I volti del
complotto
A cura di Massimo Leone
Curatore: Massimo Leone
Copertina e impaginazione: Andrés Manuel Cáceres Barbosa
Illustrazioni: Elia Sampò
1a edizione, aprile 2021
ISBN 9788890756290
CDD 401.41
Testi di Massimo Leone, Gabriele Marino, Silvia Barbotto, Remo Gramigna, Cristina
Voto, Elsa Soro, Bruno Surace e Marco Viola.
This publication is part of a project that has received funding from the Eropean
Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and
innovation programme (grant agreement No 819649 - FACETS).
FACETS Digital Press, Open Access
Direttore: Massimo Leone
Comitato scientifico: Francesco Barone-Adesi, Anne Beyaert-Geslin, Maria Giulia
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Indice
Pareidologie .............................................................4
Massimo Leone
Virus e visus..............................................................20
Gabriele Marino
Accenni pre-veridici del complotto
nel sistema dell’arte e face studies...........................38
Silvia Barbotto
Note sulle ‘teorie del complotto’................................62
Remo Gramigna
Il complotto in bocca.................................................84
Elsa Soro e Cristina Voto
L’altro volto del complotto.......................................104
Bruno Surace
La solitudine dei volti mascherati............................122
Marco Viola
Il volto artistico del complotto................................138
Cristina Voto
Pareidologie
Illustrazione
Pareidologie
Dai volti del complotto ai complotti del volto
Massimo Leone
Massimo Leone
Qualche settimana prima della scrittura di questo breve testo, quando si
era ancora nel pieno della pandemia di COVID-19 e diversi Paesi europei avevano decretato forme più o meno severe di confinamento, nella
mia bacheca Facebook uno stimato collega di cui non menzionerò qui il
nome – peraltro di solito molto apprezzato per i suoi studi, i suoi scritti
e il suo insegnamento nell’ambito della semiotica – seguitava a pubblicare post che relativizzavano la pericolosità del virus, criticava i mezzi
adottati per contrastarne il contagio, si scagliava soprattutto contro la
famigerata mascherina, in seguito anche contro le vaccinazioni di massa,
e proclamava in modo martellante l’esistenza di un non meglio precisato
complotto internazionale per instaurare un altrettanto vagamente evocato regime di ‘nuova normalità’ attraverso il pianeta intero. Questi anatemi della lunghezza di un post si accompagnavano di geremiadi contro i
media, contro un onnipresente sistema di censura, e si arricchivano anche di rimandi a pensatori invece ‘liberi’, che da colonne perlopiù digitali
ma minoritarie lottavano strenuamente per strappare il volgo spaventato
all’ipnosi collettiva della pandemia.
Ognuno ha ovviamente il diritto di esprimere la propria ideologia, per
quanto confusa essa si presenti, soprattutto in quelle arene digitali dove,
per un effetto ormai noto agli studiosi, è molto raro che s’incontri qualcuno di opinione diversa e ancora più arduo imbattersi in chi si prenda
la briga di provare a “farci ragionare”. Io stesso per esempio avrei voluto ogni tanto commentare sulla bacheca dello stimato collega, senza
necessariamente prenderne di petto le vedute, ma almeno ponendogli
con sincera curiosità qualche domanda fuori dagli schemi ma concreta, necessaria rispetto alla vaghezza delle argomentazioni proposte: “Ma
insomma, la mascherina la dobbiamo portare o no?” “E in quale occasione?” “E il vaccino va fatto o no?” E soprattutto: “A chi giova questo
presunto complotto globale? Possiamo fare nomi e cognomi, non lo so,
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I volti del complotto
un capo di stato, un industriale, un tycoon digitale?” Tali domande erano
urgenti soprattutto perché lo stimato collega non si abbassava al rango
comunicativo degli strilloni da tastiera, e confezionava abilmente i propri
post, con tanto di rimandi a riviste para-accademiche e linguaggio elevato, o addirittura citazioni dalla bibliografia semiotica, senza apertamente
accusare nessuno, neppure qualcuno di anodino, per esempio il ministro
della sanità del proprio Paese, o il proprio Primo Ministro, ma contornando abilmente ogni preciso obbiettivo polemico e tessendo, invece,
una trama di critiche allusive, d’invettive veementi ma ambigue, d’indignazione generalizzata verso un nemico evidentemente così manifesto
che non occorreva compitarne il nome. Avrei potuto scrivere questi post,
e rivolgere le domande pensate, ma comprensibilmente non l’ho fatto,
non certo per codardia né per amicizia ma essenzialmente per questioni
che definirei cronologiche, ossia relative al tempo, una delle nostre risorse più preziose, sicuramente una risorsa preziosissima per uno studioso.
Ebbene, chiunque abbia una conoscenza sia pure superficiale delle reti
sociali deve essersi reso conto di una verità incrollabile, e cioè che nessuno, o quasi nessuno, cambia idea nei social networks, soprattutto non
chi abbia convinzioni radicali o estreme (che poi sono esattamente coloro
con i quali sarebbe urgente parlare per cercare di orientarli verso propositi più ragionevoli). Mi sono dunque immaginato nel processo materiale
di scrivere questi post evidentemente polemici, e i commenti lunghissimi
e densi di citazioni con cui il collega mi avrebbe risposto, e poi i suoi sostenitori che si sarebbero inseriti per dargli manforte, e poi ancora qualcuno che mi avrebbe forse insultato, e dei trolls che sarebbero apparsi
nella catena dei post, e così via all’infinito, in uno scambio estenuante
che alla fine: 1) non avrebbe spostato di un millimetro le convinzioni del
mio collega, anzi; 2) non avrebbe chiarito in nulla la mia comprensione
delle idee del collega, perché forse non vi era nulla da comprendere in
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Massimo Leone
esse al di là di ciò che manifestavano nella loro letteralità, cioè vaghezza;
3) avrebbe generato un alone di aggressività tutto intorno; 4) avrebbe
forse incrinato una stima reciproca con momenti di amicizia; 5) avrebbe
fatto perdere a entrambi tantissimo tempo.
Scoraggiato da questo scenario catastrofico, decisi di tacermi, invocando qualcosa di simile all’interpretante logico finale nella semiotica
di Peirce. Sono infatti fiducioso, al di là delle irragionevolezze reali o
presunte dei nostri discorsi, che la realtà in fondo esista, e che dunque
in essa si dia ovvero non si dia un virus pernicioso, e che nella stessa
realtà, si pensi della scienza, o dell’industria farmaceutica, alla fine alcuni vaccini risultino efficaci, altri magari meno, e altri producano addirittura effetti secondari nocivi. Nella stessa realtà, poi, qualcuno avrà
forse speculato sulla pandemia, o addirittura l’avrà promossa o persino
fabbricata, eppure di questo, del fatto che ciò sia accaduto come del
fatto che invece non sia accaduto, resteranno comunque delle tracce,
perlomeno dei ricordi, invisibili ai più forse, magari abilmente nascoste
e dissimulate, ma comunque tracce di fatti, non di sogni, tracce che se
venissero a galla per opera di un delatore o di un giornalista investigativo o di un abile magistrato porterebbero a processi e condanne e alla
pubblica giustificata indignazione.
Così, di fronte alle esternazioni digitali del collega, a mio avviso irragionevoli, mi sono richiamato a quell’interpretante logico finale che
spesso invoco quando la pigrizia o semplicemente un calcolo di costi-benefici m’impone di non immischiarmi nell’irragionevolezza altrui, e di
proseguire invece per la mia strada, sperando ch’essa stessa non si riveli
del tutto irragionevole. Non è da escludere categoricamente, in effetti,
che tra qualche anno, o tra qualche decennio, venga fuori che il collega
aveva ragione, che il virus non esisteva, che era tutta una montatura, che
il numero dei deceduti era stato gonfiato, che era tutto un complotto per
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I volti del complotto
vendere mascherine e iniezioni. Non è da escludere ma, francamente, è
altamente improbabile. La realtà con le sue tragiche statistiche ci parla
già adesso, e soltanto chi per casualità ne sia geograficamente lontano
può permettersi d’ignorarne l’amaro sussurro. Certo, quando precipita un aereo nei mari dell’Indonesia possiamo reagire sostenendo che si
tratta di un’invenzione, il che sarebbe più difficile, perlomeno emozionalmente, se fosse precipitato nel nostro Paese, e ancora più difficile se
vi fosse perito qualcuno dei nostri cari, o di fatto tragicomicamente impossibile se vi fossimo precipitati noi stessi. L’incapacità di sentire un
pericolo non geograficamente vicino è già indizio del tenore morale di
un individuo.
In ogni modo, di fronte a colleghi e amici più o meno irragionevolmente negazionisti e complottisti si può solo sperare che la realtà non
sfati direttamente e amaramente le loro opinioni, facendoli ammalare o
facendo ammalare qualcuno dei loro cari, e che invece l’irragionevolezza
o la ragionevolezza delle opinioni si manifesti in modo meno cruento, per
esempio attraverso dati pazientemente accumulati dalla scienza (i quali
dati tuttavia sembrano avere ormai un potere persuasivo molto scarso su
chi propugna tesi anti-scientifiche sul reale).
Mi ero dunque rassegnato a veder sfilare di quando in quando lungo il
flusso delle notizie Facebook i post negazionisti del collega, attenendomi
a una postura morale di superiorità non belligerante — come del resto
facciamo con tutti i post che quotidianamente riceviamo e che ci irritano
in un modo o nell’altro; è d’uopo tollerarli, se non altro per la consapevolezza che anche i nostri post sono probabilmente irritanti per qualcuno,
anche se non ce ne rendiamo conto perché il social network ci vende esattamente questa illusione di piacevolezza universale.
Un dì, tuttavia, vidi comparire nella cascata inarrestabile e distratta
delle notizie non una nota verbale ma un messaggio visivo, senza com-
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Massimo Leone
mento alcuno, condiviso a partire da un altro sito dal nome fantasioso.
Era stato di nuovo il collega di cui sopra a far circolare l’immagine. Cercai
di risalire la catena dei rimandi che l’avevano originata, di condivisione in condivisione, ma non pervenni ad alcuna fonte primaria; non vi
è niente di più frustrante che cercare di stabilire come nascano i flussi
virali che dilagano attraverso le reti sociali, da quale mente spontanea
o pianificatrice. Anche il più abile ricercatore invece deve arrendersi, e
questo soprattutto quando sarebbe invece molto utile sapere chi mette in
circolo certi messaggi, chi li rilancia, chi li modifica. Le sabbie della comunicazione digitale globale sono mobili, e chi le esplora spesso affonda
sempre più in basso.
Nonostante fra semiotici ci si ripeta spesso che i testi visivi vivono
un’esistenza parallela ma distinta da quelli verbali e, molto più delle
parole, seguono leggi che scaturiscono dalle viscere imperscrutabili del
senso, ricevere d’improvviso un’evidenza di questa disparità colpisce
sempre, come se tendessimo a scordare il potere delle immagini in un
mondo che le utilizza in maniera ossessiva. Invece questo post visivo,
proprio in quanto immagine, scardinava le regole del gioco e della tolleranza. Se i vaghi proclami del collega mi avevano irritato ma potevano
comunque essere ignorati perché scivolavano nella palude dell’indistinzione complottista, l’immagine in questione inesorabilmente diceva. Diceva perché mostrava. E mostrando non poteva non designare,
indicare, specificare, uscire dalla vaghezza delle accuse, dalle ambiguità
delle diffamazioni, per far circolare invece un messaggio che, esattamente nella sua visibilità, risultava invece insopportabile. L’immagine
in questione era la seguente (Fig. 1):
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I volti del complotto
Fig. 1
Il genere dell’immagine vi si determina subito: una vignetta satirica.
Il virus occupa gran parte della parte superiore della rappresentazione, che lo dota di un enorme corpo, ma non di un viso. In effetti, qui il
nemico non è il virus in sé, trasformato in una specie di mucca sferica
galleggiante nell’aria, le cui mammelle sono adesso le escrescenze nella
corona, bensì chi la munge, e ne spreme il latte in un secchio marchiato
con l’inconfondibile simbolo del dollaro. È questo mungitore, e non il
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Massimo Leone
virus, a essere dotato di un volto, di un corpo, di una postura, di una
gestualità che traduce in azione un’intenzionalità, la quale si dipinge anche sul volto, mentre il personaggio in questione siede su uno sgabello
da mungitore e si attacca alle mammelle del virus-mucca con abili mani
strizzanti. Come si vedrà, la vignetta non è probabilmente originale, ma
sfrutta la trasformazione intertestuale di un’altra vignetta, che rimane
nel sotto-testo di questa. Il disegnatore è stato comunque abile, non si
sa quanto intenzionalmente, nell’evocare il campo semantico del vaccino
attraverso la trasformazione del virus in una vacca, che è poi l’animale
che, etimologicamente, dà l’etimologia al rimedio pandemico.
Ciò che è intollerabile qui, tuttavia, non è l’insinuazione di un legame
fra pandemia, industria farmaceutica dei vaccini, e produzione di capitale. È inevitabile, in effetti, che la pandemia si traduca anche in una
serie di opportunità economiche per coloro che hanno approfittato, approfittano, e continueranno ad approfittare della sua corsa attraverso il
pianeta. Magnati del commercio online, della produzione di dispositivi
digitali, fabbricanti di mascherine e di gel disinfettante, e poi naturalmente case farmaceutiche che producono vaccini: non sconcerta che tutti questi attori di fatto guadagnino dalla pandemia. Ciò che invece risulta
intollerabile è la messa in scena figurativa di questa impresa economica,
una rappresentazione che esprime visualmente una teoria del complotto
e soprattutto designa per stereotipi una classe di colpevoli. Già il simbolo del dollaro impresso sul secchio che raccoglie il latte della pandemia, – il latte-vaccino, si potrebbe dire – insospettisce: perché il dollaro
e non l’euro o il rublo? Le imprese statunitensi non sono di certo le sole
a guadagnarci, e chi ci guadagna non lo fa necessariamente in dollari ma
anche in altre valute, comprese le cripto-valute.
In realtà in questo caso il simbolo del dollaro non rimanda a una precisa geografia del guadagno pandemico ma a uno stereotipo, che si precisa
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I volti del complotto
in modo schiacciante nelle fattezze del ‘mungitore’: costui porta un abito
scuro che già insospettisce, ma è soprattutto il volto a far rabbrividire;
in primo luogo, perché vi si disegna un ghigno di soddisfazione: è lecito
aumentare i propri profitti preterintenzionalmente a seguito della pandemia, ma è immorale bearsi di ciò, fino a destare l’impressione che la
pandemia, con guadagni annessi, non sia un evento casuale che dà luogo
a guadagni extra ma un fenomeno pianificato, costruito in laboratorio a
bella posta per innescare tali profitti. Gli occhi e la bocca di questo profilo
si aguzzano diabolici, ma lo fanno in congiunzione a un altro dettaglio
della somatica del volto che è ancora più agghiacciante; sgomenta l’enorme naso attribuito al personaggio. È proprio questo elemento facciale
che, entrando in sinergia visiva con gli altri della vignetta — e soprattutto
con il simbolo del dollaro — la connota come ad altissimo rischio d’innescare un potenziale di antisemitismo, di risultare, cioè, una traduzione
visiva, in chiave disgraziatamente satirica, di una teoria del complotto
ahinoi antichissima, secondo cui una lobby ebraica, in combutta con il
capitale statunitense, trami alle spalle e a discapito dell’umanità intera
per trarne enormi profitti economici, anche se questi devono tradursi in
milioni di morti.
La vignetta è firmata, ma non è facile rintracciarne l’origine; attraverso una breve ricerca online si può appurare che non di originale si tratta,
bensì di rivisitazione in chiave pandemica di una vignetta originalmente
disegnata come commento satirico al mondo del calcio: nell’originale il
nemico designato è la FIFA e la sfera galleggiante non è quella del virus
di COVID-19 ma un vera e propria mammella-pallone, munta allo stesso
modo dal personaggio in questione (Fig. 2).
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Massimo Leone
Fig. 2
Poco importa, comunque, la filologia di quest’immagine. E nemmeno
del tutto pertinente, o perlomeno non cruciale, è la questione se la sua
carica antisemitica sia intenzionale o meno. Se chi ha elaborato la vignetta intendeva veramente far circolare il trito stereotipo di una lobby
ebraica dietro la pandemia, allora si tratta di un criminale; ma se questo
risultato comunicativo va invece oltre le intenzioni del vignettista, allora
costui rimane un criminale, ma si caratterizza anche come incosciente,
nel senso che non sapeva, ma anche nel senso che avrebbe dovuto sapere.
L’elemento della vignetta che più inorridisce, tuttavia, non è forse tanto la sua fattura, bensì la sua circolazione, ovvero il fatto che passi digi-
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I volti del complotto
talmente di mano in mano, e sia diffusa persino da un illustre docente
di semiotica e di comunicazione, senza che emerga nemmeno il sospetto
che possa trattarsi di un episodio di antisemitismo visivo, di una trasformazione in chiave satirica, complottista, e antisemitica del volto analoga
a quelle tragicamente prodotte e promosse dall’ideologia nazi-fascista, e
affioranti nella storia in maniera ripetuta e ricorrente (si leggano in proposito le analisi di Ugo Volli).
Gli studiosi di comunicazione che fanno circolare questo ciarpame
visivo sono doppiamente colpevoli, in quanto non solo si rendono complici di antisemitismo, ma omettono altresì di denunciarlo, quando invece dovrebbero essere consapevoli del fatto che le teorie del complotto,
con il loro corredo di stereotipi iconografici, emergono e si diffondono
giustappunto in frangenti come quello attuale, in cui l’umanità intera si
vede colpita e perseguitata da una calamità la cui origine precisa persino
la scienza stenta a determinare. Come sottolineano innumerevoli studi
recenti sulle teorie del complotto, queste si originano spesso dalla tendenza, estremamente radicata nell’antropologia umana, di fuggire il pensiero della casualità, d’interpretarla come causalità, e di leggere quest’ultima come intenzionalità sorretta da un’intenzionalità laddove una causa
non possa essere agevolmente individuata. Il virus di COVID-19 non si
propaga intenzionalmente, o perlomeno non con quella forma complessa
d’intenzionalità che soggiace al comportamento umano, eppure tanto è
il desiderio di comprendere una sciagura altrimenti difficilmente spiegabile che al virus si attribuisce un’intenzionalità sorretta da un’agentività
e sfociante in una soggettività, il cui correlato fenomenologico e visivo
consiste proprio nell’apparire di un volto. Probabilmente, il virus si limita a seguire ciecamente un istinto di persistenza biologica e, dunque,
di riproduzione che non sceglie intenzionalmente una linea di condotta
ma si limita a imboccare quella che, in relazione alla stessa biologia del
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Massimo Leone
virus, costituisce una linea di minor resistenza. Questa spiegazione però
non è sufficiente per l’umana comunità d’interpreti, che si ostina a leggere causalità ovunque, intenzionalità ovunque, soggettività ovunque,
giacché, nella calamità, nulla conforta di più che lo stringersi insieme attorno all’idea di una resistenza comune contro un nemico, il quale viene
costruito secondo una semiotica che Umberto Eco ha ben descritto, che
René Girard ha evocato filosoficamente, e che consiste nell’attribuire al
male una causa, a quest’ultima una volontà umana, e di associare poi tale
volontà a un capro espiatorio, un nemico immaginario il cui isolamento
e la cui espulsione costituiscono il progetto intorno al quale la comunità
recupera un senso comune, un sentimento comune.
Il problema è che questo senso comune è sbagliato, non solo scientificamente, perché vede cause dove non ve ne sono, e attribuisce intenzionalità ove esse sono assenti, ma anche perché inscena una retorica bellica
che è inevitabilmente sterile, oltre che pericolosa, rispetto a calamità naturali. Che senso ha, in effetti, “sentirsi in guerra” contro un terremoto?
O vedere un virus come un “nemico da debellare”? Il virus fa parte della
natura come gli esseri umani; considerarlo un nemico è il risultato di un
antropomorfismo che è altrettanto vacuo di quello che vede nel gatto il
nemico del topo, o nel cane il nemico del gatto. Come specie umana, che
ha potuto e saputo dotarsi nel tempo di una scienza sempre più raffinata,
possiamo fare di meglio, e sottrarci a questa epistemologia favolistica.
Nonostante sia profondamente radicata nell’istinto narrativo umano,
essa non aiuta né a spiegare né a contrastare, ed è altresì potenzialmente
foriera di derive interpretative irragionevoli. È malauguratamente facile
passare da una postura ermeneutica in cui il virus viene dipinto come un
nemico crudele a una in cui tale nemico comincia ad avere in seno alla
stessa umanità alleati e approfittatori, traditori del genere umano che
uno sciagurato istinto individua e punta col dito sempre fra le minoran-
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I volti del complotto
ze, e sempre fra quelle che più nella storia hanno sofferto di queste dicerie. Il dilagare di epidemie, soprattutto quando cominciano a rivestire
un carattere pandemico, inesorabilmente dà luogo a un panico che non
è solo sanitario ma anche ermeneutico, con l’emergere quasi spontaneo
della figura dell’untore, ossia dell’alleato pernicioso del morbo, ma anche
del profittatore, del fiancheggiatore del virus.
L’umanità spaurita dà spesso libero corso all’irragionevolezza, crea
o alimenta teorie del complotto, rivanga antichi stereotipi, vede nemici
ove non ve ne sono e immagina tradimenti. Quando tutto questo festival dell’insensatezza si traduce in immagine, poi, acquisisce la concretezza e l’inesorabilità dell’iconico, che è difficilissimo contrastare; e
quando oltretutto l’immagine si potenzia e circola grazie alle reti digitali, allora diventa ancora più dirompente, assume una carica virale che è
tanto difficile debellare come quella biologica, o forse anche più di essa.
L’attribuzione di un volto al male, di una personalità alla pandemia, e
di un volto al virus risponde dunque a un’esigenza di comprensione che
è anche e soprattutto visiva, perché molte delle pandemie della storia, e
soprattutto quelle che passano per le vie respiratorie — come appunto
la pandemia di COVID-19 — si propagano invisibilmente, a causa di
un virus impercettibile, trasportato da corpi umani che ne sono spesso ignari, già molto contagiosi per giorni ancor prima che la malattia
diventi visibile in essi sotto la forma del sintomo. Un virus invisibile
che si propaga invisibilmente nell’aria e che spesso rimane invisibile
nei corpi, pur contagiandoli e rendendoli contagiosi: questa dinamica
biologica costituisce la tempesta perfetta per il fragile e antico vascello
della narratività, che non tarderà dunque a cercare un volto di questo
male sfuggente e, nel peggiore dei casi, a prestargli le fattezze del capro
espiatorio di turno, della vittima designata di stereotipi, discriminazione, e segregazione.
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Massimo Leone
Di fronte a questo dilagare minaccioso dell’irragionevole, che minaccia di contagiare le menti in maniera ancora più grave di come il virus contagi i corpi, il semiotico deve prendere posizione, soprattutto se
vede anche presunti esperti di comunicazione e di discipline del senso
scivolare verso l’insensatezza, esattamente come quegli studiosi illustri che, in tutti i regimi, sciaguratamente piegano la propria scienza al
servizio dell’ideologia. Il monito semiotico di fronte a una calamità che
deriva dalla natura — per quanto si tratti di una natura colpevolmente
ferita dall’uomo — consiste in un invito a disciplinare l’immaginazione. Non pensiamo al virus come a un soggetto! Non pensiamo al virus
come a un nemico! Non pensiamolo come dotato di un volto, perché
questo, come dimostrano studi recenti, attribuisce una forza retorica
inespugnabile allo stereotipo antropomorfo. Soprattutto, non immaginiamo il volto del virus come quello di un individuo con nome e cognome, presunto pianificatore della pandemia; o con quello di un governo,
come se vi potesse essere una nazione che profitta della pandemia senza esserne a sua volta colpita; o con il volto mostruosamente raffigurato
di un gruppo umano, specie se etnico, perché tale riflesso corrisponde
al più basso istinto dell’umanità, a un uso deviato del linguaggio, al
vertice dell’ignoranza. Al contrario, è d’uopo che il semiotico rimanga
vigile, e denunci tutti i “volti del complotto”, ma senza dare manforte
all’irragionevolezza collettiva, o addirittura conferendole l’autorità del
paludamento accademico, bensì denunciando tutti i tentativi di attribuire un volto a un male senza volto, e di farlo riaprendo ferite antiche
che, inferte da tempi immemorabili nella storia umana, ancora sanguinano. Non dei volti del complotto il semiotico deve dunque trattare,
ma di complotti del volto, di retoriche che, perniciosamente, sfruttano
questo meccanismo fenomenologico e visivo antichissimo, la macchina
del volto, per dare corpo e forza all’ideologia. Non c’è niente di peggio,
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I volti del complotto
in tempi calamitosi come quelli che stiamo vivendo, di una pareidolia
irragionevole, di una pareidologia che non solo vede volti dove non
vi sono, come nel fenomeno della pareidolia, ma che a essi attribuisce
una carica ideologica la cui determinazione non ha alcun fondamento.
Denunciamo le pareidologie contemporanee, memori di quanto quelle
antiche abbiano seminato odio e dolore nella storia umana.
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Virus e
visus
Virus e visus
Il complotto della mascher(in)a
Gabriele Marino
Gabriele Marino
Una voce contro, a viso aperto
I controversi interventi che Giorgio Agamben ha dedicato a virus, pandemia e lockdown tra il febbraio e il maggio del 2020 sono stati raccolti nel
volumetto A che punto siamo?. La pandemia come politica, pubblicato
i primi di agosto dello stesso anno da Quodlibet, la casa editrice fondata
nel 1993 a Macerata da un gruppo di allievi del filosofo romano.
Dico “controversi” perché in questi testi, generalmente brevi e apodittici, Agamben, a detta di molti osservatori, non ha fatto altro che riciclarsi: applicando meccanicamente alla situazione in cui ci siamo trovati
a vivere tutti, in tutto il mondo, sostanzialmente per la prima volta, il
paradigma che, tra Heidegger e Foucault, ha raccolto e contribuito a sviluppare cristallizzandolo nell’epopea del suo testo-monstre Homo sacer
(1995-2014). Un paradigma fatto di concetti – parole chiave divenute poi
buzzword, veri e propri meme linguistici anzi (si veda la pagina “Young
Agamben”)1, anche sui social a seguito degli interventi sul virus – come
biopolitica, stato di eccezione, nuda vita. Dico “controversi” perché,
nell’applicazione meccanica di questo paradigma, Agamben ha esordito
parlando di una emergenza inventata (L’invenzione di un’epidemia, 26
febbraio 2020) e ha finito per paragonare i docenti che si fossero sottomessi a mascherine e didattica a distanza a coloro che non si opposero
alle leggi razziali (Requiem per gli studenti, 22 maggio 2020).
