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Cronaca e storia

edito in Storia dell'italiano scritto. II. Prosa letteraria, a c. di G. Antonelli, M. Motolese, L. Tomasin, Roma, Carocci, 2014, pp. 121-52

!"#$%&'()**+%"&*%&,#' -.$%""# !!!"#$%&'"()**)$'$+' /'.0$&'(%'1%0-)22)'/,"#,)**%3'4&"")#'4#"#*)-)' )'5#$),6#'7#8&-%, 9&$#..%')(%"#$)''''''''''''':$)..)'''''''''''' 1a edizione, aprile 2014 © copyright 2013 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nell’aprile 2014 da XXXXXXX isbn 978-88-430-7196-8 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Siamo su Internet: http://www.carocci.it Indice Premessa Istruzioni per l’uso 11 15 Volgarizzamenti di Giovanna Frosini * 17 1. Questioni preliminari 17 2. Il Medioevo plurilingue che volgarizza e traduce 28 3. Un nuovo tradurre 63 2 Trattatistica di Marcello Aprile 73 1. Questioni preliminari 73 2. La scienza testuale: il Medioevo e il recupero delle fonti 74 La scienza visuale: Umanesimo e Rinascimento 94 La scienza strumentale: il trattato da Galileo Galilei alla rivoluzione industriale 103 5. Il trattato nell’epoca del declino 110 3 Cronaca e storia di Davide Colussi 119 1. Questioni preliminari 119 2. Gradi e tipi di complessità sintattica 124 3. Il discorso riportato 132 1 3. 4. 8 storia dell’italiano scritto 4. La presenza dell’io 141 5. L’indicazione delle fonti scritte 147 4 Drammaturgia di Luca D’Onghia 153 1. Questioni preliminari 153 2. In cerca di una lingua comune 154 3. Lingua e vernacolo: scrittori teatrali toscani 169 4. Teatro dialettale fuori dalla Toscana 177 5. Pluridialettalità e plurilinguismo 186 6. Uno sguardo sul Novecento 193 5 Forme brevi della prosa letteraria di Fabio Romanini* 203 1. Questioni preliminari 203 2. Il Decameron e la sua fortuna 213 3. Due linee di tendenza sintattica: essenzialità/paratassi vs. ipertrofia/ipotassi 221 4. Lingua del testo e lingua della cornice 226 5. Lingua e dialetto 230 6. La dimensione del parlato 235 8. Novella e narrazione in versi 247 9. Linee di tendenza novecentesche 250 10. Per una conclusione 6 253 Epistolografia letteraria di Luigi Matt 255 1. Questioni preliminari 255 2. La lettera familiare (e la faceta) 258 3. La lettera amorosa 267 indice 9 4. La lettera spirituale 271 5. La lettera discorsiva 274 6. La lettera odeporica 278 7. La lettera dedicatoria 280 7 Paraletteratura di Laura Ricci 283 1. Questioni preliminari 283 2. Nelle piazze e fra la gente: libri di battaglia, fogli volanti, dispense 288 Il romanzo di consumo dai salotti borghesi alla metropolitana 295 Parole e immagini. Fotoromanzo, fumetto e graphic novel 311 5. La letteratura per ragazzi 320 8 Autobiografia di Lorenzo Tomasin 327 1. Questioni preliminari 327 2. Un testo fluido e composito 333 3. Alcune strutture caratteristiche 338 4. Coscienza e autocoscienza linguistica 344 5. Questione della lingua, questioni di stile 352 9 Romanzo di Maurizio Dardano 359 1. Questioni preliminari 359 2. I percorsi della narrativa 364 3. Titoli, parti, figure 374 4. Dinamico/statico 381 5. Aspetti della linearità 386 6. Modi di enunciazione 389 3. 4. 