UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II
!
DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
LAUREA TRIENNALE
CORSO DI STUDI IN STORIA
ELABORATO FINALE DI LAUREA IN
STORIA CONTEMPORANEA
Il ruolo del Pci dalla Resistenza
alla Costituzione repubblicana
Relatore:
Ch.moProf.
Andrea D’Onofrio
Candidato:
Marco Cerotto
Matr. N69000797
ANNO ACCADEMICO 2016-2017
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INDICE
INTRODUZIONE……………………………………………………………..4
CAPITOLO PRIMO
La Resistenza
1.1 La crisi del regime fascista……………………………………………………..10
1.2 La “congiura di palazzo” del 25 luglio…………………………………………12
1.3 La prima fase della guerra partigiana:
dagli esordi alla mancata liberazione di Roma….……………………………...15
1.4 La seconda fase della guerra partigiana:
dalla maturità alla seconda crisi invernale……………………………………...23
1.5 La terza fase della guerra partigiana:
dalla pianurizzazione all’insurrezione…………………………………………..29
CAPITOLO SECONDO
La strategia politica del Pci: il tripartito
2.1 La politica d’unità nazionale:
dall’aprile ’44 all’aprile ’45……………………………………………………36
2.2. Gli Alleati in Italia:
dall’occupazione militare alla politica di “contenimento”……………………50
2.3. La precarietà del tripartito:
partiti politici in direzione ostinata e contraria………………………………..63
CAPITOLO TERZO
Il fallimento del tripartito: la fine di un compromesso storico
3.1 La ricerca di una stabilità politica:
la Dc e gli Stati Uniti……..................................................................................71
3.2 La reazione del Pci e la conferma di una linea politica………………………..81
3.3. Il consolidarsi del blocco conservatore:
la Dc e il “colpo di mano” di maggio……………….........................................94
3.4 Una nuova fase politica:
il Pci all’opposizione…………………………………………………………..109
CAPITOLO QUARTO
La Costituzione repubblicana nell’ottica del Pci:
una “terza via” per la strategia comunista?
4.1 Il Pci e la Costituzione…………………………………………………………124
CONCLUSIONI………………………………………………………………139
BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………...146
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A Flavia,
anima fragile,
dea e bambina.
Amore della vita
e dell’eternità.
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INTRODUZIONE
In questa tesi si è analizzato il ruolo svolto dal Partito comunista italiano
dalla fase resistenziale alla stesura della Costituzione repubblicana.
Dalle tesi di tanti storici si può affermare che è proprio dalla fase
resistenziale che l’Italia rinasca: dalle ceneri di un passato terrificante,
gli italiani per la prima volta, dalla conquista dell’unità, si sono trovati a
dover compiere una scelta: la dittatura o la libertà.
Esaminare solo i venti mesi di guerra resistenziale non avrebbe permesso
lo studio del periodo immediatamente successivo, ossia la ricostruzione
del Paese e le prime conquiste della nuova Italia democratica. Ho deciso
di compiere quest’analisi attraverso lo studio degli obiettivi strategici di
uno dei partiti politici più impegnati in questa delicata fase storica: il
Partito comunista. Quali erano gli obiettivi del Pci? Qual era la sua
strategia politica? Il mancato successo (elettorale o rivoluzionario) è
stato un fallimento?
Per rispondere a queste precise domande ho intrapreso uno studio
specifico, scelto accuratamente assieme al mio relatore, che ha fornito
alla mia tesi risposte concrete e ha appagato la mia ricerca scientifica, in
questa che è una prima esperienza.
Questa ricerca si divide in quattro capitoli, che attraverso una
spiegazione lineare del quadriennio 1943-1947 con l’entrata in vigore
della Costituzione nel gennaio ’48, pone l’attenzione sulle strategie del
Partito comunista, e nel contempo si impegna nell’analisi della sua
interazione con le altre forze politiche nel contesto interno ed
internazionale.
Nel primo capitolo viene analizzato un quadro sintetico del fenomeno
della Resistenza, dalla crisi del regime fascista, alla formazione delle
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prime bande partigiane, sino all’insurrezione finale. Già da questo
capitolo si inizia a far luce sul lavoro svolto dal Partito comunista, dalla
sua veloce ricostituzione, alla “svolta di Salerno”, e quindi
all’elaborazione di una nuova linea politica che sarà una roccaforte per il
partito nei diversi anni a venire. Si evidenza il ruolo attivo svolto dal Pci
all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale e il graduale
consolidamento, nel corso della fase resistenziale, dei suoi obiettivi
strategici per il futuro del Paese.
I testi presi in considerazione per lo studio di questo capitolo sono stati
diversi, a partire da un classico come Storia della Resistenza italiana di
Roberto Battaglia, storico e protagonista attivo di questo particolare
periodo storico. Un testo molto vasto che tende a non trascurare nulla,
neppure la passione per chi, come lui, ha vissuto e sofferto gli
avvenimenti trattati. L’altro testo utile alla composizione di questo primo
capitolo, è stato Storia della Resistenza in Italia di Santo Peli, un testo
attuale che offre una sintesi accurata della Resistenza italiana con una
spiegazione degli avvenimenti molto più equilibrata rispetto ai tanti libri
sulla Resistenza risalenti a quaranta-cinquant’anni fa. Il terzo e ultimo
libro preso in considerazione è un testo sulla Resistenza che rappresenta
un capolavoro sotto tutti i punti di vista, ovvero Una guerra civile.
Saggio storico sulla moralità della Resistenza di Claudio Pavone, lo
storico che per la prima volta ha definito la Resistenza una guerra civile.
Il suo pensiero inizialmente è stato contrastato dalla tradizione storica di
sinistra, che ha sempre parlato della Resistenza come una guerra di
liberazione o patriottica. Pavone non ha negato che essa fu anche guerra
di liberazione dallo straniero e patriottica, in quanto si combatteva per
salvare la patria, ma ha affermato che fu soprattutto civile, in quanto
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combattuta tra italiani: quelli che avrebbero voluto conservare la
dittatura e quelli che avrebbero voluto instaurare la democrazia.
Il tema dominante del secondo capitolo è la strategia politica del Pci: il
tripartito. Viene analizzato nei diversi paragrafi, attraverso tale strategia,
l’obiettivo ultimo che il Partito comunista perseguiva e che avrebbe
voluto attuare. Inoltre viene esaminata la presenza degli Alleati in Italia:
la politica che realizzarono e che avrebbero voluto realizzare nella
penisola. Si vedrà come gradualmente che gli Stati Uniti emersero come
potenza economica che avrebbe guidato l’Italia (e l’Europa), avrebbero
richiesto sempre di più una stabilità politica proprio nel Paese che,
secondo i loro migliori informatori, stava viaggiando “dritto dritto verso
il comunismo”1. Il garante di questa “stabilità politica” sarebbe stata
individuata nella Democrazia cristiana, che con il passare del tempo, si
sarebbe sempre più allontanata dalla “logica parlamentare” del tripartito.
Per lo studio di questo capitolo sono stati presi in esame diversi libri e
testimonianze come: Il Partito comunista italiano e la guerra di
liberazione 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze di
Pietro Secchia, storico e dirigente del Pci, il quale fornisce un’ingente
quantità di testimonianze, attraverso la pubblicazione di diversi
documenti, quali, comunicati, rapporti informativi e verbali di assemblee
e riunioni del Pci tenutesi durante tutto l’arco resistenziale, tenendo
sempre in considerazione la linea del partito e i suoi obiettivi futuri. Il
testo preso in esame per lo studio della presenza alleata è stato L’alleato
nemico: la politica dell’ occupazione anglo-americana in Italia.
1943-1946 scritto dallo storico britannico David W. Ellwood. Per la
comprensione del deterioramento del tripartito è stato fondamentale lo
1 David W. Ellwood, L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana in Italia
1943-1946, Milano, 1977, p.235.
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studio di La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del
1947 elaborato da Severino Galante, studioso di scienze storiche e
intellettuale comunista. Infine di vitale importanza è stato lo studio di
Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata. L’Italia dal 1943 al
1946 scritto dallo storico napoletano Aurelio Lepre.
Il terzo capitolo affronta il sostanziale fallimento della formula tripartita,
la reazione del Partito comunista che non fa altro che confermare la
giustezza della linea politica seguita sino a quel momento e l’intenzione
di continuare a perseguirla per “vie nazionali e democratiche”. Ma con il
“colpo di mano” da parte della Democrazia cristiana nella primavera del
‘47, si apre una nuova fase politica che vede il Pci all’opposizione,
estromesso dal posto che occupava al governo già da diversi anni. In
questo nuovo contesto, il Partito comunista non rinnegò la linea politica,
ma mise in discussione, come si vedrà, la strategia per raggiungere i suoi
obiettivi: tenendo in considerazione non solo l’interesse della classe
sociale che rappresentava, bensì della nazione intera. Fallito il tripartito e
confermata invece la linea politica, l’estate del 1947 rappresenta per il
Partito comunista un periodo nuovo, caratterizzato da un nuova
organizzazione interna ed esterna. Il Pci si rese conto, in notevole ritardo
si potrebbe obiettare, di quanto fosse importante all’interno una
strutturazione del partito dai suoi quadri all’ultima sezione, e all’esterno
una riorganizzazione dello stesso nei confronti delle masse. Bisognava
preparare le masse e organizzarle per dare vita ad agitazioni ben
strutturate. I quadri dirigenti del Pci si resero presto conto del lungo
periodo di cui avrebbero necessitato per raccogliere i frutti di questa
nuova organizzazione del partito. Anche per questo capitolo sono stati
utilizzati i testi sovra citati, con particolare riferimento ai libri di Aurelio
!8
Lepre e di Severino Galante, incentrati su testimonianze e documenti
inediti.
Il quarto e ultimo capitolo rappresenta il postulato a cui sono giunto
dopo lo studio dei diversi testi: la Costituzione avrebbe potuto
rappresentare un’altra strategia per gli obiettivi politici del Partito
comunista?
Un pensiero che emerge anche in Storia del Partito comunista italiano
VI. “Il Partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile scritto dallo storico
Renzo Martinelli, in cui sottolinea il realismo dei dirigenti comunisti,
che limitati nel realizzare uno Stato socialista, diedero la massima
priorità a urgenti questioni istituzionali, come la proclamazione della
Repubblica e la convocazione della Costituente, ottenendo in tal modo
notevoli passi in avanti per l’Italia.
Per questo capitolo mi sono servito anche del testo Storia della prima
Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003 di Aurelio Lepre, ma è stato di
fondamentale importanza lo studio di Palmiro Togliatti, intervento
all’Assemblea Costituente pubblicato dall’Istituto storico Alcide De
Gasperi, inerente all’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947. Mentre
ad evidenziare l’analogia tra il carattere processuale della Costituzione e
della democrazia progressiva è il ricercatore Alexander Höbel in La
democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, il
quale fornisce una spiegazione lineare sul termine di democrazia
progressiva e la sua lontana origine.
La Costituzione avrebbe potuto rappresentare per il Partito comunista un
punto di partenza, una solida base a cui rifarsi per la ricostruzione
democratica del Paese e per realizzare quello Stato di “democrazia
progressiva” a cui il Pci ambiva, con la partecipazione di tutte le forze
politiche democratiche e progressive. Una tesi che emerge anche in
!9
Paolo Ciofi, presidente dell’associazione culturale Futura Umanità che
promuove la storia e la memoria del Pci. È stato indispensabile l’analisi
della relazione tenuta dal presidente di Futura Umanità sul convegno di
Togliatti e la Costituzione, cioè Togliatti e la via costituzionale per la
trasformazione della società: democrazia e socialismo.
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CAPITOLO PRIMO
La Resistenza
“Il primo dovere del proletariato è
la conquista della democrazia.”
Marx-Engels
1.1.La crisi del regime fascista
Secondo Roberto Battaglia, storico e protagonista attivo della fase
resistenziale, è difficile precisare in quale periodo esatto sia cominciata
la crisi decisiva del regime fascista, quando cioè abbia avuto inizio la
disgregazione di quelle basi di massa sulle quali esso aveva basato il
proprio dominio2. Sicuramente tra le tante motivazioni da lui stesso
annoverate e spiegate, e su cui molti storici concordano, la stanchezza
della guerra giocò un ruolo decisivo. Anche lo storico Claudio Pavone
afferma che la stanchezza della guerra insieme al desiderio di pace erano
sentimenti molto diffusi negli italiani nel 1943. Scrive Battaglia, a
differenza di ciò che si verificò per le armate del Terzo Reich, il regime
fascista non fece altro che collezionare, fin dal primo momento, sconfitte
su sconfitte: dalla campagna di Grecia all’Africa settentrionale3. Per gli
italiani svanì rapidamente l’illusione di poter condurre una guerra
“parallela”, poiché ben presto venne alla luce l’effettivo rapporto di
forze. Gravissima, scrive Lepre, la situazione alimentare: i disagi, le
privazioni e le sofferenze, non avevano colpito tutti nello stesso modo.
2 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, 1964 (I ed. 1953), p.13.
3 Ivi, p.16.
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Riapparse così quell’antagonismo di classe, che nell’estate del 1940 si
era attenuato fin quasi a scomparire, nella speranza che la vittoria,
immaginata facile e vicina, potesse risolvere i problemi di tutti, anche
della gente comune4. A giudizio di Battaglia, infatti, la situazione
economica era tragica e resa intollerabile dalla mancanza di qualsiasi
giustizia distributiva: il peso dei sacrifici ricadde tutto “verso il basso”,
mentre ne furono esonerati i detentori del potere economico e politico5.
La violenza subita con i bombardamenti aerei, la solidarietà con i parenti
uccisi o dispersi, la fame e la consapevolezza della superiorità del
nemico, concorrevano a far ritenere inane la prosecuzione di una guerra
ritenuta ormai irrimediabilmente perduta6. Anche lo stato d’animo dei
combattenti al fronte era fortemente incrinato. Momento culminante del
fallimento della guerra fascista fu la campagna di Russia. La
constatazione da parte dei soldati italiani di essere stati mandati incontro
a una morte ritenuta certa, sia per l’equipaggiamento militare inadeguato
sia per le condizioni climatiche drammaticamente sfavorevoli, furono
elementi che si aggiunsero alla grande menzogna raccontata dalla
propaganda fascista sui popoli sovietici, descritti come “popoli selvaggi
dell’est” e “barbari”. Lo poterono constatare alcuni soldati italiani che
furono accolti da soldati sovietici.
A ulteriore riprova, l’esperienza
documentata dallo scrittore Mario Rigoni Stern, a quel tempo sergente
maggiore degli alpini, che racconta come in un’izba venne offerto a lui e
ai suoi commilitoni del cibo7. Anche Pavone mette in risalto come la
4 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, 2004, p.8.
5 Roberto Battaglia, op. cit., p.18.
6 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, 1991, p.
7.
7 Roberto Battaglia, op. cit., p. 45 .
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campagna di Russia e l’occupazione dei Balcani spinsero molti
combattenti a una prima riflessione sulla guerra fascista. Il crescente
stupore dei soldati italiani nel vedere coi propri occhi i grandi
stabilimenti industriali e la diffusa istruzione nel popolo sovietico resero
ancora più evidente la falsità della propaganda fascista. Pavone riporta
una testimonianza di Nuto Revelli, in cui lo scrittore descrive l’impatto
con i partigiani sovietici che andavano alla fucilazione a testa alta: «Non
eravamo che straccioni con arie e pretese da signori. Guardai quei
partigiani con grande ammirazione. Mi sentii umiliato»8.
1.2.La “congiura di palazzo” del 25 luglio
Pian piano che la situazione generale andava peggiorando, dagli strati
popolari a quelli borghesi, arrivando sino alla classe dirigente fascista,
scrive Battaglia, si diffondeva un sentimento ostile nei confronti di
Mussolini, quasi ritenuto il solo responsabile del disastro del regime 9. Lo
storico britannico David W. Ellwood mette in risalto come questa sia
stata anche l’opinione di Churchill, riportando una delle frasi più
pronunciate dallo statista inglese prima del crollo del regime fascista:
«Un uomo e un uomo soltanto, contro la Corona e la famiglia reale
italiana, contro il Papa e tutta l’autorità del Vaticano, contro i desideri
del popolo italiano», avrebbe costretto l’Italia ad entrare in guerra contro
l’impero britannico10. Ellwood riporta il commento di Gaetano
8 Claudio Pavone, op. cit., pp. 81-85.
9 Ivi, pp.22-23.
10 David W. Ellwood, L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana 1943-1946,
Milano, 1977, p.50.
!13
Salvemini, in cui critica i britannici per aver addossato interamente a
Mussolini la responsabilità della guerra fascista, e per aver esortato il
popolo italiano a sbarazzarsi di un “solo uomo”. Churchill rivolgendosi
alla maggioranza degli italiani, la esortava a limitarsi a sostituire al
fascismo con Mussolini un fascismo senza Mussolini e tutto sarebbe
andato per il meglio. In questo modo Salvemini avrebbe posto, secondo
Ellwood, con fermezza l’accento sulla evidente “falsità” della condotta
politica anglo-americana nei confronti dell’Italia in questo periodo: la
posta in gioco non sarebbe stata l’ideologia democratica contro
l’ideologia fascista, “la salvezza dei popoli” contro regimi dittatoriali,
ma la convivenza tattica tra occupanti e occupati e il potere geopolitico
in senso classico 11.
La situazione era grave. Il 10 luglio 1943 le forze anglo-americane
iniziarono l’attacco alla Sicilia e nei giorni seguenti, afferma Battaglia, la
flotta alleata riversò sulla costa dell’isola l’armata d’invasione, costituita
da 150.000 uomini. L’esercito italiano, privo di ogni mezzo moderno di
guerra, subì una pesante sconfitta, che aggravò pesantemente il morale
dei combattenti: maturò il cosiddetto “antifascismo di guerra”, come nel
caso della campagna di Russia12.
Nel frattempo si stava movendo anche il Vaticano. Secondo Sandro
Magister, il 1942 e il 1943 sarebbero stati gli anni decisivi per il futuro
del Paese: si intensificarono i contatti tra Washington e la Santa Sede.
Monsignor Tardini affermò, dopo diversi incontri con il diplomatico
Myron Taylor, che gli Stati Uniti “si sentono forti”, e inoltre “son sicuri
di vincere” la guerra. Aggiunse poi che gli Stati Uniti si stavano
preparando a “riordinare l’Europa come meglio avrebbero creduto”. Fu
11 Ivi, pp.50-52.
12 Roberto Battaglia, op. cit., p.66.
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in quello stesso periodo che il conte Giuseppe Dalla Torre, direttore del
quotidiano della Santa Sede l’ «Osservatore Romano», consegnò al
diplomatico statunitense un memorandum a proprio nome che già
prefigurava un futuro politico italiano fondato su una collaborazione tra
borghesia, burocrazia statale e forze cattoliche a garanzia americana13.
Il 19 luglio 1943 venne bombardata Roma dall’aviazione americana.
Questo episodio, secondo Battaglia, fu il motivo che fece riunire il Gran
Consiglio del fascismo qualche giorno dopo 14, quasi come l’ultima
goccia che fa traboccare un vaso.
Furono queste e altre le pressioni che portarono il Gran Consiglio a
riunirsi la sera del 24 luglio dove prevalse la linea che avrebbe
estromesso Mussolini dalla sua carica governativa, ovvero quella BottaiGrandi-Ciano che raccolse 19 sì, 7 no e un solo astenuto. Secondo
Battaglia sarebbe stata questa la fine per il Duce, ma questi ancora nelle
ore seguenti cercò d’illudersi recandosi presso il re; ma sarebbe stato
proprio Vittorio Emanuele III, dopo un breve incontro a Villa Savoia, ad
autorizzare il suo arresto. Mussolini venne arrestato all’uscita della villa
del re da un capitano dei carabinieri. Il potere a questo punto era nelle
mani di due uomini: Vittorio Emanuele III e Badoglio 15. A giudizio di
Lepre, la caduta di Mussolini non fu il risultato di un progetto pensato
organicamente e attuato coerentemente, ma la conseguenza di una serie
di azioni non coordinate e fortemente influenzate dalla rapida evoluzione
della situazione militare16. Mentre lo storico e dirigente comunista Pietro
Secchia sostiene, nel suo libro del 1973 sul Partito comunista e la guerra
13 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943 – 1978, Roma, 1979, pp.6-7.
14 Roberto Battaglia, op. cit., p.67.
15 Ivi, pp.68-69.
16 Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, Bologna, 2008, p.258.
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di liberazione, che il 25 luglio sarebbe stato il risultato immediato di una
“congiura di palazzo”, architettata con molte esitazioni ed indecisioni dai
gruppi “economici monopolisti” per tentare, sganciandosi dal fascismo,
di “salvare il salvabile”. Fu il tentativo della monarchia, “buttando a
mare Mussolini e gli altri gerarchi”, di salvare se stessa creando un
governo conservatore, burocratico e militare, che tenesse a freno il più
possibile le masse popolari 17.
In effetti le esortazioni di Churchill e il diffuso malcontento popolare
trovarono sfogo nella sola personalità di Mussolini, ritenuto il solo
colpevole di tutti i disastri del regime fascista. A tal proposito il Gran
Consiglio colse il momento decisivo per emarginare dalla scena il capo
del Governo.
Per questo senso Secchia fornisce una valida tesi definendo il 25 luglio
una vera e propria congiura di palazzo.
1.3.La prima fase della guerra partigiana:
dagli esordi alla mancata liberazione di Roma
L’8 settembre 1943, scrive Santo Peli, venne diffuso per radio il testo
dell’armistizio firmato cinque giorni prima a Cassibile, in base al quale
lo Stato italiano dichiarò formalmente di non essere più in guerra con gli
anglo-americani.
La dissoluzione dello Stato fascista, con il venir meno di riferimenti non
solo istituzionali, ma anche ideologici con l’onnipresenza del regime,
determinò un vuoto, una sconvolgente perdita di punti di riferimento18. Il
17 Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943–1945. Ricordi,
documenti inediti e testimonianze, Milano,1973, pp.74-75.
18 Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Torino, 2015 (I ed. 2006), pp.14-15.
!16
venir meno della presenza statale, afferma Pavone, poteva essere
avvertita come un senso di smarrimento o come un’occasione di libertà.
Prima ancora poteva essere immediatamente vissuto come eccezionale
momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere. Lo
stesso autore riporta una testimonianza lasciata da un colonnello inglese
che descrisse questa esperienza:
«Quando un villaggio sta per settimane in terra di nessuno, fra le
nostre linee e quelle nemiche, la gente non ruba e non si ammazza, ma
s’aiuta l’un con l’altro in modo incredibile. Tutto ciò è assurdo e
meraviglioso. Arriviamo noi e mettiamo su gli indispensabili uffici e
servizi dell’AMG (Allied Force Headquarters) e gli italiani subito si
dividono, si bisticciano, si azzuffano per sciocchezze, si denunziano
fra loro. La concordia di prima si disfa in faide e vendette di ogni tipo.
Davvero incredibile»19 .
Questa è la situazione che riporta Pavone durante i quarantacinque giorni
di totale confusione dopo l’armistizio, affermando che però, tale
situazione, non era ancora definibile come prima fase resistenziale20.
Battaglia, come già detto, protagonista attivo di questo periodo storico,
sostiene che è difficile individuare un momento preciso della nascita
della resistenza armata. In una situazione che versava completamente nel
caos, emersero le prime formazioni di nuclei partigiani, ma si trattava
solo di primi focolai di Resistenza, formati da gruppi di sbandati e da
reparti militari in disfacimento21. Tuttavia nel momento in cui le truppe
tedesche cominciarono a formalizzare la loro violenza e quando, subito
dopo, i fascisti crearono la Repubblica sociale, quando cioè il vuoto
istituzionale fu in qualche modo riempito da un diverso sistema di
19
Claudio Pavone, op. cit., p.23.
20 Ivi , pp.24-25.
21 Roberto Battaglia, op. cit., pp.134-137.
!17
autorità, la scelta da compiere, dichiara Pavone, divenne più dura e
drammatica: per la prima volta nella storia dell’Italia unita gli italiani
vissero in varie forme un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto
era di particolare rilevanza educativa per la generazione che nella scuola
elementare aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro
unico di Stato: «Quale deve essere la prima virtù di un balilla?
L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza! E la terza? L’obbedienza!
»22. Il significato primo di libertà che assunse la scelta resistenziale era
implicito nel suo essere un atto di disobbedienza verso chi aveva la forza
di farsi obbedire. A tal proposito Battaglia scrive che il primo periodo
della vita partigiana sarebbe stato caratterizzato da questo senso gioioso
di fare da sé, di avere finalmente rotto ogni vincolo con la vita civile del
regime fascista
che tante amarezze e dolori aveva dato: si trattava
dell’orgoglio di essere e sentirsi chiamare ribelli 23.
Peli afferma che nella società italiana la vita dei partiti politici era
cessata con l’instaurarsi del regime fascista. Con il parziale ritorno alla
libertà, nell’agosto del 1943, sono circa 3.000 i militanti comunisti
rilasciati dalle carceri e dal confino. L’organizzazione comunista, di fatto
l’unica già esistente, basata su quadri e disciplina lungamente
sperimentati, fu la più tempestiva nel cogliere le nuove opportunità; già
dal ’42 infatti riprese una nuova edizione clandestina del quotidiano
comunista «l’Unità». Anche per quanto riguarda gli scioperi del marzo
’43, il Pci si mostrò il partito più preparato a dirigere le masse operaie.
La Democrazia cristiana, partito destinato a diventare, assieme al Pci,
uno dei due grandi partiti di massa del dopoguerra, conobbe tra il ’42 e il
’43 una lunga fase di gestazione, praticamente assente nelle agitazioni di
22 Claudio Pavone, op. cit., pp.27-30.
23 Roberto Battaglia, op. cit., pp.188-189.
!18
marzo su citate24. La storia del gruppo dirigente della Dc, a giudizio
dell’illustre politologo Giorgio Galli, tra l’8 settembre ’43 e il 25 aprile
’45 è la storia di un gruppo dirigente la cui linea generale fu di attendere
la completa liberazione del territorio nazionale da parte degli eserciti
anglo-americani, dedicandosi all’organizzazione di un partito che trova
nelle parrocchie e nell’Azione cattolica i suoi principali punti di
riferimento organizzativi 25. Dello stesso giudizio è anche Magister, il
quale afferma che l’adesione alla Dc di militanti della lotta di liberazione
sarebbe stato un fenomeno diffuso, ma sarebbe restata sempre una scelta
estranea a qualsiasi linea della Chiesa e del partito. Infatti, all’indomani
dell’8 settembre, le varie organizzazioni cattoliche tennero a Roma un
vertice. La riunione si chiuse con un nulla di fatto: alla tesi di
un’immediata adesione alla lotta partigiana sostenuta dai cattolici
comunisti, la Dc contrappose la parole d’ordine dell’attesismo, nella
previsione di un intervento rapido e decisivo degli eserciti alleati26.
Il 9 settembre 1943, il Comitato nazionale delle opposizioni assunse la
denominazione di Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e lanciò un
appello per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per
riconquistare all’Italia il posto che le competeva nel consesso delle
nazioni libere e democratiche27.
Peli sottolinea che l’inverno ’43 fu ancora la stagione del dubbio, ma la
Resistenza già nell’estate del ’44 avrebbe conquistato consistenza,
coesione e notevole capacità operativa. Le tappe fondamentali di questo
consolidamento furono costituite dalla “svolta di Salerno”, nell’aprile
24 Santo Peli, op. cit., p.39
25 Giorgio Galli, Storia della Democrazia cristiana, Bari, 1978, p.38.
26 Sandro Magister, op. cit., p.37.
27 Santo Peli, op. cit., pp.37-42.
!19
’44, e dalla costituzione del Comando generale del Corpo Volontari della
Libertà (Cvl), un paio di mesi dopo. La svolta di Salerno ebbe
un’importanza vitale per il percorso della Resistenza. Ma, come scrive lo
stesso Battaglia, prima ancora dell’azione che avrebbe svolto Togliatti, si
realizzò un’altra attività, meno clamorosa, volta a superare le posizioni
di intransigentismo ideologico promossi dal Congresso di Bari del Cln:
l’opera di conciliazione e di mediazione di Benedetto Croce, coadiuvato
da Enrico De Nicola. Come il giurista spiegò al filosofo, non ci sarebbe
stato bisogno di un’abdicazione effettiva, ma sarebbe bastato che il re
delegasse i suoi poteri a un luogotenente e in tal modo egli sarebbe
sparito dalla scena appagando l’ira “giacobina” del Cln28. Anche Peli
giudica la “svolta di Salerno”, ovvero la decisione del leader del Partito
comunista Palmiro Togliatti di proclamare irrealistica la pregiudiziale
antimonarchica che aveva congelato in uno sterile muro contro muro il
governo del Sud e il Cln, un momento decisivo. Secondo Togliatti, era
ormai indispensabile varare un governo di unità nazionale, inserendo i
partiti politici antifascisti in un governo che si sarebbe impegnato a
fondo nella lotta di liberazione, garantendo per il dopoguerra il diritto
popolare a scegliere tra monarchia e repubblica. Peli pone l’accento su
questo cambio di rotta improvviso, dovuto al prolungato soggiorno di
Togliatti in Unione Sovietica e soprattutto al suo incontro, pochi giorni
prima del rientro in Italia, con Stalin29, che gli avrebbe suggerito di
assumere questa nuova linea politica. Ma Peli non è l’unico ad avanzare
una tesi del genere, anche lo storico Massimo Legnani, in «Resistenza e
repubblica. Un dibattito ininterrotto», afferma che Togliatti assecondò la
politica estera sovietica, che come vedremo al prossimo capitolo, aveva
28 Roberto Battaglia, op. cit., pp.250-253.
29 Santo Peli, op. cit., pp.79-83.
!20
già dato per scontato l’inserimento dell’Italia nella sfera d’influenza
anglo-americana. Un atteggiamento moderato da parte dell’Urss che di
fatto tese a giustificare il suo futuro progetto politico nell’Europa
orientale e balcanica 30. Oltre agli interessi della politica estera sovietica
però, esisteva anche l’interesse da parte di Palmiro Togliatti per il
progetto politico da proporre al suo partito una volta rientrato in Italia, il
quale, come scrive Alexander Höbel, era in porto già da diversi anni31.
Infatti al suo rientro, Togliatti affermò che la priorità sarebbe stata quella
di liberarsi dai nazi-fascisti, unendo dunque tutte le forze antifasciste e
“nazionali”. Poi precisò che l’obiettivo dei comunisti era quello di
costruire un “regime democratico e progressivo”, una “nuova
democrazia” che avrebbe sradicato il Paese dal fascismo e gli avrebbe
dato una nuova Costituzione32.
I partiti antifascisti compresero l’importanza di questa “svolta” e di fatto
l’accettarono. Dinanzi ad atteggiamenti diffidenti di alcuni partiti
politici, Togliatti intervenne impostando la questione in questo modo:
«Nessuna libertà potrà essere garantita al popolo italiano fino a che i
nazisti non saranno cacciati dal territorio nazionale. Bisogna quindi
intensificare lo sforzo di guerra per liberare il paese. Costituiamo
dunque un governo di unità nazionale e in tal modo faremo fare anche
un passo notevole alla situazione»33.
Il leader del Pci dimostrò che bisognava uscire da una situazione
caratterizzata dall’esistenza da una parte, di un governo investito del
30 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea,
dicembre 1988, n.213, pp.819-823.
31 Alexander Höbel, La democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in
Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-13.
32 Ibidem.
33
Pietro Secchia, op. cit., p.395.
!21
potere ma privo di autorità perché privo dell’adesione dei partiti di
massa, dall’altra parte di un movimento di massa autorevole, quale il
Cln, ma escluso dal potere. Di conseguenza, era di fondamentale
importanza varare un governo di unità nazionale.