Interventi controversi: che hanno rischiato di squalificare il filosofo
agli occhi anche dei “fan” più incalliti. Chi scrive pensa che nelle sue riflessioni sul virus molte delle cose che Agamben dice siano interessanti
e che molte siano anche vere; al netto delle riflessioni sul virus, che – si
tratti o meno di un gesto filosofico, non importa – è stato inequivocabil1
https://www.instagram.com/young_agamben/, account Instagram creato il 18 aprile 2020; al 2 marzo 2021, con 681 post pubblicati e 2.844 follower.
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I volti del complotto
mente sottovalutato dal filosofo. Ma questo, in questa sede, ci interessa
solo fino a un certo punto2. I testi raccolti in A che punto siamo? sono
stati per lo più pubblicati originariamente all’interno della rubrica “Una
voce” che Agamben tiene con cadenza irregolare dal maggio 2017 sul sito
di Quodlibet, ma nel libro sono stati inclusi anche interventi pubblicati
su quotidiani, su altri siti e alcune interviste; della raccolta fa parte, per
esempio, un testo richiesto – ma poi rifiutato e quindi non pubblicato –
dal “Corriere della sera” e un inedito, posto in chiusura. Tutti i testi ruotano attorno alle idee chiave della filosofia politica agambeniana e sono
piuttosto omogenei tra loro, al punto che, anzi, vi sono ampie ripetizioni
puntuali – stesse parole, intere frasi – tra interventi autografi e interviste. La raccolta si arresta di fatto al luglio 2020, ma Agamben ha continuato – e continua – a scrivere i suoi caveat pandemici.
Quando la mascher(in)a brucia
Il 5 ottobre 2020 è apparso nella serie “Una voce” un testo intitolato
Quando la casa brucia, profondamente diverso dai precedenti (e ora
posto in apertura al volume omonimo, pubblicato da Giometti & Antonello nel dicembre 2020). Per prima cosa, si tratta di un testo assai più
lungo degli altri, circa 2.300 parole. In secondo luogo, si tratta di un
testo conturbante e perturbante, scritto in uno stile narrativo poeticizzante, allusivo, espressionista, che non è esagerato definire visionario,
e che è attraversato da spiccati accenti escatologici, se non apocalittici
(da taluni, per esempio Raffaele Alberto Ventura/Eschaton, avvertiti
2
Il presente breve testo è una sorta di working paper: un intervento
scritto “a caldo”, che ha avuto la sua prima e principale stesura tra il 5 e il 9 ottobre 2020. Mi riservo nel prossimo futuro di tornare sull’argomento in maniera
più circostanziata.
23
Gabriele Marino
addirittura come “quasi testamentari”)3. Agamben propone tanti paragrafetti in cui vengono chiosate delle pseudo-citazioni, tutte incentrate
sulla metafora della casa che brucia introdotta nel titolo. Il testo è figurativamente assai ricco (visionario, abbiamo detto), eppure si muove
su un livello di astrazione – di genericità, anche – che lo rende assai
vago, non sempre di facilissima disimplicatura. Il che è perfettamente
coerente con lo slancio propriamente profetico che a tratti lo illumina,
quando il filosofo volge lo sguardo a un futuro tratteggiato a tinte fosche, preconizzato dal nostro presente attuale (“Negli anni a venire ci
saranno solo monaci e delinquenti”).
La casa che brucia è ovviamente l’Occidente post-pandemico (“post” non nel senso che la pandemia sia stata superata, ma semmai del tutto
sussunta, assunta come naturale condizione di partenza), le cui radici
di degradazione vengono rintracciate da Agamben nelle guerre mondiali e ancora prima, e ancora più in generale, nella svolta a seguito
della quale l’uomo si è affidato ciecamente al plesso scienza/tecnologia,
rinunciando alla propria umanità. Pochi elementi semantici emergono
dallo sfondo molto omogeneo del testo, disegnato da un lessico piano e
quotidiano, ma intessuto di cripto-riferimenti e cripto-citazioni – e auto-criptocitazioni – dalla letteratura che costituisce il naturale sfondo
culturale agambeniano: l’Heidegger dell’aperto, il Foucault archeologo
dell’invenzione-uomo, i Deleuze e Guattari della lingua e della letteratura “minori”. Dico “cripto-” in senso tecnico, perché non compare
mai espressamente la fonte, né vi sono virgolette; ma sono chiarissime
anche ai non iniziati – come lo scrivente – queste allusioni. Spicca, nel
testo, un unico nome proprio, Jünger (il teorico della mobilitazione totale), spiccano le date della prima guerra mondiale, spicca quello che in
3
Pagina Facebook “Eschaton”, 6 ottobre 2020, https://www.facebook.
com/eschatonit/posts/3459490990740756.
24
I volti del complotto
questo contesto, e più in generale nel lessico del filosofo, non può non
suonare come un neologismo, “digitale”.
Ma perché ci interessa, qui e ora, questo testo? Perché vi si ritrova condensata in maniera potente quella teoria del volto su cui tanta filosofia
post-esistenzialista del Novecento ha mosso i propri passi o addirittura
costruito i suoi fondamentali.
La presenza del volto puntella, in effetti, fin dagli inizi la produzione di
Agamben (“La privazione è come un volto”, in L’uomo senza contenuto,
1970), sempre al crocevia tra oggetto di studio concreto e tangibile, ed
eminentemente estetico, e allusiva metafora della forma-di-vita, tanto
da meritare una – pur breve – voce dedicata all’interno del suo lessico
filosofico (curato da Murray e Whyte, The Agamben Dictionary, 2011,
p. 68). Il volto è presente lungo tutto l’opus magnum Homo sacer e si
ritrova in opere singole più recenti. Fin dalle note di presentazione di
Idea della prosa (2002), riprese dal primo “frammento” dedicato al linguaggio (p. 103), leggiamo:
Un bel viso è forse il solo luogo in cui vi sia veramente
silenzio. Mentre il carattere segna il volto di parole non
dette e di intenzioni rimaste incompiute, mentre la faccia
dell’animale sembra sempre sul punto di proferire parole,
la bellezza umana apre il viso al silenzio. Ma il silenzio –
che qui avviene – non è semplicemente sospensione del
discorso, ma silenzio della parola stessa, il diventar visibile
della parola: idea del linguaggio. Per questo nel silenzio
del viso è veramente a casa l’uomo.
In Nudità (2009), viene lungamente analizzata la dialettica tra volto e, appunto, corpo scoperto; quest’ultimo unica possibile dimensione
in grado di mettere in questione il primato del primo nella sua capacità di sintetizzare l’essenza di una persona e dell’umanità tutta. È però
25
Gabriele Marino
nel capitoletto dedicato all’interno di Mezzi senza fine, pubblicato nel
1996 (“Il volto”, pp. 74-80), che Agamben ha proposto la sua filosofia
del volto nella maniera più efficace e programmatica. Riprendendo Lévinas, Benjamin e Arendt, Agamben pensa il volto come luogo – anche e
soprattutto mediale, mediatizzato – della lotta politica. Il volto, da non
intendere semplicemente come porzione del corpo umano, è ciò che si
dà quando, grazie al linguaggio, l’uomo si appropria della propria apparenza e scavalca il suo stato di natura, rendendo possibile l’incontro
con l’esteriorità, accedendo così a quello che, sulla scorta di Heidegger, il
filosofo chiama “l’aperto”. Gli animali vivono immersi nella propria apparenza, senza poterla mettere in questione, senza potere vedersi dal di
fuori; l’uomo, dotato di volto, invece può.
In Quando la casa brucia il volto è quello di un uomo che, denegandolo, finisce semplicemente per non essere più uomo. È il caso di vedere i
passaggi puntuali che nel testo riguardano questo oggetto, direttamente
o “indirettamente” (si parla di volto, ma anche di occhi, sguardi, cecità,
respiro, facoltà di parola ecc.). Rimandando in ogni caso il lettore al testo
nella sua interezza.
Che una civiltà – una barbarie – sprofondi per non
più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici sono
abituati a segnare e datare cesure e naufragi. Ma come
testimoniare di un mondo che va in rovina con gli occhi
bendati e il viso coperto, di una repubblica che crolla senza
lucidità né fierezza, in abiezione e paura? La cecità è tanto
più disperata, perché i naufraghi pretendono di governare
il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto
tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di
un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di
esperti e di medici. Panico e furfanteria.
26
I volti del complotto
[…]
Occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a
vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava
in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi
margini. Come siamo riusciti a respirare fra le fiamme,
che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale
impostura – ci siamo attaccati.
Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre
e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza
possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora.
[…]
Quando pensiero e linguaggio si dividono, si crede di
poter parlare dimenticando che si sta parlando. Poesia e
filosofia, mentre dicono qualcosa, non dimenticano che
stanno dicendo, ricordano il linguaggio. Se ci si ricorda
del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare,
allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle
regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto,
l’aperto in cui siamo.
Il volto è la cosa più umana, l’uomo ha un volto e non
semplicemente un muso o una faccia, perché dimora
nell’aperto, perché nel suo volto si espone e comunica.
Per questo il volto è il luogo della politica. Il nostro
tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto,
lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono
esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il
tiranno è senza volto.
27
Gabriele Marino
[…]
Il viso è in Dio, ma le ossa sono atee. Fuori, tutto ci
spinge verso Dio; dentro, l’ostinato, beffardo ateismo
dello scheletro.
Che l’anima e il corpo siano indissolubilmente congiunti
– questo è spirituale. Lo spirito non è un terzo fra
l’anima e il corpo: è soltanto la loro inerme, meravigliosa
coincidenza. La vita biologica è un’astrazione ed è questa
astrazione che si pretende di governare e curare.
[…]
Quel che ci libera dal peso è il respiro. Nel respiro non
abbiamo più peso, siamo spinti come in volo al di là della
forza di gravità.
[…]
Sentire e sentirsi, sensazione e autoaffezione sono
contemporanei. In ogni sensazione c’è un sentirsi
sentire, in ogni sensazione di sé un sentire altro,
un’amicizia e un volto.
[…]
Resta, nella casa che brucia, la lingua. Non la lingua,
ma le immemorabili, preistoriche, deboli forze che la
custodiscono e ricordano, la filosofia e la poesia. E che
28
I volti del complotto
cosa custodiscono, che cosa ricordano della lingua? Non
questa o quella proposizione significante, non questo
o quell’articolo di fede o di malafede. Piuttosto, il fatto
stesso che vi è linguaggio, che senza nome siamo aperti
nel nome e in questo aperto, in un gesto, in un volto siamo
inconoscibili e esposti.
[…]
Accorgersi che la casa brucia non t’innalza al di sopra
degli altri: al contrario, è con loro che dovrai scambiare un
ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine.
[…]
L’uomo oggi scompare, come un viso di sabbia cancellato
sul bagnasciuga. Ma ciò che ne prende il posto non ha
più un mondo, è solo una nuda vita muta e senza storia,
in balia dei calcoli del potere e della scienza. Forse è però
soltanto a partire da questo scempio che qualcos’altro
potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire – non
un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo – un nuovo
animale, forse, un’anima altrimenti vivente…
Le ultime righe del testo sono una auto-criptocitazione, dalla chiusa
del volume L’aperto (2002); e l’immagine del volto dell’uomo soggetto,
come un disegno sulla battigia, alle onde del tempo, è a sua volta una
ripresa da Foucault, dalla chiusa de Le parole e le cose (1966). È l’uomo
pandemico quello il cui volto, soggetto al mutare delle epistemi, rischia la
cancellazione. L’uomo pandemico, mascherato, mascherinato: dal volto
interrotto, deturpato, occultato. E se il volto è lévinassianamente tutto,
29
Gabriele Marino
una volta che lo si è perso, si diventa nulla. L’uomo senza volto, che si
affida a “numeri, cifre e menzogne”, è non più uomo per Agamben. All’interno di quella che Rastier (Giorgio Agamben et le “complot objectif”,
2020) ha definito una “teologia politica del complotto”, il volto e il suo
significato rivestono un ruolo fondamentale, strategico. Per Agamben, in
questo frangente storico:
L’altro uomo appare in una dimensione di sospetto. La
mascherina, le maschere… che cosa si può avere con un
altro di cui non vediamo più il volto. Tutto fa pensare che
la società che si vuole instaurare è una società fondata
non sull’amore, sulla solidarietà ma sulla distanza, sulla
separazione, sul sospetto, forse anche sull’odio.
(intervista alla TV tedesca PrNeix, agosto 2020, https://
youtu.be/867_5upU55o).
La posizione di Agamben, che schiaccia il discorso filosofico sulla
cogenza della datità materiale pandemica, sembra suggerire, se non
semplicemente confermare, come il volto (naturalisticamente ontologicizzato e, allo stesso tempo, posto a perno di un’intera metafisica) sia
in fondo un dispositivo profondamente conservatore4: solo nel volto
4
È possibile che il termine corretto sia, piuttosto, “reazionario”. La sovrapposizione volto-identità è passata dal mondo della ritrattistica a quello dei
big data e degli algoritmi di facial recognition, intesi come strumenti (anche)
dotati di cogenza – se non normativa – quantomeno investigativa. L’idea di
esposizione e, quindi, delazione che pare connaturata a queste tecnologie sembra essere mantenuta, infatti, anche quando il loro impiego appare tutto fuorché conservatore, ma pur sempre, tecnicamente, reazionario; è questo il caso
del sito https://facesoftheriot.com/, online dal 16 gennaio 2021, dedicato a
esporre – attraverso l’esposizione del volto resa possibile grazie alle tecnologie
di facial detection – quanti avrebbero preso parte all’assalto di Capitol Hill il 6
gennaio, ordito da una folla di migliaia di simpatizzanti di Trump ed estremisti
di destra (QAnon, Boogaloo, Proud Boys).
30
I volti del complotto
starebbero il soggetto, la persona, l’identità, l’umanità. Senza, oltre il
volto essi, esse non si danno. Agamben sembra rifiutare ogni mutazione
antropologica, possibile o necessaria che sia: l’uomo dell’umanesimo,
di Pico della Mirandola, ironico e camaleonte (Agamben, L’aperto, p.
36). L’uomo che diremmo “mascherinamente modificato” è la morte
dell’uomo, perché è la morte della sua dimensione politica. Sulla scorta
di Benjamin, per un verso, di Schmitt, per un altro, per Agamben (Pulcinella, 2015) la maschera è quella della commedia dell’arte, che è e
resta sempre e solo tale, perché dietro, dentro non ha niente: “Pulcinella non è una persona, non compie azioni, non è responsabile di nulla,
non gli si può imputare nulla; dietro la maschera non c’è alcun volto.
Vuoto di rappresentazione; irrappresentabile. In breve: collasso della
politica” (Spina, Per un’etica e una politica destituenti, 2019, p. 121).
Noi però sappiamo come emergano ormai da tempo nuove concezioni – diciamo pure nuove ideologie, certo – di soggetto, persona, identità, umanità, in cui il primato del volto viene meno o quantomeno viene
messo tra parentesi, anche solo a mo’ di metafora. Identità che mettono
in questione la nostra idea – naturalizzata, ontologicizzata, incarnata –
di soggetto, persona, umanità. Identità collettive, che fuoriescono dal
dominio antropocentrico e, quindi, antropomorfo: è questo, per esempio, il caso dell’enunciazione collettiva dei big data secondo Paolucci
(Persona, 2020; che in questa sua proposta riprende, peraltro, Deleuze
e Guattari). Possiamo non amare questo mondo, possiamo rifiutarlo
(sono i “numeri, cifre e menzogne” di cui parla Agamben), ma essendovi completamente immersi dobbiamo sforzarci di comprenderlo ed
escogitare quindi le euristiche più adatte per poterlo fare, anche e soprattutto se intendiamo combatterlo.
31
Gabriele Marino
Maschera e volto
Pochi giorni dopo Quando la casa brucia, l’8 ottobre 2020, appare sul
sito di Quodlibet Un paese senza volto/Il volto e la maschera5; un seguito, o forse un reboot, perché si tratta di un intervento che didascalicamente nulla aggiunge a quanto già detto e che ripete, anzi, verbatim
alcuni passaggi già noti. Si tratta, allora, essenzialmente di una risposta a
caldo alle nuove disposizioni ministeriali sull’obbligo di portare sempre
con sé la mascherina, anche negli spazi pubblici, all’aperto, per strada.
Fin dal titolo di questa nuova puntata (incentrata sulla dicotomia volto
vs. maschera), si capisce facilmente dove e come (e perché) Agamben
sia distante da un approccio semiotico, dove e come (e perché), anzi, sia
genuinamente antisemiotico, pur proponendo spesso la sua come una
filosofia – se non del linguaggio – della lingua (una archeologia, in senso
foucaultiano, che passa anche dalla filologia, dalla lessicografia, dall’etimologia). Per il semiologo, vi può anche essere un’opposizione radicale tra volto e maschera (è in effetti facile costruire un classico quadrato
semiotico, del tipo Essere vs. Sembrare, attorno a questa opposizione),
ma non un’opposizione vera6; il primo, infatti, a ben vedere un po’ come
la “nuda vita” di cui parla il filosofo, non è che un’astrazione ricavata ex
post e posta come fondativa della seconda (“La vita biologica è un’astrazione ed è questa astrazione che si pretende di governare e curare”): il
5
Il testo è l’unico, finora, nel lotto pandemico agambeniano a presentare
una doppia titolazione: Un paese senza volto è il titolo che il lettore si trova davanti come anteprima scorrendo la pagina della rubrica “Una voce”; cliccandovi
sopra per leggere l’intervento nella sua interezza, il lettore si trova poi davanti un
altro titolo, Il volto e la maschera.
6
Così come, in una prospettiva semiotica, che non può pensare l’umano
senza il transumano (come già suggerito, del resto, nello stesso testo biblico),
non vi è vera opposizione tra uomo e automa; si veda Sini, L’uomo, la macchina,
l’automa, 2009; Marino, Il ghigno di Aphex, 2021.
32
I volti del complotto
volto supposto naturale, cioè, è solo una delle ideologie, solo una delle
maschere semiotiche, tra le tante, che l’uomo può decidere di indossare – o meno, certo – per veicolare, mostrare, sovrascrivere, denegare la
propria identità, la propria persona.
Una semiotica del volto è in effetti una semiotica della maschera, una
semiotica di ciò che può “mentire il volto” (e così facendo, di fatto, lo
stabilisce), esattamente come la semiotica generale è, seguendo l’Eco del
Trattato, la teoria di tutto ciò che può essere usato per mentire. Per la
semiotica (si veda in particolare Magli, Il volto e l’anima, 1995, pp. 9-15)
non esiste “il volto” (semplicemente face, nelle edizioni inglesi delle opere di Agamben): esistono la faccia (facies, il dato biologico), il volto (vultus, maschera fisiognomica che significa) e il viso (visus, percetto che
fonda il rapporto con l’altro). Una tricotomia questa perfettamente nota
ad Agamben (si veda anche solo il breve estratto da Idea della prosa
citato sopra, in cui si parla di volto come veicolo di segni, di faccia –
“muso” in Quando la casa brucia – con riferimento all’animale e di viso
che, capace di farsi silente esponendosi così in quanto linguaggio, è proprio solo dell’animale umano), il quale però proditoriamente la ignora e
non la mette a sistema. Per la semiotica, l’uomo non indossa maschere,
tangibili o immateriali, esclusivamente per nascondersi, negarsi: ma è
anzi grazie alla maschera, all’intervento esplicito della cultura sulla sua
natura, che si scopre e autorappresenta come uomo, come possibilità; ivi
inclusa quella di indossare una maschera trasparente in cui viso e volto
collassano tutt’uno nella faccia.
Una semiotica del volto, allora, e cioè più precisamente una semiotica del viso (e quindi: una semiotica della maschera), pur così distante
dalla prospettiva agambeniana, e forse proprio per questo motivo, non
può non confrontarvisi. Per Agamben, la mascher(in)a è il correlativo
di un complotto ordito per imbavagliarci, alla lettera e non solo: siamo
33
Gabriele Marino
ridotti a gusci di nuda vita da una medicina ormai divenuta una nuova
religione, complice di una biopolitica pronta a tutto per perpetrare indefinitamente quello a cui ci sottopone come stato di eccezione. Medicina e
politica sono tutto tranne che campi neutri e innocenti. Ma il semiologo
può sforzarsi di scavalcare il dominio facile del simbolico (la mascherina
correlativo) e pensare che in fondo la faccia complotti già di suo contro
se stessa, nel farci credere che, quando il nostro viso non indossa una
maschera, stiamo mostrando il nostro vero volto. Parimenti, non è detto
che non stiamo mostrando il vero volto che abbiamo quando offriamo
una maschera come viso, nel faccia a faccia con l’altro.
34
I volti del complotto
Bibliografia
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senza contenuto, Rizzoli, Milano; rist. 1994, Quodlibet, Macerata, pp.
89-101.
Agamben, Giorgio, 1996, “Il volto”, in Id., Mezzi senza fine. Note sulla
politica, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 74-80.
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2013.
Agamben, Giorgio, 2009, Nudità, nottetempo, Milano.
Agamben, Giorgio, 2015, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi,
nottetempo, Milano.
Agamben, Giorgio, 2018 (1995-2014), Homo sacer. Edizione integrale,
Quodlibet, Macerata.
Agamben, Giorgio, 2020, L’invenzione di un’epidemia, “Una voce”,
26
febbraio,
https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzio-
ne-di-un-epidemia.
Agamben, Giorgio, 2020, Requiem per gli studenti, “Istituto Italiano Studi Filosofici”, 22 maggio, https://www.iisf.it/index.php/attivita/pubblicazioni-e-archivi/diario-della-crisi/giorgio-agamben-requiem-per-gli-studenti.html.
35
Gabriele Marino
Agamben, Giorgio, 2020, A che punto siamo?. La pandemia come politica, Quodlibet, Macerata.
Agamben, Giorgio, 2020, Interview with Giorgio Agamben, August
2020, “PrNeix”, https://youtu.be/867_5upU55o, video caricato il 30
agosto.
Agamben, Giorgio, 2020, Quando la casa brucia, “Una voce”, 5 ottobre,
https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-quando-la-casa-brucia.
Agamben, Giorgio, 2020, Un paese senza volto/Il volto e la maschera, “Una voce”, 8 ottobre, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-un-paese-senza-volto.
Agamben, Giorgio, 2020, Quando la casa brucia. Dal dialetto al pensiero,
Giometti & Antonello, Macerata.
Magli, Patrizia, 1995, Il volto e l’anima. Fisiognomica e passioni, Rizzoli,
Milano.
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transumano in musica, “Lexia” 37-38 (“Volti artificiali/Artificial faces”,
a cura di Leone, Massimo), pp. 197-216.
Paolucci, Claudio, 2020, Persona. Soggettività nel linguaggio e semiotica dell’enunciazione, Bompiani, Milano.
Parsley, Connal, 2010, The Mask and Agamben: The Transitional Juridical Technics of Legal Relation, “Law Text Culture” 14, pp. 12-39.
36
I volti del complotto
Parsley, Connal, 2011, “(The) Face”, in Murray, Alex; Whyte, Jessica, a
cura di, The Agamben Dictionary, Edinburgh University Press, Edinburgh, p. 68.
Rastier, François, 2020, Giorgio Agamben et le “complot objectif”, “E|C
Serie Speciale” XIV, 29, pp. 145-149, https://mimesisjournals.com/ojs/
index.php/ec/article/view/620.
Sini, Carlo, 2009, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza
tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino.
Spina, Salvatore, 2019, Per un’etica e una politica destituenti. La questione del gesto nel pensiero di Giorgio Agamben, in “Lessico di Etica
Pubblica” X, 1 (“La filosofia di Giorgio Agamben: metafisica, politica, etica e diritto”, a cura di Sferrazza Papa, Ernesto C.), pp. 111-122, http://
www.eticapubblica.it/wp-content/uploads/2019/08/09.Spina-LEP.pdf.
37
Accenni pre-veridici del
complotto nel sistema
dell’arte e face studies
Accenni pre-veridici del
complotto nel sistema
dell’arte e face studies
Silvia Barbotto
Un monaco domandò un giorno al suo maestro:
“Qual è la verità suprema?”
“Com’è bella la montagna oggi!” disse il maestro.
“Non ti ho chiesto della montagna, ma della verità.”
ribatté il monaco.
E il maestro rispose: “Finché non vedrai la
montagna, non vedrai la verità.”
Kōan, saggezza popolare a tradizione buddhista
Silvia Barbotto
Nell’inestricarsi vicendevole di cause ed effetti associati seppur in una
prossemica non lineare e distante, il complotto è affare complesso. Lo
si può pensare come un frammento paradigmatico di soglia, intramezzo la cui costituzione è basata né sull’affermazione, né sulla negazione,
ma su una coesistenza di entrambe le entità anche se apparentemente
contradditorie.
Mu, tipica risposta di qualsiasi kōan, sottostà latente e poetica, all’analisi epistemologica dei complotti i quali rivelano continui paradossi,
contrarietà e contraddizioni. Infatti, benché spesso vengano smascherati o dichiarati, avviene altrettanto frequentemente il loro accomodarsi situazionale, la loro semi-naturalizzazione e accettazione sistemica.
Il complotto è una specie di elaborazione problematica che, mettendo in gioco la comprensione, si appella all’assurdo, al banale, all’illogico. Pur facendo leva su indoli di varia specie, è caratterizzato da logiche endogene accomunate da un filo trasversale: “La psicologia del
complotto nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti
preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa
male accettarle.” (Eco, 2014: 395)
È un dire-altro, una scena ribaltata, una confusione pericolosa. Ma
può anche avere caratter di nobil resistenza, vulnerabile minoranza che
prende voce, semiosfera indipendente che si fa strada nel e con il linguaggio, di cui sfiora l’abuso ridicolizzando i tentativi di veridizione. O
di silenzio e ritirata. “Le complot, c’est aussi l’omertà, le motus et bouche cousue imposé àtout le monde la mort moderne, le tragique atone
de Hôlderlin, assassinat sémantique et mise en boîte - et d’abord le
silence imposé aux principaux concernés, l’aphasie.” (Artaud in Kacem,
2015: 29)
Invochiamo il linguaggio verbale, le narrazioni discorsive dove la sintassi stabilisce il divenire soggettivante e verbalizzante determinando-
40
I volti del complotto
ne estensioni e appartenenze, incorporiamo il linguaggio dell’arte dove
attribuzioni ed elusioni avvengono nella modalizzazione dell’altrove:
mezzi ibridi di parola, fauce inventiva e continuità karmica cumulativa.
“Language is experienced not merely as something shared but something corrupted, weighed down by historical accumulation. Thus, for
each conscious artist, the creation of a work means dealing with two
potentially antagonistic domains of meaning and their relationships.
