GIULIA GRECHI
DECOLONIZZARE IL MUSEO
MOSTRAZIONI, PRATICHE ARTISTICHE, SGUARDI INCARNATI
MIMESIS / ETEROTOPIE
MIMESIS / ETEROTOPIE
N. 725
Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna
comitato scientifico
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università
di Urbino), Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla
Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Giuseppe Di Giacomo (Sapienza
Università di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio
Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di
Palermo), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid),
Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Jean-Jacques Wunenburger
(Université Jean-Moulin Lyon 3), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino),
Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma)
Giulia Grechi
DECOLONIZZARE
IL MUSEO
Mostrazioni, pratiche artistiche,
sguardi incarnati
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it
Collana: Eterotopie, n. 725
Isbn: 9788857572529
© 2021 – MIM EDIZIONI SRL
Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE
Prefazione
di Anna Chiara Cimoli
Introduzione. Decolonizzare come verbo
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PRIMA PARTE
IL MUSEO, NOSTRO SPECCHIO COLOSSALE
1. Mostrazioni
2. Il Museo della Normalità Europea
2.1 Rovesciare lo sguardo
2.2 Oculesics: politiche dello sguardo
2.3 Fair Trade Head: per un archivio equo e solidale
2.4 Rovesciare l’archivio
2.5 Anti-Guest Book: interrogare l’archivio
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SECONDA PARTE
DENTRO LO SPECCHIO
1. Colonial Hauntology.
Musei, colonialismo, migrazioni
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#1 Performing Ethnographic Museums:
Crossing Bodies Postcolonial Visions
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#2 Performing Ethnographic Museums:
Il museo cannibale (mind the body!)
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1.1 Delle potenzialità del vivere fra spettri:
il padiglione del Belgio della 56a Biennale di Venezia 129
2. Cosa sa il corpo (anche il corpo delle cose).
Del prendersi cura
2.1 Cose che stanno morendo
2.2 Sfuocare lo sguardo per vedere meglio
2.3 Whose heritage? Restituire.
Verso una nuova etica relazionale
2.4 Di chi sono gli occhi
2.5 Pratiche museali incorporate: verso un museo
come sensescape
#3 Performing Ethnographic Museums:
Endless Repair. Piccola sceneggiatura in quattro atti
#4 Performing Ethnographic Museums:
The Scattered Colonial Body
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TERZA PARTE
OLTRE LO SPECCHIO: GETTARE IL CORPO NELLA LOTTA
1. Non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del mondo:
l’inarchiviabile
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2. Mettere in scena l’archivio: EXHIBIT B
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3. Disfare l’archivio: Mum I’m sorry
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4. Rovesciare l’archivio: Excelsior, l’esemplare capovolto
(in forma di conversazione con Salvo Lombardo)
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5. Disseminare l’archivio: As far as my fingertips take me 261
Immagini
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Bibliografia
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PREFAZIONE
di Anna Chiara Cimoli
Statue abbattute, musei occupati, piazze attraversate da manifestazioni di protesta: i pochi mesi in cui abbiamo potuto uscire di casa,
nell’estate 2020, sono stati attraversati da un’urgenza, come un’ondata
che ha colpito luoghi fra loro distanti eppure accomunati da una stessa
richiesta di giustizia sociale. Una giustizia che ha nella rappresentazione visiva e pubblica un nodo necessario: parliamo qui di spazi attribuiti
ai detti e ai non-detti, della presenza di persone con diversi background
migratori, identità, origini, genere, orientamento sessuale, credo religioso – e tutti i fattori che compongono lo spettro della diversità – nei
luoghi in cui si prendono decisioni, nel privato e nel pubblico, nelle
istituzioni politiche, educative e culturali, e così via.
Fotogrammi che abitano la memoria visiva recente: la Jingle
Dance dei nativi americani sul luogo dell’uccisione di George
Floyd a Minneapolis; le manifestazioni in tante piazza statunitensi
a seguito delle proteste di Black Lives Matter e l’estetica del krump, danza nata nei quartieri periferici di Los Angeles allo scopo di
performare la battaglia, mimandola, per non agirla; il busto di John
Sloane, fondatore del British Museum, fino a poco tempo fa troneggiante nell’ingresso dell’istituzione, ora messo al riparo nel pieno
delle azioni di abbattimento dei monumenti in Gran Bretagna (con
una didascalia che ne testimonia il ruolo nella tratta degli schiavi e
parla esplicitamente di imperialism).