Secchia mette in evidenza come l’iniziativa di Togliatti “scoppiò come
una bomba” suscitando negli altri partiti della giunta e del Cln vivaci
discussioni, ma i più non poterono disconoscerne il realismo; ne
accettarono l’impostazione e comunque ne subirono l’influenza34.
Tra l’autunno del ’43 e la primavera del ’44, scrive Peli, le formazioni
partigiane dell’Italia centrale risultarono incapaci di coinvolgere le
masse popolari nella guerra di liberazione, come stava invece avvenendo
al Nord: la liberazione di Roma fu opera degli Alleati. Unica eccezione
risultano le “Quattro giornate di Napoli”: un’insurrezione spontanea,
frutto dell’esasperazione popolare, che portò alla liberazione della città
prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane. Per la prima volta i
“lazzari si schierarono dalla “parte giusta” comprendendo dove stava la
barbarie e dove la civiltà35. Mentre la mancata difesa di Roma
rappresenta, a giudizio di molti storici, uno dei limiti della Resistenza.
Peli riconduce questo fallimento a più cause: debolezza e divisione
interne del Cln romano, mancanza di una classe operaia e atteggiamenti
favorevoli al compromesso sostenuti anche dal Vaticano 36. Proprio il
Vaticano, per Battaglia, è l’attore principale della mancata insurrezione
di Roma37. Della stessa opinione è Pietro Secchia, sostenendo che le
principali cause della mancata insurrezione della capitale sarebbero da
34 Ivi, pp.396-397.
35 Ivi, p.256.
36 Santo Peli, op. cit., pp.57-59.
37 Roberto Battaglia, op. cit., pp.234-236.
!22
ricondurre al prevalere nella città delle correnti moderate ed attesiste
contrarie praticamente all’intervento delle masse nella lotta e soprattutto
contrarie all’insurrezione. Vaticano, monarchia, Stato maggiore, alta
burocrazia: le forze che secondo lo storico comunista avevano
collaborato al 25 luglio e che disponevano nella capitale di importanti
posizioni sociali e politiche, di larghi mezzi finanziari e di una salda base
organizzativa e logistica. Tra tutte questi componenti un’azione di gran
peso sarebbe stata svolta dal Vaticano che non risparmiò gli sforzi per
impedire che la resistenza contro le forze di occupazione sfociasse
nell’insurrezione. Il pontefice in persona, Papa Pio XII, aveva
pubblicamente espresso il suo pensiero, parlando il 12 marzo ad una
grande folla che gremiva piazza San Pietro:
«Come potremmo noi credere che alcuno possa mai tramutare Roma,
che appartiene a tutti i tempi ed a tutti i popoli, ed alla quale il mondo
cristiano e civile tiene fisso e trepido lo sguardo, di tramutarla in un
campo di battaglia, in un teatro di guerra, perpetrando così un atto
militarmente inglorioso quanto abominevole agli occhi di Dio e di
una umanità cosciente dei più alti e intangibili valori spirituali e
morali?»38.
La folla reagì accogliendo le frasi del pontefice e gridando “viva la pace,
fuori i tedeschi”.39
38 Pietro Secchia, op. cit., pp.434-438.
39 Ibidem.
!23
1.4. La seconda fase della guerra partigiana:
dalla maturità alla seconda crisi invernale
Nella fase iniziale abbiamo visto l’esordio delle prime bande, il
maturarsi del movimento, le conquiste ottenute grazie alla “svolta di
Salerno” e al lavoro istituzionale del Cln e infine alcuni limiti della
Resistenza, individuati da alcuni storici ad esempio nella mancata
liberazione di Roma. Con l’estate del ’44, secondo Peli, iniziò una
stagione straordinariamente favorevole. La liberazione di Roma (4
giugno 1944), il successo dello sbarco in Normandia (6 giugno), il
tumultuoso afflusso di giovani nelle bande partigiane in montagna,
annunciarono un’estate carica di prospettive e iniziò a profilarsi come
possibile la creazione di un vero esercito partigiano. Le sorti della
Wehrmacht in tutta Europa sembrarono già segnate e le truppe di
occupazione nazista si lasciarono dietro durante la ritirata una serie di
stragi ed eccidi. Anche in Italia, nel veloce ripiegamento da Roma a
Firenze, gli uomini di Kesselring furono protagonisti di numerosi eccidi
nei confronti della popolazione civile, da S. Anna di Stazzema (12
agosto) a Marzabotto (29 settembre)40. In merito alle rappresaglie,
Claudio Pavone afferma nel suo saggio, che se da una parte spinsero gli
individui terrorizzati a cercare individualmente scampo non più
collettivamente nell’ambiente partigiano, dall’altra finirono con
l’esaltare - e in questo sarebbe consistito il loro sostanziale fallimento proprio quel senso di corresponsabilità che esse avevano voluto colpire.
Gli atteggiamenti assunti dai resistenti di fronte alle rappresaglie nazifasciste si collocano lungo una linea che a un estremo ha la contro
rappresaglia partigiana, attraversando quindi le posizioni di coloro che
40 Santo Peli, op. cit., pp.84-85.
!24
pur tenendo conto della possibilità di rappresaglie non intesero
comunque farsi dissuadere dalla lotta, e all’altro estremo con una forte
incentivazione dell’attesismo in nome del risparmio di vite umane.
Piegarsi di fronte alle rappresaglie poteva essere considerato un implicito
riconoscimento del diritto del nemico a esercitarle. Da un lato cresceva
dunque l’odio popolare contro le truppe di occupazione nazista,
alimentando la lotta partigiana e l’afflusso nelle bande, come nel caso di
Valle Maira (agosto 1944). Dall’altro lato invece subentrò nella mentalità
dei contadini la convinzione che tali eccidi avvenivano come
conseguenza naturale delle contro rappresaglie partigiane, quindi sarebbe
stato meglio evitarle.
È davvero molto difficile esprimere un giudizio su un fenomeno del
genere, ma la fermezza dei principi e l’attenzione rivolta alle situazioni
reali possono trovare un punto d’incontro nella convinzione che uno
storico della Resistenza europea ha espresso con le seguenti parole: «La
guérrille est moins coûteuse que Verdun, la “coventrisation” ou
Hiroshima»41.
Peli, osserva che la trasformazione delle bande partigiane in un vero e
proprio esercito, stava diventando sempre più una realtà e non a caso alla
fine dell’estate del ’44 tale sviluppo avrebbe favorito la liberazione di
Firenze: il primo esempio concreto di risultati politici che
un’insurrezione guidata da un Cln autorevolmente alla testa della lotta
ottenne. Mentre le truppe alleate si trovavano alla periferia Sud della
città, l’ordine insurrezionale venne impartito dal Cln toscano allo scopo
di contribuire, direttamente in prima persona e in maniera decisiva, alla
liberazione della città. Al termine della sanguinosa battaglia, che si
41 Henri Michel, I problemi della storia della Resistenza nei lavori del colloquio di Vienna, p.40, in
Claudio Pavone, op. cit., p.483.
!25
protrasse sino al 2 settembre, gli Alleati dovettero prendere atto che le
cariche di governo della città erano già state attribuite a uomini di fiducia
del Cln42.
In questo stesso periodo, continua lo storico padovano, si vennero a
formare le “zone libere”, ossia zone liberate dal dominio nazi-fascista
ove la Resistenza si apprestava a formare anche un governo provvisorio.
Il dirigente del Pci Luigi Longo, scrive Höbel, in un articolo sulle zone
libere, tornando a parlare del tema della “nuova democrazia”, le
considerava “fucina di entusiasmo e di democratizzazione”, il cui
“centro direttivo” si sarebbe dovuto istituire nei “Cln di villaggio”.
«Non si tratta […] di iniziare nei paesi liberati una ristretta […] vita
politica, a cui partecipi soltanto un piccolo gruppo di notabili, sotto
l’etichetta appiccicata all’ultimo momento di questo o quel partito
[…]. Bisogna […] che i CLN siano veramente una emanazione delle
masse in lotta, l’espressione diretta […] della volontà popolare.»43
Per Longo si trattava cioè di iniziare a costruire una “nuova
democrazia”, a partire da quei piccoli centri dove sarebbe stato più facile
per le masse popolari entrare attivamente nella vita politica comunale e
restare in contatto con le altre zone libere limitrofe, creando una specie
di coordinamento che sarebbe stato espressione diretta ed immediata del
popolo. Un impianto che ricorda il sistema dei soviet, a giudizio di
Höbel, ma si riallaccia anche alla tradizione comunale italiana: “comuni
partigiani” e “zone libere” furono interpretati come modelli dello Stato
italiano democratico che il Pci avrebbe voluto costruire. Affermò infatti
Luigi Longo:
42 Santo Peli, op. cit , pp.93-94.
43 Alexander
Höbel, op.cit., p.5.
!26
Girando per le zone liberate, avremmo visto cose nuove, stupefacenti
[…] La popolazione partecipa […] collabora al mantenimento
dell’ordine, alle distribuzioni di generi, all’amministrazione della
giustizia, all’epurazione delle spie […]. Alle donne non par vero di
poter dire la loro, per la prima volta […] e tutte intervengono,
discutono: vivono. I giovani sono infaticabili. Sono loro che si
occupano dei giornali, li scrivono, li stampano, li “strillano”.44
Alcune di queste zone riuscirono ad avere addirittura una risonanza
internazionale, come la “Repubblica di Montefiorino” (17 giugno
1°agosto) per la grande concentrazione di partigiani armati (5.000) a
ridosso della linea Gotica e la zona libera dell’Ossola (10 settembre–14
ottobre) soprattutto per aver avviato una forma, seppur di primo livello,
politico-gestionale45 .
Tuttavia è difficile individuare un numero definito di queste zone, anche
per la loro precarietà; infatti tale esperienza era destinata ad esaurirsi a
causa dell’incalzare dell’offensiva nazi-fascista nell’inverno del ’44. Sia
Peli che Battaglia sottolineano come anche questo secondo inverno
sarebbe stato terribile. Sarebbe giusto inquadrare questo periodo come
“crisi invernale” perché non rimase più un angolo dell’Italia partigiana
che non fu devastato, messo a ferro e fuoco dai rastrellamenti 46. In più,
come se non bastasse, aggiunge Santo Peli, il 13 novembre dal Quartier
generale alleato giunse il nuovo proclama per i partigiani dal generale
Alexander: «I patrioti devono cessare la loro attività precedente per
44
Ibidem.
45 Santo Peli, op. cit., pp.96-104.
46 Roberto Battaglia, op. cit., pp.507-509.
!27
prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico,
l’inverno» 47 .
Il proclama comprendeva alcune istruzioni come la messa a riparo delle
munizioni e dei materiali. Da molti il proclama fu interpretato come un
imbarazzante “tutti a casa”, da altri come un tradimento o comunque una
manovra anticomunista di Alexander, che avrebbe volontariamente
boicottato la Resistenza italiana.
Nella sostanza, secondo Peli, questa direttiva avrebbe rappresentato una
realistica constatazione della situazione e delle immediate prospettive,
anche se lo storico deve ammettere che il momento e soprattutto il
mezzo scelto per diffondere queste istruzioni dimostravano una certa
“rozza indifferenza” per i prevedibili effetti psicologici 48. Anche Pietro
Secchia critica duramente il proclama Alexander, senza fornire risposte
azzardate su questioni che sono ancora materia di discussione e di
polemica, ma si limita a sottolineare come tanto lo storico americano
C.F. Delzell quanto lo storico inglese F.W.Deakin abbiano riconosciuto
che il proclama Alexander giovò al nemico e fu largamente sfruttato dai
nazi-fascisti. Come risposta al proclama, il Cln si sforzò a lungo, e in
particolare Luigi Longo, per interpretarlo e pubblicarne il 2 dicembre,
una propria versione:
«Campagna invernale non significa affatto “stasi invernale”: la
battaglia deve continuare, nessun compromesso, nessun
patteggiamento è possibile e ammissibile col nemico. Agguati,
imboscate, sabotaggi, colpi di mano, debbono continuare come per il
passato, a colpire incessantemente il nemico nazifascista, ovunque si
trovi in condizioni di essere utilmente colpito»49 .
47 Santo Peli, op. cit., p.113.
48 Ivi, p.114.
49
Pietro Secchia, op. cit., pp.682-685.
!28
Peli riporta un importante incontro che si ebbe tra il 10 e il 19 dicembre
1944, tra alcuni autorevoli inviati del Comitato di Liberazione Alta Italia
(Clnai) e i responsabili della Number I Special Force inglese a Monopoli
e successivamente a Roma con gli americani dell’ Oss (Office of
Strategic Services). Fu la prima volta che avvenne un incontro di questo
genere, infatti Ferruccio Parri lo definirà “un momento culminante nella
storia politica del movimento di liberazione”. Ma dovettero passare
ancora altri giorni perché il governo Bonomi, senza troppo entusiasmo,
firmò un accordo col quale si delegava il Clnai a rappresentarlo nella
lotta che i patrioti stavano impegnando contro tedeschi e fascisti
nell’Italia non ancora liberata. In cambio però, il Clnai accettò di agire
come delegato del governo italiano, sola autorità legittima in quella parte
dell’Italia che sarebbe stata poi restituita al Governo italiano dal
Governo militare alleato. Oltre a ciò, l’accordo prevedeva un appoggio
finanziario pari a 160 milioni mensili. Inoltre, sarebbe stata la prima
volta che venivano riconosciuti a livello ufficiale il valore e la funzione
nazionale e unitaria dell’insurrezione partigiana. Un successo di grande
importanza, che tuttavia si univa a una forte delusione, rispetto alla
speranza di ottenere quella piena investitura dei poteri di governo
mancata fino a quel momento: il riconoscimento del Cvl come parte
integrante dell’esercito italiano50.
Nel frattempo, il terribile secondo inverno volgeva a termine e “la crisi
invernale”
sembrava essere superata.
50 Santo Peli, op. cit., pp.130-134.
!29
1.5. La terza fase della guerra partigiana:
dalla “pianurizzazione” all’insurrezione
Battaglia individua nella “pianurizzazione” la svolta per il superamento
della seconda “crisi invernale”. Per lo storico romano la sua più alta
espressione è rappresentata nella battaglia di Ravenna (4 dicembre
1944). I partigiani trovarono scampo ai rastrellamenti, giungendo sulle
colline e poi spargendosi, come in tanti rivi, nella pianura padana,
arrivando quasi alle porte della città. Battaglia sostiene che il fenomeno
di discesa verso il basso sarebbe nato come movimento spontaneo di
massa, non escludendo l’altro aspetto del problema, che tale manovra
fosse stata già intuita o prevista nei suoi sviluppi da chi aveva il compito
di guidare i partigiani su piano locale e nazionale. Dell’importanza di
una espansione del movimento partigiano in pianura si sarebbe già
trovata traccia negli atti del Cvl; seguono poi anche le direttive del
Partito comunista annunciate nella “Conferenza dei Triumvirati
insurrezionali”51. A contestare Battaglia è
Santo Peli affermando che
nonostante non ci sia una linea interpretativa univoca circa i
comportamenti di montanari e contadini, è sufficientemente provato che
alla fine del ciclo di rastrellamenti dell’autunno ’44-’45 la ferocia
dispiegata dai nazi-fascisti, pur non riuscendo a distruggere
completamente le bande, riuscì però a minarne profondamente i legami
di solidarietà e di fiducia, che in circostanze meno avverse, avevano
caratterizzato l’atteggiamento dei civili verso i partigiani. Per questo Peli
sostiene che in questa “stasi invernale”, la pianurizzazione, cioè il
portare in pianura buona parte di ciò che restava dell’esercito partigiano,
51 Roberto Battaglia, op. cit., pp.540-542.
!30
sarebbe stata una scelta obbligata 52. A questo punto, oltre ad affermare
che sicuramente i tanti rastrellamenti avrebbero in qualche modo
incrinato quel legame iniziale di solidarietà tra i montanari e i partigiani,
si deve del resto riconoscere, accanto all’aspetto militare, la necessità
politica di questa nuova strategia: l’inserimento dei partigiani in pianura
per prevenire il rischio dell’isolamento in montagna. Questo è
testimoniato da Secchia, il quale afferma che tale spostamento sarebbe
stato dettato dalla necessità scaturita dall’andamento della guerra
partigiana. Era necessario, dunque, trasferire i partigiani il più vicino ai
centri urbani per prepararli all’ultima fase della guerra resistenziale:
l’insurrezione finale53. Ormai il problema all’ordine del giorno, come
scrive Peli, era quello dei tempi e dei modi della ritirata tedesca e
dell’imminente liberazione dell’intero territorio nazionale54. Battaglia
ricorda come in questa occasione fu messo a punto il piano della difesa
degli stabilimenti industriali, considerati patrimoni nazionali.
L’attuazione di questa manovra fu affidata alle mani degli operai,
organizzati nelle squadre dei Sap (Squadre d’Azione Patriottica) che
avrebbero dovuto occupare dall’interno le fabbriche al momento
dell’insurrezione55 e tutto ciò, sottolinea Peli, sarebbe dovuto avvenire
prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane. Proprio gli Alleati,
infatti, erano tra quelli che guardavano con un misto di preoccupazione e
di insofferenza al progetto dell’insurrezione, restando infatti favorevoli a
un intervento partigiano solo ove esso risultasse militarmente più utile e
politicamente meno pericoloso. Tali preoccupazioni sarebbero emerse
52 Santo Peli, op. cit., pp.124-126.
53 Pietro Secchia, op. cit., pp.623-625.
54 Santo Peli, op. cit., pp.150-152.
55 Roberto Battaglia, op. cit., pp.606-610.
!31
anche in un documento della “Number I Special Force”, in cui si
evidenziavano i timori che i comunisti si stessero preparando a prendere
il potere con la forza nel momento in cui i tedeschi sarebbero stati
cacciati dagli Alleati. Le preoccupazioni di una possibile insurrezione
toccavano anche le più alte cariche ecclesiastiche, che vedevano ancora
nel comunismo il loro peggior nemico 56. A questo punto, il Partito
comunista, come documenta Secchia, fu costretto a cautelarsi di fronte a
queste manovre attesiste messe in atto dalle forze conservatrici:
il
giorno 10 aprile 1945 la Direzione del Pci diramò la “direttiva n.16” per
l’Alta Italia occupata:
«L’ora dell’attacco finale è scoccata. Con le presenti direttive si
richiamano tutte le nostre organizzazioni a estendere l’azione
insurrezionale, a seconda delle possibilità ed opportunità locali, al
più gran numero di categorie delle città e delle campagne. In questa
fase risolutiva della lotta insurrezionale è da prevedersi una
intensificazione inaudita e sfacciata di tutte le manovre tendenti a
sabotare, a impedire, l’insurrezione e soprattutto il movimento
insurrezionale popolare. Ogni disposizione contraria all’orientamento
insurrezionale del movimento patriottico dev’essere sempre e con la
più grande energia respinta dai nostri compagni, da qualunque parte
essa provenga. Ma se nonostante tutti i nostri sforzi non riuscissimo,
in simili casi, a dissuadere i nostri amici e alleati, noi dobbiamo fare
anche da soli, cercando di trascinare al nostro seguito quante più
forze possibili ed agendo sempre però in nome del CLN e sul piano
politico dell’unione di tutte le forze popolari e nazionali per la
cacciata dei tedeschi e dei fascisti, e mettendo ben in chiaro che con
la nostra attività non ci proponiamo affatto degli scopi o degli
obiettivi di parte. Queste sono le precise direttive che noi diamo a
tutte le nostre organizzazioni, a tutti i nostri compagni in questo
momento decisivo per l’insurrezione nazionale. Che tutti siano consci
delle grandi responsabilità politiche e morali che pesano in questo
momento sul nostro partito nell’Italia ancora occupata dai
nazifascisti; che tutti siano decisi a dare tutti se stessi per affrontare
56 Santo Peli, op. cit., pp.155-158.
!32
degnamente questa responsabilità, e per portare il nostro popolo
all’insurrezione vittoriosa ed alla libertà»57.
Tra il 21 aprile e il 2 maggio 1945 si consumò, come sostiene Peli,
l’ultimo atto della Resistenza. Il 25 aprile fu la data scelta per ricordare
l’insurrezione finale 58: una data di gioia e di festa per gli italiani che
avevano combattuto o comunque si erano schierati per la democrazia e la
libertà. Emersero invece, come ribadisce Battaglia, le preoccupazioni dei
fascisti e dei tedeschi, che avrebbero voluto ottenere le migliori
condizioni possibili di resa, ma il Cln fu intransigente e confermò la resa
incondizionata; Mussolini reagì minacciando di fare di Milano “una
nuova Stalingrado” 59. Di fondamentale importanza appare la
testimonianza di Secchia, che documenta la riunione tenuta
all’arcivescovado di Milano, con la presenza del cardinale Schuster, a
cui parteciparono da una parte Mussolini, Graziani, Zerbino e Barracu e
dall’altra i rappresentanti del Clnai (Lombardi, Cadorna, Pertini, Sereni e
Valiani). Mussolini avrebbe chiesto un’ora di tempo, ma poi, avrebbe
lasciato l’arcivescovado e non sarebbe più tornato: travestito da tedesco
avrebbe cercato di fuggire da Milano. Venne catturato e giustiziato a
Dongo dalla 52 esima Brigata Garibaldi, comandata da Walter Audisio,
su indicazione di Luigi Longo che affermò: «È da tempo che il popolo
italiano ha pronunciato la sentenza, non si tratta che eseguirla».60
57
Pietro Secchia, op. cit., pp.1010-1011.
58 Santo Peli, op. cit., pp.168-170.
59 Roberto Battaglia, op. cit., pp.645-646.
60 Pietro Secchia, op. cit., pp.1050-1052.
!33
Il cadavere di Mussolini fu esposto appeso per i piedi a Piazzale Loreto,
nel centro di Milano, proprio dove, nell’agosto ’44, furono fucilati prima
e appesi dopo quindici partigiani, prelevati dal carcere di San Vittore.
Il valore simbolico di questa azione era assai profondo perché ad essere
capovolta, oltre al corpo senza vita del Duce, era anche la simbologia
fascista della scure littoria, quale strumento delle esecuzioni capitali: la
vittima adesso era lo stesso Duce del fascismo, vinto e colpevole. Si
attuava una sorta di legge del contrappasso61.
Pavone sostiene che la Resistenza sia stata interpretata da molti
partigiani politicizzati come una guerra di classe e che sarebbe passata
alla storia come guerra patriottica e di liberazione, ma in realtà essa
sarebbe stata soprattutto guerra civile in quanto fu combattuta tra gli
italiani che volevano instaurare la dittatura e gli italiani che volevano
conquistare la libertà. Ebbe inoltre i caratteri aspri e feroci comuni a tutte
le guerre civili. Furono diversi i giornali dell’epoca, come «Risorgimento
liberale», «L’Italia libera» e infine l’«Avanti!» a parlare di guerra civile e
a riconoscerla, in quegli anni, già come tale62. Il clima di “guerra civile”
si protrasse anche e soprattutto nel periodo del dopo liberazione. Anche
se il conflitto bellico si era concluso, scrive lo storico Mirco Dondi, era
naturale che le formazioni partigiane combatterono ancora contro i
fascisti della Rsi: una logica di distruzione totale volta al completo
annientamento del nemico. La determinazione delle formazioni
partigiane nei confronti dei fascisti fu ben altra cosa rispetto a quella che
mostrarono gli Alleati; questi ultimi, una volta liberata una zona
dall’occupazione tedesca, sembrarono quasi disinteressati alla
continuazione delle operazioni per debellare le residue forze fasciste. Per
61 Claudio Pavone, op. cit., pp.511-512.
62Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., pp.266-267.
!34
alcuni partigiani, invece, il fascista era considerato “più nemico” dello
stesso tedesco: ai connazionali repubblichini non si riusciva a perdonare
il totale asservimento allo straniero e dunque il tradimento63. La
liberazione pose senz’altro fine alla guerra di liberazione contro il
tedesco, ma segnò invece la svolta finale della guerra civile contro i
fascisti. La presenza alleata, nella prima settimana successiva alla
liberazione, non risultò ancora così incombente e soffocante, tant’è che
le truppe anglo-americane, scrive Dondi, lasciarono spesso spazi di piena
autonomia alle formazioni partigiane per la repressione dei fascisti. Di
fatto, i giorni immediatamente seguenti la liberazione rappresentarono il
momento più difficile e sanguinoso, caratterizzato da un alto numero di
esecuzioni e da una più accentuata condizione di anomia del sistema,
ovvero di assenza o carenza di norme sociali. Determinate azioni di
guerra compiute dai partigiani contro i fascisti, furono spesso il frutto di
un’iniziativa spontanea e individuale motivata da una rabbia viscerale: si
voleva far pagare al fascista ciò che aveva fatto per venti anni. Queste
azioni però, non rispondevano agli ordini provenienti dal Cln e di fatto
provocarono una reazione da parte di Luigi Longo che l’8 giugno ’45,
nella seduta della direzione comunista dell’Italia del Nord, non poté fare
a meno di affermare:
«Nel campo dell’epurazione si commettono delle illegalità che devono
essere troncate. Noi non possiamo più permettere che si sopprimano
persone alla chetichella, anche perché questi sistemi possono dar
luogo ad equivoci tragici. L’epurazione deve essere fatta, ormai in
veste legale attraverso tribunali straordinari»64 .
63 Mirco Dondi, Azioni di guerra e potere partigiano nel dopoliberazione, in Italia Contemporanea,
n.188, settembre 1992, pp.457- 477.
64
Ibidem.
!35
Dal momento in cui il Partito comunista mise in atto una disciplinata
organizzazione, ordinando la fine di esecuzioni sommarie e l’avvio di
regolari processi epurativi, e dal momento in cui le strutture di controllo
alleato cominciarono ad esercitare maggiori pressioni sul Cln, allora si
esaurirono completamente le azioni di guerra partigiane. Gli Alleati,
inoltre, se da un lato, come ha scritto Dondi, non interferino in un primo
momento nella lotta tra partigiani e repubblichini nel periodo del dopo
liberazione, dall’altro, come si vedrà successivamente, salvarono molte
anime condannate per collaborazionismo dal Cln, ai fini di salvaguardare
i propri interessi politici ed economici. Uno dei casi più emblematici fu
il salvataggio del repubblichino Junio Valerio Borghese, comandante
della sanguinosa X MAS.
Gli italiani che avevano scelto di combattere o comunque di schierarsi
dalla parte di coloro che volevano la libertà, avevano vinto. Dopo venti
anni di dittatura fascista, costoro avevano raggiunto quello che doveva
essere il primo dovere di un popolo libero: la conquista della
democrazia.
!36
CAPITOLO SECONDO
La strategia politica del Pci: il tripartito
“Per assolvere il compito di creare
un’Italia nuova è indispensabile che i partiti si
uniscano e collaborino stabilmente. Ed è per
questo che il tripartito non è una formula
matrimoniale o parlamentare, non è una
tendenza occasionale non è, una
coabitazione forzata, né un matrimonio di
convenienza; ma è un blocco di forze
storicamente e politicamente determinato, le
quali sanno o per lo meno devono acquistare
la consapevolezza che nella situazione
concreta odierna di questo paese esse hanno
un lungo tratto di strada da percorrere in
comune, un compito comune non contingente,
né occasionale ma un compito storico che
debbono assolvere insieme, se vogliono tener
fede alla loro ispirazione originale, allo stato
d’animo, agli ideali delle masse che li
seguono, se vogliono tener fede, insomma, alle
loro parole e ai loro programmi”.
Palmiro Togliatti
2.1.La politica di unità nazionale:
dall’aprile ’44 all’aprile ’45
Come analizzato nel capitolo precedente, la “svolta di Salerno” sbloccò
una situazione difficile che rischiava di durare ancora a lungo. Secondo
Pietro Secchia, la svolta, pur avendo rappresentato una specie di “colpo
di fulmine che inceneriva il passato”, in realtà fu il punto di arrivo di una
lunga serie di tentativi, sino a quel momento falliti, per arrivare ad una
conclusione positiva. I colloqui tra Badoglio ed i suoi fiduciari da una
!37
parte e i dirigenti del movimento antifascista da Croce ad Arangio Ruiz
dall’altra, si erano susseguiti arrestandosi di fronte allo scoglio della
monarchia: un cadavere che gli uni volevano tenere in piedi e gli altri
seppellire.
Come scrisse «l’Unità» nel gennaio 1944:
«Se non ci fosse stata la guerra e la necessità di vincerla per
schiacciare il nazismo, noi avremmo potuto e saputo risolvere
rapidamente la situazione con un’azione rivoluzionaria delle masse.
Ma appunto perché c’è la guerra, dobbiamo tutti evitare che le masse
tentino di risolvere spontaneamente la situazione in forme che
potrebbero essere una limitazione dello sforzo di guerra. Una sola
soluzione esiste dunque oggi, che esige l’unità degli antifascisti e la
comprensione degli alleati: evitare che il popolo italiano continui ad
essere senza governo, fare un governo o un contro-governo che
diventi rapidamente il governo del paese. Bisogna farlo! Bisogna
dunque prepararlo subito!»65 .
Già prima dell’arrivo di Togliatti, la forza con cui era stata auspicata la
necessità della formazione rapidissima di un governo che governasse,
costituiva una premessa ad un mutamento di strategia politica del Pci,
premessa che maturò soprattutto dopo il congresso di Bari dei Cln
(28-29 gennaio), quando divenne sempre più evidente l’incapacità della
Giunta esecutiva dei Cln di uscire e fare uscire le forze antifasciste dal
vicolo cieco in cui si trovavano66. Appena rientrato in Italia, Togliatti nel
suo primo discorso pubblico pronunciato a Napoli l’11 aprile 1944,
espose in modo esplicito la strategia dei comunisti italiani, e indicò con
straordinaria chiarezza – già nell’aprile ’44 – i principi da porre a
fondamento di una nuova Costituzione. Sempre a Napoli, Togliatti
affermò la necessità di convocare, a tempo debito, un’Assemblea
65Pietro
Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi,
documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973, pp.389-390.
66Ibidem.
!38
Costituente che avrebbe garantito a “tutti gli italiani” tutte le libertà: la
libertà di pensiero e di parola; la libertà di stampa, di associazione e di
riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e
media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi del
capitale monopolistico. Il capo del Pci chiarì che le intenzioni dei
comunisti non sarebbero state quelle di instaurare un regime che si
sarebbe basato sull’esistenza o sul dominio di un solo partito, ma
affermò la necessità, in un’Italia democratica e progressiva,
dell’esistenza di diversi partiti politici che, Togliatti auspicava,
avrebbero collaborato alla rinascita democratica del Paese67. Aggiunse
infine Togliatti che nessuno di questi obiettivi sarebbero stati realizzati,
se il Pci non sarebbe divenuto un partito di massa, capace di giungere
nelle officine, nelle strade, nelle piazze e nelle case, guidando tutto il
popolo ad adempiere il ruolo di protagonista nella vita politica
dell’Italia.
Secchia ricorda che il Consiglio nazionale del Partito comunista,
riunitosi il 30-31 marzo 1944, discusse dell’iniziativa della “svolta” e
che, nonostante alcune diffidenze al suo interno, la maggioranza del
partito si sarebbe convinta, per lo sviluppo della situazione
internazionale ed interna, della necessità e del dovere di rafforzare ed
estendere l’unità nazionale nella lotta per la liberazione del Paese
dall’occupazione nazi-fascista. Il Consiglio si concluse con la stesura di
un programma articolato in quattro precisi punti:
1)mantenere intatta e consolidare l’unità del fronte delle forze
democratiche e liberali
67 Paolo Ciofi, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e
socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità,
Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre, 2013
URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituente-santomassimo-ferrara-ciofi/.