One is his own meaning (or lack of it); the other is the set of second-order meanings which both extend his own language and also encumber,
compromise, and adulterate it. The artist ends by choosing between
two inherently limiting alternatives.” (Sontag, 1967: VIII)
Posizionarci nel mezzo asistematico di fenomeni dicotomici categorici e auto-riflessivi permette di scostarci, somatica- e semanticamente,
dai forzosi e ridondanti schieramenti che radicalizzati nei prefissi pro
e contro, per situarci in un abismo deitticamente lontano dal determinismo estremista. È altresì certo che la deissi, per quanto aperta, organica e inclusiva, rimanda inevitabilmente a una qualificazione spazio
temporale dal carattere estetico, assiologico e politico. Appartenente
sia alle viscere più intime e personali che alle maglie sociali di amplio
raggio, si può dunque pensare il complotto in termini intrapersonali,
interpersonali, sociali. Bricolage di ciò che si mostra e si occulta, sguardo inquisitore e attrattivo, metafora in maschera, copertura parziale
che attiva contemporaneamente i sistemi di negazione e affermazione.
È vero, un complotto intimamente proprio non dovrebbe forse assumere tale denominazione giacché esso dev’essere per natura condiviso:
ma se pensiamo che un complotto intrapersonale non tenga ripercussione di maggior respiro e non coinvolga dunque aspetti macro sociali oltre
che micro strutturali, ci azzardiamo forse all’equivoco.
41
Fig. 1
Pierre-Louis Pierson
(Countess Castiglione Posing with a Frame Held Over one eye)
Scherzo di follia
Fotografia 1861-67
Stampa a gelatina d’argento su negativo di vetro
39.8 x 29.8 cm
The metropolitan Museum of art, Gilman collection. Open Art store
I volti del complotto
Jameson lo studia in termini allegorici e ne rimarca la magnitudine
collettiva: “Quant à la dimension collective de cette machine herméneutique, elle se trouve propulsée dans un nouvel ordre de choses par l’intensification dialectique de l’information et de la communication, lesquelles
demeurent non thématisées tant que l’on reste dans le domaine de la
foule.” (Jameson 2007: 29, 30)
Quali fondamenti reggono la folla del complotto? Quanto influiscono
le istanze colpa, paura, castigo nella formulazione dello stesso? Quale eco
nell’organizzazione privata e pubblica? Ma ancora: essendo il complotto
condiviso interparte, quali motivazioni e quali narrazioni susseguono il
suo perpetuarsi? Vi è alcuna relazione tra complotto, scherzo, follia? E
soprattutto come si presenta e propone il ruolo del volto nel complotto?
Il nostro approccio semiotico ci porta a riflettere sulle verità-multipli vestendoci della politicità necessaria a qualsiasi soggetto analitico e,
transitando all’ombra delle possibili verità senza garanzie, contribuiamo
alla veridizione questionandola continuamente. “Semiotics works with
no guarantees. And, first among all, it works with no guarantee of truth.
Yet at the same time, semiotic research cannot escape from constantly
generating its point of view on truth, its effects of truth, and its potential
collective truths. (…) The truth is that every day, by the acting of various forms and formations, we define our personal identity by preserving
and at the same time effacing something of our own life, something of
who we are. On the other hand, while we recognize heterogeneity, incompleteness, and indeterminacy as part of our lives, we still can and
must affirm the various “pieces” that populate our world(s) that gather
together, structure themselves—at least for someone or under a certain
gaze—thanks to an unfinished social work.” (Sedda, 2015: 679, 680)
Alla base del sistema-complotto e delle teorie che ne scaturiscono, risiede contundente l’apparato testuale legato alla verità, alle verità, al pre
43
Silvia Barbotto
o post verità. Si tratta di un’elaborata genesi il cui processo implica necessariamente la messa in gioco della sua controparte: la non verità? le
non verità? e ciò che ne intercorre. Queste istanze, seguendo il quadrato
semiotico di Greimas e Courtes (1979: 369) stanno in relazione di contraddizione rispetto alle prime, le quali a sua volta vedono nella bugia,
nelle bugie, gli elementi con cui stabilire una relazione di contrarietà. La
non bugia e le non bugie, costituiscono invece la funzione modalizzante
complementaria: una non bugia implica dunque una verità.
Lo schema potrebbe aiutarci nell’azione decostruttiva il cui metodo
consiste nell’identificare non solamente gli oggetti che formano direttamente una sfera semantica, ma anche quelli che, per economia funzionale temporanea, ne vengono solitamente esclusi. Nell’essere reintrodotti
tali elementi apparentemente distanti o fuorvianti, avviene un processo
incoativo per cui si originano nuovi percorsi relazionali. Le verità, assunte originalmente come tali, diventano più vulnerabili e, riformulando
quindi la propria indole, vengono messe alla prova in ogni passaggio.
Ci sono verità che sembrano presentarsi così determinanti e affermative
che neppur il più elaborato concatenarsi disarticolante, potrebbe squilibrare
il loro statement: “The sun requires no torch to make him visible, we need
not light a candle in order to see him. When the sun rises, we instinctively
become aware of the fact. (…) Truth stands on its own evidence, it does not
require any other testimony to prove it true, it is self-effulgent. It penetrates
into the innermost comers of our nature, and in its presence the whole universe stands up and says: “This is truth.”” (Vivekananda, 2003: 24)
Una delle posizioni privilegiate per conoscere la verità apparterrebbe a chi, secondo Hannah Arendt, sia capace di rendersene spettatore
o spettatrice: involucrandosi nel corso degli eventi, l’attore o l’attrice
sociale incalza nel loro scorrere senza aver la lucida visione che invece
otterrebbe chi la vivesse contemplandola. E cosa direbbe invece Bruno
44
I volti del complotto
Latour con il suo elaborato concetto di attore-rete?1 La verità è quel qualcosa di accessibile attraverso la conoscenza, è un tramite articolatorio di
polifonica consistenza contraddistinta da un aspetto più superficiale e
da uno piú profondo, accessibile soprattutto attraverso l’intuizione: “El
conocimiento se adquiere buscando lo que se suele llamar “verdad”, y
su forma más elevada, la forma superior de la verdad cognitiva, es, ciertamente, la intuición. Todo el conocimiento se inicia con el análisis de
las apariencias tal y como se presentan a nuestro sentidos, y si el investigador desea ir más allá y encontrar las causas de los efectos visibles,
su objetivo será poner de manifiesto aquello que puede ocultarse bajo la
superficie.” (Arendt, 1978: 107)
Insieme alle forme più poetiche e profonde della ricerca della verità
vi sono anche altre verità che tecniche estremamente meccaniche, analogiche o digitali, si propongono di di-mostrare a partire dall’osservazione e misurazione delle espressioni del volto, nonchè delle reazioni
sinaptiche cerebrali.
Pensiamo a come ingiustizie del passato (e del presente) hanno fatto
della misurazione di precise parti del corpo e del volto, la fonte manipolata di supposte verità, implementando e rafforzando razzismi e imperialismi: “(…) proprio intorno al corpo il colonialismo ha giocato buona
parte del suo potere: misurandone zigomi e statura, ricoprendolo o secondo i casi togliendogli il velo, incatenandolo ai ceppi o amputandone
le mani, medicalizzandolo o addomesticandone i gesti con la “teoria del
coltello e della forchetta”... E nel corpo, un corpo espropriato e spossessato, che il colonizzato ha conosciuto il livello più bieco di violenza e di
1
Si consiglia di approfondire Latour (2005). El ser humano social es un
actor-red, en donde por red se entiende “el rastro que deja algún agente en movimiento” (192). Todo el texto describe el conjunto de acciones e informaciones
a la base del ser humano como un actor social: “La tarea consiste en desplegar
actores como redes de mediaciones.” (197)
45
Silvia Barbotto
subordinazione, l’espressione più oscura dell’intreccio fra coercizione e
soggettivazione.” (Fanon, 2011: 15)
Si uniscono quindi caratteri analitici legati all’intuizione, all’osservazione, ma anche all’attenzione sulle fonti utilizzate per poter asseverare un’azione, un movimento, una frase e affermandone quindi lo statuto veritiero.
L’osservatore-attore, anche contemplatore di sé e degli altri, di soggetti o
oggetti, diventa dunque testimone: “Ogni testimone deve sempre fare ampio uso del suo resoconto, della sua conoscenza di persone, posti, cose, usi
linguistici, convenzioni sociali e cosi via. Egli non puó fidarsi unicamente
dei suoi occhi e delle sue orecchie, specialmente se il suo resoconto viene
usato per giustificare un’asserzione degna di essere giustificata. Ma, naturalmente, questo fatto non potrà non sollevare sempre nuove questioni
circa le fonti di quegli elementi della sua conoscenza che non sono immediatamente di carattere osservativo.” (Popper, 1972: 45)
Popper ci invita a tener conto di una continua messa in dubbio delle
fonti, includendo la nostra stessa mente e chiedendoci: “Ma quali sono
allora le fonti della nostra conoscenza? La risposta, penso, è questa: la
nostra conoscenza ha fonti di ogni genere, ma nessuno ha autorità.”
(Popper, 1972: 51).
In una specie di virata cognitiva che nega l’esistenza di fonti ideali perché tutte “possono portarci all’errore una volta o l’altra”, Popper
ci propone di sostituire la domanda aggiornando la formula: “In che
modo possiamo sperare di scoprire e di eliminare l’errore? (…) Criticando le teorie e i tentativi congetturali fatti dagli altri, e, se possiamo
educarci a farlo, criticando le nostre stesse teorie e i nostri tentativi
congetturali.” (Popper, 1972: 53)
Anche Umberto Eco ce lo ripete continuamente ricordandoci come la
disciplina semiotica professionale, ma anche quella dilettantistica, aspiri
sempre al sospetto di ogni evidenza: “Considero mi deber político invitar
46
I volti del complotto
a mis lectores a que adopten frente a los discursos cotidianos una sospecha permanente, de la que ciertamente los semioticos profesionales
sabrían hablar muy bien, pero que no requiere competencias científicas
para ejercerse.” (Eco, 1973: 6) E se l’errore, ci insegna lo stesso Eco, fosse
invece fonte di nuove verità? Per questo bisogna continuamente riflettervi (flettere su), processare, rielaborare. “No solo tengo siempre miedo a
equivocarme, sino que también tengo siempre miedo de que lo que hace
que me equivoque tenga razón.” (Eco, 1973: 6)
Sembrano dunque esistere metodi per proteggersi dai complotti, quelli altrui, ma anche per evitarli prevenendo la loro inserzione, a volte tacita, nel linguaggio proprio. Non solamente nel suo discorrere e rappresentare, ma anche nel suo ruolo formante, nel suo germogliare valoriale.
Inerente alla nozione di egemonia, è proiezione totalizzante di dominazioni sottili, tendenza forzosa alla diagnosi, potere di classificazione o
elusione, stasi simbiotica vigente su fonti fittizie e facili, manifestazione
aspra e diretta rielaborata in versione edulcorata.
Identificazione, scostamento, sradicamento e ritorno costante al
dubbio nell’errore. Esso, infatti, può sfiorare o entrare nella categoria
di quelle strategie semantiche di elaborazione dell’informazione ma
anche di sopravvivenza funzionale: alcuni autori le chiamano bias o
euristiche (dal greco scoprire, trovare), ce ne sono decine di varianti
tipologiche, tutte accomunate dal fatto che “spiegano come ci autoinganniamo quando giudichiamo situazioni o persone, o facciamo delle
scelte, poiché rispondiamo ad automatismi mentali molto comuni che
ci portano a prendere decisioni fondate su percezioni influenzate già in
partenza.” (Quattrociocchi, 2018: 51)
Se il complotto fosse un semplice errore limpidamente identificabile,
allora sarebbe facile estirparlo. Ma esso è invece una fluid bubble in cui
caso e pianificazione, singolarità e comunità si sposano amorevolmente
47
Silvia Barbotto
per dare origine a un organismo che, espandendo le proprie frontiere limitanti, si estrapola sfuggendosi. Ritornerebbe dunque il pensiero di Artaud, a suo tempo rilegato in quanto folle e ora elogiato come genio: “Je
me suis aperçu qu’on pouvait y déchiffrer une théorie oblique du complot, c’est-à-dire du pléonasme du complot comme toujours oblique.”
(Artaud in Kacem, 2015: 25)
Effettivamente il mondo dell’arte è una sfera allettante nella quale
predisporre il nostro lavoro di campo alla ricerca dei complotti nella sua
storia, accennandone il loro sviluppo e studiando il ruolo del volto negli
stessi. Ci occupiamo di sollevare questioni, di rifletterci, ma non di trovare
soluzioni e risposte da immagazzinare in scatola chiusa.
Indice semantico di un segno previo oltre che immanente, geometricamente stabilito nell’attualità di una traccia che rimane e che alimenta
deduzioni su ciò che era, il volto è trama armonica e condivisa di credenze fattesi forma, sottofondo ideologico e situazionale su cui porre costruzioni quotidiane talvolta naturalizzate. Possibile contenitore di congetture denotate in espressione, provocatore di connotazione articolata la
cui lettura risulta spesso sfocata o addirittura inaccessibile, il volto si fa
spazio tra la forza semantica di un complotto frantumato o ancor sotteso, simbolo dell’isotopia dalle proprietà confuse, estrosità emblematica e
auto-riflessiva in continuo questionamento.
Un cranio iconico e incoerenze normalizzate nel mercato dell’arte con
attenzione all’opera For the love of God di Damien Hirst nel primo caso,
scherzo e falsificazione dei volti nelle rappresentazioni artistiche de le
teste di Modigliani2 nel secondo esempio, errore e smascheramento di
un evidente complotto nella politica culturale attraverso l’identificazione
di paratesti della faccia isotopica nell’ultimo studio.
2
http://www.modigliani1909.com/la_beffa_del_1984.html
48
I volti del complotto
Nel primo caso facciamo affidamento ad alcuni estratti del documentario di Ben Lewis – The great contemporary art bubble (2017) editato da BBC
3
in cui viene definito il mercato dell’arte come “the biggest
longest lasting bubbliest bubble of them all”. Tramite alcune interviste
a personaggi chiave del sistema internazionale dell’arte, siamo partecipi
delle stravaganze interne, ma anche delle anomalie riguardanti casi specifici del settore finanziario. “Art market commentators said that strategies used by art dealers also played a role in the inflating value. (…) There
was a specific strategy that was discussed: gallery owners, collectors and
dealers were said to support or prop up the prices of artists who may
represented or whose work the owned in large quantities.”
Durante l’intervista a Scott Rayburn “he explained that he routinely
bids for work by his artist to ensure that his works never fail to sell at auction.” Emergono inoltre alleanze strategiche, come quella che ha permesso
la costruzione dell’impero Warhol di Jose Mugrabi, che ne possiede circa
800 pezzi e che durante l’intervista spiega: “How price is working? Is very
simple: if you have a painting and you say the price is x, and somebody pay
x, so that is the price. But then he decides to leapfrog the previous asking
price.” Il reporter avverte: “In many commodities markets there are laws
about owning so much of something that you can influence the price, it’s
known as cornering the market. (…) But there are no rules about cornering the market in the art market.” Viene anche presentata un’intervista a
Richard Brodsky (del New York Assembly) il quale si era occupato del caso
postumo alla vendita di Irises di Vang Gogh (1987) a 30 milioni di pound,
anch’essa una bubble story, una transizione da lui definita non etica.
Josh Baer, giornalista del mercato dell’arte, afferma che “the illusion
is that the market is the real market, but it is an illusion, because it is
3
https://www.youtube.com/watch?v=iYJyYGKV8GM
49
Silvia Barbotto
easly manipulated.” Effettivamente giá nel celebrissimo testo di Baudrillad “El complot del arte” (1972), l’arte stessa è considerata illusione:
“Necesitamos ilusionistas que sepan que el arte y la pintura son ilusión;
que sepan, pues, tan lejos de la crítica intelectual del mundo como de la
estética propiamente dicha (la cual supone una discriminación reflexiva de lo bello y lo feo), que todo el arte es primero un trompe-l’ceil, un
engaña-ojo, un engaña-vida, como toda teoría es un engaña-sentido.”
(Baudrillard, 1972: 44).
Fig. 2
Damian Hirst
For the love of God, 2007
Scultura in platino,
diamanti e denti umani
White Cube Gallery,
London
Wiki common open Access
“50 million pounds, For the love of God is the most expensive art
piece in the history” racconta il manager della Galleria di Hirst, Frank
Dunphy: l’opera sarebbe stata tacitamente venduta ad un consorzio di
50
I volti del complotto
investitori tra i quali, appare nel documentario, vi sono la stessa galleria
e addirittura l’artista. Emerge inoltre che, nonostante tutte le esibizioni
di Hirst fossero state a loro tempo dichiarate sold out, rimanevano invece centinaia di opere invendute: un documento interno di White Cube
ottenuto (non si sa come) da Ben Lewis, descrive la lunga lista di opere
ancora disponibili, informazione che contrasterebbe ciò che già era stato
dichiarato anteriormente.
Il cranio diamantato, insieme alle nuove informazioni, diventa scandalo mondiale il quale, inizialmente negato da parte dei responsabili
stampa della Galleria White Cube, (“It is a lie, we sold everything”),
viene invece riconosciuto e poi, poco a poco, zittito. A seguito della crisi
mondiale del 2008, a febbraio 2009, Sotheby, la più grande casa d’aste,
dichiara la perdita del 75% del suo fatturato: “The great contemporary
art bubble will surely go down in history as the epitomy of the vanity
and the folly of our ages.” Sembra che il mercato dell’arte esploda da un
momento all’altro e con esso affiorino i cavilli complottistici del teschio
di Hirst e delle sue opere vendute-invendute. E invece il documentario
termina smentendosi, assecondando la crisi del mercato dell’arte, ma
rendendo noto che l’artista continua la propria opera maestra nel creare, mostrare e vendere la grande illusione. “His work plays perfectly
into the game of traying to do things that push the envelop.” (Robert
Florczak, art critic)4
“Puede resultar paradójico, pero es verdad: hay una simulación verdadera y una falsa. (…) No hay que sumar lo mismo a lo mismo, y así
sucesivamente, en abismo: esto es la simulación pobre. Hay que arrancar lo mismo de lo mismo. Es preciso que cada imagen le quite algo a la
realidad del mundo; es preciso que en cada imagen algo desaparezca,
4
https://www.youtube.com/watch?v=Vk5X4MdMuQw
51
Silvia Barbotto
pero no se debe ceder a la tentación del aniquilamiento, de la entropia
definitiva; es preciso que la desaparición continúe viva: este es el secreto del arte y de la seducción.” (Baudrillard, 1972: 26)
Fig. 3
Amedeo Modigliani
Ritratto femminile (1917)
Olio su tela
60,4 x 46 cm.
Collezione privata
Estratto da catalogo
digitale originale
Passiamo al secondo caso. Nel 2017 andai a visitare la mostra di Amedeo Modigliani a Palazzo Ducale, Genova: era il 12 luglio e mi affrettai
perché pochi giorni dopo sarebbe terminata un’occasione preziosa di
vedere così tante opere sue in un unico spazio. Ricevetti un catalogo
prezioso che conservo accuratamente: fu un’esposizione meravigliosa,
apparentemente abbondante, generosa ed esuberante. Nell’edificio limitrofe dello stesso Palazzo vi era una personale di Vivian Meyer con i
suoi bellissimi autoritratti che sarebbero poi diventati, negli anni suc-
52
I volti del complotto
cessivi, fonte di ispirazione teorica e produzione creativa. Pochi giorni
dopo, proseguendo il viaggio in centro Italia, lessi la notizia che la mostra aveva anticipato la chiusura e che 21 tele erano state sequestrate
imputate di esser false. A gennaio 2018 si ebbe la conferma che 20 quadri su 21 erano effettivamente non-originali5.
Una nuova novella del falso, un episodio che diede degno seguito a
ciò che alcuni anni prima aveva originato “la beffa del 1984.”6 Era l’estate del 1984 quando in occasione del Centenario dalla nascita dell’artista, vennero inaugurate alcune iniziative che comprendevano anche
il dragaggio dei Fossi di Livorno, dal ponte di San Benedetto a quello
di Piazza Cavour: “le testimonianze (e non è dato sapere quanta leggenda vi sia nei racconti) parlano di un episodio assai pittoresco della
vita dell’artista livornese: durante una breve visita nella sua città (dal
1906 Modì abitava a Parigi) avrebbe offerto alcune “testine” scolpite
nella pietra serena ai suoi amici, ma essi avrebbero deriso quelle forme
oblungate e stilizzate. Allora l’artista, in un momento di rabbia, avrebbe
gettato le sculture (alcuni dicono che fossero pietre appena sbozzate)
nel fosso mediceo di fronte al mercato. Verità o leggenda?”.7
Ne vennero trovate tre: esaltazione, festeggiamenti e soprattutto conferma della loro originalità da parte della maggior parte degli esperti e famigliari dell’artista, gruppo dal quale però si distaccava fermamente Carlo Pepi,
tra i maggiori specialisti di Modigliani che, anche in quell’occasione (così
come per l’avvenimento di Palazzo Ducale) denunciava la falsità delle teste.
5
https://bit.ly/30XU2FU
http://www.modigliani1909.com/lo_scandalo_di_Genova.html
https://bit.ly/311eWUy
https://bit.ly/3vFLzFz Ultima consulta 20 dicembre 2020.
6
https://bit.ly/2NyV6ga Ultima consulta 20 dicembre 2020.
7
www.modigliani1909.com Articolo originale scannerizzato “Appuntamento alla primavera, ma si temono difficoltà”. Ultima consulta 30 dicembre 2020.
53
Silvia Barbotto
Fig. 4
Giulio Argan, Dario Durbé, Cesare Brandi, Angelo Froglia
Le tre teste false (La beffa del 1987)
Pietra e resti d’asfalto
Dalla pagina ufficiale www.modigliani1909.com
Poche settimane dopo, tre studenti universitari livornesi, Carlo Giulio
Argan, Dario Durbé e Cesare Brandi, svelarono lo scherzo: erano stati loro
a costruire una delle sculture ritrovate e certificavano tale affermazione
con prove ineludibili.8 Qualche mese più tardi emerse anche l’autore delle
altre due opere, questa volta produzione di Angelo Froglia il quale aveva
voluto produrre un’azione estetica mirata alla “demistificazione del mito”.
Il ritrovamento delle tre teste ebbe un’eco mondiale e finì per diventare
mostra itinerante, i veri falsi di Modì, nel 2014.
È complotto cercare di alterare la realtà attraverso strategie ottiche,
corporali, pratiche performative? Non sono forse queste stesse azioni a
8
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/falsi-modigliani-a-genova-la-beffa-si-ripete
54
I volti del complotto
ricordare invece verità infondate e loro possibili ripercussioni, a esaltare
e delucidare critiche a una normalizzazione della falsità divorante?
Ritorna l’allegoria del complotto, come una specie di parafrasi dell’astrazione, la cui espressione assume concretezza in un linguaggio formale, dotato di corpo e riferito oggettualmente. L’oggetto dell’allegoria,
tutt’altro che oggettivo, è invece apertura alla stratificazione del senso,
intersecazione modale di contraddizioni altrimenti impossibili, materia
di vento fatto parola o sembianza di ciò che un’immagine non dice ma,
timidamente, lascia trapelare. Complotto come performance, esemplificazione di uno schema soggiacente addormentato, il falso che risveglia la
verità, motivazione a ricordare di reinterpretare sempre.
Per Jameson (2007: 14) “l’allegorie constitue un process dual: la representation désigne autre chose qu’elle-même, et l’acte interpretative
cherche à exploiter la ‘blessure’ de l’œuvre pour saisir la représentation
comme visée de quelque chose de plus général. (…) tout (dans la dramaturgie de l’ouvrage) se passe comme si l’allégorie de complot, cette
‘forme-problème’, suivait effectivement un schéma discursif, se prenait
elle-même pour objet, revenait en soi, puis se reposait sous une forme
différente, pour résoundre une contradiction antérieure.” L’allegoria,
come atto traduttivo e complementario all’immanenza immanifesta,
ricama sulle fonti talvolta perdendole, disparando verosimilmente ma
anche risolvendo la biforcazione che, nel fondo, costituisce ogni espressione. Ancora, continua Jameson: “Aucun fondement, aucune vérité première, ne garantit plus l’identité de l’être (ou la nature) a disparu, au
milieu d’un monde saturé d’objets culturels et de “signes humains” que
nous devons, tant bien que mal, interpréter.” (Jameson, 2007: 15).
L’ultimo caso, riguarda non il volto ma la faccia, nel suo senso figurato del “metterci la faccia”, affrontare con responsabilità le conseguenze
delle proprie azioni. Ebbene, mostrare il proprio volto a seguito dello
55
Silvia Barbotto
smascheramento di un complotto in cui ci si è coinvolti non dev’essere
cosa facile. È capitato pochi giorni fa, Messico D.F., paese in cui mi trovo
nel momento in cui redatto questo testo.
Siamo immersi in una comunicazione digitale sempre più penetrante,
con drastico incremento degli ultimi mesi, affrontiamo quotidianamente
tanti incontri virtuali con amici, colleghi, familiari. E quante volte abbiamo condiviso lo schermo per mostrare documenti di lavoro o di piacere,
ai nostri interlocutori? A seguire presentiamo una scena in cui emergono
chiaramente le caratteristiche prominenti di ciò che possiamo denominare cospirazione.
È questo il panorama di fondo dell’ultimo esempio in gioco: è una video conference tra rappresentanti della Segreteria della cultura (Mx) e
rappresentanti dei collettivi artistici e culturali della Repubblica e succede che, nel condividere il proprio schermo, uno dei partecipanti mostra, per errore (e che errore!), una chat privata di WhatsApp. Vengono
mostrati nomi senza equivoci, alcuni numeri di telefono e soprattutto la
denominazione del gruppo in chat (nel quale facevano parte gran parte
dei dipendenti pubblici presenti in riunione): Disattivazione collettivi.
La narrazione non è solamente un insieme di testi messi insieme in
modo automatico, lineare, stabile, la cui lettura non può che essere univoca. La narrazione infatti, già dalla sua genesi più remota, è determinata da innumerevoli testualità sottese al testo stesso, ognuna delle quali
origina possibili semiosi; in questo caso l’immagine era nitida: si trattava
di un tentativo complottista da parte di alcuni dipendenti, gesto che poi
si sarebbe garantito essere all’insaputa degli alti vertici governamentali.
