insurrezione di Roma37. Della stessa opinione è Pietro Secchia, sostenendo che le principali cause della mancata insurrezione della capitale sarebbero da 34 Ivi, pp.396-397. 35 Ivi, p.256. 36 Santo Peli, op. cit., pp.57-59. 37 Roberto Battaglia, op. cit., pp.234-236. !22 ricondurre al prevalere nella città delle correnti moderate ed attesiste contrarie praticamente all’intervento delle masse nella lotta e soprattutto contrarie all’insurrezione. Vaticano, monarchia, Stato maggiore, alta burocrazia: le forze che secondo lo storico comunista avevano collaborato al 25 luglio e che disponevano nella capitale di importanti posizioni sociali e politiche, di larghi mezzi finanziari e di una salda base organizzativa e logistica. Tra tutte questi componenti un’azione di gran peso sarebbe stata svolta dal Vaticano che non risparmiò gli sforzi per impedire che la resistenza contro le forze di occupazione sfociasse nell’insurrezione. Il pontefice in persona, Papa Pio XII, aveva pubblicamente espresso il suo pensiero, parlando il 12 marzo ad una grande folla che gremiva piazza San Pietro: «Come potremmo noi credere che alcuno possa mai tramutare Roma, che appartiene a tutti i tempi ed a tutti i popoli, ed alla quale il mondo cristiano e civile tiene fisso e trepido lo sguardo, di tramutarla in un campo di battaglia, in un teatro di guerra, perpetrando così un atto militarmente inglorioso quanto abominevole agli occhi di Dio e di una umanità cosciente dei più alti e intangibili valori spirituali e morali?»38. La folla reagì accogliendo le frasi del pontefice e gridando “viva la pace, fuori i tedeschi”.39 38 Pietro Secchia, op. cit., pp.434-438. 39 Ibidem. !23 1.4. La seconda fase della guerra partigiana: dalla maturità alla seconda crisi invernale Nella fase iniziale abbiamo visto l’esordio delle prime bande, il maturarsi del movimento, le conquiste ottenute grazie alla “svolta di Salerno” e al lavoro istituzionale del Cln e infine alcuni limiti della Resistenza, individuati da alcuni storici ad esempio nella mancata liberazione di Roma. Con l’estate del ’44, secondo Peli, iniziò una stagione straordinariamente favorevole. La liberazione di Roma (4 giugno 1944), il successo dello sbarco in Normandia (6 giugno), il tumultuoso afflusso di giovani nelle bande partigiane in montagna, annunciarono un’estate carica di prospettive e iniziò a profilarsi come possibile la creazione di un vero esercito partigiano. Le sorti della Wehrmacht in tutta Europa sembrarono già segnate e le truppe di occupazione nazista si lasciarono dietro durante la ritirata una serie di stragi ed eccidi. Anche in Italia, nel veloce ripiegamento da Roma a Firenze, gli uomini di Kesselring furono protagonisti di numerosi eccidi nei confronti della popolazione civile, da S. Anna di Stazzema (12 agosto) a Marzabotto (29 settembre)40. In merito alle rappresaglie, Claudio Pavone afferma nel suo saggio, che se da una parte spinsero gli individui terrorizzati a cercare individualmente scampo non più collettivamente nell’ambiente partigiano, dall’altra finirono con l’esaltare - e in questo sarebbe consistito il loro sostanziale fallimento proprio quel senso di corresponsabilità che esse avevano voluto colpire. Gli atteggiamenti assunti dai resistenti di fronte alle rappresaglie nazifasciste si collocano lungo una linea che a un estremo ha la contro rappresaglia partigiana, attraversando quindi le posizioni di coloro che 40 Santo Peli, op. cit., pp.84-85. !24 pur tenendo conto della possibilità di rappresaglie non intesero comunque farsi dissuadere dalla lotta, e all’altro estremo con una forte incentivazione dell’attesismo in nome del risparmio di vite umane. Piegarsi di fronte alle rappresaglie poteva essere considerato un implicito riconoscimento del diritto del nemico a esercitarle. Da un lato cresceva dunque l’odio popolare contro le truppe di occupazione nazista, alimentando la lotta partigiana e l’afflusso nelle bande, come nel caso di Valle Maira (agosto 1944). Dall’altro lato invece subentrò nella mentalità dei contadini la convinzione che tali eccidi avvenivano come conseguenza naturale delle contro rappresaglie partigiane, quindi sarebbe stato meglio evitarle. È davvero molto difficile esprimere un giudizio su un fenomeno del genere, ma la fermezza dei principi e l’attenzione rivolta alle situazioni reali possono trovare un punto d’incontro nella convinzione che uno storico della Resistenza europea ha espresso con le seguenti parole: «La guérrille est moins coûteuse que Verdun, la “coventrisation” ou Hiroshima»41. Peli, osserva che la trasformazione delle bande partigiane in un vero e proprio esercito, stava diventando sempre più una realtà e non a caso alla fine dell’estate del ’44 tale sviluppo avrebbe favorito la liberazione di Firenze: il primo esempio concreto di risultati politici che un’insurrezione guidata da un Cln autorevolmente alla testa della lotta ottenne. Mentre le truppe alleate si trovavano alla periferia Sud della città, l’ordine insurrezionale venne impartito dal Cln toscano allo scopo di contribuire, direttamente in prima persona e in maniera decisiva, alla liberazione della città. Al termine della sanguinosa battaglia, che si 41 Henri Michel, I problemi della storia della Resistenza nei lavori del colloquio di Vienna, p.40, in Claudio Pavone, op. cit., p.483. !25 protrasse sino al 2 settembre, gli Alleati dovettero prendere atto che le cariche di governo della città erano già state attribuite a uomini di fiducia del Cln42. In questo stesso periodo, continua lo storico padovano, si vennero a formare le “zone libere”, ossia zone liberate dal dominio nazi-fascista ove la Resistenza si apprestava a formare anche un governo provvisorio. Il dirigente del Pci Luigi Longo, scrive Höbel, in un articolo sulle zone libere, tornando a parlare del tema della “nuova democrazia”, le considerava “fucina di entusiasmo e di democratizzazione”, il cui “centro direttivo” si sarebbe dovuto istituire nei “Cln di villaggio”. «Non si tratta […] di iniziare nei paesi liberati una ristretta […] vita politica, a cui partecipi soltanto un piccolo gruppo di notabili, sotto l’etichetta appiccicata all’ultimo momento di questo o quel partito […]. Bisogna […] che i CLN siano veramente una emanazione delle masse in lotta, l’espressione diretta […] della volontà popolare.»43 Per Longo si trattava cioè di iniziare a costruire una “nuova democrazia”, a partire da quei piccoli centri dove sarebbe stato più facile per le masse popolari entrare attivamente nella vita politica comunale e restare in contatto con le altre zone libere limitrofe, creando una specie di coordinamento che sarebbe stato espressione diretta ed immediata del popolo. Un impianto che ricorda il sistema dei soviet, a giudizio di Höbel, ma si riallaccia anche alla tradizione comunale italiana: “comuni partigiani” e “zone libere” furono interpretati come modelli dello Stato italiano democratico che il Pci avrebbe voluto costruire. Affermò infatti Luigi Longo: 42 Santo Peli, op. cit , pp.93-94. 43 Alexander Höbel, op.cit., p.5. !26 Girando per le zone liberate, avremmo visto cose nuove, stupefacenti […] La popolazione partecipa […] collabora al mantenimento dell’ordine, alle distribuzioni di generi, all’amministrazione della giustizia, all’epurazione delle spie […]. Alle donne non par vero di poter dire la loro, per la prima volta […] e tutte intervengono, discutono: vivono. I giovani sono infaticabili. Sono loro che si occupano dei giornali, li scrivono, li stampano, li “strillano”.44 Alcune di queste zone riuscirono ad avere addirittura una risonanza internazionale, come la “Repubblica di Montefiorino” (17 giugno 1°agosto) per la grande concentrazione di partigiani armati (5.000) a ridosso della linea Gotica e la zona libera dell’Ossola (10 settembre–14 ottobre) soprattutto per aver avviato una forma, seppur di primo livello, politico-gestionale45 . Tuttavia è difficile individuare un numero definito di queste zone, anche per la loro precarietà; infatti tale esperienza era destinata ad esaurirsi a causa dell’incalzare dell’offensiva nazi-fascista nell’inverno del ’44. Sia Peli che Battaglia sottolineano come anche questo secondo inverno sarebbe stato terribile. Sarebbe giusto inquadrare questo periodo come “crisi invernale” perché non rimase più un angolo dell’Italia partigiana che non fu devastato, messo a ferro e fuoco dai rastrellamenti 46. In più, come se non bastasse, aggiunge Santo Peli, il 13 novembre dal Quartier generale alleato giunse il nuovo proclama per i partigiani dal generale Alexander: «I patrioti devono cessare la loro attività precedente per 44 Ibidem. 45 Santo Peli, op. cit., pp.96-104. 46 Roberto Battaglia, op. cit., pp.507-509. !27 prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno» 47 . Il proclama comprendeva alcune istruzioni come la messa a riparo delle munizioni e dei materiali. Da molti il proclama fu interpretato come un imbarazzante “tutti a casa”, da altri come un tradimento o comunque una manovra anticomunista di Alexander, che avrebbe volontariamente boicottato la Resistenza italiana. Nella sostanza, secondo Peli, questa direttiva avrebbe rappresentato una realistica constatazione della situazione e delle immediate prospettive, anche se lo storico deve ammettere che il momento e soprattutto il mezzo scelto per diffondere queste istruzioni dimostravano una certa “rozza indifferenza” per i prevedibili effetti psicologici 48. Anche Pietro Secchia critica duramente il proclama Alexander, senza fornire risposte azzardate su questioni che sono ancora materia di discussione e di polemica, ma si limita a sottolineare come tanto lo storico americano C.F. Delzell quanto lo storico inglese F.W.Deakin abbiano riconosciuto che il proclama Alexander giovò al nemico e fu largamente sfruttato dai nazi-fascisti. Come risposta al proclama, il Cln si sforzò a lungo, e in particolare Luigi Longo, per interpretarlo e pubblicarne il 2 dicembre, una propria versione: «Campagna invernale non significa affatto “stasi invernale”: la battaglia deve continuare, nessun compromesso, nessun patteggiamento è possibile e ammissibile col nemico. Agguati, imboscate, sabotaggi, colpi di mano, debbono continuare come per il passato, a colpire incessantemente il nemico nazifascista, ovunque si trovi in condizioni di essere utilmente colpito»49 . 47 Santo Peli, op. cit., p.113. 48 Ivi, p.114. 49 Pietro Secchia, op. cit., pp.682-685. !28 Peli riporta un importante incontro che si ebbe tra il 10 e il 19 dicembre 1944, tra alcuni autorevoli inviati del Comitato di Liberazione Alta Italia (Clnai) e i responsabili della Number I Special Force inglese a Monopoli e successivamente a Roma con gli americani dell’ Oss (Office of Strategic Services). Fu la prima volta che avvenne un incontro di questo genere, infatti Ferruccio Parri lo definirà “un momento culminante nella storia politica del movimento di liberazione”. Ma dovettero passare ancora altri giorni perché il governo Bonomi, senza troppo entusiasmo, firmò un accordo col quale si delegava il Clnai a rappresentarlo nella lotta che i patrioti stavano impegnando contro tedeschi e fascisti nell’Italia non ancora liberata. In cambio però, il Clnai accettò di agire come delegato del governo italiano, sola autorità legittima in quella parte dell’Italia che sarebbe stata poi restituita al Governo italiano dal Governo militare alleato. Oltre a ciò, l’accordo prevedeva un appoggio finanziario pari a 160 milioni mensili. Inoltre, sarebbe stata la prima volta che venivano riconosciuti a livello ufficiale il valore e la funzione nazionale e unitaria dell’insurrezione partigiana. Un successo di grande importanza, che tuttavia si univa a una forte delusione, rispetto alla speranza di ottenere quella piena investitura dei poteri di governo mancata fino a quel momento: il riconoscimento del Cvl come parte integrante dell’esercito italiano50. Nel frattempo, il terribile secondo inverno volgeva a termine e “la crisi invernale” sembrava essere superata. 50 Santo Peli, op. cit., pp.130-134. !29 1.5. La terza fase della guerra partigiana: dalla “pianurizzazione” all’insurrezione Battaglia individua nella “pianurizzazione” la svolta per il superamento della seconda “crisi invernale”. Per lo storico romano la sua più alta espressione è rappresentata nella battaglia di Ravenna (4 dicembre 1944). I partigiani trovarono scampo ai rastrellamenti, giungendo sulle colline e poi spargendosi, come in tanti rivi, nella pianura padana, arrivando quasi alle porte della città. Battaglia sostiene che il fenomeno di discesa verso il basso sarebbe nato come movimento spontaneo di massa, non escludendo l’altro aspetto del problema, che tale manovra fosse stata già intuita o prevista nei suoi sviluppi da chi aveva il compito di guidare i partigiani su piano locale e nazionale. Dell’importanza di una espansione del movimento partigiano in pianura si sarebbe già trovata traccia negli atti del Cvl; seguono poi anche le direttive del Partito comunista annunciate nella “Conferenza dei Triumvirati insurrezionali”51. A contestare Battaglia è Santo Peli affermando che nonostante non ci sia una linea interpretativa univoca circa i comportamenti di montanari e contadini, è sufficientemente provato che alla fine del ciclo di rastrellamenti dell’autunno ’44-’45 la ferocia dispiegata dai nazi-fascisti, pur non riuscendo a distruggere completamente le bande, riuscì però a minarne profondamente i legami di solidarietà e di fiducia, che in circostanze meno avverse, avevano caratterizzato l’atteggiamento dei civili verso i partigiani. Per questo Peli sostiene che in questa “stasi invernale”, la pianurizzazione, cioè il portare in pianura buona parte di ciò che restava dell’esercito partigiano, 51 Roberto Battaglia, op. cit., pp.540-542. !30 sarebbe stata una scelta obbligata 52. A questo punto, oltre ad affermare che sicuramente i tanti rastrellamenti avrebbero in qualche modo incrinato quel legame iniziale di solidarietà tra i montanari e i partigiani, si deve del resto riconoscere, accanto all’aspetto militare, la necessità politica di questa nuova strategia: l’inserimento dei partigiani in pianura per prevenire il rischio dell’isolamento in montagna. Questo è testimoniato da Secchia, il quale afferma che tale spostamento sarebbe stato dettato dalla necessità scaturita dall’andamento della guerra partigiana. Era necessario, dunque, trasferire i partigiani il più vicino ai centri urbani per prepararli all’ultima fase della guerra resistenziale: l’insurrezione finale53. Ormai il problema all’ordine del giorno, come scrive Peli, era quello dei tempi e dei modi della ritirata tedesca e dell’imminente liberazione dell’intero territorio nazionale54. Battaglia ricorda come in questa occasione fu messo a punto il piano della difesa degli stabilimenti industriali, considerati patrimoni nazionali. L’attuazione di questa manovra fu affidata alle mani degli operai, organizzati nelle squadre dei Sap (Squadre d’Azione Patriottica) che avrebbero dovuto occupare dall’interno le fabbriche al momento dell’insurrezione55 e tutto ciò, sottolinea Peli, sarebbe dovuto avvenire prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane. Proprio gli Alleati, infatti, erano tra quelli che guardavano con un misto di preoccupazione e di insofferenza al progetto dell’insurrezione, restando infatti favorevoli a un intervento partigiano solo ove esso risultasse militarmente più utile e politicamente meno pericoloso. Tali preoccupazioni sarebbero emerse 52 Santo Peli, op. cit., pp.124-126. 53 Pietro Secchia, op. cit., pp.623-625. 54 Santo Peli, op. cit., pp.150-152. 55 Roberto Battaglia, op. cit., pp.606-610. !31 anche in un documento della “Number I Special Force”, in cui si evidenziavano i timori che i comunisti si stessero preparando a prendere il potere con la forza nel momento in cui i tedeschi sarebbero stati cacciati dagli Alleati. Le preoccupazioni di una possibile insurrezione toccavano anche le più alte cariche ecclesiastiche, che vedevano ancora nel comunismo il loro peggior nemico 56. A questo punto, il Partito comunista, come documenta Secchia, fu costretto a cautelarsi di fronte a queste manovre attesiste messe in atto dalle forze conservatrici: il giorno 10 aprile 1945 la Direzione del Pci diramò la “direttiva n.16” per l’Alta Italia occupata: «L’ora dell’attacco finale è scoccata. Con le presenti direttive si richiamano tutte le nostre organizzazioni a estendere l’azione insurrezionale, a seconda delle possibilità ed opportunità locali, al più gran numero di categorie delle città e delle campagne. In questa fase risolutiva della lotta insurrezionale è da prevedersi una intensificazione inaudita e sfacciata di tutte le manovre tendenti a sabotare, a impedire, l’insurrezione e soprattutto il movimento insurrezionale popolare. Ogni disposizione contraria all’orientamento insurrezionale del movimento patriottico dev’essere sempre e con la più grande energia respinta dai nostri compagni, da qualunque parte essa provenga. Ma se nonostante tutti i nostri sforzi non riuscissimo, in simili casi, a dissuadere i nostri amici e alleati, noi dobbiamo fare anche da soli, cercando di trascinare al nostro seguito quante più forze possibili ed agendo sempre però in nome del CLN e sul piano politico dell’unione di tutte le forze popolari e nazionali per la cacciata dei tedeschi e dei fascisti, e mettendo ben in chiaro che con la nostra attività non ci proponiamo affatto degli scopi o degli obiettivi di parte. Queste sono le precise direttive che noi diamo a tutte le nostre organizzazioni, a tutti i nostri compagni in questo momento decisivo per l’insurrezione nazionale. Che tutti siano consci delle grandi responsabilità politiche e morali che pesano in questo momento sul nostro partito nell’Italia ancora occupata dai nazifascisti; che tutti siano decisi a dare tutti se stessi per affrontare 56 Santo Peli, op. cit., pp.155-158. !32 degnamente questa responsabilità, e per portare il nostro popolo all’insurrezione vittoriosa ed alla libertà»57. Tra il 21 aprile e il 2 maggio 1945 si consumò, come sostiene Peli, l’ultimo atto della Resistenza. Il 25 aprile fu la data scelta per ricordare l’insurrezione finale 58: una data di gioia e di festa per gli italiani che avevano combattuto o comunque si erano schierati per la democrazia e la libertà. Emersero invece, come ribadisce Battaglia, le preoccupazioni dei fascisti e dei tedeschi, che avrebbero voluto ottenere le migliori condizioni possibili di resa, ma il Cln fu intransigente e confermò la resa incondizionata; Mussolini reagì minacciando di fare di Milano “una nuova Stalingrado” 59. Di fondamentale importanza appare la testimonianza di Secchia, che documenta la riunione tenuta all’arcivescovado di Milano, con la presenza del cardinale Schuster, a cui parteciparono da una parte Mussolini, Graziani, Zerbino e Barracu e dall’altra i rappresentanti del Clnai (Lombardi, Cadorna, Pertini, Sereni e Valiani). Mussolini avrebbe chiesto un’ora di tempo, ma poi, avrebbe lasciato l’arcivescovado e non sarebbe più tornato: travestito da tedesco avrebbe cercato di fuggire da Milano. Venne catturato e giustiziato a Dongo dalla 52 esima Brigata Garibaldi, comandata da Walter Audisio, su indicazione di Luigi Longo che affermò: «È da tempo che il popolo italiano ha pronunciato la sentenza, non si tratta che eseguirla».60 57 Pietro Secchia, op. cit., pp.1010-1011. 58 Santo Peli, op. cit., pp.168-170. 59 Roberto Battaglia, op. cit., pp.645-646. 60 Pietro Secchia, op. cit., pp.1050-1052. !33 Il cadavere di Mussolini fu esposto appeso per i piedi a Piazzale Loreto, nel centro di Milano, proprio dove, nell’agosto ’44, furono fucilati prima e appesi dopo quindici partigiani, prelevati dal carcere di San Vittore. Il valore simbolico di questa azione era assai profondo perché ad essere capovolta, oltre al corpo senza vita del Duce, era anche la simbologia fascista della scure littoria, quale strumento delle esecuzioni capitali: la vittima adesso era lo stesso Duce del fascismo, vinto e colpevole. Si attuava una sorta di legge del contrappasso61. Pavone sostiene che la Resistenza sia stata interpretata da molti partigiani politicizzati come una guerra di classe e che sarebbe passata alla storia come guerra patriottica e di liberazione, ma in realtà essa sarebbe stata soprattutto guerra civile in quanto fu combattuta tra gli italiani che volevano instaurare la dittatura e gli italiani che volevano conquistare la libertà. Ebbe inoltre i caratteri aspri e feroci comuni a tutte le guerre civili. Furono diversi i giornali dell’epoca, come «Risorgimento liberale», «L’Italia libera» e infine l’«Avanti!» a parlare di guerra civile e a riconoscerla, in quegli anni, già come tale62. Il clima di “guerra civile” si protrasse anche e soprattutto nel periodo del dopo liberazione. Anche se il conflitto bellico si era concluso, scrive lo storico Mirco Dondi, era naturale che le formazioni partigiane combatterono ancora contro i fascisti della Rsi: una logica di distruzione totale volta al completo annientamento del nemico. La determinazione delle formazioni partigiane nei confronti dei fascisti fu ben altra cosa rispetto a quella che mostrarono gli Alleati; questi ultimi, una volta liberata una zona dall’occupazione tedesca, sembrarono quasi disinteressati alla continuazione delle operazioni per debellare le residue forze fasciste. Per 61 Claudio Pavone, op. cit., pp.511-512. 62Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., pp.266-267. !34 alcuni partigiani, invece, il fascista era considerato “più nemico” dello stesso tedesco: ai connazionali repubblichini non si riusciva a perdonare il totale asservimento allo straniero e dunque il tradimento63. La liberazione pose senz’altro fine alla guerra di liberazione contro il tedesco, ma segnò invece la svolta finale della guerra civile contro i fascisti. La presenza alleata, nella prima settimana successiva alla liberazione, non risultò ancora così incombente e soffocante, tant’è che le truppe anglo-americane, scrive Dondi, lasciarono spesso spazi di piena autonomia alle formazioni partigiane per la repressione dei fascisti. Di fatto, i giorni immediatamente seguenti la liberazione rappresentarono il momento più difficile e sanguinoso, caratterizzato da un alto numero di esecuzioni e da una più accentuata condizione di anomia del sistema, ovvero di assenza o carenza di norme sociali. Determinate azioni di guerra compiute dai partigiani contro i fascisti, furono spesso il frutto di un’iniziativa spontanea e individuale motivata da una rabbia viscerale: si voleva far pagare al fascista ciò che aveva fatto per venti anni. Queste azioni però, non rispondevano agli ordini provenienti dal Cln e di fatto provocarono una reazione da parte di Luigi Longo che l’8 giugno ’45, nella seduta della direzione comunista dell’Italia del Nord, non poté fare a meno di affermare: «Nel campo dell’epurazione si commettono delle illegalità che devono essere troncate. Noi non possiamo più permettere che si sopprimano persone alla chetichella, anche perché questi sistemi possono dar luogo ad equivoci tragici. L’epurazione deve essere fatta, ormai in veste legale attraverso tribunali straordinari»64 . 63 Mirco Dondi, Azioni di guerra e potere partigiano nel dopoliberazione, in Italia Contemporanea, n.188, settembre 1992, pp.457- 477. 64 Ibidem. !35 Dal momento in cui il Partito comunista mise in atto una disciplinata organizzazione, ordinando la fine di esecuzioni sommarie e l’avvio di regolari processi epurativi, e dal momento in cui le strutture di controllo alleato cominciarono ad esercitare maggiori pressioni sul Cln, allora si esaurirono completamente le azioni di guerra partigiane. Gli Alleati, inoltre, se da un lato, come ha scritto Dondi, non interferino in un primo momento nella lotta tra partigiani e repubblichini nel periodo del dopo liberazione, dall’altro, come si vedrà successivamente, salvarono molte anime condannate per collaborazionismo dal Cln, ai fini di salvaguardare i propri interessi politici ed economici. Uno dei casi più emblematici fu il salvataggio del repubblichino Junio Valerio Borghese, comandante della sanguinosa X MAS. Gli italiani che avevano scelto di combattere o comunque di schierarsi dalla parte di coloro che volevano la libertà, avevano vinto. Dopo venti anni di dittatura fascista, costoro avevano raggiunto quello che doveva essere il primo dovere di un popolo libero: la conquista della democrazia. !36 CAPITOLO SECONDO La strategia politica del Pci: il tripartito “Per assolvere il compito di creare un’Italia nuova è indispensabile che i partiti si uniscano e collaborino stabilmente. Ed è per questo che il tripartito non è una formula matrimoniale o parlamentare, non è una tendenza occasionale non è, una coabitazione forzata, né un matrimonio di convenienza; ma è un blocco di forze storicamente e politicamente determinato, le quali sanno o per lo meno devono acquistare la consapevolezza che nella situazione concreta odierna di questo paese esse hanno un lungo tratto di strada da percorrere in comune, un compito comune non contingente, né occasionale ma un compito storico che debbono assolvere insieme, se vogliono tener fede alla loro ispirazione originale, allo stato d’animo, agli ideali delle masse che li seguono, se vogliono tener fede, insomma, alle loro parole e ai loro programmi”. Palmiro Togliatti 2.1.La politica di unità nazionale: dall’aprile ’44 all’aprile ’45 Come analizzato nel capitolo precedente, la “svolta di Salerno” sbloccò una situazione difficile che rischiava di durare ancora a lungo. Secondo Pietro Secchia, la svolta, pur avendo rappresentato una specie di “colpo di fulmine che inceneriva il passato”, in realtà fu il punto di arrivo di una lunga serie di tentativi, sino a quel momento falliti, per arrivare ad una conclusione positiva. I colloqui tra Badoglio ed i suoi fiduciari da una !37 parte e i dirigenti del movimento antifascista da Croce ad Arangio Ruiz dall’altra, si erano susseguiti arrestandosi di fronte allo scoglio della monarchia: un cadavere che gli uni volevano tenere in piedi e gli altri seppellire. Come scrisse «l’Unità» nel gennaio 1944: «Se non ci fosse stata la guerra e la necessità di vincerla per schiacciare il nazismo, noi avremmo potuto e saputo risolvere rapidamente la situazione con un’azione rivoluzionaria delle masse. Ma appunto perché c’è la guerra, dobbiamo tutti evitare che le masse tentino di risolvere spontaneamente la situazione in forme che potrebbero essere una limitazione dello sforzo di guerra. Una sola soluzione esiste dunque oggi, che esige l’unità degli antifascisti e la comprensione degli alleati: evitare che il popolo italiano continui ad essere senza governo, fare un governo o un contro-governo che diventi rapidamente il governo del paese. Bisogna farlo! Bisogna dunque prepararlo subito!»65 . Già prima dell’arrivo di Togliatti, la forza con cui era stata auspicata la necessità della formazione rapidissima di un governo che governasse, costituiva una premessa ad un mutamento di strategia politica del Pci, premessa che maturò soprattutto dopo il congresso di Bari dei Cln (28-29 gennaio), quando divenne sempre più evidente l’incapacità della Giunta esecutiva dei Cln di uscire e fare uscire le forze antifasciste dal vicolo cieco in cui si trovavano66. Appena rientrato in Italia, Togliatti nel suo primo discorso pubblico pronunciato a Napoli l’11 aprile 1944, espose in modo esplicito la strategia dei comunisti italiani, e indicò con straordinaria chiarezza – già nell’aprile ’44 – i principi da porre a fondamento di una nuova Costituzione. Sempre a Napoli, Togliatti affermò la necessità di convocare, a tempo debito, un’Assemblea 65Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973, pp.389-390. 