!39
antifasciste; 2) assicurare formalmente il Paese che il problema
istituzionale sarebbe stato risolto liberamente da tutta la nazione,
attraverso la convocazione di un’assemblea nazionale costituente, eletta
a suffragio universale diretto e segreto, subito dopo la fine della guerra;
3) creare un nuovo governo, di carattere transitorio, ma forte e
autorevole per l’adesione dei grandi partiti di massa. Un governo capace
di chiedere un ulteriore sforzo di guerra di tutto il Paese e in primo luogo
di creare un esercito italiano in grado di battersi contro i tedeschi; un
governo capace, con l’aiuto delle grandi potenze democratiche alleate, di
prendere misure urgenti per alleviare le sofferenze delle masse e far
fronte con efficacia ai tentativi di rinascita delle forze reazionarie; 4)
assicurare tutti gli italiani, di qualsiasi
convinzione o fede politica,
sociale e religiosa, riguardo l’obiettivo della lotta: liberare il Paese dagli
invasori tedeschi, dai traditori della patria, dai responsabili della
catastrofe nazionale, e al contempo garantire un posto nel fronte del Cvl
a tutti coloro che avrebbero voluto battersi per la libertà d’Italia e infine
si affermava che in futuro sarebbe stata garantita a tutti la possibilità di
difendere davanti al popolo la propria posizione68.
Il passo successivo dopo la formazione del fronte politico di unità
nazionale, come riporta Lepre, fu il “Patto di Roma”, ovvero il patto di
unità sindacale firmato a Roma il 3 giugno ’44 da Giuseppe Di Vittorio,
comunista, Achille Grandi, democristiano, e Emilio Canevari, socialista.
I protagonisti di questo patto si resero conto di come l’unità sindacale
potesse essere lo strumento più efficace per assicurare l’opera di
ricostruzione del Paese. L’unità sindacale avrebbe riunito, infatti, tutti i
lavoratori italiani per il conseguimento degli obiettivi fondamentali,
come la promozione dell’organizzazione e dell’inquadramento del
68 Ivi, pp.395-396.
!40
movimento sindacale in tutte le regione liberate; il sostegno con tutte le
proprie forze alla guerra di liberazione nazionale; l’assicurazione del
massimo collegamento con le masse lavoratrici delle regioni occupate al
fine di aiutarle con mezzi adeguati alla lotta; lo studio di tutte le
iniziative atte a preparare ed effettuare la ricostruzione del Paese nel
pieno riconoscimento dei diritti del lavoro. Nacque in tal modo la
Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil).69
Ma già il 14 giugno De Gasperi diede vita alle Associazioni Cristiane dei
Lavoratori Italiani (Acli) per creare un élite che avrebbe potuto dirigere
in altra sede le battaglie sindacali o politiche70.
Le Acli nacquero, dunque, per un verso come organismo fiancheggiatore
inteso ad offrire un’alternativa alla componente cattolica della Cgil, per
un altro verso come riserva strategica in potenziale alternativa all’unità
sindacale.
Come riporta Secchia, il Pci istituì, nel mese di gennaio 1944, degli
organismi dirigenti allo scopo di coordinare l’azione politico-militare
con l’azione di massa per lo sviluppo del movimento insurrezionale.
Questi organismi presero il nome di “Triumvirati insurrezionali” che,
con la loro attività, avrebbero dovuto non solo preparare, ma assicurare
la vittoria dell’insurrezione nazionale anche nel caso che gli altri
organismi al momento decisivo non avrebbero partecipato 71.
In una
conferenza dei Triumvirati insurrezionali tenutasi a Milano dal 5 al 7
novembre 1944, Luigi Longo tenne il discorso di apertura affermando
che:
69 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, Napoli, 1990, pp. 111-113.
70 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943-1978, Roma, 1978, p.43.
71 Pietro Secchia, op. cit., pp.625-628.
!41
«Creare gli organi del nuovo potere popolare. L’articolazione dei
CLN in tutta una serie di comitati periferici è della massima
importanza non solo per il potenziamento della lotta immediata ma
anche per la creazione del nuovo spirito e dei nuovi organi
democratici che devono essere la base e l’anima della nuova Italia. E’
con queste prospettive di ulteriori sviluppi, nel quadro della creazione
delle premesse e delle basi di una vera e vitale democrazia, che noi
dobbiamo condurre tutto il lavoro di mobilitazione e di organizzazione
delle grandi masse popolari. I pilastri dell’Italia democratica di
domani saranno le formazioni partigiane, tutte le organizzazioni e
tutti gli organismi popolari che sono sorti e si sono affermati durante
la guerra di liberazione»72.
Queste affermazioni, come sottolinea Secchia, chiarivano senza
possibilità di equivoci quali fossero gli obiettivi per i quali lottava
il Pci: non si lottava per il socialismo ma per un’Italia rinnovata e
veramente democratica, basata su nuove strutture sociali i cui
pilastri sarebbero dovuti essere le formazioni partigiane e tutte le
organizzazioni e gli organismi sorti durante la guerra di
liberazione. Questi principi furono confermati da Longo, il quale
continuando il discorso chiarì che:
«Noi oggi lottiamo non per la dittatura proletaria, ma per la
democrazia progressiva che si differenzia da quella non tanto per la
sua sostanza democratica, ma soprattutto per il suo contenuto sociale.
La democrazia progressiva non colpisce radicalmente il principio
della proprietà capitalistica sfruttatrice, come fa invece la dittatura
proletaria, la quale conserva però la piccola proprietà privata dei
singoli contadini e protegge la comodità personale, nonché il diritto
di successione ereditaria di tali beni. Noi lottiamo per la democrazia
progressiva, oggi, perché pensiamo che essa offra il solo terreno sul
quale è possibile realizzare l’unità nazionale di tutte le forze
democratiche e progressive, l’unità necessaria e indispensabile per la
condotta vittoriosa della guerra di liberazione, e per la ricostruzione
a liberazione avvenuta. È evidente però che la non abolizione del
principio della proprietà capitalistica non significa che in regime di
72
Ivi, pp.630-634
!42
democrazia progressiva non si debbano liquidare i più iniqui privilegi
del capitale, della grande proprietà e le loro forme più reazionarie. È
evidente che tutta una serie di misure economiche e sociali dovranno
essere prese perché imposte dalla necessità della guerra e della
ricostruzione, oltreché dalle esigenze della giustizia sociale e del
progresso. La democrazia progressiva non può essere certo un idillio
fra tutti. Essa presuppone al contrario la lotta, perché deve significare
il blocco delle forze di tutte le classi progressive e di tutti quanti sono
preoccupati dalle sorti che non vorranno rinunciare al loro privilegio,
contro i residui ed il ritorno del fascismo».73
Dalla svolta di Salerno in poi i partiti aderenti all’unità politica
nazionale si sarebbero dovuti impegnare a stilare vari programmi
politici, con l’obiettivo della ricostruzione del Paese. Nell’ottica
del Pci il tripartito avrebbe dovuto facilitare questo arduo lavoro
di ricostruzione, nel caso in cui avessero remato tutti nella stessa
direzione: edificare nel Paese una nuova democrazia, che il Pci
definiva “progressiva”. L’elaborazione dei comunisti italiani sulla
democrazia progressiva, scrive Höbel, pur sviluppandosi nel fuoco
della lotta di liberazione, trova tuttavia il suo primo nascere alcuni
anni prima: nel periodo del VII Congresso dell’Internazionale
comunista (Mosca 1935) e della svolta dei Fronti popolari, che
giunsero al potere in Francia e in Spagna. In questo clima si
sviluppò un dibattito più generale sul rapporto tra socialismo e
democrazia. Durante il VII Congresso furono Dimitrov e Togliatti
a comprendere che la questione democratica andava affrontata
diversamente rispetto al passato, in virtù dell’avanzare dei regimi
nazionalisti. Dimitrov realizzò che per fermare la spinta
nazionalista e reazionaria, l’obiettivo da raggiungere per i
comunisti, in quel nuovo contesto storico, sarebbe stato non uno
“Stato sovietico, ma uno Stato antifascista orientato a sinistra”: un
73
Ivi, pp. 653-673
!43
tipo particolare di Stato con un’autentica “democrazia popolare” a
cui avrebbe collaborato la parte della borghesia dichiaratamente di
sinistra 74. Togliatti sviluppò questa intuizione un anno dopo il VII
Congresso, nel celebre articolo Sulle particolarità della
rivoluzione spagnola, pubblicato nell’ottobre ’36, in cui scrisse:
Quella in corso in Spagna è una rivoluzione che possiede la più larga
base sociale – operai, contadini, salariati agricoli, vasti settori della
piccola borghesia e della stessa borghesia […] è dunque una
rivoluzione popolare […] una rivoluzione nazionale […] una
rivoluziona antifascista. Il fascismo ha ottenuto, come risultato della
sua offensiva, che la piccola borghesia si è decisamente schierata con
il proletariato […]. Ma i compiti della rivoluzione democraticoborghese […] il popolo spagnolo li risolve oggi in “modo
nuovo” […]. Questa Repubblica democratica […] si crea nel fondo di
una guerra civile nella quale la parte dirigente spetta alla classe
operaia […] questa “democrazia di tipo nuovo” non potrà […] non
essere nemica di ogni forma di spirito conservatore. Essa possiede
tutte le condizioni che consentono di svilupparsi ulteriormente75.
È questa la situazione in cui versava l’Italia quando Togliatti, rientrando
dall’Unione Sovietica, optò per la politica di unità nazionale. Come disse
Togliatti ad Aladino Bibolotti, valoroso quadro del Pci che si trovava a
Mosca con lui, la “democrazia di tipo nuovo, la democrazia conquistata
da una lotta alla testa della quale ci stava la classe operaia”, non andava
vista come un “punto di arrivo o di arresto”, ma come una “tappa” di un
percorso più ampio. Aldo Agosti, nella sua biografia di Togliatti, collega
l’idea gramsciana di “Assemblea costituente”, come strumento per
colpire e sradicare il fascismo, con l’idea togliattiana di “democrazia
progressiva” e che proprio nel suo carattere processuale segnerà, come
74 Alexander Höbel, La democrazia progressive nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in
Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-2.
75
Ibidem.
!44
vedremo in seguito, profondamente la stessa Costituzione
repubblicana 76. Per Togliatti era ormai chiaro che la lotta per il
socialismo sarebbe dovuta essere lotta per una maggiore democrazia e
che in questo senso i comunisti avrebbero dovuto rappresentare i
“democratici più conseguenti”.
A questo proposito, Aurelio Lepre riporta lo scambio di lettere tra i
partiti del Cln tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45. Il Partito d’Azione fu
il primo a prendere l’iniziativa, scrivendo, il 20 novembre ’44, una
lettera aperta a tutti i partiti del Cln al fine di fissare degli obiettivi
comuni per il presente e per il futuro del Paese. Il Pda, dopo un’accurata
analisi della situazione nazionale, pose la sua attenzione sulla natura del
Cln e sui compiti che avrebbe dovuto assolvere: organismo governativo
esteso da Nord a Sud, che avrebbe diretto e coordinato la delicata
transizione nei giorni della liberazione e che avrebbe dovuto impegnarsi
anche nel periodo immediatamente successivo. il Pci fu il primo a
rispondere chiaramente, anch’esso con una lettera aperta pubblicata su
«La nostra lotta» il 15 dicembre 1944. La tempestività con la quale il Pci
rispose alla lettera del Pda dimostrò come essa non solo non lo avesse
colto di sorpresa, ma rivelò anzi il compiacimento del Partito comunista
sul fatto che un altro partito si fosse persuaso dell’urgente necessità di
affrontare apertamente problemi e soluzioni che erano andati maturando
da mesi. Si può osservare come il Pci, pur partendo dal riconoscimento
della giustezza della linea politica proposta dal Pda e concordando sulle
proposte riguardanti il presente, non entrò tuttavia nel merito di quelle
concernenti il futuro assetto dell’Italia, ripromettendosi di sviluppare in
altra sede le sue posizioni sui singoli tempi di politica interna ed estera77.
76Ibidem.
77 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp. 120-129.
!45
Quali fossero le posizioni del Pci, sostiene Secchia, non era un mistero
per nessuno, tuttavia fu sufficiente avanzare concrete proposte per
estendere i Cln, nella loro composizione e nella loro funzione, nelle
fabbriche, nei villaggi, nei quartieri delle città e dichiarare apertamente
che il partito li considerava come le nuove strutture su cui avrebbe
dovuto poggiare il nuovo Stato, la nuova Italia “democratica e
progressiva”, per urtare immediatamente contro la decisa resistenza degli
altri partiti della coalizione. Il partito della Democrazia cristiana rispose
alle lettere del Pda e del Pci soltanto il 12 gennaio e il Partito liberale
soltanto in febbraio. Il profondo sostanziale disaccordo di questi due
partiti rispetto alle proposte avanzate spiega la riluttanza ed il ritardo nel
rispondere. La Dc riconobbe la necessità dell’unità della Resistenza,
quale esigenza necessaria non solo e non tanto a causa della durezza
della lotta contro l’oppressore, ma anche per il comune scopo di
restaurazione della libertà. Ma subito dopo, lo stesso partito, contestò le
affermazioni del Partito d’azione e del Partito comunista relativamente al
fatto che questa esigenza di unione sarebbe continuata al di là della lotta
e della vittoria per la necessità di ricostruzione. La lettera della Dc
respingeva la proposta del Pda e del Pci di allargamento del Cln ad altre
organizzazioni non partitiche. Infatti, ricorda Höbel, il Pci era contrario a
un Cln come mera coalizione di partiti, e anzi, l’obiettivo che i comunisti
si posero era che comitati di lavoratori, “gruppi di difesa della donna” e i
Fronti della gioventù, avrebbero dovuto far parte dei Cln78. È una
posizione fortemente “ciellenista” che caratterizzò il gruppo dirigente
comunista del Nord che vedeva le potenzialità dei Cln a fini di quella
“democrazia popolare” che avrebbero voluto far emergere dalla lotta. Il
Partito liberale, invece, non soltanto assumeva posizioni analoghe a
78 Alexander Höbel, op. cit., p.3.
!46
quelle della Dc, ma fece addirittura l’apologia dello Stato liberale
prefascista. Ma oltre alla risposta della Dc e del Pli, un episodio
altrettanto importante fu l’atteggiamento del Partito socialista che non
comprese l’importanza delle proposte avanzate dal Pda e dal Pci e di
fatto assunse posizioni ad esse contrarie. La direzione del Psi si oppose
al tentativo di trasformare i Cln da organismi di coalizione di partiti in
organismi rappresentativi di larghe masse popolari, che avrebbero
dovuto costituire la base della nuova democrazia nella lotta per rinnovare
il Paese e le sue strutture79.
Già alla vigilia dell’insurrezione partigiana si inasprirono quei contrasti
che avrebbero portato rapidamente, dopo la liberazione, alla rottura
dell’unità delle forze antifasciste. Come abbiamo visto nel capitolo
precedente, le forze partigiane riuscirono a liberare il Paese prima
dell’arrivo degli Alleati e il Pci emanò la “direttiva n.16” per
l’insurrezione finale contro i tentativi delle forze conservatrici di
boicottare ogni azione popolare. Di seguito si riporta
il discorso di
Togliatti tenuto il 19 maggio 1945 nella riunione con la segreteria del
partito. All’ordine del giorno vi erano due punti: 1)informazioni sulla
situazione politica italiana; 2) problemi di organizzazione.
«Compagni, voi sapete che noi comunisti non siamo abituati a farci
dei complimenti. Il nostro stile di lavoro è abbastanza austero.[...] Voi
comprenderete però quanto grande sia la mia commozione nel
trovarmi tra voi, a presiedere questa riunione nella quale rivedo tanti
vecchi compagni venuti al partito e formatisi alla scuola del partito in
periodi diversi.[…] Dobbiamo informarvi sulla situazione politica
attuale, del nostro partito. Noi avevamo posto al popolo italiano un
compito, un obiettivo fondamentale: dare un contributo decisivo alla
liberazione del paese dai tedeschi e dai fascisti.[…] Io credo che oggi
possiamo affermare che questo obiettivo di liberazione nazionale
dall’invasore tedesco e dai traditori fascisti sia stato raggiunto.[…]
79 Pietro Secchia, op. cit., pp. 770-788.
!47
Questo vuol dire che si chiude una tappa della nostra vita nazionale:
ma si tratta ora di andare avanti. Quali altri obiettivi fissiamo oggi al
popolo, alla classe operaia, al nostro partito? Questo problema oggi è
aperto. Non credo che lo risolveremo oggi. Ritengo che una risposta
definitiva, circa i suoi obiettivi potremo darla solo al prossimo
Congresso del partito, congresso che dovrà riunirsi entro un periodo
di tempo non troppo lungo, perché appunto è necessario che
un’organizzazione che ha acquistato l’autorità del nostro partito in
questi ultimi anni e che gode del più grande prestigio nelle città e
nelle campagne, dica a questo proposito una parola decisiva»80
Palmiro Togliatti dopo aver affermato che il primo obiettivo era stato
raggiunto, un obiettivo in realtà comune a tutto il movimento
resistenziale, continuò il suo discorso esponendo il compito che
avrebbe dovuto assolvere il suo partito, l’obiettivo che rincorreva e,
come si delinea, le strategie per raggiungere tali scopi politici.
Emergono come priorità la convocazione di un Congresso nazionale e
dell’Assemblea Costituente.
«Noi continueremo ad essere, nella prossima fase della vita nazionale,
il partito che conduce la lotta per la difesa del paese. Naturalmente, a
questo problema, se ne aggiungono altri, come quello della
ricostruzione.[…] Non si può realizzare una seria ricostruzione
economica se non si trasforma la base della struttura politica.[…] Di
solito si dice: facciamo un’Assemblea costituente che deciderà.[…]
Quando si parla di Costituente vi sono due aspetti della questione: da
un lato vi è la campagna per la convocazione della Costituente, e
dall’altro la necessità di respingere tutte le volontà reazionarie,
italiane e non italiane, che interverranno certamente per impedire che
dalla Costituente si faccia un organismo che decide nuove leggi, ma
non prende nessuna misura che trasformi radicalmente la costituzione
stessa del nostro paese. Noi dobbiamo volere invece una simile
trasformazione radicale. In quale forma ed in quale misura, fino a
dove possiamo arrivare?
Democrazia progressiva significa per noi due cose: la democrazia
progressiva è una democrazia che distrugge completamente le tracce
di ogni regime reazionario fascista o di tipo fascista. Questo significa
cioè che non può essere un regime democratico indifferente alla mercé
80
Pietro Secchia, op. cit., pp.1059-1062.
!48
delle caste reazionarie. Per il contenuto, questa democrazia è,
secondo me, un regime democratico che realizza misure di carattere
sociale diverso da quello che esisteva prima del fascismo, diverso da
quello che esiste nei paesi democratici di capitalismo puro. Fino a che
punto dobbiamo andare e quali sono gli obiettivi che porremo oggi al
popolo? La riposta non la possiamo dare oggi. Perciò la campagna
per la Costituente sarà per il nostro partito cosa molto più seria che
non per tutti gli altri partiti. Noi non possiamo in nessun modo
accontentarci di ridurre la campagna per la Costituente ad una
campagna elettorale; se la campagna per la Costituente si riducesse a
questo, sarebbe un fallimento. La campagna per la Costituente deve
essere molto più profonda, per preparare una radicale trasformazione
della struttura economica e politica italiana attraverso l’intervento
alla vita politica in modo attivo delle masse lavoratrici. Quindi non si
tratta soltanto di avere alte adesioni, si tratta di svolgere una vasta
azione di carattere economico, politico e sociale che metta in
movimento anche gli strati più arretrati della popolazione, nelle città
e nelle campagne, che porti ad elaborare esse stesse proposte
concrete per la nostra organizzazione economica e politica.[…] Solo
in questo modo si darà una coscienza al popolo, perché non si tratta
di indire una riunione coi dirigenti degli altri partiti per arrivare ad
un accordo o ad un compromesso, ma dobbiamo far entrare sempre la
forza delle masse lavoratrici che devono salvare l’Italia. Lo stesso
quando si parla di Repubblica. Non basta dire che l’Italia sarà una
Repubblica. Ci sono state tante repubbliche come la Finlandia,
l’Ungheria, la Francia nel periodo precedente alla guerra, l’Italia
con la repubblica fascista, in cui gli operai venivano massacrati.
Vogliamo dunque una Repubblica che abbia un determinato contenuto
politico e sociale; vogliamo una Repubblica costituita in modo che il
fascismo non possa più darci noia, in modo che le caste reazionarie
non abbiamo più il sopravvento» 81 .
In questo discorso, il capo del Pci confermava sia la linea politica sia
la strategia del partito. Auspicava, inoltre, una ricostruzione
democratica dell’Italia con la partecipazione di tutte le forze
democratiche. Emergono anche, da parte di Togliatti, preoccupazioni
nei riguardi di tutte quelle forze interne ed esterne che avrebbero
ostacolo il nuovo cammino dell’Italia democratica e antifascista.
81Ibidem.
!49
Höbel riporta un pensiero dello storico Paolo Spriano, il quale a
giudizio di quest’ultimo, il concetto di “democrazia progressiva”
delineato da Togliatti è un “intreccio di democrazia popolare e di
democrazia rappresentativa”. Inoltre, le prospettive che il capo del
Pci indicava nel suo discorso erano da tutto il Pci accettate,
corrispondevano agli obiettivi che il partito si era imposto durante
l’arco resistenziale cercando un coinvolgimento delle altre forze
politiche. A giudizio di Paolo Ciofi, presidente dell’associazione
culturale «Futura Umanità», è difficile contestare in quella fase
storica la strategia togliattiana. Essa infatti conseguì importanti
risultati, come l’abbattimento della monarchia, risolvendo
democraticamente la questione istituzionale, e aprì, al tempo stesso,
la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si sarebbero
innalzati a “rango di classe dirigente”. Come disse a suo tempo il
segretario del Psiup Pietro Nenni: «Togliatti era il solo veggente tra
coloro che vanno alla cieca»82.
D’ora in poi esamineremo il difficile periodo della ricostruzione
economica e politica del Paese,
ma soprattutto il deterioramento
della formula tripartita. Di conseguenza il Pci, dopo numerosi
tentativi per il mantenimento del tripartito, fu costretto a cambiare la
propria strategia politica.
82
Paolo Ciofi, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e
socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità,
Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre, 2013
URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituente-santomassimo-ferrara-ciofi/
p.2.
!50
2.2.Gli Alleati in Italia:
dall’occupazione militare alla politica di“contenimento”
Come già accennato nel capitolo precedente, gli Alleati sbarcarono in
Sicilia nel luglio del 1943: da allora in poi, scrive Ellwood, sicuri di
avere la supremazia, gli anglo-americani cominciarono a riflettere in
modo concreto sui rapporti tra la condotta bellica e i loro interessi,
presenti e futuri in Europa meridionale e nel bacino del
Mediterraneo 83. Prima della guerra, sostiene Ellwood, i capi di Stato
maggiore inglesi fecero osservare ai loro superiori politici che una
potenza nemica nel Mediterraneo avrebbe potuto alterare in maniera
disastrosa il delicato equilibrio di difesa dell’impero tra l’Europa e
l’Estremo Oriente e sollecitarono ogni possibile accordo con
potenziali nemici84. Infatti, come afferma Aterrano, un’Italia ostile
nel Mediterraneo avrebbe impedito la libera circolazione delle navi
commerciali inglesi e ciò portò i britannici ad attuare una politica
preventiva, cercando più volte di accordarsi con il Duce. Il 29
gennaio 1940 da Londra giunse l’ennesima proposta di fornitura di
materie prime in cambio di munizioni e aeromobili, aggiungendo ora
venti milioni di sterline da mettere a disposizione degli italiani; ma
ancora una volta Mussolini rifiutò la proposta, ponendo bruscamente
fine alle trattative e anche alla politica preventiva degli inglesi nei
confronti dell’Italia 85. D’ora in avanti Churchill cambiò linea politica,
additando, come abbiamo già visto, nella persona di Mussolini le
83 David W. Ellwood, L’alleato nemioco: la politica dell’occupazione anglo-americana in Italia
1943-1946, Milano, 1977, pp.29-30.
84 Ibidem.
85 Marco Maria Aterrano, Mediterranean-First? La pianificazione strategica anglo-americana e le
origini dell’occupazione alleata in Italia (1939-1943), Napoli, 2017, pp.25-29.
!51
responsabilità dei disastri fascisti. La presenza americana nel
Mediterraneo invece, come documenta Ellwood, fu in gran parte una
conseguenza della guerra. Gli Usa avevano interessi commerciali
nell’area mediterranea e il commercio statunitense nel corso degli
anni ’30 era quasi triplicato in certi paesi86. Prima di arrivare all’8
settembre 1943, afferma Ellwood, le trattative finali per l’Italia
furono condotte da Roosevelt e Churchill il 15 agosto a Quebec, dove
furono approvate e ritrasmesse ad Eisenhower dodici richieste; lo
scopo immediato era di evitare il pericolo che i tedeschi potessero
instaurare un’amministrazione collaborazionista a Roma o che si
facesse un passo verso l’anarchia. Gli Alleati erano consapevoli del
fatto che i termini dell’armistizio erano duri e fecero il possibile per
evitare critiche in Italia e in patria: non furono pubblicate le direttive
per l’occupazione della Sicilia, poiché l’Ufficio di guerra riteneva
“che la loro pubblicazione avrebbe dato al nemico un’ottima
occasione per fare propaganda ed avrebbe fornito materiali a
giornalisti in mala fede sia in Gran Bretagna che in America”87.
I nuovi occupanti, scrive lo storico inglese, si resero ben presto conto
che tra i loro programmi politici per la penisola e la cruda realtà fisica
dell’Italia meridionale alla fine del 1943 c’era un abisso. Gli Alleati
erano entrati a Napoli il primo ottobre, accolti da “gente isterica,
urlante”. La fame dominava su tutto e da Washington provennero
segnali diffidenti. Roosevelt infatti, ritenne che sarebbe stato meglio
lasciare l’Italia nel più breve tempo possibile; ma poco più di un mese
dopo, questi manifestò a Churchill la sua ferma volontà di un
controllo comune della situazione. Nel frattempo nuove notizie dal
86 David W. Ellwood, op. cit., pp.31-33.
87Ivi, pp.56-59.
!52
Nord alimentarono la tensione. All’inizio di marzo 1944, tra tutte le
zone occupate dai tedeschi in Europa, a Milano e a Torino ebbe luogo
il primo sciopero generale: da tre a sei milioni di lavoratori
incrociarono le braccia. Il «New York Times» commentò:
«In tutta Europa occupata non si è verificata nessuna dimostrazione
di massa che possa essere paragonata alla rivolta dei lavoratori in
Italia. È il momento culminante di una campagna di sabotaggi, di
scioperi locali e di guerriglia che ha avuto meno pubblicità di tutti gli
altri movimenti di resistenza solo perché l’Italia settentrionale è
rimasta isolata dal mondo esterno. Ma è la prova decisiva che gli
italiani, disarmati come sono e in una duplice schiavitù, lotteranno
con coraggio indomito quando avranno causa per cui combattere. Lo
sciopero dei lavoratori nel Nord fa capire che gli italiani possono
avere qualcosa da dire sul loro governo e perfino sul loro destino al
momento della resa dei conti. È un altro segno che l’Europa che
nascerà dalla sconfitta della Germania avrà forse progetti per il
futuro che non sempre coincideranno con i piani delle grandi
potenze»88 .
In effetti la Resistenza incuteva timore agli Alleati, che guardavano
con diffidenza l’intero movimento; ma mentre gli inglesi attuavano
una politica repressiva nei confronti dell’Italia, gli americani
sembravano propensi a seguire una diversa linea politica, più
conforme ai principi della Carta Atlantica 89 e infatti Murphy e Kirk,
due responsabili dell’Oss, ai primi di maggio dichiararono che gli
Usa avrebbero dovuto assumersi l’iniziativa di discutere l’eventualità
della concessione di uno status di alleato per l’Italia. Gli inglesi, al
contrario, non erano d’accordo con una tale linea. Poco dopo, infatti,
quando alla liberazione di Roma vennero sostituiti al governo di
Badoglio i partiti del Cln, Churchill ebbe un terribile scoppio d’ira
88
Ivi, pp. 64-71.
89 Ivi, pp.75-77.
!53
contro “questa banda del tutto inattendibile di reduci politici non
eletti”90 e ordinò che fosse revocato il cambiamento di governo e che
Badoglio ritornasse alla sua carica mentre si consultavano l’Acc
(Allied Control Commission) e i vari governi. Ma a Washington il
Dipartimento di Stato si dissociò immediatamente dalla linea
britannica e sostenne che il veto espresso alla nomina del conte
Sforza come ministro degli Esteri – dovuta chiaramente ad
un’iniziativa personale del generale britannico MacFarlane – non
rappresentava la posizione del governo degli Usa. Come fece
osservare Roosevelt, si sentiva da tempo l’esigenza di allargare
politicamente il governo, mentre qualsiasi tentativo di imporre dei
veti avrebbe avuto solo l’aspetto di una interferenza91. Per spiegare
questo atteggiamento differente da parte degli Stati Uniti, bisogna
riportare una testimonianza di Ellwood in merito ad un rapporto
redatto da un conoscente di Tittman (responsabile del War Office
americano) e datato marzo 1944, in cui gli Usa venivano invitati ad
accettare “una magnifica base nel cuore dell’Europa e del
Mediterraneo per estendere la loro influenza civilizzatrice e per una
vantaggiosa penetrazione economica, basata su un investimento di
capitali americani da realizzarsi nel più breve tempo per trarre
vantaggio dalle favorevoli condizioni monetarie e psicologiche”92. Si
faceva il nome di De Gasperi come di un potenziale leader politico e
il relatore non mancava di menzionare l’abisso comunista che
attendeva l’Italia nel caso l’America non fosse intervenuta93. In una
90 Ivi, p.78.
91 Ivi, pp. 88-90.
92 Ivi, p.91.
93 Ivi, pp.94-96.
!54
riunione congiunta di Capi di Stato maggiore, il generale McNarney
suggerì che si stabilissero contatti con il Vaticano poiché, secondo il
generale, la Santa Sede avrebbe avuto tutte le potenzialità per
controllare un maggior numero di persone del governo stesso e che
quindi sarebbe stato un grosso vantaggio riuscire a stabilire rapporti
corretti con esso 94. Proprio dal Vaticano Papa Pio XII attirò
l’attenzione dell’emissario personale di Roosevelt, l’ex presidente
dell’U.S. Stell Co. Myron Taylor, esponendogli la propria
inquietudine sulla possibilità che si diffondesse il comunismo in
Europa e sul pericolo molto reale che si sviluppasse notevolmente in
Italia, soprattutto nel periodo della ricostruzione politica e sociale. In
diverse occasioni il pontefice espresse il desiderio a Taylor che gli
eserciti alleati non lasciassero l’Italia per un lungo periodo di
tempo95. Agli americani non restava altro che studiare un programma
per la ricostruzione del Paese, ma dal momento del loro arrivo
nell’Italia liberata la situazione non era cambiata, bisognava attuare
prontamente un programma di aiuti economici. Così, sottolinea
Ellwood, il 26 settembre 1944 con la “dichiarazione di Hyde Park” si
avviò un vasto programma di aiuti e di sussidi diviso in due parti, una
politica e l’altra economica. Nel primo caso erano comprese misure
intese a trasferire maggiore responsabilità dagli Alleati al governo
italiano e a dare al governo qualche segno tangibile della sua nuova
autorità. La seconda invece, serviva ad alleviare la fame, le malattie e
le paure: l’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation
Administration) avrebbe provveduto al soccorso medico. Tali
manovre furono effettuate anche con l’obiettivo che la sinistra non
94 Ibidem.
95 Ivi, pp.92-93.
!55
traesse vantaggio dalle difficili condizioni materiali 96. Sebbene il
1944 fu un anno denso di ipotesi, discussioni, conflitti e segni
premonitori per la condotta politica della guerra in Italia, l’anno
successivo, come vedremo, fu ancora più complesso e ricco di eventi.