Multilivello e transmediatica, questo tipo di narrazione sostanzialmente semplice, ma evocativamente densa di azioni e condizioni intrinseche all’accadimento stesso, è uno storytelling in cui vige l’intertestualità e i cui sotto-testi possono essere letti nella pentapartizione
56
I volti del complotto
genettiana. La trascendenza del testo in questione si collega (direttamente o indirettamente) ad altri possibili testi i quali, nel loro insieme,
creano una transtestualità in cui penetrano vari livelli semiotici e da cui
scaturiscono significati interpenetranti. Numeri di telefono e nomi si
fanno isotopia immediata di volti accusati, lo scandalo assume eco nel
mondo artistico e culturale nazionale, ne susseguono azioni politiche
di empatia, cura e resistenza, ma anche di rabbia e rivolta. È transtestualità “todo lo que pone al texto en relación, manifiesta o secreta, con
otros textos” (Genette, 1989:10) e ora recuperare la faccia è operazione
laboriosa.9
Entrando nello specifico delle testualità genettiane, vediamo che risalta l’intertestualità “como una relación de co-presencia entre dos o más
textos, es decir, eidética y frecuentemente, como la presencia afectiva de
un texto en otro”, una qualità assunta in modo fondativo dalla comunicazione mediatica e virtuale. La schermata mostrata, diffusa su qualsiasi
canale, è paratesto in quanto lega gli aspetti visivi, grafici e accessoriali
del testo prominente. Vi è metatestualità evidente attraverso le infinite
relazioni o citazioni implicite e indirette.
È chiaro che questa suddivisione testuale non è esclusiva della modalità narrativa del complotto, ma può sicuramente essere utile nella sua
lettura e analisi. L’ipertestualitá, per esempio, ci aiuta a collegare i pezzi
del puzzle e, guidandoci nei collegamenti micro-testuali, ci fornisce una
visione d’insieme: l’ipertesto è infatti “toda relación que une un texto B
(el hipertexto) a un texto anterior A (el hipotexto).” (Genette, 1989: 10)
9
A tal proposito si consiglia il testo di Bargiela-Chiappini F. and Haugh
Michael (2009) nel quale si analizzano le dimensioni linguistiche relazionate alla
faccia in diverse culture, con particolare enfasi ai procedimenti verbali e non verbali del “dare e togliere, perdere e acquisire” la faccia.
57
Silvia Barbotto
Fig. 5
Screenshot virale della video conference
Finalmente, l’architestualità è l’insieme di categorie generali che accomunano i modi di enunciazione, i generi corrispondenti in una specie di
sfondo coagulante; architesto è “l’insieme di categorie generali, di tipi di
discorso, di modi di enunciazione, del genere a cui corrispondono” (Genette, 1989: 10). Esiste un sottogenere della comunicazione virtuale tipicamente complottista? L’errore evidenziato non lascia gran spazio agli
equivoci, e l’intersezione dei dati emersi in una sola schermata bastano
per descrivere appieno una testualità del complotto.
L’accadimento del 12 dicembre 2020 è attualmente in corso. D’altronde la virtualità è veritiera ed illusoria e, per questa sua natura mediatica
e rizomatica, tende alla costruzione di narrative perfette. Ce lo suggeriva
già Baudrillard agli inizi del suo emergere: “La virtualidad tiende a la ilusión perfecta. Pero no se trata en absoluto de la misma ilusión creadora
propia de la imagen (como también del signo, del concepto, etc.). Se tra-
58
I volti del complotto
ta de una ilusión «recreadora», realista, mimética, hologramática, que
pone fin al juego de la ilusión mediante la perfección de la reproducción,
de la reedición virtual de lo real.” (Baudrillard, 1972: 16)
30 dicembre 2020, Mérida, Yucatán, Messico.
“Con independencia de lo cercanos que estemos
de lo lejano cuando pensamos, y de lo ausentes
que estemos de lo que está a la mano, el yo
pensante nunca abandona del todo el mundo de
las apariencias.”
(Arendt, 1978: 98-99)
59
Silvia Barbotto
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61
Note sulle ‘teorie del complotto’
Note sulle ‘teorie del
complotto’
Semiotica ed epistemologia
Remo Gramigna
Le idee più importanti nascono nei momenti di
catastrofe
V.V. Ivanov
Remo Gramigna
Manipolazione simbolica e vuoto epistemologico
“Le idee più importanti nascono nei momenti di catastrofe”. Così scriveva
il linguista russo Vyacheslav V. Ivanov in un lucidissimo saggio in cui ricorda la vita dell’esimio collega e amico Roman O. Jakobson (Ivanov 1983:
49). Jakobson era vissuto a cavallo tra due secoli– la fine del XX secolo e
l’inizio del XXI –e, secondo Ivanov, questo dato biografico della vita di Jakobson faceva di lui un “uomo del futuro”, un intellettuale con lo sguardo
sempre volto al futuro piuttosto che al passato. Jakobson era nato in un
periodo di profonde mutazioni storiche, di catastrofe, ed era vissuto tra
due epoche, nel momento in cui una visione del mondo stava per crollare
ed il nuovo mutamento di paradigma doveva ancora assestarsi nel secolo
nuovo. Più tardi, un altro acuto intellettuale russo, Juri Lotman, avrebbe
definito questi particolari momenti storici come delle “epoche di transizione in cui le vecchie strade sono tutte percorse, e le nuove devono ancora
aprirsi” (Lotman 1994, p. 19). Ritengo che il ritratto che Ivanov fa del suo
amico Jakobson sia molto evocativo e racchiuda in sé il significato particolare del momento storico che stiamo attraversando oggi. È per questo
motivo che inizio il presente intervento proprio da questa suggestione.
Di segreti, menzogne, complotti, e false informazioni si parla da sempre. Moltissimi e importanti studiosi si sono occupati della questione,
soprattutto i filosofi, i quali si sono soffermati sul perché sia moralmente sbagliato ingannare gli altri. I complotti sono esistiti in passato
così come esistono oggi e il virus e la pandemia sono, al momento, uno
dei temi preferiti. Se ciò non bastasse a persuadere i più increduli, si
noti che la Commissione Europea ha dedicato una intera sezione del
proprio sito web a come “individuare le teorie del complotto”.1 Mi sem1
https://ec.europa.eu/info/live-work-travel-eu/coronavirus-response/
fighting-disinformation/identifying-conspiracy-theories_it.
64
I volti del complotto
bra doveroso evidenziare come l’umanità sia entrata in un’epoca in cui
la manipolazione simbolica è diventata uno dei paradigmi dominanti.
Uno dei corollari di questo paradigma è che i confini che separano plausibilità e veridicità, attendibilità e certezza sono diventati molto sfocati
e confusi. La divisione tra ciò che è ritenuto “vero” o “falso” in un determinato momento storico e in dato contesto sociale è costantemente
rinegoziata e messa in discussione. Da questa prospettiva, preconizzata
da Algirdas Greimas, la veridicità e la plausibilità sono degli effetti di
senso costruiti artificialmente attraverso varie strategie testuali. In altri
termini, veridicità e plausibilità sono delle strategie discorsive, un prodotto del discorso (Greimas 1989).
Oggi, il paradigma della manipolazione simbolica riemerge con forza
e le così dette “cospirazioni” o “teorie del complotto” ne sono un riflesso. Questo paradigma è riemerso soprattutto attraverso l’uso diffuso dei
media digitali suscitando non poche polemiche in merito alla libertà di
espressione dell’individuo nella rete e istanze che intravedono un rischio
nella facilità con cui al giorno d’oggi è possibile produrre e veicolare
contenuti online con un potenziale raggiungimento di una audience di
massa. Questo, tuttavia, non significa che la rivoluzione digitale sia la
causa dei complotti o del proliferare di bufale e di informazioni false,
perché altrimenti non si spiegherebbe l’esistenza di segreti e complotti
nelle epoche precedenti all’avvento di internet.
Tuttavia, i progressi tecnologici hanno indubbiamente introdotto
cambiamenti radicali nell’uso dei sistemi simbolici e nella rappresentazione della realtà. Come effetto della comunicazione attraverso i media digitali, assistiamo ad un importante meccanismo di dissociazione dei messaggi, dei testi, delle immagini, e delle narrazioni veicolate
attraverso il medium, dalle loro fonti originali che le hanno generate.
Questa disgiunzione fra fonte e messaggio non è un dato trascurabile.
65
Remo Gramigna
Una diretta conseguenza di questo stato di cose è che, sebbene non impossibile, diventa sempre più difficile valutare la veridicità delle fonti e
verificare la loro attendibilità (Ruesch 1972, p. 268). Un tempo esisteva
la parola d’onore che veniva data come garanzia e certezza di un impegno preso. Molti accordi erano basati sulla fiducia individuale, su accordi verbali e promesse di vario genere. Nel momento in cui si veniva
a mancare ad una promessa, la credibilità di una persona ne risultava
irrimediabilmente intaccata. Come giustamente osserva Bertrand de
Jouvenel, “La fedeltà alla parola data è stata considerata, in ogni tempo, di capitale importanza. È facile comprenderlo: noi abbiamo bisogno
di appigli sull’avvenire e la promessa che ci viene fatta fornisce appunto
un appiglio” (de Jouvenel 1967, p.64).
Geog Simmel (1906, p. 446) diceva che la menzogna è pericolosa in
quanto mette a repentaglio le fondamenta della vita stessa. Tutti questi
problemi pongono fondamentali questioni di natura epistemologica che
la semiotica, insieme ad altre discipline tra cui la sociologia, la psicologia
e la filosofia, è chiamata a porsi e a cercare delle valide risposte. Queste
questioni riguardano il modo in cui viene acquisita la conoscenza della
realtà e fino a che punto è possibile valutare l’accuratezza delle informazioni complessivamente acquisite. Ritengo che la vocazione epistemologica della semiotica negli ultimi decenni si sia affievolita e annacquata.
Dunque, questo saggio è un invito ai semiologi (o semioticisti) di riposizionarsi su temi che toccano l’epistemologia e le riflessioni sul complotto
e, più in generale, sul falso possono offrire una tale opportunità. La semiotica ha lasciato un vuoto epistemologico che le future generazioni di
intellettuali sono chiamati a colmare.
66
I volti del complotto
Il volto della storia: culture della crisi e cambiamento
Ritengo che oggi questo problema debba essere inquadrato all’interno
del particolare momento storico momento storico che che il genere umano sta attraversando. È un aspetto, questo, che merita di essere sottolineato. È innegabile che siamo entrati in un periodo di profonda crisi
storica, forse il più difficile dal dopoguerra in poi. Nel corso degli ultimi
tredici mesi ci eravamo probabilmente illusi di attraversare un momento
transitorio, che tutto sarebbe ritornato alla normalità e che la pandemia
fosse soltanto una parentesi che si sarebbe chiusa nel giro di poco tempo.
I fatti, invece, dimostrano esattamente il contrario. La durata di questa
crisi epocale resta incerta. È recente, infatti, la notizia che il nostro Paese
sia rimpiombato in una fase di grave allerta COVID-19 in cui si prefigura
l’attuazione, a partire dalla metà del mese di marzo 2021, delle stesse
misure restrittive già ampiamente adottate dal governo italiano durante
lo scorso anno. Molte regioni italiane già si trovano a dover fronteggiare
estesi periodi di isolamento che tutti ormai chiamano, usando un neologismo inglese, lockdown, cioè, un confinamento prolungato. Vale la
pena, allora, prendere di petto l’inaudita esperienza della quale siamo
tutti testimoni e cercare alcune chiavi interpretative per l’analisi della
contemporaneità. È un esercizio, questo, difficilissimo che pochi riescono a svolgere con successo. Possiamo, allora, forse rivolgerci anzitutto
alla storia per cercare quelle chiavi interpretative che consentono di leggere il presente o, quantomeno, di fare un tentativo affinché il presente
sia più intellegibile e meno sfuggente.
La pandemia COVID-19 non soltanto ha modificato in modo radicale
lo stile di vita della maggioranza della popolazione mondiale, con cambiamenti senza precedenti che investono tutte le sfere della vita sociale,
dall’economia all’educazione, fino al cuore della vita privata, ma ci ha an-
67
Remo Gramigna
che messo di fronte ad un fenomeno molto più sottile e complesso. Mi
riferisco, in particolare, al problema della così detta “infodemia” che, in
parole più semplici, si può definire come il sovraccarico di informazioni.2
Si tratta di un fenomeno ubiquo che recentemente ha assunto un carattere
significativo. Proprio in concomitanza con la pandemia da COVID-19 si
è assistito, infatti, alla circolazione di una quantità eccessiva di informazioni di varia natura con un effetto di disorientamento sulla stragrande
maggioranza delle persone. Nel brevissimo arco di tempo che va dall’inizio
della dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute nel 2020 del
COVID-19 come una pandemia globale, le informazioni in merito alla questione dell’ondata del coronavirus prima, e delle polemiche intorno ai vaccini contro il virus, dopo3 sono cresciute ad un ritmo spropositato. È ovvio
che il problema del sovraccarico informativo è un fenomeno più generale,
anche se tocca tangenzialmente il problema della pandemia.
Lo ha ben rilevato Cal Newport, professore di informatica all’ università di Georgetown, fautore della filosofia del “minimalismo digitale”, cioè
“una filosofia d’uso della tecnologia secondo cui l’utente dedica il proprio
tempo online a un ridotto numero di attività accuratamente selezionate e
ottimizzate per sostenere obiettivi e valori importanti per l’utente, trascurando felicemente tutto il resto” (Newport 2019, p. 28).4 Vale, dunque, la
pena soffermarsi su questo punto. Si tratta di un problema che, per chi si
occupi dello studio dei segni, del senso e della comunicazione –o come si
dice in gergo tecnico della “semiosi” –non può passare inosservato.
2
https://www.ilsole24ore.com/art/corona-virus-l-oms-ora-e-allarmeinfodemia-ACcWnTGB.
3
Si veda, a questo proposito, Cosimi Simone, “Coronavirus, da Bill Gates alla candeggina: le bufale e le contromisure dei social”, La Repubblica, 2
Febbraio 2020.
4
“A philosophy of technology use in which you focus your online time
on a small number of carefully selected and optimized activities that strongly
support things you value, and then happily miss out on everything else”.
68
I volti del complotto
In questo breve intervento mi prefiggo, innanzitutto, di saldare e far
dialogare due concetti nati in contesti differenti: il concetto di “crisi storica” e quello di “chock del futuro”. Il termine “crisi” nel senso che intendiamo attribuirgli in questo saggio, deriva dalla filosofia di José Ortega y
Gasset, il quale, in un avvincente libricino intitolato Schema della crisi,
in cui si presentano al lettore italiano le traduzioni di una serie di lezioni
tenute dall’autore su questo tema, si legge una lucidissima analisi della
struttura delle crisi storiche. L’altro termine–lo “choc del futuro”–fu invece coniato da un sociologo e futurista americano, Alvin Toffler, in un
best-seller dal tono profetico che riscosse un successo straordinario negli
anni 70. Il libro si intitolava Future Shock [Lo choc del futuro]e l’autore
immaginava alcuni scenari in cui l’uomo si sarebbe trovato a vivere e a
dover fronteggiare negli anni a seguire.
Ritengo che José Ortega y Gasset, nel libro sopra citato, abbia scritto
una delle più struggenti e lucide analisi delle crisi storiche, un tema probabilmente inflazionato e di cui si sono occupati in molti, ma che vale
tuttavia la pena di richiamare e impiegare come chiave di lettura del presente. In un passo che sembra quasi fare da contrappunto all’articolo di
Ivanov citato in apertura di questo saggio, il filosofo e saggista madrileno
descrive le crisi storiche con queste parole:
Questo presentimento che le cose stanno per cambiare
radicalmente prima che, in effetti, cambino, non deve
sorprendere molto, perché esso ha sempre preceduto le
grandi mutazioni storiche ed è, insieme, una prova che tali
trasformazioni non sono imposte all’umanità dal di fuori,
per l’accadere casuale di esterni avvenimenti, ma emanano
da intime modificazioni fermamente nei seni reconditi
della sua anima. Venticinque anni fa io gridavo a Gog
e a Mogog che la faccia della storia stava per cambiare:
lo presentivo né più né meno di un cambiamento
meteorologico. (Ortega y Gasset 1946, p.11).
69
Remo Gramigna
Ortega y Gasset individua la confusione come tratto distintivo di ogni
crisi storica:
La confusione è annessa ad ogni epoca di crisi. Perché in
definitiva, questa cosa che si chiama “crisi” non è che il
transito che l’uomo fa dal vivere aggrappato alle cose, al
vivere aggrappato ad altre. Il transito consiste, dunque, in
due rudi operazioni: una, distaccarci da quella mammella
che alimentava la nostra vita –non si dimentichi
che la nostra vita vive sempre di un’interpretazione
dell’universo, – e l’altra, disporre la mente per aggrapparci
alla nuova mammella, cioè, per andarsi abituando a
un’altra prospettiva vitale, a vedere altre cose, ad attenerci
ad esse. (Ortega y Gasset 1946, p.13).
Accanto a questa caratteristica tipica delle crisi storiche –la confusione–Ortega y Gasset fa notare che nei periodi di transizione si assiste anche ad un aumento di discorsi falsi. Non solo la confusione e la crescita
dei discorsi falsi, sono tratti tipici delle crisi, ma anche l’effetto di disorientamento. Per una breve disamina di questo concetto mi avvalgo delle
suggestioni di Alvin Toffler.
Uno chock del futuro?
Accelerazione, mutamenti e sovraccarico informativo
La pandemia COVID-19, un evento senza precedenti che può essere
paragonato ad un momento di crisi storica o, usando una espressione
coniata da Tyhurst (1958), come uno “stato di transizione”, ha introdotto cambiamenti profondi e imprevisti che rappresentano una rottura nello stile di vita di milioni di persone. La drastica e immediata
70
I volti del complotto
richiesta di adattamento al cambiamento–si pensi a tutte le limitazioni
della libertà personale, alle restrizioni imposte alla libera circolazione
degli individui, all’uso obbligatorio della mascherina e della distanza di
sicurezza, alla didattica a distanza e alla dilagante crisi economica– ha
innescato un effetto di disorientamento e confusione generalizzati. In
effetti, gran parte della popolazione mondiale deve ancora completamente adattarsi ai rapidi e radicali cambiamenti nello stile di vita di
milioni di persone introdotti dalle misure straordinarie anti COVID-19,
per non parlare dello stress e dell’ansia sociale provocati da situazioni
di crisi, emergenza e caos. Potremmo paragonare la situazione attuale
caratterizzata da una rapida e radicale trasformazione dovuta alla pandemia da COVID-19 a ciò che il futurista americano Alvin Toffler aveva
definito, poco più di cinquanta anni fa, come “choc del futuro”.
Toffler aveva coniato per la prima volta questo termine in un articolo
pubblicato sulla rivista Horizon nel 1965. Il punto chiave da sottolineare
è che la velocità del cambiamento sta ora accelerando. L’accelerazione
è un concetto importante per capire il fenomeno di cui si sta parlando.
“Quanto dura?” Questa domanda può essere posta per valutare le aspettative temporali che mettono in relazione un soggetto con una determinata situazione. Una situazione è composta da cinque elementi: le cose,
i soggetti, i luoghi, le organizzazioni e le idee. L’aspettativa temporale
in relazione alle situazioni si sta via via accorciando. Ciò significa che i
nostri rapporti con le cose, le persone, i luoghi, le idee e le organizzazioni
sono sempre più transitori. Toffler ci ha spiegato che viviamo in un mondo ad alta transitorietà. Lo studioso definisce “chock del futuro” come “la
malattia del domani”: “Future shock is the dizzying disorientation brought on by the premature arrival of the future. It may well be the most
important disease of tomorrow” (Toffler 1984, p. 11).
71
Remo Gramigna
Come sottolinea nel suo celebre saggio del 1970, lo “chock del futuro”
nasce quando l’uomo si trova di fronte ad una situazione ambientale di
sovra-stimolazione causata da cambiamenti bruschi e repentini:
There are discoverable limits to the amount of change that
the human organism can absorb, and that by endlessly
accelerating change without first determining these limits,
we may submit masses of men to demands they simply
cannot tolerate. We run the high risk of throwing them
into that peculiar state that I have called future shock. We
may define future shock as the distress, both physical and
psychological, that arises from an overload of the human
organism’s physical adaptive systems and its decisionmaking processes. Put more simply, future shock is the
human response to overstimulation.5
In tempi di crisi, infatti, un aspetto importante riguarda il sovraccarico di informazioni. Come ha acutamente evidenziatoToffler,
When the individual is plunged into a fast and irregularly
changing situation, or a novelty-loaded context, however,
his predictive accuracy plummets. He can no longer make
the reasonably correct assessments on which rational
behavior is dependent. To compensate for this, to bring
his accuracy up to the normal level again, he must scoop
up and process far more information than before. And he
must do this at extremely high rates of speed. In short, the
more rapidly changing and novel the environment, the
more information the individual needs to process in order
to make effective, rational decisions.6
5
A. Toffler, Future Shock, Random House, New York 1984, p. 168.
6
A. Toffler, Future Shock, Random House, New York 1984, p. 180. “Quando
l’individuo viene immerso in una situazione che muta rapidamente e irregolarmente,
o in un contesto saturo di novità, la sua capacità di prevedere con accuratezza crolla”.
72
I volti del complotto
Il sovraccarico informativo di per sé non spiega come nascono i fenomeni del complotto né tantomeno perché così tanta gente ci creda. Tuttavia, si tratta di un concetto che aiuta a contestualizzare il problema.
La “sovra-stimulazione cognitiva” è sicuramente un fattore che interferisce nella normale gestione delle abilità del pensiero (Toffler 1984, p.
180). L’eccesso informativo è inoltre legato allo sviluppo tecnologico e
alla facilità con cui messaggi e testi di vario genere possono venire prodotti e veicolati nel web, attraverso i social media, YouTube, BitChute,
e altre piattaforme sul web, raggiungendo una audience impensabile
per un singolo utente fino a poco tempo fa. Diventa, dunque, necessario escogitare delle strategie che permettano agli utenti della rete di
filtrare le informazioni ricevute al fine di discernere tra la crescente
quantità di informazioni–come preconizzavano Postman e Weingarten
(1969) parlando di una “ecologia dei media”. È importante però, precisare che internet non è sinonimo di bufale, falsità e complotti perché
sarebbe troppo facile cadere nella tentazione di una caccia alle streghe
o di una “congiura della menzogna”. 7 Se, infatti, è vero che esiste una
correlazione tra il sovraccarico informativo e la nascita del web, e in generale, l’uso diffuso dei media digitali, questo fatto non è sufficiente per
stabilire una necessaria correlazione di causa ed effetto tra la crescita
informativa e il proliferare di notizie false, né tantomeno spiega perché
esista così tanta acritica credulità.
7
A questo proposito vi vedano le critiche mosse alla posizione di Umberto Eco in merito alla questione del web e delle bufale online: https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2011/05/18/news/eco-e-il-web-le-critiche-1.31527/.
Per la posizione di Eco, si veda “Un appello alla stampa responsabile”, L’Espresso, 29/06/2015.
73
Remo Gramigna
Le teorie sulle “teorie del complotto”
Sembra che tutti noi sappiamo intuitivamente che cosa sia una “teoria del
complotto” visto che di recente se ne sente parlare spesso, soprattutto in
relazione alla pandemia e al virus COVID-19. Esistono moltissime teorie
del complotto ed elencare già soltanto quelle che hanno a che vedere con il
COVID-19 costituirebbe il programma di una ricerca a sé stante. È importante precisare che, in questa sede, non ci occupiamo delle teorie del complotto come ipotesi falsificabili –cioè del perché sono false o vere e dunque
del loro statuto di verità. Le teorie del complotto sono teorie basate su false
credenze o teorie che si fondano su spiegazioni basate su credenze false. Il
punto che in questa sede mi interessa sottolineare è la dimensione di costruzione discorsiva che sottende a queste tipo di teorie. Non si può ignorare di sicuro la vastità e la capillarità di questo fenomeno. Nonostante la
loro capillare diffusione in tutto il mondo e negli ambiti più disparati, dalla
politica, alla finanza, alla scienza, il concetto di “teoria del complotto” è difficile da definire con precisione. Che cos’è una teoria del complotto? Come
si distingue da una semplice bufala o da una notizia falsa?
La bibliografia in merito a questo tema è vasta. Molte recenti ricerche
hanno approfondito la questione da diverse prospettive–filosofica, giornalistica, psicologica–il che dimostra che accademici e scienziati hanno
iniziato a chiedersi perché tali teorie persistano anche se sono improbabili
e irragionevoli e soprattutto come mai abbiano raggiunto oggi proporzioni
considerevoli. Tra le più recenti pubblicazioni, e per chi voglia approfondire l’argomento, segnaliamo le ricerche di Aaronovitch (2010), Butter and
Knight (2020), Brotherton (2015), Cohnitz (2017), Damiani (2004), Eco
(1990; 2021), Leone (2016), Lewandowsky (2017; 2020; 2021), McCrea
(2004), Oreskes and Conway (2010), Pipes (1996), Polidoro (2014), Spencer (1990), Thompson (2013), Walsh (1996) Wheen (2004).
74
I volti del complotto
Umberto Eco ha fatto del complotto non solo una tema di ricerca–si
veda il capitolo sulla “semiosi ermetica” nel testo I limiti dell’interpretazione (1990)–ma anche una marca visibile di molti dei suoi romanzi.
Vorrei ricordare almeno Il pendolo di Foucault, Il Cimitero di Praga e
Numero Zero, capolavori, soprattutto il primo, costellati da cospirazioni e complottardi di ogni genere. Secondo Eco, il quale si era di recente
interessato alla sindrome del complotto, “la psicologia del complotto
nasce dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti fatti preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non ci soddisfano perché ci fa male
accettarle” (Eco 2021, p.13).
Per una epistemologia orientata semioticamente
Tra gli studiosi del XX secolo, mi pare che Charles Morris sia stato colui che ha insistito di più sulla possibilità di elaborare una epistemologia orientata semioticamente. Purtroppo, l’intuizione di Morris per un
programma di ricerca futuro, il quale vedeva come capisaldi di questo
progetto le teorie di Dewey, è rimasto una vox clamantis in deserto.
Una rielaborazione della posizione di Morris in materia richiederebbe
uno studio vasto ed approfondito che non è possibile articolare in questa
sede. Tuttavia, vale la pena richiamare le distinzioni principali formulate dal pragmatista americano in quanto aiutano a districarsi nella selva
concettuale relativa ai fenomeni della verità e falsità dei segni e della disinformazione, incluse le teorie del complotto.
In Signs, Language, and Behavior, Morris scrive che dal punto di vista
del rapporto che i segni intercorrono con coloro che producono i segni per
determinati scopi, è possibile individuare degli usi distinti dei segni. Il filosofo e semiologo americano propone una vera e propria tipologia degli
usi dei segni: informativo, valutativo, stimolante, e sistemativo (Morris
75
Remo Gramigna
1946 [1977], p. 96). Purtroppo, e per motivi che esulano dal presente intervento, il sofisticato apparato tecnico-concettuale elaborato in una serie di
importanti lavori da Charles Morris oggi è stato quasi completamente dimenticato. Credo che, almeno nell’ambito del contesto accademico italiano, l’ultimo lavoro sulla semiotica di Charles Morris risalga al 1975, anno
in cui Rossi-Landi pubblicava la versione aggiornata del suo precedente
studio su Morris, uscito nel 1953.8
Uno dei punti importanti che Morris chiarifica immediatamente è
che la persuasione dei segni (“convincingness”) non va confusa con la
capacità denotativa dei segni né tanto meno con la verità o la falsità di
un segno. A questo riguardo l’autore distingue tra verità, attendibilità e
adeguatezza dei segni.