66Ibidem. !38 Costituente che avrebbe garantito a “tutti gli italiani” tutte le libertà: la libertà di pensiero e di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi del capitale monopolistico. Il capo del Pci chiarì che le intenzioni dei comunisti non sarebbero state quelle di instaurare un regime che si sarebbe basato sull’esistenza o sul dominio di un solo partito, ma affermò la necessità, in un’Italia democratica e progressiva, dell’esistenza di diversi partiti politici che, Togliatti auspicava, avrebbero collaborato alla rinascita democratica del Paese67. Aggiunse infine Togliatti che nessuno di questi obiettivi sarebbero stati realizzati, se il Pci non sarebbe divenuto un partito di massa, capace di giungere nelle officine, nelle strade, nelle piazze e nelle case, guidando tutto il popolo ad adempiere il ruolo di protagonista nella vita politica dell’Italia. Secchia ricorda che il Consiglio nazionale del Partito comunista, riunitosi il 30-31 marzo 1944, discusse dell’iniziativa della “svolta” e che, nonostante alcune diffidenze al suo interno, la maggioranza del partito si sarebbe convinta, per lo sviluppo della situazione internazionale ed interna, della necessità e del dovere di rafforzare ed estendere l’unità nazionale nella lotta per la liberazione del Paese dall’occupazione nazi-fascista. Il Consiglio si concluse con la stesura di un programma articolato in quattro precisi punti: 1)mantenere intatta e consolidare l’unità del fronte delle forze democratiche e liberali 67 Paolo Ciofi, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità, Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre, 2013 URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituente-santomassimo-ferrara-ciofi/. !39 antifasciste; 2) assicurare formalmente il Paese che il problema istituzionale sarebbe stato risolto liberamente da tutta la nazione, attraverso la convocazione di un’assemblea nazionale costituente, eletta a suffragio universale diretto e segreto, subito dopo la fine della guerra; 3) creare un nuovo governo, di carattere transitorio, ma forte e autorevole per l’adesione dei grandi partiti di massa. Un governo capace di chiedere un ulteriore sforzo di guerra di tutto il Paese e in primo luogo di creare un esercito italiano in grado di battersi contro i tedeschi; un governo capace, con l’aiuto delle grandi potenze democratiche alleate, di prendere misure urgenti per alleviare le sofferenze delle masse e far fronte con efficacia ai tentativi di rinascita delle forze reazionarie; 4) assicurare tutti gli italiani, di qualsiasi convinzione o fede politica, sociale e religiosa, riguardo l’obiettivo della lotta: liberare il Paese dagli invasori tedeschi, dai traditori della patria, dai responsabili della catastrofe nazionale, e al contempo garantire un posto nel fronte del Cvl a tutti coloro che avrebbero voluto battersi per la libertà d’Italia e infine si affermava che in futuro sarebbe stata garantita a tutti la possibilità di difendere davanti al popolo la propria posizione68. Il passo successivo dopo la formazione del fronte politico di unità nazionale, come riporta Lepre, fu il “Patto di Roma”, ovvero il patto di unità sindacale firmato a Roma il 3 giugno ’44 da Giuseppe Di Vittorio, comunista, Achille Grandi, democristiano, e Emilio Canevari, socialista. I protagonisti di questo patto si resero conto di come l’unità sindacale potesse essere lo strumento più efficace per assicurare l’opera di ricostruzione del Paese. L’unità sindacale avrebbe riunito, infatti, tutti i lavoratori italiani per il conseguimento degli obiettivi fondamentali, come la promozione dell’organizzazione e dell’inquadramento del 68 Ivi, pp.395-396. !40 movimento sindacale in tutte le regione liberate; il sostegno con tutte le proprie forze alla guerra di liberazione nazionale; l’assicurazione del massimo collegamento con le masse lavoratrici delle regioni occupate al fine di aiutarle con mezzi adeguati alla lotta; lo studio di tutte le iniziative atte a preparare ed effettuare la ricostruzione del Paese nel pieno riconoscimento dei diritti del lavoro. Nacque in tal modo la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil).69 Ma già il 14 giugno De Gasperi diede vita alle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (Acli) per creare un élite che avrebbe potuto dirigere in altra sede le battaglie sindacali o politiche70. Le Acli nacquero, dunque, per un verso come organismo fiancheggiatore inteso ad offrire un’alternativa alla componente cattolica della Cgil, per un altro verso come riserva strategica in potenziale alternativa all’unità sindacale. Come riporta Secchia, il Pci istituì, nel mese di gennaio 1944, degli organismi dirigenti allo scopo di coordinare l’azione politico-militare con l’azione di massa per lo sviluppo del movimento insurrezionale. Questi organismi presero il nome di “Triumvirati insurrezionali” che, con la loro attività, avrebbero dovuto non solo preparare, ma assicurare la vittoria dell’insurrezione nazionale anche nel caso che gli altri organismi al momento decisivo non avrebbero partecipato 71. In una conferenza dei Triumvirati insurrezionali tenutasi a Milano dal 5 al 7 novembre 1944, Luigi Longo tenne il discorso di apertura affermando che: 69 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, Napoli, 1990, pp. 111-113. 70 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943-1978, Roma, 1978, p.43. 71 Pietro Secchia, op. cit., pp.625-628. !41 «Creare gli organi del nuovo potere popolare. L’articolazione dei CLN in tutta una serie di comitati periferici è della massima importanza non solo per il potenziamento della lotta immediata ma anche per la creazione del nuovo spirito e dei nuovi organi democratici che devono essere la base e l’anima della nuova Italia. E’ con queste prospettive di ulteriori sviluppi, nel quadro della creazione delle premesse e delle basi di una vera e vitale democrazia, che noi dobbiamo condurre tutto il lavoro di mobilitazione e di organizzazione delle grandi masse popolari. I pilastri dell’Italia democratica di domani saranno le formazioni partigiane, tutte le organizzazioni e tutti gli organismi popolari che sono sorti e si sono affermati durante la guerra di liberazione»72. Queste affermazioni, come sottolinea Secchia, chiarivano senza possibilità di equivoci quali fossero gli obiettivi per i quali lottava il Pci: non si lottava per il socialismo ma per un’Italia rinnovata e veramente democratica, basata su nuove strutture sociali i cui pilastri sarebbero dovuti essere le formazioni partigiane e tutte le organizzazioni e gli organismi sorti durante la guerra di liberazione. Questi principi furono confermati da Longo, il quale continuando il discorso chiarì che: «Noi oggi lottiamo non per la dittatura proletaria, ma per la democrazia progressiva che si differenzia da quella non tanto per la sua sostanza democratica, ma soprattutto per il suo contenuto sociale. La democrazia progressiva non colpisce radicalmente il principio della proprietà capitalistica sfruttatrice, come fa invece la dittatura proletaria, la quale conserva però la piccola proprietà privata dei singoli contadini e protegge la comodità personale, nonché il diritto di successione ereditaria di tali beni. Noi lottiamo per la democrazia progressiva, oggi, perché pensiamo che essa offra il solo terreno sul quale è possibile realizzare l’unità nazionale di tutte le forze democratiche e progressive, l’unità necessaria e indispensabile per la condotta vittoriosa della guerra di liberazione, e per la ricostruzione a liberazione avvenuta. È evidente però che la non abolizione del principio della proprietà capitalistica non significa che in regime di 72 Ivi, pp.630-634 !42 democrazia progressiva non si debbano liquidare i più iniqui privilegi del capitale, della grande proprietà e le loro forme più reazionarie. È evidente che tutta una serie di misure economiche e sociali dovranno essere prese perché imposte dalla necessità della guerra e della ricostruzione, oltreché dalle esigenze della giustizia sociale e del progresso. La democrazia progressiva non può essere certo un idillio fra tutti. Essa presuppone al contrario la lotta, perché deve significare il blocco delle forze di tutte le classi progressive e di tutti quanti sono preoccupati dalle sorti che non vorranno rinunciare al loro privilegio, contro i residui ed il ritorno del fascismo».73 Dalla svolta di Salerno in poi i partiti aderenti all’unità politica nazionale si sarebbero dovuti impegnare a stilare vari programmi politici, con l’obiettivo della ricostruzione del Paese. Nell’ottica del Pci il tripartito avrebbe dovuto facilitare questo arduo lavoro di ricostruzione, nel caso in cui avessero remato tutti nella stessa direzione: edificare nel Paese una nuova democrazia, che il Pci definiva “progressiva”. L’elaborazione dei comunisti italiani sulla democrazia progressiva, scrive Höbel, pur sviluppandosi nel fuoco della lotta di liberazione, trova tuttavia il suo primo nascere alcuni anni prima: nel periodo del VII Congresso dell’Internazionale comunista (Mosca 1935) e della svolta dei Fronti popolari, che giunsero al potere in Francia e in Spagna. In questo clima si sviluppò un dibattito più generale sul rapporto tra socialismo e democrazia. Durante il VII Congresso furono Dimitrov e Togliatti a comprendere che la questione democratica andava affrontata diversamente rispetto al passato, in virtù dell’avanzare dei regimi nazionalisti. Dimitrov realizzò che per fermare la spinta nazionalista e reazionaria, l’obiettivo da raggiungere per i comunisti, in quel nuovo contesto storico, sarebbe stato non uno “Stato sovietico, ma uno Stato antifascista orientato a sinistra”: un 73 Ivi, pp. 653-673 !43 tipo particolare di Stato con un’autentica “democrazia popolare” a cui avrebbe collaborato la parte della borghesia dichiaratamente di sinistra 74. Togliatti sviluppò questa intuizione un anno dopo il VII Congresso, nel celebre articolo Sulle particolarità della rivoluzione spagnola, pubblicato nell’ottobre ’36, in cui scrisse: Quella in corso in Spagna è una rivoluzione che possiede la più larga base sociale – operai, contadini, salariati agricoli, vasti settori della piccola borghesia e della stessa borghesia […] è dunque una rivoluzione popolare […] una rivoluzione nazionale […] una rivoluziona antifascista. Il fascismo ha ottenuto, come risultato della sua offensiva, che la piccola borghesia si è decisamente schierata con il proletariato […]. Ma i compiti della rivoluzione democraticoborghese […] il popolo spagnolo li risolve oggi in “modo nuovo” […]. Questa Repubblica democratica […] si crea nel fondo di una guerra civile nella quale la parte dirigente spetta alla classe operaia […] questa “democrazia di tipo nuovo” non potrà […] non essere nemica di ogni forma di spirito conservatore. Essa possiede tutte le condizioni che consentono di svilupparsi ulteriormente75. È questa la situazione in cui versava l’Italia quando Togliatti, rientrando dall’Unione Sovietica, optò per la politica di unità nazionale. Come disse Togliatti ad Aladino Bibolotti, valoroso quadro del Pci che si trovava a Mosca con lui, la “democrazia di tipo nuovo, la democrazia conquistata da una lotta alla testa della quale ci stava la classe operaia”, non andava vista come un “punto di arrivo o di arresto”, ma come una “tappa” di un percorso più ampio. Aldo Agosti, nella sua biografia di Togliatti, collega l’idea gramsciana di “Assemblea costituente”, come strumento per colpire e sradicare il fascismo, con l’idea togliattiana di “democrazia progressiva” e che proprio nel suo carattere processuale segnerà, come 74 Alexander Höbel, La democrazia progressive nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-2. 75 Ibidem. !44 vedremo in seguito, profondamente la stessa Costituzione repubblicana 76. Per Togliatti era ormai chiaro che la lotta per il socialismo sarebbe dovuta essere lotta per una maggiore democrazia e che in questo senso i comunisti avrebbero dovuto rappresentare i “democratici più conseguenti”. A questo proposito, Aurelio Lepre riporta lo scambio di lettere tra i partiti del Cln tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45. Il Partito d’Azione fu il primo a prendere l’iniziativa, scrivendo, il 20 novembre ’44, una lettera aperta a tutti i partiti del Cln al fine di fissare degli obiettivi comuni per il presente e per il futuro del Paese. Il Pda, dopo un’accurata analisi della situazione nazionale, pose la sua attenzione sulla natura del Cln e sui compiti che avrebbe dovuto assolvere: organismo governativo esteso da Nord a Sud, che avrebbe diretto e coordinato la delicata transizione nei giorni della liberazione e che avrebbe dovuto impegnarsi anche nel periodo immediatamente successivo. il Pci fu il primo a rispondere chiaramente, anch’esso con una lettera aperta pubblicata su «La nostra lotta» il 15 dicembre 1944. La tempestività con la quale il Pci rispose alla lettera del Pda dimostrò come essa non solo non lo avesse colto di sorpresa, ma rivelò anzi il compiacimento del Partito comunista sul fatto che un altro partito si fosse persuaso dell’urgente necessità di affrontare apertamente problemi e soluzioni che erano andati maturando da mesi. Si può osservare come il Pci, pur partendo dal riconoscimento della giustezza della linea politica proposta dal Pda e concordando sulle proposte riguardanti il presente, non entrò tuttavia nel merito di quelle concernenti il futuro assetto dell’Italia, ripromettendosi di sviluppare in altra sede le sue posizioni sui singoli tempi di politica interna ed estera77. 76Ibidem. 77 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp. 120-129. !45 Quali fossero le posizioni del Pci, sostiene Secchia, non era un mistero per nessuno, tuttavia fu sufficiente avanzare concrete proposte per estendere i Cln, nella loro composizione e nella loro funzione, nelle fabbriche, nei villaggi, nei quartieri delle città e dichiarare apertamente che il partito li considerava come le nuove strutture su cui avrebbe dovuto poggiare il nuovo Stato, la nuova Italia “democratica e progressiva”, per urtare immediatamente contro la decisa resistenza degli altri partiti della coalizione. Il partito della Democrazia cristiana rispose alle lettere del Pda e del Pci soltanto il 12 gennaio e il Partito liberale soltanto in febbraio. Il profondo sostanziale disaccordo di questi due partiti rispetto alle proposte avanzate spiega la riluttanza ed il ritardo nel rispondere. La Dc riconobbe la necessità dell’unità della Resistenza, quale esigenza necessaria non solo e non tanto a causa della durezza della lotta contro l’oppressore, ma anche per il comune scopo di restaurazione della libertà. Ma subito dopo, lo stesso partito, contestò le affermazioni del Partito d’azione e del Partito comunista relativamente al fatto che questa esigenza di unione sarebbe continuata al di là della lotta e della vittoria per la necessità di ricostruzione. La lettera della Dc respingeva la proposta del Pda e del Pci di allargamento del Cln ad altre organizzazioni non partitiche. Infatti, ricorda Höbel, il Pci era contrario a un Cln come mera coalizione di partiti, e anzi, l’obiettivo che i comunisti si posero era che comitati di lavoratori, “gruppi di difesa della donna” e i Fronti della gioventù, avrebbero dovuto far parte dei Cln78. È una posizione fortemente “ciellenista” che caratterizzò il gruppo dirigente comunista del Nord che vedeva le potenzialità dei Cln a fini di quella “democrazia popolare” che avrebbero voluto far emergere dalla lotta. Il Partito liberale, invece, non soltanto assumeva posizioni analoghe a 78 Alexander Höbel, op. cit., p.3. !46 quelle della Dc, ma fece addirittura l’apologia dello Stato liberale prefascista. Ma oltre alla risposta della Dc e del Pli, un episodio altrettanto importante fu l’atteggiamento del Partito socialista che non comprese l’importanza delle proposte avanzate dal Pda e dal Pci e di fatto assunse posizioni ad esse contrarie. La direzione del Psi si oppose al tentativo di trasformare i Cln da organismi di coalizione di partiti in organismi rappresentativi di larghe masse popolari, che avrebbero dovuto costituire la base della nuova democrazia nella lotta per rinnovare il Paese e le sue strutture79. Già alla vigilia dell’insurrezione partigiana si inasprirono quei contrasti che avrebbero portato rapidamente, dopo la liberazione, alla rottura dell’unità delle forze antifasciste. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, le forze partigiane riuscirono a liberare il Paese prima dell’arrivo degli Alleati e il Pci emanò la “direttiva n.16” per l’insurrezione finale contro i tentativi delle forze conservatrici di boicottare ogni azione popolare. Di seguito si riporta il discorso di Togliatti tenuto il 19 maggio 1945 nella riunione con la segreteria del partito. All’ordine del giorno vi erano due punti: 1)informazioni sulla situazione politica italiana; 2) problemi di organizzazione. «Compagni, voi sapete che noi comunisti non siamo abituati a farci dei complimenti. Il nostro stile di lavoro è abbastanza austero.[...] Voi comprenderete però quanto grande sia la mia commozione nel trovarmi tra voi, a presiedere questa riunione nella quale rivedo tanti vecchi compagni venuti al partito e formatisi alla scuola del partito in periodi diversi.[…] Dobbiamo informarvi sulla situazione politica attuale, del nostro partito. Noi avevamo posto al popolo italiano un compito, un obiettivo fondamentale: dare un contributo decisivo alla liberazione del paese dai tedeschi e dai fascisti.[…] Io credo che oggi possiamo affermare che questo obiettivo di liberazione nazionale dall’invasore tedesco e dai traditori fascisti sia stato raggiunto.[…] 79 Pietro Secchia, op. cit., pp. 770-788. !47 Questo vuol dire che si chiude una tappa della nostra vita nazionale: ma si tratta ora di andare avanti. Quali altri obiettivi fissiamo oggi al popolo, alla classe operaia, al nostro partito? Questo problema oggi è aperto. Non credo che lo risolveremo oggi. Ritengo che una risposta definitiva, circa i suoi obiettivi potremo darla solo al prossimo Congresso del partito, congresso che dovrà riunirsi entro un periodo di tempo non troppo lungo, perché appunto è necessario che un’organizzazione che ha acquistato l’autorità del nostro partito in questi ultimi anni e che gode del più grande prestigio nelle città e nelle campagne, dica a questo proposito una parola decisiva»80 Palmiro Togliatti dopo aver affermato che il primo obiettivo era stato raggiunto, un obiettivo in realtà comune a tutto il movimento resistenziale, continuò il suo discorso esponendo il compito che avrebbe dovuto assolvere il suo partito, l’obiettivo che rincorreva e, come si delinea, le strategie per raggiungere tali scopi politici. Emergono come priorità la convocazione di un Congresso nazionale e dell’Assemblea Costituente. «Noi continueremo ad essere, nella prossima fase della vita nazionale, il partito che conduce la lotta per la difesa del paese. Naturalmente, a questo problema, se ne aggiungono altri, come quello della ricostruzione.[…] Non si può realizzare una seria ricostruzione economica se non si trasforma la base della struttura politica.[…] Di solito si dice: facciamo un’Assemblea costituente che deciderà.[…] Quando si parla di Costituente vi sono due aspetti della questione: da un lato vi è la campagna per la convocazione della Costituente, e dall’altro la necessità di respingere tutte le volontà reazionarie, italiane e non italiane, che interverranno certamente per impedire che dalla Costituente si faccia un organismo che decide nuove leggi, ma non prende nessuna misura che trasformi radicalmente la costituzione stessa del nostro paese. Noi dobbiamo volere invece una simile trasformazione radicale. In quale forma ed in quale misura, fino a dove possiamo arrivare? Democrazia progressiva significa per noi due cose: la democrazia progressiva è una democrazia che distrugge completamente le tracce di ogni regime reazionario fascista o di tipo fascista. Questo significa cioè che non può essere un regime democratico indifferente alla mercé 80 Pietro Secchia, op. cit., pp.1059-1062. !48 delle caste reazionarie. Per il contenuto, questa democrazia è, secondo me, un regime democratico che realizza misure di carattere sociale diverso da quello che esisteva prima del fascismo, diverso da quello che esiste nei paesi democratici di capitalismo puro. Fino a che punto dobbiamo andare e quali sono gli obiettivi che porremo oggi al popolo? La riposta non la possiamo dare oggi. Perciò la campagna per la Costituente sarà per il nostro partito cosa molto più seria che non per tutti gli altri partiti. Noi non possiamo in nessun modo accontentarci di ridurre la campagna per la Costituente ad una campagna elettorale; se la campagna per la Costituente si riducesse a questo, sarebbe un fallimento. La campagna per la Costituente deve essere molto più profonda, per preparare una radicale trasformazione della struttura economica e politica italiana attraverso l’intervento alla vita politica in modo attivo delle masse lavoratrici. Quindi non si tratta soltanto di avere alte adesioni, si tratta di svolgere una vasta azione di carattere economico, politico e sociale che metta in movimento anche gli strati più arretrati della popolazione, nelle città e nelle campagne, che porti ad elaborare esse stesse proposte concrete per la nostra organizzazione economica e politica.[…] Solo in questo modo si darà una coscienza al popolo, perché non si tratta di indire una riunione coi dirigenti degli altri partiti per arrivare ad un accordo o ad un compromesso, ma dobbiamo far entrare sempre la forza delle masse lavoratrici che devono salvare l’Italia. Lo stesso quando si parla di Repubblica. Non basta dire che l’Italia sarà una Repubblica. Ci sono state tante repubbliche come la Finlandia, l’Ungheria, la Francia nel periodo precedente alla guerra, l’Italia con la repubblica fascista, in cui gli operai venivano massacrati. Vogliamo dunque una Repubblica che abbia un determinato contenuto politico e sociale; vogliamo una Repubblica costituita in modo che il fascismo non possa più darci noia, in modo che le caste reazionarie non abbiamo più il sopravvento» 81 . In questo discorso, il capo del Pci confermava sia la linea politica sia la strategia del partito. Auspicava, inoltre, una ricostruzione democratica dell’Italia con la partecipazione di tutte le forze democratiche. Emergono anche, da parte di Togliatti, preoccupazioni nei riguardi di tutte quelle forze interne ed esterne che avrebbero ostacolo il nuovo cammino dell’Italia democratica e antifascista. 81Ibidem. !49 Höbel riporta un pensiero dello storico Paolo Spriano, il quale a giudizio di quest’ultimo, il concetto di “democrazia progressiva” delineato da Togliatti è un “intreccio di democrazia popolare e di democrazia rappresentativa”. Inoltre, le prospettive che il capo del Pci indicava nel suo discorso erano da tutto il Pci accettate, corrispondevano agli obiettivi che il partito si era imposto durante l’arco resistenziale cercando un coinvolgimento delle altre forze politiche. A giudizio di Paolo Ciofi, presidente dell’associazione culturale «Futura Umanità», è difficile contestare in quella fase storica la strategia togliattiana. Essa infatti conseguì importanti risultati, come l’abbattimento della monarchia, risolvendo democraticamente la questione istituzionale, e aprì, al tempo stesso, la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si sarebbero innalzati a “rango di classe dirigente”. Come disse a suo tempo il segretario del Psiup Pietro Nenni: «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca»82. D’ora in poi esamineremo il difficile periodo della ricostruzione economica e politica del Paese, ma soprattutto il deterioramento della formula tripartita. Di conseguenza il Pci, dopo numerosi tentativi per il mantenimento del tripartito, fu costretto a cambiare la propria strategia politica. 82 Paolo Ciofi, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità, Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre, 2013 URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituente-santomassimo-ferrara-ciofi/ p.2. !50 2.2.Gli Alleati in Italia: dall’occupazione militare alla politica di“contenimento” Come già accennato nel capitolo precedente, gli Alleati sbarcarono in Sicilia nel luglio del 1943: da allora in poi, scrive Ellwood, sicuri di avere la supremazia, gli anglo-americani cominciarono a riflettere in modo concreto sui rapporti tra la condotta bellica e i loro interessi, presenti e futuri in Europa meridionale e nel bacino del Mediterraneo 83. Prima della guerra, sostiene Ellwood, i capi di Stato maggiore inglesi fecero osservare ai loro superiori politici che una potenza nemica nel Mediterraneo avrebbe potuto alterare in maniera disastrosa il delicato equilibrio di difesa dell’impero tra l’Europa e l’Estremo Oriente e sollecitarono ogni possibile accordo con potenziali nemici84. Infatti, come afferma Aterrano, un’Italia ostile nel Mediterraneo avrebbe impedito la libera circolazione delle navi commerciali inglesi e ciò portò i britannici ad attuare una politica preventiva, cercando più volte di accordarsi con il Duce. Il 29 gennaio 1940 da Londra giunse l’ennesima proposta di fornitura di materie prime in cambio di munizioni e aeromobili, aggiungendo ora venti milioni di sterline da mettere a disposizione degli italiani; ma ancora una volta Mussolini rifiutò la proposta, ponendo bruscamente fine alle trattative e anche alla politica preventiva degli inglesi nei confronti dell’Italia 85. D’ora in avanti Churchill cambiò linea politica, additando, come abbiamo già visto, nella persona di Mussolini le 83 David W. Ellwood, L’alleato nemioco: la politica dell’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, 1977, pp.29-30. 84 Ibidem. 85 Marco Maria Aterrano, Mediterranean-First? La pianificazione strategica anglo-americana e le origini dell’occupazione alleata in Italia (1939-1943), Napoli, 2017, pp.25-29. !51 responsabilità dei disastri fascisti. La presenza americana nel Mediterraneo invece, come documenta Ellwood, fu in gran parte una conseguenza della guerra. Gli Usa avevano interessi commerciali nell’area mediterranea e il commercio statunitense nel corso degli anni ’30 era quasi triplicato in certi paesi86. Prima di arrivare all’8 settembre 1943, afferma Ellwood, le trattative finali per l’Italia furono condotte da Roosevelt e Churchill il 15 agosto a Quebec, dove furono approvate e ritrasmesse ad Eisenhower dodici richieste; lo scopo immediato era di evitare il pericolo che i tedeschi potessero instaurare un’amministrazione collaborazionista a Roma o che si facesse un passo verso l’anarchia. Gli Alleati erano consapevoli del fatto che i termini dell’armistizio erano duri e fecero il possibile per evitare critiche in Italia e in patria: non furono pubblicate le direttive per l’occupazione della Sicilia, poiché l’Ufficio di guerra riteneva “che la loro pubblicazione avrebbe dato al nemico un’ottima occasione per fare propaganda ed avrebbe fornito materiali a giornalisti in mala fede sia in Gran Bretagna che in America”87. I nuovi occupanti, scrive lo storico inglese, si resero ben presto conto che tra i loro programmi politici per la penisola e la cruda realtà fisica dell’Italia meridionale alla fine del 1943 c’era un abisso. Gli Alleati erano entrati a Napoli il primo ottobre, accolti da “gente isterica, urlante”. La fame dominava su tutto e da Washington provennero segnali diffidenti. Roosevelt infatti, ritenne che sarebbe stato meglio lasciare l’Italia nel più breve tempo possibile; ma poco più di un mese dopo, questi manifestò a Churchill la sua ferma volontà di un controllo comune della situazione. Nel frattempo nuove notizie dal 86 David W. Ellwood, op. cit., pp.31-33. 