Fotogrammi da un campo di battaglia: quello, fumante e in rovina,
di un Occidente costruito a scapito di un “altrove” disegnato a tavolino,
come racconta bene l’opera di Yinka Shonibare Scramble for Africa
(2003) dedicata alla Conferenza di Berlino in cui – righello alla mano
– vennero tracciati i confini degli stati africani spartiti fra le potenze
europee. Immagini che non parlerebbero in modo così chiaro se non
fossero abitate da persone vive, il cui corpo e la cui voce sono visibili
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Decolonizzare il museo
e udibili, a testimoniare che c’è bisogno di risarcimento adesso, entro
questo arco biologico, per non aumentare il carico su chi verrà dopo.
Che cosa succede della memoria che non si incarna? Che cosa succede dei non-detti che pesano attraverso le generazioni, come si è chiesto
lo psicologo tedesco Bert Hellinger riferendosi in particolare ai traumi
del nazismo? Che cosa succede delle frecce non scagliate, delle domande non poste, delle rappresentazioni mancate, dei silenzi, dei rimossi?
Provano a rispondere a queste domande alcuni artisti contemporanei di cui si riflette in questo volume. Kader Attia, per esempio,
parla della riparazione come di un processo di ostensione orgogliosa
e necessaria delle ferite, non importa quanto esteticamente ripugnanti
o socialmente inaccettabili: sono ferite da guardare dritte negli occhi,
per non rischiare di perpetuare una rappresentazione incompleta della
storia. Zineb Sedira, nel suo Mother Tongue, riflette sul trauma di
una lingua che non attraversa più le generazioni, ma a un certo punto
della catena genealogica viene silenziata: madre e figlia parlano una
lingua, figlia e nipote un’altra; ci si può solo guardare negli occhi
sperando di comunicare con l’affetto e la cura reciproca.
Ma oltre alla voce degli artisti visivi c’è quella della curatela,
della performance, dell’attivismo politico e culturale, dell’editoria,
dei tanti mondi che qui vengono interpellati attraverso una ricerca
di campo inquieta e aggiornata.
Ecco perché il libro di Giulia Grechi riempie con tempestività un
silenzio assordante: perché cuce insieme – sotto il grande ombrello della rappresentazione dell’altro attraverso mostre, esposizioni e
musei – i nodi scomodi della contemporaneità da una prospettiva
decoloniale, e lo fa senza costringerli entro una maglia interpretativa stretta, bensì facendo dialogare i frammenti di questa modernità
sparpagliata, facendoli costantemente confliggere e reagire e costruire nuove costellazioni. Lo fa permettendo a noi lettori di sentire
il passo dei suoi viaggi, delle mille interviste, peripezie intellettuali,
oggetti di interrogazione, letteratura frequentata, come se sorvolassimo su un drone (o il pallone aerostatico sulle esposizioni del XIX
secolo) un panorama vasto e complesso, approdando a ogni capitolo sui nodi più caldi di una ricerca che ci riguarda.
Le pagine che seguono, infatti, hanno un andamento a spirale che
ci interpella: come una danza che dapprima guardiamo da lontano,
ma dentro cui ci troviamo alla fine coinvolti, più o meno consa-
Prefazione
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pevolmente: la danza delle relazioni, delle distanze di sicurezza,
di quello che abbiamo voluto vedere o negare, discutere o tacere,
come individui e come società.
Ecco perché questo volume è prezioso sia per chi è in formazione
(ma lo siamo tutti, sempre) che per i professionisti del mondo dei musei
e dell’arte contemporanea, per le persone curiose come per gli specialisti, e per chi ha a cuore la trasmissione culturale fra le generazioni.
In Italia mancava un volume come questo: innanzitutto per il perimetro dei temi affrontati, temi scomodi, spesso hidden in plain
sight (nascosti in piena luce), che l’autrice frequenta da molti anni
incrociando gli sguardi dell’antropologia culturale, della curatela e
dell’approccio intersezionale, e che finalmente – in gran parte proprio grazie al suo tenace lavoro – stanno emergendo anche a livello
del più largo dibattito culturale e politico. Ma anche per il metodo
scelto per disporre gli oggetti di studio sul tavolo da lavoro e analizzarli: per moltiplicazioni di senso e intrecci possibili, per accostamenti e rimandi, eppure con eccezionale coerenza, perché coerente
è lo sguardo e sono le domande poste.