Dal punto di vista dei vari usi che si fanno dei segni, Morris spiega che
essi possono essere adoperati per scopi molto diversi:
La classificazione degli usi dei segni è resa difficile dal
fatto che quasi tutti i bisogni di un organismo possono
utilizzare segni quali mezzi per il loro soddisfacimento. I
segni possono servire come mezzo per guadagnare denaro,
prestigio sociale, dominio sugli altri; per ingannare,
informare o divertire; per confortare, rassicurare o eccitare;
per riferire, descrivere o predire; per soddisfare alcuno
bisogni e suscitarne altri; per risolvere oggettivamente
problemi e per ottenere parziale soddisfazione in un
conflitto che l’organismo non può risolvere completamente;
per rassicurarsi l’aiuto di altri e rafforzare la propria
indipendenza; per “manifestarsi” e per nascondersi. E così
all’infinito (Morris 1946 [1977], p. 96).
8
I titoli delle opere che Rossi-Landi dedica a Charles Morris, sono rispettivamente Charles Morris e la semiotica novecentesca, (Milano, Bompiani,1975) e Charles Morris (Bocca, Milano, 1953).
76
I volti del complotto
Un punto inziale della ricerca è quello di individuale in quale dei
quattro usi dei segni individuati da Morris rientra il fenomeno studiato. È bene precisare, infatti, che sebbene possa sembrare paradossale,
dal punto di vista degli usi dei segni, i fenomeni della disinformazione
(incluse le teorie del complotto) rientrerebbero nell’uso definito informativo. Come scrive Morris, “nell’uso informativo dei segni, questi vengono prodotti allo scopo di indurre qualcuno ad agire come se una certa
situazione possedesse certe caratteristiche” (Morris 1946 [1977], p. 100).
In questa prospettiva, disinformare in maniera volontaria qualcun’atro, oppure fornire una informazione errata inavvertitamente, rientra
pur sempre in un uso informativo dei segni. In quanto la persuasione o
la adeguatezza informativa di un segno è determinata dal fatto se il segno
produca o non produca nel ricevente a rispondere a qualcosa come se
avesse le caratteristiche che il produttore del segno intende comunicare e
non ha nulla a che vedere con la verità o falsità di un segno, che pertiene
ad un altro livello di studio. L’adeguatezza di un segno non equivale alla
verità di un segno né è equivalente alla affidabilità:
Un segno è adeguato o convincente, dal punto di vista
informativo, quando la produzione di esso induce il
suo interprete ad agire come se qualcosa avesse certe
caratteristiche. Dato che tale convincitività riguarda
l’uso dei segni, non deve venir confusa con la questione
dell’attendibilità denotativa dei segni impiegati;
informare qualcuno di qualcosa in modo convincente non
significa necessariamente informarlo veridicamente. […]
È conveniente ai nostri fini distinguere l’uso informativo
dei segni (e quindi la convincitività) dalla questione della
verità o falsità dei segni usati; quindi “informare male”
una persona deliberatamente o inconsciamente significa
tuttavia, seguendo questo uso, informarla. I segni
77
Remo Gramigna
possono essere adeguati informativamente anche se in
realtà non denotano niente (Morris 1946 [1977], p. 101).
Questa distinzione mi pare essenziale. Da questa prospettiva, il discorso complottista rientra nell’uso informativo dei segni. Sebbene i segni
usati in questo tipo di discorso siano convincenti, cioè adeguati dal punto di vista informativo nell’accezione che ne ha fornito Morris, ciò non
comporta che essi siano veritieri. Scindere il problema della verità dei
segni da quello della sua adeguatezza informativa sgombra il campo da
molti dubbi e fraintendimenti quando si discute della annosa questione
della verità.
La possibilità di mentire è prevista nell’uso informativo dei segni:
La menzogna è l’uso deliberato dei segni per dare a
qualcuno informazioni sbagliate, cioè per indurlo a credere
che certi segni, che il produttore stesso ritiene falsi,
siano veri. Il discorso del mentitore può riuscire molto
convincente. Il semplice pronunciare false asserzioni non
è mentire, né costituiscono menzogna tutte le forme in
cui si danno false rappresentazioni, come una pittura che
ritrae oggetti con caratteristiche che in effetti non hanno.
Il mentire è connesso con la funzione informativa, senza
riguardo alla specie di segni usati, con il proposito di dare
false informazioni (Morris 1946 [1977], p. 275).
Questa definizione di menzogna basterebbe già a diramare alcune
questioni in merito al complotto. Nonostante le teorie del complotto si
basano su false credenze e, dunque, forniscano informazioni false, esse
non sono menzogne. La credenza che i segni siano veri e attendibili da
parte di chi emette il segno è un fattore da tenere in considerazione che
serve a mantenere distinti questi fenomeni. Come si evince dallo studio
di Morris, esistono diversi livelli di analisi che è bene tenere distinti: 1)
78
I volti del complotto
segni veri e segni attendibili; 2) credenza che i segni siano veri e attendibili; 3) esistenza di prove (o conoscenza) che i segni siano veri e attendibili o che siano creduti di essere veri o attendibili.
Mentre l’uso dei segni e i test di adeguatezza dei segni riguardano il
produttore dei segni, i test di verità e di attendibilità, coinvolgono l’altro lato della catena, cioè l’interprete. Allo stesso modo, significazione
e denotazione secondo Morris non necessariamente sono coincidenti e
pertanto devono essere distinti. Un segno può significare e non denotare.
Queste poche e sommarie note su temi di grande attualità non hanno
nessuna pretesa di esaustività ma si prefiggono di fornire al lettore spunti
di riflessione per ricerche future. Chi scrive ritiene che la semiotica possa
portare un contributo significativo sulle questioni dibattute nel saggio.
79
Remo Gramigna
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83
Il complotto in bocca
Il complotto in bocca
Accessori del volto e culture del subvertere
Elsa Soro
Cristina Voto
Soro e Voto
Premessa
Il testo prende in esame tre accessori del volto: la maschera antigas, il grillz e
la ball gag. I tre artefatti, nel discorso comune, vengono associati a culture visuali definite o autodefinite come “sovversive”: rispettivamente gli ambienti
antisistema e la cultura raver per quanto riguarda la maschera antigas; le
culture musicali rap, hip hop e trap dove si è diffuso il grillz e le relazioni e
pratiche erotiche afferenti al BDSM per quanto riguarda la ball gag.
I tre artefatti, in qualità di accessori del volto, realizzano diverse funzioni: protezione ed estensione per quanto riguarda la maschera antigas; calco e falsificazione nel caso del grillz; e, infine, occlusione e subalternazione
nel caso della ball gag. Cosi facendo, i tre accessori entrano in relazione
semiotica con la spazialità dell’organo boccale, interagendo con (inibendo
o magnificando) con le principali funzioni di quest’ultimo: il respiro, la
masticazione e la fonazione.
Prendendo in esame alcune configurazioni semiotiche che i tre artefatti
creano in relazione al volto organico, si ipotizza che tali figure enucleino
un volto del complotto, intenso come un genitivo, un complemento di specificazione. Un’azione sovversiva, in grado, cioè, di subvertere, di volgere
dal basso in alto, un supposto ordine o normatività talora politica, economica, sociale, artistica, sessuale e quindi di mettere in luce la presenza
di un complotto all’interno di un sistema di valori, che si vorrebbe talora
rivoltare, talora difendere.
In ultima analisi, il testo intende mostrare con una serie di esempi come
la rivelazione del complotto si visualizza sul volto e in particolare nella e
sulla bocca. Così facendo il volto si rivela e si scopre nell’aspetto animalizzante del muso (Leone, 2021). L’analisi della differenza di potenziale tra
queste articolazioni, volto e muso, svela così la funzione comunicativa e
significante di esse in bilico tra animalità e umanità.
86
I volti del complotto
La sovversione del volto
Il lessema “sovvertire” dispiega una sfera semantica stratificata. Il Grande Dizionario della Lingua Italiana fornisce le seguenti definizioni del
verbo e del suo campo d’azione “1. Mettere in profonda crisi un’istituzione o il sistema politico e sociale costituito, per lo più servendosi di metodi illegali e violenti, spesso fino a provocarne il crollo; 2. Corrompere,
traviare, sviare; 3. Compromettere gravemente o stravolgere un sistema
etico o religioso, valori, norme o princìpi consolidati; 4. Distruggere, demolire, abbattere; devastare; 5. Agitare violentemente la superficie del
mare; 6. Traviarsi; smarrirsi, sconvolgersi; 7. Sconquassarsi; Modificarsi
radicalmente; trasformarsi.” (2009: 652).
La spazialità inversa convocata dal verbo è rintracciabile nell’etimologia del lessema, dal latino sub-vertere, ovvero volgere “sotto”. Sovvertire
pertanto situa il punto di visione e di enunciazione all’incontrario.
Ma a chi appartiene questa visione ed enunciazione all’incontrario?
Chi sono i sovversivi?
Judith Butler (1999), nel suo Questione di genere. Il femminismo e la
sovversione dell’identità mostra l’insensatezza di tale attribuzione, svuotando di senso la domanda appena posta:
Non mi interessa dare giudizi su cosa distingua ciò che
è sovversivo da ciò che non lo è. Non solo penso che
tali giudizi non possano essere formulati fuori da un
contesto, ma anche che non possano essere espressi in
modi che resistono nel tempo (gli stessi «contesti» sono
unità postulate, soggette al cambiamento nel tempo,
e che mostrano la loro essenziale eterogeneità). Come
le metafore perdono la loro metaforicità quando con il
tempo si irrigidiscono in concetti, così le performance
sovversive corrono sempre il rischio di diventare dei cliché
87
Soro e Voto
che perdono forza attraverso la ripetizione e, cosa ancora
più importante, attraverso la ripetizione nella società dei
consumi, dove la «sovversione» ha un valore di mercato.
Il tentativo di dare un nome al criterio che determina il
grado di sovversività è sempre destinato a fallire, ed è
giusto che sia così. Quindi, a che scopo usare il termine?
(Butler, [1999] 2013: XXII).
Riconoscere le premure e i dubbi di Butler significa capovolgere il
senso dalla sovversione dalla fenomenologia alla specificazione.
Questo testo è teso a mostrare l’operazione di spersonalizzazione della
sovversione attraverso l’analisi della sua voltificazione; si esamineranno alcune dimensioni artefattuali della sovversione del volto e le relative
strategie enunciative, funzionali al raggiungimento di proprietà specifiche e secondo determinati obiettivi. Come suggerisce Viola (2021):
artifacts can be defined as (a) physical objects that (b)
have been created by some author so that (c) they embed
some properties that (d) allow them to play a given
function (or set of functions). Thus, the intended function
of an artifact works as a sort of teleological attractor that,
provided that the crafter has the right skills and materials,
leads toward a certain endpoint of the craft. Functions
are so central in artifacts that some of them are named
after the function they play – think about potato-peelers,
screwdrivers, can openers. Moreover, when we need to
categorize artifacts – either for intellectual purposes or
for more mundane scopes, like organizing the shelves
of a supermarket – we place much more weight on their
functions rather than on non-functional properties like
their color.
In particolare l’attenzione dell’interazione artefatto-volto in senso sovversivo si osserverà sulla e nella bocca con l’analisi di tre accessori che
88
I volti del complotto
svolgono su di essa e con essa diverse azioni: la maschera antigas utilizzata
sia in contesti di proteste e manifestazioni “antisistema”, sia nella cornice
di raduni festivi, come parte dell’ accessoriato di sottoculture come la raver
e la steampunk; il grillz esibito nella cultura rap, hip-hop e trap afromericana e latina e la ball gag come attrezzo associato a pratiche, relazioni
erotiche afferenti BDSM.
Questi accessori del volto incorporano diverse proprietà con cui svolgere altrettante funzioni: la maschera antigas protegge ed espande il respiro;
il grillz sostituisce e magnifica la masticazione; la ball gag occlude e subalterna la fonazione.
L’ipotesi che si intende sostenere è che l’esercizio di tali funzioni articoli,
sul volto, un discorso del complotto. Un’azione sovversiva, in grado, cioè,
di subvertere di volgere dal basso in alto, un supposto ordine o normatività talora politica, economica, sociale, artistica, sessuale e quindi di mettere in luce la presenza di un complotto. Tale operazione di rivelazione del
complotto passa da una reificazione della corporeità e della materialità del
volto a una reificazione capace di ap-propriare, es-propriare e trans-propiare la spazialità della faccia e le significazioni relative alla bocca.
La Maschera Antigas
Antigas
Dal punto di vista della sua funzione, la maschera antigas è in primo
luogo un respiratore che opera una protezione delle vie respiratorie filtrando l’aria e quindi purificandola dagli agenti inquinanti (funzione anti-gas). L’origine del dispositivo è bellica, fu infatti ideata dagli Alleati
come reazione ai gas asfissianti utilizzati dalle truppe tedesche nel corso
della Prima guerra mondiale; in seguito, con la sofisticazione dell’indu-
89
Soro e Voto
stria bellica e l’introduzione di armi nucleare e batteriologiche, i sistemi
di filtraggio divennero sempre più accurati e identificati dalla normativa
con una lettera e un colore.
Nel frattempo, la minaccia nucleare della Guerra fredda aveva trasformato la maschera antigas in un oggetto che, dall’ambito bellico, invadeva
la vita quotidiana: in URSS il modello GP-5 venne distribuito alla popolazione dall’anno 1970 al 1989 e fornito in dotazione ad ogni edificio pubblico per proteggere la popolazione in caso di una ricaduta radioattiva di
un’esplosione nucleare.
Fuori dal contesto bellico e di minaccia nucleare, lesioni alle vie respiratorie, assieme ad altre sintomatologie, possono essere provocate da
altre componenti tossiche, come il gas CS, il cosiddetto lacrimogeno, che
causa lacrimazione e forte bruciore. L’arma, che dal 1991, fa parte dell’equipaggiamento delle forze di polizia italiane viene utilizzato dalle forze
dell’ordine durante e alterazioni sommosse come artificio “sfollagente”.
Tra gli altri, i reparti mobili della polizia italiana che intervengono in
caso di disturbi e alterazioni all’ordine pubblico, conosciuti come “celere”, sono accessoriati con lancia lacrimogeni e quindi a loro volta hanno
in dotazione anche una maschera antigas.
Nella storia recente di scontri e “sommosse”, pensiamo ai vari episodi
di “antagonismo” no global o NO TAV, per restare nel contesto italiano, i
media ci hanno restituito un’immagine quasi speculare delle parti che si
fronteggiavano nello scontro.
La polizia da una parte e gli antagonisti rappresentati come “blocco
nero” (i famigerati blackblock) sotto una coltre di fumi e polveri respirano filtrando l’aria attraverso le rispettive maschere antigas.
90
Fig. 1. Manifestazione Anti-Expo, Milano 2015.
Soro e Voto
Maschera
Se per i corpi della polizia la maschera è funzionale “esclusivamente” alla
respirazione e alla protezione del volto durante gli scontri (enfatizzando quindi la proprietà “anti-gas”), nel caso dei manifestanti, l’artefatto
funziona come una maschera che occulta il loro volto, in un anonimato
vistoso, che deforma e ingigantisce con la protuberanza del filtro il naso
e la bocca.
L’antropologo Didier Fassen, nella sua etnografia della polizia (2013)
e in particolare della Brigade Anti-Criminalité (la BAC), teorizza come
questi corpi tentino di assoggettare le ZUS, le zones urbanines sensibles
che si sottraggono all’ordine pubblico e danno rifugio a ogni genere di illecito. Le banlieues francesi, nel lavoro dell’antropologo, rappresentano
quindi una macchia urbana, temporalmente sottratta all’ordine e che ad
esso deve essere riportata.
Nella sua dimensione di macchia urbana, una zona che opera un nascondimento e una temporale sottrazione eterotopica all’Ordine, la ZUS
richiama sotto certi aspetti il concetto di TAZ (Temporary Autonomous
Zone) teorizzata da Hakim Bey (1991), come “utopia pirata”.
La dimensione “festiva” della TAZ, espressa dallo stesso autore nel paragrafo “The TAZ as festival”, dove l’autodenominato “anarchista ontologico” attua l’equiparazione dell’insurrezione a un saturnalia:
The uprising is like a saturnalia which has slipped loose
(or been forced to vanish) from its intercalary interval
and is now at liberty to pop up anywhere or when. Freed
of time and place, it nevertheless possesses a nose for
the ripeness of events, and an affinity for the genius loci
(1991:103).
92
I volti del complotto
La TAZ come presupposto teorico del fenomeno del rave party è
stata ripresa da molta letteratura successiva ad Hakim Bay, che ne
sancisce l’aspetto di controcultura e la natura utopica (Santoni, 2015,
D’onofrio, 2018).
Nella cornice estetica del rave, la maschera antigas fa parte dell’accessoriato delle controculture steampunk e cybergoth: la funzione di
nascondimento della maschera che anonimizza i partecipanti di raduno
illegale, si accompagna a quella del carnevalesco travestimento che magnifica e aumenta il volto.
Fig. 2. La maschera antigas indossata nel contesto di un rave.
93
Soro e Voto
Dislocata nel contesto del rave, l’operazione di sovvertimento dell’ordine sociale operato dal blocco nero all’interno della sommossa, diventa una festiva espropriazione dello spazio e del tempo.
I luoghi urbani della produzione fordista “mutano (…) e i loro significati all’interno di una rapida e non indolore trasformazione di usi e di
destinazione d’uso.” (Ilardi, 1991).
L’espropriazione del terrain vague, il vuoto industriale, viene operata dai raver i quali attribuiscono una nuova funzione che non solo si
oppone alla produzione, ma la ferma, opera allo stesso tempo un’espropriazione del tempo.
Il rave e la sonorità techno, attraverso il campionamento, espropria il
tempo della musica e la trasforma in battito “per minuto” (BPM). Così,
gli accessori cybergoth o steampunk articolano un’ossimorica combinazione tra tempi, il passato goth e steam con il futurismo cyber o punk.
In questo senso la maschera antigas si fa catalizzatore di questo campionamento di tempi, passato e futuro, nel qui e ora della festa illegale,
operando un’insurrezione della fisionomia del volto, che eccede, espropriando i limiti del suo spazio, costruendo un bodyscape eccessivo, attraverso una riappropriazione di altri spazi e di altri tempi.
Il grillz
Il grillz è una protesi rimovibile che copre i denti veri con capsule in diversi materiali tra cui il metallo, il platino o l’oro zecchino. L’accessorio
si diffonde originariamente in seno alla cultura visuale dell’hip-hop e del
rap statunitense del Sud, quando appare negli anni ’80 sui denti di figure
come gli artisti Raheem the Dream and Kilo Ali (Georgia). Progressivamente, dalla periferia geografica e culturale degli Stati Uniti, si estende al
centro della semiosfera e arriva al pop mainstream negli anni Duemila, e
94
I volti del complotto
appare sulle dentature di personalità come Rihanna, Beyoncé, Madonna,
oltre che nelle sfilate di haute couture per marchi come Givenchy.
Dal punto di vista della produzione segnica (Eco, 1975), il grillz,
isomorfo al proprio impressore, ovvero la dentatura o parte di essa,
si configura come un’impronta, un calco che viene poi manipolato con
sostanze espressive diverse da quelle della dentatura, cioè i diversi materiali delle placcature.
Se le protesi odontoiatriche in resina, anch’esse prodotte a partire da
un calco della dentatura, devono rimanere occulte e dal punto di vista
della veridizione “sembrare vere”, il grillz crea un forte contrasto plastico con la dentatura, tanto a livello cromatico (il color oro o addirittura
arcobaleno, come quello esibito dall’artista 6ix9ine; fig. 2), come dell’anatomia del dente che viene modificata e personalizzata con varie forme
e pertanto situa l’operazione di senso prodotta dall’accessorio nella sfera
della contraddizione e del “non sembrare”.
La dimensione flashy del grillz si può inquadrare all’interno dell’estetica bling bling (onomatopeia sinestica che riproduce il suono dei
gioielli), dove il termine “bling” secondo l’Oxford English Dictionary
“represents the visual effect of light being reflected on precious stones
and metals.”
La visibilità marcata dell’accessorio nelle culture musicali afro-caraibica, afro-americana e latina, che hanno dato vita a generi come il rap,
l’hip hop, il reggaeton e infine il trap, ambiti artistici dove l’uso dell’accessorio da parte dei rispettivi artisti è molto frequente, rimanda alla tematizzazione di una sovversione di status. Un capovolgimento delle condizioni socio-economiche di marginalizzazione nel contesto statunitense
tardo novecentesco e dei Duemila e una “collusione” con il sistema del
lusso. Come evidenzia la storica dell’arte Krista Thompson (2009):
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Soro e Voto
while some rappers in the past had shone a critical light
on capitalism, hip-hop artists in the postsoul period
unabashedly celebrated materialism or a “guerilla
capitalism,” draping themselves in symbols of wealth,
from gold chains and medallions to all manner of brandname goods (2009: 483)
Fig. 3. La bocca arcobaleno di 6ix9ine.
Questa intrusione all’interno della bocca di figure dell’opulenza non è
propria solo della cultura musicale afroamericana e latina. L’uso dell’oro
nelle protesi dentali è tuttora impiegato dell’odontoiatria per riempire
96
I volti del complotto
cavità (le cosiddette “corone”) e operare restauri dentali. Tuttavia, a differenza del grillz, che è rimovibile, “l’oro in bocca” per uso dentistico è
debitamente incapsulato, pertanto fisso. L’atroce pratica di estrarre denti d’oro dai corpi dei prigionieri dei campi di sterminio dopo la gasazione
testimonia la fissità del materiale, estratto solo quando il corpo stremato
è ormai senza vita.
Questa dimensione wearable del grillz, che articola un’aspettualità
iterativa (l’accessorio può essere messo e tolto all’occorrenza), opposta
alla dimensione durativa della protesi dentale, mette in luce la proprietà
non fissa del suo supporto, i denti, la bocca e per esteso il volto. Sul volto
si scrive la storia di azioni in fieri, che sovvertono le aspettative di una
classe sociale e le si possono negare. L’impronta del grillz è un falso.
La ball gag
La ball gag è un artefatto facciale del BDSM che ha la funzione di occludere la bocca impedendo l’espressione verbale della soggettività dominata durante l’esperienza. Con l’acronimo BDSM ci si riferisce a una
variegata gamma di pratiche relazionali conosciute come Bondage, Dominazione (o Disciplina) e Sado-Masochismo. È un termine ombrello
atto a descrivere un modo specifico di sperimentare i rapporti intersoggettivi, l’erotismo e la sessualità. L’acronimo funziona come un’isotopia
al cui interno rintracciare un gruppo di pratiche che legano insieme il dolore fisico e il piacere sessuale, spesso direzionati verso una più profonda
costruzione dell’identità personale e sociale. Del resto, come ci insegna la
semiotica, le identità sono sempre processi instabili di scrittura collettiva
e individuale che prendono forma attraverso una serie di materializzazioni sostanziali e discorsive. La sessualità e le pratiche ad essa vincolata
non possono, perciò, che essere oltremodo significative nel processo di
97
Soro e Voto
costruzione e propriocezione di una soggettività. Un filo conduttore che
collega le pratiche del BDSM, organizzate intorno a una messa in scena
dei ruoli fortemente ritualistica, è il vincolo tra erotismo, dolore e stimolazione del corpo. In queste pratiche, infatti, l’esperienza di soggettivazione è mediata attraverso il riconoscimento di una vulnerabilità del
corpo proprio per via di una negoziazione consensuale con l’altra/o. Nel
BDSM la percezione dolore subito diventa perciò espressione soggettiva
e scelta legittimata, punto di contatto tra il sensibile e l’intelligibile dell’identità. In questo senso, il BDSM parte dal presupposto che il dolore
può essere compreso, gestito e vissuto con e grazie all’altra/o; che la vulnerabilità del corpo proprio può essere declinata intersoggettivamente
attraverso una gestione reciproca del consenso.
Un primo aspetto che trascende le pratiche BDSM è la percezione del
corpo come substrato a metà tra natura e artificio o piuttosto, come scrive
Judith Butler, “un processo di materializzazione che si stabilizza nel tempo
per produrre quell’effetto di delimitazione, fissità e superficie che noi chiamiamo materia” (1995: 7). Anche Michel Foucault individua nel corpo un
costrutto, anzitutto politico: “i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, lo investono, lo macchiano, lo addestrano, lo suppliziano.
Lo costringono a certi lavori, lo obbligano a delle cerimonie, esigono da lui
segni” (1976: 29). Da un punto di vista semiotico, Umberto Eco propone
di pensare la materia nei termini delle linee di resistenza: “come delle nervature di legno e marmo che rendano più agevole tagliare in una direzione piuttosto che nell’altra.” (1997: 39). Prendere in considerazione questa
prospettiva ci permette di riconoscere un minimum ontologico per quanto
riguarda il corpo, con una propria morfologia successivamente negoziata
dalle pratiche e dai discorsi che lo configurano, lo regolano e lo modellano.
Nelle pratiche BDSM il processo di materializzazione che stabilizza i corpi
e le relazioni è regolato, anzitutto, da una dimensione di subalternazione
98
I volti del complotto
soggettiva e consensuale che si declina attraverso varie pratiche di ostruzione: della mobilità, della visione, della fonazione.
Un esempio di ball gag lo troviamo nella serie fotografica Gay Semiotics
(1977-1979) di Hal Fischer, un’enciclopedia visiva delle forme e degli stili
di vita della cultura gay al tempo impegnata in diffusa campagna di conquista di visibilità sociale nella città di San Francisco. In Gay Semiotics
Fischer porta alla luce le pratiche, gli artefatti e i discorsi con cui far emergere una materializzazione discorsiva della mascolinità al di fuori della
eteronormatività. Leggiamo nel ritratto dedicato alla ball gag:
“The gag mask is constructed of a black leather strap
and a two-inch interior gag which is contained in the
wearer’s mouth. The gag mask has two basic functions.
First, it provides the wearer with oral stimulation while
his partner is involved in other activities. Second, it keeps
vocal participants quiet, an important consideration for
S[ado] and M[asochism] apartment dwellers.”
Nella descrizione di Fischer, la ball gag o mask gag già appare come
codificata attraverso due funzioni: la stimolazione e l’occlusione. L’agentività doppia di questo artefatto, allo stesso tempo pensato per il piacere
e per il dolore, permette di delineare una traiettoria comune per certi
aspetti, ma assolutamente divergente per altri, con altri artefatti del passato come le Scold’s bridle, conosciute anche come mordacchie.