Come afferma Ellwood, tra i responsabili inglesi della politica estera
che si erano ritenuti arbitri del futuro dell’Italia, cominciava a farsi
strada l’idea che, se non si faceva ricorso ad una notevole opera di
convincimento e di persuasione, l’isolazionismo avrebbe trionfato
negli Usa, lasciando l’impero britannico privo di una copertura
strategica ed economica. In altre parole, l’impero stava crollando
sotto il suo stesso peso e sotto il peso della guerra. Gli inglesi furono
dunque d’accordo sull’immediata necessità di “incastrare” gli
americani nei conflitti di potere creatisi in Europa e nel
Mediterraneo 97. Non appena incominciò a profilarsi la fine della
guerra, la situazione generale era di dimensioni drammatiche. A tal
proposito apparve sempre più chiara l’intenzione degli americani di
costruire un nuovo ordine mondiale integrato in funzione delle
esigenze del capitalismo americano. Il problema, nei giorni
dell’insurrezione partigiana, fu quello di fronteggiare la massiccia
organizzazione dei Cln di fabbrica; il 4 maggio l’Oss da Torino riferì:
«La situazione politica nelle fabbriche sta diventando grave» e
ancora il 5 maggio:
«A Torino la situazione si sta rapidamente deteriorando. Le industrie
non funzionano affatto per colpa dei comunisti, che hanno occupato le
fabbriche e stanno mettendo in atto un’epurazione a largo raggio e
indiscriminata. Le forze partigiane, in particolare quelle di sinistra,
96 Ivi, pp.98-106.
97 Ivi, pp. 125-128.
!56
nascondono armi nelle zone periferiche. Sono dotati di un armamento
pesante grazie al bottino preso ai nazi-fascisti»98 .
Si sollecitava dunque l’intervento urgente dell’Amg (Allied Military
Government). Furono settimane, afferma Ellwood, in cui coloro che
venivano riconosciuti come collaboratori ad alto livello del fascismo,
in particolare industriali e dirigenti, temevano per la propria vita e
guardavano ad un’unica opzione per la loro salvezza: il
prolungamento della permanenza delle truppe alleate sul territorio.
Anche da Milano arrivavano analoghe preoccupazioni, infatti
l’industriale Piero Pirelli disse al console generale americano
Maclean, che se non fosse giunto un immediato rifornimento di
materie prime, ci sarebbero state scarse possibilità di un ritorno a un
qualsiasi tipo di ordine politico o economico. Lo stesso dirigente
della Fiat, Vittorio Valletta, rischiò l’esecuzione sommaria in
fabbrica, essendo stato condannato all’unanimità dal Cln regionale
come collaborazionista, ma quando giunse il momento del suo arresto
si sarebbe mostrato ben preparato. Da una testimonianza di Giorgio
Amendola si ricorda che quando la sua formazione partigiana andò
per arrestare Valletta, trovò nella villa dove si era rifugiato, un
ufficiale inglese di collegamento, che presentò un salvacondotto per
Valletta, in cui stava scritto che egli aveva fatto il doppio gioco
collaborando non soltanto con i tedeschi ma anche con i servizi
segreti anglo-americani.
“L’Italia si trova a un bivio“ 99, scrisse l’ammiraglio Stone in un
ampio saggio apparso alla fine di giugno ’45 e che circolò in maniera
persuasiva nei vari livelli degli organi di controllo anglo-americani.
98
Ivi, p.130.
99 Ivi, p.147.
!57
L’ammiraglio esponeva i suoi timori di un trionfo comunista nel caso
in cui non ci fosse stato un intervento strutturale a lungo termine.
L’analisi di Stone rappresentò una importante contributo
nell’evoluzione della consapevolezza anglo-americana dei problemi
italiani: essa illustrò le premesse ideologiche profondamente
anticomuniste della linea politica della nuova fase, oltre che un
programma di mediazione efficace e coerente per il periodo della
ricostruzione. Da funzionario cosciente delle sue responsabilità
soprannazionali, Stone seguì una corretta linea bipartitica (i sovietici
erano ormai stati classificati come il nemico), ma per la maggior parte
di coloro che si interessavano all’Italia apparve subito chiaro che una
sola potenza aveva i mezzi per realizzare effettivamente un
programma del tipo di quello descritto dal capo dell’Ac (Allied
Commission); il solo problema ancora aperto era se l’opinione
pubblica e la macchina amministrativa americana erano disposte ad
assumersi responsabilità tanto gravi e precise100. Dall’ex presidente
Usa Herbert Hoover fino all’ultima persona interessata ai problemi
dell’Europa liberata a metà 1945, erano tutti concordi sull’obiettivo
immediato e prioritario: spedire subito dei viveri per fermare il
comunismo; ma non era semplice stabilire quale istituzione avrebbe
pagato, come e con quale motivazione. Come riporta Ellwood, diversi
enti erano interessati alla situazione: l’Amministrazione economica
all’estero, la Export-Import Bank, l’Unrra, ma l’esecutivo americano
sapeva che prima che una di queste fosse completamente mobilitata,
si sarebbero dovuti convincere il Congresso e l’opinione pubblica che
la considerevole spesa ormai inevitabile avrebbe probabilmente dato
buoni risultati. Poi tutto tacque. La suggestiva immagine delle navi
100 Ivi, pp.145-150.
!58
cariche di grano che arrivavano dall’America per salvare l’Italia dalle
“orde rosse” appartiene ad una fase successiva dell’anticomunismo.
L’elemento più significativo del panorama del 1945, spiega Ellwood,
era la relativa mancanza di abilità operativa, l’incapacità a
trasformare le parole in fatti 101. Nel frattempo in Italia la tensione
interna continuava a crescere. Il console americano a Genova riferì
che nel Nord “tutti coloro che avevano una proprietà o vasti interessi
finanziari avevano paura di un’azione violenta da parte di gruppi
comunisti e di un troppo rapido ritiro delle forze alleate”. Il parere
generale, continuava il console, era che
i comunisti avrebbero
cercato di instaurare uno Stato comunista se le truppe alleate si
sarebbero ritirare troppo presto, cioè prima che sarebbero trascorsi
due anni102.
In qualche caso i funzionari americani interrogarono addirittura i
leader comunisti sulle loro intenzioni. Come scriveva il console
americano a Milano, rispondendo alle sue domande, Longo dichiarò
che l’obiettivo finale era, naturalmente, la creazione di uno Stato
basato sui ben noti principi del marxismo, ma aggiunse anche che
l’Italia era una nazione sconfitta, appena uscita da una guerra
catastrofica e che i problemi di fronte ai quali si trovava erano così
urgenti e seri che richiedevano un’azione immediata e che quindi il
programma del Partito comunista doveva essere realisticamente
pratico piuttosto che ideologico. A Roma, invece, i principali
rappresentanti anglo-americani all’ambasciata e all’Ac concordavano
con De Gasperi nel ritenere che elezioni immediate avrebbero
favorito i comunisti e i socialisti. Inoltre, un altro grave problema da
101 Ivi, pp.163-164.
102 Ivi, p.170.
!59
affrontare sarebbe stata la questione istituzionale, che, sempre in
accordo con De Gasperi, sarebbe dovuta esser risolta per mezzo di un
referendum piuttosto che da una Assemblea Costituente, considerata
molto più manovrabile dagli elementi estremisti. La situazione
appariva quindi critica per gli Alleati.
Sempre a Roma, scrive Ellwood, un’altra visione allarmante
proveniva dal Vaticano e principalmente Papa Pio XII sosteneva che
se i partiti della sinistra fossero rimasti uniti il risultato sarebbe stato
una dittatura di sinistra in Italia103.
Il 1945 stava terminando con la dichiarazione delle quattro libertà
ribadite da Roosevelt; analogamente alla Carta Atlantica, la
dichiarazione era impregnata del classico spirito
dell’autodeterminazione: Roosevelt ricordò a Churchill, che quali
fossero le difficoltà relative ai tempi di realizzazione e alle
concessioni, non vi era alcun dubbio circa i grandi obiettivi come
l’autodeterminazione. Come affermò il presidente americano:
«Seguire altre vie significherebbe negare l’essenziale democrazia che
c’è in noi»104. Lungo la via della realizzazione di questo rinnovato
modello wilsoniano, afferma Ellwood, si incontravano però serie
difficoltà nel tenere insieme teoria e prassi intorno ai temi
dell’autodeterminazione e dell’indipendenza nazionale. Critici di
questi principi erano E. H. Carr e Walter Lippmann. Proprio
quest’ultimo definì il vecchio concetto dell’autodeterminazione
“barbaro e reazionario” e assolutamente estraneo allo “spirito
americano e contrario alla civiltà”. La sua ostilità derivava dal fatto
che quel concetto respingeva l’ideale di uno Stato in cui gente diversa
103 Ivi, pp.171-189.
104 Ibidem.
!60
trovava giustizia e libertà sotto leggi uguali per tutti e diventava una
patria sola. Lippman sosteneva che le piccole nazioni non avevano
nessuna possibilità di avere una politica estera indipendente. Esisteva
invece un nuovo tipo di interdipendenza tra coloro che risiedevano in
determinate zone di sicurezza strategica e lo espose così:
«Lo Stato più grande provvede alla protezione che – essendo la
tecnica della guerra moderna quella che è – nessun piccolo Stato è in
grado di procurarsi. Gli Stati più piccoli provvedono in cambio alle
facilitazioni strategiche necessarie per la comune difesa che essi sono
in grado di fornire e fanno uso dei loro poteri sovrani per proteggere
il loro grande vicino dalle infiltrazioni, dagli intrighi e dallo
spionaggio. L’indipendenza dei piccoli Stati è di vitale interesse per il
loro grande vicino, appunto perché essi contribuiscono in maniera
così rilevante alla sicurezza dei vicini»105.
Il trattamento che gli Stati Uniti programmava di riservare all’Italia,
scrive Ellwood, rifletteva il pensiero che Lippmann e altri ideologi
del suo stampo avevano auspicato. Tuttavia questo modello non
sarebbe mai potuto essere applicato integralmente, poiché esisteva
ancora in America un’opinione pubblica isolazionista poco propensa
ad affrontare altri sacrifici per portare la “libertà” ai popoli
dell’Europa. Affinché si potesse applicare un simile modello
economico, gli uomini dell’Oss riportarono a Washington le
numerose testimonianze provenienti dall’Italia, basate su alcuni fatti
ed eventi reali, ma con molta manipolazione della situazione,
sfruttando a loro vantaggio il pericolo comunista in Italia.
Di fronte alla svolta a sinistra dell’opinione pubblica europea, di
fronte alla conquista di un certo tipo di potere da parte delle classi
105
Ivi,p.192
!61
lavoratrici come conseguenza della Resistenza, di fronte all’esigenza
di un salto in avanti qualitativo nello sviluppo sociale, politico ed
economico in nazioni arretrate a causa del conservatorismo
autoritario, di fronte a pressioni di questo genere, il sistema di “buon
vicinato” appariva astratto ed utopistico: un ordine internazionale
ideale da realizzare in momenti di maggiore serenità.
L’ideologia destinata a prevalere era invece, come sostiene Raymond
Aron, quella del “contenimento”, concetto che riuniva alcuni elementi
essenziali della tradizione dell’autodeterminazione all’obbligo di
mantenere governi favorevoli alle istituzioni ed alle ideologie degli
Stati Uniti. In Italia la dinamica di questo processo si può tracciare
chiaramente dal 1944 in avanti106. Conclude Ellwood che accogliere
una simile sfida andava molto oltre la capacità delle classi dominanti
europee, disorientate ed indebolite, ma rappresentava un campo
d’azione nel quale gli americani erano impazienti di investire le loro
energie, non appena furono stati messi da parte i vincoli del neoisolazionismo.
Come la minaccia sovietica però non basta a spiegare a fondo
l’intervento politico americano in Europa dopo il 1944, così gli
obiettivi economici espansionistici degli Stati Uniti non possono
essere considerati esclusivamente come il prodotto delle esigenze del
commercio e degli investimenti. Si stava delineando un nuovo
contesto politico ed economico che di fatto stava già dividendo, e
divise successivamente, l’Europa in due parti. Per quanto impossibile
scegliere a quale sfera d’influenza appartenere, i due ordini
contrapposti avrebbero dovuto avviare un programma politico ed
economico di tipo progressivo che avrebbe dovuto rispecchiare le
106 Ivi, pp.194-201.
!62
nuove aspirazioni dei popoli d’Europa, desiderosi di una politica
nuova e largamente democratica. Sarebbe stata questa una
competizione sotto tutti i punti di vista tra il modello statunitense e
quello sovietico. Prima del famoso discorso di Winston Churchill nel
marzo 1946, riguardo la “cortina di ferro” che stava dividendo
l’Europa, fu Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo
Reich,
nel febbraio 1945, ad accorgersi, già prima della fine del
conflitto bellico mondiale, della “cortina di ferro” che stava
scendendo sull’Europa.
Il concetto di prosperità, la costante preoccupazione per i livelli di
vita e per i mezzi idonei a elevarli nelle zone sconvolte dal vecchio
mondo, il significato politico di una economia in espansione, tutti
questi elementi riflettono il cristallizzarsi di una visione dell’ordine
internazionale che gli Usa potevano sfruttare in modo diretto. I
programmi di riforma portati in Italia dimostrarono che il modello
aveva un complemento politico che mirava ad adattare lo Stato e la
stessa classe dominante alle nuove richieste proveniente dal basso,
per arrivare quindi ad un accordo tra le classi a favore del buon
governo107. Per effettuare questo ambizioso programma economico,
però, gli Stati Uniti necessitavano di una situazione politica sicura,
avevano bisogno di un partito politico che avrebbe potuto garantire
loro l’avvio di tale programma economico.
A tal proposito lasciamo l’ultima parola di questo paragrafo ad un
corrispondente del «Times» di Londra, che iniziò un resoconto
sull’atmosfera prevalente a Roma nel luglio 1945 con una citazione
da Proudhon:
107 Ivi, pp.422-425.
!63
«Fintanto che gli italiani non avranno fatto la loro rivoluzione,
saranno alla mercé dello straniero, del prete e del pretoriano. La
guerra era finita, ma quelle figure ben note continuavano ad agitarsi.
Per il momento ci si è liberati dei pretoriani, ma possono risorgere.
L’influenza del prete in campo politico è più estesa che in qualsiasi
altro paese. Lo straniero è ben presente»108.
2.3.La precarietà del tripartito:
partiti politici in direzione ostinata e contraria
Alla liberazione, scrive Lepre, Psiup (Partito Socialista Italiano di
Unità Proletaria), Pci e Pda chiedevano un governo che rifletteva la
nuova situazione. L’insurrezione armata del 25 aprile fece passare,
come abbiamo visto, l’iniziativa politica nelle mani delle sinistre. La
presenza degli eserciti alleati e le posizioni che conservatori e
moderati presero anche nella nuova situazione posero, invece, a tale
iniziativa limiti ben precisi109. La maggior parte delle autorità alleate
che arrivarono nelle città industriali del settentrione, mostrarono
ammirazione e diffidenza per l’organizzazione messa in atto dai Cln.
Ma soprattutto diffidenza dal momento in cui a fine maggio, i
rappresentanti della sezione lavoro dell’Ac chiesero con urgenza la
sospensione immediata dei Consigli di gestione, la sostituzione da
parte dell’Amg o del governo italiano delle commissioni di fabbrica
nominate dal Cln. Il Partito comunista ipotizzò già ad aprile che la
situazione poteva mutare, infatti alla vigilia dell’insurrezione, il II
Consiglio nazionale del partito chiese di convocare quanto prima un
108
Ibidem.
109 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p.159.
!64
Congresso nazionale dei Cln e, in vista delle prime elezioni
amministrative nell’Italia libera, propose la “municipalizzazione di
tutti i servizi indispensabili alla collettività”, proprio come “base di
uno Stato democratico e progressivo”110.
La presenza delle forze alleate salvò quei dirigenti di primo piano che
non erano fuggiti, come nel caso di Valletta del quale abbiamo già
parlato. Era inevitabile che la situazione producesse dei risentimenti,
soprattutto per chi aveva progettato una seria resa dei conti a
liberazione avvenuta. Nella seduta del Clnai del 27 giugno 1945 si
affermò che:
«Dove poi le autorità alleate frappongono i maggiori ostacoli è nel
campo dell’epurazione. Qui il CLN piemontese è gravemente
ostacolato nel suo compito di giustizia dalle autorità alleate stesse, le
quali si trovano a contatto con i vari “magnati” del Piemonte,
partecipando a festini e pranzi che fortemente offendono la sensibilità
popolare. E la malefica influenza di tali contatti non si verifica
soltanto nel campo epurativo ma in tutte le attività nelle quali i
signori di Torino, più o meno implicati nel passato regime, hanno
interessi rilevanti e ciò con grave pregiudizio per gli interessi del
popolo»111.
La richiesta di un governo che fosse
espressione delle forze di
liberazione, afferma Lepre, fu fatta propria a Milano da tutti i partiti
del Cln112 e gli americani, che seguivano un programma di
stabilizzazione da attuare nella prima fase dopo la fine delle ostilità,
scrive Elwood, concordarono con i rappresentanti del Cln di
instaurare un governo, seppure temporaneo, che avrebbe dovuto
110 Alexander Höbel, op. cit., p.4.
111
David W. Ellwood, op. cit., pp.397-399.
112 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p.160.
!65
essere in possesso di notevole qualità e capace di assolvere
determinate funzioni: doveva rappresentare tutti i settori della
popolazione, garantire libertà civili e promuovere riforme113.
Il
Psiup, afferma Lepre, propose la candidatura di Nenni alla testa del
nuovo ministero, ma l’ipotesi di un primo ministro socialista incontrò
la più decisa opposizione della Dc. Così in accordo con gli americani
e per conservare ancora l’accordo tra i partiti del Cln si scelse
Ferruccio Parri, che in giugno formò il primo governo della
liberazione. A Nenni andò la vicepresidenza, ma essa fu
controbilanciata con la concessione di un’altra vicepresidenza,
liberale, presieduta da Manlio Brosio 114. I partiti politici
cominciarono in questa nuova fase a prendere posizioni diverse che
minacciavano di fatto l’unità politica perseguita sino a quel momento.
Queste scelte erano dettate necessariamente anche dalla situazione
internazionale che vedeva ormai non più funzionale l’alleanza tra i
Tre Grandi: l’Europa cominciava a dividersi in due blocchi. Ma
parlare di un preludio di guerra fredda era ancora prematuro per
compiere scelte azzardate, ma di fatto i rapporti politici erano
fortemente condizionati dal nuovo contesto internazionale. Lo aveva
compreso già De Gasperi, come scrive Severino Galante, che divenne
l’interlocutore privilegiato dei già citati Kirk e Charles, ma i tempi
erano ancora troppo precoci per una rottura politica che sarebbe stata
inopportuna115. In questa prospettiva, afferma Lepre, si decise per la
formazione di un unico partito dei lavoratori, la cosiddetta “fusione”
113 David W. Ellwood, op. cit. , p.155.
114 Aurelio Lepre, op. cit., pp.161-163.
115 Severino Galante, La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947, Milano, 1979,
pp.18-19.
!66
tra Psiup e Pci. La lotta per il raggiungimento di questo obiettivo si
svolse essenzialmente nel Psiup, che in quel momento pose l’accento
essenzialmente sulla conquista di potere politico, rispetto alla quale la
fusione poteva essere uno strumento importante 116. Il 17 novembre
1945 Leone Cattani, per il partito liberale, inviò agli altri partiti del
Cln una lettera in cui attaccò l’azione del governo, accusandolo di
inefficienza, di mancanza di unità e di incertezza sui problemi
economici e monetari. L’attacco, essenzialmente, si fondava su
pretesti tecnici ma fu politico e tese, oltre che ad arrivare alle elezioni
per la Costituente su posizioni il più possibile sfavorevoli per le
sinistre, ad evitare il cambio della moneta ed una epurazione che
colpisse ai vertici dello Stato. Il 22 novembre i ministri liberali si
dimisero aprendo di fatto un periodo indubbiamente assai denso di
pericoli per le forze della sinistra perché le destre tentarono di
escluderle dal governo con l’obiettivo massimo di sostituire le
elezioni per la Costituente con un plebiscito. Il tentativo fallì, ma il
nuovo governo che venne formato nel dicembre da Alcide De Gasperi
non costituì una soluzione avanzata rispetto a quello di Parri.
L’attacco delle destre fu bloccato, ma a prezzo di qualche
compromesso: la Consulta venne limitata ancor più rigidamente nei
suoi compiti, consultivi e non legislativi; si decise infine, che insieme
alle elezioni per la Costituente, si sarebbe svolto anche un referendum
istituzionale: in tal modo l’elettorato democristiano, che a differenza
dei membri del partito, era in netta maggioranza monarchico, avrebbe
potuto pesare in modo più determinante sulla scelta tra monarchia e
repubblica117.
116 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.165-168.
117 Ibidem.
!67
Dal 29 dicembre ’45 al 6 gennaio ‘46 si tenne a Roma il V congresso
del Pci: questo era diventato un partito di massa con 1.700.000
iscritti. Il primo obiettivo era stato raggiunto, ora si affermava la
necessità di fronteggiare le forze conservatrici, di utilizzare nel modo
più razionale possibile le scarse risorse del Paese per una sua
ricostruzione. Si affermava, scrive Renzo Martinelli, l’esigenza
primaria di giungere alle elezioni per la Costituente, per gettare “le
basi di una più audace e più concorde opera di rinnovamento”. Il
leader del Pci tracciò con chiarezza i tratti fondamentali della nuova
Costituzione, che avrebbe dovuto avere il carattere di “un programma
per il futuro”, nel quale era previsto un rinnovamento non solo
politico, ma anche economico e sociale118.
Togliatti, scrive Galante, sembrava negare non tanto l’esistenza delle
sfere d’influenza, bensì il fatto che tra esse si ergesse o potesse
ergersi una barriera. In effetti nel dopoguerra i dirigenti comunisti
italiani non ebbero dubbi sull’esistenza delle sfere d’influenza angloamericana e sovietica dato che ebbero sempre ben presente la
necessità vitale di tenere conto del fatto che l’Italia aveva una sua
precisa collocazione nella sfera di influenza delle potenze occidentali.
La divisione in due dell’Europa non era infatti semplicemente il
risultato accidentale delle vicende belliche: essa era stata il frutto
consapevolmente perseguito dai governi della grande e strana
alleanza, che però seppero ben mascherare con la proclamazione di
elevati e sublimi valori che avevano lentamente messo in evidenza
durante la loro marcia attraverso l’Europa. Per il Partito comunista
italiano, che si trovava ad operare in un paese vinto e occupato dagli
118 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista. Il “Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile,
Torino, 1995, pp.44-45.
!68
eserciti dell’ala capitalistica della Grande Alleanza, si aveva la
consapevolezza delle enormi difficoltà che avrebbe incontrato nel
realizzare il suo programma politico. Dal momento in cui il Pci era
impossibilitato a scegliere a quale sfera appartenere, poiché essa non
poteva essere oggetto di scelta, la sua decisione avrebbe riguardato la
qualità della collocazione: contenuti, modi e tempi dei rapporti
economici, politici, diplomatici e militari dell’Italia con le altre
potenze dell’area e in primo luogo con la potenza egemone. Fu questo
l’oggetto della contesa sui temi internazionali fra le forze politiche
italiane e in particolare dello scontro tra Democrazia cristiana e
Partito comunista119. Il tripartito era seriamente compromesso ma
comprendere che la politica di unità nazionale sarebbe stata efficiente
solo nella guerra di liberazione non era così complicato. Infatti già dal
delinearsi dei primi programmi politici dei partiti aderenti al patto di
unità nazionale emergevano sostanziali differenze, come si può notare
da “Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana” nel 1943.
Come ha osservato Elena Aga Rossi, in campo economico e sociale le
proposte contenute nelle “Idee Ricostruttive”, pur essendo sulla linea
del programma popolare (soprattutto per quanto concerneva la
riforma agraria), si ponevano su un piano di maggiori rivendicazioni
sociali, riflettendo l’estrema mobilità e il dinamismo della situazione
interna ed internazionale del momento. Esse però non si inserivano in
un programma di radicale rinnovamento delle strutture della società
italiana, bensì in un quadro di politica economica ispirata al
liberalismo – anche questa un’eredità del partito popolare – anche se
leggermente corretta da alcune indicazioni di interventismo statale e
119 Severino Galante, op. cit., pp.34-38.
!69
di misure antimonopolistiche120. Anche nello scambio di lettere
avvenuto alla fine della fase resistenziale, ovvero tra la fine del ’44 e
l’inizio del ’45, cominciarono a profilarsi direzioni politiche “ostinate
e contrarie”.
I primi mesi del 1946, afferma Martinelli, furono caratterizzati dal
dibattito che si svolse, in un acceso clima politico, nella compagine
governativa intorno al problema della data della Costituente. La
soluzione del referendum, che i comunisti osteggiarono apertamente,
finì per imporsi sulla base di un compromesso politico. La scelta,
infine, fu accettata perché i partiti di sinistra si convinsero che la
monarchia sarebbe stata destinata alla sconfitta121. Ma prima ancora
di giungere al 2 giugno, tra marzo ed aprile si tenne un altro evento
che riveste un’importanza non trascurabile: le elezioni
amministrative. È questa la prima occasione in cui le donne italiane
ebbero il diritto di votare; a tal proposito Togliatti pronunciò: «queste
elezioni sono le prime nella nostra storia che si svolgono in un clima
che offra alcune garanzie fondamentali di democrazia e di
libertà» 122. Ma a parte le considerazioni di Togliatti, si ha
l’impressione che il corpo del partito abbia trascurato questa
occasione, investendo invece un notevole potenziale di energia e di
passione nella scadenza relativa alla Costituente.
Il 2 giugno 1946 è una data che segna un’altra svolta nella vita
politica italiana: i risultati del referendum istituzionale diedero la
vittoria alla Repubblica che ottenne 12.717.923 voti contro
10.719.284 della Monarchia.
120 Elena Aga Rossi, Dal partito popolare alla Democrazia Cristiana, Bologna, 1969, pp.82-83.
121 Renzo Martinelli, op. cit., p.63.
122 Ivi, p.64.
!70
D’ora in avanti la vita politica italiana entrerà in una nuova fase
influenzata soprattutto dal nuovo contesto internazionale: la Dc
seguirà la strada di partito moderato facendosi garante delle necessità
provenienti d’oltreoceano, mentre il Pci, fortemente ancorato al
proseguimento della formula tripartita, non vorrà rinunciare al posto
che aveva ottenuto al Governo, non perdendo mai di vista quelli che
erano i suoi obiettivi nella ricostruzione politica ed economica del
Paese.
Ma con il tripartito ormai al collasso e le future manovre
anticomuniste sarebbe stato ancora in grado il Pci di seguire la stessa
strategia politica? O avrebbe dovuto studiarne un’altra?
!71
CAPITOLO TERZO
Il fallimento del tripartito: la fine di un
compromesso
storico
“Questa guerra non è stata come quelle
del passato. Chiunque occupa un
territorio impone anche il proprio
sistema sociale. Ognuno impone il
proprio sistema nei limiti in cui il suo
esercito ha il potere di farlo. Non può
essere diversamente”.
Joseph Stalin
3.1.La ricerca di una stabilità politica:
la Dc e gli Stati Uniti
Il primo governo della Repubblica italiana nasce nel luglio 1946: il
secondo presieduto da De Gasperi. Esso fu, a giudizio di Martinelli, un
governo intimamente fragile e diviso e che ebbe, di conseguenza, una
vita incerta e assai breve 123. Il Pci, coerentemente alle conclusioni tratte
dal V Congresso, dimostrò un’acuta consapevolezza, dopo che il
compromesso tra le forze conservatrici e quelle più avanzate ottenne un
risultato importante come la conquista della Repubblica, sui temi più
scottanti della politica economica124. Già il 26 giugno il Partito
123 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista. “Il Partito nuovo” dalla liberazione al 18 aprile,
Torino, 1995, p.118.
124 Ibidem.
!72
comunista elaborò un documento sui problemi economici, quale
Proposte del Partito comunista per un programma immediato di
Governo che «l’Unità» pubblicò prontamente. Il documento presentava
un insieme di provvedimenti di emergenza, tra i quali l’adeguamento di
salari, stipendi e pensioni e la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria.
Per la realizzazione di questo programma il Pci propose misure tributarie
e di confisca dei profitti di regime e di guerra, ma la Democrazia
cristiana contrappose a tali rivendicazioni delle misure piuttosto
generiche per evitare la crescita dei prezzi. Quando il clima si inasprì,
allora la Dc propose un compromesso, ovvero l’adeguamento delle
pensioni e la revisione dei salari per le categorie particolarmente
disagiate. Lo sforzo del “Partito nuovo”, come lo definisce Martinelli,
era rivolto a ottenere dal governo De Gasperi determinate misure di
politica economica. Già nella riunione della direzione del 27 luglio
Togliatti avanzò, in questo senso, la proposta di un “nuovo corso”
nell’economia italiana: un nuovo corso che sarebbe sfociato a creare né
un’economia comunista né un’economia socialista, ma che avrebbe
introdotto nella struttura del Paese, nella direzione dell’attività
economica di tutta l’Italia, determinati elementi di direzione che
avrebbero permesso l’acceleramento dell’opera di ricostruzione
nell’interesse della collettività125. Erano gli stessi concetti che il leader
del Pci espose chiaramente nella seduta del 24 luglio in Assemblea
Costituente affermando che:
«Il pericolo della rinascita fascista sta nel fatto che vediamo
organizzarsi e muoversi, con lo stesso metodo di allora, le stesse forze
di allora, gli uomini che hanno nelle mani la Confederazione degli
industriali e la Confederazione degli agricoltori; […] Ecco dove sta il
125 Ivi, pp. 124-126.
!73
pericolo. In questi gruppi sociali, in questi uomini e nei loro
portavoce, che noi vediamo spuntare di nuovo da tutte le parti, che si
stanno insediando di nuovo alla testa delle società anonime, delle
grandi associazioni industriali […]. Stiamo attenti a questo pericolo,
cerchiamo di comprendere come a questo pericolo si deve far fronte
tutti insieme e sin dall’inizio»126 .
In questa seduta, Togliatti oltre che esporre proposte di politica
economica, denunciò anche il pericolo crescente delle forze
“monopoliste”. Le stesse, a suo giudizio, che appoggiarono il fascismo e
che dunque portarono alla rovina il Paese. Un potere economico che
bisognava, per i comunisti, limitarne l’azione; solo in questo modo i
nuovo diritti democratici dei lavoratori avrebbero trovato una reale
constatazione nella pratica.
Ma il Partito comunista, come osservò lo stesso Togliatti, avrebbe
necessitato di una buona preparazione per assolvere il ruolo di “partito
nuovo”. Vi erano ancora diverse contraddizioni causate dal
conservatorismo degli anziani leader.
Infatti come sostiene Galante, nel corso degli ultimi anni il Pci aveva
sempre individuato nelle iniziative della Gran Bretagna l’origine delle
maggiori minacce politiche all’indipendenza italiana. I dirigenti
comunisti temevano che l’economia italiana sarebbe stata soggetta a
quella britannica, essendo quest’ultima una potenza economica. Per
spiegare tale linea di pensiero si deve tener conto della cultura politica
dei vecchi e nuovi dirigenti comunisti, dell’ambiente e dell’epoca in cui
essi si erano formati; infatti i più anziani leader erano cresciuti in un
clima internazionale nel quale la Gran Bretagna coniugò al plurisecolare
interesse del controllo dei mari, in particolare del Mediterraneo, un’acuta
rinnovata attenzione per i problemi dell’equilibrio europeo che la
126
Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, Roma, 1974, pp.121-122.