Contro ogni accademismo, qui si è scelto di passare dall’analisi antropologica della storia del “mostrare” al racconto in prima persona,
e poi all’intervista, all’intersezione con la poesia, la filosofia, l’arte
contemporanea, sempre mescolando i registri e costruendo una costellazione di punti luminosi che chiedono a noi lettori di stare all’erta, pur abbandonandosi al piacere di una scrittura armonica e chiara.
Leggendo il manoscritto, mi venivano alla mente due riflessioni
recenti. La prima nasce dalla domanda di uno studente universitario: perché a scuola si insegna la musica e non la danza? Forse,
pensavo, perché la danza non ha un pentagramma, una sintassi riconoscibile che la definisca e la renda culturalmente trasmissibile. In quanto tale è meno conoscibile, meno “studiabile”, dunque
codificabile e accettabile. La corporeità è un altrove che la cultura
fa fatica a conoscere come patrimonio comune. Quanto di più intimamente nostro, eppure quanto di più estraneo.
La seconda riflessione nasce dalla constatazione di Sandra Smith,
Head of Collection Care del British Museum. In un podcast dell’ottobre 2020, in piena pandemia, Smith osservava come il museo,
senza i suoi circa sei milioni di visitatori all’anno, abbia subito un
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Decolonizzare il museo
duro contraccolpo per quanto riguarda l’umidità delle sale, e dunque il benessere delle opere.1 Gli oggetti esposti al museo sono stati
abituati a respirare insieme ai visitatori. Se questi vengono meno,
anche il museo va in debito d’ossigeno.
Eppure gli oggetti erano lì prima di noi, anche senza di noi: come
ripensare alla nostra indispensabilità? Come riposizionare distanze,
pesi, fiati, appropriazioni, in un universo espositivo chiamato a cercare nuovi paradigmi?
Tabù, pelle, sguardi: di questo si sta parlando. Torna dunque l’interrogazione fondamentale sul senso di portare il corpo (i corpi) al museo:
il nostro di visitatori, sempre costruito, vincolato dal codice prossemico
che il luogo impone, distanziato, schermato; e quello degli “altri”. Il corpo, per esempio, di Saartjie Bartmann, la “Venere ottentotta” esposta da
viva negli zoo umani e da morta al Musée de l’Homme di Parigi; quelli
che hanno indossato le maschere rituali adesso conservate dentro le teche; quelli che guardavano i visitatori nella mostra Exhibit B, tanto contestata nella sua tappa al Barbican Centre di Londra da venire chiusa.
Eccoci entrati nella dinamica della “mostrazione”, ovvero la “costruzione dell’oggetto rappresentato attraverso l’atto del metterlo in
mostra”, che Giulia Grechi pone sotto la sua lente di ingrandimento
facendone emergere trame, automatismi, luoghi comuni. Poiché mostrare vuol dire oggettivare, additare da lontano, indicare un insieme
di segni assemblati in vitro, apparecchiati per lo sguardo, distanziati dalla natura: “La ripetizione assertiva dell’alterità corporea tra un
medium e l’altro e la sua mostrazione sono due processi cruciali per
la costruzione di una rappresentazione stereotipata, e per mantenere
la differenza in un ambito di sicura incertezza, non essendoci alcun
modo per dimostrare la fondatezza di una rappresentazione stereotipata, se non quello di renderla un’evidenza del visibile”.
Eppure, ci sono storie di riscatto e di capovolgimento del pattern
che passano attraverso l’ostensione dei corpi, anche se imposta e
non negoziata. È il caso, per esempio, dei “principi assabesi” messi in mostra all’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884,
che - in virtù della loro “gradevole colorazione ‘cioccolatte’”, degli
“sguardi fieri e addirittura alteri, portamento nobile, maschi e femmine”, insomma del fatto di essere “decisamente belli” - ottengono
1
The British Museum Podcast #18: Collection Care, Tantra and a Return to the
Archive, ottobre 2020, online.
Prefazione
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una serie di privilegi, fra cui poter circolare liberamente negli spazi
espositivi e incontrare la famiglia reale italiana.
C’è spazio, dunque, per un cambiamento, per piccole e grandi
rivoluzioni che attraversino anche il museo in quando sintagma di
un discorso complesso, quello del vivere sociale: ce lo dicono tante esperienze come quella, autocritica sugli automatismi dei musei
etnografici, del MEN di Neuchâtel; il processo di rinnovamento
del Museo Italo Africano “Ilaria Alpi” di Roma; le aperture alla
riflessione decoloniale da parte di grandi rassegne come Documenta, Manifesta e Biennale di Venezia; la centratura sulle dinamiche
dello sguardo e delle sue forme prescrittive al Museo della Mente
di Roma, e tanti altri casi qui analizzati.