Entrambi questi artefatti sono progettati per incorporare in una costrizione subalterna la soggettività di chi le indossa ma, mentre nelle
Scold’s bridle assistiamo a un dispositivo di assoggettamento e di esercizio di potere, nella ball gag ci troviamo dinanzi a una riappropriazione
delle subalternità. Grazie a una messa in valore dalla negoziazione consensuale della vulnerabilità, la spazialità della faccia è gestita pluralmente. Indossare una ball gag significa, cioè, volontariamente e consensual-
99
Soro e Voto
mente occludere la fonazione per declinare intersoggettivamente, o forse
potremmo dire trans-soggettivamente, la possibilità di espressione.
Fig. 4. Un esempio di ball gag
Fig. 5. Un esempio di scold’s bridle, Leeds Museum
Note finali
Analizzare la maschera anti-gas, il grillz e le ball gag in quanto accessori
del subvertere ci ha permesso, anzitutto, di articolare una dimensione
cronotopica inversa e invertita del volto. Una dislocazione del volto che
si sposta e depotenzia l’umanizzazione normativa degli occhi e dello
sguardo, in favore della bocca, che manipolata dagli accessori, diventa
un topos enunciativo sovversivo.
Questo displacement o scorrimento verso il basso, verso la bocca,
operato dai tre accessori, rivela l’aspetto più animalizzante del volto, il
muso (Leone, 2021) che accomuna il volto organico degli animali umani e non umani.
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I volti del complotto
L’accessorio “in bocca”, infatti, mirato al proteggere dalla bocca
e dalle sue funzioni (il morso) e prerogativa coercitiva degli animali
non-umani quando accedono (o propriamente vengono fatti accedere)
nei perimetri umanizzati, su tutti lo spazio urbano o quello dell’esibizione forzata.
In ultima analisi, la maschera anti-gas, il grillz e la ball gag nella loro
enunciazione all’inversa e animalizzante aprono, infatti, nella spazialità del volto diverse dimensioni e dislocazioni dell’intersoggettivita e
del far proprio.
Se la maschera antigas, quando indossata nella cultura raver, manifestano l’espropriazione della propria soggettività dalle logiche produttive del capitale; il grillz, invece, espressa l’appropriazione di un certo
valore da indossare a piacimento; per ultimo, la ball gag fa diventare
intersoggettiva e trans-propriata la bocca capace di trasformarsi in uno
spazio transitivo consensuale e identitario.
101
Soro e Voto
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L’altro volto del complotto
L’altro volto
del complotto
Sociosemiotica del “blastaggio” e cultura dell’alterità
Bruno Surace
La Superbia de altura
à fatto tante figliole,
tutto ’l mondo se nne dole
de lo mal che nn’è scuntrato!
Jacopone da Todi
Bruno Surace
Premessa
La questione delle teorie del complotto è oggi ampiamente studiata, sia
in sede semiotica che in sede sociologica. Menziono le due discipline perché è effettivamente sociosemiotico l’orizzonte entro il quale colloco le
righe che seguiranno. Non è però mio intento, in questa sede, proporre uno studio. Quello che state leggendo è un “instant book”, con il suo
specifico pregio (presentarvi riflessioni a caldo, formulate da esperti in
un certo settore, su un tema che si è reso cogente), ma anche con il suo
specifico difetto (presentarvi riflessioni a caldo, formulate da esperti in
un certo settore, su un tema che si è reso cogente). Insomma, il tempo
tecnico per produrre uno studio ragionato è al di fuori del genere in cui
questo volume si inscrive. Aggiungo poi che gli strumenti analitici per
comprendere le teorie del complotto in quanto testi, se si vuole l’approccio semiotico, e come pratiche, se si vuole quello sociologico, esistono
in ampia quantità (diversi ne hanno elaborati gli autori di questo stesso
volume), e ha poco senso produrne di ulteriori se si sa che qui saranno,
giocoforza, raffazzonati. L’articolo dunque che vi propongo è da intendersi come formula mista: esso presenta tutta una serie di applicazioni
pratiche di riflessioni già elaborate dagli studi sul tema, ma le innesta
all’interno di un percorso esegetico. L’obiettivo di fondo è fornire una
interpretazione del complesso fenomeno, che si discosti dai modi con cui
questo è trattato usualmente dal cosiddetto senso comune. Tale interpretazione è debitrice di riflessioni e studi pregressi, e si spinge non soltanto
a descrivere il fenomeno, ma anche a fornire una possibile spiegazione,
piuttosto deprimente e con tutti i limiti e le parzialità della soggettività
che la ha prodotta, dei motivi del suo dilagamento. Il linguaggio adoperato sarà, nel rispetto dei lettori a cui si rivolge un testo di divulgazione,
il meno ostico possibile.
106
I volti del complotto
Sull’analfabetismo semiotico
C’è stato un tempo in cui le teorie del complotto erano, per i più, un
affascinante pretesto narrativo. L’Inferno di Dan Brown (oggi nessuno lo menziona più) riscuoteva successo perché non c’è niente di più
vertiginoso del brivido del vittimismo, e il tempo di una sospensione
dell’incredulità, relegata alla lettura di un romanzo o alla visione di
un film, bastava ad assolvere a questo bisogno di sentirsi schiacciati, o
eroi. Non finiva lì naturalmente. Uno poi andava a lavoro e continuava
a rimuginarci: e se fosse davvero così? E se dietro questi volti, i più
strani che mi capita di incrociare nel mio tragitto, ci fossero davvero
degli extraterrestri? In effetti Men in Black suggeriva proprio quello.
E se ci fosse un’organizzazione segreta, così segreta da essere segreta
anche ai governi, che regolamenta il traffico di alieni da e per la Terra?
E se questi alieni fossero fra noi, in coda alle poste, indossando delle
efficacissime maschere? Mi è capitato di giocare con questi pensieri più
volte, dal tabacchino o in coda per la metropolitana.
Non sono passati poi molti decenni, ma in realtà già prima la pericolosità di questi giochi – perché le teorie del complotto spesso questo
sono – era già ben stata sperimentata. Rileggete I protocolli dei savi di
Sion, se volete un esempio, e pensate alle conseguenze nefaste che ha
prodotto tale testo. Dunque il pericolo era già dietro l’angolo. Il rischio
che quello che è un Gedankenexperiment venga preso per un racconto
veritiero (per dirla come Eco, una narrativa naturale) ha a che fare con
due ordini di problemi. Da un lato, e per essere molto schematici, c’è
l’emittenza, chi il testo lo prepara, con tutto un apparato di intenzioni
e di pretese. Ora, se costoro, come la polizia zarista dei Protocolli, sono
in malafede, si parte già con il piede sbagliato. Dal momento tuttavia
che costoro è difficile correggerli è forse bene invece puntare il riflettore
107
Bruno Surace
sull’altro versante, quello dei ricettori, di coloro che i testi li leggono. Qui,
ineluttabilmente, va rilevato un dato, non da poco: sono aumentati, concomitantemente alla “apertura” o “democratizzazione” “concessa” dai
“social media” (consentirete un certo abuso delle virgolette), gli analfabeti. Alcuni li chiamano “di ritorno”, altri “funzionali”. Io preferisco dirli
analfabeti semiotici (o culturali). Soggetti cioè che pur sapendo, anche se
spesso a livelli piuttosto elementari, leggere e scrivere, non sanno capire
che tipo di testo – cioè, in soldoni, di che genere – hanno davanti. Hai
voglia a riprenderli dalle orecchie e portarli davanti ai professori delle
scuole medie spesso accusati di insegnargli cose inutili, tipo l’analisi del
testo. Se quello dei lettori e diffusori è dunque il problema grosso, assodato che gli scrittori di panzane continueranno sempre a esistere, fra i
due poli si stagliano però altre grane non da poco.
Il fenomeno dei fanatici del complotto, anche se ne preserva tutti i
tratti, non è semplice folklore. A essere ottimisti potremmo dire che oggi,
15 Gennaio 2021, con l’immagine del faccione di Jake Angeli che urla
diffusa urbi et orbi, se ne siano accorti anche i giornali. Temiamo che
non sia così, e cerchiamo di fare un passo indietro, a prima che una folla inferocita di gente di varia provenienza (ma con un’inquietante linea
di contatto con la teoria QAnon) decidesse “indisturbata” di travestirsi
come a carnevale e invadere il campidoglio statunitense (facendoci scappare, e qui la cosa è ancora più drammatica, qualche morto). Facciamo
finta, già che siamo nel campo degli “e se fosse” che diventano reali, che
tale evento non sia mai – o ancora – successo.
Nel riflettere sulle teorie del complotto si rischia in effetti, nell’anno
appena inaugurato, di rimanere intrappolati in una peculiare morsa. Da
un lato è forte la tentazione di derubricare il fenomeno a risibile folklore,
animato da amorfe masse di scombiccherati. Così sono in effetti trattati
i recenti sostenitori delle teorie del complotto sui social network quando
108
I volti del complotto
influencer di ogni ambito, da quello virologico con il noto caso di Roberto Burioni, a quello giornalistico con Enrico Mentana, fino a quello
dell’intrattenimento con nomi vari ma soprattutto eventuali, “blastano i complottari”. “Blastare” è neologismo di derivazione anglofona di
recente conio, e significa sostanzialmente esporre al pubblico ludibrio
chi professa false verità, solitamente sui social, “distruggendola/o” (to
blast è “far esplodere”). La violenza sottesa a questa espressione è già il
sintomo di una modalità di intrattenimento fondata sul sadismo e sull’esibizionismo (di se stessi e del cadavere dei “blastati”). Chi crede nelle
teorie del complotto e viene quindi intercettato dall’influencer di turno
si vedrà umiliato, usualmente con una retorica di tipo paternalistico fondata sull’evidente scarto di competenze. Se l’influencer è plurilaureato
ed esperto certificato e autorevole di un campo su cui il complottista ha
messo becco, quest’ultimo sarà schernito prima ancora che sui contenuti
sui modi, poiché naturalmente si esprime con un linguaggio sgrammaticato, a-sintattico, sostanzialmente erroneo. Lo spazio di “dialogo” aperto
dal social network farà così in modo che il complottista sia deriso perché
ha mancato un accento o una acca, in sostanza con una risposta che le/gli
dà dell’utile idiota. Da lì a cascata partirà uno “shitposting” polarizzato
fra sostenitori dell’influencer, che a mo’ di folla galvanizzata nei confronti del gladiatore che nell’arena ha decapitato il suo rivale lo osannerà, e
di sostenitori invece delle “tesi” complottistiche, che risponderanno al
decapitatore con altrettanti improperi, la cui retorica è oramai piuttosto
consolidata: ella/egli sono prezzolati dai poteri forti, asserviti alle lobby, controllati da Bill Gates (quello stesso Bill Gates, per inciso, che ha
inventato il sistema operativo con cui buona parte dei suoi detrattori lo
accusano quotidianamente).
È evidente, e forse nel primo anno post-Covid bisognerebbe ribadirlo
con vigore, che questo protocollo pragmatico all’ordine non del giorno
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Bruno Surace
ma del minuto, dà adito a diverse preoccupazioni. La prima, lampante
a chiunque abbia un po’ di buonsenso e tenga a cuore il benessere di
se stesso e degli altri, è che i complottisti esistono, sono in aumento, e
sono pericolosi. Sono pericolosi non perché mettono in dubbio. Mettere in dubbio è il fondamento di ogni epistemologia scientifica, e la
scienza stessa ha elaborato i propri anticorpi proprio grazie alla falsificazione, al trial & error, e così via. Tuttavia costoro, nella stragrande
maggioranza, non si premettono come esegeti di Feyerabend, di Popper, di Foucault o di Canguilhem. Mettono in dubbio tutto, disordinatamente, senza metodo né competenze. Il problema dunque è il crollo verticale e inarrestabile di ogni ordine di certezze e autorevolezza,
l’etica di una pars destruens che non lascia spazio ad alcun regime di
costruttività alternativa. Sarebbe a dire: se si vuole smontare la realtà
di ogni suo fondamento, adducendo a un velo di Maya che ci intrappola
e che solo con gli occhiali speciali di John Nada si può disinnescare,
si può anche farlo, ma l’operazione ha indubbiamente dei costi, e soprattutto sarebbe opportuno compierla avendo fondamenta perlomeno
altrettanto solide di quelle che si vogliono abbattere. Se si demolisce
un palazzo, sia fatto di mattoni o di sapere, è poi necessario avere i materiali e le tecniche per edificarne uno migliore, altrimenti rimangono
solo macerie. Fuor di metafora: la pseudoscienza non può ambire allo
statuto di scienza fintanto che non esplicita un insieme di assiomi e
corollari adeguatamente condivisibili e convincentemente più efficaci
per sostituire il paradigma dominante. Questo convincimento, tuttavia,
è già raggiunto dai sostenitori delle teorie del complotto che, in maniera essenzialmente modale, ricalcano la celebre massima di X-Files:
essi non credono, ma vogliono credere (I want to believe). Vogliono
credere a tal punto da dimenticarsi che “voler credere” è un’operazione
metacognitiva fondamentale, nel caso dell’approccio al piacere di un
110
I volti del complotto
testo, ma potenzialmente deleteria quando applicata alla realtà (voglio
credere che uscire in maglietta di casa quando fanno zero gradi non mi
faccia nulla, ma poi alla prova dei fatti il raffreddore me lo prendo).
Il problema meno evidente è che l’atteggiamento con cui tendenzialmente si tratta il fenomeno delle teorie del complotto è proprio quello
descritto sopra. I complottisti vengono trattati come dei cretini da chi,
da un qualche scranno, meno cretino si sente. Costoro possono anche
avere ragione nel sentirsi meno cretini, e senz’altro soffrono di una delegittimazione programmatica e costante che mina il loro narcisismo (e
difficilmente si troverà gruppo sociale più vanesio di quello degli accademici e dei sapienti di professione). Si pensi al dottore di famiglia, prima
osannato e rintuzzato ogni anno di cestini natalizi, oggi declassato a propalatore di menzogne. Non è gradevole passare dalle lenticchie agli sputi
in faccia. Tuttavia, se ci si pensa bene, la guerra rimane impari, oltre che
stupida, perché testimonia di uno scollamento sociale sempre meno sanabile, e che proprio coloro la cui posizione cognitiva farebbe presupporre che siano più indicati a sanarlo contribuiscono a rendere pericolante.
Io non nego che una significativa parte di fanatici del complotto siano,
come dirlo in modo carino, un po’ toccati. Però anche mi pare che trattarli come si fa con un minus habens – pur ammettendo che molti di loro
possano esserlo – è sicuramente un atteggiamento controproducente,
colpevolmente semplicistico, forse anche un filino fascistoide. È in atto
una sostanziale crisi del contratto sociale, alimentata da una crisi della
fiducia, in via definitiva nei confronti dell’alterità in quanto tale, da un
individualismo imperante e da una società sempre più atomizzata.
In sostanza: l’ascesa ineluttabile del cospirazionismo come chiave ermeneutica di lettura del mondo porta con sé uno strascico di problemi
non indifferenti. Per dirne alcuni: grave messa in crisi delle democrazie
(si pensi a quanto avvenuto nel campidoglio americano), rischi seri per
111
Bruno Surace
la salute pubblica (si pensi al fatto che dopo un anno di tragedie per via
del virus ora ci si pone il problema se la soluzione vaccinale funzionerà
perché in troppi, anche insospettabili, hanno deciso di fare i bastian contrari), progressivo deterioramento culturale, violenza dissennata, e così
via. I fanatici del complotto sembrano voler purificare la società dai suoi
più grandi mali – mali paragonabili, spesso, a quelli di Argante – con
qualunque mezzo. Ma la soluzione, dall’altra parte, dalla parte della barricata che si crede nel giusto, quella dei laureati e degli esperti, dei cartesiani predicatori della bona mens, qual è? Non è forse una purificazione
avversa, mediante l’espunzione sociale dei complottari uno a uno, post
su post, blast su blast? Entrambe le “fazioni” si ritengono, insomma, farmaci efficaci, e dimenticano (o, più probabile, non sanno), che etimologicamente il farmaco è sì, il “rimedio”, ma anche il “veleno”.
Il papa ologrammatico
Se dunque è vero che le teorie del complotto prima di essere dei costrutti
sociologici capaci di movimentare burrascosamente opinioni e ideologie
sono storie, con le quali ci si immedesima, allora è a tali storie che desideriamo qui ritornare. Queste, infatti, presentano delle strutture piuttosto evidenti, a chi fa lo sforzo di provare a capirle. C’è ad esempio una
spazializzazione della segretezza frequente, per cui i cospiratori agiscono
sovente in luoghi inaccessibili (l’Area 51, le isole del Pacifico, gli edifici
blindati delle Big Company, il nostro corpo). C’è la presenza di una gerarchia in cui l’oggetto di valore è il potere, conteso fra pochi eletti e una
moltitudine di vittime. C’è poi chiaramente una dimensione, lo accennavamo, profondamente ludica, alla base dell’intera architettura narrativa. Il complotto è presentato come un puzzle, più o meno contorto, una
storia in cui il principio della detection chiama in causa il lettore che si
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I volti del complotto
eccita nell’indossare i panni dell’eroe chiamato a risolvere quel mistero
paradossale, sotto gli occhi di tutti ma anche nascosto alla totalità. Ora,
vi pongo una semplice domanda: è tutto ciò poi così irragionevole?
È irragionevole pensare che in luoghi e tempi lontani da noi siano
nascoste carte che possono disvelare arcani più o meno affascinanti?
Quanti vorrebbero aver avuto la possibilità di fare qualche domanda ad
Andreotti, ma anche di avere un colloquio privato con il generale israeliano Haim Eshed, che non più di un mese fa ha parlato di extraterrestri
e “federazione galattica”. È irragionevole ritenere che ci siano profondi
conflitti di potere fra classi quando il divario fra estremamente poveri ed
estremamente ricchi sul pianeta si fa sempre più aspro e incolmabile?
Fin qui mi sembra che si possa convenire, senza temere di essere tacciati
come apologeti delle più strampalate teorie, che no, non è irragionevole,
e nemmeno populista. È, alla fine dei conti, semplice. I punti allora sono
due. Il primo: sì, ma è ragionevole pensare che un mondo complesso si
possa comprendere “giocandoci” come si fa con le teorie del complotto?
Il secondo: ok, se anche lo capiamo, allora qual è il discrimine, dove è
bene fermarsi?
Nell’Aprile del 2020, nel mezzo del primo e ad oggi unico lockdown
“duro”, si è diffusa brevemente (troppo debole per durare) la divertentissima teoria che dichiarava l’inesistenza di Papa Francesco. Egli sarebbe
niente più che un ologramma, un po’ come quelli prodotti dal cattivo della Marvel Mysterio, che infatti è, anzitutto, un impostore. Tutta l’ipotesi
nasce in seguito al video di Bergoglio che, dopo aver terminato l’Angelus dalla finestra di Piazza San Pietro si allontana per rientrare nelle sue
stanze. Osservando il video infatti qualcosa non quadra: il papa saluta,
si volta e fa per allontanarsi, ma poi scompare (di netto, senza dissolvenze, altrimenti sai che bello) e per un istante, prima che l’inquadratura si
interrompa, lì dove c’era il corpo del pontefice vediamo solo una finestra
113
Bruno Surace
vuota. Come sempre accade in questi casi – e siamo già nel pieno del
funzionamento delle teorie del complotto – la prima reazione è quella
attonita. Esistono mille spiegazioni razionali, e un banale rasoio di Occam ne può fornire cognitivamente, in automatico, diverse accettabili: il
video è preregistrato, e qualcosa è andato storto; il video è in diretta, ma
la camera, che è fissa, si è per un attimo fermata, e in quell’attimo il papa
usciva dal visibile; qualche burlone (un montatore? Il cameraman stesso?) ha fatto uno scherzetto ai suoi capi per vendicarsi di essere sottopagato nonostante molti anni di gavetta; una tempesta elettromagnetica ha
spento per un attimo i dispositivi elettrici nel Vaticano; il papa, in quanto
contatto diretto con Dio, ha poteri magici (o comunque paranormali, essendo egli, nell’intertestualità tipiche delle teorie del complotto che fra
loro “si parlano”, in realtà un signore dell’occulto, abile esoterista). Si
potrebbe andare avanti a lungo, e, come avrete notato, le spiegazioni più
bislacche arrivano dopo un po’ che la catena degli interpretanti è partita. Perché allora l’ologramma, che potremmo mettere prima del papa
magico/anticristico ma dopo la tempesta elettromagnetica, viene scelto
come spiegazione? Perché quella sensazione iniziale, affascinata, inquietata, senz’altro divertita nella più etimologica delle accezioni (“divertire”
è di+vertere, cioè “volgere altrove”), viene protratta a piacimento, sconfiggendo le resistenze della razionalità, come risposta ad alcuni dei più
diffusi mali della contemporaneità: la noia, la solitudine, il sentirsi falliti,
inutili, abusati. Così è molto più conveniente obnubilare tutte le inferenze razionali del caso, perché il papa che è un ologramma ci svolta la
giornata, e magari essere parte di quel piccolo e sagace gruppo che se ne
è accorto, che ha sviato dal seminato panottico del controllo delle masse,
ci fa sentire effettivamente parte di una comunità, anche se, per dirla
con un aggettivo oggi assai abusato, potenzialmente tossica. Attenzione:
dicevo “piccola comunità” non a caso; uno dei massimi problemi delle
114
I volti del complotto
teorie del complotto oggi è che stanno diventando, e rapidamente, da
fenomeno per pochi, saltuario, “turistico”, a espressione maggioritaria e,
in via definitiva, totalizzante.
Questa storiella serve quindi a proporre una tesi in realtà piuttosto
banale, ma ahinoi poco assimilata in seno alla risposta sociale al fenomeno, se pensiamo ai “blastatori” suddetti: i sostenitori delle teorie del
complotto costituiscono un gruppo sociale eterogeneo (pur con alcune
sacche rilevantemente omogenee in termini di regime anagrafico e appartenenza sociale), in aumento, la cui esistenza è la risposta spontanea
– potremmo anche abbozzare che sia eterodiretta, ma sarebbe credo una
teoria del complotto – a progressive mancanze comunitarie, economiche
e culturali. L’allargamento drammatico di quello che è a tutti gli effetti
un vuoto istituzionale genera risposte oramai del tutto prevedibili, le cui
conseguenze possono essere, anche, nefaste.
Se si vuole uscire dalla grottesca storia del papa ologrammatico
pensiamo a una qualsiasi altra teoria, a scelta. Pensiamo ad esempio a
quanto affermato recentemente da una consigliera municipale di Roma,
e cioè che coi vaccini anti-Covid ci iniettano i “quantum dots”, trasformandoci in “elettrodomestici a distanza” biologicamente connessi alla
rete internet. Ora immaginiamo una persona che, all’età, che ne so, di
sessant’anni, e dopo aver speso gli ultimi trenta a lavorare non per arricchirsi ma per raggiungere un salario adeguato a soddisfare alcune
esigenze esistenziali minime (avere una casa, andare in ferie una volta
all’anno, etc), si trova ad abitare un mondo dominato sempre di più da
instabilità di vario tipo, ultima delle quali una pandemia (che si aggiunge
al peggioramento sensibile delle condizioni lavorative negli ultimi decenni, alla diminuzione dei salari e quindi del potere di acquisto, all’estensione brutale dell’età pensionabile, alla fatica e alla percezione generale
di un mondo sempre più di corsa, confusionario, insensato). Tutto ciò
115
Bruno Surace
condito dalla percezione, direttamente connessa alla crisi delle ideologie
(rimpiazzate non da altre ideologie, ma da pastrocchi postmoderni cedevoli), di essere sostanzialmente sola, dato uno scollamento istituzionale
sempre più marcato. Ora, questa persona potrà scegliere il realismo, e
quindi rendersi conto di essere pedina di un ingranaggio obiettivamente
incancrenito e che, quando più quando meno palesemente, lo sfrutta così
come una formica in un formicaio (non valorizzandone cioè l’individuale soggettività, rendendola invisibile nel mucchio), oppure potrà trovare
rifugio in fantasiose storie in cui, almeno, assume un ruolo di protagonista, che si ponga come combattente, o che si ponga come vittima. Vittima
in questo caso proprio perché dominata nel corpo, l’ultima cosa che sente
come più intimamente sua, l’ultimo luogo dove può fare resistenza. Resistenza a che cosa? Non lo sa neanche lei. E come potrebbe, quando è
bombardata costantemente da un overload informativo, da una “infodemia” o “infolalia” costante, contraddittoria, schizofrenica? Per dirne una
recente: nella stessa giornata è possibile leggere su diverse fonti, tutte
ugualmente “autorevoli”, che i vaccini anti-Covid faranno effetto nella
società, “riportandola alla normalità”, nel giro di qualche mese, ma pure
nel giro di 3-4 anni. Questo intervallo assolutamente folle è articolato da
diversi esperti, cioè virologi. Ora: a chi credere, o meglio, se tanta è la
stolidità che dimostra la comunità scientifica nel comunicare le proprie
conoscenze, gettando nell’incertezza i cittadini comuni (con l’aiuto del
cannibalismo del sistema mediale contemporaneo), perché allora poi ci
lamentiamo se molti preferiranno affidarsi a teorie che per quanto bislacche almeno forniscono degli orizzonti epistemici chiari?
La società contemporanea, è questo il dato più triste, non solo ha alimentato in maniera indiscriminata un’ideologia del narcisismo confondendola con la realizzazione personale ed esistenziale e così producendo
una folla di depressi da un lato, e di pericolosi sentenziatori dal loro pul-
116
I volti del complotto
pito dall’altro, ma anche ha giustificato un modus vivendi fondato sul
vittimismo come, spesso, unica modalità per sentirsi parte di qualcosa di
chiaro, definito, incrollabile. Perché se ci si sente vittime, del deep state o
degli scienziati pazzi, almeno ci si situa, ci si colloca in una posizione specifica, fosse anche esclusivamente all’interno di un ecosistema narrativo.
Tanto basta a chi, fuori dalle storie, si sente invece nulla.