10 storia dell’italiano scritto 7. Stile nominale e dintorni 396 8. Il lessico tra norma e innovazione 403 Bibliografia 421 Gli autori 493 Indice dei nomi 495 3 Cronaca e storia di Davide Colussi non maculando la verità n. machiavelli 1. Questioni preliminari Fra i problemi che pone la redazione di un profilo linguistico dedicato al genere storiografico, il più radicale riguarda la possibilità stessa di ritrovare tratti formali caratteristici e distintivi della scrittura di argomento storico. La latitudine dell’arco cronologico tenuto in considerazione – dalle cronache trecentesche al Novecento – costituisce certo un primo evidente fattore di difficoltà: tale è la difformità di prospettive, cognizioni, fonti di documentazione in cui si trovano ad operare gli scrittori di storia nelle diverse epoche. Ma opinabile è già la scelta di estendere lo sguardo sino al presente o al recente passato. Se ancora il giovane Croce, intervenendo quasi fuori tempo massimo in una questione a lungo dibattuta nella cultura tedesca di secondo Ottocento, poteva con sicurezza ricondurre la storia sotto il «concetto generale dell’arte» e non della scienza, è comune oggi negli storici di professione la convinzione di praticare una disciplina di ricerca e non un genere letterario1. Quando perciò il tentativo di analisi non segua le tradizionali partizioni per età storiche ma presuma – come qui è il caso – di co1. Il riferimento è a Croce (1893); sul valore estetico attribuito alla prosa concettuale nell’evoluzione del pensiero crociano mi permetto di rinviare a Colussi (2007, pp. 15-25). Non mancano tuttavia negli ultimi decenni posizioni di reciso rifiuto, fra gli storici, di fronte a una considerazione della storia come scienza, a partire da quella ben nota di Veyne (1973); sulla questione nei termini della teoria storiografica si torna qui avanti. Sull’incerto status attuale della storia, ciò che ne costituisce «uno degli aspetti più singolari e problematici», si vedano anche le considerazioni di Pomian (2001, pp. 2, da cui la citazione, e 7-8). 120 davide colussi glierne trasversalmente alcune costanti, il rischio più ingente sarà quello di individuare fenomeni del tutto generici e nient’affatto esclusivi dell’ambito che ci si è proposti di indagare. Ma a ben guardare questa difficoltà afferisce solo in parte all’ampiezza diacronica dell’osservazione ed è da ricondursi più generalmente allo statuto stesso della disciplina. In quanto narrazione di fatti, la storiografia appare distinguibile dalla narrazione d’invenzione, giusta la categorizzazione originariamente aristotelica (Poet., 1451b), solo in base alla natura dei suoi contenuti, che si predicano veritieri e non verisimili ossia fittizi. Con Barthes potremmo dire che lo statuto del discorso storico è uniformemente «assertivo» o «constativo»: «il fatto storico è legato linguisticamente a un privilegio di esistenza: si racconta ciò che è stato, non ciò che non è stato oppure è stato in dubbio»2. Siamo qui nei pressi di un nodo fortemente problematico, che è necessario, sia pur brevemente, considerare per i riflessi che ne scaturiscono su un lavoro di interesse linguistico come il presente. Com’è noto, lo scetticismo postmoderno, invalidando la possibilità di attingere un dato di realtà disgiunto dal lavorio interpretativo del soggetto, ha coinvolto negli scorsi decenni la prassi storiografica in una crisi di portata propriamente epistemologica3: quale discrimine, una volta rigettato un qualsivoglia principio di verità, addurre infatti fra scrittura finzionale e scrittura storica, parificate nel gesto affabulante del narratore? Stante la matrice sostanzialmente antipositivistica e in particolare nietzschiana, questa tesi potentemente distruttiva conosce qualche precorrimento anche nelle nostre lettere, come quello di Renato Serra, meditabondo nel 1912 di fronte alla festosa partenza di un plotone militare per la Libia: C’è della gente che s’immagina in buona fede che un documento possa essere un’espressione della realtà; uno specchio, uno scorcio più o meno ricco, fedele 2. Barthes (1988b, p. 144); su questo punto cfr. anche Barthes (1988c, pp. 156-7). 