87Ivi, pp.56-59. !52 Nord alimentarono la tensione. All’inizio di marzo 1944, tra tutte le zone occupate dai tedeschi in Europa, a Milano e a Torino ebbe luogo il primo sciopero generale: da tre a sei milioni di lavoratori incrociarono le braccia. Il «New York Times» commentò: «In tutta Europa occupata non si è verificata nessuna dimostrazione di massa che possa essere paragonata alla rivolta dei lavoratori in Italia. È il momento culminante di una campagna di sabotaggi, di scioperi locali e di guerriglia che ha avuto meno pubblicità di tutti gli altri movimenti di resistenza solo perché l’Italia settentrionale è rimasta isolata dal mondo esterno. Ma è la prova decisiva che gli italiani, disarmati come sono e in una duplice schiavitù, lotteranno con coraggio indomito quando avranno causa per cui combattere. Lo sciopero dei lavoratori nel Nord fa capire che gli italiani possono avere qualcosa da dire sul loro governo e perfino sul loro destino al momento della resa dei conti. È un altro segno che l’Europa che nascerà dalla sconfitta della Germania avrà forse progetti per il futuro che non sempre coincideranno con i piani delle grandi potenze»88 . In effetti la Resistenza incuteva timore agli Alleati, che guardavano con diffidenza l’intero movimento; ma mentre gli inglesi attuavano una politica repressiva nei confronti dell’Italia, gli americani sembravano propensi a seguire una diversa linea politica, più conforme ai principi della Carta Atlantica 89 e infatti Murphy e Kirk, due responsabili dell’Oss, ai primi di maggio dichiararono che gli Usa avrebbero dovuto assumersi l’iniziativa di discutere l’eventualità della concessione di uno status di alleato per l’Italia. Gli inglesi, al contrario, non erano d’accordo con una tale linea. Poco dopo, infatti, quando alla liberazione di Roma vennero sostituiti al governo di Badoglio i partiti del Cln, Churchill ebbe un terribile scoppio d’ira 88 Ivi, pp. 64-71. 89 Ivi, pp.75-77. !53 contro “questa banda del tutto inattendibile di reduci politici non eletti”90 e ordinò che fosse revocato il cambiamento di governo e che Badoglio ritornasse alla sua carica mentre si consultavano l’Acc (Allied Control Commission) e i vari governi. Ma a Washington il Dipartimento di Stato si dissociò immediatamente dalla linea britannica e sostenne che il veto espresso alla nomina del conte Sforza come ministro degli Esteri – dovuta chiaramente ad un’iniziativa personale del generale britannico MacFarlane – non rappresentava la posizione del governo degli Usa. Come fece osservare Roosevelt, si sentiva da tempo l’esigenza di allargare politicamente il governo, mentre qualsiasi tentativo di imporre dei veti avrebbe avuto solo l’aspetto di una interferenza91. Per spiegare questo atteggiamento differente da parte degli Stati Uniti, bisogna riportare una testimonianza di Ellwood in merito ad un rapporto redatto da un conoscente di Tittman (responsabile del War Office americano) e datato marzo 1944, in cui gli Usa venivano invitati ad accettare “una magnifica base nel cuore dell’Europa e del Mediterraneo per estendere la loro influenza civilizzatrice e per una vantaggiosa penetrazione economica, basata su un investimento di capitali americani da realizzarsi nel più breve tempo per trarre vantaggio dalle favorevoli condizioni monetarie e psicologiche”92. Si faceva il nome di De Gasperi come di un potenziale leader politico e il relatore non mancava di menzionare l’abisso comunista che attendeva l’Italia nel caso l’America non fosse intervenuta93. In una 90 Ivi, p.78. 91 Ivi, pp. 88-90. 92 Ivi, p.91. 93 Ivi, pp.94-96. !54 riunione congiunta di Capi di Stato maggiore, il generale McNarney suggerì che si stabilissero contatti con il Vaticano poiché, secondo il generale, la Santa Sede avrebbe avuto tutte le potenzialità per controllare un maggior numero di persone del governo stesso e che quindi sarebbe stato un grosso vantaggio riuscire a stabilire rapporti corretti con esso 94. Proprio dal Vaticano Papa Pio XII attirò l’attenzione dell’emissario personale di Roosevelt, l’ex presidente dell’U.S. Stell Co. Myron Taylor, esponendogli la propria inquietudine sulla possibilità che si diffondesse il comunismo in Europa e sul pericolo molto reale che si sviluppasse notevolmente in Italia, soprattutto nel periodo della ricostruzione politica e sociale. In diverse occasioni il pontefice espresse il desiderio a Taylor che gli eserciti alleati non lasciassero l’Italia per un lungo periodo di tempo95. Agli americani non restava altro che studiare un programma per la ricostruzione del Paese, ma dal momento del loro arrivo nell’Italia liberata la situazione non era cambiata, bisognava attuare prontamente un programma di aiuti economici. Così, sottolinea Ellwood, il 26 settembre 1944 con la “dichiarazione di Hyde Park” si avviò un vasto programma di aiuti e di sussidi diviso in due parti, una politica e l’altra economica. Nel primo caso erano comprese misure intese a trasferire maggiore responsabilità dagli Alleati al governo italiano e a dare al governo qualche segno tangibile della sua nuova autorità. La seconda invece, serviva ad alleviare la fame, le malattie e le paure: l’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) avrebbe provveduto al soccorso medico. Tali manovre furono effettuate anche con l’obiettivo che la sinistra non 94 Ibidem. 95 Ivi, pp.92-93. !55 traesse vantaggio dalle difficili condizioni materiali 96. Sebbene il 1944 fu un anno denso di ipotesi, discussioni, conflitti e segni premonitori per la condotta politica della guerra in Italia, l’anno successivo, come vedremo, fu ancora più complesso e ricco di eventi. Come afferma Ellwood, tra i responsabili inglesi della politica estera che si erano ritenuti arbitri del futuro dell’Italia, cominciava a farsi strada l’idea che, se non si faceva ricorso ad una notevole opera di convincimento e di persuasione, l’isolazionismo avrebbe trionfato negli Usa, lasciando l’impero britannico privo di una copertura strategica ed economica. In altre parole, l’impero stava crollando sotto il suo stesso peso e sotto il peso della guerra. Gli inglesi furono dunque d’accordo sull’immediata necessità di “incastrare” gli americani nei conflitti di potere creatisi in Europa e nel Mediterraneo 97. Non appena incominciò a profilarsi la fine della guerra, la situazione generale era di dimensioni drammatiche. A tal proposito apparve sempre più chiara l’intenzione degli americani di costruire un nuovo ordine mondiale integrato in funzione delle esigenze del capitalismo americano. Il problema, nei giorni dell’insurrezione partigiana, fu quello di fronteggiare la massiccia organizzazione dei Cln di fabbrica; il 4 maggio l’Oss da Torino riferì: «La situazione politica nelle fabbriche sta diventando grave» e ancora il 5 maggio: «A Torino la situazione si sta rapidamente deteriorando. Le industrie non funzionano affatto per colpa dei comunisti, che hanno occupato le fabbriche e stanno mettendo in atto un’epurazione a largo raggio e indiscriminata. Le forze partigiane, in particolare quelle di sinistra, 96 Ivi, pp.98-106. 97 Ivi, pp. 125-128. !56 nascondono armi nelle zone periferiche. Sono dotati di un armamento pesante grazie al bottino preso ai nazi-fascisti»98 . Si sollecitava dunque l’intervento urgente dell’Amg (Allied Military Government). Furono settimane, afferma Ellwood, in cui coloro che venivano riconosciuti come collaboratori ad alto livello del fascismo, in particolare industriali e dirigenti, temevano per la propria vita e guardavano ad un’unica opzione per la loro salvezza: il prolungamento della permanenza delle truppe alleate sul territorio. Anche da Milano arrivavano analoghe preoccupazioni, infatti l’industriale Piero Pirelli disse al console generale americano Maclean, che se non fosse giunto un immediato rifornimento di materie prime, ci sarebbero state scarse possibilità di un ritorno a un qualsiasi tipo di ordine politico o economico. Lo stesso dirigente della Fiat, Vittorio Valletta, rischiò l’esecuzione sommaria in fabbrica, essendo stato condannato all’unanimità dal Cln regionale come collaborazionista, ma quando giunse il momento del suo arresto si sarebbe mostrato ben preparato. Da una testimonianza di Giorgio Amendola si ricorda che quando la sua formazione partigiana andò per arrestare Valletta, trovò nella villa dove si era rifugiato, un ufficiale inglese di collegamento, che presentò un salvacondotto per Valletta, in cui stava scritto che egli aveva fatto il doppio gioco collaborando non soltanto con i tedeschi ma anche con i servizi segreti anglo-americani. “L’Italia si trova a un bivio“ 99, scrisse l’ammiraglio Stone in un ampio saggio apparso alla fine di giugno ’45 e che circolò in maniera persuasiva nei vari livelli degli organi di controllo anglo-americani. 98 Ivi, p.130. 99 Ivi, p.147. !57 L’ammiraglio esponeva i suoi timori di un trionfo comunista nel caso in cui non ci fosse stato un intervento strutturale a lungo termine. L’analisi di Stone rappresentò una importante contributo nell’evoluzione della consapevolezza anglo-americana dei problemi italiani: essa illustrò le premesse ideologiche profondamente anticomuniste della linea politica della nuova fase, oltre che un programma di mediazione efficace e coerente per il periodo della ricostruzione. Da funzionario cosciente delle sue responsabilità soprannazionali, Stone seguì una corretta linea bipartitica (i sovietici erano ormai stati classificati come il nemico), ma per la maggior parte di coloro che si interessavano all’Italia apparve subito chiaro che una sola potenza aveva i mezzi per realizzare effettivamente un programma del tipo di quello descritto dal capo dell’Ac (Allied Commission); il solo problema ancora aperto era se l’opinione pubblica e la macchina amministrativa americana erano disposte ad assumersi responsabilità tanto gravi e precise100. Dall’ex presidente Usa Herbert Hoover fino all’ultima persona interessata ai problemi dell’Europa liberata a metà 1945, erano tutti concordi sull’obiettivo immediato e prioritario: spedire subito dei viveri per fermare il comunismo; ma non era semplice stabilire quale istituzione avrebbe pagato, come e con quale motivazione. Come riporta Ellwood, diversi enti erano interessati alla situazione: l’Amministrazione economica all’estero, la Export-Import Bank, l’Unrra, ma l’esecutivo americano sapeva che prima che una di queste fosse completamente mobilitata, si sarebbero dovuti convincere il Congresso e l’opinione pubblica che la considerevole spesa ormai inevitabile avrebbe probabilmente dato buoni risultati. Poi tutto tacque. La suggestiva immagine delle navi 100 Ivi, pp.145-150. !58 cariche di grano che arrivavano dall’America per salvare l’Italia dalle “orde rosse” appartiene ad una fase successiva dell’anticomunismo. L’elemento più significativo del panorama del 1945, spiega Ellwood, era la relativa mancanza di abilità operativa, l’incapacità a trasformare le parole in fatti 101. Nel frattempo in Italia la tensione interna continuava a crescere. Il console americano a Genova riferì che nel Nord “tutti coloro che avevano una proprietà o vasti interessi finanziari avevano paura di un’azione violenta da parte di gruppi comunisti e di un troppo rapido ritiro delle forze alleate”. Il parere generale, continuava il console, era che i comunisti avrebbero cercato di instaurare uno Stato comunista se le truppe alleate si sarebbero ritirare troppo presto, cioè prima che sarebbero trascorsi due anni102. In qualche caso i funzionari americani interrogarono addirittura i leader comunisti sulle loro intenzioni. Come scriveva il console americano a Milano, rispondendo alle sue domande, Longo dichiarò che l’obiettivo finale era, naturalmente, la creazione di uno Stato basato sui ben noti principi del marxismo, ma aggiunse anche che l’Italia era una nazione sconfitta, appena uscita da una guerra catastrofica e che i problemi di fronte ai quali si trovava erano così urgenti e seri che richiedevano un’azione immediata e che quindi il programma del Partito comunista doveva essere realisticamente pratico piuttosto che ideologico. A Roma, invece, i principali rappresentanti anglo-americani all’ambasciata e all’Ac concordavano con De Gasperi nel ritenere che elezioni immediate avrebbero favorito i comunisti e i socialisti. Inoltre, un altro grave problema da 101 Ivi, pp.163-164. 102 Ivi, p.170. !59 affrontare sarebbe stata la questione istituzionale, che, sempre in accordo con De Gasperi, sarebbe dovuta esser risolta per mezzo di un referendum piuttosto che da una Assemblea Costituente, considerata molto più manovrabile dagli elementi estremisti. La situazione appariva quindi critica per gli Alleati. Sempre a Roma, scrive Ellwood, un’altra visione allarmante proveniva dal Vaticano e principalmente Papa Pio XII sosteneva che se i partiti della sinistra fossero rimasti uniti il risultato sarebbe stato una dittatura di sinistra in Italia103. Il 1945 stava terminando con la dichiarazione delle quattro libertà ribadite da Roosevelt; analogamente alla Carta Atlantica, la dichiarazione era impregnata del classico spirito dell’autodeterminazione: Roosevelt ricordò a Churchill, che quali fossero le difficoltà relative ai tempi di realizzazione e alle concessioni, non vi era alcun dubbio circa i grandi obiettivi come l’autodeterminazione. Come affermò il presidente americano: «Seguire altre vie significherebbe negare l’essenziale democrazia che c’è in noi»104. Lungo la via della realizzazione di questo rinnovato modello wilsoniano, afferma Ellwood, si incontravano però serie difficoltà nel tenere insieme teoria e prassi intorno ai temi dell’autodeterminazione e dell’indipendenza nazionale. Critici di questi principi erano E. H. Carr e Walter Lippmann. Proprio quest’ultimo definì il vecchio concetto dell’autodeterminazione “barbaro e reazionario” e assolutamente estraneo allo “spirito americano e contrario alla civiltà”. La sua ostilità derivava dal fatto che quel concetto respingeva l’ideale di uno Stato in cui gente diversa 103 Ivi, pp.171-189. 104 Ibidem. !60 trovava giustizia e libertà sotto leggi uguali per tutti e diventava una patria sola. Lippman sosteneva che le piccole nazioni non avevano nessuna possibilità di avere una politica estera indipendente. Esisteva invece un nuovo tipo di interdipendenza tra coloro che risiedevano in determinate zone di sicurezza strategica e lo espose così: «Lo Stato più grande provvede alla protezione che – essendo la tecnica della guerra moderna quella che è – nessun piccolo Stato è in grado di procurarsi. Gli Stati più piccoli provvedono in cambio alle facilitazioni strategiche necessarie per la comune difesa che essi sono in grado di fornire e fanno uso dei loro poteri sovrani per proteggere il loro grande vicino dalle infiltrazioni, dagli intrighi e dallo spionaggio. L’indipendenza dei piccoli Stati è di vitale interesse per il loro grande vicino, appunto perché essi contribuiscono in maniera così rilevante alla sicurezza dei vicini»105. Il trattamento che gli Stati Uniti programmava di riservare all’Italia, scrive Ellwood, rifletteva il pensiero che Lippmann e altri ideologi del suo stampo avevano auspicato. Tuttavia questo modello non sarebbe mai potuto essere applicato integralmente, poiché esisteva ancora in America un’opinione pubblica isolazionista poco propensa ad affrontare altri sacrifici per portare la “libertà” ai popoli dell’Europa. Affinché si potesse applicare un simile modello economico, gli uomini dell’Oss riportarono a Washington le numerose testimonianze provenienti dall’Italia, basate su alcuni fatti ed eventi reali, ma con molta manipolazione della situazione, sfruttando a loro vantaggio il pericolo comunista in Italia. Di fronte alla svolta a sinistra dell’opinione pubblica europea, di fronte alla conquista di un certo tipo di potere da parte delle classi 105 Ivi,p.192 !61 lavoratrici come conseguenza della Resistenza, di fronte all’esigenza di un salto in avanti qualitativo nello sviluppo sociale, politico ed economico in nazioni arretrate a causa del conservatorismo autoritario, di fronte a pressioni di questo genere, il sistema di “buon vicinato” appariva astratto ed utopistico: un ordine internazionale ideale da realizzare in momenti di maggiore serenità. L’ideologia destinata a prevalere era invece, come sostiene Raymond Aron, quella del “contenimento”, concetto che riuniva alcuni elementi essenziali della tradizione dell’autodeterminazione all’obbligo di mantenere governi favorevoli alle istituzioni ed alle ideologie degli Stati Uniti. In Italia la dinamica di questo processo si può tracciare chiaramente dal 1944 in avanti106. Conclude Ellwood che accogliere una simile sfida andava molto oltre la capacità delle classi dominanti europee, disorientate ed indebolite, ma rappresentava un campo d’azione nel quale gli americani erano impazienti di investire le loro energie, non appena furono stati messi da parte i vincoli del neoisolazionismo. Come la minaccia sovietica però non basta a spiegare a fondo l’intervento politico americano in Europa dopo il 1944, così gli obiettivi economici espansionistici degli Stati Uniti non possono essere considerati esclusivamente come il prodotto delle esigenze del commercio e degli investimenti. Si stava delineando un nuovo contesto politico ed economico che di fatto stava già dividendo, e divise successivamente, l’Europa in due parti. Per quanto impossibile scegliere a quale sfera d’influenza appartenere, i due ordini contrapposti avrebbero dovuto avviare un programma politico ed economico di tipo progressivo che avrebbe dovuto rispecchiare le 106 Ivi, pp.194-201. !62 nuove aspirazioni dei popoli d’Europa, desiderosi di una politica nuova e largamente democratica. Sarebbe stata questa una competizione sotto tutti i punti di vista tra il modello statunitense e quello sovietico. Prima del famoso discorso di Winston Churchill nel marzo 1946, riguardo la “cortina di ferro” che stava dividendo l’Europa, fu Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich, nel febbraio 1945, ad accorgersi, già prima della fine del conflitto bellico mondiale, della “cortina di ferro” che stava scendendo sull’Europa. Il concetto di prosperità, la costante preoccupazione per i livelli di vita e per i mezzi idonei a elevarli nelle zone sconvolte dal vecchio mondo, il significato politico di una economia in espansione, tutti questi elementi riflettono il cristallizzarsi di una visione dell’ordine internazionale che gli Usa potevano sfruttare in modo diretto. I programmi di riforma portati in Italia dimostrarono che il modello aveva un complemento politico che mirava ad adattare lo Stato e la stessa classe dominante alle nuove richieste proveniente dal basso, per arrivare quindi ad un accordo tra le classi a favore del buon governo107. Per effettuare questo ambizioso programma economico, però, gli Stati Uniti necessitavano di una situazione politica sicura, avevano bisogno di un partito politico che avrebbe potuto garantire loro l’avvio di tale programma economico. A tal proposito lasciamo l’ultima parola di questo paragrafo ad un corrispondente del «Times» di Londra, che iniziò un resoconto sull’atmosfera prevalente a Roma nel luglio 1945 con una citazione da Proudhon: 107 Ivi, pp.422-425. !63 «Fintanto che gli italiani non avranno fatto la loro rivoluzione, saranno alla mercé dello straniero, del prete e del pretoriano. La guerra era finita, ma quelle figure ben note continuavano ad agitarsi. Per il momento ci si è liberati dei pretoriani, ma possono risorgere. L’influenza del prete in campo politico è più estesa che in qualsiasi altro paese. Lo straniero è ben presente»108. 2.3.La precarietà del tripartito: partiti politici in direzione ostinata e contraria Alla liberazione, scrive Lepre, Psiup (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), Pci e Pda chiedevano un governo che rifletteva la nuova situazione. L’insurrezione armata del 25 aprile fece passare, come abbiamo visto, l’iniziativa politica nelle mani delle sinistre. La presenza degli eserciti alleati e le posizioni che conservatori e moderati presero anche nella nuova situazione posero, invece, a tale iniziativa limiti ben precisi109. La maggior parte delle autorità alleate che arrivarono nelle città industriali del settentrione, mostrarono ammirazione e diffidenza per l’organizzazione messa in atto dai Cln. Ma soprattutto diffidenza dal momento in cui a fine maggio, i rappresentanti della sezione lavoro dell’Ac chiesero con urgenza la sospensione immediata dei Consigli di gestione, la sostituzione da parte dell’Amg o del governo italiano delle commissioni di fabbrica nominate dal Cln. Il Partito comunista ipotizzò già ad aprile che la situazione poteva mutare, infatti alla vigilia dell’insurrezione, il II Consiglio nazionale del partito chiese di convocare quanto prima un 108 Ibidem. 109 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p.159. !64 Congresso nazionale dei Cln e, in vista delle prime elezioni amministrative nell’Italia libera, propose la “municipalizzazione di tutti i servizi indispensabili alla collettività”, proprio come “base di uno Stato democratico e progressivo”110. La presenza delle forze alleate salvò quei dirigenti di primo piano che non erano fuggiti, come nel caso di Valletta del quale abbiamo già parlato. Era inevitabile che la situazione producesse dei risentimenti, soprattutto per chi aveva progettato una seria resa dei conti a liberazione avvenuta. Nella seduta del Clnai del 27 giugno 1945 si affermò che: «Dove poi le autorità alleate frappongono i maggiori ostacoli è nel campo dell’epurazione. Qui il CLN piemontese è gravemente ostacolato nel suo compito di giustizia dalle autorità alleate stesse, le quali si trovano a contatto con i vari “magnati” del Piemonte, partecipando a festini e pranzi che fortemente offendono la sensibilità popolare. E la malefica influenza di tali contatti non si verifica soltanto nel campo epurativo ma in tutte le attività nelle quali i signori di Torino, più o meno implicati nel passato regime, hanno interessi rilevanti e ciò con grave pregiudizio per gli interessi del popolo»111. La richiesta di un governo che fosse espressione delle forze di liberazione, afferma Lepre, fu fatta propria a Milano da tutti i partiti del Cln112 e gli americani, che seguivano un programma di stabilizzazione da attuare nella prima fase dopo la fine delle ostilità, scrive Elwood, concordarono con i rappresentanti del Cln di instaurare un governo, seppure temporaneo, che avrebbe dovuto 110 Alexander Höbel, op. cit., p.4. 111 David W. Ellwood, op. cit., pp.397-399. 112 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p.160. !65 essere in possesso di notevole qualità e capace di assolvere determinate funzioni: doveva rappresentare tutti i settori della popolazione, garantire libertà civili e promuovere riforme113. Il Psiup, afferma Lepre, propose la candidatura di Nenni alla testa del nuovo ministero, ma l’ipotesi di un primo ministro socialista incontrò la più decisa opposizione della Dc. Così in accordo con gli americani e per conservare ancora l’accordo tra i partiti del Cln si scelse Ferruccio Parri, che in giugno formò il primo governo della liberazione. A Nenni andò la vicepresidenza, ma essa fu controbilanciata con la concessione di un’altra vicepresidenza, liberale, presieduta da Manlio Brosio 114. I partiti politici cominciarono in questa nuova fase a prendere posizioni diverse che minacciavano di fatto l’unità politica perseguita sino a quel momento. Queste scelte erano dettate necessariamente anche dalla situazione internazionale che vedeva ormai non più funzionale l’alleanza tra i Tre Grandi: l’Europa cominciava a dividersi in due blocchi. Ma parlare di un preludio di guerra fredda era ancora prematuro per compiere scelte azzardate, ma di fatto i rapporti politici erano fortemente condizionati dal nuovo contesto internazionale. Lo aveva compreso già De Gasperi, come scrive Severino Galante, che divenne l’interlocutore privilegiato dei già citati Kirk e Charles, ma i tempi erano ancora troppo precoci per una rottura politica che sarebbe stata inopportuna115. In questa prospettiva, afferma Lepre, si decise per la formazione di un unico partito dei lavoratori, la cosiddetta “fusione” 113 David W. Ellwood, op. cit. , p.155. 114 Aurelio Lepre, op. cit., pp.161-163. 115 Severino Galante, La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947, Milano, 1979, pp.18-19. !66 tra Psiup e Pci. La lotta per il raggiungimento di questo obiettivo si svolse essenzialmente nel Psiup, che in quel momento pose l’accento essenzialmente sulla conquista di potere politico, rispetto alla quale la fusione poteva essere uno strumento importante 116. Il 17 novembre 1945 Leone Cattani, per il partito liberale, inviò agli altri partiti del Cln una lettera in cui attaccò l’azione del governo, accusandolo di inefficienza, di mancanza di unità e di incertezza sui problemi economici e monetari. L’attacco, essenzialmente, si fondava su pretesti tecnici ma fu politico e tese, oltre che ad arrivare alle elezioni per la Costituente su posizioni il più possibile sfavorevoli per le sinistre, ad evitare il cambio della moneta ed una epurazione che colpisse ai vertici dello Stato. Il 22 novembre i ministri liberali si dimisero aprendo di fatto un periodo indubbiamente assai denso di pericoli per le forze della sinistra perché le destre tentarono di escluderle dal governo con l’obiettivo massimo di sostituire le elezioni per la Costituente con un plebiscito. Il tentativo fallì, ma il nuovo governo che venne formato nel dicembre da Alcide De Gasperi non costituì una soluzione avanzata rispetto a quello di Parri. L’attacco delle destre fu bloccato, ma a prezzo di qualche compromesso: la Consulta venne limitata ancor più rigidamente nei suoi compiti, consultivi e non legislativi; si decise infine, che insieme alle elezioni per la Costituente, si sarebbe svolto anche un referendum istituzionale: in tal modo l’elettorato democristiano, che a differenza dei membri del partito, era in netta maggioranza monarchico, avrebbe potuto pesare in modo più determinante sulla scelta tra monarchia e repubblica117. 116 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.165-168. 