!74
indusse a porre gradualmente fine a una lunga fase di “splendido
isolamento” e a impegnarsi sempre più attivamente nelle vicende
continentali dominate dalla minaccia dell’egemonia tedesca127. Negli
anni delle due guerre queste linee d’intervento della politica estera
inglese si erano consolidate ed anzi, anche a seguito delle crescenti
difficoltà dell’impero coloniale in Medio Oriente, era ulteriormente
aumentato l’interesse per il controllo del Mediterraneo. Con
interpretazioni diverse, dati i tempi, i luoghi e i climi politici
profondamente differenti in cui erano stati recepiti, questi elementi di
una lunga tradizione storica costituirono le premesse culturali dei giudizi
di politica estera formulati dai dirigenti comunisti nell’immediato
dopoguerra. Dopo la prima guerra mondiale tra gli americani era
prevalso l’isolazionismo e gli Stati Uniti per lunghi anni si erano
disinteressati politicamente e diplomaticamente (non certo
economicamente) dell’Europa e non era da scartare la possibilità che
avrebbero ripetuto quella scelta anche nel secondo dopoguerra. Le
vicende dell’occupazione alleata dell’Italia sembravano d’altronde
confermare il disinteresse statunitense: segnali come quelli del doppio
caso Sforza, a cui si è già accennato, potevano essere letti in questa
chiave 128. Per tutto il 1946 il Pci continuò ancora ad attribuire alla Gran
Bretagna, come sottolinea Galante, il ruolo di “punta di diamante”129
dell’imperialismo internazionale. Ancora alla fine di ottobre ‘46,
riferendosi a recenti discorsi dei maggiori uomini di Stato statunitensi e
inglesi, «l’Unità» definiva quello di Truman: «il più equilibrato ed il più
127 Severino Galante, La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947, Milano, 1979,
pp.29-31.
128 Ibidem.
129 Ivi, p.32.
!75
cauto, quello di Bevin il più inquietante, quello di Churchill il più
scopertamente aggressivo, per non parlare di Attlee»130. Ma il giudizio si
rovesciava quando si passava dal piano politico-militare a quello
economico: qui il peso degli Stati Uniti appariva incontestabilmente
maggiore di quello della Gran Bretagna e si avvertiva che la maggiore
minaccia all’indipendenza economica nazionale proveniva da oltre
Atlantico131.
Questa convinzione aumentò dopo il 3 gennaio 1947, ovvero quando il
leader democristiano, Alcide De Gasperi, si recò negli Stati Uniti. Il 20
gennaio, afferma Galante, a conclusione della conferenza-stampa
organizzata per illustrare i risultati del suo viaggio negli Stati Uniti,
Alcide De Gasperi dichiarò:
«La divisione del gruppo socialista, le dichiarazioni del congresso
repubblicano, ci confermano nell’opinione che il chiarimento è più
che mai indispensabile per il bene del Paese e che è opportuno fare
appello alla saggezza del Presidente della Repubblica e ricorrere a
una consultazione generale onde gettare le basi di un Governo
fondato sulla fiducia nei rappresentanti del popolo e capace di
affrontare vigorosamente i problemi di politica interna e di quella
internazionale»132.
Con queste parole, sostiene lo storico comunista, il leader democristiano
apriva la crisi del secondo governo da lui stesso presieduto,
dando
l’avvio alla fase conclusiva di un processo iniziato da tempo e che nel
giro di soli cinque mesi avrebbe condotto, con l’estromissione delle
sinistre dalla direzione del Paese, a una svolta nella vita politica italiana
e di conseguenza a un mutamento radicale della strategia comunista.
130 Ivi, p.33.
131 Ivi, p.34.
132
Ivi, p.11.
!76
Come afferma Lepre, le argomentazioni usate dal presidente del
Consiglio per motivare il suo non inatteso gesto prendevano spunto dalla
crisi del Psiup, spezzatosi al Congresso di Roma a Palazzo Barberini
(9-13 gennaio 1947) per la scissione dell’ala socialdemocratica che
aveva dato vita al Psli e dalle dichiarazioni del XIX Congresso del
Partito repubblicano italiano (Bologna,17-20 gennaio) fortemente
critiche nei riguardi della politica governativa133. Era però evidente,
sostiene Galante, che dietro tali motivazioni vi era dell’altro, come De
Gasperi stesso lasciava intendere, e che la decisione non nasceva
improvvisa, ma si radicava nel passato ed era frutto di un disegno
politico da tempo progettato e che soltanto ora il capo democristiano
poteva proporsi di tradurre in realtà. La linea politica di De Gasperi era
completamente inscritta in una prospettiva che escludeva la possibilità di
una collaborazione di lunga durata coi comunisti; se la collaborazione al
governo vi era stata ed era durata tre anni, ciò non era dipeso
sicuramente dalla volontà di De Gasperi ma era stata imposta ai dirigenti
democristiani dallo stato di necessità determinato dall’esistenza della
Grande Alleanza internazionale, dalle vicende della guerra e della
Resistenza, oltre che dalla scelta togliattiana di Salerno. Tatticamente e
nel breve periodo la collaborazione presentava vantaggi che non
andavano sottovalutati. Strategicamente e nel lungo periodo costituiva
una parentesi che andava chiusa quanto prima per realizzare, senza
condizionamenti sostanziali di altre forze politiche, il progetto politico
della Dc134. In questa situazione, De Gasperi dovette temporeggiare
ancora, ma le difficoltà crescevano. All’acuirsi della tensione sociale,
133 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.326-332.
134 Severino Galante, op. cit., pp.15-23.
!77
che caratterizzò l’estate del’46, si accompagnò l’intensificazione delle
spinte interne alla Dc volte ad accelerare la fine del tripartito.
Il primo a muoversi fu l’oppositore funzionale di De Gasperi, Giovanni
Gronchi, il quale, intervenendo nel dibattito parlamentare di luglio come
presidente del gruppo democristiano alla Costituente, accusò
esplicitamente il Pci di fare il doppio gioco usando argomenti che nei
mesi successivi sarebbero diventati patrimonio comune della
maggioranza dei dirigenti democristiani. Le accuse rivolte al Partito
comunista erano che questo avrebbe voluto instaurare un regime
dittatoriale come quello sovietico, spacciandolo sotto il falso nome di
democrazia progressiva, o ancora, che il partito ricevesse grossi
finanziamenti dall’Urss per attuare un colpo di stato in Italia. Tuttavia De
Gasperi riuscì a far prevalere ancora la tesi dello stato di necessità per
ragioni di “aritmetica parlamentare”. Per evitare che la situazione gli
sfuggisse di mano, De Gasperi avrebbe dovuto bruciare le tappe
adeguando il proprio ritmo a quello degli alleati, concorrenti e avversari:
il viaggio negli Stati Uniti del gennaio 1947 va collocato in questa
prospettiva. In effetti, la Santa Sede non perse occasione per ribadire la
propria linea a De Gasperi. Il 12 novembre ’46 monsignor Montini si
incontrò con il capo della Dc, il quale gli riferì, facendogli capire che
non parlava a titolo personale, che qualunque collaborazione coi “partiti
anticlericali” non era più ammessa. Se la Dc avesse continuato tale
collaborazione, continuò Montini, sarebbe stata definita un partito “filonemico”. De Gasperi replicò che una rottura immediata con le sinistre
avrebbe significato per la Chiesa un prezzo altissimo: la rottura del
delicato equilibrio capace di assicurare la riconferma dei Patti lateranensi
nella Costituente135. Nonostante le pressioni della Santa Sede, prevalse
135 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943–1978, Roma, 1979, pp.81-82.
!78
ancora una volta la linea degasperiana volta ad attendere il momenti
giusto. A giudizio di Magister, De Gasperi si mostrò ancora una volta
abile a dettare una linea per il suo partito frutto di una sua scelta
personale e mai imposta dall’alto. La scelta americana era stata, fin da
settembre 1942, con il “memorandum” Dalla Torre, l’asse della politica
internazionale degasperiana. Essa cominciò a dare i primi frutti nel
dicembre 1944, quando De Gasperi, come già accennato, ottenne la
carica di ministro degli Esteri nel secondo gabinetto Bonomi. Da quel
momento in poi egli diresse la politica estera italiana, ma soprattutto poté
dirigere i rapporti con gli Stati Uniti sfruttando a fondo l’interesse
americano di trovare validi interlocutori tra gli antifascisti italiani136.
Sulla stessa linea, sostiene Lepre, si muovevano anche la Segreteria di
Stato vaticana e Pio XII che sollecitarono un intervento sempre più
deciso degli Usa nelle vicende italiane e prospettarono un’alleanza che
avrebbe dovuto garantire gli assetti interni della penisola e insieme i
crescenti interessi statunitensi nell’area mediterranea137.
La pressione
congiunta di De Gasperi e del Vaticano, avrebbe ottenuto, nel corso del
1945,
secondo Galante, risultati consistenti: l’ipotesi politica più
accreditata tra gli esponenti americani in Italia era ormai quella
degasperiana di un’alleanza tra liberali-moderati e democristiani in
funzione anticomunista. La morte di Roosevelt non poté che favorire tale
prospettiva: per le sue convinzioni profondamente anticomuniste e
antisovietiche, Truman era più che propenso a raccogliere le
sollecitazioni provenienti da più parti e radicate anche nelle esigenze
strutturali del sistema economico americano, che auspicavano un
irrigidimento della politica estera statunitense nei confronti dei sovietici
136 Ibidem.
137 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.276-280.
!79
e il superamento delle alleanze di guerra. Tra la fine del ’45 e i primi
mesi del ’46 prese sempre più corpo il disegno della “pax americana” e
l’acuta sensibilità di Truman lo portò a constatare quanto era radicata la
tradizione cattolica-cristiana in un paese come l’Italia. Identificando
nella Santa Sede la depositaria dei principi cristiani, il neo presidente
statunitense, ancor più di Roosevelt, comprese la via essenziale da
intraprendere per l’attuazione del disegno americano.
La strategia politica dell’alleanza era così definita, almeno nelle linee
essenziali: toccava alla Dc di De Gasperi, in Italia, trattarne gli aspetti
pratici138. La linea democristiana, afferma Lepre, continuò ad essere
quella già adottata anche dal Vaticano negli anni precedenti:
amplificando rischi e pericoli bisognava convincere gli Stati Uniti che la
situazione italiana era drammatica e che soltanto un appoggio
consistente alla Dc avrebbe potuto assicurare una ricostruzione politica
ed economica senza traumi del Paese, tale da fornire agli americani le
più ampie garanzie strategiche. Per quanto ben disposti, infatti, gli Stati
Uniti non poterono appoggiare incondizionatamente le proposte italiane:
essi avevano sufficientemente individuato l’importanza strategica
dell’Italia, come già ebbe modo di riconoscere E. H. Carr, definendola:
«il più importante corridoio marittimo del mondo»139, ma, in questa fase
storica essi operavano su uno scacchiere ben più vasto e avrebbero
dovuto quindi subordinare le scelte locali alle esigenze della loro politica
globale140.
138 Severino Galante, op. cit., pp.24-25.
139 David W. Ellwood, L’alleato nemico: la politica dell’occupazione anglo-americana 1943-1946,
Milano, 1977, p.29.
140 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.281-282.
!80
De Gasperi, secondo Galante, non si era recato negli Stati Uniti sospinto
esclusivamente da motivi di ricognizione: scopo fondamentale della
visita era quello di consolidare le simpatie americane e cristallizzare le
disposizioni favorevoli della classe dirigente statunitense. Ciò
significava per la Dc e per De Gasperi in prima persona, consolidare
definitivamente il ruolo di interlocutori privilegiati che avevano cercato
incessantemente di conquistarsi, battendo ogni altro possibile
concorrente, ottenendo risultati concreti, tali da tradursi immediatamente
in maggiore prestigio in patria. Benché i risultati economici e
diplomatici della visita si rilevarono assai inferiori alle aspettative, De
Gasperi sarebbe riuscito a ottenere ciò che politicamente più gli premeva
e l’ottenne muovendosi su un terreno coerente con la situazione
internazionale: l’enfatizzazione della minaccia comunista e l’indicazione
di se stesso come l’unico valido garante di un governo stabile, di
ispirazione moderata, strettamente legato agli obiettivi generali della
politica estera statunitense 141. Dal canto loro gli americani erano
abbastanza propensi a prestargli ascolto purché egli fosse stato in grado
di dimostrare veramente che avrebbe attuato ciò che prometteva.
In sostanza, per la Democrazia cristiana era giunto il momento di
prendere decisamente in mano le redini del governo occupandone tutti i
posti chiave con uomini di saldo ancoraggio moderato per dimostrare
così ai suoi alleati che la Dc non era affatto disposta a lasciarsi
condizionare dalle sinistre ed era anzi decisa ad imporre il suo marchio a
tutta la politica italiana. Ciò era ora possibile, necessario e
indispensabile: possibile per le mutate condizioni parlamentari;
necessario per rassicurare l’elettorato moderato; indispensabile per
fornire agli Stati Uniti la dimostrazione che De Gasperi era in grado di
141 Severino Galante, op. cit., p.26.
!81
attuare quanto aveva dichiarato di voler fare. Nella pratica quindi era la
Dc il partito che avrebbe potuto garantire quella sicurezza politica ed
economica che gli Stati Uniti ricercavano in Italia per inserirla
definitivamente nel blocco antisovietico, attuando in tal modo il progetto
americano di consolidazione del blocco occidentale.
3.2.La reazione del Pci e la conferma di una linea politica
L’obiettivo di De Gasperi, afferma Galante, non sfuggì al Partito
comunista. I dirigenti del Pci interpretarono le sue dimissioni come un
tentativo di indirizzare l’Italia su una rotta diversa dalla politica d’unità
nazionale seguita sino a quel momento142. Le modalità e i tempi scelti
per annunciare le dimissioni, continua Galante, si prestarono fin troppo
opportunamente a suggerire un collegamento tra il viaggio negli Stati
Uniti e l’apertura della crisi; sicché i comunisti percepirono
immediatamente il problema. «L’Unità» identificava la fiducia nella
democrazia italiana, da parte degli Usa, che De Gasperi dichiarò di avere
ottenuto durante la sua visita, unita all’apertura della crisi, con l’ipotesi
che il presidente del Consiglio avrebbe potuto rompere la coalizione
tripartita in cambio di un prestito straniero. Il timore che ciò potesse
avvenire era stato esternato dal Pci fin dal momento della partenza di De
Gasperi. In quell’occasione, il 3 gennaio 1947, «l’Unità» aveva
esplicitamente ammonito «il presidente del Consiglio e capo della
Democrazia cristiana a non dimenticare a Washington che fine supremo
142 Ivi, pp.29-30.
!82
della politica estera italiana doveva essere la difesa della nostra
indipendenza» 143.
Il quotidiano comunista sostanziò questo invito con chiare allusioni a
coloro che reputava i veri ispiratori del viaggio, cioè gli Stati Uniti e il
Vaticano144. Come già accennato, il Pci fino al 1946 avrebbe considerato
la Gran Bretagna il paese “capitalistico monopolistico” che più avrebbe
potuto danneggiare l’indipendenza italiana, invece ora cominciava ad
accorgersi di quanto l’indipendenza del Paese sarebbe stata seriamente
minacciata dalla potenza americana. Il Pci seguì attentamente il viaggio
di De Gasperi negli Stati Uniti senza eccessivo pessimismo, infatti come
afferma Galante, i comunisti italiani, mentre constatavano e accettavano
le strategie internazionali di allineamento e la loro logica, cioè la
capacità di muoversi al loro interno senza proporsi neppure astrattamente
di uscirne, contemporaneamente insistevano nel rifiuto dei blocchi
politici, che avrebbero sancito la fine della collaborazione internazionale
e sollecitato la crescita di un antagonismo sempre più acuto che non
avrebbe mancato di influenzare anche i rapporti politici e di forza interni
ai singoli paesi 145. Nel caso dell’Italia, se si fosse consolidato l’irrigidirsi
dei blocchi politici, ciò avrebbe comportato due conseguenze: la prima è
che avrebbe sottratto ai comunisti un’utilissima copertura internazionale
al loro progetto interno di “democrazia progressiva”, inteso a edificare,
come scrive Ellwood, un regime di democrazia borghese pienamente
applicabile, anche senza incorrere in una netta opposizione statunitense,
che avrebbe attribuito all’Italia il ruolo di zona di passaggio tra i due
143 Ibidem.
144 Ivi, p.36.
145 Ivi, p.38.
!83
diversi sistemi146. In secondo luogo, scrive Galante, tale tendenza
avrebbe accelerato il processo di crisi dell’unità antifascista e frapposto
ostacoli al mantenimento della solidarietà tra le forze democratiche, che
invece anche nei primi mesi del ’47, avrebbe rappresentato per il Pci la
strategia politica prioritaria da salvaguardare in vista della democrazia
progressiva 147. Su tali premesse, continua lo storico padovano, Togliatti
tentò di innestare il concetto di “via nazionale al socialismo”.
Ciò avvenne nel corso della III Conferenza di organizzazione del Pci,
svoltasi a Firenze dal 6 al 10 gennaio 1947, in concomitanza col viaggio
di De Gasperi negli Usa. A un anno di distanza dal V Congresso, questa
Conferenza sarebbe stata convocata per esaminare la migliore
organizzazione del partito affinché avesse assolto la funzione di “Partito
della Rinascita” 148. L’intenzione
fu dunque non solo quella di non
mettere in discussione la linea politica seguita fino ad allora, ma anzi di
confermare la strategia politica del tripartito.
Dopo un anno dal V Congresso si trattava, afferma Galante, di verificare
se e in quale misura il partito fosse riuscito a superare i limiti politici; di
individuare con estrema precisione le carenze che ancora sussistevano e
ostacolavano il pieno dispiegarsi della strategia comunista, e infine, di
trovare i mezzi per liberarsene e per adeguare le strutture organizzative
ai fini politici immediati per il futuro. Furono dunque questi gli obiettivi
che andavano definiti con chiarezza, di fronte alle resistenze tenaci e alle
incomprensioni che la linea togliattiana continuava a incontrare nel
partito, sia ai vertici che alla base149. Alla Conferenza, scrive Lepre,
146 David W. Ellwood, op. cit., p.341.
147 Severino Galante, op. cit., p.39.
148 Ivi, p.40.
149 Ibidem.
!84
Togliatti non pronunciò minimamente parole di accusa nei confronti di
De Gasperi, ma espresse in modo maggiore rispetto al passato giudizi
assai negativi sugli Stati Uniti e dichiarò che bisognava fare ancora
molto in Italia, visto che a suo parere,
dopo la conquista della
Repubblica si sarebbe definita nella democrazia italiana una fase di
stallo: «L’Italia non è ancora divenuta né completamente repubblicana,
né completamente democratica»150.
Nel caso dell’esercito infatti,
secondo Galante, dopo il 2 giugno si
sarebbero fatti passi indietro: invece di epurare i quadri compromessi col
vecchio regime si sarebbe prospettata l’epurazione di quelli democratici.
Infatti, con l’avvento del democristiano Mario Scelba al dicastero degli
Interni, il 4 febbraio 1947, il processo di estromissione dei partigiani dal
corpo di polizia, assunse ritmi ancora più intensi e fu finalizzato alla
creazione di un esercito nuovo 151. Ma il peggio era che nemmeno le
conquiste politiche fino ad allora realizzate potevano essere mantenute a
lungo se non si fosse riusciti a sbloccare la situazione e a far progredire
la democrazia italiana sul terreno dell’economia, delle riforme e della
struttura sociale del Paese. A questo punto il Pci avrebbe dovuto
affrettarsi a reagire. Ma in che modo? Togliatti aveva una convinzione:
«È certo che riusciremo a spingere avanti la democrazia italiana per
il cammino di un rinnovamento radicale soltanto se riusciremo a
creare e a mantenere una unità, un blocco di forze democratiche, le
quali, muovendosi sul terreno della democrazia, sappiano far fronte
alla resistenza delle vecchie caste reazionarie, sappiano spezzare
questa resistenza e realizzare tutte quelle riforme che è necessario
utilizzare»152.
150 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.248-250.
151 Severino Galante, op. cit., p.75.
152
Ivi, pp.41-43.
!85
Togliatti nel ’47 in effetti aveva riconfermato la strategia già
preannunciata nel ‘44. Nell’aprile del 1944, il segretario del Pci avrebbe
ammonito i suoi che la strategia da seguire per gli operai italiani non
poteva coincidere con quella attuata in Russia e usò l’esempio sovietico
per fornire maggiore autorevolezza alla proposta di una politica di larga
unità nazionale antifascista da seguire in Italia. Dopo tre anni Togliatti si
riferiva ancora all’esperienza sovietica; non lo faceva in tono così
perentorio come a Salerno, ma la sostanza era identica: l’Urss non era un
modello da imitare. Questa convinzione Togliatti la esternò già nel 1937
all’intellettuale austriaco Ernst Fischer, in merito all’ondata repressiva in
Urss: la nuova lotta per il socialismo era prima di tutto lotta per una
maggiore democrazia153.
Togliatti concluse il suo intervento alla III Conferenza, ispirato forse
dalla recente visita a Belgrado, affermando che la profonda diversità
dello sviluppo storico dei vari paesi del mondo aveva imposto altrettanti
obiettivi differenti alla classe operaia dei vari paesi, cosicché ogni partito
comunista nazionale si sarebbe potuto sciogliere dai vincoli
dell’Internazionale e sentirsi autorizzato a operare secondo una linea
conforme alle specifiche condizioni nazionali. Secondo Galante, la visita
del novembre 1946 di Togliatti a Belgrado presso il maresciallo Tito,
potrebbe essere stata decisiva per il preservare nella sua strategia
politica. In quel periodo la tensione tra la linea politica sovietica e quella
jugoslava cominciava ad accentuarsi, sfociando poi nello “scisma” del
’48. In quell’occasione i delegati jugoslavi avrebbero aspramente
criticato i dirigenti italiani, accusandoli di non aver imitato l’esperienza
153 Alexander Höbel, op. cit., p.2.
!86
jugoslava, di aver privilegiato l’unità antifascista di vertice rispetto a
quella di base, di aver frenato l’evoluzione rivoluzionaria154. Togliatti
rispondeva a tali critiche, sottolineando la bontà della propria linea
politica intesa come un contributo originale allo sviluppo del “marxismo
vivente”, come uno sforzo volto a superare “schemi interpretativi
sclerotizzati”, formule astratte da “catechismo marxista”, per insegnare
invece a distinguere una situazione dall’altra155. Togliatti insisteva infatti
molto più sulle distinzioni e sulle differenze che non sulle analogie: la
differenza tra Unione Sovietica e Jugoslavia in primo luogo. Da una
parte dittatura del proletariato e soviet, dall’altra un regime democratico
avanzato, che sarebbe confluito nella direzione del socialismo e
organismi nuovi creati attraverso la lotta di liberazione, e per mezzo dei
quali si esprimeva la sovranità popolare. Ma anche la differenza tra Italia
e Jugoslavia: Togliatti ammise che tra le due situazioni sarebbero potute
esistere affinità qualora fosse stato possibile conservare i Comitati di
Liberazione Nazionale e potenziarne il ruolo, ma ribadì che vi sarebbe
stata una grande diversità a causa della diversa natura tra Cln jugoslavo e
italiano: organismo di massa il primo, movimento fondato su una
federazione di partiti il secondo156. Infatti, secondo Martinelli, la parte
più interessante dell’intervento di Togliatti alla Conferenza di Firenze
riguarda la prospettiva che andava delineandosi nella situazione data:
«il marxismo non è un dogma […] ma una guida per l’azione. Ora
l’azione della classe operaia oggi è arrivata a un punto tale che per
154 Severino Galante, op. cit., pp.44-46.
155 Ibidem.
156 Ivi, p.47.
!87
svilupparsi deve seguire strade nuove […] attiro la vostra attenzione
su un grande esempio: quello della Jugoslavia»157.
Togliatti attirava l’attenzione sul compito del partito di trovare la “via
italiana” di sviluppo della democrazia e di lotta per la realizzazione delle
più avanzate riforme democratiche: si confermava la linea politica del
partito.
Il terreno economico fu la questione più delicata della Conferenza: la
consapevolezza che soltanto gli Stati Uniti, dichiara Lepre, avrebbero
posseduto il potenziale economico necessario alla ricostruzione europea
era ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica italiana in forme spesso
viziate da miti provvidenzialistici: cominciò a serpeggiare tra gli italiani,
ridotti ancora in una situazione quasi di miseria, il “sogno americano”158.
Del resto, scrive Galante, la Democrazia cristiana non perse occasione
per lusingare tali aspettative e presentarsi come l’unico strumento capace
di tradurle in realtà, grazie all’instaurazione di legami sempre più stretti
e privilegiati con gli Usa. In effetti, De Gasperi, lo esternò anche
pubblicamente: ai giornalisti che lo interrogarono circa le sue possibilità
di risolvere la crisi, egli rispose di essere “ottimista” e poi aggiunse:
«altrimenti non mi ci sarei messo. Non voglio rischiare i vantaggi che
hanno dato i risultati del mio viaggio negli Stati Uniti. Io rappresento un
contributo positivo che non deve andare perduto»159.
È evidente che il presidente del Consiglio si servì e si sarebbe servito
dell’appoggio politico degli Usa per consolidare il consenso
dell’opinione pubblica italiana attorno alla Dc. La reazione dei comunisti
157
Renzo Martinelli, op. cit., p.170.
158 Aurelio Lepre, Storia d’Italia dall’Unità a oggi, cit., p.317.
159 Severino Galante op. cit., p.48.
!88
fu diversa da quella che si poteva prevedere: per tutto il mese di febbraio
e oltre, il Pci si astenne dal formulare pubblici discorsi critici contro la
Democrazia cristiana, tenendo sempre presente la linea politica e quindi
la strada del compromesso storico160; anche se un anno prima, l’8 agosto
1946, in un editoriale pubblicato su «Rinascita», sottolinea Lepre,
Togliatti avrebbe scritto che in Italia c’era stato “un compromesso”, che
avrebbe lasciato la guida dell’economia alle forze conservatrici. In
cambio si sarebbe ottenuta “la democratizzazione del paese nel suo
complesso”. A giudizio di Lepre, questa sottovalutazione dell’economia
di fronte alla politica può apparire singolare, soprattutto in un marxista
come Togliatti. In realtà sarebbe derivata dalla lezione di Lenin e Stalin
di cui si fece maggiore interprete, secondo Lepre, il socialista Pietro
Nenni, con la sua parola d’ordine “politique d’abord”, che pose appunto,
la politica al primo posto. La rinuncia a ogni tentativo di agire con
riforme che avrebbero inciso sulla struttura economica avrebbe segnato
la futura politica del Pci 161. Tuttavia, come già esaminato, il Pci, dal V
Congresso in poi, cominciò a volgere la propria attenzione anche
all’economia, portando, come si vedrà, un proprio programma a riguardo
anche alla Costituente. Ma il segretario del Pci era più che conscio ad
ammettere le carenze insite nel partito in campo economico e che, di
conseguenza, la maggiore attenzione dei quadri dirigenti era molto più
indirizzata al contesto politico.
Il 30 gennaio 1947, a conclusione di una riunione della Direzione del
partito e del Comitato direttivo del Gruppo parlamentare democristiano,
sottolinea Galante, la linea degasperiana sarebbe riuscita ancora una
volta a piegare le ultime resistenze dei parlamentari, i quali approvarono
160 Ibidem.
161 Aurelio Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., pp.279-280.
!89
un ordine del giorno nel quale affermavano che la crisi non sarebbe stata
impostata sulla esclusione od umiliazione di alcuna corrente politica,
esprimendo il rammarico del loro partito per il mancato concorso al
governo di tutte le forze democratiche e rivendicando alla Dc l’assoluto
controllo della politica interna e un’effettiva direzione della politica
economica.
La crisi sarebbe stata rapidamente risolta col ritorno al tripartito e la
permanenza al governo delle sinistre, le quali, considerata la
diminuzione dei dicasteri, vi conservarono un numero di rappresentanti
analogo a quello che detenevano nel precedente ministero162. Sia pur
fallendo l’obiettivo massimo, la Dc non sarebbe uscita completamente a
mani vuote dalla crisi che avrebbe aperto: conformemente alle
indicazioni del gruppo parlamentare democristiano, nella struttura della
nuova compagine governativa, le posizioni moderate e conservatrici
risultarono largamente rafforzate col controllo di fondamentali dicasteri
politici ed economici (Scelba agli Interni, Sforza agli Esteri, Gasparotto
alla Difesa, Campilli alle Finanze e Tesoro).
La crisi di gennaio non condusse a un estromissione delle sinistre dal
governo, ma si concluse con il ritorno al tripartito. Tuttavia il segnale era
stato dato e i democristiani ottennero una maggioranza di dicasteri; ad
esempio il ministero delle finanze e del Tesoro venne unificato e
assegnato al democristiano Campilli, sottraendo di fatto le Finanze al
comunista Scoccimarro. Inoltre venne eliminato il ministero
dell’Assistenza bellica, in precedenza attribuito all’altro comunista
Emilio Sereni. Da questo momento l’Assistenza, non più riconosciuta
come dicastero, tornò ad occupare un ruolo fondamentale nell’attività
ecclesiastica, divenendo una fortuna elettorale per la Democrazia
162 Severino Galante, op. cit., pp.52-53.
!90
cristiana. A questo punto la Dc, a giudizio di Galante, avrebbe attuato nel
periodo successivo ulteriori mosse, arrivando poi, come vedremo, al
“colpo” di maggio che sarà quello risolutivo163.
Nella diagnosi compiuta, all’interno del Partito comunista, nella fase più
acuta della crisi vi sarebbe stata da parte del partito, afferma Galante,
una singolare sottovalutazione dei fattori interni: il Pci avrebbe
denunciato come causa prima delle tendenze disgregatrici del tripartito le
pressioni degli Stati Uniti, attribuendo invece un ruolo subalterno alle
forze moderate interne e alla Democrazia cristiana. Lo stesso ruolo di De
Gasperi ne sarebbe uscito se non rafforzato, di certo non indebolito: non
protagonista e artefice ma quasi vittima della propria debolezza e inerzia.
Ma allora, afferma Galante, se nonostante gli appoggi interni e
internazionali, nonostante la campagna anticomunista e i “buoni
consigli” americani, i dirigenti democristiani non riuscirono a
concretizzare il loro disegno, Togliatti ne avrebbe dedotto che essi non
avevano e non avrebbero neppure avuto in futuro la forza per farlo,
rischiando di perdere in modo definitivo l’elettorato più progressista
della Dc 164. L’ipotesi del Pci era dunque che la Dc si sarebbe dovuta
liberare della “zavorra conservatrice” favorendone il passaggio nel
movimento di destra dell’Uomo qualunque, con la conseguenza di far
sprigionare tutte le potenzialità democratiche che essa conteneva e di
indurre il gruppo dirigente a compiere una stabile e definitiva scelta che
avrebbe rappresentato la volontà popolare165.
Questa prima parte dell’analisi comunista spiega un aspetto
dell’atteggiamento del Pci verso la Dc. Per bloccare la manovra
163 Ibidem.
164 Ivi, pp.55-58.
165 Ibidem.
!91
conservatrice, costituita dalla destra democristiana, occorreva dunque
recidere al più presto l’ala più reazionaria, sollecitando e favorendo il
deflusso della destra democristiana verso l’Uomo qualunque. Ma
aspettarsi che la Democrazia cristiana fosse stata disposta a rinunciare al
canale che la destra interna gli offriva, attirando verso la Dc l’elettorato
di destra moderato, sarebbe potuta risultare abbastanza irrealistico. Nel
Partito comunista, come sottolinea Galante, non tutti però avrebbero
accettato linea togliattiana. Alla fine del 1946 infatti, Franco Rodano
sarebbe giunto alla conclusione che la Democrazia cristiana si
presentava come “una vasta, differenziata e nel tempo stesso amorfa
accumulazione di quanto di passivo, di non decisamente democratico, di
non radicalmente antifascista esisteva in quel periodo in Italia”166. Ma
questa di Rodano avrebbe rappresentato una prospettiva sostanzialmente
isolata.