Per una cultura dell’alterità
Se dunque quanto detto fin qui vi appare come condivisibile, allora è
lecito che vi stiate chiedendo quali sono le soluzioni possibili, per evitare che dilaghino ulteriormente teorie balzane e malsane per i singoli
e per la comunità. Naturalmente il coniglio dal cilindro io non lo posseggo, ma quello che posso fare anzitutto è ribadire che senz’altro non
è una soluzione efficace (siamo pragmatici, mettiamo da parte giudizi
di valore) rispondere all’aggressività con l’acredine, così come presuppone la modalità del “blastaggio”. Nemmeno direi che si possa affidarsi totalmente a soluzioni di natura automatica. Senz’altro gli algoritmi
possono essere un palliativo, ma naturalmente sappiamo bene che funzionano fino a un certo punto, che spesso si fondano su meccanismi
di sentiment analysis incapaci, ad esempio, di cogliere l’ironia (proprio nel luogo che più di tutti invita alla sagacia come trampolino per il
proprio narcisismo: cioè i social media). Ne conseguono poi problemi
di natura etica di vario tipo, ma anche in questo caso sarò perentorio:
c’è un gran parlare in questi giorni della scelta di Twitter e altri social
media di bannare Trump dalle proprie piattaforme. Così vari improvvisati paladini della libertà di pensiero si scagliano contro tali soluzioni, accusandole di essere provvedimenti censori i quali oggi toccano
al Presidente USA, domani chissà. Ecco, mi pare che anche questa sia
117
Bruno Surace
una dabbenaggine mediatica. È evidente che libertà di espressione non
può equivalere a relativismo sfrenato, ed è evidente anche che sfuggono
diversi punti: il primo è che tali piattaforme sono private, e non hanno
nessun interesse a divenire pubbliche. E si fondano su sistemi di regole arbitrari, che chiunque le adoperi tacitamene sottoscrive. C’è poi da
dire che spesso in questi anni la logica dell’uno vale uno è stata letta
soltanto in termini bottom up, cioè a dire che si è polemizzato sul fatto
che sui social media le frasi pronunciate da mio zio sul cambiamento
climatico fossero appiattite assieme a quelle di insigni climatologi. Oggi
invece è forse il caso di riflettere anche sull’appiattimento top down,
relativo cioè non all’ergersi del cittadino comune a tuttologo, ma anche all’abbassarsi del personaggio istituzionale, del blasonato scienziato, del perspicace opinionista, ai registri e alle imprudenti impressioni
che sarebbero appannaggio invece di quattro amici al bar un po’ brilli.
Come diceva Eco, avendo già capito l’andazzo in tempi meno sospetti
di oggi, “il web ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli”, ma forse
c’è stato un fraintendimento. E se gli imbecilli fossimo noi? È poi così
scioccante che a un mentitore seriale, con un ruolo istituzionale di un
certo rilievo (mettiamo, che ne so, che sia il Presidente degli Stati Uniti)
i cui deliri possono produrre danni sensibili, una piattaforma privata
decida di eliminare delle frasi menzognere? Fa riflettere, quello sì, ma
egli è solo la punta di un iceberg costruito da un sistema mediale che si
approfitta di quell’analfabetismo semiotico di cui parlavo all’inizio. E,
ad ogni modo, non è più scioccante che questa persona, di tali ruolo,
rilevanza, potere, adoperi come principale canale di comunicazione alla
cittadinanza – e al mondo tutto – la succitata piattaforma privata?
Io, che pure mi strapperei le vesti per mantenere il mio diritto di parola, non ho – giustamente – alcun diritto mentre faccio lezione in aula
universitaria ai miei studenti di, che ne so, insultarli, fargli del body
118
I volti del complotto
shaming, fare propaganda politica, dirgli bugie sapendo di dirgliele,
minacciarli, estorcergli del denaro e così via. Ciò non è lesivo della mia
libertà di parola, e se dico alcune delle cose suddette e mi scoprono, mi
licenziano. È censura? Ho i miei dubbi.
Soluzioni a buon prezzo e a breve termine non credo dunque esistano. Temo che dovrò quindi ribadirne alcune banali, o meglio, costose,
in termini anzitutto temporali, ma anche di riconsiderazione del nostro
attuale utilizzo dei mezzi di comunicazione e in generale dei modelli
che regolamentano il nostro vivere nella società.
Le teorie del complotto sono storie interessanti e spesso divertenti. Il
problema è quando il confine fra il tessuto narrativo fantasioso e la tramatura della realtà si fa troppo sottile. Ciò avviene per diversi motivi, e
spesso è, almeno oggi, dolo degli autori. Ma siccome gli autori non li si può
facilmente controllare, è anzitutto sui lettori (che sono a loro volta autori,
giacché si parla di prosumer) che bisogna agire, alfabetizzandoli semioticamente. Ciò non può che avvenire con un lavoro concertato in seno alle
istituzioni scolastiche di tutti i livelli, di educazione critica alla lettura dei
testi e all’utilizzo dei media (quelli digitali e quelli “tradizionali”).
Il sistema dei media, anche quando critica i complottisti, di fatto è
corresponsabile della loro diffusione. Non bisogna fare di tutta l’erba un
fascio, ma è innegabile che i media televisivi prima e i social media poi
costituiscano luoghi che, per palesi conflitti di interessi (vedi: clickbaiting, pubblicità etc), guadagnano nel produrre traffico, e il traffico oggi si
produce maggiormente ove c’è il conflitto (sono precetti sociologici assodati e di fatto vetusti, come quello dell’agenda setting). Non suggerirò di
boicottare in toto il sistema dei media, ma è evidente che ci sia il bisogno
di sviluppare una cultura dei media, e quindi si ritorna al punto 1. In ogni
caso la compulsione informativa è, a tutti gli effetti, una delle radici forti
del problema.
119
Bruno Surace
Le singole comunità scientifiche, specie quando interpellate dalle contingenze della realtà – come per i virologi e gli epidemiologi in questi tristi tempi – devono essere considerate come esperte fino a prova contraria nei loro campi di riferimento, ma non necessariamente preparate per
quanto concerne la capacità di comunicare al grande pubblico i risultati
del loro lavoro. Ne consegue che sia auspicabile una sorta di protocollo
per il quale, in certi casi, quando si tratta di divulgare la propria materia,
ci sia un’istanza di mediazione. Intervengano cioè soggetti formati (ad
esempio: i semiotici) a garanzia che i messaggi trasmessi non siano troppi, e troppo contraddittori l’uno con l’altro.
La cultura del narcisismo non è necessariamente l’unica strada possibile per l’autorealizzazione. I social media e più in generale l’internet
non sono luoghi ove per forza si debba “emergere”. I modelli culturali narcisistici vanno compresi (essi sono anche alla base dell’infodemia
di cui ai punti precedenti) e ridimensionati. Per farlo c’è bisogno della
proposizione di modelli alternativi ugualmente appetibili, e ciò significa
che bisogna ricostruire un canone dell’appetibilità. Ciò è responsabilità,
ancora una volta, del sistema mediale e dei sistemi culturali, e non si fa
in due giorni. La risposta migliore a una ideologia imperante dell’individualità è quella di una cultura dell’alterità.
Se anche nei fatti possono esistere degli “irrecuperabili”, è nostro dovere civico e morale asserire che nessuno è irrecuperabile. Ciò non significa che chi mi legge dovrà andare online a fare la lezioncina a qualsiasi
stupidotto scriva scemenze senza capo né coda sui vaccini, ma che in
sede di progettazione di politiche culturali non si può pensare a certe
categorie come a scarti. Per recuperare gli “irrecuperabili” è necessario
architettare uno spazio di dialogo effettivo, in cui vengano con fermezza poste le basi per una ricostruzione di alcuni ordini di autorevolezza.
Gli irrecuperabili non vanno forzati (è strategicamente inefficace), ma
120
I volti del complotto
invitati. Come li si invita? Producendo comunità la cui appetibilità sia
maggiore rispetto a quelle malsane a cui si sono finora rivolti. L’associazionismo libero e culturalmente fondato è un’ottima risposta alle teorie
del complotto come istituzioni totali.
I fanatici delle teorie del complotto non sono altro che il riflesso digitale di un allarmante degrado economico, culturale e sociale. Il fenomeno
di cui sono fautori e partecipi è la contromisura reazionaria a un disagio
percepito. Il fenomeno non è un compartimento stagno, ma va inteso
come organico a una più ampia frattura, i cui contorni sono ineffabili e di
fatto risiedono in un certo malessere esistenziale. Il fenomeno è semiotico nella misura in cui il fanatico del complotto si sente tale per differenziarsi, cioè ricollocarsi in un contesto sociale che lo accolga, sentendosi
espulso da un altro. Il fanatico delle teorie del complotto è il risultato
di disuguaglianze che vengono metabolizzate psicosocialmente. Fintanto
che non si attueranno politiche complesse di riduzione dell’emarginazione l’autoghettizzazione semiotica dei fanatici del complotto continuerà
ad aumentare, più o meno sotterraneamente, e ciò che era prima alle periferie della semiosfera sarà sempre più centrale, con tutto il tetro carico
che ne consegue.
15 Gennaio 2021
121
La solitudine dei volti mascherati
La solitudine dei volti
mascherati1
Marco Viola
Noi non siamo nati con la mascherina, noi siamo
nati liberi. Noi dobbiamo respirare liberi. La
mascherina non fa bene: altrimenti saremmo nati
con una membrana che ci chiude naso e bocca. Se
noi siamo nati così, una ragione ci sarà!
Manifestante no mask.
https://vdnews.tv/video/-chi-sono-no-mask
(consultato il 20 gennaio 2021)
Medical masks should be reserved for health
care workers. The use of medical masks in the
community may create a false sense of security,
with neglect of other essential measures, such as
hand hygiene practices and physical distancing,
and may lead to touching the face under the masks
and under the eyes, result in unnecessary costs,
and take masks away from those in health care
who need them most, especially when masks are in
short supply.
World Health Organization, Advice on the use
of masks in the context of COVID-19, Interim
guidance, 6 April 2020
1
L’autore desidera ringraziare Irene Papa per gli scaltri consigli che
hanno permesso di migliorare il testo.
Marco Viola
Divenute ormai ubique nelle nostre strade, le mascherine sanitarie impiegate per la prevenzione del virus SARS-CoV-2 possono essere definite “l’oggetto del 2020” (Leone 2021). In realtà, nei paesi asiatici le mascherine sanitarie si erano già diffuse per affrontare la prima epidemia
di SARS a inizio millennio, e rimaste di uso quotidiano anche dopo la
pandemia (sia pure magari con usi talvolta diversi: ad esempio, per certe
persone timide, come barriera dagli sguardi altrui [Leone 2020]). Dinnanzi a questo nuovo coronavirus, quei paesi non si sono fatti trovare
impreparati: non mancavano le scorte e non c’era la resistenza culturale
che nei paesi Occidentali ne ha ritardato la diffusione. Resistenza che
tuttora permane, caricatasi però di altre connotazioni. È a questa resistenza che voglio dedicare la breve riflessione che segue, nella speranza
di fornire alcuni spunti di analisi del fenomeno che è stato etichettato
“no-mask”, ossia della resistenza pubblica e ostentata all’impiego delle
mascherine. Spesso il fenomeno è liquidato sbrigativamente appellandosi alla macro-categoria dei “negazionisti” e derubricato sotto l’epiteto
un po’ snob di “analfabeti funzionali”. Ma questa “spiegazione” pare utile
unicamente a rassicurare i giudici della propria superiorità morale, ma
non aggiunge niente alla comprensione delle ragioni del fenomeno. Cerchiamo dunque invece di prendere sul serio le rivendicazioni e le possibili motivazioni di questo fenomeno.
Dopotutto, anche se oggi la mascherina è considerata (assieme al lavaggio mani e al distanziamento) uno strumento chiave per la lotta contro la
pandemia, giova ricordare come fino all’inizio della primavera 2020 l’uso
delle mascherine non era incoraggiato, anzi talvolta persino sconsigliato, da molte istituzioni: l’esergo tratto da un documento di Aprile 2020
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ad esempio, ne sconsigliava
l’uso per coloro che non sono operatori sanitari. Una raccomandazione
simile si poteva trovare in quelle settimane sul sito del Ministero Italiano
124
I volti del complotto
della Sanità, che, verosimilmente al fine di riservare le limitate scorte al
personale sanitario, sconsigliava l’uso delle mascherine nel largo pubblico
perché genererebbero un falso senso di sicurezza.
Non discuterò della tesi per la quale le mascherine sanitarie abbiano
una qualche efficacia nel ridurre la trasmissione del virus SARS-CoV-2: la
darò per scontata. Chi volesse dimostrare il contrario è ovviamente benvenuto; ma stante le evidenze di cui disponiamo e il consenso accumulato
nel 2020 dalla comunità scientifica, l’onere della prova spetta agli scettici.
Tuttavia, l’idea che “le mascherine siano inefficaci nel prevenire la trasmissione del virus” (spesso supportata dall’osservazione, di per sé corretta, che le molecole del virus sono più piccole delle maglie delle mascherine
– che tuttavia non tiene conto di come il virus sia veicolato dai droplet di
saliva la cui diffusione è molto contenuta, specialmente dai modelli FFP2 e
FFP3) è soltanto una delle ragioni che soggiacciono al fenomeno no-mask.
Una breve rassegna delle motivazioni addotte dai “no-mask” suggerisce
anzi che non sia nemmeno la principale.
Analizzando un paio di interviste svolte ai partecipanti di una protesta
no-mask2, più sovente si cita quella per cui “la mascherina fa male”, perché interferirebbe con la respirazione, intrappolando l’anidride carbonica
da noi emessa espirando, e promuovendo così uno stato di ipercapnia (un
eccesso di anidride carbonica nel sangue, con conseguenti disagi dell’organismo). Emblematico a tal riguardo è il ragionamento della manifestante riportato in esergo: “La mascherina non fa bene: altrimenti saremmo
nati con una membrana che ci chiude naso e bocca. Se noi siamo nati così,
una ragione ci sarà!”. Nel suo fallace appello a un astratto “stato di na2
In particolare, alle videointerviste realizzate dello YouTuber, ricercatore e divulgatore scientifico Barbascura X (https://www.youtube.com/watch?v=N9OMSELIcEg) e del sito di informazione FanPage (https://www.youtube.
com/watch?v=YCiqYiWfL4c) durante la c.d. Marcia per la Liberazione svoltasi a
Roma il 10 ottobre 2020.
125
Marco Viola
tura” come ideale di vita umana, la manifestante non sembra accorgersi
di un’incoerenza: nell’esposizione del suo ragionamento la telecamera la
inquadra sprovvista di mascherina ma dotata di occhiali da sole. Perché
dunque, le si potrebbe chiedere, indossare un accessorio così inessenziale?
Se veramente fossimo infastiditi dalla luce, seguendo la sua stessa logica,
dovremmo essere nati con delle membrane trasparenti capaci di filtrare i
raggi solari prima che impattino sulla retina.
Ma d’altro canto, questo tipo di ragionamenti non è affatto alieno a
certe pratiche scientifiche: il motore del programma di ricerca della psicologia evoluzionistica (e prima ancora della sociobiologia), per dirla in
termini nemmeno troppo faziosi, consiste nel cercare di spiegare alcuni
tratti o meccanismi psicologici umani nei termini dei vantaggi evolutivi
che li hanno fatti selezionare. Per esempio, le nostre emozioni sarebbero
una sorta di “routine comportamentali semi-automatizzate” che hanno
permesso ai nostri antenati di affrontare le sfide di un ambiente preistorico generando prole (Tooby e Cosmides 1990). Per quanto pregevole sia
la potenza euristica di questo tipo di spiegazioni, che mobilitano la creatività degli scienziati, la psicologia evoluzionistica è stata a più riprese
criticata perché esposta al rischio di fare inferenze troppo panglossiane:
è facile trovare, per ogni tratto, una spiegazione post-hoc capace di giustificarla. E quando (troppo spesso) si passa dal piano della constatazione di uno stato di cose a una sua reificazione in quanto “stato di cose
naturali”, e da quest’ultima si sfocia su un piano prescrittivo (“non si può
cambiare qualcosa che è inscritto nella nostra storia evolutiva”), è facile
immaginarsi cosa potrebbe andare storto. Non è un caso che la psicologia
evoluzionistica sia ampiamente criticata. Tornando alla nostra discussione sui no-mask, questo tipo di critica sembra altamente calzante anche
nel caso della manifestante: la mascherina non è una perversione della
nostra presunta natura umana. Anche perché, a detta di un numero sem-
126
I volti del complotto
pre crescente di biologici, la cultura materiale, ovvero la costruzione di
oggetti che estendano le possibilità del nostro corpo, è una componente
imprescindibile della natura umana.
Molte tra le ragioni esplicitamente addotte contro l’uso della mascherina – e un numero ancora maggiore, sospetto, di ragioni implicite – pertengono al significato politico di cui è stata investita. Nel nostro paese uno
dei primi a cercare di reclutare la mascherina per un’operazione semiotica
è stato Attilio Fontana: come ci ricorda Antonio Santangelo (2020), già a
fine febbraio 2020 il Presidente della Lombardia si fece riprendere mentre
la indossava. In una fase in cui la mascherina era ancora un feticcio capace
di precipitarci nella realtà della pandemia, che ancora cercavamo di negare, la mossa di Fontana, che voleva essere rassicurante, ha sortito l’effetto
opposto, scatenando molte critiche – caso eclatante di disaccoppiamento
tra intentio autoris e intentio lectoris. Ma qualche mese dopo, il partito di
Fontana, o per lo meno il suo segretario, sembra strizzare l’occhio ad alcune pulsioni no-mask. Introdotto da un governo di segno opposto, l’obbligo
di mascherina verrà infatti boicottato più o meno esplicitamente da Matteo Salvini, che sovente si farà ritrarre “smascherato” nelle sue comparse
pubbliche, incurante della distanza di sicurezza. A tal riguardo, diventerà
iconico (ispirando numerosi meme) uno scambio di battute tra il segretario della Lega e il conduttore della trasmissione DiMartedì, Giovanni Floris
(fig. 1a). Sempre tra i politici di destra, il deputato Vittorio Sgarbi, che sin
dalle prime settimane di interventi restrittivi aveva espresso un atteggiamento “minimizzazionista” nei confronti della pandemia, sarà trascinato
fuori dall’Aula perché rifiutatosi di indossare la mascherina. Va detto che
quest’atteggiamento è tutt’altro che unanime: a metà ottobre sarà proprio
un altro leghista, il vice-presidente del Senato Calderoli, a fare un appello
ad un uso costante e corretto della mascherina, rivolgendosi alla cittadinanza e alla politica (a partire dal suo stesso segretario).
127
a.
b.
Fig. 1. A partire dall’estate 2020, alcuni esponenti della destra italiana assumono
posizioni scettiche riguardo all’introduzione dell’obbligo della mascherina. (a)Uno
scambio di battute dell’intervista svolta il 9 giungo da Giovanni Floris (a destra) a Matteo
Salvini (a sinistra), divenuto celebre e riecheggiato da vari meme: MS: “Posso mentre
parlo con una signora togliermi la mascherina?” GF: “No” MS: “Ah no?” GF: “Eh no, se
non sta a un metro e mezzo no”. (b)Rifiutatosi di indossare la mascherina, il deputato
Vittorio Sgarbi viene condotto fuori dalla Camera dei Deputati.
I volti del complotto
Anche il personaggio più influente della destra mondiale, l’allora Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, si distingue per la sua ostilità politica nei confronti delle mascherine. Come notano i sociologi Inglis e Alimla
(2020, 253), “In the USA, wearing a mask has been taken as a sign of being
a Democrat, and therefore anti-Trump, which then brings the risk of the
mask-wearer being thrown out of stores and other places where the owner has right-wing political allegiances”. A vedere i (pochi) documenti dei
(pochi) attivisti “no-mask” italiani che hanno sfilato a Roma nell’ottobre
2020, si direbbe che anche in questo caso il rifiuto della mascherina sia
sorretto da una forte componente identitaria di appartenenza o supporto
alla destra politica, o spesso allo stesso Donald Trump.
Così, per alcuni l’obbligo di mascherina sembra quasi una sorta di esperimento di controllo sociale: in nome della “dittatura sanitaria”, i non meglio identificati potenti della terra oggi ci convincono a privarci del nostro
volto per poterci abituare ad una crescente limitazione delle nostre libertà personali. Una simile critica è però stata sollevata anche all’interno del
mondo intellettuale, da uno studioso non riconducibile alla destra quale
il filosofo Giorgio Agamben – generando non poche controversie. In una
delle numerose espressioni di scetticismo verso la gestione biopolitica della pandemia, Agamben (2020) rivendica nel volto il fondamento ontologico della natura politica dell’uomo, e lamenta come “un paese che decide
di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti
dei propri cittadini” sia “un paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica”. Come notato da Gabriele Marino (questo volume), questa
osservazione rischia di reificare il diktat culturale occidentale del “volto
nudo” (Leone 2020), come se fosse una condizione naturale e inimitabile
(in maniera non poi così dissimile dalla manifestante di cui sopra, o dagli
psicologi evoluzionisti); e al contempo, sottovaluta il potenziale semantico
del volto coperto.
129
Marco Viola
Ciò detto, per quanto verosimilmente ridimensionabile, una polemica
come quella di Agamben merita una considerazione attenta. Per quanto
semanticamente ricca, nessuna operazione di mascheramento del volto
tramite oggetti materiali potrà verosimilmente compensare la perdita di
potenziale comunicativo offerta dai nostri volti dinamici (Viola in preparazione). Ancor prima che politica, questa osservazione merita di essere considerata sul piano dell’intersoggettività. Approdiamo così alla mia modesta ipotesi di quella che, più che una ragione addotta consapevolmente per
spiegare l’adesione al credo no-mask, può rappresentare una causa che,
anche implicitamente, può motivare l’antipatia per l’oggetto: la solitudine
generata da un mondo di persone mascherate. Questa solitudine emerge
in modo quasi esplicito nelle parole pronunciate da un manifestante nomask intervistato dallo YouTuber Barbascura X, e ben sintetizzate dal suo
cartello (fig. 2).
Fig. 2. Lo YouTuber Barbascura X intervista un manifestante no-mask, che argomenta:
“Secondo me stiamo meglio se stiamo vicini uno all’altro piuttosto che lontani. Stare
lontani l’uno dall’altro non fa bene alla salute. E noi dobbiamo tenerci in salute”. Fonte:
https://youtu.be/N9OMSELIcEg?t=39.
130
I volti del complotto
Avesse avuto un vezzo da erudito, il manifestante avrebbe potuto invocare la definizione artistotelica dell’uomo come zoon politikon; ed appellarsi a quel filone di ricerca che, da Darwin sino alle odierne scienze
cognitive embodied (Baggio et al. 2020), ci insegna come il volto umano
sia un luogo privilegiato di comunicazione con il prossimo.
Vi è una fetta crescente di letteratura in psicologia sociale che indica
come le mascherine, oltre a bloccare il virus, ostacolino la comunicazione verbale e non verbale. Verbale perché ostruiscono le onde sonore ad
alcune frequenze (Magee et al. 2020), e perché impediscono la lettura del
labiale, che fornisce indizi contestuali che, anche se non ce ne accorgiamo, concorrono alla comprensione delle parole (Giovanelli et al. 2021).
Quest’ultimo aspetto colpisce in modo particolarmente duro i non udenti
(o ipoudenti), per i quali la comprensione verbale delle lingue orali dipende interamente dalla lettura del labiale; senza contare che i movimenti della bocca sono veicoli semantici anche in molte lingue dei segni. Ma ancor
più colpita è la comunicazione non-verbale. Anche se gli scienziati ancora
si accapigliano su quali emozioni trasmetta e in che modalità (cfr. Barrett
et al. 2019; Cowen e Keltner 2020), nessuno mette in dubbio che il volto
veicoli un qualche contenuto emotivo. E oltre a questo, fornisce indizi paraverbali per disambiguare la comunicazione verbale (es. Domaneschi et
al. 2017), indicatori pragmatici per la comunicazione (Crivelli e Fridlund
2018), indizi per inferire, a ragione o a torto, informazioni demografiche o
sui tratti di personalità di un osservato (Todorov et al. 2015) e altro ancora
(vedi Jack e Schyns 2015).
Tuttavia, il volto così non va inteso soltanto come una “lavagna” dove
si dipingono, volenti o talvolta nolenti, i segni che permettono all’osservatore di attribuire all’osservato certe emozioni o altri stati mentali (corrette
o fuorvianti che siano queste attribuzioni). Piuttosto, nel movimento di
certi muscoli facciali dell’osservato, che risuonano con il sistema moto-
131
Marco Viola
rio nell’osservatore, i volti possono catalizzare un incontro empatico, che
opera per lo più al di sotto del livello della coscienza e promuove l’affiliazione tra mammiferi di varie specie (Palagi et al. 2020). Non stupisce
dunque che, nello studio di Wang e colleghi (2013) sui medici (equivalenti
ai nostri) della mutua in Hong-Kong, quelli che ricevevano i pazienti con la
mascherina (abitudine ereditata dalla prima pandemia di SARS) venissero
percepiti come meno empatici.
Certi autori hanno tematizzato i problemi comunicativi rappresentati
dalla mascherina in contesti quale quello clinico (Marler e Ditton 2021) e
scolastico (Spitzer 2020; Cagol e Viola 2020), riflettendo anche su possibili strategie per aggirarli, o per lo meno mitigarli. Ma per farlo, la prima
e più importante cosa da fare è esserne consapevoli. Così come è urgente
acquisire al più presto una comprensione accurata e diffusa dei danni
psicologici che le misure di restrizione alla libertà messe in atto per contrastarlo, hanno generato nella società.
Torniamo ancora e per un’ultima volta al fenomeno dei no-mask.
Abbiamo visto come verosimilmente i motivi che li portano in piazza
sono diversi e variegati. Forse non è neppure prudente o utile immaginarsi che l’etichetta “no-mask”, con la sua seducente semplicità, possa
davvero rappresentare istanze variegate come quelle qui discusse – o
altre che non abbiamo annoverato. E tuttavia, ritengo che la ribellione alla solitudine, pur se espressa in modo implicito (o non espressa
affatto) giochi un ruolo non trascurabile. Per questo, anziché trincerarsi dietro una posizione di giudizio sprezzante, utile al massimo a
rassicurarci di essere migliori di qualche categoria di turno (o di darci
un capro espiatorio verso cui orientare la nostra frustrazione), sarebbe
utile prendere sul serio la richiesta di “avvicinamento sociale” e provare a proporre delle risposte epidemiologicamente più sicure del rifiuto
della mascherina. Prendere coscienza di ciò che passa attraverso la co-
132
I volti del complotto
municazione non-verbale per verbalizzarlo; delocalizzare la comunicazione non-verbale, tipicamente viso-centrica, ponendo maggiore enfasi
sui movimenti delle mani e di tutto il corpo; usare in alcuni casi delle
mascherine trasparenti, che facilitano la trasmissione delle emozioni
(Marini et al. 2021)(consci però che bloccano la voce ancora di più di
quelle chirurgiche – Magee et al. 2020); sfruttare qualche espediente
tecnologico (stando però attenti a non incappare nelle trappole della
Zoom Fatigue3) per contrastare il ‘distanziamento sociale’; e magari,
già che ci siamo, smettere di riferirsi ad esso con questa brutta locuzione che, nel nominarla legge, esacerba la nostra solitudine.