117 Ibidem. !67 Dal 29 dicembre ’45 al 6 gennaio ‘46 si tenne a Roma il V congresso del Pci: questo era diventato un partito di massa con 1.700.000 iscritti. Il primo obiettivo era stato raggiunto, ora si affermava la necessità di fronteggiare le forze conservatrici, di utilizzare nel modo più razionale possibile le scarse risorse del Paese per una sua ricostruzione. Si affermava, scrive Renzo Martinelli, l’esigenza primaria di giungere alle elezioni per la Costituente, per gettare “le basi di una più audace e più concorde opera di rinnovamento”. Il leader del Pci tracciò con chiarezza i tratti fondamentali della nuova Costituzione, che avrebbe dovuto avere il carattere di “un programma per il futuro”, nel quale era previsto un rinnovamento non solo politico, ma anche economico e sociale118. Togliatti, scrive Galante, sembrava negare non tanto l’esistenza delle sfere d’influenza, bensì il fatto che tra esse si ergesse o potesse ergersi una barriera. In effetti nel dopoguerra i dirigenti comunisti italiani non ebbero dubbi sull’esistenza delle sfere d’influenza angloamericana e sovietica dato che ebbero sempre ben presente la necessità vitale di tenere conto del fatto che l’Italia aveva una sua precisa collocazione nella sfera di influenza delle potenze occidentali. La divisione in due dell’Europa non era infatti semplicemente il risultato accidentale delle vicende belliche: essa era stata il frutto consapevolmente perseguito dai governi della grande e strana alleanza, che però seppero ben mascherare con la proclamazione di elevati e sublimi valori che avevano lentamente messo in evidenza durante la loro marcia attraverso l’Europa. Per il Partito comunista italiano, che si trovava ad operare in un paese vinto e occupato dagli 118 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista. Il “Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile, Torino, 1995, pp.44-45. !68 eserciti dell’ala capitalistica della Grande Alleanza, si aveva la consapevolezza delle enormi difficoltà che avrebbe incontrato nel realizzare il suo programma politico. Dal momento in cui il Pci era impossibilitato a scegliere a quale sfera appartenere, poiché essa non poteva essere oggetto di scelta, la sua decisione avrebbe riguardato la qualità della collocazione: contenuti, modi e tempi dei rapporti economici, politici, diplomatici e militari dell’Italia con le altre potenze dell’area e in primo luogo con la potenza egemone. Fu questo l’oggetto della contesa sui temi internazionali fra le forze politiche italiane e in particolare dello scontro tra Democrazia cristiana e Partito comunista119. Il tripartito era seriamente compromesso ma comprendere che la politica di unità nazionale sarebbe stata efficiente solo nella guerra di liberazione non era così complicato. Infatti già dal delinearsi dei primi programmi politici dei partiti aderenti al patto di unità nazionale emergevano sostanziali differenze, come si può notare da “Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana” nel 1943. Come ha osservato Elena Aga Rossi, in campo economico e sociale le proposte contenute nelle “Idee Ricostruttive”, pur essendo sulla linea del programma popolare (soprattutto per quanto concerneva la riforma agraria), si ponevano su un piano di maggiori rivendicazioni sociali, riflettendo l’estrema mobilità e il dinamismo della situazione interna ed internazionale del momento. Esse però non si inserivano in un programma di radicale rinnovamento delle strutture della società italiana, bensì in un quadro di politica economica ispirata al liberalismo – anche questa un’eredità del partito popolare – anche se leggermente corretta da alcune indicazioni di interventismo statale e 119 Severino Galante, op. cit., pp.34-38. !69 di misure antimonopolistiche120. Anche nello scambio di lettere avvenuto alla fine della fase resistenziale, ovvero tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45, cominciarono a profilarsi direzioni politiche “ostinate e contrarie”. I primi mesi del 1946, afferma Martinelli, furono caratterizzati dal dibattito che si svolse, in un acceso clima politico, nella compagine governativa intorno al problema della data della Costituente. La soluzione del referendum, che i comunisti osteggiarono apertamente, finì per imporsi sulla base di un compromesso politico. La scelta, infine, fu accettata perché i partiti di sinistra si convinsero che la monarchia sarebbe stata destinata alla sconfitta121. Ma prima ancora di giungere al 2 giugno, tra marzo ed aprile si tenne un altro evento che riveste un’importanza non trascurabile: le elezioni amministrative. È questa la prima occasione in cui le donne italiane ebbero il diritto di votare; a tal proposito Togliatti pronunciò: «queste elezioni sono le prime nella nostra storia che si svolgono in un clima che offra alcune garanzie fondamentali di democrazia e di libertà» 122. Ma a parte le considerazioni di Togliatti, si ha l’impressione che il corpo del partito abbia trascurato questa occasione, investendo invece un notevole potenziale di energia e di passione nella scadenza relativa alla Costituente. Il 2 giugno 1946 è una data che segna un’altra svolta nella vita politica italiana: i risultati del referendum istituzionale diedero la vittoria alla Repubblica che ottenne 12.717.923 voti contro 10.719.284 della Monarchia. 120 Elena Aga Rossi, Dal partito popolare alla Democrazia Cristiana, Bologna, 1969, pp.82-83. 121 Renzo Martinelli, op. cit., p.63. 122 Ivi, p.64. !70 D’ora in avanti la vita politica italiana entrerà in una nuova fase influenzata soprattutto dal nuovo contesto internazionale: la Dc seguirà la strada di partito moderato facendosi garante delle necessità provenienti d’oltreoceano, mentre il Pci, fortemente ancorato al proseguimento della formula tripartita, non vorrà rinunciare al posto che aveva ottenuto al Governo, non perdendo mai di vista quelli che erano i suoi obiettivi nella ricostruzione politica ed economica del Paese. Ma con il tripartito ormai al collasso e le future manovre anticomuniste sarebbe stato ancora in grado il Pci di seguire la stessa strategia politica? O avrebbe dovuto studiarne un’altra? !71 CAPITOLO TERZO Il fallimento del tripartito: la fine di un compromesso storico “Questa guerra non è stata come quelle del passato. Chiunque occupa un territorio impone anche il proprio sistema sociale. Ognuno impone il proprio sistema nei limiti in cui il suo esercito ha il potere di farlo. Non può essere diversamente”. Joseph Stalin 3.1.La ricerca di una stabilità politica: la Dc e gli Stati Uniti Il primo governo della Repubblica italiana nasce nel luglio 1946: il secondo presieduto da De Gasperi. Esso fu, a giudizio di Martinelli, un governo intimamente fragile e diviso e che ebbe, di conseguenza, una vita incerta e assai breve 123. Il Pci, coerentemente alle conclusioni tratte dal V Congresso, dimostrò un’acuta consapevolezza, dopo che il compromesso tra le forze conservatrici e quelle più avanzate ottenne un risultato importante come la conquista della Repubblica, sui temi più scottanti della politica economica124. Già il 26 giugno il Partito 123 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista. “Il Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile, Torino, 1995, p.118. 124 Ibidem. !72 comunista elaborò un documento sui problemi economici, quale Proposte del Partito comunista per un programma immediato di Governo che «l’Unità» pubblicò prontamente. Il documento presentava un insieme di provvedimenti di emergenza, tra i quali l’adeguamento di salari, stipendi e pensioni e la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria. Per la realizzazione di questo programma il Pci propose misure tributarie e di confisca dei profitti di regime e di guerra, ma la Democrazia cristiana contrappose a tali rivendicazioni delle misure piuttosto generiche per evitare la crescita dei prezzi. Quando il clima si inasprì, allora la Dc propose un compromesso, ovvero l’adeguamento delle pensioni e la revisione dei salari per le categorie particolarmente disagiate. Lo sforzo del “Partito nuovo”, come lo definisce Martinelli, era rivolto a ottenere dal governo De Gasperi determinate misure di politica economica. Già nella riunione della direzione del 27 luglio Togliatti avanzò, in questo senso, la proposta di un “nuovo corso” nell’economia italiana: un nuovo corso che sarebbe sfociato a creare né un’economia comunista né un’economia socialista, ma che avrebbe introdotto nella struttura del Paese, nella direzione dell’attività economica di tutta l’Italia, determinati elementi di direzione che avrebbero permesso l’acceleramento dell’opera di ricostruzione nell’interesse della collettività125. Erano gli stessi concetti che il leader del Pci espose chiaramente nella seduta del 24 luglio in Assemblea Costituente affermando che: «Il pericolo della rinascita fascista sta nel fatto che vediamo organizzarsi e muoversi, con lo stesso metodo di allora, le stesse forze di allora, gli uomini che hanno nelle mani la Confederazione degli industriali e la Confederazione degli agricoltori; […] Ecco dove sta il 125 Ivi, pp. 124-126. !73 pericolo. In questi gruppi sociali, in questi uomini e nei loro portavoce, che noi vediamo spuntare di nuovo da tutte le parti, che si stanno insediando di nuovo alla testa delle società anonime, delle grandi associazioni industriali […]. Stiamo attenti a questo pericolo, cerchiamo di comprendere come a questo pericolo si deve far fronte tutti insieme e sin dall’inizio»126 . In questa seduta, Togliatti oltre che esporre proposte di politica economica, denunciò anche il pericolo crescente delle forze “monopoliste”. Le stesse, a suo giudizio, che appoggiarono il fascismo e che dunque portarono alla rovina il Paese. Un potere economico che bisognava, per i comunisti, limitarne l’azione; solo in questo modo i nuovo diritti democratici dei lavoratori avrebbero trovato una reale constatazione nella pratica. Ma il Partito comunista, come osservò lo stesso Togliatti, avrebbe necessitato di una buona preparazione per assolvere il ruolo di “partito nuovo”. Vi erano ancora diverse contraddizioni causate dal conservatorismo degli anziani leader. Infatti come sostiene Galante, nel corso degli ultimi anni il Pci aveva sempre individuato nelle iniziative della Gran Bretagna l’origine delle maggiori minacce politiche all’indipendenza italiana. I dirigenti comunisti temevano che l’economia italiana sarebbe stata soggetta a quella britannica, essendo quest’ultima una potenza economica. Per spiegare tale linea di pensiero si deve tener conto della cultura politica dei vecchi e nuovi dirigenti comunisti, dell’ambiente e dell’epoca in cui essi si erano formati; infatti i più anziani leader erano cresciuti in un clima internazionale nel quale la Gran Bretagna coniugò al plurisecolare interesse del controllo dei mari, in particolare del Mediterraneo, un’acuta rinnovata attenzione per i problemi dell’equilibrio europeo che la 126 Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, Roma, 1974, pp.121-122. !74 indusse a porre gradualmente fine a una lunga fase di “splendido isolamento” e a impegnarsi sempre più attivamente nelle vicende continentali dominate dalla minaccia dell’egemonia tedesca127. Negli anni delle due guerre queste linee d’intervento della politica estera inglese si erano consolidate ed anzi, anche a seguito delle crescenti difficoltà dell’impero coloniale in Medio Oriente, era ulteriormente aumentato l’interesse per il controllo del Mediterraneo. Con interpretazioni diverse, dati i tempi, i luoghi e i climi politici profondamente differenti in cui erano stati recepiti, questi elementi di una lunga tradizione storica costituirono le premesse culturali dei giudizi di politica estera formulati dai dirigenti comunisti nell’immediato dopoguerra. Dopo la prima guerra mondiale tra gli americani era prevalso l’isolazionismo e gli Stati Uniti per lunghi anni si erano disinteressati politicamente e diplomaticamente (non certo economicamente) dell’Europa e non era da scartare la possibilità che avrebbero ripetuto quella scelta anche nel secondo dopoguerra. Le vicende dell’occupazione alleata dell’Italia sembravano d’altronde confermare il disinteresse statunitense: segnali come quelli del doppio caso Sforza, a cui si è già accennato, potevano essere letti in questa chiave 128. Per tutto il 1946 il Pci continuò ancora ad attribuire alla Gran Bretagna, come sottolinea Galante, il ruolo di “punta di diamante”129 dell’imperialismo internazionale. Ancora alla fine di ottobre ‘46, riferendosi a recenti discorsi dei maggiori uomini di Stato statunitensi e inglesi, «l’Unità» definiva quello di Truman: «il più equilibrato ed il più 127 Severino Galante, La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947, Milano, 1979, pp.29-31. 128 Ibidem. 129 Ivi, p.32. !75 cauto, quello di Bevin il più inquietante, quello di Churchill il più scopertamente aggressivo, per non parlare di Attlee»130. Ma il giudizio si rovesciava quando si passava dal piano politico-militare a quello economico: qui il peso degli Stati Uniti appariva incontestabilmente maggiore di quello della Gran Bretagna e si avvertiva che la maggiore minaccia all’indipendenza economica nazionale proveniva da oltre Atlantico131. Questa convinzione aumentò dopo il 3 gennaio 1947, ovvero quando il leader democristiano, Alcide De Gasperi, si recò negli Stati Uniti. Il 20 gennaio, afferma Galante, a conclusione della conferenza-stampa organizzata per illustrare i risultati del suo viaggio negli Stati Uniti, Alcide De Gasperi dichiarò: «La divisione del gruppo socialista, le dichiarazioni del congresso repubblicano, ci confermano nell’opinione che il chiarimento è più che mai indispensabile per il bene del Paese e che è opportuno fare appello alla saggezza del Presidente della Repubblica e ricorrere a una consultazione generale onde gettare le basi di un Governo fondato sulla fiducia nei rappresentanti del popolo e capace di affrontare vigorosamente i problemi di politica interna e di quella internazionale»132. Con queste parole, sostiene lo storico comunista, il leader democristiano apriva la crisi del secondo governo da lui stesso presieduto, dando l’avvio alla fase conclusiva di un processo iniziato da tempo e che nel giro di soli cinque mesi avrebbe condotto, con l’estromissione delle sinistre dalla direzione del Paese, a una svolta nella vita politica italiana e di conseguenza a un mutamento radicale della strategia comunista. 130 Ivi, p.33. 131 Ivi, p.34. 132 Ivi, p.11. !76 Come afferma Lepre, le argomentazioni usate dal presidente del Consiglio per motivare il suo non inatteso gesto prendevano spunto dalla crisi del Psiup, spezzatosi al Congresso di Roma a Palazzo Barberini (9-13 gennaio 1947) per la scissione dell’ala socialdemocratica che aveva dato vita al Psli e dalle dichiarazioni del XIX Congresso del Partito repubblicano italiano (Bologna,17-20 gennaio) fortemente critiche nei riguardi della politica governativa133. Era però evidente, sostiene Galante, che dietro tali motivazioni vi era dell’altro, come De Gasperi stesso lasciava intendere, e che la decisione non nasceva improvvisa, ma si radicava nel passato ed era frutto di un disegno politico da tempo progettato e che soltanto ora il capo democristiano poteva proporsi di tradurre in realtà. La linea politica di De Gasperi era completamente inscritta in una prospettiva che escludeva la possibilità di una collaborazione di lunga durata coi comunisti; se la collaborazione al governo vi era stata ed era durata tre anni, ciò non era dipeso sicuramente dalla volontà di De Gasperi ma era stata imposta ai dirigenti democristiani dallo stato di necessità determinato dall’esistenza della Grande Alleanza internazionale, dalle vicende della guerra e della Resistenza, oltre che dalla scelta togliattiana di Salerno. Tatticamente e nel breve periodo la collaborazione presentava vantaggi che non andavano sottovalutati. Strategicamente e nel lungo periodo costituiva una parentesi che andava chiusa quanto prima per realizzare, senza condizionamenti sostanziali di altre forze politiche, il progetto politico della Dc134. In questa situazione, De Gasperi dovette temporeggiare ancora, ma le difficoltà crescevano. All’acuirsi della tensione sociale, 133 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.326-332. 134 Severino Galante, op. cit., pp.15-23. !77 che caratterizzò l’estate del’46, si accompagnò l’intensificazione delle spinte interne alla Dc volte ad accelerare la fine del tripartito. Il primo a muoversi fu l’oppositore funzionale di De Gasperi, Giovanni Gronchi, il quale, intervenendo nel dibattito parlamentare di luglio come presidente del gruppo democristiano alla Costituente, accusò esplicitamente il Pci di fare il doppio gioco usando argomenti che nei mesi successivi sarebbero diventati patrimonio comune della maggioranza dei dirigenti democristiani. Le accuse rivolte al Partito comunista erano che questo avrebbe voluto instaurare un regime dittatoriale come quello sovietico, spacciandolo sotto il falso nome di democrazia progressiva, o ancora, che il partito ricevesse grossi finanziamenti dall’Urss per attuare un colpo di stato in Italia. Tuttavia De Gasperi riuscì a far prevalere ancora la tesi dello stato di necessità per ragioni di “aritmetica parlamentare”. Per evitare che la situazione gli sfuggisse di mano, De Gasperi avrebbe dovuto bruciare le tappe adeguando il proprio ritmo a quello degli alleati, concorrenti e avversari: il viaggio negli Stati Uniti del gennaio 1947 va collocato in questa prospettiva. In effetti, la Santa Sede non perse occasione per ribadire la propria linea a De Gasperi. Il 12 novembre ’46 monsignor Montini si incontrò con il capo della Dc, il quale gli riferì, facendogli capire che non parlava a titolo personale, che qualunque collaborazione coi “partiti anticlericali” non era più ammessa. Se la Dc avesse continuato tale collaborazione, continuò Montini, sarebbe stata definita un partito “filonemico”. De Gasperi replicò che una rottura immediata con le sinistre avrebbe significato per la Chiesa un prezzo altissimo: la rottura del delicato equilibrio capace di assicurare la riconferma dei Patti lateranensi nella Costituente135. Nonostante le pressioni della Santa Sede, prevalse 135 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943–1978, Roma, 1979, pp.81-82. !78 ancora una volta la linea degasperiana volta ad attendere il momenti giusto. A giudizio di Magister, De Gasperi si mostrò ancora una volta abile a dettare una linea per il suo partito frutto di una sua scelta personale e mai imposta dall’alto. La scelta americana era stata, fin da settembre 1942, con il “memorandum” Dalla Torre, l’asse della politica internazionale degasperiana. Essa cominciò a dare i primi frutti nel dicembre 1944, quando De Gasperi, come già accennato, ottenne la carica di ministro degli Esteri nel secondo gabinetto Bonomi. Da quel momento in poi egli diresse la politica estera italiana, ma soprattutto poté dirigere i rapporti con gli Stati Uniti sfruttando a fondo l’interesse americano di trovare validi interlocutori tra gli antifascisti italiani136. Sulla stessa linea, sostiene Lepre, si muovevano anche la Segreteria di Stato vaticana e Pio XII che sollecitarono un intervento sempre più deciso degli Usa nelle vicende italiane e prospettarono un’alleanza che avrebbe dovuto garantire gli assetti interni della penisola e insieme i crescenti interessi statunitensi nell’area mediterranea137. La pressione congiunta di De Gasperi e del Vaticano, avrebbe ottenuto, nel corso del 1945, secondo Galante, risultati consistenti: l’ipotesi politica più accreditata tra gli esponenti americani in Italia era ormai quella degasperiana di un’alleanza tra liberali-moderati e democristiani in funzione anticomunista. La morte di Roosevelt non poté che favorire tale prospettiva: per le sue convinzioni profondamente anticomuniste e antisovietiche, Truman era più che propenso a raccogliere le sollecitazioni provenienti da più parti e radicate anche nelle esigenze strutturali del sistema economico americano, che auspicavano un irrigidimento della politica estera statunitense nei confronti dei sovietici 136 Ibidem. 137 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.276-280. !79 e il superamento delle alleanze di guerra. Tra la fine del ’45 e i primi mesi del ’46 prese sempre più corpo il disegno della “pax americana” e l’acuta sensibilità di Truman lo portò a constatare quanto era radicata la tradizione cattolica-cristiana in un paese come l’Italia. Identificando nella Santa Sede la depositaria dei principi cristiani, il neo presidente statunitense, ancor più di Roosevelt, comprese la via essenziale da intraprendere per l’attuazione del disegno americano. La strategia politica dell’alleanza era così definita, almeno nelle linee essenziali: toccava alla Dc di De Gasperi, in Italia, trattarne gli aspetti pratici138. La linea democristiana, afferma Lepre, continuò ad essere quella già adottata anche dal Vaticano negli anni precedenti: amplificando rischi e pericoli bisognava convincere gli Stati Uniti che la situazione italiana era drammatica e che soltanto un appoggio consistente alla Dc avrebbe potuto assicurare una ricostruzione politica ed economica senza traumi del Paese, tale da fornire agli americani le più ampie garanzie strategiche. Per quanto ben disposti, infatti, gli Stati Uniti non poterono appoggiare incondizionatamente le proposte italiane: essi avevano sufficientemente individuato l’importanza strategica dell’Italia, come già ebbe modo di riconoscere E. H. Carr, definendola: «il più importante corridoio marittimo del mondo»139, ma, in questa fase storica essi operavano su uno scacchiere ben più vasto e avrebbero dovuto quindi subordinare le scelte locali alle esigenze della loro politica globale140. 138 Severino Galante, op. cit., pp.24-25. 139 David W. Ellwood, L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana 1943-1946, Milano, 1977, p.29. 140 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.281-282. !80 De Gasperi, secondo Galante, non si era recato negli Stati Uniti sospinto esclusivamente da motivi di ricognizione: scopo fondamentale della visita era quello di consolidare le simpatie americane e cristallizzare le disposizioni favorevoli della classe dirigente statunitense. Ciò significava per la Dc e per De Gasperi in prima persona, consolidare definitivamente il ruolo di interlocutori privilegiati che avevano cercato incessantemente di conquistarsi, battendo ogni altro possibile concorrente, ottenendo risultati concreti, tali da tradursi immediatamente in maggiore prestigio in patria. Benché i risultati economici e diplomatici della visita si rilevarono assai inferiori alle aspettative, De Gasperi sarebbe riuscito a ottenere ciò che politicamente più gli premeva e l’ottenne muovendosi su un terreno coerente con la situazione internazionale: l’enfatizzazione della minaccia comunista e l’indicazione di se stesso come l’unico valido garante di un governo stabile, di ispirazione moderata, strettamente legato agli obiettivi generali della politica estera statunitense 141. Dal canto loro gli americani erano abbastanza propensi a prestargli ascolto purché egli fosse stato in grado di dimostrare veramente che avrebbe attuato ciò che prometteva. In sostanza, per la Democrazia cristiana era giunto il momento di prendere decisamente in mano le redini del governo occupandone tutti i posti chiave con uomini di saldo ancoraggio moderato per dimostrare così ai suoi alleati che la Dc non era affatto disposta a lasciarsi condizionare dalle sinistre ed era anzi decisa ad imporre il suo marchio a tutta la politica italiana. Ciò era ora possibile, necessario e indispensabile: possibile per le mutate condizioni parlamentari; necessario per rassicurare l’elettorato moderato; indispensabile per fornire agli Stati Uniti la dimostrazione che De Gasperi era in grado di 141 Severino Galante, op. cit., p.26. !81 attuare quanto aveva dichiarato di voler fare. Nella pratica quindi era la Dc il partito che avrebbe potuto garantire quella sicurezza politica ed economica che gli Stati Uniti ricercavano in Italia per inserirla definitivamente nel blocco antisovietico, attuando in tal modo il progetto americano di consolidazione del blocco occidentale. 3.2.La reazione del Pci e la conferma di una linea politica L’obiettivo di De Gasperi, afferma Galante, non sfuggì al Partito comunista. I dirigenti del Pci interpretarono le sue dimissioni come un tentativo di indirizzare l’Italia su una rotta diversa dalla politica d’unità nazionale seguita sino a quel momento142. Le modalità e i tempi scelti per annunciare le dimissioni, continua Galante, si prestarono fin troppo opportunamente a suggerire un collegamento tra il viaggio negli Stati Uniti e l’apertura della crisi; sicché i comunisti percepirono immediatamente il problema. «L’Unità» identificava la fiducia nella democrazia italiana, da parte degli Usa, che De Gasperi dichiarò di avere ottenuto durante la sua visita, unita all’apertura della crisi, con l’ipotesi che il presidente del Consiglio avrebbe potuto rompere la coalizione tripartita in cambio di un prestito straniero. Il timore che ciò potesse avvenire era stato esternato dal Pci fin dal momento della partenza di De Gasperi. In quell’occasione, il 3 gennaio 1947, «l’Unità» aveva esplicitamente ammonito «il presidente del Consiglio e capo della Democrazia cristiana a non dimenticare a Washington che fine supremo 142 Ivi, pp.29-30. !82 della politica estera italiana doveva essere la difesa della nostra indipendenza» 143. Il quotidiano comunista sostanziò questo invito con chiare allusioni a coloro che reputava i veri ispiratori del viaggio, cioè gli Stati Uniti e il Vaticano144. Come già accennato, il Pci fino al 1946 avrebbe considerato la Gran Bretagna il paese “capitalistico monopolistico” che più avrebbe potuto danneggiare l’indipendenza italiana, invece ora cominciava ad accorgersi di quanto l’indipendenza del Paese sarebbe stata seriamente minacciata dalla potenza americana. Il Pci seguì attentamente il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti senza eccessivo pessimismo, infatti come afferma Galante, i comunisti italiani, mentre constatavano e accettavano le strategie internazionali di allineamento e la loro logica, cioè la capacità di muoversi al loro interno senza proporsi neppure astrattamente di uscirne, contemporaneamente insistevano nel rifiuto dei blocchi politici, che avrebbero sancito la fine della collaborazione internazionale e sollecitato la crescita di un antagonismo sempre più acuto che non avrebbe mancato di influenzare anche i rapporti politici e di forza interni ai singoli paesi 145. Nel caso dell’Italia, se si fosse consolidato l’irrigidirsi dei blocchi politici, ciò avrebbe comportato due conseguenze: la prima è che avrebbe sottratto ai comunisti un’utilissima copertura internazionale al loro progetto interno di “democrazia progressiva”, inteso a edificare, come scrive Ellwood, un regime di democrazia borghese pienamente applicabile, anche senza incorrere in una netta opposizione statunitense, che avrebbe attribuito all’Italia il ruolo di zona di passaggio tra i due 143 Ibidem. 144 Ivi, p.36. 