Nell’analisi del Pci sarebbe stata sottolineata inoltre una stretta
dipendenza del Partito democristiano dal Vaticano. Già dal V Congresso,
scrive Lepre, Togliatti avrebbe individuato nei rapporti con la Chiesa
una delle questioni fondamentali da risolvere, per poter dare solide basi
alla democrazia italiana. In quell’occasione Togliatti aveva lasciato
intendere come per i comunisti il rapporto tra Stato e Chiesa fosse
indissolubilmente connesso a quello tra il Pci e la Santa Sede, che a sua
volta mediava quello tra comunisti e democristiani. La speranza che le
gerarchie ecclesiastiche avrebbero potuto adattarsi alla nuova realtà in
sviluppo, acconsentendo all’incontro delle masse lavoratrici cattoliche e
non cattoliche su un programma di profondo rinnovamento economico,
politico e sociale, assunse un significato politicamente ben
166 Ivi, p.60.
!92
determinato167. Infatti, come scrive Galante, i comunisti non mirarono a
distruggere i risultati dell’opera di pacificazione religiosa
definitivamente conseguiti coi Patti lateranensi, ma si proposero anzi il
compito di sostituire alla firma del fascismo la firma della Repubblica,
che in tal modo si sarebbe impegnata a realizzare e a difendere la pace
religiosa in Italia168. In sostanza, la via all’approvazione comunista
dell’articolo 7 della Costituzione era di fatto spianata. Ma i suadenti
appelli di Togliatti al Vaticano, come sottolinea Galante, erano però
destinati a non ottenere risposte positive. Le gerarchie ecclesiastiche
continuarono a giudicare quella comunista “una mano tesa minacciosa”
ch’esse ben si guardavano dallo stringere e che anzi respinsero con la
massima fermezza169.
In questa situazione dunque, secondo Galante, nessun appello, per
quanto determinato, avrebbe potuto smuovere il consolidarsi del blocco
conservatore; di fronte a tale offensiva sarebbe stato possibile ipotizzare
una sola alternativa all’arroccamento difensivo attuato dal Pci:
raccogliere e coordinare il malessere popolare suscitato dal costante
deterioramento delle condizioni di vita. Ma praticare questa via avrebbe
significato imboccare una prospettiva di opposizione: la stessa che
qualche mese prima Togliatti escluse fermamente di fronte al Comitato
Centrale, indicando i rischi non indifferenti ch’essa avrebbe
comportato170. In effetti, la partecipazione al governo era l’asse portante
della strategia comunista, la novità fondamentale prodotta dalla
Resistenza sul terreno democratico, in base ad essa lo Stato cessava di
167 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.282-283.
168 Severino Galante, op. cit., p.68.
169 Ivi, pp.70-71.
170 Ibidem.
!93
essere un corpo separato e ostile da abbattere, per apparire viceversa un
terreno sul quale era possibile intervenire positivamente per
trasformarlo, per riformarlo, per creare e sviluppare istituzioni
democratiche, per farne il quadro generale entro il quale attuare un lungo
processo di transizione verso il socialismo. Così, echeggiando i principi
leninisti sull’importanza assoluta di una sinistra parlamentare,
nonostante il rischio di veder compromessa la fiducia dei lavoratori
verso quelle rappresentanze politiche che pur restando al governo non
riuscivano a fronteggiare il precipitare della situazione, i dirigenti
comunisti avrebbero seguito fino in fondo la strada che si erano tracciati
nei mesi precedenti, tenendo fede a una direttiva rinnovata poco tempo
prima, ovvero fare leva sull’ala sinistra e progressiva della Democrazia
cristiana. C’era tuttavia la consapevolezza di dover attuare un
cambiamento mirato per sbloccare la paralisi in cui si trovavano i
dirigenti comunisti. Tuttavia risultò loro sempre più difficile praticare
una via diversa da quella logorante dell’alleanza di governo con la Dc 171.
Come scrive Martinelli, Togliatti considerava la partecipazione al
governo del Pci più che necessaria in un momento in cui la lotta di classe
si sviluppava acutamente nel Paese: il leader comunista infine, sostenne
la necessità di non mutare la linea politica del partito, ma di riuscire a
coniugare la maggiore spregiudicatezza nell’analisi con una maggiore
spregiudicatezza nella politica concreta 172. La visione che Togliatti
indicava avrebbe dovuto fare i conti prima di tutto con i limiti stessi
dell’organizzazione e della tradizione del partito: limiti che proveranno
ad essere superati, come vedremo, nella nuova organizzazione che il Pci
171 Ivi, p.73.
172 Renzo Martinelli, op. cit., p.213.
!94
elaborò al Congresso provinciale della federazione comunista di Padova
nell’estate del ’47.
3.3. Il consolidarsi del blocco conservatore:
la Dc e la “il colpo di mano” di maggio
Il 6 marzo 1947 il presidente degli Stati Uniti Harry Truman pronunciò
un discorso in cui pose le questioni dell’egemonia americana in termini
economici:
«Ovunque il futuro è incerto. In questa atmosfera di dubbi e di
esitazioni l’elemento risolutivo sarà dato dalla qualità di leadership
che gli Stati Uniti sapranno assicurare al mondo. Siamo il gigante
economico del mondo. Ci piaccia o meno, la struttura delle relazioni
economiche future dipenderà da noi»173 .
Il discorso era rivolto sia all’interno degli Stati Uniti, alle forze
isolazioniste, richiamate alle responsabilità di un paese vincitore della
guerra, sia agli alleati occidentali. Sei giorni più tardi, il presidente
americano annunciò la cosiddetta “dottrina Truman”, celebrando i
principi su cui si fondavano le società democratiche: «Libere istituzioni,
governo rappresentativo, elezioni libere, garanzie per la libertà
individuale, libertà di parola e di religione e libertà dall’oppressione
politica».
Con la dottrina Truman, gli Stati Uniti contrapposero il proprio modello
politico a quello dell’Unione Sovietica, di cui già il presidente americano
avrebbe denunciato il regime di oppressione che si stava instaurando
173 Aurelio
Lepre, Storia d’Italia. Dall’unità a oggi, cit., p.285.
!95
nell’Europa dell’Est, trasformata da Stalin in un’area di influenza
sovietica sotto rigido controllo delle direttive provenienti da Mosca174.
Dal 18 al 21 marzo 1947 si tenne il Consiglio nazionale della Dc, che
chiese l’attuazione di “provvedimenti finanziari e sociali urgentemente
necessari per ottenere il miglioramento del bilancio statale e con esso la
salvezza della lira e la possibilità di vita delle classi lavoratrici” 175. Già
nelle settimane precedenti, la Democrazia cristiana era riuscita a
dimostrare che il governo tripartito non sarebbe stato in grado di
mantenere alcuno degli impegni programmatici assunti a favore dei ceti
più disagiati e delle classi meno abbienti: il contenimento dei prezzi,
l’estensione dell’occupazione collegata ad un ampio programma di
lavori pubblici, i provvedimenti a favore dei lavoratori agricoli, la
perequazione fiscale e il tesseramento differenziato, sarebbero stati
relegati nel libro delle promesse sempre rinnovate e mai mantenute176. Il
14 aprile, scrive Lepre, Angelo Costa inviò a De Gasperi un
memorandum in cui esponeva le richieste della Confindustria: per
salvare la lira, per l’industriale genovese, occorreva abolire i prezzi
politici, eliminare i lavori pubblici inutili, abolire le imposte sugli utili e
sui dividendi, subordinando gli aumenti salariali all’aumento della
produzione, e concedere piena libertà di licenziamento177. Nonostante
l’appoggio del democristiano Campilli a determinate proposte elaborate
da Angelo Costa, De Gasperi tuttavia, non avrebbe mai potuto approvare
un siffatto programma che avrebbe sicuramente generato una rottura
immediata con le sinistre, che non avrebbero mai accettato, interamente,
174 Ibidem.
175 Severino Galante, op. cit., p.75.
176 Ivi, p.77.
177 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.85.
!96
il memorandum di Costa. Ma, sottolinea Lepre, il peso che De Gasperi
attribuiva alle prese di posizione degli industriali fu indicato da lui stesso
in un intervento tenuto il 30 aprile al consiglio dei ministri, il quale
affermò che in Italia esisteva un “quarto partito” (gli industriali), che
decideva ed orientava le campagne della stampa indipendente e che era
in grado di paralizzare e di rendere inutile ogni sforzo, organizzando il
“sabotaggio del prestito” e “la fuga di capitali”, “l’aumento dei prezzi” e
le “campagne scandalistiche”. Il capo della Dc, inoltre, affermò che
l’esperienza gli aveva insegnato che non si governava l’Italia senza
attrarre nel governo i rappresentanti di questo quarto partito 178.
La Dc stava attuando una serie di mosse volte al conseguimento di quella
che sarebbe stato definito il “colpo di mano” del mese successivo. Su
questa linea si sarebbe mosso anche il presidente della Confederazione
dei coltivatori diretti, Paolo Bonomi, avvertendo che nelle campagne
v’erano ancora molti pericoli da affrontare, molte preoccupazioni da
dissipare e molti interessi da salvaguardare, che non potevano essere
trascurati se non si voleva perdere un indispensabile elettorato di massa.
Galante mette in evidenza come Paolo Bonomi in seguito, chiedendo alla
Costituente provvidenze per i contadini, si sarebbe scagliato contro i
grandi proprietari e gli industriali, raccogliendo perciò sentiti applausi
dalle sinistre. Ma in realtà il democristiano Bonomi non avrebbe fatto
altro che seguire coerentemente la linea politica del suo partito, attuando
mosse strategiche utili alla “svolta” del mese successivo. Il 24 marzo il
presidente della Coldiretti (Confederazione dei coltivatori diretti),
avrebbe avuto un colloquio con l’incaricato per i problemi del lavoro
presso l’ambasciata americana a Roma, John Adams.
Erano presenti
anche gli altri due leader del “sindacalismo bianco”: Giulio Pastore, in
178 Ivi, p.86.
!97
procinto di sostituire Giuseppe Rapelli alla segreteria generale della Cgil,
e Ferdinando Storchi, presidente delle Acli, il quale proprio quest’ultimo
avrebbe affermato: «Bonomi ha detto che la sua organizzazione non è
cattolica, è semplicemente anticomunista. Ha attribuito le 600 mila
adesioni almeno in parte a questo motivo» 179. Anche Magister afferma
che il tema dell’incontro sarebbe stato la crisi dell’unità sindacale e
venne rilanciata inoltre la necessità di attirare, nei sindacati
democristiani, anche lavoratori anticomunisti non necessariamente
cattolici180.
La maggiore preoccupazione di Bonomi sarebbe stata quella di
contenere le tensioni che percorrevano le campagne e che si erano
espresse poco tempo prima anche sul piano politico con grandi
manifestazioni di massa delle categorie non proprietarie. In mancanza di
interventi appropriati vi sarebbe stato il rischio che il tradizionale blocco
agrario si fosse dissolto completamente, non solo per l’esplodere delle
contraddizioni tra ricchi proprietari terrieri e braccianti e contadini
poveri, ma anche di quelle all’interno delle categorie intermedie: sarebbe
cioè entrato in crisi il concetto di “coltivatore diretto”181. Il presidente
della Confederazione avrebbe accolto perciò con favore l’annuncio di De
Gasperi riguardo al fatto che sarebbero stati presto varati provvedimenti,
quali la perequazione dei canoni di affitto, la proroga dei contratti agrari
e la conversione in legge del lodo sulla mezzadria, che recava il nome
del presidente del Consiglio. L’obiettivo della Coldiretti, secondo
Galante, sarebbe stata infatti la creazione di una vasta rete di proprietà
volte a soddisfare le esigenze anche dei contadini più poveri: una mossa
179 Ivi, p.87.
180 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia, Roma, 1979, pp.88-90.
181 Ivi, p.91.
!98
strategica tesa a prevenire una compattezza delle lotte dei braccianti e
dei contadini, di bloccare la tendenza dell’associazionismo democratico
e di favorire invece lo spirito individualistico e la vocazione proprietaria
dei ceti rurali subalterni 182.
Il parlamentare democristiano Giuseppe Cappi, sottolinea Lepre,
intervenendo sempre alla Costituente, avrebbe definito il terzo gabinetto
De Gasperi “un governo omogeneo con una funzione prevalentemente
centrista”. In altri termini, faceva notare Cappi, che se anche il governo
di quel momento non sarebbe stato a pieno titolo un governo centrista,
quella tuttavia sarebbe stata la meta a cui tendeva la Dc e per la quale
chiedeva sostegno e consensi183. Su questi aspetti, sottolinea Galante,
Cappi sarebbe stato molto esplicito: egli avrebbe negato il nocciolo
stesso delle già menzionate argomentazioni di Togliatti che sostenevano
una alleanza politica generale, di una collaborazione di durata storica tra
le sinistre e i democristiani: « In sostanza voi comunisti ci tendete la
mano, fate un nobile appello alla concordia e all’unità giacché nulla o
quasi nulla ci divide. Non è esatto» 184. L’elenco dei motivi era lungo e
Cappi si soffermò dettagliatamente su ciascuno di essi: divergenze
filosofiche, divergenze religiose, divergenze nella concezione
dell’economia, della società, dello Stato, perplessità circa l’effettiva
concordia del Pci al suo interno, assoluta sfiducia nella buona fede dei
comunisti, convinzione ch’essi intendessero attuare in Italia un regime di
tipo sovietico chiamandolo “democrazia progressiva”. Per il periodo
della guerra di liberazione la risposta sarebbe stata semplice: l’elemento
unificatore sarebbe stato rappresentato dal fascismo, abbattuto quello,
182 Ibidem.
183 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p. 288.
184 Severino Galante, op. cit.,p.92.
!99
sarebbe rimasto ancora un filo unificante, benché molto fragile e tenue
dal punto di vista democristiano: la comune ostilità alla concezione
liberale, meramente politica, della democrazia e la volontà di darle un
contenuto sociale185. Ma il Pci non avrebbe captato ancora le divergenze
che erano emerse in quel momento o anzi se lo fece, avrebbe mostrato
ancora delle speranze, emerse dall’ultima analisi, per l’ala democratica e
progressiva della Democrazia cristiana.
Il 14 aprile, ricorda Galante, De Gasperi ebbe un colloquio con Alberto
Tarchiani, rientrato due giorni prima dall’America, richiamato per
conferire con il ministro degli Esteri anche a nome del presidente del
Consiglio. L’ambasciatore italiano a Washington sarebbe stato molto
esplicito e avrebbe ribadito concetti che nei mesi precedenti non si era
mai stancato di ripetere:
«Dovetti dire che, per ottenere un appoggio sufficiente alla nostra
adeguata ripresa, alla necessaria preparazione militare e all’effettiva
partecipazione nei consessi internazionale, era necessario che il
Governo italiano fosse omogeneo, efficiente ed esplicitamente deciso
per una politica che abbinasse la dignità e l’indipendenza con la
fedeltà alle direttive comuni tante volte proclamate con i nostri amici
all’estero, ma tenute in sordina all’interno»186 .
In effetti, il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti non avrebbe dissipato
le numerose perplessità alberganti nella Dc circa la posizione
internazionale da far assumere al partito e al Paese. Infatti, come osserva
Lepre, all’interno della Dc vi era ancora chi come Giuseppe Dossetti e
gli uomini che con lui avrebbero dato vita al quindicinale «Cronache
185ivi, pp.93-94.
186
Ivi, pp.106-107.
!100
sociali», i quali erano fermi assertori di una politica estera di
equidistanza dai due schieramenti internazionali che stavano
contrapponendosi con crescente asprezza.
Per i dossettiani l’Italia
avrebbe dovuto svolgere un ruolo di mediazione attiva tra Stati Uniti e
Unione Sovietica garantendosi uno spazio di autonomia e di libertà
d’azione che avrebbe consentito di operare efficacemente per la
distensione aprendosi a tutti i possibili scambi economici, commerciali,
politici e culturali coi paesi del mondo intero 187. Ricorda Galante che
Tarchiani, sempre nel colloquio con De Gasperi, gli avrebbe riferito che
dopo la formazione del nuovo governo, Washington avrebbe mostrato
maggiore fiducia nei confronti della Dc, ma nutriva tuttavia ancora
preoccupazioni. Nell’ottica americana, infatti, la lotta contro l’Unione
Sovietica avrebbe postulato ormai un rapido allineamento dell’Italia nel
fronte dei “paesi liberi”, una sua decisa presa di posizione antisovietica e
quindi, all’interno del Paese, una ferma posizione riguardo il tripartito e
la costituzione di un gabinetto “omogeneo”. Le esigenze americane,
secondo Galante, ancora mal si conciliavano con quelle di De Gasperi
che si sarebbe sforzato di far capire i suoi problemi ai dirigenti e
all’opinione pubblica d’oltre Oceano, insistendo sull’importanza tipica
del “periodo di transizione” che l’Italia stava vivendo188. De Gasperi non
poteva più esitare: doveva agire entro una realtà che aveva
pazientemente contribuito a edificare e che ora, in campo internazionale,
lo trascinava forse più in là di quanto non sarebbe voluto inizialmente
andare. Inoltre, nella primavera del ’47 si sarebbero verificati nuovi e
significativi episodi di pressione e di condizionamento da parte del
Vaticano alla Dc. In aprile si sarebbero registrate, in numerose province,
187 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., p.293.
188 Severino Galante, op. cit., pp.109-110.
!101
cicli di “conferenze religiose” che avrebbero richiamato molta affluenza
di pubblico; contemporaneamente si sarebbero moltiplicati i contatti tra
Vaticano e Stati Uniti. Per l’Italia ciò, secondo Galante, avrebbe
comportato precise e concrete implicazioni: parlando con un alto
esponente americano il vice segretario di Stato della Santa Sede,
monsignor Tardini, sostenne che: «Il modo migliore per aiutare a
restaurare l’armonia interna in Italia era sia per l’America sia per la
Gran Bretagna di mostrare poca considerazione e pazienza per i leader
comunisti e la loro attività»189.
Alla fine di aprile era dunque ormai chiaro che tutti gli interessi che
contavano e influivano nella Dc avrebbero maturato una comune e
egualmente intensa volontà di estromettere le sinistre dalla direzione del
Paese: De Gasperi non era più costretto a temporeggiare e avrebbe
potuto agire con un buon margine di sicurezza, pur se con qualche
residua perplessità.
Le prime rappresaglie della crisi, scrive Galante, si ebbero col
radiodiscorso di De Gasperi del 28 aprile. Il presidente del Consiglio
parlò di un “soffio di panico e di follia” che percorreva il Paese e
proclamò la necessità di provvedimenti a favore dei ceti a reddito fisso e
dei risparmiatori, per poi concludere invitando i principali responsabili di
questa situazione – i grandi centri del potere economico e finanziario – a
dare la loro collaborazione concreta alla direzione del Paese190.
A giudizio di Galante il radiodiscorso costituisce la cosiddetta “svolta di
aprile”, ovvero un momento decisivo ove vennero espresse
pubblicamente le intenzioni del Partito democristiano, e che si sarebbero
tradotte, un mese più tardi, nell’estromissione delle sinistre dal governo.
189 Ivi, pp.113-114.
190 Ivi, p.158.
!102
In piena coerenza con i principi della dottrina Truman, il capo della
Democrazia cristiana terminò così il radiodiscorso del 28 aprile:
«Intendiamo difendere, con ogni sforzo, il regime democratico nella
libertà e nell’ordine, secondo i principi della nostra comune civiltà
cristiana» 191. Lo stesso giorno del radiodiscorso, Tarchiani ripartì per gli
Stati Uniti incontrandosi prontamente col responsabile degli affari
italiani, Walter Dowling che il 2 maggio così avrebbe sintetizzato la
conversazione avuta con il diplomatico italiano:
«Tarchiani mi ha spiegato che la maggior parte della sua permanenza
a Roma è stata occupata da discussioni con De Gasperi e altri leader
moderati sulla formazione di un governo senza i comunisti. C’è
ancora una considerevole esitazione e timore, poiché molti leader
politici pensano che il partito comunista sia già troppo forte per
essere combattuto in campo aperto. Ma De Gasperi, dice Tarchiani, fa
quello che può per persuadere i repubblicani, i liberali e i socialisti di
destra a stare con lui. Tarchiani mi ha detto anche che il risultato dei
suoi sforzi dipenderà in larga misura dalla quantità di appoggio che
un governo italiano non comunista riceverà dall’occidente»192 .
D’oltre Oceano c’era ancora chi, come scrive
Lepre, nutriva serie
preoccupazioni su una possibile caduta di De Gasperi e avvertiva quindi
l’urgenza di approntare adeguate misure politiche e economiche per
rafforzare nella penisola gli elementi filostatunitensi. Si trattava del
sottosegretario di Stato, George Marshall, il quale il 5 giugno 1947 disse
che gli Stati Uniti avrebbero dovuto porsi l’obiettivo della rinascita di
un’economia efficiente nel mondo così da permettere l’emergere di
quelle condizioni politiche e sociali nelle quali libere istituzioni
191 Ibidem.
192
Ivi, p.159.
!103
avrebbero potuto esistere. Il piano del sottosegretario di Stato americano,
che poi prese il suo nome, avrebbe voluto attestare la fiducia nella forza
del capitalismo e del mercato: sfidando l’Unione Sovietica e i paesi
dell’Est a una competizione di questo tipo, il governo statunitense cercò
di spostare il confronto dal terreno della politica a quello dell’economia,
dove sapeva di essere più forte193. Come scrive Galante, a confermare i
dubbi e i timori di Marshall, vi era un’altra personalità di spicco del
governo americano: l’ambasciatore a Roma James C. Dunn. Sin da
quando assunse la carica, nel febbraio del ’47, egli accreditò
sistematicamente presso il suo superiore le tesi degasperiane, prima
sostenendo la necessità di proseguire la collaborazione tripartita, in
seguito denunciando le responsabilità dei comunisti per il deterioramento
della situazione italiana; ora egli si diceva convinto che in Italia non
potevano aversi sviluppi favorevoli agli Stati Uniti finché non fosse stato
affossato il tripartito e consigliava quindi di non lasciare nessun dubbio
agli italiani sul fatto che l’instaurazione di un regime totalitario li
avrebbe tagliati fuori dalle relazioni con gli Stati Uniti. Nei giorni
seguenti, Dunn, a seguito di un colloquio con De Gasperi, avrebbe
suggerito a Marshall di intervenire sul leader democristiano per
rassicurarlo e indurlo a operare al più presto per “migliorare la situazione
e mettere la casa in ordine”, così da convincere il riluttante Congresso
americano dell’utilità di stanziare aiuti per l’Italia allineandosi alla
strategia dell’esecutivo194. In effetti, afferma Lepre, Marshall il 1°
maggio chiese all’ambasciatore a Roma se De Gasperi avesse già
pensato a un nuovo governo senza comunisti e socialisti e quali “passi
politici” il governo americano avrebbe potuto fare per “rafforzare le
193 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.287-289.
194 Severino Galante, op. cit., pp.160-161.
!104
forze democratiche e filoamericane”, tenendo presente l’importanza
dell’Italia per la “politica americana nel Mediterraneo” 195.
De Gasperi, scrive Galante, non era dunque un uomo solo quando, il 13
maggio del 1947, rassegnò le dimissioni a Enrico De Nicola, aprendo la
crisi la cui soluzione sarebbe tornata ben presto nelle sue mani,
permettendogli così di condurre in porto il progetto di estromettere le
sinistre dal governo con la costituzione il 30 maggio, di un monocolore
democristiano allargato ai liberali, definiti “tecnici”. De Gasperi affermò
nei giorni seguenti che ricevette un importante messaggio da parte del
direttore della Fiat, l’ing. Valletta, da poco tornato dagli Usa, riguardo al
fatto che l’America avrebbe voluto trovare in Italia la “stabilità
democratica”; ecco perché il capo della Dc ritenne utile e necessario di
inserire nel ministero qualche elemento tecnico-finanziario delle
destre 196. La reazione delle sinistre, a giudizio di Galante sarebbe stata
cauta, infatti il Pci affrontò la crisi di maggio sulla base dello schema
togliattano che ne faceva risalire l’origine a cause esterne piuttosto che
alla volontà di De Gasperi. Togliatti, nei giorni seguenti, si scagliò sulla
stampa con accenni fortemente critici nei confronti degli Stati Uniti e il
14 maggio, alla riunione del gruppo parlamentare comunista alla
Costituente, affermò:
«Vi sono correnti che ci vogliono escludere dal governo imbaldanzite
dall’esempio francese. La situazione non è del tutto identica. Il Pcf
non ha le nostre alleanze (es. col P.s.). Inoltre abbiamo alleanze
indirette con altri gruppi di sinistra. E poi esiste ancora l’unità
sindacale con la Dc. In Italia la borghesia reazionaria è più debole
che in Francia […] a nostro sfavore c’è la mancanza di una
195 Aurelio Lepre, op. cit., p. 282.
196 Severino Galante, op. cit., pp.162-163.
!105
tradizione democratica, e la tendenza degli interessi reazionari a
scendere subito sul terreno extra parlamentare»197 .
A giudizio di Martinelli, ciò che sfuggì a Togliatti e ai comunisti italiani
sarebbe stato di non considerare che l’espulsione dal governo dei
comunisti belgi prima e di quelli francesi poi, furono azioni che si
configurarono come espressioni della guerra fredda, che rivelava di fatto
il peso dei vincoli internazionali superando la diversità delle situazioni
nazionali. Il principale obiettivo che si posero i comunisti era quello di
uscire dalla crisi con una soluzione che non li vedesse totalmente
emarginati dalle posizioni governative.
Il 19 maggio, scrive Galante, l’impasse era già chiarissima e che non
sarebbe stato difficile
prevedere che la Democrazia cristiana sarebbe
tornata presto al potere 198. Quest’ultima,
tuttavia,
non manifestò in
modo ufficiale e reciso il suo diniego alla riedizione del tripartito:
soltanto il 22 maggio, afferma Galante, la Direzione democristiana si
espresse in questo senso e il giorno dopo, commissionato da De Gasperi,
apparse sull’edizione romana de «Il Popolo» un articolo di Giulio
Andreotti intitolato, senza mezzi termini: «Il tripartito no»199. In Italia si
stava ripetendo una situazione molto analoga a quella dell’11 marzo in
Belgio: la coalizione unitaria belga, presieduta dal socialista Huysmans e
costituita da socialisti, comunisti, liberali e tecnici, entrò in crisi sulla
scia di un’offensiva liberista in campo economico e sociale e i ministri
comunisti furono costretti a uscire dal governo 200. Poco dopo anche in
Francia si aggravarono i contrasti in seno al “tripartisme” con il governo
197 Renzo Martinelli, op. cit., p.203.
198 Ivi, pp.176-177.
199Ibidem.
200 Ivi, p.145.
!106
che entrò in crisi il 30 aprile: le cause scatenanti riguardarono una
discussione molto accesa su questioni coloniali e su uno sciopero di 20
mila operai della Renault scesi in piazza per il blocco dei salari. Allora il
governo presieduto dal socialista Ramadier, il 4 maggio, formò un nuovo
governo escludendo i ministri comunisti 201.
Nel frattempo in Italia la situazione politica era profondamente
modificata: dopo che De Gasperi cominciò a mettere la “casa in ordine”,
Tarchiani ritornò dagli Stati Uniti riportando al capo della Dc un
messaggio da parte di Marshall che recitava così: «De Gasperi può
contare sul risoluto sostegno morale degli Stati Uniti e sul fatto che noi
faremo un serio sforzo per aiutare l’Italia a fronteggiare le sue essenziali
necessità finanziarie» 202.
Afferma Galante, che i dirigenti comunisti, ovviamente, non erano a
conoscenza del fatto che De Gasperi ottenne finalmente dagli americani
quanto aveva con tanta perseveranza richiesto. Gli articoli de «l’Unità»
in quei giorni si limitarono a informare che De Gasperi iniziò le
consultazioni per un governo di “larga concentrazione”. Il 27 maggio
invece, il giorno seguente un colloquio svoltosi al palazzo della
Consulta, in cui De Gasperi dichiarò ai giornalisti che sarebbe stato
disposto a cercare soluzioni di altro genere prima di ammettere che tutte
le strade per risolvere la crisi gli erano sbarrate, «l’Unità» rispose
immediatamente:
«Una sola strada era la giusta: quella che nel rispetto della volontà
popolare, assicurasse al governo l’appoggio della maggioranza. Noi
201 Gianni Corbi, Cacciate i comunisti, in La Repubblica, 3 giugno 1997,
URL: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/06/03/cacciate-comunisti.html.
202 Severino Galante, op. cit., p.178.
!107
non dubitiamo della fede democratica del capo della Democrazia
cristiana.»203 .
Fu l’ultima volta, afferma Galante, che la stampa comunista attribuì a De
Gasperi la patente di democratico: “Cancelliere” sarebbe stata in seguito
la definizione additata al presidente del Consiglio204. Era il 30 maggio
1947: la Cgil rinnovava per altri sei mesi la tregua salariale stipulata il
27 ottobre 1946. Il nuovo accordo conteneva contropartite minime che
penalizzavano i lavoratori; la Confindustria usciva di fatto vincitrice. Il
giorno successivo invece, De Gasperi varò il suo quarto ministero
consecutivo e questa volta, con l’assenza di comunisti e socialisti dal
governo. Il capo della Dc nominò Vicepresidente del consiglio e ministro
del bilancio il governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, il simbolo
del “quarto partito”205.
«Isolato dalla democrazia e applaudito dai plutocrati» intitolò
«l’Unità», mentre la Segreteria del Pci invitava in un comunicato:
«Tutto il popolo a unirsi per esprimere apertamente la sua
disapprovazione, nelle forme legali proprie della democrazia, in modo
da rendere a tutti evidente che il grave errore commesso da chi ha
voluto creare questo governo deve essere corretto al più presto
nell’interesse supremo della Nazione»206 .
A giudizio di Lepre, la Dc non fece altro che seguire una sua linea
scandita dal realismo politico dei suo quadri dirigenti per cui, assolvere
203
Ivi, p.180.
204 Ibidem.
205 Sandro Magister, op. cit., p.94.
206
Severino Galante,op. cit., pp.182-183.
!108
la funzione di garante degli Stati Uniti e di partito moderato in Italia, fu
una scelta tattica e alla fine vincente207. D’altro canto gli Stati Uniti non
avrebbero mai concesso aiuti finanziari all’Italia con i comunisti ancora
al governo, soprattutto dopo che la minaccia della guerra fredda
aumentava di giorno in giorno, Washington, come aveva già
diversamente richiesto, necessitava una sicurezza politica in Europa e
soprattutto nei paesi laddove i loro aiuti sarebbero stati più ingenti. Per
Martinelli invece, l’esclusione delle sinistre, non solo in Italia, dal
governo non si trattò esclusivamente di una conseguenza della guerra
fredda, bensì di una sua precisa espressione: la presenza al governo dei
comunisti non sarebbe stata più tollerabile208. Tutto ciò provocò una
sorpresa nel Partito comunista (e non solo in quello italiano), al quale la
situazione generale non pareva ancora così compromessa. Gli stessi
sovietici, secondo Martinelli, sembrarono relativamente all’oscuro
dell’imminenza di questa azione “epurativa” ed è infatti solo dopo
questo attacco che venne costituito, nel settembre, il Cominform: esso
sarebbe dovuto apparire una risposta alla politica americana e, nello
stesso tempo, come lo strumento utile per omogeneizzare i vari governi
comunisti dell’Europa orientale 209.