3
https://www.nationalgeographic.it/storia-e-civilta/2020/05/zoom-fatigue-come-le-interazioni-virtuali-influenzano-il-nostro-cervello (consultato il
22 gennaio 2021).
133
Marco Viola
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137
Il volto (artistico)del complotto
Il volto artistico del
complotto
Immagini che fracassano
Cristina Voto
Cristina Voto
Il volto aggredito e il volto dell’aggressione
Il 23 settembre 2018 a Firenze, presso Palazzo Strozzi, durante l’inaugurazione di The Cleaner, prima retrospettiva in Italia sull’opera di Marina Abramović, un uomo colpisce l’artista con un particolare artefatto: un
quadro. A ben guardare il filmato dell’aggressione, tutt’oggi disponibile
su YouTube1, ci si rende conto che l’oggetto in questione, una tela dove è
ritratta la stessa Abramović ad opera dall’autore del misfatto, non entra
solo in collisione con la celebre performer. La superficie del ritratto di
Abramović fracassa sotto la veemenza dell’urto contro la testa dell’artista
per andare totalmente in pezzi. Un gesto estremo e altamente simbolico
la cui esemplarità sembra racchiudere una particolare interpretazione
della raffigurazione del volto dell’artista e della sua singolarità in quanto
figura pubblica. Una rinnovata damnatio memorie post-litteram. Se la
“condanna della memoria” nel diritto romano prevedeva la cancellazione di ogni traccia dell’imputato, un’operazione che riguardava cioè
tutte le effigi e le immagini della persona affinché non vi fosse una possibile narrativa a futuro, l’aggressione a Palazzo Strozzi sembra cercare
invece l’immediata cancellazione sia dell’immagine sia dell’artista. Una
condanna accelerata, la cui aspettualità si presenta come diversa: non
tanto proiettata verso la manomissione di un’eredità scomoda quanto
verso il sabotaggio di una narrativa del presente. Una condanna da eseguire hic et nunc con cui attaccare sia la rappresentazione sia la persona.
Marina Abramović in un’intervista rilasciata alla sezione fiorentina del
quotidiano La Repubblica commenta: “Tra la folla c’era un uomo che
portava con sé un dipinto raffigurante il mio volto in modo distorto. Si è
avvicinato guardandomi negli occhi e gli ho sorriso pensando che fosse
1
https://www.youtube.com/watch?v=ZLgemdyuT6E&ab_channel=LaRepubblica, ultimo accesso il 14 gennaio 2020.
140
I volti del complotto
un regalo per me. In una frazione di secondo ho visto la sua espressione
cambiare e diventare violenta, venendo verso di me molto velocemente e
con forza. I pericoli arrivano sempre molto rapidamente, come la morte
stessa. Tutto a un tratto mi ha colpita, non l’ho visto subito”2.
Le origini e le ragioni di questa aggressione sono rintracciabili
nell’ambito di una narrativa cospirativa che circola, da diversi anni, intorno alla persona di Marina Abramović e alla sua produzione artistica.
La narrativa in questione è quella di QAnon3, un modello cospirativo che
racchiude in sé le più angoscianti paure immaginabili e che addita l’artista a membro di una rete progressista di satanici, pedofili e cannibali.
Per orientarmi in questo magma narrativo da incubo farò ricorso a una
lettura semiotica della ricezione di quelle opere artistiche che sono state
utilizzate come evidenze dei reati commessi. Opere come Spirit Cooking
— un libro di ricette del 1996 divenuto poi un’installazione nel 1997 — o
Balkan Baroque — una performance eseguita in occasione della Biennale di Venezia del 1997 e premiata con il “Leone d’Oro” — diventano nei
modelli interpretativi dei seguaci di QAnon le immagini inconfutabili
dei reati, le prove che documentano una magnificazione gestuale orrorifica. Spirit Cooking e Balkan Baroque cessano così di essere opere e
di significare come artefatti o performance, in esse non vengono riconosciute le testimonianze delle estetiche e delle retoriche che caratterizzano l’opera di Abramović dagli anni Sessanta a oggi. Entrambe le opere
diventano piuttosto le verità da condannare.
2
Il testo integrale dell’intervista è reperibile al seguente link:
https://firenze.repubblica.it/cronaca/2018/09/23/news/firenze_aggredita_
marina_Abramović_da_un_sedicente_artista-207157859/).
3
Questo mio intervento nasce all’indomani delle proteste al Campidoglio
degli Stati Uniti del 5 gennaio 2021 ed è mosso dall’impeto di ricorrere alla semiotica come prospettiva e strumento per analizzare la complessità del reale che
mi/ci circonda.
141
Cristina Voto
Come prima messa in prova della prospettiva analitica che mi interessa
adoperare per districare la fitta trama cospirativa mossa contro Marina
Abramović e diversi esponenti del mondo dell’arte contemporaneo, propongo rileggere le parole rilasciate dall’artista a La Repubblica attraverso
uno sguardo semiotico in maniera tale da calibrare la metodologia scelta per questo mio intervento. Da un punto di vista semiotico, si può affermare che l’artista, di fronte all’omaggio potenzialmente rappresentato
dal suo ritratto, si lascia dissuadere dalla dimensione espressiva di questa
occorrenza, presto minacciosa, per poi essere colpita dal suo imminente
e contrastivo significato. Charles Sanders Peirce, uno dei padri della disciplina, offre una definizione di segno, l’oggetto di ogni significazione,
utile per poter iniziare ad analizzare le parole di Abramović: se “un segno
è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità” (CP: 2.228) si può allora affermare che il ritratto-oggetto-del-reato sta al processo di significazione, alla semiosi direbbe Peirce, dell’aggressione, per un’identificazione della stessa Abramović sotto una precisa
capacità rappresentativa, l’aspetto “distorto” del quadro. Il ritratto, come
motore della semiosi dell’episodio di Palazzo Strozzi, non sta cioè per una
riproduzione dell’artista come omaggio raffigurato sotto qualche similarità
iconica, come pensava Abramović e come ci insegna la lunghissima storia
della ritrattistica in Occidente. Del resto, possiamo affermare che un
ritratto è sempre la presenza di un’assenza, anzitutto quella della persona
ritratta, con la quale l’oggetto-ritratto, come segno della sua significazione,
cerca comunque di stabilire una relazione mediata e mediatizzante tra la
persona raffigurata — come traccia indicale di quell’oggetto-ritratto — la
somiglianza della raffigurazione — come dimensione percettiva di una
certa maniera di vedere l’oggetto-ritratto — e le estetiche e le retoriche del
ritratto — come genere e come linguaggio —. Di fatti, lì dove Abramović
offre una lettura connotativa di questa mediazione attraverso l’oggetto-
142
I volti del complotto
ritratto, interpretato come un ossequio o un dono, ecco che l’uomo ne offre
una denotativa, l’oggetto-ritratto è anzitutto un oggetto, contundente, con
cui ledere la persona e la raffigurazione.
Purtroppo l’episodio di Firenze non rappresenta una novità nella traiettoria dell’artista. La lettura differenziale sulla sua opera viralizzata tra
i sostenitori di QAnon offre un’interpretazione altrimenti significante ed
esente della dimensione estetico-politica che caratterizza tutte le arti. Un
appiattimento del linguaggio espressivo dell’artista — una proposta che
passa dalla body art alle arti plastiche attraverso la performance — sul
livello denotativo raffigurato. Questo appiattimento è diventato il motore della lettura sui generis dell’opera di Abramović. Un’interpretazione
dove i limiti tra narrazione e costruzione, tra finzione e realtà si sfaldano
per accartocciarsi e crollare gli uni sugli altri. Fracassano, un po’ come
il ritratto protagonista dell’aggressione a Palazzo Strozzi. Sono proprio
i confini tra diegesi e mimesi, tra ciò che è rappresentato e come viene rappresentato, ad andare in pezzi, a disfarsi —così come ci ricorda la
stessa etimologia del verbo “fracassare”4—. E il senso si annulla, la sua
vitalità significativa si arresta abbattuta sotto i colpi sferrati dalle credenze che fanno di una retorica del verosimile le prove fattuali di una
narrativa. Una narrativa con ambizioni e potenze da teoria cospirativa.
Basta ricordare che un anno prima dell’attacco a Palazzo Strozzi, durante
l’inaugurazione in Polonia della stessa retrospettiva, decine e decine di
fedeli cattolici si sono radunati fuori dal Centro d’Arte Contemporanea
4
Da un punto di vista etimologico il verbo “fracassare” deriva dal frequentativo di “quàtere” ovvero “quàssare”. Nella lingua latina i verbi frequentativi sono verbi che esprimono una ripetizione, una frequenza. In questo mio intervento quello che mi interessa sottolineare è un’analogia tra la viralità delle teorie
cospirative, narrative ripetute e ripetitive sia dal punto di vista del contenuto sia
dal punto di vista del formato, e gli effetti di questa ripetizione: l’andare in pezzi
o il fare a pezzi la realtà.
143
Cristina Voto
“Znaki Czasu” di Toruń per contrastare, attraverso una serie di preghiere
pubbliche e collettive, le conseguenze eretiche e blasfeme dell’esibizione.
Ma quali opere metteva in mostra The Cleaner per dare luogo a reazioni così divergenti rispetto alle più consuete e comuni pratiche di fruizione
del mondo dell’arte? Perché la retrospettiva di una delle artiste più riconosciute e acclamate dai musei di tutto il modo sortisce effetti così violenti?
Quali modelli altrimenti interpretativi circolano oggi sull’opera di Marina
Abramović? E infine, come è avvenuto il passaggio da una significazione
della produzione artistica come una pratica estetica compromessa con
il tempo e il corpo, a punto tale da essere frequentemente usato come la
tela su cui incidere le scritture dell’arte, a una pratica cospirativa? A tutte
queste domande cercheranno di rispondere le pagine che seguono.
Il panico epistemico del volto del complotto
Da qualche anno a questa parte esiste una vera e propria confabulazione complottista che riguarda diverse personalità del mondo
dell’arte contemporaneo. Oltre a Marina Abramović altre artiste di fama
internazionale come Biljana Djurdjević, Maria Marshall, Patricia Piccinini e Louise Bourgeois ne farebbero parte. Certo, il complotto non riguarda solo personalità femminili del mondo dell’arte, altre figure di spicco
nella società statunitense come Tony e John Podesta — due fratelli e figure storiche tra le fila dei democratici; uno economista e collezionista
d’arte, l’altro giurista e presidente della campagna elettorale di Hilary
Clinton alle presidenziali del 2016 — e la cantante Lady Gaga sono arruolati come perversi protagonisti nelle fitte trame di questa narrativa virale.
L’imputazione? Essere i membri di una setta satanica democratica che
promuove la pedofilia e il cannibalismo. Chi muove l’accusa? I sostenitori della teoria del complotto statunitense conosciuta come QAnon.
144
I volti del complotto
Il principale punto di svolta delle teorie complottiste di QAnone, è
stato un episodio trascorso durante la campagna elettorale del 2016,
quando le email personali di John Podesta iniziarono a circolare su internet dando vita a una serie di interpretazioni dove realtà e finzione fracassano verso un’unica zona di senso cospirativa. I contenuti delle mail
di Podesta diventarono così messaggi esoterici da decifrare e capaci di
collegare la concorrente alla Casa Bianca Hillary Clinton, assieme ad altri
rappresentanti delle fila democratiche, a una vasta rete di pedofili satanisti che opererebbero da una pizzeria di Washington D.C., un luogo
simbolo della comunità LGTBIQ+5, dando vita al cosiddetto Pizzagate.
Tra i messaggi in questione, ci sono anche quelli redatti in una email
da Marina Abramović e che ripropongono alcuni congiuri proto-esoterici
apparsi nella perfomance Spirit Cooking. A partire dalla diffusione delle
email di Podesta, il successo del complotto sul web è inarrestabile, una
vera e propria epidemia narrativa che galoppa sull’ansia del (in)conoscibile e dell’(in)intellegibile. La situazione precipita, però, nel giro di
un paio di mesi quando Edgar M. Welch, un ragazzo armato di un fucile
d’assalto vero, si reca presso l’incriminata pizzeria per fare giustizia sui
falsi crimini commessi.
Pizzagate is merely one manifestation of our current
epistemological panic, facilitated by the replacement of
(elite) broadcasting venues with populist access to media,
stoked by anxiety over the overlap of the megawealthy
with those in positions of political power, exacerbated by
those things that are not merely engaged in but valued
and given value by the megawealthy (contemporary art, in
5
James Alefantis, proprietario della pizzeria “Comet Ping Pong”, è attivista per i diritti delle persone LGTBIQ+ e sostenitore del Partito Democratico
oltre ad aver partecipato in prima persona alla raccolta fondi per le elezioni presidenziali statunitensi del 2012 e del 2016.
145
Cristina Voto
particular: Jeff Koons, Lady Gaga, and Marina Abramović
all represent foci for terror; their decadence and/or
esotericism coupled with a magical commodification of
otherwise commonplace objects, from balloon animals
to sliced meat to sitting and staring for a long time).
The epistemological panic is, in turn, a moral panic,
and, in keeping with moral panics in American history—
Salem, for instance, or the ritual child abuse panic of the
1980s—it offers believers important roles in decoding the
plot of and fighting against cosmic evil. Yet the current
epistemological panic resists the certainty of previous
moral panics: the anxiety over Satanic conspiracy is
ultimately not as horrifying as the anxiety over not
knowing and not knowing how to know or how to let
others know6. (Dew 2016)
Identificare nelle teorie cospirative modelli socioculturali di panico
epistemico, permette una prima operazione analitica: inquadrare nel
complotto una narrativa sgomenta, suggellata dalle imposizioni determinate da quelli che, di volta in volta, sono riconosciuti come gli apparati di soggiogo e potere (siano essi i mezzi di comunicazione, la sete di
6
Il Pizzagate non è che una manifestazione del nostro attuale panico epistemologico, favorito dalla sostituzione dei mezzi di comunicazione (elitari) con
un accesso populistico ai media, alimentato dall’ansia per la sovrapposizione dei
mega-abbienti con coloro che occupano posizioni di potere politico, esacerbato
da tutte quelle cose che non sono semplicemente engagé, ma apprezzate e valorizzate dai mega-abbienti (l’arte contemporanea, in particolare): Jeff Koons,
Lady Gaga e Marina Abramović rappresentano dei focolai di terrore; la loro decadenza e/o esoterismo uniti a una magica mercificazione di oggetti altrimenti
banali, dagli animali a forma di palloncino, alle fette di carne, allo stare seduti a
fissare). Il panico epistemologico è, a sua volta, un panico morale, e, in linea con
il panico morale della storia statunitense - Salem, per esempio, o il panico rituale
dei bambini maltrattati degli anni ‘80 - offre ai credenti ruoli importanti nella
decodificazione della trama e nella lotta contro il male cosmico. Eppure l’attuale
panico epistemologico resiste alla certezza dei precedenti panici morali: l’ansia
per la cospirazione satanica, in definitiva, non è così orribile come l’ansia per il
non-sapere o il non-sapere-come-sapere o il come-fare-per-far-sapere-agli-altri.
146
I volti del complotto
celebrità o l’ansia di successo). Questa prima messa a fuoco suggerisce
una profonda difficoltà interpretativa da parte di chi si trova immerso
nelle maglie di una narrativa complottista, una difficoltà nel redimere
tra realtà e finzione, tra verità e falsità. Del resto, il sistema interpretativo che regge la narrativa del complotto come forma di panico epistemico configura certe e particolari forme di conoscenza sulla base di una
percezione precisa: l’ansia, la minaccia, il terrore. Il complotto diventa
allora uno sguardo attraverso cui osservare il mondo per mezzo una
prospettiva già codificata, già plasmata dal panico che il male — qualsiasi cosa esso rappresenti: Satana, il decadentismo delle star, i democratici, le antenne del 5G, i vaccini — si possa diffondere. In questo senso,
parlare di episteme (Foucault 1966) significa parlare di un insieme di
dispositivi narrative possibili solo grazie a determinate regolarità discorsive. L’episteme diventa così il pensabile da cui si proietta una determinata comunità, la possibilità narrativa che regola l’identità delle
idee al di là della verità. Parafrasando Foucault, potremmo allora dire
che le teorie del complotto configurano l’ansia di un’epoca nei confronti
di quello che si può (non) sapere o si può (non) conoscere. Del resto,
come scrive Karl Popper in Congetture e refutazioni (1969) citato poi
da Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione (1990): “Il teorico della cospirazione crederà che si possano intendere compiutamente le
istituzioni come risultato di un disegno consapevole; quanto poi alle
collettività egli normalmente attribuisce loro una specie di personalità
di gruppo, trattandole quali agenti della cospirazione come se fossero
singoli individui” (Popper, 1969; trad. it.: 213).
Non sarà questa la sede per recuperare e analizzare l’intricatissima
epica delle elaborazioni complottiste che muovono QAnon. Di questa
fitta rete di narrazioni e confabulazioni il centro del mio interesse sarà
indirizzato verso un’analisi della semiotica del visibile complottista.
147
Cristina Voto
Ovvero, che cosa vedono, osservano e riconoscono i sostenitori del
complotto nelle opere di Marina Abramović, Biljana Djurdjević, Maria
Marshall, Patricia Piccinini e Louise Bourgeois?
La super-facies delle immagini e l’immagine del complotto
Partiamo dalle opere, o forse sarebbe il caso di dire dalle immagini
delle opere che documenterebbero i crimini commessi dalle artiste in
questione, per allinearci con la prospettiva cospirativa. Ovviamente,
nella quasi totalità delle denunce che circolano oggi sui blog o nei tweet
afferenti a QAnon, si evince che in nessun caso vi è stata un’esperienza
di fruizione diretta con l’opera d’arte, bensì solo un contatto con la superficie dell’immagine digitale che riproduce l’opera, la super-facies epidermica, la faccia labile del complotto. Queste immagini imbastiscono,
perciò, il volto di un’immagine cospirativa fatta di rappresentazioni che
si ipostatizzano su una narrativa unica ed esclusiva, fatta di simulacri che
si incancreniscono sui fantasmi di un’ossessione iconica, di somiglianza.
Partiamo da The Arch of Hysteria scultura realizzata da Louise Bourgeois nel 1993 e di cui circola una foto con John Podesta accanto all’opera. Secondo QAnon nella morfologia incurvata del busto della statua
si può riconoscere e verificare la posizione in cui è stata trovata una vittima del serial killer Jeffrey Dahmer, una figura molto popolare negli
Stati Uniti a cause delle macabre efferatezze commesse durante i suoi
delitti (Figura 1). Assenti dalla lettura cospirativa ogni riferimento alla
ricerca plastica e materiale, alla dimensione biopolitica dell’isteria, alla
relazione tra la presunta malattia e la costruzione della soggettività femminile — un aspetto fondamentale per comprendere tutta la produzione
di Bourgeois — alla formazione della scultrice come psicoanalista o alla
sua trentennale pratica professionale. Continuiamo con le opere già ci-
148
I volti del complotto
tate di Marina Abramović: Spirit Cooking nasce come un ricettario afrodisiaco dove le ricette assumono certe retoriche animiste tipiche delle
credenze popolari con l’intenzione di evocare suggestioni e immaginari
pagani piuttosto che l’appetito. Successivamente, nel 1997, il ricettario
diventa un’installazione multimediale messa in atto presso l’Associazione per l’Arte Contemporanea “Zerynthia” di Roma, dove Abramović dipinge sulle pareti della galleria alcune delle ricette utilizzando a mo’ d’inchiostro sangue di maiale. Un’ultima trasmutazione di Spirit Cooking è
quella che la fa diventare un’opera d’arte relazionale sotto i connotati di
una cena offerta dall’artista, durante uno di questi banchetti una torta
assunse le fattezze di un corpo umano (Figura 2). QAnon riconosce e
verifica nelle immagini che rappresentano le scritte della galleria romana e la torta antropomorfizzata un’invocazione alle forze occulte, un atto
satanico che culmina nel cannibalismo7. Assenti dalla lettura cospirativa
ogni riferimento all’interesse dell’artista per le tradizioni popolari serbe,
alle molteplici trasmutazioni che abilita il linguaggio dell’arte o ai limiti
che il corpo offre/rifugge. Un’altra opera d’arte prova dei reati è Balkan
Baroque, un atto di denuncia alla guerra dei Balcani e alla pulizia etnica
sofferta, si tratta di una performance intensa ed estenuante che vede l’artista impegnata a pulire dal sangue un enorme cumulo di ossa di bovino
per sei ore durante 4 giorni. Una serie di video e di sculture accompagnavano la performance (Figura 3). La prospettiva scopica di QAnon riconosce in quelle immagini atti di cannibalismo ed efferata violenza.
Passiamo ora a un ultimo blocco di tre opere più recenti dove i modelli
narrativi della cospirazione riconoscono le stesse macchine del visibile
7
Esiste un fact check editato dall’agenzia di stampa Reuters che smentisce le
accuse mosse contro Abramović, dove sono presenti numerose interviste e articoli:
https://www.reuters.com/article/uk-factcheck-abramovic-model/fact-check-model-in-photograph-with-lady-gaga-is-not-ryan-singleton-idUSKCN24F20I.
149
Cristina Voto
complottista: una serie di immagini che non mettono in scena un senso
da ricostruire, un’assenza da significare ma dei fatti. Le opere in questione sono quelle di Maria Marshall8, Biljana Djurdjević e Patricia Piccinini.
Nella produzione di tutte queste artiste troviamo ritratta o materializzata
in tre dimensioni — come nel caso delle sculture di Piccinini — la vulnerabilità dell’universo dell’infanzia. Nelle opere di queste artiste i volti dei
bambini rappresentati sono sempre potenzialmente minacciati da un’entità ineffabile che resta o fuori campo, come nel caso dei dipinti di Biljana
Djurdjević (Figura 4), oppure è presente dentro la diegesi dell’opera ma
ha le fattezze perturbanti di tutto ciò che non si può nominare e quindi
non si può conoscere — veri e propri mostri informi e deformi —. Tutte
le opere in questione, o forse sarebbe il caso di dire, tutte le immagini
delle opere in questione, sono state riconosciute dai modelli interpretativi di QAnon come la presentificazione del male promosso dalle frange
democratiche verso i più deboli, verso quella comunità da proteggere e
salvare…come direbbe il personaggio di Helene Lovejoy dei Simpson,
recuperando un potente e diffuso panico epistemico capace di avviare
le più gloriose e smisurate crociate patriarcali: “Won’t somebody please think of the children!?”.
L’abito fracassato del complotto
All’inizio di questo intervento recuperavo una definizione di segno,
quella di Peirce, dove si affermava che quel qualcosa che è l’oggetto
principale d’attenzione per la semiotica — motore stesso della semiosi
8
La Canadian Broadcasting Corporation ha dedicato un’inchiesta alla
rilettura cospirativa dell’opera di Maria Marshall da parte di QAnon: https://
www.cbc.ca/radio/day6/episode-346-fighting-wildfires-with-technology-pizzagate-returns-impeach-o-meter-game-of-thrones-and-more-1.4203979/provocative-artist-targeted-by-pizzagate-trolls-1.4204030
150
I volti del complotto
e del processo di significazione — sta per tre relazioni di senso: “per
qualcosa”, “per qualcuno” e “sotto certi aspetti o capacità”. Nella prospettiva semiotica di Peirce, inoltre, ognuna di queste relazioni è ricorsiva e può diventare a sua volta segno di qualcos’altro. Questa apertura,
descritta come “semiosi infinita” dal suo stesso autore, spiega la natura
dell’essere umano ad essere sempre incline alla ricerca del senso. Allo
stesso tempo però, la semiosi, seppur infinita, necessariamente sedimenta dando avvio a dei formanti cognitivi, emotivi e pragmatici, gli
“abiti interpretativi”, ovvero gli incontri/scontri tra “mondi interiori’ e
“mondi esteriori” — identificati da Peirce come “inner world” e “outer
world” —. Avevamo di fatti visto come l’abito interpretativo di Marina
Abramović dinnanzi al suo ritratto avesse dato avvio a un particolare
processo di significazione smentito poi dai fatti dell’aggressione. Come
scrive Massimo Leone, il problema in nuce della narrativa del complotto si manifesta quando:
un unico abito viene selezionato come dominante. La
semiosi è bloccata in un interpretante rigidamente
codificato (…) Qualsiasi tentativo di riattivare il motore
della semiosi introducendo interpretanti alternativi viene
annullato — spesso con violenza — attraverso la burocrazia
ermeneutica. Gli esseri umani che vivono sotto il giogo
di un unico insieme di abiti, rigidamente canonizzato,
esperiscono, di solito, una profonda alienazione.(2016: 60)
L’univocità dell’abito cospirativo nel leggere le immagini delle opere
di Marina Abramović, Biljana Djurdjević, Maria Marshall, Patricia Piccinini e Louise Bourgeois indica una codificazione tale per cui cioè che
è rappresentato assurge a verità sul come è rappresentato: le immagini
sono la verità dei reati rappresentati e la loro rappresentazione è la prova evidente dei crimini commessi. Le conseguenze di questa maniera
151
Cristina Voto
di vedere il mondo (Berger 1972) portano a un fracasso del senso, un
andare a pezzi della significazione, un annullamento dell’intenzionalità
dell’arte come strumento capace di innervare senso estetico e politico
alla vita umana.
Un’immagine che
fracassa sul web della
scultura Arch of Hysteria
di Louise Bourgeois
Un’immagine che fracassa
sul web della performance
di Balkan Baroque di
Marina Abramović
152
I volti del complotto
Un’immagine che fracassa
sul web della performance
Spirit Cooking di
Marina Abramović
Un’immagine che fracassa
sul web dell’opera di
Biljana Djurdjević
153
Cristina Voto
Bibliografia
Berger J. (1972) Ways of seeing, Penguin, London
Dew S. (2016) We Don’t Have Enough Proof: Pizzagate as Epistemological Panic, “Divinity School Journal. The University of Chicago”,
https://divinity.uchicago.edu/sightings/articles/we-dont-have-enough-proof-pizzagate-epistemological-panic
Eco U. (1990) I limiti dell’interpretazione, La Nave di teseo, Milano
Foucault M (1966) Les mots et les choses, Gallimard, Paris
Leone M. (2016) Fondamentalismo, anomia, complotto, “Lexia. Revista
di semiotica. Complotto”, 23-24: 55–67
Peirce C. S. (1931-1958), Collected Papers of Charles S. Peirce, 8 vol.,
[ vol. 1-6 a cura di Hartshorne, Charles, Weiss, Paul], [vol. 7-8 a cura
di Burks, Arthur W.], Cambridge Massachusetts, Harvard University
Press (trad. it. Charles Sanders Peirce. Opere, Bonfantini M (a cura di),
Bompiani, Milano 2003)
Popper K (1969) Conjectures and Refutations, Routledge & Kegan Paul,
London (trad. it. Congetture e refutazioni, il Mulino, Bologna,1972)
154