145 Ivi, p.38. !83 diversi sistemi146. In secondo luogo, scrive Galante, tale tendenza avrebbe accelerato il processo di crisi dell’unità antifascista e frapposto ostacoli al mantenimento della solidarietà tra le forze democratiche, che invece anche nei primi mesi del ’47, avrebbe rappresentato per il Pci la strategia politica prioritaria da salvaguardare in vista della democrazia progressiva 147. Su tali premesse, continua lo storico padovano, Togliatti tentò di innestare il concetto di “via nazionale al socialismo”. Ciò avvenne nel corso della III Conferenza di organizzazione del Pci, svoltasi a Firenze dal 6 al 10 gennaio 1947, in concomitanza col viaggio di De Gasperi negli Usa. A un anno di distanza dal V Congresso, questa Conferenza sarebbe stata convocata per esaminare la migliore organizzazione del partito affinché avesse assolto la funzione di “Partito della Rinascita” 148. L’intenzione fu dunque non solo quella di non mettere in discussione la linea politica seguita fino ad allora, ma anzi di confermare la strategia politica del tripartito. Dopo un anno dal V Congresso si trattava, afferma Galante, di verificare se e in quale misura il partito fosse riuscito a superare i limiti politici; di individuare con estrema precisione le carenze che ancora sussistevano e ostacolavano il pieno dispiegarsi della strategia comunista, e infine, di trovare i mezzi per liberarsene e per adeguare le strutture organizzative ai fini politici immediati per il futuro. Furono dunque questi gli obiettivi che andavano definiti con chiarezza, di fronte alle resistenze tenaci e alle incomprensioni che la linea togliattiana continuava a incontrare nel partito, sia ai vertici che alla base149. Alla Conferenza, scrive Lepre, 146 David W. Ellwood, op. cit., p.341. 147 Severino Galante, op. cit., p.39. 148 Ivi, p.40. 149 Ibidem. !84 Togliatti non pronunciò minimamente parole di accusa nei confronti di De Gasperi, ma espresse in modo maggiore rispetto al passato giudizi assai negativi sugli Stati Uniti e dichiarò che bisognava fare ancora molto in Italia, visto che a suo parere, dopo la conquista della Repubblica si sarebbe definita nella democrazia italiana una fase di stallo: «L’Italia non è ancora divenuta né completamente repubblicana, né completamente democratica»150. Nel caso dell’esercito infatti, secondo Galante, dopo il 2 giugno si sarebbero fatti passi indietro: invece di epurare i quadri compromessi col vecchio regime si sarebbe prospettata l’epurazione di quelli democratici. Infatti, con l’avvento del democristiano Mario Scelba al dicastero degli Interni, il 4 febbraio 1947, il processo di estromissione dei partigiani dal corpo di polizia, assunse ritmi ancora più intensi e fu finalizzato alla creazione di un esercito nuovo 151. Ma il peggio era che nemmeno le conquiste politiche fino ad allora realizzate potevano essere mantenute a lungo se non si fosse riusciti a sbloccare la situazione e a far progredire la democrazia italiana sul terreno dell’economia, delle riforme e della struttura sociale del Paese. A questo punto il Pci avrebbe dovuto affrettarsi a reagire. Ma in che modo? Togliatti aveva una convinzione: «È certo che riusciremo a spingere avanti la democrazia italiana per il cammino di un rinnovamento radicale soltanto se riusciremo a creare e a mantenere una unità, un blocco di forze democratiche, le quali, muovendosi sul terreno della democrazia, sappiano far fronte alla resistenza delle vecchie caste reazionarie, sappiano spezzare questa resistenza e realizzare tutte quelle riforme che è necessario utilizzare»152. 150 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.248-250. 151 Severino Galante, op. cit., p.75. 152 Ivi, pp.41-43. !85 Togliatti nel ’47 in effetti aveva riconfermato la strategia già preannunciata nel ‘44. Nell’aprile del 1944, il segretario del Pci avrebbe ammonito i suoi che la strategia da seguire per gli operai italiani non poteva coincidere con quella attuata in Russia e usò l’esempio sovietico per fornire maggiore autorevolezza alla proposta di una politica di larga unità nazionale antifascista da seguire in Italia. Dopo tre anni Togliatti si riferiva ancora all’esperienza sovietica; non lo faceva in tono così perentorio come a Salerno, ma la sostanza era identica: l’Urss non era un modello da imitare. Questa convinzione Togliatti la esternò già nel 1937 all’intellettuale austriaco Ernst Fischer, in merito all’ondata repressiva in Urss: la nuova lotta per il socialismo era prima di tutto lotta per una maggiore democrazia153. Togliatti concluse il suo intervento alla III Conferenza, ispirato forse dalla recente visita a Belgrado, affermando che la profonda diversità dello sviluppo storico dei vari paesi del mondo aveva imposto altrettanti obiettivi differenti alla classe operaia dei vari paesi, cosicché ogni partito comunista nazionale si sarebbe potuto sciogliere dai vincoli dell’Internazionale e sentirsi autorizzato a operare secondo una linea conforme alle specifiche condizioni nazionali. Secondo Galante, la visita del novembre 1946 di Togliatti a Belgrado presso il maresciallo Tito, potrebbe essere stata decisiva per il preservare nella sua strategia politica. In quel periodo la tensione tra la linea politica sovietica e quella jugoslava cominciava ad accentuarsi, sfociando poi nello “scisma” del ’48. In quell’occasione i delegati jugoslavi avrebbero aspramente criticato i dirigenti italiani, accusandoli di non aver imitato l’esperienza 153 Alexander Höbel, op. cit., p.2. !86 jugoslava, di aver privilegiato l’unità antifascista di vertice rispetto a quella di base, di aver frenato l’evoluzione rivoluzionaria154. Togliatti rispondeva a tali critiche, sottolineando la bontà della propria linea politica intesa come un contributo originale allo sviluppo del “marxismo vivente”, come uno sforzo volto a superare “schemi interpretativi sclerotizzati”, formule astratte da “catechismo marxista”, per insegnare invece a distinguere una situazione dall’altra155. Togliatti insisteva infatti molto più sulle distinzioni e sulle differenze che non sulle analogie: la differenza tra Unione Sovietica e Jugoslavia in primo luogo. Da una parte dittatura del proletariato e soviet, dall’altra un regime democratico avanzato, che sarebbe confluito nella direzione del socialismo e organismi nuovi creati attraverso la lotta di liberazione, e per mezzo dei quali si esprimeva la sovranità popolare. Ma anche la differenza tra Italia e Jugoslavia: Togliatti ammise che tra le due situazioni sarebbero potute esistere affinità qualora fosse stato possibile conservare i Comitati di Liberazione Nazionale e potenziarne il ruolo, ma ribadì che vi sarebbe stata una grande diversità a causa della diversa natura tra Cln jugoslavo e italiano: organismo di massa il primo, movimento fondato su una federazione di partiti il secondo156. Infatti, secondo Martinelli, la parte più interessante dell’intervento di Togliatti alla Conferenza di Firenze riguarda la prospettiva che andava delineandosi nella situazione data: «il marxismo non è un dogma […] ma una guida per l’azione. Ora l’azione della classe operaia oggi è arrivata a un punto tale che per 154 Severino Galante, op. cit., pp.44-46. 155 Ibidem. 156 Ivi, p.47. !87 svilupparsi deve seguire strade nuove […] attiro la vostra attenzione su un grande esempio: quello della Jugoslavia»157. Togliatti attirava l’attenzione sul compito del partito di trovare la “via italiana” di sviluppo della democrazia e di lotta per la realizzazione delle più avanzate riforme democratiche: si confermava la linea politica del partito. Il terreno economico fu la questione più delicata della Conferenza: la consapevolezza che soltanto gli Stati Uniti, dichiara Lepre, avrebbero posseduto il potenziale economico necessario alla ricostruzione europea era ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica italiana in forme spesso viziate da miti provvidenzialistici: cominciò a serpeggiare tra gli italiani, ridotti ancora in una situazione quasi di miseria, il “sogno americano”158. Del resto, scrive Galante, la Democrazia cristiana non perse occasione per lusingare tali aspettative e presentarsi come l’unico strumento capace di tradurle in realtà, grazie all’instaurazione di legami sempre più stretti e privilegiati con gli Usa. In effetti, De Gasperi, lo esternò anche pubblicamente: ai giornalisti che lo interrogarono circa le sue possibilità di risolvere la crisi, egli rispose di essere “ottimista” e poi aggiunse: «altrimenti non mi ci sarei messo. Non voglio rischiare i vantaggi che hanno dato i risultati del mio viaggio negli Stati Uniti. Io rappresento un contributo positivo che non deve andare perduto»159. È evidente che il presidente del Consiglio si servì e si sarebbe servito dell’appoggio politico degli Usa per consolidare il consenso dell’opinione pubblica italiana attorno alla Dc. La reazione dei comunisti 157 Renzo Martinelli, op. cit., p.170. 158 Aurelio Lepre, Storia d’Italia dall’Unità a oggi, cit., p.317. 159 Severino Galante op. cit., p.48. !88 fu diversa da quella che si poteva prevedere: per tutto il mese di febbraio e oltre, il Pci si astenne dal formulare pubblici discorsi critici contro la Democrazia cristiana, tenendo sempre presente la linea politica e quindi la strada del compromesso storico160; anche se un anno prima, l’8 agosto 1946, in un editoriale pubblicato su «Rinascita», sottolinea Lepre, Togliatti avrebbe scritto che in Italia c’era stato “un compromesso”, che avrebbe lasciato la guida dell’economia alle forze conservatrici. In cambio si sarebbe ottenuta “la democratizzazione del paese nel suo complesso”. A giudizio di Lepre, questa sottovalutazione dell’economia di fronte alla politica può apparire singolare, soprattutto in un marxista come Togliatti. In realtà sarebbe derivata dalla lezione di Lenin e Stalin di cui si fece maggiore interprete, secondo Lepre, il socialista Pietro Nenni, con la sua parola d’ordine “politique d’abord”, che pose appunto, la politica al primo posto. La rinuncia a ogni tentativo di agire con riforme che avrebbero inciso sulla struttura economica avrebbe segnato la futura politica del Pci 161. Tuttavia, come già esaminato, il Pci, dal V Congresso in poi, cominciò a volgere la propria attenzione anche all’economia, portando, come si vedrà, un proprio programma a riguardo anche alla Costituente. Ma il segretario del Pci era più che conscio ad ammettere le carenze insite nel partito in campo economico e che, di conseguenza, la maggiore attenzione dei quadri dirigenti era molto più indirizzata al contesto politico. Il 30 gennaio 1947, a conclusione di una riunione della Direzione del partito e del Comitato direttivo del Gruppo parlamentare democristiano, sottolinea Galante, la linea degasperiana sarebbe riuscita ancora una volta a piegare le ultime resistenze dei parlamentari, i quali approvarono 160 Ibidem. 161 Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., pp.279-280. !89 un ordine del giorno nel quale affermavano che la crisi non sarebbe stata impostata sulla esclusione od umiliazione di alcuna corrente politica, esprimendo il rammarico del loro partito per il mancato concorso al governo di tutte le forze democratiche e rivendicando alla Dc l’assoluto controllo della politica interna e un’effettiva direzione della politica economica. La crisi sarebbe stata rapidamente risolta col ritorno al tripartito e la permanenza al governo delle sinistre, le quali, considerata la diminuzione dei dicasteri, vi conservarono un numero di rappresentanti analogo a quello che detenevano nel precedente ministero162. Sia pur fallendo l’obiettivo massimo, la Dc non sarebbe uscita completamente a mani vuote dalla crisi che avrebbe aperto: conformemente alle indicazioni del gruppo parlamentare democristiano, nella struttura della nuova compagine governativa, le posizioni moderate e conservatrici risultarono largamente rafforzate col controllo di fondamentali dicasteri politici ed economici (Scelba agli Interni, Sforza agli Esteri, Gasparotto alla Difesa, Campilli alle Finanze e Tesoro). La crisi di gennaio non condusse a un estromissione delle sinistre dal governo, ma si concluse con il ritorno al tripartito. Tuttavia il segnale era stato dato e i democristiani ottennero una maggioranza di dicasteri; ad esempio il ministero delle finanze e del Tesoro venne unificato e assegnato al democristiano Campilli, sottraendo di fatto le Finanze al comunista Scoccimarro. Inoltre venne eliminato il ministero dell’Assistenza bellica, in precedenza attribuito all’altro comunista Emilio Sereni. Da questo momento l’Assistenza, non più riconosciuta come dicastero, tornò ad occupare un ruolo fondamentale nell’attività ecclesiastica, divenendo una fortuna elettorale per la Democrazia 162 Severino Galante, op. cit., pp.52-53. !90 cristiana. A questo punto la Dc, a giudizio di Galante, avrebbe attuato nel periodo successivo ulteriori mosse, arrivando poi, come vedremo, al “colpo” di maggio che sarà quello risolutivo163. Nella diagnosi compiuta, all’interno del Partito comunista, nella fase più acuta della crisi vi sarebbe stata da parte del partito, afferma Galante, una singolare sottovalutazione dei fattori interni: il Pci avrebbe denunciato come causa prima delle tendenze disgregatrici del tripartito le pressioni degli Stati Uniti, attribuendo invece un ruolo subalterno alle forze moderate interne e alla Democrazia cristiana. Lo stesso ruolo di De Gasperi ne sarebbe uscito se non rafforzato, di certo non indebolito: non protagonista e artefice ma quasi vittima della propria debolezza e inerzia. Ma allora, afferma Galante, se nonostante gli appoggi interni e internazionali, nonostante la campagna anticomunista e i “buoni consigli” americani, i dirigenti democristiani non riuscirono a concretizzare il loro disegno, Togliatti ne avrebbe dedotto che essi non avevano e non avrebbero neppure avuto in futuro la forza per farlo, rischiando di perdere in modo definitivo l’elettorato più progressista della Dc 164. L’ipotesi del Pci era dunque che la Dc si sarebbe dovuta liberare della “zavorra conservatrice” favorendone il passaggio nel movimento di destra dell’Uomo qualunque, con la conseguenza di far sprigionare tutte le potenzialità democratiche che essa conteneva e di indurre il gruppo dirigente a compiere una stabile e definitiva scelta che avrebbe rappresentato la volontà popolare165. Questa prima parte dell’analisi comunista spiega un aspetto dell’atteggiamento del Pci verso la Dc. Per bloccare la manovra 163 Ibidem. 164 Ivi, pp.55-58. 165 Ibidem. !91 conservatrice, costituita dalla destra democristiana, occorreva dunque recidere al più presto l’ala più reazionaria, sollecitando e favorendo il deflusso della destra democristiana verso l’Uomo qualunque. Ma aspettarsi che la Democrazia cristiana fosse stata disposta a rinunciare al canale che la destra interna gli offriva, attirando verso la Dc l’elettorato di destra moderato, sarebbe potuta risultare abbastanza irrealistico. Nel Partito comunista, come sottolinea Galante, non tutti però avrebbero accettato linea togliattiana. Alla fine del 1946 infatti, Franco Rodano sarebbe giunto alla conclusione che la Democrazia cristiana si presentava come “una vasta, differenziata e nel tempo stesso amorfa accumulazione di quanto di passivo, di non decisamente democratico, di non radicalmente antifascista esisteva in quel periodo in Italia”166. Ma questa di Rodano avrebbe rappresentato una prospettiva sostanzialmente isolata. Nell’analisi del Pci sarebbe stata sottolineata inoltre una stretta dipendenza del Partito democristiano dal Vaticano. Già dal V Congresso, scrive Lepre, Togliatti avrebbe individuato nei rapporti con la Chiesa una delle questioni fondamentali da risolvere, per poter dare solide basi alla democrazia italiana. In quell’occasione Togliatti aveva lasciato intendere come per i comunisti il rapporto tra Stato e Chiesa fosse indissolubilmente connesso a quello tra il Pci e la Santa Sede, che a sua volta mediava quello tra comunisti e democristiani. La speranza che le gerarchie ecclesiastiche avrebbero potuto adattarsi alla nuova realtà in sviluppo, acconsentendo all’incontro delle masse lavoratrici cattoliche e non cattoliche su un programma di profondo rinnovamento economico, politico e sociale, assunse un significato politicamente ben 166 Ivi, p.60. !92 determinato167. Infatti, come scrive Galante, i comunisti non mirarono a distruggere i risultati dell’opera di pacificazione religiosa definitivamente conseguiti coi Patti lateranensi, ma si proposero anzi il compito di sostituire alla firma del fascismo la firma della Repubblica, che in tal modo si sarebbe impegnata a realizzare e a difendere la pace religiosa in Italia168. In sostanza, la via all’approvazione comunista dell’articolo 7 della Costituzione era di fatto spianata. Ma i suadenti appelli di Togliatti al Vaticano, come sottolinea Galante, erano però destinati a non ottenere risposte positive. Le gerarchie ecclesiastiche continuarono a giudicare quella comunista “una mano tesa minacciosa” ch’esse ben si guardavano dallo stringere e che anzi respinsero con la massima fermezza169. In questa situazione dunque, secondo Galante, nessun appello, per quanto determinato, avrebbe potuto smuovere il consolidarsi del blocco conservatore; di fronte a tale offensiva sarebbe stato possibile ipotizzare una sola alternativa all’arroccamento difensivo attuato dal Pci: raccogliere e coordinare il malessere popolare suscitato dal costante deterioramento delle condizioni di vita. Ma praticare questa via avrebbe significato imboccare una prospettiva di opposizione: la stessa che qualche mese prima Togliatti escluse fermamente di fronte al Comitato Centrale, indicando i rischi non indifferenti ch’essa avrebbe comportato170. In effetti, la partecipazione al governo era l’asse portante della strategia comunista, la novità fondamentale prodotta dalla Resistenza sul terreno democratico, in base ad essa lo Stato cessava di 167 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.282-283. 168 Severino Galante, op. cit., p.68. 169 Ivi, pp.70-71. 170 Ibidem. !93 essere un corpo separato e ostile da abbattere, per apparire viceversa un terreno sul quale era possibile intervenire positivamente per trasformarlo, per riformarlo, per creare e sviluppare istituzioni democratiche, per farne il quadro generale entro il quale attuare un lungo processo di transizione verso il socialismo. Così, echeggiando i principi leninisti sull’importanza assoluta di una sinistra parlamentare, nonostante il rischio di veder compromessa la fiducia dei lavoratori verso quelle rappresentanze politiche che pur restando al governo non riuscivano a fronteggiare il precipitare della situazione, i dirigenti comunisti avrebbero seguito fino in fondo la strada che si erano tracciati nei mesi precedenti, tenendo fede a una direttiva rinnovata poco tempo prima, ovvero fare leva sull’ala sinistra e progressiva della Democrazia cristiana. C’era tuttavia la consapevolezza di dover attuare un cambiamento mirato per sbloccare la paralisi in cui si trovavano i dirigenti comunisti. Tuttavia risultò loro sempre più difficile praticare una via diversa da quella logorante dell’alleanza di governo con la Dc 171. Come scrive Martinelli, Togliatti considerava la partecipazione al governo del Pci più che necessaria in un momento in cui la lotta di classe si sviluppava acutamente nel Paese: il leader comunista infine, sostenne la necessità di non mutare la linea politica del partito, ma di riuscire a coniugare la maggiore spregiudicatezza nell’analisi con una maggiore spregiudicatezza nella politica concreta 172. La visione che Togliatti indicava avrebbe dovuto fare i conti prima di tutto con i limiti stessi dell’organizzazione e della tradizione del partito: limiti che proveranno ad essere superati, come vedremo, nella nuova organizzazione che il Pci 171 Ivi, p.73. 172 Renzo Martinelli, op. cit., p.213. !94 elaborò al Congresso provinciale della federazione comunista di Padova nell’estate del ’47. 3.3. Il consolidarsi del blocco conservatore: la Dc e la “il colpo di mano” di maggio Il 6 marzo 1947 il presidente degli Stati Uniti Harry Truman pronunciò un discorso in cui pose le questioni dell’egemonia americana in termini economici: «Ovunque il futuro è incerto. In questa atmosfera di dubbi e di esitazioni l’elemento risolutivo sarà dato dalla qualità di leadership che gli Stati Uniti sapranno assicurare al mondo. Siamo il gigante economico del mondo. Ci piaccia o meno, la struttura delle relazioni economiche future dipenderà da noi»173 . Il discorso era rivolto sia all’interno degli Stati Uniti, alle forze isolazioniste, richiamate alle responsabilità di un paese vincitore della guerra, sia agli alleati occidentali. Sei giorni più tardi, il presidente americano annunciò la cosiddetta “dottrina Truman”, celebrando i principi su cui si fondavano le società democratiche: «Libere istituzioni, governo rappresentativo, elezioni libere, garanzie per la libertà individuale, libertà di parola e di religione e libertà dall’oppressione politica». Con la dottrina Truman, gli Stati Uniti contrapposero il proprio modello politico a quello dell’Unione Sovietica, di cui già il presidente americano avrebbe denunciato il regime di oppressione che si stava instaurando 173 Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., p.285. !95 nell’Europa dell’Est, trasformata da Stalin in un’area di influenza sovietica sotto rigido controllo delle direttive provenienti da Mosca174. Dal 18 al 21 marzo 1947 si tenne il Consiglio nazionale della Dc, che chiese l’attuazione di “provvedimenti finanziari e sociali urgentemente necessari per ottenere il miglioramento del bilancio statale e con esso la salvezza della lira e la possibilità di vita delle classi lavoratrici” 175. Già nelle settimane precedenti, la Democrazia cristiana era riuscita a dimostrare che il governo tripartito non sarebbe stato in grado di mantenere alcuno degli impegni programmatici assunti a favore dei ceti più disagiati e delle classi meno abbienti: il contenimento dei prezzi, l’estensione dell’occupazione collegata ad un ampio programma di lavori pubblici, i provvedimenti a favore dei lavoratori agricoli, la perequazione fiscale e il tesseramento differenziato, sarebbero stati relegati nel libro delle promesse sempre rinnovate e mai mantenute176. Il 14 aprile, scrive Lepre, Angelo Costa inviò a De Gasperi un memorandum in cui esponeva le richieste della Confindustria: per salvare la lira, per l’industriale genovese, occorreva abolire i prezzi politici, eliminare i lavori pubblici inutili, abolire le imposte sugli utili e sui dividendi, subordinando gli aumenti salariali all’aumento della produzione, e concedere piena libertà di licenziamento177. Nonostante l’appoggio del democristiano Campilli a determinate proposte elaborate da Angelo Costa, De Gasperi tuttavia, non avrebbe mai potuto approvare un siffatto programma che avrebbe sicuramente generato una rottura immediata con le sinistre, che non avrebbero mai accettato, interamente, 174 Ibidem. 175 Severino Galante, op. cit., p.75. 176 Ivi, p.77. 177 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.85. !96 il memorandum di Costa. Ma, sottolinea Lepre, il peso che De Gasperi attribuiva alle prese di posizione degli industriali fu indicato da lui stesso in un intervento tenuto il 30 aprile al consiglio dei ministri, il quale affermò che in Italia esisteva un “quarto partito” (gli industriali), che decideva ed orientava le campagne della stampa indipendente e che era in grado di paralizzare e di rendere inutile ogni sforzo, organizzando il “sabotaggio del prestito” e “la fuga di capitali”, “l’aumento dei prezzi” e le “campagne scandalistiche”. Il capo della Dc, inoltre, affermò che l’esperienza gli aveva insegnato che non si governava l’Italia senza attrarre nel governo i rappresentanti di questo quarto partito 178. La Dc stava attuando una serie di mosse volte al conseguimento di quella che sarebbe stato definito il “colpo di mano” del mese successivo. Su questa linea si sarebbe mosso anche il presidente della Confederazione dei coltivatori diretti, Paolo Bonomi, avvertendo che nelle campagne v’erano ancora molti pericoli da affrontare, molte preoccupazioni da dissipare e molti interessi da salvaguardare, che non potevano essere trascurati se non si voleva perdere un indispensabile elettorato di massa. Galante mette in evidenza come Paolo Bonomi in seguito, chiedendo alla Costituente provvidenze per i contadini, si sarebbe scagliato contro i grandi proprietari e gli industriali, raccogliendo perciò sentiti applausi dalle sinistre. Ma in realtà il democristiano Bonomi non avrebbe fatto altro che seguire coerentemente la linea politica del suo partito, attuando mosse strategiche utili alla “svolta” del mese successivo. Il 24 marzo il presidente della Coldiretti (Confederazione dei coltivatori diretti), avrebbe avuto un colloquio con l’incaricato per i problemi del lavoro presso l’ambasciata americana a Roma, John Adams. Erano presenti anche gli altri due leader del “sindacalismo bianco”: Giulio Pastore, in 178 Ivi, p.86. !97 procinto di sostituire Giuseppe Rapelli alla segreteria generale della Cgil, e Ferdinando Storchi, presidente delle Acli, il quale proprio quest’ultimo avrebbe affermato: «Bonomi ha detto che la sua organizzazione non è cattolica, è semplicemente anticomunista. Ha attribuito le 600 mila adesioni almeno in parte a questo motivo» 179. Anche Magister afferma che il tema dell’incontro sarebbe stato la crisi dell’unità sindacale e venne rilanciata inoltre la necessità di attirare, nei sindacati democristiani, anche lavoratori anticomunisti non necessariamente cattolici180. La maggiore preoccupazione di Bonomi sarebbe stata quella di contenere le tensioni che percorrevano le campagne e che si erano espresse poco tempo prima anche sul piano politico con grandi manifestazioni di massa delle categorie non proprietarie. In mancanza di interventi appropriati vi sarebbe stato il rischio che il tradizionale blocco agrario si fosse dissolto completamente, non solo per l’esplodere delle contraddizioni tra ricchi proprietari terrieri e braccianti e contadini poveri, ma anche di quelle all’interno delle categorie intermedie: sarebbe cioè entrato in crisi il concetto di “coltivatore diretto”181. Il presidente della Confederazione avrebbe accolto perciò con favore l’annuncio di De Gasperi riguardo al fatto che sarebbero stati presto varati provvedimenti, quali la perequazione dei canoni di affitto, la proroga dei contratti agrari e la conversione in legge del lodo sulla mezzadria, che recava il nome del presidente del Consiglio. L’obiettivo della Coldiretti, secondo Galante, sarebbe stata infatti la creazione di una vasta rete di proprietà volte a soddisfare le esigenze anche dei contadini più poveri: una mossa 179 Ivi, p.87. 180 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia, Roma, 1979, pp.88-90. 181 Ivi, p.91. !98 strategica tesa a prevenire una compattezza delle lotte dei braccianti e dei contadini, di bloccare la tendenza dell’associazionismo democratico e di favorire invece lo spirito individualistico e la vocazione proprietaria dei ceti rurali subalterni 182. Il parlamentare democristiano Giuseppe Cappi, sottolinea Lepre, intervenendo sempre alla Costituente, avrebbe definito il terzo gabinetto De Gasperi “un governo omogeneo con una funzione prevalentemente centrista”. In altri termini, faceva notare Cappi, che se anche il governo di quel momento non sarebbe stato a pieno titolo un governo centrista, quella tuttavia sarebbe stata la meta a cui tendeva la Dc e per la quale chiedeva sostegno e consensi183. Su questi aspetti, sottolinea Galante, Cappi sarebbe stato molto esplicito: egli avrebbe negato il nocciolo stesso delle già menzionate argomentazioni di Togliatti che sostenevano una alleanza politica generale, di una collaborazione di durata storica tra le sinistre e i democristiani: « In sostanza voi comunisti ci tendete la mano, fate un nobile appello alla concordia e all’unità giacché nulla o quasi nulla ci divide. Non è esatto» 184. L’elenco dei motivi era lungo e Cappi si soffermò dettagliatamente su ciascuno di essi: divergenze filosofiche, divergenze religiose, divergenze nella concezione dell’economia, della società, dello Stato, perplessità circa l’effettiva concordia del Pci al suo interno, assoluta sfiducia nella buona fede dei comunisti, convinzione ch’essi intendessero attuare in Italia un regime di tipo sovietico chiamandolo “democrazia progressiva”. Per il periodo della guerra di liberazione la risposta sarebbe stata semplice: l’elemento unificatore sarebbe stato rappresentato dal fascismo, abbattuto quello, 182 Ibidem. 