Nei mesi successivi, scrive Lepre, con il clima politico internazionale
sempre più teso, c’era chi spingeva a un duro confronto, senza
preoccuparsi delle possibili conseguenze. Nel dicembre del 1947 Gorge
Kennan, uno dei maggiori ispiratori della politica di contenimento, si
chiese se non fosse stato preferibile per il governo italiano mettere fuori
legge il Partito comunista e prendere decise iniziative nei confronti di
207 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, cit., pp.300-301.
208 Renzo Martinelli, op. cit., p.200.
209 Ibidem.
!109
esso prima delle elezioni: egli era consapevole del clima di violenza che
avrebbe causato ma almeno, secondo la sua logica, si evitava così il
pericolo di una vittoria elettorale che avrebbe dato ai comunisti l’intera
penisola in un solo colpo. È probabile, continua Lepre, che da parte di
George Kennan ci fosse l’intenzione di eliminare all’interno del blocco
occidentale tutte le possibili “quinte colonne”. Ma con l’avvio del piano
Marshall prevalsero, nell’amministrazione americana, le forze che
puntavano a una competizione prevalentemente economica210.
Ora, con la fine del compromesso storico e il fallimento della strategia
tripartita che aveva di fatto trascinato il Pci all’opposizione, quale sarà la
nuova strategia che adotterà il Partito comunista considerati i tempi
piuttosto brevi?
3.4.Una nuova fase politica:
il Pci all’opposizione
La mossa degasperiana di estromettere le sinistre dal governo, sottolinea
Galante, fu interpretata da parte del Pci come un “colpo di mano”. Fu
immediatamente convocata una riunione della direzione che si tenne dal
3 al 5 giugno, che approvò una risoluzione che conteneva i risultati del
lungo ripensamento collettivo del vertice comunista211. L’analisi, che
prendeva le mosse da un confronto tra la crisi di gennaio e quella di
maggio, ravvisava ora all’origine di entrambe un “deliberato proposito”
e un “piano” di De Gasperi, deciso a costituire un “governo di blocco
210 Ivi, pp.294-295.
211 Severino Galante, op. cit., p.184.
!110
con le forze conservatrici e reazionarie”212. In effetti, scrive Martinelli, le
due crisi svoltesi a così breve distanza di tempo l’una dall’altra, devono
essere esaminate in stretta connessione, poiché l’esito positivo della
prima, con la ricostituzione di un governo di unità antifascista, ebbe un
effetto preciso nella sottovalutazione della seconda da parte
dei
comunisti. La seconda crisi, nel marzo 1947, fu fortemente influenzata
dall’acuita tensione tra Usa e Urss e la posizione del Pci al governo
diventò sempre più precaria. Ma, secondo Martinelli, fu la situazione
economica che assunse, nei primi mesi del ’47, un peso essenziale nelle
vicende italiane: il costo della vita aumentava, seguendo l’inflazione e
provocando un’ondata di agitazioni e di manifestazioni per lo più
spontanee213. Il governo si trovò stretto tra queste pressioni: la necessità
di varare misure efficaci contro l’inflazione, come chiedevano
insistentemente Einaudi e la Confindustria, portarono a una drastica
riduzione delle spese. Il Partito comunista appariva sempre più come un
ostacolo, ma il vertice comunista sembrò non immaginare il corso
imminente delle cose, dimostrando una consapevolezza della situazione
influenzata dal recente successo della prima crisi e dalle sue stesse
aspettative214.
Il Comitato Centrale del Pci, che si riunì a fine luglio, afferma Galante,
avrebbe avallato, facendola propria, la risoluzione emersa dalla riunione
della direzione agli inizi di luglio. Dall’analisi emersero due ipotesi:
quella del “ravvedimento” degli stessi dirigenti democristiani dotati di
“senso della loro responsabilità davanti al Paese”, oppure quella del
ricorso alle urne il più presto possibile affinché la volontà popolare
212 Ibidem.
213 Renzo Martinelli, op. cit., pp.210-211.
214 Ivi, pp.213-214.
!111
prevalesse “imponendo il ritorno a una politica di unità e di ricostruzione
democratica e repubblicana nell’interesse dei lavoratori e di tutta la
nazione”215. Una ricostruzione che avrebbe dovuto quindi, secondo le
suddette risoluzioni, seguire vie democratiche. Venne nuovamente
ammonita, scrive Lepre, quella minoranza di militanti che pensava, mai
come in quel momento, ad un ricorso alla violenza216. Secondo la
direzione del Pci, sottolinea Galante, per sventrare il “colpo di mano”, i
comunisti avrebbero dovuto mantenersi saldamente ancorati alla linea
politica: una linea democratica nazionale, costruttiva e unitaria lungo la
quale, in stretto contatto con le masse, essi si proponevano di
raggiungere gli obiettivi più volte indicati e di riaprirsi anche la porta del
governo217. La direzione del partito ammise però che tale unità nei mesi
precedenti era in parte mancata. Per tale motivo, come scrive Lepre, si
sarebbe dovuto porvi rimedio, eliminando ogni forma di settarismo verso
i socialisti e rifuggendo dall’inane e demagogico anticlericalismo nei
confronti dei lavoratori democristiani, la cui collaborazione andava
invece sollecitata in ogni campo per ottenere un ritorno ad un governo in
cui fossero rappresentate tutte le correnti politiche dei lavoratori218.
Secondo Galante, nella pratica quotidiana queste nuove direttive furono
subito applicate: comizi all’uscita dai cantieri di lavoro, assemblee,
telegrammi, ordini del giorno di protesta contro la costituzione del
monocolore democristiano. Gli scioperi non furono molti: quello più
consistente si svolse nelle industrie della provincia di Terni 219. Quanto
215 Severino Galante, op. cit., p.185.
216 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.84.
217 Severino Galante, op. cit., 187.
218 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.87.
219 Severino Galante, op. cit., p.188.
!112
alla volontà unitaria, essa ebbe modo di manifestarsi nel corso del primo
e unico Congresso unitario della Cgil, che si tenne a Firenze proprio a
ridosso della crisi di governo, dall’1 al 7 giugno 1947. In un’assemblea
carica di tensione, Giuseppe Di Vittorio e gli altri massimi dirigenti della
corrente comunista e socialista si sforzarono di mantenersi su un terreno
conciliante con la corrente democristiana, di smussare gli angoli, di
trovare un accordo, un compromesso: era convinzione diffusa che si
dovesse evitare a ogni costo una scissione sindacale che, nella nuova
situazione politica, avrebbe potuto dare acqua al mulino alla strategia
degasperiana e avrebbe dimostrato l’assoluta impossibilità di convivenza
e di collaborazione tra le sinistre e i democristiani. L’unità sindacale
appariva per il Pci un baluardo contro le manovre reazionarie e un
possibile trampolino per rilanciare la collaborazione governativa. Nella
politica del Partito comunista, unità sindacale e unità politica erano state
strettamente saldate fin dai tempi di Salerno, ma il primato era stato
attribuito all’unità tra i partiti220. Adesso, con la rottura dell’unità
politica, nella visione del Pci, l’unità sindacale si mostrava
indispensabile per ritornare ad un’unità governativa. Veniva invertita la
formula ma non la sostanza.
Concluso il Congresso, scrive Galante, Di Vittorio intervenne sul
quotidiano comunista con un articolo che esaltava ulteriormente il
carattere unitario dell’assise sindacale di Firenze, individuandone
l’aspetto più nuovo proprio nella “raggiunta unità” tra proletariato e ceti
medi. Infine, il segretario generale comunista della Cgil così concludeva:
«Il fatto che sulla soluzione di problemi così complessi e gravi sia
stata possibile una votazione unanime costituisce una dimostrazione
clamorosa del rafforzamento dell’unità dei lavoratori italiani. Si
220 Ibidem.
!113
mettano l’anima in pace quei reazionari italiani e stranieri che
attendevano dal nostro Congresso chissà quali fratture. La Cgil è oggi
più unita che mai, come strumento di difesa e di conquista del pane e
dei diritti dei lavoratori, e come baluardo invincibile delle libertà
democratiche e della nostra Repubblica»221.
A parte qualche giudizio troppo dettato dall’ideologia di Di Vittorio,
l’avere salvato l’unità sindacale, avrebbe rappresentato di fatto un punto
a favore della linea politica comunista. Viceversa, un problema per il
quale non maturarono in quel periodo momenti di svolta né apparenti né
reali, era stato e rimaneva quello della crescita organizzativa e politica
del partito e del suo processo – troppo lento – che poneva grossi
interrogativi riguardo alla sua capacità di reagire, di operare
efficacemente e con mete precise nella nuova situazione di opposizione.
Il 5 giugno Pietro Secchia avvertiva i dirigenti delle federazioni
provinciali che: «non bisognava perdere di vista per un solo momento il
fatto che l’obiettivo da raggiungere nei prossimi mesi era la conquista
della maggioranza del popolo alla democrazia». Secchia indicava anche
il modo in cui bisognava perseguire questo obiettivo:
«il conservatorismo e le lentezze burocratiche di molte organizzazioni
periferiche devono essere rapidamente eliminate; l’empirismo e la
faciloneria devono lasciare il posto a un’analisi attenta, scientifica,
delle fluttuazioni degli iscritti, degli strati sociali tra i quali era più o
meno difficile reclutare nuovi aderenti. In sostanza, il partito deve
radicarsi veramente fra tutti i ceti e essere presente e attivo in tutti i
luoghi del paese, nel quartiere e nelle fabbriche, nel sindacato e nella
cooperativa, nelle osterie e nelle società sportive, collegandosi
direttamente ai bisogni, alle esigenze, alle rivendicazioni concrete di
ogni tipo della popolazione. Ma per fare ciò, occorre potenziare
quantitativamente e qualitativamente gli attivisti, fornire al partito di
massa quadri sempre più preparati politicamente e ideologicamente e
quindi, capaci di orientarsi in qualsiasi situazione, capaci di
interpretare le direttive del partito, il mutamento anche rapido dei
221
Ivi, pp.190-191.
!114
nostri atteggiamenti, capaci di lottare e di combattere nelle situazioni
più difficili»222.
Secchia, come ricorda Galante, non avrebbe dunque annunciato alcun
cambiamento della linea politica del partito; ribadendo piuttosto la
continuazione e l’intensificazione della linea unitaria nonostante
l’esclusione dal governo223. Un’attenta critica alla linea politica di unità
nazionale del Pci di quegli anni, è stata svolta da Lepre, facendo notare
che la fine dell’unità nazionale non sarebbe stata dovuta soltanto alle
pressioni che venivano dall’evoluzione della situazione mondiale. In
verità una vera unità nazionale, già non sarebbe più esistita a termine
della guerra a causa della spaccatura economica e sociale del Paese
diviso in due parti da tensioni crescenti, che nel 1947 stavano portando
la sperequazione tra le classi a un punto di estrema acutezza. In altre
parole, i braccianti e gli operai italiani si sarebbero sentiti più vicini agli
operai e ai contadini sovietici che agli industriali e questi, a loro volta,
avrebbero percepito una coesione di classe col resto del mondo
capitalistico più forte rispetto a un senso unitario con una parte
consistente delle masse popolari che si sarebbero schierate a favore di
una trasformazione socialista. La frattura profonda che attraversava la
società italiana sarebbe stata fin da principio molto grave 224.
Nel corso della crisi di maggio i particolari del quadro internazionale
sembravano essere sfuggiti al Pci. I soli punti fermi dell’analisi, scrive
Galante, sarebbero stati il giudizio negativo sulla dottrina Truman e la
222
Ivi, pp.192-193.
223 Ibidem.
224 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.89.
!115
denuncia dell’ingerenza americana negli affari interni italiani e di altri
paesi dell’Europa centro-occidentale. In seguito la stampa comunista
avrebbe parlato del piano Marshall come di una prosecuzione della
dottrina Truman e di uno strumento per la divisione dell’Europa e
l’affermazione del dominio americano sulla parte occidentale del
continente: citando giudizi di quotidiani inglesi e americani, senza mai
impegnarsi in prima persona nel giudizio225. Questo atteggiamento non
sempre lineare, avrebbe caratterizzato la posizione del Pci anche rispetto
all’altro grande problema della politica estera dell’Italia: la ratifica del
trattato di pace. Infatti, scrive Galante, fino a giugno la posizione dei
comunisti sarebbe stata quella di una ratifica immediata del trattato di
pace, considerandoli atti dolorosi ma indispensabili per un pieno
recupero dell’indipendenza nazionale. Ancora il 7 giugno 1947,
commentando l’avvenuta ratifica del trattato di pace con l’Italia da parte
del Senato americano, «l’Unità» avrebbe attaccato aspramente Alberto
Tarchiani accusandolo di aver svolto una “politica nefasta” mirante a
convincere i massimi esponenti statunitensi a respingere il trattato al fine
di prolungare l’occupazione straniera nel Paese. Ma un mese più tardi,
quando Pietro Nenni avrebbe contestato la richiesta governativa di
ratificare il trattato con la procedura d’urgenza, il Pci avrebbe appoggiato
tale richiesta con la tesi che la ratifica italiana dovesse essere rinviata in
attesa che anche l’ultimo dei tre Grandi, l’Unione Sovietica, depositasse
la propria firma, perfezionando così il trattato 226. L’incoerenza formale
appariva quindi evidente, anche se parallela a quella della Democrazia
cristiana che, dopo aver inizialmente osteggiato la firma quando il Pci
era invece a favore, avrebbe preteso e ottenuto in un secondo momento
225 Severino Galante, op. cit., pp.196-197.
226 Ibidem.
!116
dall’Assemblea Costituente, la ratifica immediata. Per spiegare questo
improvviso cambio di rotta, Galante afferma, che la ratifica immediata,
sollecitata dagli Stati Uniti, avrebbe rappresentato una inequivocabile
scelta di campo proprio nel momento in cui a Parigi si stava per
approvare il piano Marshall227. Ratificare subito voleva dire aprire la
strada dell’adesione italiana al piano di aiuto economico statunitense e di
conseguenza accelerare il processo di integrazione dell’Italia nel blocco
americano. Sul piano politico sostanziale la posizione assunta dal Pci
non sarebbe stata affatto contraddittoria, ma avrebbe tuttavia rivelato che
nella sua riflessione il gruppo dirigente comunista, nell’estate del ’47,
stava attraversando una fase di ripensamento che non era ancora
approdata a conclusioni pienamente definite né sulla questione di ordine
interno né sulle questioni di ordine internazionale 228.
Nei giorni successivi, si riunì il Comitato Centrale del Partito comunista:
la discussione si sarebbe incentrata sui problemi e sui compiti che la
costituzione del quarto gabinetto De Gasperi poneva ai comunisti.
Introducendo i lavori, Togliatti avrebbe individuato la causa della nuova
situazione determinatasi in Italia in motivi di ordine internazionale. A
suo parere era in atto una “ripresa offensiva” delle maggiori forze
“monopolistiche” e imperialistiche del mondo, volta ad arrestare e a
distruggere in tutti i paesi dell’Europa occidentale “l’avanzata
impetuosa” delle forze popolari verso “una democrazia di tipo nuovo”229.
A questo punto Togliatti si sarebbe chiesto quali prospettive si aprissero
all’Italia e al partito dopo che la scissione del Partito socialista e la
prevalenza delle forze di destra nella Democrazia cristiana aveva reso
227 Ivi, p.198.
228 Ibidem.
229 Ivi, pp.199-200.
!117
possibile a De Gasperi di attuare la rottura della “coalizione antifascista
e repubblicana”, infliggendo, a detta di Togliatti, un “grave colpo” alla
democrazia. Egli avrebbe ricordato che fino a quel momento il Pci aveva
lottato fissandosi questa prospettiva storica:
«Istituire una democrazia progressiva e cioè operare una grande
trasformazione democratica dell’Italia attraverso una lotta legale
che, per l’ampiezza del fronte democratico che ad essa partecipava,
permettesse di intaccare profondamente il potere dei gruppi
monopolistici e latifondisti del nostro Paese, aprendo al nostro Paese
la via pacifica a ogni progresso. Tutto ciò significava, in sostanza,
trovare una nuova strada per l’avvento del socialismo. Resta oggi
ancora valida questa prospettiva?»230 .
Togliatti negò che al quesito si potesse dare una risposta netta e rispose
solamente che la prospettiva di un regime di “democrazia progressiva”
sarebbe rimasta, ma a determinate condizioni231. Quest’obiettivo era
irraggiungibile in un mondo diviso in blocchi contrapposti; Togliatti però
continuava a negare, nell’estate 1947, che i blocchi si fossero già definiti
e diagnosticava ancora possibile la validità della strategia comunista
ritenendo attuabile la politica di larga unità democratica che egli
indicava come condizione essenziale per battere le forze reazionarie e
trasformare la struttura sociale italiana. Gli sarebbe dunque sfuggito il
fatto che la frattura interna non era stata determinata prevalentemente
dalla pressione esterna, ma sarebbe stata semmai sollecitata e favorita da
questa e poi, intersecandosi col processo di polarizzazione
internazionale, sarebbe stata da essa convalidata e rafforzata232.
230
Ibidem.
231 Ivi, p.200.
232 Ibidem.
!118
Il Partito comunista avrebbe insistito, afferma Galante, sull’importanza
delle sinistre democristiane, ritenute legittime rappresentanti degli operai
cattolici, i quali
in quanto operai erano considerati per definizione
portatori di socialismo indipendentemente dal partito in cui si
organizzavano e dall’ideologia che li orientava233. Ma tale credibilità alle
sinistre democristiane sarebbe potuta apparire in questo periodo più che
fuorviante. Già Antonio Gramsci scrisse che le espressioni “destra,
sinistra e centro” non significavano nulla all’interno di un partito come
quello Popolare. Si potrebbe però obiettare che era passato molto tempo
dal febbraio 1924 e che la Dc era tutt’altra cosa rispetto al Partito
popolare italiano. Ma resta comunque il fatto che le sinistre
democristiane erano e rimanevano correnti di un partito all’interno del
quale si collocavano all’opposizione con le più disparate motivazioni,
per poi svolgere un ruolo sostanzialmente funzionale rispetto alla linea
esterna del predominante gruppo
degasperiano234. Prima di adottare
qualsiasi linea di condotta nei confronti della Democrazia cristiana,
secondo Galante, i comunisti avrebbero dovuto prendere la
consapevolezza del processo che aveva subito la Dc nel corso degli anni
e accorgersi, al più presto, di ciò che stava effettivamente diventando.
Confidare nelle sinistre democristiane sarebbe stato dunque fonte di
delusioni, che avrebbero contribuito a spiegare le incertezze della linea
seguita dal vertice del Pci nel bimestre giugno-luglio 1947.
Galante cita una testimonianza molto importante riguardo il discorso
conclusivo di Palmiro Togliatti al Congresso provinciale della
federazione comunista padovana. Padova era una delle provincie più
“bianche” d’Italia: il Pci vi aveva raccolto soltanto 45 mila voti contro i
233 Ivi, p.201.
234 Ivi, p.209.
!119
240 mila della Dc. Era dunque del tutto naturale che il leader del Pci
ponesse al centro delle sue osservazioni la questione democristiana e
indicasse come affrontarla. Conoscere l’avversario, le radici della sua
forza, la natura della sua organizzazione, avrebbe costituito una
condizione preliminare per fare concretamente politica. Sarebbe stato
dunque necessario capire come era organizzata la Dc e come era
organizzata la popolazione.
«Se voi faceste questo studio, vedreste che l’organizzazione della
Democrazia cristiana è una cosa abbastanza scarsa come numero e
come forza. Trovereste invece un’infinità di altre organizzazioni in cui
è organizzata la massa popolare e nella quale la Democrazia
cristiana ha un’influenza: Associazione dei Reduci, Combattenti,
Cooperative, ecc. I democristiani non sono forti organizzativamente
ma si servono di tutte le altre organizzazioni per abbracciare la
massa. Essa è così forte perché attraverso molteplici forme di
organizzazione riesce a fare qualche cosa a favore delle masse, ad
accrescere il proprio prestigio ai loro occhi»235.
Le organizzazioni che Togliatti elencava, afferma Galante, erano quelle
sportive, ricreative, culturali e assistenziali, di cui sicuramente la Dc sul
piano del voto si serviva. Ma per Togliatti, scrive Galante, la forza
principale della Dc nelle regioni a forte influenza cattolica aveva radici
esterne al partito democristiano: proveniva soprattutto dalla Chiesa, dalle
parrocchie e dai preti.
«L’attività del prete doveva essere, in qualche modo, un modello
anche per la sezione comunista […] anche il prete la predica la fa
alla domenica, ma il lavoro lo fa durante la settimana. Il prete si
interessa per far mandare un bambino alla colonia. Fa oggi un
piacere, domani un altro e così lega a sé la popolazione. Questo non
può farlo da solo il Segretario della sezione. Egli deve far fare questo
235
Ivi, p.202.
!120
lavoro a tutti gli iscritti della sua sezione. Ognuno deve avere i suoi
compiti»236.
Il parallelo di Togliatti tra il prete e il segretario della sezione è pregno
di significato. Ciò non solo perché indica nella struttura ecclesiastica un
modello, facendo della sezione comunista il contraltare laico della
parrocchia e non della sezione democristiana, ma anche perché definisce
in maniera esemplare il tipo di “quadro” periferico e di “attivista” che il
gruppo dirigente comunista intendeva modellare come estreme
propaggini del “Partito nuovo” e rivela nella questione della
cooperazione il problema maggiore: un vero e proprio nodo irrisolto del
partito che ne ostacolava di fatto la comunicazione. Nell’ottica
togliattiana dunque, il prete assumeva una rilevanza particolare e non
solo per la sua attività “ideologica” (la predica), quanto piuttosto per la
sua opera quotidiana che lo assimilava a una sorta di funzionario a tempo
pieno della Democrazia cristiana. E funzionari siffatti, sottolinea
Galante, sarebbero stati presenti ovunque, anche nei più sperduti paesi
dove la sezione comunista non si era ancora costituita o stentava a
formarsi. Questo significava fare i conti con concorrenti capaci e
attivissimi di fronte ai quali occorreva mettere in campo tutte le forze
disponibili: occorreva, insomma, che il partito di massa diventasse un
partito di mobilitazione delle masse, passando attraverso la fase
intermedia della mobilitazione degli iscritti e degli aderenti. Ancora più
difficile da compiere poi, era il passo successivo, ossia impiegare fuori
dal partito forze raccolte secondo l’esempio del prete: affidare a ogni
iscritto un compito preciso e usarli tutti insieme per risolvere le grandi
questioni agitate dal Pci. La mancata soluzione di questo problema
236
Ivi, p.212.
!121
avrebbe comportato il rischio dell’isolamento settario e il consolidarsi
della tendenza del partito a crescere su se stesso senza tuttavia riuscire a
proiettarsi verso l’esterno. Ciò avrebbe impedito di trasformare
l’organizzazione in una lotta da mero scontro ideologico o polemica
provocatoria e controproducente, a veicolo per un confronto anche aspro
con le altre forze politiche, ma sempre in grado di formulare e praticare
proposte costruttive di natura generale, capaci di unire i più vasti
consensi. Se a questi elementi di difficoltà, scrive Galante, si aggiungeva
il fatto che la maggior parte delle federazioni provinciali erano dirette da
elementi che Togliatti definiva conservatori, vale a dire vecchi quadri
della clandestinità restii a impegnarsi senza riserve sul nuovo terreno
indicato dal leader e poco propensi a favorire il rinnovamento dei gruppi
dirigenti periferici, allora il quadro dei problemi del partito apparve in
tutta la sua complessità237.
L’idea che si prospettasse un anno di dure lotte e un periodo di
opposizione di durata imprecisabile, stava conquistando
progressivamente terreno nel gruppo dirigente comunista. Togliatti
espose chiaramente le sue idee per costruire bene un’agitazione popolare
affermando che:
«La prospettiva più immediata è che i movimenti di massa tendano
ad estendersi e ad intensificarsi. […] Nelle città e nelle campagne la
vita tende a farsi dura […]. Bisogna essere pronti perciò a fare sì che
questa grande spinta dal basso che è già in atto ma che tende a farsi
più forte e pressante si trasformi, in concomitanza coi lavori della
Costituente, in un potente fattore di progresso civile. […] Spetta a noi
comunisti, guida del popolo, dare coscienza, ordine e unità al grande
movimento in corso. […] Tenersi a più stretto contatto con le masse.
[…] Le masse vanno continuamente consultate, vanno interrogate,
nessuna decisione importante può essere presa senza prima averne
sentito il polso. […] Per condurre bene un’agitazione bisogna innanzi
237 Ivi, p.213.
!122
tutto prepararla bene […]. Con le azioni di massa non si scherza.
Come non si giuoca alla guerra, così non si giuoca allo sciopero.
Bisogna essere realistici, non proporsi obiettivi irraggiungibili o assai
difficilmente raggiungibili.»238.
Nell’analisi compiuta da Togliatti, non sarebbe stata messa in
discussione la linea politica del partito, ma sarebbe stata svolta
un’autocritica sulla sua organizzazione e si rilanciava un periodo nuovo.
Con la fine del tripartito, il Pci nell’estate del 1947 dovette studiare ed
elaborare una nuova strategia, basata sul proseguimento di due strade
complementari: una interna, e quindi la riorganizzazione del partito, dai
suoi quadri alle sue sezioni, prendendo come esempio la complessa e
articolata organizzazione della Democrazia cristiana, analizzata, come
abbiamo visto nella riunione della federazione provinciale tenutasi a
Padova. L’altra strada era orientata alla riorganizzazione esterna, vale a
dire al rapporto del partito con le masse per condurre un periodo di lotte
ben strutturate. Democrazia progressiva e “Partito nuovo” di massa
sarebbero stati dunque, scrive Polo Ciofi, i due pilastri della strategia di
Togliatti239 ed essi, si sarebbero dovuti personificare nella Costituzione
italiana. Tuttavia questa strategia non avrebbe portato al conseguimento
dell’obiettivo massimo in tempi brevi, ma avrebbe richiesto diversi anni.
Tale visione, assolutamente realistica, era largamente accettata dai
dirigenti comunisti, che erano più che consci del lungo periodo che
sarebbe dovuto trascorrere per il raggiungimento dell’obiettivo ultimo,
quale la “democrazia progressiva”. In altre parole, senza troppo
ideologizzare, la “Realpolitik” dei dirigenti comunisti li conduceva a
238
Ivi, p.135.
239 Paolo Ciofi, op. cit., p.2.
!123
prendere atto che la nuova strategia politica sarebbe stata proiettata verso
il futuro e non per il 18 aprile 1948 (un futuro troppo vicino). Ma,
elezioni a parte, il Partito comunista avrebbe avuto ancora una “carta” da
giocare, ancor più utile alla sua nuova strategia: la stesura della
Costituzione.
!124
CAPITOLO QUARTO
La Costituzione repubblicana nell’ottica del Pci:
una “terza via” per la strategia comunista?
“Dà un giudizio, la Costituzione, un
giudizio polemico, un giudizio negativo
contro l’ordinamento sociale attuale, che
bisogna modificare attraverso questo
strumento di legalità, di trasformazione
graduale, che la Costituzione ha messo a
disposizione dei cittadini italiani. Ma non
è una Costituzione immobile che abbia
fissato un punto fermo, è una Costituzione
che apre le vie verso l’avvenire. Non
voglio dire rivoluzionaria, perché per
rivoluzione nel linguaggio comune
s’intende qualche cosa che sovverte
violentemente, ma è una Costituzione
rinnovatrice, progressiva, che mira alla
trasformazione di questa società.”
Piero Calamandrei
4.1.Il Pci e la Costituzione
A partire dall’estate del ’45, secondo Martinelli, Togliatti si sarebbe
posto due obiettivi immediati: strutturare il V Congresso e giungere alla
Costituente; quest’ultimo particolarmente era ritenuto il compito più
importante e significativo di quel momento. Come abbiamo già visto,
ambedue gli obiettivi slittarono nel tempo. Il Congresso, previsto per la
fine di quella estate, subì una serie di ritardi fino ad essere rinviato al
!125
dicembre 1946. Mentre il secondo obiettivo, la Costituente, slittò al 2
giugno del ’46240.
I lavori dell’Assemblea Costituente si svolsero da giugno ’46 al
dicembre ’47 con vivaci discussioni tra i rappresentanti delle diverse
correnti politiche. Rispetto ai diversi appelli dei costituenti di rifarsi a
modelli stranieri, come quello anglosassone o statunitense, sottolinea
Lepre, Togliatti ritenne che tali costituzioni avessero valore
esclusivamente nei paesi in cui erano storicamente sorte. Lepre
sottolinea come il segretario del Partito comunista non avrebbe posto tale
contrarietà a una mera concezione ideologica, dal momento che lo stesso
Togliatti avrebbe preso le distanze dalla costituzione sovietica,
evidenziando le differenze tra Italia e Urss:
«La Costituzione sovietica ha un carattere preciso: essa codifica in
norme lapidarie un fatto uscito da una rivoluzione, codifica una
situazione creata attraverso un’attività rivoluzionaria durata venti
anni. In Italia non solo non c’è stata una rivoluzione, ma tutti
ritengono che nelle condizioni attuali, dati i rapporti politici attuali di
classe, nazionali ed internazionali, dell’Italia e di tutta l’Europa, sia
possibile arrivare a una profonda trasformazione sociale seguendo un
cammino differente»241 .
In questo discorso di Togliatti, a giudizio di Lepre, sarebbe emersa la
preoccupazione del leader comunista di preservare, coerentemente con la
linea del suo partito, l’unità nazionale con la partecipazione di tutte le
forze democratiche del Paese. Ma preservare tale unità, obietta
Martinelli, sarebbe stato possibile solo fino ai primi mesi del ’47, cioè
alla vigilia della crisi di governo che segnò la fine della politica di unità
240 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. “Il Partito nuovo” dalla liberazione al 18
aprile, Torino, 1995 p.10.
241 Aurelio
Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.94.
!126
nazionale. Nelle altre sedute dell’Assemblea Costituente, la maggior
parte delle votazioni sui singoli articoli avvenne quindi successivamente,
in un clima assai mutato rispetto agli inizi, e anche se la convergenza tra
i partiti di massa si affermò ancora su molti punti essenziali, non c’è
dubbio che per i comunisti la situazione, nella parte conclusiva dei
lavori, fu assai più ardua.
Successivamente, man mano che la Democrazia cristiana avrebbe
sottolineato le distanze tra i due partiti di massa, i quadri dirigenti del
Partito comunista, in notevole ritardo, avrebbero preso le dovute misure
cautelative anche nelle diverse sedute dell’Assemblea Costituente. A tal
proposito si può riportare uno stralcio dell’intervento di Togliatti
all’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947:
«In questo momento se faccio uno sforzo per rievocare l’assieme del
dibattito, non riesco a sfuggire a un senso di perplessità e sorge in me
questa domanda: siamo noi veramente riusciti, non come singoli ma
come Assemblea – la prima grande Assemblea democratica italiana –
siamo noi effettivamente riusciti ad affermare e a porre al necessario
la prima e principale questione che sta davanti a noi e che dibattiamo
davanti al popolo? Quale sia questa questione ritengo sia chiaro per
tutti. La domanda alla quale dobbiamo dare una risposta è questa:
quale Costituzione dobbiamo dare all’Italia? È evidente. Quella di cui
l’Italia, in questo momento particolare, determinato, concreto della
propria storia ha bisogno. Ma di quale Costituzione ha bisogno oggi
l’Italia?»242.
In effetti, come sottolinea Martinelli, un chiarimento sul tipo di
Costituzione che il Pci avrebbe voluto fare, doveva essere svolto prima
all’interno del partito. Infatti, lo stesso Togliatti, nel corso della riunione
del Comitato Centrale del febbraio 1947, esaminò, sulla base di una
242Palmiro Togliatti,
Intervento all’Assemblea Costituente, Bologna, 2014,
URL: http://www.istitutodegasperi-emilia-romagna.it/pdf/seminari2014_togliatti.pdf.