Diventando più consapevoli dei meccanismi della “mostrazione”, che l’autrice individua e descrive con intensità, contribuiamo a
quel processo di “cura” oggi più che mai urgente. La Jingle Dance è
un rituale terapeutico applicato sulle ferite dell’umanità travalicando appartenenze culturali, linguaggi e riferimenti simbolici, come
a dire che il bisogno di guarigione di uno è quello di tutti. Perché,
come scrive Giulia con il suo inconfondibile tono,
questo oggetto culturalmente denso, l’anima, questo oggetto residuale che oscilla tra materiale e immateriale, soggetto e oggetto, coscienza
e inconscio, può raccontare un’altra storia, a patto che lo si consideri nel suo rilievo emozionale e proiettivo, che dunque riguarda tanto la
memoria (privata e pubblica) quanto l’immaginazione e la fantasia, nel
loro essere luoghi scivolosi, sfuggenti, inevitabilmente soggetti a una
radicale alterazione. Costruita e rappresentata come oggetto culturale,
dunque come allegoria, l’anima si ri-presenta/rappresenta come oggetto
indocile, costantemente segnata e minacciata dalla sua stessa alterità.
Il materiale che palpita dentro queste pagine ha richiesto all’autrice, e continua a richiedere a noi lettori, una presa in carico soggettiva, corporea, cellulare: al museo – e non solo quello etnografico o antropologico – si va portando memorie antiche e recenti,
senso di cittadinanza, bisogno di giustizia, mitografie, filastrocche
d’infanzia, auspici. Sarebbe un peccato uscirne come siamo entrati.
Finito di stampare
nel mese di marzo 2021
da Digital Team – Fano (PU)
Il museo è lo specchio colossale in cui l’Europa si è costruita e rappresentata, anche attraverso
il riflesso dell’immagine di altre culture: culture esposte mentre se ne costruiva, parallelamente, l’invisibilizzazione. Museo, nazionalismo e colonialismo parlano la stessa lingua. Oggi il
colonialismo cambia forme e modalità di espressione, ma la sua potenza non si è ancora esaurita. Sopravvive anche nei musei contemporanei, in particolare nei musei etnografici, e in tanti
altri ambiti del vivere sociale, perché oltre la messa a fuoco museale che questo libro propone,
la questione riguarda tutto quello che c’è intorno, a perdita d’occhio. Una colonialità eclatante
e millimetrica, pubblica e domestica, che abbiamo interiorizzato nel nostro ordinario, e che abbiamo la necessità di comprendere e trasgredire in tutti i luoghi in cui si esprime. Il museo può
diventare un luogo cruciale: a partire da un’analisi riflessiva e critica delle sue radici coloniali,
può trasformarsi in un vero e proprio laboratorio di pratiche di decolonizzazione. Il libro propone
alcune tracce possibili di questo processo, attraverso la rimediazione delle arti contemporanee.
Giulia Grechi è antropologa. Si interessa di studi culturali e post/de-coloniali, migrazioni, museologia, con un focus
sulla corporeità, sulle eredità culturali del colonialismo e sulle pratiche artistiche contemporanee che ridiscutono e
rimediano questi immaginari. Ha conseguito un PhD in Teoria e ricerca sociale alla Sapienza di Roma. È professoressa
di Antropologia culturale e Antropologia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano). È socia fondatrice
della rivista on line “roots§routes research on visual cultures” (con A. C. Cimoli e V. Gravano) e del collettivo
curatoriale “Routes Agency. Cura of contemporary arts”. Ha partecipato a diversi progetti europei e internazionali
in qualità di antropologa e curatrice. Ha pubblicato La rappresentazione incorporata. Una etnografia del corpo tra
stereotipi coloniali e arte contemporanea (2016). Ha curato, con I. Chambers e M. Nash, The Ruined Archive (2014),
e con V. Gravano Presente Imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei (2016).
In copertina Mostra Ex Africa, Bologna, 2019. Foto di Luca Capuano, tratta dal progetto Un’altra storia.
www.lucacapuano.com/rimosso-doltremare/
ISBN 978-88-5757-252-9
Mimesis Edizioni
Eterotopie
www.mimesisedizioni.it
24,00 euro