183 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p. 288. 184 Severino Galante, op. cit.,p.92. !99 sarebbe rimasto ancora un filo unificante, benché molto fragile e tenue dal punto di vista democristiano: la comune ostilità alla concezione liberale, meramente politica, della democrazia e la volontà di darle un contenuto sociale185. Ma il Pci non avrebbe captato ancora le divergenze che erano emerse in quel momento o anzi se lo fece, avrebbe mostrato ancora delle speranze, emerse dall’ultima analisi, per l’ala democratica e progressiva della Democrazia cristiana. Il 14 aprile, ricorda Galante, De Gasperi ebbe un colloquio con Alberto Tarchiani, rientrato due giorni prima dall’America, richiamato per conferire con il ministro degli Esteri anche a nome del presidente del Consiglio. L’ambasciatore italiano a Washington sarebbe stato molto esplicito e avrebbe ribadito concetti che nei mesi precedenti non si era mai stancato di ripetere: «Dovetti dire che, per ottenere un appoggio sufficiente alla nostra adeguata ripresa, alla necessaria preparazione militare e all’effettiva partecipazione nei consessi internazionale, era necessario che il Governo italiano fosse omogeneo, efficiente ed esplicitamente deciso per una politica che abbinasse la dignità e l’indipendenza con la fedeltà alle direttive comuni tante volte proclamate con i nostri amici all’estero, ma tenute in sordina all’interno»186 . In effetti, il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti non avrebbe dissipato le numerose perplessità alberganti nella Dc circa la posizione internazionale da far assumere al partito e al Paese. Infatti, come osserva Lepre, all’interno della Dc vi era ancora chi come Giuseppe Dossetti e gli uomini che con lui avrebbero dato vita al quindicinale «Cronache 185ivi, pp.93-94. 186 Ivi, pp.106-107. !100 sociali», i quali erano fermi assertori di una politica estera di equidistanza dai due schieramenti internazionali che stavano contrapponendosi con crescente asprezza. Per i dossettiani l’Italia avrebbe dovuto svolgere un ruolo di mediazione attiva tra Stati Uniti e Unione Sovietica garantendosi uno spazio di autonomia e di libertà d’azione che avrebbe consentito di operare efficacemente per la distensione aprendosi a tutti i possibili scambi economici, commerciali, politici e culturali coi paesi del mondo intero 187. Ricorda Galante che Tarchiani, sempre nel colloquio con De Gasperi, gli avrebbe riferito che dopo la formazione del nuovo governo, Washington avrebbe mostrato maggiore fiducia nei confronti della Dc, ma nutriva tuttavia ancora preoccupazioni. Nell’ottica americana, infatti, la lotta contro l’Unione Sovietica avrebbe postulato ormai un rapido allineamento dell’Italia nel fronte dei “paesi liberi”, una sua decisa presa di posizione antisovietica e quindi, all’interno del Paese, una ferma posizione riguardo il tripartito e la costituzione di un gabinetto “omogeneo”. Le esigenze americane, secondo Galante, ancora mal si conciliavano con quelle di De Gasperi che si sarebbe sforzato di far capire i suoi problemi ai dirigenti e all’opinione pubblica d’oltre Oceano, insistendo sull’importanza tipica del “periodo di transizione” che l’Italia stava vivendo188. De Gasperi non poteva più esitare: doveva agire entro una realtà che aveva pazientemente contribuito a edificare e che ora, in campo internazionale, lo trascinava forse più in là di quanto non sarebbe voluto inizialmente andare. Inoltre, nella primavera del ’47 si sarebbero verificati nuovi e significativi episodi di pressione e di condizionamento da parte del Vaticano alla Dc. In aprile si sarebbero registrate, in numerose province, 187 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p.293. 188 Severino Galante, op. cit., pp.109-110. !101 cicli di “conferenze religiose” che avrebbero richiamato molta affluenza di pubblico; contemporaneamente si sarebbero moltiplicati i contatti tra Vaticano e Stati Uniti. Per l’Italia ciò, secondo Galante, avrebbe comportato precise e concrete implicazioni: parlando con un alto esponente americano il vice segretario di Stato della Santa Sede, monsignor Tardini, sostenne che: «Il modo migliore per aiutare a restaurare l’armonia interna in Italia era sia per l’America sia per la Gran Bretagna di mostrare poca considerazione e pazienza per i leader comunisti e la loro attività»189. Alla fine di aprile era dunque ormai chiaro che tutti gli interessi che contavano e influivano nella Dc avrebbero maturato una comune e egualmente intensa volontà di estromettere le sinistre dalla direzione del Paese: De Gasperi non era più costretto a temporeggiare e avrebbe potuto agire con un buon margine di sicurezza, pur se con qualche residua perplessità. Le prime rappresaglie della crisi, scrive Galante, si ebbero col radiodiscorso di De Gasperi del 28 aprile. Il presidente del Consiglio parlò di un “soffio di panico e di follia” che percorreva il Paese e proclamò la necessità di provvedimenti a favore dei ceti a reddito fisso e dei risparmiatori, per poi concludere invitando i principali responsabili di questa situazione – i grandi centri del potere economico e finanziario – a dare la loro collaborazione concreta alla direzione del Paese190. A giudizio di Galante il radiodiscorso costituisce la cosiddetta “svolta di aprile”, ovvero un momento decisivo ove vennero espresse pubblicamente le intenzioni del Partito democristiano, e che si sarebbero tradotte, un mese più tardi, nell’estromissione delle sinistre dal governo. 189 Ivi, pp.113-114. 190 Ivi, p.158. !102 In piena coerenza con i principi della dottrina Truman, il capo della Democrazia cristiana terminò così il radiodiscorso del 28 aprile: «Intendiamo difendere, con ogni sforzo, il regime democratico nella libertà e nell’ordine, secondo i principi della nostra comune civiltà cristiana» 191. Lo stesso giorno del radiodiscorso, Tarchiani ripartì per gli Stati Uniti incontrandosi prontamente col responsabile degli affari italiani, Walter Dowling che il 2 maggio così avrebbe sintetizzato la conversazione avuta con il diplomatico italiano: «Tarchiani mi ha spiegato che la maggior parte della sua permanenza a Roma è stata occupata da discussioni con De Gasperi e altri leader moderati sulla formazione di un governo senza i comunisti. C’è ancora una considerevole esitazione e timore, poiché molti leader politici pensano che il partito comunista sia già troppo forte per essere combattuto in campo aperto. Ma De Gasperi, dice Tarchiani, fa quello che può per persuadere i repubblicani, i liberali e i socialisti di destra a stare con lui. Tarchiani mi ha detto anche che il risultato dei suoi sforzi dipenderà in larga misura dalla quantità di appoggio che un governo italiano non comunista riceverà dall’occidente»192 . D’oltre Oceano c’era ancora chi, come scrive Lepre, nutriva serie preoccupazioni su una possibile caduta di De Gasperi e avvertiva quindi l’urgenza di approntare adeguate misure politiche e economiche per rafforzare nella penisola gli elementi filostatunitensi. Si trattava del sottosegretario di Stato, George Marshall, il quale il 5 giugno 1947 disse che gli Stati Uniti avrebbero dovuto porsi l’obiettivo della rinascita di un’economia efficiente nel mondo così da permettere l’emergere di quelle condizioni politiche e sociali nelle quali libere istituzioni 191 Ibidem. 192 Ivi, p.159. !103 avrebbero potuto esistere. Il piano del sottosegretario di Stato americano, che poi prese il suo nome, avrebbe voluto attestare la fiducia nella forza del capitalismo e del mercato: sfidando l’Unione Sovietica e i paesi dell’Est a una competizione di questo tipo, il governo statunitense cercò di spostare il confronto dal terreno della politica a quello dell’economia, dove sapeva di essere più forte193. Come scrive Galante, a confermare i dubbi e i timori di Marshall, vi era un’altra personalità di spicco del governo americano: l’ambasciatore a Roma James C. Dunn. Sin da quando assunse la carica, nel febbraio del ’47, egli accreditò sistematicamente presso il suo superiore le tesi degasperiane, prima sostenendo la necessità di proseguire la collaborazione tripartita, in seguito denunciando le responsabilità dei comunisti per il deterioramento della situazione italiana; ora egli si diceva convinto che in Italia non potevano aversi sviluppi favorevoli agli Stati Uniti finché non fosse stato affossato il tripartito e consigliava quindi di non lasciare nessun dubbio agli italiani sul fatto che l’instaurazione di un regime totalitario li avrebbe tagliati fuori dalle relazioni con gli Stati Uniti. Nei giorni seguenti, Dunn, a seguito di un colloquio con De Gasperi, avrebbe suggerito a Marshall di intervenire sul leader democristiano per rassicurarlo e indurlo a operare al più presto per “migliorare la situazione e mettere la casa in ordine”, così da convincere il riluttante Congresso americano dell’utilità di stanziare aiuti per l’Italia allineandosi alla strategia dell’esecutivo194. In effetti, afferma Lepre, Marshall il 1° maggio chiese all’ambasciatore a Roma se De Gasperi avesse già pensato a un nuovo governo senza comunisti e socialisti e quali “passi politici” il governo americano avrebbe potuto fare per “rafforzare le 193 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.287-289. 194 Severino Galante, op. cit., pp.160-161. !104 forze democratiche e filoamericane”, tenendo presente l’importanza dell’Italia per la “politica americana nel Mediterraneo” 195. De Gasperi, scrive Galante, non era dunque un uomo solo quando, il 13 maggio del 1947, rassegnò le dimissioni a Enrico De Nicola, aprendo la crisi la cui soluzione sarebbe tornata ben presto nelle sue mani, permettendogli così di condurre in porto il progetto di estromettere le sinistre dal governo con la costituzione il 30 maggio, di un monocolore democristiano allargato ai liberali, definiti “tecnici”. De Gasperi affermò nei giorni seguenti che ricevette un importante messaggio da parte del direttore della Fiat, l’ing. Valletta, da poco tornato dagli Usa, riguardo al fatto che l’America avrebbe voluto trovare in Italia la “stabilità democratica”; ecco perché il capo della Dc ritenne utile e necessario di inserire nel ministero qualche elemento tecnico-finanziario delle destre 196. La reazione delle sinistre, a giudizio di Galante sarebbe stata cauta, infatti il Pci affrontò la crisi di maggio sulla base dello schema togliattano che ne faceva risalire l’origine a cause esterne piuttosto che alla volontà di De Gasperi. Togliatti, nei giorni seguenti, si scagliò sulla stampa con accenni fortemente critici nei confronti degli Stati Uniti e il 14 maggio, alla riunione del gruppo parlamentare comunista alla Costituente, affermò: «Vi sono correnti che ci vogliono escludere dal governo imbaldanzite dall’esempio francese. La situazione non è del tutto identica. Il Pcf non ha le nostre alleanze (es. col P.s.). Inoltre abbiamo alleanze indirette con altri gruppi di sinistra. E poi esiste ancora l’unità sindacale con la Dc. In Italia la borghesia reazionaria è più debole che in Francia […] a nostro sfavore c’è la mancanza di una 195 Aurelio Lepre, op. cit., p. 282. 196 Severino Galante, op. cit., pp.162-163. !105 tradizione democratica, e la tendenza degli interessi reazionari a scendere subito sul terreno extra parlamentare»197 . A giudizio di Martinelli, ciò che sfuggì a Togliatti e ai comunisti italiani sarebbe stato di non considerare che l’espulsione dal governo dei comunisti belgi prima e di quelli francesi poi, furono azioni che si configurarono come espressioni della guerra fredda, che rivelava di fatto il peso dei vincoli internazionali superando la diversità delle situazioni nazionali. Il principale obiettivo che si posero i comunisti era quello di uscire dalla crisi con una soluzione che non li vedesse totalmente emarginati dalle posizioni governative. Il 19 maggio, scrive Galante, l’impasse era già chiarissima e che non sarebbe stato difficile prevedere che la Democrazia cristiana sarebbe tornata presto al potere 198. Quest’ultima, tuttavia, non manifestò in modo ufficiale e reciso il suo diniego alla riedizione del tripartito: soltanto il 22 maggio, afferma Galante, la Direzione democristiana si espresse in questo senso e il giorno dopo, commissionato da De Gasperi, apparse sull’edizione romana de «Il Popolo» un articolo di Giulio Andreotti intitolato, senza mezzi termini: «Il tripartito no»199. In Italia si stava ripetendo una situazione molto analoga a quella dell’11 marzo in Belgio: la coalizione unitaria belga, presieduta dal socialista Huysmans e costituita da socialisti, comunisti, liberali e tecnici, entrò in crisi sulla scia di un’offensiva liberista in campo economico e sociale e i ministri comunisti furono costretti a uscire dal governo 200. Poco dopo anche in Francia si aggravarono i contrasti in seno al “tripartisme” con il governo 197 Renzo Martinelli, op. cit., p.203. 198 Ivi, pp.176-177. 199Ibidem. 200 Ivi, p.145. !106 che entrò in crisi il 30 aprile: le cause scatenanti riguardarono una discussione molto accesa su questioni coloniali e su uno sciopero di 20 mila operai della Renault scesi in piazza per il blocco dei salari. Allora il governo presieduto dal socialista Ramadier, il 4 maggio, formò un nuovo governo escludendo i ministri comunisti 201. Nel frattempo in Italia la situazione politica era profondamente modificata: dopo che De Gasperi cominciò a mettere la “casa in ordine”, Tarchiani ritornò dagli Stati Uniti riportando al capo della Dc un messaggio da parte di Marshall che recitava così: «De Gasperi può contare sul risoluto sostegno morale degli Stati Uniti e sul fatto che noi faremo un serio sforzo per aiutare l’Italia a fronteggiare le sue essenziali necessità finanziarie» 202. Afferma Galante, che i dirigenti comunisti, ovviamente, non erano a conoscenza del fatto che De Gasperi ottenne finalmente dagli americani quanto aveva con tanta perseveranza richiesto. Gli articoli de «l’Unità» in quei giorni si limitarono a informare che De Gasperi iniziò le consultazioni per un governo di “larga concentrazione”. Il 27 maggio invece, il giorno seguente un colloquio svoltosi al palazzo della Consulta, in cui De Gasperi dichiarò ai giornalisti che sarebbe stato disposto a cercare soluzioni di altro genere prima di ammettere che tutte le strade per risolvere la crisi gli erano sbarrate, «l’Unità» rispose immediatamente: «Una sola strada era la giusta: quella che nel rispetto della volontà popolare, assicurasse al governo l’appoggio della maggioranza. Noi 201 Gianni Corbi, Cacciate i comunisti, in La Repubblica, 3 giugno 1997, URL: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/06/03/cacciate-comunisti.html. 202 Severino Galante, op. cit., p.178. !107 non dubitiamo della fede democratica del capo della Democrazia cristiana.»203 . Fu l’ultima volta, afferma Galante, che la stampa comunista attribuì a De Gasperi la patente di democratico: “Cancelliere” sarebbe stata in seguito la definizione additata al presidente del Consiglio204. Era il 30 maggio 1947: la Cgil rinnovava per altri sei mesi la tregua salariale stipulata il 27 ottobre 1946. Il nuovo accordo conteneva contropartite minime che penalizzavano i lavoratori; la Confindustria usciva di fatto vincitrice. Il giorno successivo invece, De Gasperi varò il suo quarto ministero consecutivo e questa volta, con l’assenza di comunisti e socialisti dal governo. Il capo della Dc nominò Vicepresidente del consiglio e ministro del bilancio il governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, il simbolo del “quarto partito”205. «Isolato dalla democrazia e applaudito dai plutocrati» intitolò «l’Unità», mentre la Segreteria del Pci invitava in un comunicato: «Tutto il popolo a unirsi per esprimere apertamente la sua disapprovazione, nelle forme legali proprie della democrazia, in modo da rendere a tutti evidente che il grave errore commesso da chi ha voluto creare questo governo deve essere corretto al più presto nell’interesse supremo della Nazione»206 . A giudizio di Lepre, la Dc non fece altro che seguire una sua linea scandita dal realismo politico dei suo quadri dirigenti per cui, assolvere 203 Ivi, p.180. 204 Ibidem. 205 Sandro Magister, op. cit., p.94. 206 Severino Galante,op. cit., pp.182-183. !108 la funzione di garante degli Stati Uniti e di partito moderato in Italia, fu una scelta tattica e alla fine vincente207. D’altro canto gli Stati Uniti non avrebbero mai concesso aiuti finanziari all’Italia con i comunisti ancora al governo, soprattutto dopo che la minaccia della guerra fredda aumentava di giorno in giorno, Washington, come aveva già diversamente richiesto, necessitava una sicurezza politica in Europa e soprattutto nei paesi laddove i loro aiuti sarebbero stati più ingenti. Per Martinelli invece, l’esclusione delle sinistre, non solo in Italia, dal governo non si trattò esclusivamente di una conseguenza della guerra fredda, bensì di una sua precisa espressione: la presenza al governo dei comunisti non sarebbe stata più tollerabile208. Tutto ciò provocò una sorpresa nel Partito comunista (e non solo in quello italiano), al quale la situazione generale non pareva ancora così compromessa. Gli stessi sovietici, secondo Martinelli, sembrarono relativamente all’oscuro dell’imminenza di questa azione “epurativa” ed è infatti solo dopo questo attacco che venne costituito, nel settembre, il Cominform: esso sarebbe dovuto apparire una risposta alla politica americana e, nello stesso tempo, come lo strumento utile per omogeneizzare i vari governi comunisti dell’Europa orientale 209. Nei mesi successivi, scrive Lepre, con il clima politico internazionale sempre più teso, c’era chi spingeva a un duro confronto, senza preoccuparsi delle possibili conseguenze. Nel dicembre del 1947 Gorge Kennan, uno dei maggiori ispiratori della politica di contenimento, si chiese se non fosse stato preferibile per il governo italiano mettere fuori legge il Partito comunista e prendere decise iniziative nei confronti di 207 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.300-301. 208 Renzo Martinelli, op. cit., p.200. 209 Ibidem. !109 esso prima delle elezioni: egli era consapevole del clima di violenza che avrebbe causato ma almeno, secondo la sua logica, si evitava così il pericolo di una vittoria elettorale che avrebbe dato ai comunisti l’intera penisola in un solo colpo. È probabile, continua Lepre, che da parte di George Kennan ci fosse l’intenzione di eliminare all’interno del blocco occidentale tutte le possibili “quinte colonne”. Ma con l’avvio del piano Marshall prevalsero, nell’amministrazione americana, le forze che puntavano a una competizione prevalentemente economica210. Ora, con la fine del compromesso storico e il fallimento della strategia tripartita che aveva di fatto trascinato il Pci all’opposizione, quale sarà la nuova strategia che adotterà il Partito comunista considerati i tempi piuttosto brevi? 3.4.Una nuova fase politica: il Pci all’opposizione La mossa degasperiana di estromettere le sinistre dal governo, sottolinea Galante, fu interpretata da parte del Pci come un “colpo di mano”. Fu immediatamente convocata una riunione della direzione che si tenne dal 3 al 5 giugno, che approvò una risoluzione che conteneva i risultati del lungo ripensamento collettivo del vertice comunista211. L’analisi, che prendeva le mosse da un confronto tra la crisi di gennaio e quella di maggio, ravvisava ora all’origine di entrambe un “deliberato proposito” e un “piano” di De Gasperi, deciso a costituire un “governo di blocco 210 Ivi, pp.294-295. 211 Severino Galante, op. cit., p.184. !110 con le forze conservatrici e reazionarie”212. In effetti, scrive Martinelli, le due crisi svoltesi a così breve distanza di tempo l’una dall’altra, devono essere esaminate in stretta connessione, poiché l’esito positivo della prima, con la ricostituzione di un governo di unità antifascista, ebbe un effetto preciso nella sottovalutazione della seconda da parte dei comunisti. La seconda crisi, nel marzo 1947, fu fortemente influenzata dall’acuita tensione tra Usa e Urss e la posizione del Pci al governo diventò sempre più precaria. Ma, secondo Martinelli, fu la situazione economica che assunse, nei primi mesi del ’47, un peso essenziale nelle vicende italiane: il costo della vita aumentava, seguendo l’inflazione e provocando un’ondata di agitazioni e di manifestazioni per lo più spontanee213. Il governo si trovò stretto tra queste pressioni: la necessità di varare misure efficaci contro l’inflazione, come chiedevano insistentemente Einaudi e la Confindustria, portarono a una drastica riduzione delle spese. Il Partito comunista appariva sempre più come un ostacolo, ma il vertice comunista sembrò non immaginare il corso imminente delle cose, dimostrando una consapevolezza della situazione influenzata dal recente successo della prima crisi e dalle sue stesse aspettative214. Il Comitato Centrale del Pci, che si riunì a fine luglio, afferma Galante, avrebbe avallato, facendola propria, la risoluzione emersa dalla riunione della direzione agli inizi di luglio. Dall’analisi emersero due ipotesi: quella del “ravvedimento” degli stessi dirigenti democristiani dotati di “senso della loro responsabilità davanti al Paese”, oppure quella del ricorso alle urne il più presto possibile affinché la volontà popolare 212 Ibidem. 213 Renzo Martinelli, op. cit., pp.210-211. 214 Ivi, pp.213-214. !111 prevalesse “imponendo il ritorno a una politica di unità e di ricostruzione democratica e repubblicana nell’interesse dei lavoratori e di tutta la nazione”215. Una ricostruzione che avrebbe dovuto quindi, secondo le suddette risoluzioni, seguire vie democratiche. Venne nuovamente ammonita, scrive Lepre, quella minoranza di militanti che pensava, mai come in quel momento, ad un ricorso alla violenza216. Secondo la direzione del Pci, sottolinea Galante, per sventrare il “colpo di mano”, i comunisti avrebbero dovuto mantenersi saldamente ancorati alla linea politica: una linea democratica nazionale, costruttiva e unitaria lungo la quale, in stretto contatto con le masse, essi si proponevano di raggiungere gli obiettivi più volte indicati e di riaprirsi anche la porta del governo217. La direzione del partito ammise però che tale unità nei mesi precedenti era in parte mancata. Per tale motivo, come scrive Lepre, si sarebbe dovuto porvi rimedio, eliminando ogni forma di settarismo verso i socialisti e rifuggendo dall’inane e demagogico anticlericalismo nei confronti dei lavoratori democristiani, la cui collaborazione andava invece sollecitata in ogni campo per ottenere un ritorno ad un governo in cui fossero rappresentate tutte le correnti politiche dei lavoratori218. Secondo Galante, nella pratica quotidiana queste nuove direttive furono subito applicate: comizi all’uscita dai cantieri di lavoro, assemblee, telegrammi, ordini del giorno di protesta contro la costituzione del monocolore democristiano. Gli scioperi non furono molti: quello più consistente si svolse nelle industrie della provincia di Terni 219. Quanto 215 Severino Galante, op. cit., p.185. 216 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.84. 217 Severino Galante, op. cit., 187. 218 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.87. 219 Severino Galante, op. cit., p.188. !112 alla volontà unitaria, essa ebbe modo di manifestarsi nel corso del primo e unico Congresso unitario della Cgil, che si tenne a Firenze proprio a ridosso della crisi di governo, dall’1 al 7 giugno 1947. In un’assemblea carica di tensione, Giuseppe Di Vittorio e gli altri massimi dirigenti della corrente comunista e socialista si sforzarono di mantenersi su un terreno conciliante con la corrente democristiana, di smussare gli angoli, di trovare un accordo, un compromesso: era convinzione diffusa che si dovesse evitare a ogni costo una scissione sindacale che, nella nuova situazione politica, avrebbe potuto dare acqua al mulino alla strategia degasperiana e avrebbe dimostrato l’assoluta impossibilità di convivenza e di collaborazione tra le sinistre e i democristiani. L’unità sindacale appariva per il Pci un baluardo contro le manovre reazionarie e un possibile trampolino per rilanciare la collaborazione governativa. Nella politica del Partito comunista, unità sindacale e unità politica erano state strettamente saldate fin dai tempi di Salerno, ma il primato era stato attribuito all’unità tra i partiti220. Adesso, con la rottura dell’unità politica, nella visione del Pci, l’unità sindacale si mostrava indispensabile per ritornare ad un’unità governativa. Veniva invertita la formula ma non la sostanza. Concluso il Congresso, scrive Galante, Di Vittorio intervenne sul quotidiano comunista con un articolo che esaltava ulteriormente il carattere unitario dell’assise sindacale di Firenze, individuandone l’aspetto più nuovo proprio nella “raggiunta unità” tra proletariato e ceti medi. Infine, il segretario generale comunista della Cgil così concludeva: «Il fatto che sulla soluzione di problemi così complessi e gravi sia stata possibile una votazione unanime costituisce una dimostrazione clamorosa del rafforzamento dell’unità dei lavoratori italiani. Si 220 Ibidem. !113 mettano l’anima in pace quei reazionari italiani e stranieri che attendevano dal nostro Congresso chissà quali fratture. La Cgil è oggi più unita che mai, come strumento di difesa e di conquista del pane e dei diritti dei lavoratori, e come baluardo invincibile delle libertà democratiche e della nostra Repubblica»221. A parte qualche giudizio troppo dettato dall’ideologia di Di Vittorio, l’avere salvato l’unità sindacale, avrebbe rappresentato di fatto un punto a favore della linea politica comunista. Viceversa, un problema per il quale non maturarono in quel periodo momenti di svolta né apparenti né reali, era stato e rimaneva quello della crescita organizzativa e politica del partito e del suo processo – troppo lento – che poneva grossi interrogativi riguardo alla sua capacità di reagire, di operare efficacemente e con mete precise nella nuova situazione di opposizione. Il 5 giugno Pietro Secchia avvertiva i dirigenti delle federazioni provinciali che: «non bisognava perdere di vista per un solo momento il fatto che l’obiettivo da raggiungere nei prossimi mesi era la conquista della maggioranza del popolo alla democrazia». Secchia indicava anche il modo in cui bisognava perseguire questo obiettivo: «il conservatorismo e le lentezze burocratiche di molte organizzazioni periferiche devono essere rapidamente eliminate; l’empirismo e la faciloneria devono lasciare il posto a un’analisi attenta, scientifica, delle fluttuazioni degli iscritti, degli strati sociali tra i quali era più o meno difficile reclutare nuovi aderenti. In sostanza, il partito deve radicarsi veramente fra tutti i ceti e essere presente e attivo in tutti i luoghi del paese, nel quartiere e nelle fabbriche, nel sindacato e nella cooperativa, nelle osterie e nelle società sportive, collegandosi direttamente ai bisogni, alle esigenze, alle rivendicazioni concrete di ogni tipo della popolazione. Ma per fare ciò, occorre potenziare quantitativamente e qualitativamente gli attivisti, fornire al partito di massa quadri sempre più preparati politicamente e ideologicamente e quindi, capaci di orientarsi in qualsiasi situazione, capaci di interpretare le direttive del partito, il mutamento anche rapido dei 221 Ivi, pp.190-191. !114 nostri atteggiamenti, capaci di lottare e di combattere nelle situazioni più difficili»222. Secchia, come ricorda Galante, non avrebbe dunque annunciato alcun cambiamento della linea politica del partito; ribadendo piuttosto la continuazione e l’intensificazione della linea unitaria nonostante l’esclusione dal governo223. Un’attenta critica alla linea politica di unità nazionale del Pci di quegli anni, è stata svolta da Lepre, facendo notare che la fine dell’unità nazionale non sarebbe stata dovuta soltanto alle pressioni che venivano dall’evoluzione della situazione mondiale. In verità una vera unità nazionale, già non sarebbe più esistita a termine della guerra a causa della spaccatura economica e sociale del Paese diviso in due parti da tensioni crescenti, che nel 1947 stavano portando la sperequazione tra le classi a un punto di estrema acutezza. In altre parole, i braccianti e gli operai italiani si sarebbero sentiti più vicini agli operai e ai contadini sovietici che agli industriali e questi, a loro volta, avrebbero percepito una coesione di classe col resto del mondo capitalistico più forte rispetto a un senso unitario con una parte consistente delle masse popolari che si sarebbero schierate a favore di una trasformazione socialista. La frattura profonda che attraversava la società italiana sarebbe stata fin da principio molto grave 224. Nel corso della crisi di maggio i particolari del quadro internazionale sembravano essere sfuggiti al Pci. I soli punti fermi dell’analisi, scrive Galante, sarebbero stati il giudizio negativo sulla dottrina Truman e la 222 Ivi, pp.192-193. 