!127
relazione di Ruggero Grieco, il progetto di Costituzione elaborato dalla
“commissione dei 75”, prima che venisse discusso nell’assemblea
generale, rilevando questo dato:
«Su tutte le questioni della Costituzione non esiste fino ad oggi una
posizione della direzione del partito. Non abbiamo ritenuto che
valesse la pena fare una riunione precedente della direzione e andare
in Assemblea con una linea già fissata per ogni questione, perché ciò
avrebbe avuto un grande svantaggio: nel CC non si sarebbe forse più
discusso. Le sole posizioni che ci impegnano sono quelle già stabilite
in risoluzioni del partito e precisamente la risoluzione del V
Congresso; altre sul problema costituzionale non ve ne sono»243.
Afferma Martinelli, da quel momento il Comitato Centrale, assieme al
gruppo parlamentare, avrebbe elaborato una linea che avrebbe
impegnato tutto il partito nei lavori preparatori dell’Assemblea
Costituente244.
Nella stessa seduta dell’11 marzo, scrive Lepre, intervenne anche
Giorgio La Pira, illustrando una sua idea della Costituzione, che partiva
dalla base economica e arrivava all’unione con Dio: “una casa costruita
secondo il principio cristiano, ma fatta per tutti gli uomini di buona
volontà, credenti o non credenti, perché fatta per l’uomo”. Un
programma che rispecchiava l’appartenenza democristiana di La Pira.
Come del resto fu il programma proposto dall’altro democristiano Guido
Gonella nell’aprile ’46, nel quale era delineato il progetto di una
Costituzione d’ispirazione cristiana, non di confessione religiosa ma “del
243
Renzo Martinelli, op. cit., p.264.
244 Ibidem.
!128
popolo italiano che è un popolo cristiano e che perciò non può volere
uno Stato laico e agnostico” 245.
La questione religiosa, e in particolare quella riguardo i rapporti con la
Chiesa cattolica, era molto più delicata di quanto si potesse pensare. Tale
discussione, scrive Magister, iniziò il 21 novembre 1946 nella prima
sottocommissione dell’Assemblea Costituente. Come emerge nei capitoli
precedenti, tuttavia, il Partito comunista non aveva alcuna intenzione di
contrastare i rapporti con la Santa Sede: si poneva anzi l’obiettivo di
promuovere e tutelare la “pace religiosa”. Fu lo stesso Togliatti, che
intervenendo in Assemblea Costituente, propose una formula che
avrebbe dovuto soddisfare le esigenze di tutti: «Lo Stato riconosce la
sovranità della Chiesa cattolica nei limiti dell’ordinamento giuridico
della Chiesa stessa. I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono regolati
in termini concordatari»246. Ma venne respinta per 10 voti contro 7, e
venne proposta un’altra formula. Nell’attesa di una risposta comunista, il
foglio vaticano, l’«Osservatore Romano», avrebbe lanciato segnali
d’allarme, denunciando il pericolo della pace religiosa. Nei giorni
seguenti, sarebbe stata la giunta centrale dell’Azione cattolica a
indirizzare ai deputati della Costituente l’appello che a “salvaguardia
della pace religiosa”, sarebbe stato bene che i Patti lateranensi avessero
trovato la loro piena “garanzia costituzionale”247.
Da quel momento in poi, l’approvazione comunista all’articolo 7 sarebbe
stata certa. Quella dei dirigenti comunisti era una visione abbastanza
realistica: non avrebbero potuto ignorare l’importanza secolare del
Vaticano e delle sue strutture ecclesiastiche. Come ebbe modo di rilevare
245 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.95.
246 Sandro Magister, La politica vaticana e l’Italia 1943–1978, Roma, 1979, p.86.
247 Ivi, p.89.
!129
Togliatti, sarebbe stato contro la volontà popolare condurre una battaglia
anticlericale, che sarebbe stata oltre che deleteria, anche inutile248.
Nella seduta del 25 marzo ‘47, Togliatti, dopo una lunga orazione, così
concluse:
«Siamo convinti, dando il nostro voto all’articolo che ci viene
presentato, di compiere il nostro dovere verso la classe operaia e le
classi lavoratrici, verso il popolo italiano, verso la democrazia e la
Repubblica, verso la nostra patria!»249.
Con l’approvazione dell’articolo 7, scrive Martinelli, i comunisti
operarono un estremo tentativo per mantenere un rapporto positivo con
la Chiesa e con la Dc: il fallimento di questo tentativo fu evidente due
mesi dopo, quando De Gasperi allontanò, come si è visto, le sinistre dal
governo. Ci sarà poi addirittura nel 1949 la scomunica contro i comunisti
da parte del Vaticano 250.
È unanime il giudizio degli storici sul fatto che i comunisti dovettero
venire a patti coi loro principi e coi loro orientamenti, consapevoli del
carattere di “compromesso” che la Costituzione non avrebbe potuto non
avere. Quasi ad evocare il già citato articolo dell’agosto ‘46 pubblicato
su «Rinascita», in cui si affermò che ci fu un compromesso che avrebbe
lasciato alle forze conservatrici la ricostruzione economica in cambio
della “ricostruzione democratica” dell’Italia.
Fu lo stesso Togliatti nel suo discorso all’Assemblea Costituente dell’11
marzo a delineare il carattere compromissorio della Costituzione:
«Non ritengo sia necessario, per assolvere il compito da me indicato,
fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso.
248 Renzo Martinelli, op. cit., p.272.
249
Palmiro Togliatti, Discorsi alla Costituente, Roma, 1974, p.56.
250Ivi, op. cit., p.273.
!130
Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli colleghi si sono serviti di
questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando a essa un
senso deteriore. Questa parola però non ha in sé un senso deteriore,
ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene scartiamola pure. In
realtà noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori.
Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità,
cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale
potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un
terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse
costruire sopra di esso una Costituzione, cioè uno Stato nuovo.
Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno
ad esse comune volete qualificarla come “compromesso”, fatelo pure.
Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, di
quella ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la
Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o
dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e,
quindi, di tutta la Nazione. […] Questa impostazione come vedete
lascia da parte le ideologie […] per noi questa cosa è elementare.
L’ideologia non è dello Stato, è dei singoli o dei partiti […] non
impostazione ideologica dunque, ma impostazione politica concreta,
derivante da una posizione esatta in cui si trova oggi l’Italia. […]
Perciò noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo
che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi
davanti alla nazione italiana […] oggi si tratta di distruggere fino
all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide
fascista; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente
nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva. […] Ho detto,
onorevoli, che sono tre le esigenze fondamentali da soddisfare:
esigenze della libertà, esigenza di unità politica e morale della
nazione, esigenza di progresso sociale e di rinnovamento della classe
dirigente. Coloro i quali vogliono per il nostro Paese un avvenire di
progresso sociale, ma nella libertà e nella tranquillità politica, non
debbono porre ostacoli all’affermazione e al trionfo della volontà
popolare. […] In conclusione, a proposito dei problemi di libertà, il
nostro partito seguirà una linea di condotta conseguentemente
democratica, cioè lotterà in modo conseguente perché la Costituzione
sia una Costituzione popolare, perché il popolo sia riconosciuto come
sovrano e l’ordinamento costituzionale sia tale che permetta alla
sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a
tutta la vita della nazione»251 .
251
Palmiro Togliatti, op. cit., pp.8-13.
!131
Togliatti dunque non intese vedere negativamente il carattere
compromissorio che la Costituzione dovette necessariamente assumere.
Per il segretario del Pci si trattava più realisticamente di una
constatazione: aver trovato un “terreno comune”, ove le ideologie, più
che mettersi da parte, tendevano a conciliarsi. Infatti, come scrive lo
storico Massimo Legnani, emerge nella Carta costituzionale un intreccio
delle matrici cattolica e marxista 252. Alla fine dell’intervento si può
notare come Togliatti, dopo la riunione del Cc (Comitato Centrale),
riferì, dinanzi a tutta l’Assemblea Costituente, che il suo partito avrebbe
seguito una linea di condotta per tutto il periodo dei lavori preparatori. A
tal proposito, sostiene Lepre, il Partito comunista nelle successive sedute
in Assemblea dovette portare avanti una vera e propria battaglia sulla
questione dei diritti sociali che avrebbero voluto inserire nella
Costituzione. Per Togliatti essi si sarebbero dovuti tradurre in articoli
costituzionali a carattere normativo, ma allo stesso tempo anche con
carattere programmatico. Questa posizione fu subito condivisa dai
democristiani più attenti ai problemi sociali, come Fanfani e Dossetti 253.
I comunisti che facevano parte della “Commissione dei 75” erano,
secondo Martinelli, una sorta di stato maggiore culturale del Pci, sotto la
direzione di Togliatti e di Terracini. Lo stesso Togliatti fu relatore alla
Commissione sui diritti sociali, che come già sottolineato, erano
considerati di vitale importanza per il partito. Sempre in Assemblea
252 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea,
dicembre 1988, n.213, pp.825-827.
253 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.97.
!132
Costituente il leader comunista sostenne che si trattava in primo luogo di
affermare:
«Nuovi diritti della persona umana, il cui contenuto è in relazione
diretta con l’organizzazione economica della società. In secondo
luogo si tratta di affermare con energia, sin dai primi articoli della
nuova Costituzione, la necessità di operare nella società italiana,
attraverso l’azione dello stato, profonde trasformazioni economiche e
sociali»254.
Tali trasformazioni, secondo il segretario del Pci, sarebbero dovute
avvenire gradualmente, nel quadro della democrazia, dal momento che
in Italia non c’era stata una rivoluzione che aveva abbattuto l’assetto
economico precedente. Continuando egli affermò:
«Attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio
della maggioranza liberamente espressa, noi ci sforziamo di
realizzare quelle modifiche della nostra struttura sociale che sono
mature sì nella realtà delle cose che nella coscienza delle masse
lavoratrici. Per questo parliamo ormai tutti o quasi tutti non di una
democrazia pura e semplice, ma di una “democrazia progressiva”, e
il valore di questa definizione sta appunto nel fatto ch’essa riconosce
e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato
nella legalità»255 .
Anche per quanto riguarda i rapporti economici, sostiene Lepre, i
comunisti presentarono un proprio programma: un programma che
corrispondeva a una nuova concezione del mondo economico, non più
“individualistica e atomistica”, ma fondata sul principio di “solidarietà”
254
Renzo Martinelli, op. cit., pp. 261-262.
255
Ibidem.
!133
e dal prevalere delle “forze del lavoro”256. Anche se il realismo politico
portava Togliatti, come già emerso, ad accettare che non si sarebbe
applicato un immediato cambiamento radicale dell’assetto socioeconomico del Paese, egli tenne a precisare, sempre nel corso dei lavori
preparatori che:
«La nostra Costituzione, anche se non sarà essa il documento che ci
darà la soluzione di tutti questi problemi, dovrà essere però un
documento che tracci il cammino sul quale si muoveranno i politici e i
partiti italiani. Tutti coloro che accettano questa Costituzione come
fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a
muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale. Ecco quello
che noi vogliamo. Ecco perché chiediamo che la parte della
Costituzione che tratta dei diritti sociali sia chiara, senza equivoci e
questi diritti siano sostanzialmente garantiti. […] Onorevole
Presidente! Onorevoli colleghi! Il nostro gruppo interverrà
attivamente nel dibattito costituzionale, per sostenere che nella
maggiore misura possibile la nuova Carta costituzionale della
Repubblica italiana corrisponda a questi principi: corrisponda a
quelle che sono le aspirazioni della grande maggioranza del popolo
italiano, aspirazioni che esprimono la più profonda, la più urgente
esigenza della nostra vita nazionale in questo momento»257.
Il leader del Pci, sottolinea Martinelli, non perse occasione, nel corso dei
lavori della Costituente, per riaffermare la strategia democratica del
“Partito nuovo”, che nelle trattative concrete si sarebbe tradotta in una
notevole elasticità, in parte resa obbligatoria dai rapporti di forza e dagli
obiettivi perseguiti, in parte frutto di una precisa scelta in questo senso.
Nel loro insieme le relazioni dei comunisti alle sottocommissioni
delinearono con chiarezza il progetto politico del Pci: una democrazia
progressiva che avrebbe dovuto appoggiarsi su salde basi istituzionali, e
il cui referente fondamentale sarebbe stata la sovranità popolare,
256 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, cit., p.99.
257
Istituto De Gasperi, op. cit.
!134
concetto essenziale in cui si uniscono quello di classe e quello di popolo,
esprimendosi molto chiaramente nei primi articoli della Costituzione
italiana. Una visione strategica che si ritrova nell’intero impianto
costituzionale, soprattutto in quella che è la sua parte più innovativa, a
cui Togliatti e gli altri membri comunisti della “Commissione dei 75”,
diedero il loro contributo diretto. Il fondamento del lavoro, su cui si basa
la Costituzione italiana, cambia la natura della società e dello Stato
rispetto al passato: la società dei “proprietari” cede il passo alla società
dei lavoratori 258. In questa nuova fase storica, il lavoro non sarebbe stato
più una merce che si scambia sul mercato, bensì un diritto fondamentale
del cittadino. Infatti la Repubblica non solo «riconosce a tutti i cittadini il
diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale
diritto» (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo»,
ma
«richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale» (articolo 2). La Costituzione introduce il
diritto
«a
una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del
lavoro», sufficiente comunque ad assicurare
«una
esistenza libera e
dignitosa» (articolo 36), nonché il diritto all’istruzione (articolo 33), al
riposo e alla salute (articolo 32) 259. L’intera architettura costituzionale si
basa dunque sul fondamento del lavoro e sui nuovi diritti della persona, i
diritti sociali tanto sostenuti dal Pci. Essa presenta, inoltre, una grande
novità, ovvero che la «proprietà privata è garantita», ma entro limiti che
ne
«assicurino
la funzione sociale e l’accessibilità a tutti» (articolo
42)260. Un progetto di tale portata, secondo Ciofi, si spinge a introdurre
elementi di socialismo, valorizzando il lavoro e il protagonismo delle
258 Paolo Ciofi, op. cit., p.4.
259 Ibidem.
260 Ivi, p.5.
!135
masse lavoratrici, che conquistano non solo il diritto allo sciopero e la
libertà sindacale (articoli 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi
classe dirigente organizzandosi tramite un partito politico, considerato lo
strumento indispensabile per «concorrere con metodo democratico a
determinare la politica nazionale» (articolo 49) 261.
Il primo gennaio 1948, dunque, entrò in vigore la nuova Costituzione
italiana, ma la storia della Costituzione ha radici più profonde. Essa è la
storia del quadriennio 1943-1947: il primo gennaio 1948 rappresentò il
punto d’arrivo di un processo democratico che raggiunse un’altra
conquista, dopo la Repubblica, della storia d’Italia.
Sono presenti, nella Costituzione italiana, “luci e ombre”, che di fatto
avrebbero aperto la prospettiva, come ebbe modo di affermare Togliatti,
“di fiere battaglie politiche”. Il segretario del Pci, alla fine di una
riunione del Cc nel novembre ’47, concludendo l’excursus sulla
Costituzione affermò che:
«La Costituzione riflette in modo abbastanza esatto quello che è lo
stato attuale di sviluppo della democrazia in Italia, le sue debolezze e
la sua crisi attuale. Noi dobbiamo uscire da questa situazione;
l’aggravarsi dei rapporti interni di classe, l’aggravarsi della
situazione internazionale, ci dicono chiaramente che dobbiamo uscire
da questa situazione; o andiamo indietro ancora di più oppure
riusciamo a spingere avanti la democrazia italiana sulla strada della
realizzazione di quelle riforme, di quelle modificazioni strutturali che
sono necessarie affinché essa diventi una democrazia di tipo
progressivo»262 .
Il contributo dei comunisti alla Costituzione avrebbe rispecchiato,
secondo Martinelli, un atteggiamento singolare, comune anche alle altre
261 Ivi, p.6.
262
Renzo Martinelli, op. cit., pp.275-276.
!136
forze politiche: una sorta di scissione tra il presente e il futuro 263.
La Costituzione è infatti, come si espresse similmente anche Piero
Calamandrei nella frase sopra riportata, un documento programmatico,
che sancisce alcuni principi essenziali, ma rimanda al futuro la
realizzazione delle sue implicazioni economico-sociali. Della stessa
opinione è anche Höbel, il quale afferma che il contributo togliattiano
più importante al tema della democrazia progressiva sta soprattutto nel
fatto che esso si lega alla sua battaglia per l’Assemblea Costituente e per
una Costituzione che non si sarebbe limitata a codificare gli assetti
esistenti, ma la cui originalità avrebbe consistito nell’essere un
programma per il futuro264. Concezione processuale della Costituzione e
democrazia progressiva sono quindi, a giudizio di Höbel, “due facce
della stessa medaglia”. È la stessa conclusione a cui giunge anche Paolo
Ciofi, il quale afferma che la Costituzione dell’Italia ha un carattere
progettuale-programmatico, che funge da guida per il popolo italiano,
portando a un rinnovamento audace e profondo di tutta la struttura della
nostra società265.
Dal momento in cui il “Partito nuovo” si trovò in una situazione che era
mutata e cioè all’opposizione, come abbiamo già accennato, fu di
urgente priorità una riorganizzazione del partito. Nell’estate del ’47,
dopo la conferma della linea politica, il Pci, obbligatoriamente, dovette
cambiare la propria strategia. Una nuova organizzazione ben strutturata
sia all’interno che all’esterno del partito, che lo avrebbe in tal modo
rafforzato e preparato al conseguimento dei suoi obiettivi.
263 Ibidem.
264 Alexander Höbel, La democrazia progressive nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in
Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.8-9.
265 Paolo Ciofi, op. cit., p.3.
!137
Ma anche dopo questa nuova strutturazione, i quadri dirigenti si resero
conto che avrebbero necessitato di diversi anni prima di raggiungere i
propri fini; a tal proposito, la preparazione di una nuova Costituzione
avrebbe potuto rappresentare per il Pci una “terza strada” per la propria
strategia politica: “le fiere battaglie” di cui parlava Togliatti sarebbero
state agevolate così da un forte punto di appoggio per l’attuazione di
quell’obiettivo politico a cui tanto aspirava il Partito comunista: la
democrazia progressiva.
È la visione, a giudizio di Ciofi, di un percorso inedito e originale: il
segretario del Pci avrebbe delineato un processo, del tutto diverso, di
avanzamento verso il socialismo.
Senza sottovalutare il contributo delle altre forze politiche, la
Costituzione rappresenta una grande conquista storica dei diritti civili,
respingendo la vecchia ideologia proprietaria liberale. Comunisti e
socialisti da una parte, e i democratici cristiani dall’altra, sono stati i
principali artefici di un disegno costituzionale innovativo.
Si stabilisce, a giudizio di Ciofi, una relazione inedita, sconosciuta in
altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, esaltando la
collettività e il singolo, la classe sociale e l’individuo, fornendo al
popolo italiano, ritenuto sovrano nella Costituzione, la possibilità di
intraprendere un cammino verso la libertà e l’uguaglianza su cui
costruire il futuro266.
È un progetto di una nuova società, il quale rompe ogni vincolo sia con
la logorante politica liberale, sia con le socialdemocrazie di inizio
Novecento, e che di fatto spiana le porte a un processo rivoluzionario
diverso, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della
democrazia progressiva.
266 Ivi, p.7.
!138
Per valorizzare la linea togliattiana, si riporta un pensiero di Marx che
emerse durante un discorso pronunciato dal filosofo nel settembre 1872
al Congresso dell’Aia, il quale affermò che le classi lavoratrici devono
prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del
lavoro, ma aggiungeva che non si era mai preteso che per giungere a tale
scopo le vie sarebbero state dappertutto identiche. Marx continuò
riconoscendo l’importanza investita dalle istituzioni, dai costumi e dalle
tradizioni dei vari paesi e perciò riteneva che in quei paesi più avanzati, i
lavoratori avrebbero potuto raggiungere il loro scopo pacificamente267. Il
grande dilemma per i comunisti durante il ‘900 era: riforme o
rivoluzione? Il Partito comunista italiano avrebbe cercato di unire le due
strade: rivoluzionare la società e lo Stato attraverso riforme della
struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative,
che si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica
concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e
delle lavoratrici268.
Concludo lasciando l’ultima parola al filosofo Fiedrich Engels:
«Si può immaginare che la vecchia società possa svilupparsi nella
nuova per via pacifica, in paesi nei quali la rappresentanza popolare
ha concentrato in sé tutto il potere, dove la Costituzione consente di
fare ciò che si vuole quando si abbia dietro di sé la maggioranza del
popolo»269.
267 Karl Marx, Critica al programma di Gotha e testi sulla transizione democratica al socialismo,
Roma, 1980, pp.67-68, (ed. or. Londra, 1891)
268 Paolo Ciofi, op. cit., p.9.
269
Karl Marx, op. cit., pp.90-91.
!139
CONCLUSIONI
La necessità di questa ricerca nasce principalmente dalla constatazione
di un diffuso sentimento che si sta radicando riguardo la politica: un
sentimento ostile non solo nei confronti dello Stato, ma soprattutto nei
riguardi di quelle conquiste che dovrebbero fungere da base essenziale
per un cambiamento politico.
In questo studio si è analizzato il quadriennio 1943-1947 nel quale, a
giudizio dello storico Massimo Legnani, tre fasi salienti hanno
caratterizzato la lotta politica: la costituzione dei Comitati di Liberazione
Nazionale, la fondazione della Repubblica e l’approvazione della nuova
Carta costituzionale270. Si è esaminato principalmente il lavoro svolto dal
Partito comunista italiano, assieme agli altri partiti antifascisti, sin dalla
fase resistenziale: elaborazione di una nuova linea politica, alleanze
tattiche e mosse strategiche per il raggiungimento di importanti obiettivi
politici.
Il dibattito sulla Resistenza è uno dei più accesi tra gli storici ed
emergono infatti interpretazioni differenti su specifici avvenimenti che
hanno caratterizzato l’arco resistenziale. A partire dalla “svolta di
Salerno”, la cui importanza è unanimemente riconosciuta dagli storici, si
possono già tracciare diversi punti di vista: Secchia e Battaglia mettono
in evidenza le intenzioni della politica di unità nazionale perseguita dal
Partito comunista prima ancora del rientro in patria di Togliatti. Questa
interpretazione rientra nell’ottica della tradizione storica di sinistra,
mentre Santo Peli ipotizza che la decisione di Togliatti sia stata
influenzata dall’incontro con Stalin, tenutosi alcuni giorni prima del
270 Massimo Legnani, Repubblica e Resistenza. Un dibattito ininterrotto, in Italia Contemporanea,
dicembre 1988, n. 213, pp. 817-818
!140
rientro del capo del Pci in Italia271. Anche Legnani afferma che la
decisione del leader comunista italiano sarebbe stata influenzata dalla
volontà di assecondare la politica estera sovietica che diede per acquisito
l’inserimento dell’Italia nella sfera di influenza anglo-americana 272. Ma
come mette in risalto Höbel, la scelta togliattiana di Salerno sarebbe stata
una mossa coerente con la nuova linea maturata durante il VII Congresso
dell’Internazionale comunista: non uno Stato di tipo sovietico ma uno
Stato di democrazia popolare con la partecipazione allargata alle altre
forze politiche273.
Con l’avvicinarsi della fine del conflitto, e quindi anche con il 25 aprile
1945, l’unità politica promossa dal Cln rilevava limiti innegabili proprio
sulla questione di fondo, ovvero sulle prospettive future degli stessi
Comitati, sul quesito se essi avessero dovuto continuare ad esercitare un
ruolo anche a liberazione avvenuta. Le posizioni dei partiti politici che si
confrontarono su questa situazione, nello scambio di lettere tra la fine del
’44 e l’inizio del ’45 trattato nel secondo capitolo, furono largamente
divergenti: la sorte dei Comitati di liberazione fu dunque segnata ancor
prima dell’insurrezione. Durante il governo presieduto da Ferruccio Parri
(giugno-novembre 1945) i Cln continuarono ad esistere, ma solo come
organi di consultazione e di indirizzo e furono poi compressi dall’Ac
(Allied Commission)274.
Dopo l’euforia dell’insurrezione finale, c’era ancora chi sognava di
tramutare la vittoria partigiana in una guerra di classe, ma Togliatti e gli
271 Santo Peli, Storia della Resistenza in Italia, Torino, 2015 (I ed. 2006), pp.80-81
272 Massimo Legnani, op. cit., p. 823
273 Alexander Höbel, La democrazia progressiva nell’elaborazione del Pci. Un’anticaglia?, in
Historia Magistra, giugno 2013, n.18, pp.1-2
274 Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, 2004, pp.
37-40
!141
altri quadri dirigenti furono sempre pronti a ribadire, in ogni occasione,
la linea politica sviluppata a Salerno. Il Partito comunista dovette
realisticamente comprendere la nuova situazione in cui si trovava e
quindi anche i limiti della sua azione politica: impossibilitato ad
assolvere il ruolo storico rivoluzionario sull’esempio sovietico, per non
rischiare di far ripetere quanto già successo in Grecia in quello stesso
periodo, elaborò una nuova concezione di marxismo esplicandola nel
termine di “democrazia progressiva”275.
Nel terzo capitolo si affronta la vicenda politica che, entrata ormai in una
nuova fase, ruotò ancora per poco attorno al tripartito. Infatti, come si è
visto, il peso della Dc salì progressivamente, sfruttando l’appoggio della
Chiesa e degli Alleati, che lo stesso De Gasperi del resto sollecitò
ripetutamente. Infatti questo periodo rispecchia una ripresa delle forze
conservatrici che comportarono un decisivo regresso della formula
tripartita276. Nell’arco di tempo che va dal voto del giugno 1946 al
maggio 1947 (“colpo di mano”) la crisi della collaborazione tra i
maggiori partiti della coalizione antifascista si consumò ed il suo
precipitare fu legato sia a fattori interni che esterni. Per quanto concerne
la situazione interna, come già esaminato, aumentarono le tensioni
dentro e fuori il partito della Democrazia cristiana tra quanti reclamarono
un allontanamento dai socialcomunisti; mentre la situazione
internazionale è percorsa da sempre più segnali di frattura tra le potenze
occidentali e l’Unione Sovietica, e dal conseguente inserimento
275 Pietro Secchia, Il partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945. Ricordi,
documenti inediti e testimonianze, Milano, 1973, pp.242-244
276 Severino Galante, La fine di un compromesso storico. Pci e Dc nella crisi del 1947, Milano, 1979,
pp.110-112
!142
dell’Italia nell’area egemonizzata dagli Usa277. Si può osservare una
reazione apatica da parte del Pci che considerando ancora applicabile il
tripartito, rivolse le proprie attenzioni all’ala più democratica della Dc.
Galante critica al Partito comunista di non aver attuato alcuna mossa
cautelativa per evitare quello che fu definito la “il colpo di mano” della
Democrazia cristiana e ovvero l’estromissione delle sinistre dal
governo278. A giudizio di Lepre invece, la Dc non perse quella che
sarebbe stata l’occasione storica per svolgere il ruolo di partito moderato
che avrebbe garantito quella stabilità politica che gli Stati Uniti
richiesero con sempre crescenti pressioni279, proprio nel Paese che,
secondo i suoi contatti migliori, stava viaggiando “dritto dritto verso il
comunismo” 280.
Nell’estate del ’47 il Pci sarebbe stato costretto ad elaborare una nuova
strategia politica, non mettendo mai in discussione la linea. Il realismo
dei quadri dirigenti del partito fu tradotto in un’analisi che accettava i
lunghi anni che sarebbero dovuti trascorrere per ottenere i risultati che
auspicavano. Nonostante l’esclusione del Pci dalla compagine
governativa, esso era inserito in un tavolo ancora più importante:
l’Assemblea Costituente.
Nel quarto e ultimo capitolo è oggetto di analisi l’importanza della
Costituzione per il Partito comunista. Nonostante la realizzazione da
parte dei quadri dirigenti che la nuova Carta costituzionale non avrebbe
rivoluzionato l’assetto sociale ed economico nell’immediato, era
277 Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. “Il Partito nuovo” dalla liberazione al 18
aprile, Torino, 1995, pp.88-89
278 Severino Galante, op. cit., p.213
279 Aurelio Lepre, Dal crollo del fascismo all’egemonia moderata, Napoli, 1990, p.113
280 David W. Ellwood, op. cit., p.253.
!143
convinzione diffusa che essa tuttavia avrebbe potuto rappresentare una
solidissima base per quel cambiamento graduale, che prospettava di
applicare il Pci, all’interno di un sistema democratico. In questo capitolo,
riprendendo un pensiero che emerge in Renzo Martinelli, si è analizzato
l’importanza della Costituzione nell’ottica del Pci: una Costituzione che
guardava al futuro. Tale scissione tra presente e futuro avrebbe
effettivamente potuto rispecchiare il programma politico del Partito
comunista, che conscio degli anni che avrebbe necessitato per la nuova
riorganizzazione dell’estate ’47, avrebbe potuto di fatto spianare le porte
per il cambiamento politico ed economico che il partito prospettava di
operare. Secondo Legnani, il radicale mutamento della maggioranza di
governo, causato dall’estromissione delle sinistre dal governo, non ebbe
effetti dirompenti sui lavori dell’Assemblea Costituente281. Maturarono
così, negli ultimi mesi del 1947, due processi nettamente divergenti: da
un lato si consolidò lo schieramento moderato che configurò il blocco di
forze che trionfò poi alle elezioni del 18 aprile 1948 per la prima
legislatura repubblicana; dall’altro giunse in porto la elaborazione della
Carta costituzionale attraverso un intreccio delle matrici cattolica e
marxista che realizza significative convergenze, le quali tuttavia,
riguardano principalmente le mete programmatiche contenute nella Carta
affidandosi, per la realizzazione, alle future maggioranze di governo.
Una Costituzione che presenta elementi di socialismo, a giudizio di
Ciofi, e che rappresenta un percorso inedito per la via italiana al
socialismo282.
281 Massimo Legnani, op. cit., p.824
282 Paolo Ciofi, Togliatti e la via costituzionale per la trasformazione della società: democrazia e
socialismo, Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato da Futura Umanità,
Roma, Teatro de’ Servi, 8 novembre 2013,
URL: http://www.futuraumanita.it/togliatti-il-rivoluzionario-costituente-santomassimo-ferrara-ciofi/
!144
Difficilmente contestabile la linea togliattiana, almeno sino al 1948.
Abbiamo esaminato come la situazione italiana non era favorevole per
alimentare una guerra di classe volta all’instaurazione del socialismo. Il
Partito comunista non avrebbe rischiato di perdere quella che era
considerata una delle più alte conquiste del partito: la presenza al
governo. A tal proposito il Pci elaborò una nuova strategia, dopo
l’estromissione nel maggio ’47, per la realizzazione del suo obiettivo.
La stesura della Costituzione rappresentò l’occasione storica per il Pci,
per attuare gradualmente e per vie democratiche quel cambiamento
socio-economico. Il famoso “compromesso costituzionale”, di cui parla
lo stesso Togliatti, ha dato vita a una Costituzione progressiva,
democratica e antifascista, che tutelava il popolo ritenuto sovrano nella
Carta costituzionale. Di conseguenza emerge una grande abilità da parte
di Togliatti e di tutto il Partito comunista nell’aver elaborato una nuova
linea politica per il raggiungimento dell’obiettivo ultimo.
Ma a questo punto, le domande e i dubbi che erano sorti al principio di
questo lavoro sono stati sostituiti nella conclusione da nuovi interrogativi
e problematiche riguardanti le strategie, le scelte e gli obiettivi del Pci
nella successiva storia politica italiana e i differenti contesti storici
italiani e internazionali, in cui esso si trovò ad operare a partire dalla
seconda metà del ventesimo secolo.
!145
“L’incomprensione del presente
cresce fatalmente dall’ignoranza
del passato”.
Marc Bloch
!146
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