223 Ibidem. 224 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.89. !115 denuncia dell’ingerenza americana negli affari interni italiani e di altri paesi dell’Europa centro-occidentale. In seguito la stampa comunista avrebbe parlato del piano Marshall come di una prosecuzione della dottrina Truman e di uno strumento per la divisione dell’Europa e l’affermazione del dominio americano sulla parte occidentale del continente: citando giudizi di quotidiani inglesi e americani, senza mai impegnarsi in prima persona nel giudizio225. Questo atteggiamento non sempre lineare, avrebbe caratterizzato la posizione del Pci anche rispetto all’altro grande problema della politica estera dell’Italia: la ratifica del trattato di pace. Infatti, scrive Galante, fino a giugno la posizione dei comunisti sarebbe stata quella di una ratifica immediata del trattato di pace, considerandoli atti dolorosi ma indispensabili per un pieno recupero dell’indipendenza nazionale. Ancora il 7 giugno 1947, commentando l’avvenuta ratifica del trattato di pace con l’Italia da parte del Senato americano, «l’Unità» avrebbe attaccato aspramente Alberto Tarchiani accusandolo di aver svolto una “politica nefasta” mirante a convincere i massimi esponenti statunitensi a respingere il trattato al fine di prolungare l’occupazione straniera nel Paese. Ma un mese più tardi, quando Pietro Nenni avrebbe contestato la richiesta governativa di ratificare il trattato con la procedura d’urgenza, il Pci avrebbe appoggiato tale richiesta con la tesi che la ratifica italiana dovesse essere rinviata in attesa che anche l’ultimo dei tre Grandi, l’Unione Sovietica, depositasse la propria firma, perfezionando così il trattato 226. L’incoerenza formale appariva quindi evidente, anche se parallela a quella della Democrazia cristiana che, dopo aver inizialmente osteggiato la firma quando il Pci era invece a favore, avrebbe preteso e ottenuto in un secondo momento 225 Severino Galante, op. cit., pp.196-197. 226 Ibidem. !116 dall’Assemblea Costituente, la ratifica immediata. Per spiegare questo improvviso cambio di rotta, Galante afferma, che la ratifica immediata, sollecitata dagli Stati Uniti, avrebbe rappresentato una inequivocabile scelta di campo proprio nel momento in cui a Parigi si stava per approvare il piano Marshall227. Ratificare subito voleva dire aprire la strada dell’adesione italiana al piano di aiuto economico statunitense e di conseguenza accelerare il processo di integrazione dell’Italia nel blocco americano. Sul piano politico sostanziale la posizione assunta dal Pci non sarebbe stata affatto contraddittoria, ma avrebbe tuttavia rivelato che nella sua riflessione il gruppo dirigente comunista, nell’estate del ’47, stava attraversando una fase di ripensamento che non era ancora approdata a conclusioni pienamente definite né sulla questione di ordine interno né sulle questioni di ordine internazionale 228. Nei giorni successivi, si riunì il Comitato Centrale del Partito comunista: la discussione si sarebbe incentrata sui problemi e sui compiti che la costituzione del quarto gabinetto De Gasperi poneva ai comunisti. Introducendo i lavori, Togliatti avrebbe individuato la causa della nuova situazione determinatasi in Italia in motivi di ordine internazionale. A suo parere era in atto una “ripresa offensiva” delle maggiori forze “monopolistiche” e imperialistiche del mondo, volta ad arrestare e a distruggere in tutti i paesi dell’Europa occidentale “l’avanzata impetuosa” delle forze popolari verso “una democrazia di tipo nuovo”229. A questo punto Togliatti si sarebbe chiesto quali prospettive si aprissero all’Italia e al partito dopo che la scissione del Partito socialista e la prevalenza delle forze di destra nella Democrazia cristiana aveva reso 227 Ivi, p.198. 228 Ibidem. 229 Ivi, pp.199-200. !117 possibile a De Gasperi di attuare la rottura della “coalizione antifascista e repubblicana”, infliggendo, a detta di Togliatti, un “grave colpo” alla democrazia. Egli avrebbe ricordato che fino a quel momento il Pci aveva lottato fissandosi questa prospettiva storica: «Istituire una democrazia progressiva e cioè operare una grande trasformazione democratica dell’Italia attraverso una lotta legale che, per l’ampiezza del fronte democratico che ad essa partecipava, permettesse di intaccare profondamente il potere dei gruppi monopolistici e latifondisti del nostro Paese, aprendo al nostro Paese la via pacifica a ogni progresso. Tutto ciò significava, in sostanza, trovare una nuova strada per l’avvento del socialismo. Resta oggi ancora valida questa prospettiva?»230 . Togliatti negò che al quesito si potesse dare una risposta netta e rispose solamente che la prospettiva di un regime di “democrazia progressiva” sarebbe rimasta, ma a determinate condizioni231. Quest’obiettivo era irraggiungibile in un mondo diviso in blocchi contrapposti; Togliatti però continuava a negare, nell’estate 1947, che i blocchi si fossero già definiti e diagnosticava ancora possibile la validità della strategia comunista ritenendo attuabile la politica di larga unità democratica che egli indicava come condizione essenziale per battere le forze reazionarie e trasformare la struttura sociale italiana. Gli sarebbe dunque sfuggito il fatto che la frattura interna non era stata determinata prevalentemente dalla pressione esterna, ma sarebbe stata semmai sollecitata e favorita da questa e poi, intersecandosi col processo di polarizzazione internazionale, sarebbe stata da essa convalidata e rafforzata232. 230 Ibidem. 231 Ivi, p.200. 232 Ibidem. !118 Il Partito comunista avrebbe insistito, afferma Galante, sull’importanza delle sinistre democristiane, ritenute legittime rappresentanti degli operai cattolici, i quali in quanto operai erano considerati per definizione portatori di socialismo indipendentemente dal partito in cui si organizzavano e dall’ideologia che li orientava233. Ma tale credibilità alle sinistre democristiane sarebbe potuta apparire in questo periodo più che fuorviante. Già Antonio Gramsci scrisse che le espressioni “destra, sinistra e centro” non significavano nulla all’interno di un partito come quello Popolare. Si potrebbe però obiettare che era passato molto tempo dal febbraio 1924 e che la Dc era tutt’altra cosa rispetto al Partito popolare italiano. Ma resta comunque il fatto che le sinistre democristiane erano e rimanevano correnti di un partito all’interno del quale si collocavano all’opposizione con le più disparate motivazioni, per poi svolgere un ruolo sostanzialmente funzionale rispetto alla linea esterna del predominante gruppo degasperiano234. Prima di adottare qualsiasi linea di condotta nei confronti della Democrazia cristiana, secondo Galante, i comunisti avrebbero dovuto prendere la consapevolezza del processo che aveva subito la Dc nel corso degli anni e accorgersi, al più presto, di ciò che stava effettivamente diventando. Confidare nelle sinistre democristiane sarebbe stato dunque fonte di delusioni, che avrebbero contribuito a spiegare le incertezze della linea seguita dal vertice del Pci nel bimestre giugno-luglio 1947. Galante cita una testimonianza molto importante riguardo il discorso conclusivo di Palmiro Togliatti al Congresso provinciale della federazione comunista padovana. Padova era una delle provincie più “bianche” d’Italia: il Pci vi aveva raccolto soltanto 45 mila voti contro i 233 Ivi, p.201. 234 Ivi, p.209. !119 240 mila della Dc. Era dunque del tutto naturale che il leader del Pci ponesse al centro delle sue osservazioni la questione democristiana e indicasse come affrontarla. Conoscere l’avversario, le radici della sua forza, la natura della sua organizzazione, avrebbe costituito una condizione preliminare per fare concretamente politica. Sarebbe stato dunque necessario capire come era organizzata la Dc e come era organizzata la popolazione. «Se voi faceste questo studio, vedreste che l’organizzazione della Democrazia cristiana è una cosa abbastanza scarsa come numero e come forza. Trovereste invece un’infinità di altre organizzazioni in cui è organizzata la massa popolare e nella quale la Democrazia cristiana ha un’influenza: Associazione dei Reduci, Combattenti, Cooperative, ecc. I democristiani non sono forti organizzativamente ma si servono di tutte le altre organizzazioni per abbracciare la massa. Essa è così forte perché attraverso molteplici forme di organizzazione riesce a fare qualche cosa a favore delle masse, ad accrescere il proprio prestigio ai loro occhi»235. Le organizzazioni che Togliatti elencava, afferma Galante, erano quelle sportive, ricreative, culturali e assistenziali, di cui sicuramente la Dc sul piano del voto si serviva. Ma per Togliatti, scrive Galante, la forza principale della Dc nelle regioni a forte influenza cattolica aveva radici esterne al partito democristiano: proveniva soprattutto dalla Chiesa, dalle parrocchie e dai preti. «L’attività del prete doveva essere, in qualche modo, un modello anche per la sezione comunista […] anche il prete la predica la fa alla domenica, ma il lavoro lo fa durante la settimana. Il prete si interessa per far mandare un bambino alla colonia. Fa oggi un piacere, domani un altro e così lega a sé la popolazione. Questo non può farlo da solo il Segretario della sezione. Egli deve far fare questo 235 Ivi, p.202. !120 lavoro a tutti gli iscritti della sua sezione. Ognuno deve avere i suoi compiti»236. Il parallelo di Togliatti tra il prete e il segretario della sezione è pregno di significato. Ciò non solo perché indica nella struttura ecclesiastica un modello, facendo della sezione comunista il contraltare laico della parrocchia e non della sezione democristiana, ma anche perché definisce in maniera esemplare il tipo di “quadro” periferico e di “attivista” che il gruppo dirigente comunista intendeva modellare come estreme propaggini del “Partito nuovo” e rivela nella questione della cooperazione il problema maggiore: un vero e proprio nodo irrisolto del partito che ne ostacolava di fatto la comunicazione. Nell’ottica togliattiana dunque, il prete assumeva una rilevanza particolare e non solo per la sua attività “ideologica” (la predica), quanto piuttosto per la sua opera quotidiana che lo assimilava a una sorta di funzionario a tempo pieno della Democrazia cristiana. E funzionari siffatti, sottolinea Galante, sarebbero stati presenti ovunque, anche nei più sperduti paesi dove la sezione comunista non si era ancora costituita o stentava a formarsi. Questo significava fare i conti con concorrenti capaci e attivissimi di fronte ai quali occorreva mettere in campo tutte le forze disponibili: occorreva, insomma, che il partito di massa diventasse un partito di mobilitazione delle masse, passando attraverso la fase intermedia della mobilitazione degli iscritti e degli aderenti. Ancora più difficile da compiere poi, era il passo successivo, ossia impiegare fuori dal partito forze raccolte secondo l’esempio del prete: affidare a ogni iscritto un compito preciso e usarli tutti insieme per risolvere le grandi questioni agitate dal Pci. La mancata soluzione di questo problema 236 Ivi, p.212. !121 avrebbe comportato il rischio dell’isolamento settario e il consolidarsi della tendenza del partito a crescere su se stesso senza tuttavia riuscire a proiettarsi verso l’esterno. Ciò avrebbe impedito di trasformare l’organizzazione in una lotta da mero scontro ideologico o polemica provocatoria e controproducente, a veicolo per un confronto anche aspro con le altre forze politiche, ma sempre in grado di formulare e praticare proposte costruttive di natura generale, capaci di unire i più vasti consensi. Se a questi elementi di difficoltà, scrive Galante, si aggiungeva il fatto che la maggior parte delle federazioni provinciali erano dirette da elementi che Togliatti definiva conservatori, vale a dire vecchi quadri della clandestinità restii a impegnarsi senza riserve sul nuovo terreno indicato dal leader e poco propensi a favorire il rinnovamento dei gruppi dirigenti periferici, allora il quadro dei problemi del partito apparve in tutta la sua complessità237. L’idea che si prospettasse un anno di dure lotte e un periodo di opposizione di durata imprecisabile, stava conquistando progressivamente terreno nel gruppo dirigente comunista. Togliatti espose chiaramente le sue idee per costruire bene un’agitazione popolare affermando che: «La prospettiva più immediata è che i movimenti di massa tendano ad estendersi e ad intensificarsi. […] Nelle città e nelle campagne la vita tende a farsi dura […]. Bisogna essere pronti perciò a fare sì che questa grande spinta dal basso che è già in atto ma che tende a farsi più forte e pressante si trasformi, in concomitanza coi lavori della Costituente, in un potente fattore di progresso civile. […] Spetta a noi comunisti, guida del popolo, dare coscienza, ordine e unità al grande movimento in corso. […] Tenersi a più stretto contatto con le masse. […] Le masse vanno continuamente consultate, vanno interrogate, nessuna decisione importante può essere presa senza prima averne sentito il polso. […] Per condurre bene un’agitazione bisogna innanzi 237 Ivi, p.213. !122 tutto prepararla bene […]. Con le azioni di massa non si scherza. Come non si giuoca alla guerra, così non si giuoca allo sciopero. Bisogna essere realistici, non proporsi obiettivi irraggiungibili o assai difficilmente raggiungibili.»238. Nell’analisi compiuta da Togliatti, non sarebbe stata messa in discussione la linea politica del partito, ma sarebbe stata svolta un’autocritica sulla sua organizzazione e si rilanciava un periodo nuovo. Con la fine del tripartito, il Pci nell’estate del 1947 dovette studiare ed elaborare una nuova strategia, basata sul proseguimento di due strade complementari: una interna, e quindi la riorganizzazione del partito, dai suoi quadri alle sue sezioni, prendendo come esempio la complessa e articolata organizzazione della Democrazia cristiana, analizzata, come abbiamo visto nella riunione della federazione provinciale tenutasi a Padova. L’altra strada era orientata alla riorganizzazione esterna, vale a dire al rapporto del partito con le masse per condurre un periodo di lotte ben strutturate. Democrazia progressiva e “Partito nuovo” di massa sarebbero stati dunque, scrive Polo Ciofi, i due pilastri della strategia di Togliatti239 ed essi, si sarebbero dovuti personificare nella Costituzione italiana. Tuttavia questa strategia non avrebbe portato al conseguimento dell’obiettivo massimo in tempi brevi, ma avrebbe richiesto diversi anni. Tale visione, assolutamente realistica, era largamente accettata dai dirigenti comunisti, che erano più che consci del lungo periodo che sarebbe dovuto trascorrere per il raggiungimento dell’obiettivo ultimo, quale la “democrazia progressiva”. In altre parole, senza troppo ideologizzare, la “Realpolitik” dei dirigenti comunisti li conduceva a 238 Ivi, p.135. 239 Paolo Ciofi, op. cit., p.2. !123 prendere atto che la nuova strategia politica sarebbe stata proiettata verso il futuro e non per il 18 aprile 1948 (un futuro troppo vicino). Ma, elezioni a parte, il Partito comunista avrebbe avuto ancora una “carta” da giocare, ancor più utile alla sua nuova strategia: la stesura della Costituzione. !124 CAPITOLO QUARTO La Costituzione repubblicana nell’ottica del Pci: una “terza via” per la strategia comunista? “Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società.” Piero Calamandrei 4.1.Il Pci e la Costituzione A partire dall’estate del ’45, secondo Martinelli, Togliatti si sarebbe posto due obiettivi immediati: strutturare il V Congresso e giungere alla Costituente; quest’ultimo particolarmente era ritenuto il compito più importante e significativo di quel momento. Come abbiamo già visto, ambedue gli obiettivi slittarono nel tempo. Il Congresso, previsto per la fine di quella estate, subì una serie di ritardi fino ad essere rinviato al !125 dicembre 1946. Mentre il secondo obiettivo, la Costituente, slittò al 2 giugno del ’46240. I lavori dell’Assemblea Costituente si svolsero da giugno ’46 al dicembre ’47 con vivaci discussioni tra i rappresentanti delle diverse correnti politiche. Rispetto ai diversi appelli dei costituenti di rifarsi a modelli stranieri, come quello anglosassone o statunitense, sottolinea Lepre, Togliatti ritenne che tali costituzioni avessero valore esclusivamente nei paesi in cui erano storicamente sorte. Lepre sottolinea come il segretario del Partito comunista non avrebbe posto tale contrarietà a una mera concezione ideologica, dal momento che lo stesso Togliatti avrebbe preso le distanze dalla costituzione sovietica, evidenziando le differenze tra Italia e Urss: «La Costituzione sovietica ha un carattere preciso: essa codifica in norme lapidarie un fatto uscito da una rivoluzione, codifica una situazione creata attraverso un’attività rivoluzionaria durata venti anni. In Italia non solo non c’è stata una rivoluzione, ma tutti ritengono che nelle condizioni attuali, dati i rapporti politici attuali di classe, nazionali ed internazionali, dell’Italia e di tutta l’Europa, sia possibile arrivare a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente»241 . In questo discorso di Togliatti, a giudizio di Lepre, sarebbe emersa la preoccupazione del leader comunista di preservare, coerentemente con la linea del suo partito, l’unità nazionale con la partecipazione di tutte le forze democratiche del Paese. Ma preservare tale unità, obietta Martinelli, sarebbe stato possibile solo fino ai primi mesi del ’47, cioè alla vigilia della crisi di governo che segnò la fine della politica di unità 240 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. “Il Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile, Torino, 1995 p.10. 241 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.94. !126 nazionale. Nelle altre sedute dell’Assemblea Costituente, la maggior parte delle votazioni sui singoli articoli avvenne quindi successivamente, in un clima assai mutato rispetto agli inizi, e anche se la convergenza tra i partiti di massa si affermò ancora su molti punti essenziali, non c’è dubbio che per i comunisti la situazione, nella parte conclusiva dei lavori, fu assai più ardua. Successivamente, man mano che la Democrazia cristiana avrebbe sottolineato le distanze tra i due partiti di massa, i quadri dirigenti del Partito comunista, in notevole ritardo, avrebbero preso le dovute misure cautelative anche nelle diverse sedute dell’Assemblea Costituente. A tal proposito si può riportare uno stralcio dell’intervento di Togliatti all’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947: «In questo momento se faccio uno sforzo per rievocare l’assieme del dibattito, non riesco a sfuggire a un senso di perplessità e sorge in me questa domanda: siamo noi veramente riusciti, non come singoli ma come Assemblea – la prima grande Assemblea democratica italiana – siamo noi effettivamente riusciti ad affermare e a porre al necessario la prima e principale questione che sta davanti a noi e che dibattiamo davanti al popolo? Quale sia questa questione ritengo sia chiaro per tutti. La domanda alla quale dobbiamo dare una risposta è questa: quale Costituzione dobbiamo dare all’Italia? È evidente. Quella di cui l’Italia, in questo momento particolare, determinato, concreto della propria storia ha bisogno. Ma di quale Costituzione ha bisogno oggi l’Italia?»242. In effetti, come sottolinea Martinelli, un chiarimento sul tipo di Costituzione che il Pci avrebbe voluto fare, doveva essere svolto prima all’interno del partito. Infatti, lo stesso Togliatti, nel corso della riunione del Comitato Centrale del febbraio 1947, esaminò, sulla base di una 242Palmiro Togliatti, Intervento all’Assemblea Costituente, Bologna, 2014, URL: http://www.istitutodegasperi-emilia-romagna.it/pdf/seminari2014_togliatti.pdf. !127 relazione di Ruggero Grieco, il progetto di Costituzione elaborato dalla “commissione dei 75”, prima che venisse discusso nell’assemblea generale, rilevando questo dato: «Su tutte le questioni della Costituzione non esiste fino ad oggi una posizione della direzione del partito. Non abbiamo ritenuto che valesse la pena fare una riunione precedente della direzione e andare in Assemblea con una linea già fissata per ogni questione, perché ciò avrebbe avuto un grande svantaggio: nel CC non si sarebbe forse più discusso. Le sole posizioni che ci impegnano sono quelle già stabilite in risoluzioni del partito e precisamente la risoluzione del V Congresso; altre sul problema costituzionale non ve ne sono»243. Afferma Martinelli, da quel momento il Comitato Centrale, assieme al gruppo parlamentare, avrebbe elaborato una linea che avrebbe impegnato tutto il partito nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente244. Nella stessa seduta dell’11 marzo, scrive Lepre, intervenne anche Giorgio La Pira, illustrando una sua idea della Costituzione, che partiva dalla base economica e arrivava all’unione con Dio: “una casa costruita secondo il principio cristiano, ma fatta per tutti gli uomini di buona volontà, credenti o non credenti, perché fatta per l’uomo”. Un programma che rispecchiava l’appartenenza democristiana di La Pira. Come del resto fu il programma proposto dall’altro democristiano Guido Gonella nell’aprile ’46, nel quale era delineato il progetto di una Costituzione d’ispirazione cristiana, non di confessione religiosa ma “del 243 Renzo Martinelli, op. cit., p.264. 244 Ibidem. !128 popolo italiano che è un popolo cristiano e che perciò non può volere uno Stato laico e agnostico” 245. La questione religiosa, e in particolare quella riguardo i rapporti con la Chiesa cattolica, era molto più delicata di quanto si potesse pensare. Tale discussione, scrive Magister, iniziò il 21 novembre 1946 nella prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente. Come emerge nei capitoli precedenti, tuttavia, il Partito comunista non aveva alcuna intenzione di contrastare i rapporti con la Santa Sede: si poneva anzi l’obiettivo di promuovere e tutelare la “pace religiosa”. Fu lo stesso Togliatti, che intervenendo in Assemblea Costituente, propose una formula che avrebbe dovuto soddisfare le esigenze di tutti: «Lo Stato riconosce la sovranità della Chiesa cattolica nei limiti dell’ordinamento giuridico della Chiesa stessa. I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono regolati in termini concordatari»246. Ma venne respinta per 10 voti contro 7, e venne proposta un’altra formula. Nell’attesa di una risposta comunista, il foglio vaticano, l’«Osservatore Romano», avrebbe lanciato segnali d’allarme, denunciando il pericolo della pace religiosa. Nei giorni seguenti, sarebbe stata la giunta centrale dell’Azione cattolica a indirizzare ai deputati della Costituente l’appello che a “salvaguardia della pace religiosa”, sarebbe stato bene che i Patti lateranensi avessero trovato la loro piena “garanzia costituzionale”247. Da quel momento in poi, l’approvazione comunista all’articolo 7 sarebbe stata certa. Quella dei dirigenti comunisti era una visione abbastanza realistica: non avrebbero potuto ignorare l’importanza secolare del Vaticano e delle sue strutture ecclesiastiche. Come ebbe modo di rilevare 245 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.95. 246 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943–1978, Roma, 1979, p.86. 247 Ivi, p.89. !129 Togliatti, sarebbe stato contro la volontà popolare condurre una battaglia anticlericale, che sarebbe stata oltre che deleteria, anche inutile248. Nella seduta del 25 marzo ‘47, Togliatti, dopo una lunga orazione, così concluse: «Siamo convinti, dando il nostro voto all’articolo che ci viene presentato, di compiere il nostro dovere verso la classe operaia e le classi lavoratrici, verso il popolo italiano, verso la democrazia e la Repubblica, verso la nostra patria!»249. Con l’approvazione dell’articolo 7, scrive Martinelli, i comunisti operarono un estremo tentativo per mantenere un rapporto positivo con la Chiesa e con la Dc: il fallimento di questo tentativo fu evidente due mesi dopo, quando De Gasperi allontanò, come si è visto, le sinistre dal governo. Ci sarà poi addirittura nel 1949 la scomunica contro i comunisti da parte del Vaticano 250. È unanime il giudizio degli storici sul fatto che i comunisti dovettero venire a patti coi loro principi e coi loro orientamenti, consapevoli del carattere di “compromesso” che la Costituzione non avrebbe potuto non avere. Quasi ad evocare il già citato articolo dell’agosto ‘46 pubblicato su «Rinascita», in cui si affermò che ci fu un compromesso che avrebbe lasciato alle forze conservatrici la ricostruzione economica in cambio della “ricostruzione democratica” dell’Italia. Fu lo stesso Togliatti nel suo discorso all’Assemblea Costituente dell’11 marzo a delineare il carattere compromissorio della Costituzione: «Non ritengo sia necessario, per assolvere il compito da me indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. 248 Renzo Martinelli, op. cit., p.272. 249 Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, Roma, 1974, p.56. 250Ivi, op. cit., p.273. !130 Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli colleghi si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando a essa un senso deteriore. Questa parola però non ha in sé un senso deteriore, ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene scartiamola pure. In realtà noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori. Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè uno Stato nuovo. Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come “compromesso”, fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, di quella ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione. […] Questa impostazione come vedete lascia da parte le ideologie […] per noi questa cosa è elementare. L’ideologia non è dello Stato, è dei singoli o dei partiti […] non impostazione ideologica dunque, ma impostazione politica concreta, derivante da una posizione esatta in cui si trova oggi l’Italia. […] Perciò noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi davanti alla nazione italiana […] oggi si tratta di distruggere fino all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva. […] Ho detto, onorevoli, che sono tre le esigenze fondamentali da soddisfare: esigenze della libertà, esigenza di unità politica e morale della nazione, esigenza di progresso sociale e di rinnovamento della classe dirigente. Coloro i quali vogliono per il nostro Paese un avvenire di progresso sociale, ma nella libertà e nella tranquillità politica, non debbono porre ostacoli all’affermazione e al trionfo della volontà popolare. […] In conclusione, a proposito dei problemi di libertà, il nostro partito seguirà una linea di condotta conseguentemente democratica, cioè lotterà in modo conseguente perché la Costituzione sia una Costituzione popolare, perché il popolo sia riconosciuto come sovrano e l’ordinamento costituzionale sia tale che permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a tutta la vita della nazione»251 . 251 Palmiro Togliatti, op. cit., pp.8-13. !131 Togliatti dunque non intese vedere negativamente il carattere compromissorio che la Costituzione dovette necessariamente assumere. Per il segretario del Pci si trattava più realisticamente di una constatazione: aver trovato un “terreno comune”, ove le ideologie, più che mettersi da parte, tendevano a conciliarsi. Infatti, come scrive lo storico Massimo Legnani, emerge nella Carta costituzionale un intreccio delle matrici cattolica e marxista 252. Alla fine dell’intervento si può notare come Togliatti, dopo la riunione del Cc (Comitato Centrale), riferì, dinanzi a tutta l’Assemblea Costituente, che il suo partito avrebbe seguito una linea di condotta per tutto il periodo dei lavori preparatori. A tal proposito, sostiene Lepre, il Partito comunista nelle successive sedute in Assemblea dovette portare avanti una vera e propria battaglia sulla questione dei diritti sociali che avrebbero voluto inserire nella Costituzione. Per Togliatti essi si sarebbero dovuti tradurre in articoli costituzionali a carattere normativo, ma allo stesso tempo anche con carattere programmatico. Questa posizione fu subito condivisa dai democristiani più attenti ai problemi sociali, come Fanfani e Dossetti 253. I comunisti che facevano parte della “Commissione dei 75” erano, secondo Martinelli, una sorta di stato maggiore culturale del Pci, sotto la direzione di Togliatti e di Terracini. Lo stesso Togliatti fu relatore alla Commissione sui diritti sociali, che come già sottolineato, erano considerati di vitale importanza per il partito. Sempre in Assemblea 252 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea, dicembre 1988, n.213, pp.825-827. 253 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.97. !132 Costituente il leader comunista sostenne che si trattava in primo luogo di affermare: «Nuovi diritti della persona umana, il cui contenuto è in relazione diretta con l’organizzazione economica della società. In secondo luogo si tratta di affermare con energia, sin dai primi articoli della nuova Costituzione, la necessità di operare nella società italiana, attraverso l’azione dello stato, profonde trasformazioni economiche e sociali»254. Tali trasformazioni, secondo il segretario del Pci, sarebbero dovute avvenire gradualmente, nel quadro della democrazia, dal momento che in Italia non c’era stata una rivoluzione che aveva abbattuto l’assetto economico precedente. Continuando egli affermò: «Attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa, noi ci sforziamo di realizzare quelle modifiche della nostra struttura sociale che sono mature sì nella realtà delle cose che nella coscienza delle masse lavoratrici. Per questo parliamo ormai tutti o quasi tutti non di una democrazia pura e semplice, ma di una “democrazia progressiva”, e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto ch’essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato nella legalità»255 . Anche per quanto riguarda i rapporti economici, sostiene Lepre, i comunisti presentarono un proprio programma: un programma che corrispondeva a una nuova concezione del mondo economico, non più “individualistica e atomistica”, ma fondata sul principio di “solidarietà” 254 Renzo Martinelli, op. cit., pp. 261-262. 255 Ibidem. !133 e dal prevalere delle “forze del lavoro”256. Anche se il realismo politico portava Togliatti, come già emerso, ad accettare che non si sarebbe applicato un immediato cambiamento radicale dell’assetto socioeconomico del Paese, egli tenne a precisare, sempre nel corso dei lavori preparatori che: «La nostra Costituzione, anche se non sarà essa il documento che ci darà la soluzione di tutti questi problemi, dovrà essere però un documento che tracci il cammino sul quale si muoveranno i politici e i partiti italiani. Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale. Ecco quello che noi vogliamo. Ecco perché chiediamo che la parte della Costituzione che tratta dei diritti sociali sia chiara, senza equivoci e questi diritti siano sostanzialmente garantiti. […] Onorevole Presidente! Onorevoli colleghi! Il nostro gruppo interverrà attivamente nel dibattito costituzionale, per sostenere che nella maggiore misura possibile la nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana corrisponda a questi principi: corrisponda a quelle che sono le aspirazioni della grande maggioranza del popolo italiano, aspirazioni che esprimono la più profonda, la più urgente esigenza della nostra vita nazionale in questo momento»257. Il leader del Pci, sottolinea Martinelli, non perse occasione, nel corso dei lavori della Costituente, per riaffermare la strategia democratica del “Partito nuovo”, che nelle trattative concrete si sarebbe tradotta in una notevole elasticità, in parte resa obbligatoria dai rapporti di forza e dagli obiettivi perseguiti, in parte frutto di una precisa scelta in questo senso. Nel loro insieme le relazioni dei comunisti alle sottocommissioni delinearono con chiarezza il progetto politico del Pci: una democrazia progressiva che avrebbe dovuto appoggiarsi su salde basi istituzionali, e il cui referente fondamentale sarebbe stata la sovranità popolare, 256 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.99. 257 Istituto De Gasperi, op. cit. !134 concetto essenziale in cui si uniscono quello di classe e quello di popolo, esprimendosi molto chiaramente nei primi articoli della Costituzione italiana. Una visione strategica che si ritrova nell’intero impianto costituzionale, soprattutto in quella che è la sua parte più innovativa, a cui Togliatti e gli altri membri comunisti della “Commissione dei 75”, diedero il loro contributo diretto. Il fondamento del lavoro, su cui si basa la Costituzione italiana, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato: la società dei “proprietari” cede il passo alla società dei lavoratori 258. In questa nuova fase storica, il lavoro non sarebbe stato più una merce che si scambia sul mercato, bensì un diritto fondamentale del cittadino. Infatti la Repubblica non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto» (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», ma «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (articolo 2). La Costituzione introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro», sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (articolo 36), nonché il diritto all’istruzione (articolo 33), al riposo e alla salute (articolo 32) 259. L’intera architettura costituzionale si basa dunque sul fondamento del lavoro e sui nuovi diritti della persona, i diritti sociali tanto sostenuti dal Pci. Essa presenta, inoltre, una grande novità, ovvero che la «proprietà privata è garantita», ma entro limiti che ne «assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti» (articolo 42)260. Un progetto di tale portata, secondo Ciofi, si spinge a introdurre elementi di socialismo, valorizzando il lavoro e il protagonismo delle 258 Paolo Ciofi, op. cit., p.4. 259 Ibidem. 260 Ivi, p.5. !135 masse lavoratrici, che conquistano non solo il diritto allo sciopero e la libertà sindacale (articoli 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente organizzandosi tramite un partito politico, considerato lo strumento indispensabile per «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (articolo 49) 261. Il primo gennaio 1948, dunque, entrò in vigore la nuova Costituzione italiana, ma la storia della Costituzione ha radici più profonde. Essa è la storia del quadriennio 1943-1947: il primo gennaio 1948 rappresentò il punto d’arrivo di un processo democratico che raggiunse un’altra conquista, dopo la Repubblica, della storia d’Italia. Sono presenti, nella Costituzione italiana, “luci e ombre”, che di fatto avrebbero aperto la prospettiva, come ebbe modo di affermare Togliatti, “di fiere battaglie politiche”. Il segretario del Pci, alla fine di una riunione del Cc nel novembre ’47, concludendo l’excursus sulla Costituzione affermò che: «La Costituzione riflette in modo abbastanza esatto quello che è lo stato attuale di sviluppo della democrazia in Italia, le sue debolezze e la sua crisi attuale. Noi dobbiamo uscire da questa situazione; l’aggravarsi dei rapporti interni di classe, l’aggravarsi della situazione internazionale, ci dicono chiaramente che dobbiamo uscire da questa situazione; o andiamo indietro ancora di più oppure riusciamo a spingere avanti la democrazia italiana sulla strada della realizzazione di quelle riforme, di quelle modificazioni strutturali che sono necessarie affinché essa diventi una democrazia di tipo progressivo»262 . Il contributo dei comunisti alla Costituzione avrebbe rispecchiato, secondo Martinelli, un atteggiamento singolare, comune anche alle altre 261 Ivi, p.6. 262 Renzo Martinelli, op. cit., pp.275-276. !136 forze politiche: una sorta di scissione tra il presente e il futuro 263. La Costituzione è infatti, come si espresse similmente anche Piero Calamandrei nella frase sopra riportata, un documento programmatico, che sancisce alcuni principi essenziali, ma rimanda al futuro la realizzazione delle sue implicazioni economico-sociali. Della stessa opinione è anche Höbel, il quale afferma che il contributo togliattiano più importante al tema della democrazia progressiva sta soprattutto nel fatto che esso si lega alla sua battaglia per l’Assemblea Costituente e per una Costituzione che non si sarebbe limitata a codificare gli assetti esistenti, ma la cui originalità avrebbe consistito nell’essere un programma per il futuro264. Concezione processuale della Costituzione e democrazia progressiva sono quindi, a giudizio di Höbel, “due facce della stessa medaglia”. È la stessa conclusione a cui giunge anche Paolo Ciofi, il quale afferma che la Costituzione dell’Italia ha un carattere progettuale-programmatico, che funge da guida per il popolo italiano, portando a un rinnovamento audace e profondo di tutta la struttura della nostra società265. Dal momento in cui il “Partito nuovo” si trovò in una situazione che era mutata e cioè all’opposizione, come abbiamo già accennato, fu di urgente priorità una riorganizzazione del partito. Nell’estate del ’47, dopo la conferma della linea politica, il Pci, obbligatoriamente, dovette cambiare la propria strategia. Una nuova organizzazione ben strutturata sia all’interno che all’esterno del partito, che lo avrebbe in tal modo rafforzato e preparato al conseguimento dei suoi obiettivi. 263 Ibidem. 264 Alexander Höbel, La democrazia progressive nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.8-9. 265 Paolo Ciofi, op. cit., p.3. !137 Ma anche dopo questa nuova strutturazione, i quadri dirigenti si resero conto che avrebbero necessitato di diversi anni prima di raggiungere i propri fini; a tal proposito, la preparazione di una nuova Costituzione avrebbe potuto rappresentare per il Pci una “terza strada” per la propria strategia politica: “le fiere battaglie” di cui parlava Togliatti sarebbero state agevolate così da un forte punto di appoggio per l’attuazione di quell’obiettivo politico a cui tanto aspirava il Partito comunista: la democrazia progressiva. È la visione, a giudizio di Ciofi, di un percorso inedito e originale: il segretario del Pci avrebbe delineato un processo, del tutto diverso, di avanzamento verso il socialismo. Senza sottovalutare il contributo delle altre forze politiche, la Costituzione rappresenta una grande conquista storica dei diritti civili, respingendo la vecchia ideologia proprietaria liberale. Comunisti e socialisti da una parte, e i democratici cristiani dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo. Si stabilisce, a giudizio di Ciofi, una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, esaltando la collettività e il singolo, la classe sociale e l’individuo, fornendo al popolo italiano, ritenuto sovrano nella Costituzione, la possibilità di intraprendere un cammino verso la libertà e l’uguaglianza su cui costruire il futuro266. È un progetto di una nuova società, il quale rompe ogni vincolo sia con la logorante politica liberale, sia con le socialdemocrazie di inizio Novecento, e che di fatto spiana le porte a un processo rivoluzionario diverso, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva. 266 Ivi, p.7. !138 Per valorizzare la linea togliattiana, si riporta un pensiero di Marx che emerse durante un discorso pronunciato dal filosofo nel settembre 1872 al Congresso dell’Aia, il quale affermò che le classi lavoratrici devono prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro, ma aggiungeva che non si era mai preteso che per giungere a tale scopo le vie sarebbero state dappertutto identiche. Marx continuò riconoscendo l’importanza investita dalle istituzioni, dai costumi e dalle tradizioni dei vari paesi e perciò riteneva che in quei paesi più avanzati, i lavoratori avrebbero potuto raggiungere il loro scopo pacificamente267. Il grande dilemma per i comunisti durante il ‘900 era: riforme o rivoluzione? Il Partito comunista italiano avrebbe cercato di unire le due strade: rivoluzionare la società e lo Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, che si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici268. Concludo lasciando l’ultima parola al filosofo Fiedrich Engels: «Si può immaginare che la vecchia società possa svilupparsi nella nuova per via pacifica, in paesi nei quali la rappresentanza popolare ha concentrato in sé tutto il potere, dove la Costituzione consente di fare ciò che si vuole quando si abbia dietro di sé la maggioranza del popolo»269. 267 Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo, Roma, 1980, pp.67-68, (ed. or. Londra, 1891) 268 Paolo Ciofi, op. cit., p.9. 269 Karl Marx, op. cit., pp.90-91. !139 CONCLUSIONI La necessità di questa ricerca nasce principalmente dalla constatazione di un diffuso sentimento che si sta radicando riguardo la politica: un sentimento ostile non solo nei confronti dello Stato, ma soprattutto nei riguardi di quelle conquiste che dovrebbero fungere da base essenziale per un cambiamento politico. In questo studio si è analizzato il quadriennio 1943-1947 nel quale, a giudizio dello storico Massimo Legnani, tre fasi salienti hanno caratterizzato la lotta politica: la costituzione dei Comitati di Liberazione Nazionale, la fondazione della Repubblica e l’approvazione della nuova Carta costituzionale270. Si è esaminato principalmente il lavoro svolto dal Partito comunista italiano, assieme agli altri partiti antifascisti, sin dalla fase resistenziale: elaborazione di una nuova linea politica, alleanze tattiche e mosse strategiche per il raggiungimento di importanti obiettivi politici. Il dibattito sulla Resistenza è uno dei più accesi tra gli storici ed emergono infatti interpretazioni differenti su specifici avvenimenti che hanno caratterizzato l’arco resistenziale. A partire dalla “svolta di Salerno”, la cui importanza è unanimemente riconosciuta dagli storici, si possono già tracciare diversi punti di vista: Secchia e Battaglia mettono in evidenza le intenzioni della politica di unità nazionale perseguita dal Partito comunista prima ancora del rientro in patria di Togliatti. Questa interpretazione rientra nell’ottica della tradizione storica di sinistra, mentre Santo Peli ipotizza che la decisione di Togliatti sia stata influenzata dall’incontro con Stalin, tenutosi alcuni giorni prima del 270 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea, dicembre 1988, n. 213, pp. 817-818 !140 rientro del capo del Pci in Italia271. Anche Legnani afferma che la decisione del leader comunista italiano sarebbe stata influenzata dalla volontà di assecondare la politica estera sovietica che diede per acquisito l’inserimento dell’Italia nella sfera di influenza anglo-americana 272. Ma come mette in risalto Höbel, la scelta togliattiana di Salerno sarebbe stata una mossa coerente con la nuova linea maturata durante il VII Congresso dell’Internazionale comunista: non uno Stato di tipo sovietico ma uno Stato di democrazia popolare con la partecipazione allargata alle altre forze politiche273. Con l’avvicinarsi della fine del conflitto, e quindi anche con il 25 aprile 1945, l’unità politica promossa dal Cln rilevava limiti innegabili proprio sulla questione di fondo, ovvero sulle prospettive future degli stessi Comitati, sul quesito se essi avessero dovuto continuare ad esercitare un ruolo anche a liberazione avvenuta. Le posizioni dei partiti politici che si confrontarono su questa situazione, nello scambio di lettere tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45 trattato nel secondo capitolo, furono largamente divergenti: la sorte dei Comitati di liberazione fu dunque segnata ancor prima dell’insurrezione. Durante il governo presieduto da Ferruccio Parri (giugno-novembre 1945) i Cln continuarono ad esistere, ma solo come organi di consultazione e di indirizzo e furono poi compressi dall’Ac (Allied Commission)274. Dopo l’euforia dell’insurrezione finale, c’era ancora chi sognava di tramutare la vittoria partigiana in una guerra di classe, ma Togliatti e gli 271 Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Torino, 2015 (I ed. 2006), pp.80-81 272 Massimo Legnani, op. cit., p. 823 273 Alexander Höbel, La democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-2 274 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, 2004, pp. 37-40 !141 altri quadri dirigenti furono sempre pronti a ribadire, in ogni occasione, la linea politica sviluppata a Salerno. Il Partito comunista dovette realisticamente comprendere la nuova situazione in cui si trovava e quindi anche i limiti della sua azione politica: impossibilitato ad assolvere il ruolo storico rivoluzionario sull’esempio sovietico, per non rischiare di far ripetere quanto già successo in Grecia in quello stesso periodo, elaborò una nuova concezione di marxismo esplicandola nel termine di “democrazia progressiva”275. Nel terzo capitolo si affronta la vicenda politica che, entrata ormai in una nuova fase, ruotò ancora per poco attorno al tripartito. Infatti, come si è visto, il peso della Dc salì progressivamente, sfruttando l’appoggio della Chiesa e degli Alleati, che lo stesso De Gasperi del resto sollecitò ripetutamente. Infatti questo periodo rispecchia una ripresa delle forze conservatrici che comportarono un decisivo regresso della formula tripartita276. Nell’arco di tempo che va dal voto del giugno 1946 al maggio 1947 (“colpo di mano”) la crisi della collaborazione tra i maggiori partiti della coalizione antifascista si consumò ed il suo precipitare fu legato sia a fattori interni che esterni. Per quanto concerne la situazione interna, come già esaminato, aumentarono le tensioni dentro e fuori il partito della Democrazia cristiana tra quanti reclamarono un allontanamento dai socialcomunisti; mentre la situazione internazionale è percorsa da sempre più segnali di frattura tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica, e dal conseguente inserimento 275 Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973, pp.242-244 276 Severino Galante, La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947, Milano, 1979, pp.110-112 !142 dell’Italia nell’area egemonizzata dagli Usa277. Si può osservare una reazione apatica da parte del Pci che considerando ancora applicabile il tripartito, rivolse le proprie attenzioni all’ala più democratica della Dc. Galante critica al Partito comunista di non aver attuato alcuna mossa cautelativa per evitare quello che fu definito la “il colpo di mano” della Democrazia cristiana e ovvero l’estromissione delle sinistre dal governo278. A giudizio di Lepre invece, la Dc non perse quella che sarebbe stata l’occasione storica per svolgere il ruolo di partito moderato che avrebbe garantito quella stabilità politica che gli Stati Uniti richiesero con sempre crescenti pressioni279, proprio nel Paese che, secondo i suoi contatti migliori, stava viaggiando “dritto dritto verso il comunismo” 280. Nell’estate del ’47 il Pci sarebbe stato costretto ad elaborare una nuova strategia politica, non mettendo mai in discussione la linea. Il realismo dei quadri dirigenti del partito fu tradotto in un’analisi che accettava i lunghi anni che sarebbero dovuti trascorrere per ottenere i risultati che auspicavano. Nonostante l’esclusione del Pci dalla compagine governativa, esso era inserito in un tavolo ancora più importante: l’Assemblea Costituente. Nel quarto e ultimo capitolo è oggetto di analisi l’importanza della Costituzione per il Partito comunista. Nonostante la realizzazione da parte dei quadri dirigenti che la nuova Carta costituzionale non avrebbe rivoluzionato l’assetto sociale ed economico nell’immediato, era 277 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. “Il Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile, Torino, 1995, pp.88-89 278 Severino Galante, op. cit., p.213 279 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, Napoli, 1990, p.113 280 David W. Ellwood, op. cit., p.253. !143 convinzione diffusa che essa tuttavia avrebbe potuto rappresentare una solidissima base per quel cambiamento graduale, che prospettava di applicare il Pci, all’interno di un sistema democratico. In questo capitolo, riprendendo un pensiero che emerge in Renzo Martinelli, si è analizzato l’importanza della Costituzione nell’ottica del Pci: una Costituzione che guardava al futuro. Tale scissione tra presente e futuro avrebbe effettivamente potuto rispecchiare il programma politico del Partito comunista, che conscio degli anni che avrebbe necessitato per la nuova riorganizzazione dell’estate ’47, avrebbe potuto di fatto spianare le porte per il cambiamento politico ed economico che il partito prospettava di operare. Secondo Legnani, il radicale mutamento della maggioranza di governo, causato dall’estromissione delle sinistre dal governo, non ebbe effetti dirompenti sui lavori dell’Assemblea Costituente281. Maturarono così, negli ultimi mesi del 1947, due processi nettamente divergenti: da un lato si consolidò lo schieramento moderato che configurò il blocco di forze che trionfò poi alle elezioni del 18 aprile 1948 per la prima legislatura repubblicana; dall’altro giunse in porto la elaborazione della Carta costituzionale attraverso un intreccio delle matrici cattolica e marxista che realizza significative convergenze, le quali tuttavia, riguardano principalmente le mete programmatiche contenute nella Carta affidandosi, per la realizzazione, alle future maggioranze di governo. Una Costituzione che presenta elementi di socialismo, a giudizio di Ciofi, e che rappresenta un percorso inedito per la via italiana al socialismo282. 281 Massimo Legnani, op. cit., p.824 282 Paolo Ciofi, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità, Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre 2013, URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituente-santomassimo-ferrara-ciofi/ !144 Difficilmente contestabile la linea togliattiana, almeno sino al 1948. Abbiamo esaminato come la situazione italiana non era favorevole per alimentare una guerra di classe volta all’instaurazione del socialismo. Il Partito comunista non avrebbe rischiato di perdere quella che era considerata una delle più alte conquiste del partito: la presenza al governo. A tal proposito il Pci elaborò una nuova strategia, dopo l’estromissione nel maggio ’47, per la realizzazione del suo obiettivo. La stesura della Costituzione rappresentò l’occasione storica per il Pci, per attuare gradualmente e per vie democratiche quel cambiamento socio-economico. Il famoso “compromesso costituzionale”, di cui parla lo stesso Togliatti, ha dato vita a una Costituzione progressiva, democratica e antifascista, che tutelava il popolo ritenuto sovrano nella Carta costituzionale. Di conseguenza emerge una grande abilità da parte di Togliatti e di tutto il Partito comunista nell’aver elaborato una nuova linea politica per il raggiungimento dell’obiettivo ultimo. Ma a questo punto, le domande e i dubbi che erano sorti al principio di questo lavoro sono stati sostituiti nella conclusione da nuovi interrogativi e problematiche riguardanti le strategie, le scelte e gli obiettivi del Pci nella successiva storia politica italiana e i differenti contesti storici italiani e internazionali, in cui esso si trovò ad operare a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo. !145 “L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato”. Marc Bloch !146 BIBLIOGRAFIA AGA ROSSI Elena, Dal partito popolare alla Democrazia cristiana, Bologna, 1969 ATERRANO Marco Maria, Mediterranean-First?La pianificazione strategica anglo-americana e le origini dell’occupazione alleata in Italia, Napoli, 2017 BATTAGLIA Roberto, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1964 CIOFI Paolo, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità, Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre 2013, pp.1-13, URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituentesantomassimo-ferrara-ciofi/ CORBI Gianni, Cacciate i comunisti!, in «La Repubblica», 3 giugno 1997, URL: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/06/03 DONDI Mirco, Azioni di guerra e potere partigiano nel dopoliberazione, in «Italia Contemporanea», n.188, settembre 1992, pp.817-828 ELLWOOD David W., L’alleato nemico: l’occupazione anglo-americana in Italia 1943-1946, Milano, 1977 GALANTE Severino, La fine di un compromesso storico. 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