3. Basti qui ricordare, fra le altre, la figura di Hayden White, che insiste con forte vena polemica sull’assoluta rilevanza ideologica della codificazione narrativa operata sulla congerie degli eventi storici: cfr. in partic. l’inaugurale White (1978); sulla sua opera si vedano Dami (1994) e Korhonen (2006); una severa riflessione critica su White e più in generale sullo scetticismo storiografico di marca decostruzionistica o poststrutturalistica in Momigliano (1981) e Ginzburg (1984; 1992; 2000, in partic. pp. 48 e 122-3), cui si registra un recente cenno di replica da parte dello stesso White in Moretti (2009, pp. 81-2). Su interpretazioni narrativistiche precedenti a tale fase, soprattutto in ambito analitico anglosassone, si veda Rossi (1983b, pp. xii-xiii). Sui rapporti che intercorrono nell’antichità fra storiografia e retorica Momigliano (1981, pp. 58-9; 1982, pp. 255-9; 1985, pp. 16-20). cronaca e storia 121 di qualche cosa che esiste al di fuori. Come se un documento potesse esprimere qualche cosa di diverso da se stesso. La sua verità non è altro che la sua esistenza. Un documento è un fatto. La battaglia un altro fatto (un’infinità di altri fatti). I due non possono fare uno. Fra i due non ci può essere rapporto di identità, di adeguatezza […]. L’uomo che opera è un fatto. E l’uomo che racconta è un altro fatto. Anche il racconto è una volontà; una creazione, che ha in sé la sua ragione e il suo scopo. L’uomo che racconta, opera: su chi lo sta a sentire, su se stesso, sul passato, sull’avvenire. Ogni testimonianza testimonia soltanto di se stessa; del proprio momento, della propria origine, del proprio fine, e di nient’altro4. Nella nostra prospettiva, una simile sfiducia comporterebbe in linea di principio che i fenomeni escussi da un’analisi formale di testi storiografici siano reperibili senza soluzione di continuità anche nelle prose di invenzione, oggetto di altri contributi nel presente volume. Ora, non è difficile scorgere un’effettiva circolarità di fatti espressivi fra i due ambiti: è su di un tale presupposto, ad esempio, che Auerbach poteva annoverare Tacito, Ammiano Marcellino o Gregorio di Tours a fianco di Petronio e Balzac nel campionario di autori prescelti per la sua grande opera sulla rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale5; tuttavia una disamina linguistica come quella che si è qui tentata su un campione di testi rappresentativi6 non consente una completa reductio ad unum. Considerata nei termini della linguistica testuale, l’opera storiografica non sembra potersi esaurire interamente nella tipologia del testo narrativo per la ragione che vi si osservano alla stessa stregua tratti propri del testo argomentativo o 4. Serra (1912, p. 286), da leggersi ora entro il ricco quadro fornito da Musci (2012); il passo è richiamato da Ginzburg (1994, pp. 262-3). 5. Cfr. i capp. ii-iv di Auerbach (1992). 6. Si tratta di: Cronica di Compagni (ed. Cappi, 2013); Nuova cronica di Giovanni Villani (ed. Porta, 2007); Cronica dell’Anonimo romano (ed. Porta, 1979); Istorie fiorentine di Machiavelli (ed. Montevecchi, Varotti, 2010); Storia d’Italia di Guicciardini (ed. Seidel Menchi, 1971, citata con qualche eventuale minimo intervento sull’interpunzione); Istoria del concilio tridentino di Sarpi (ed. Vivanti, 1974); Istoria civile del Regno di Napoli di Giannone (Giannone, 1723, princeps citata con qualche minimo intervento su segni diacritici e interpunzione; ove il passo sia incluso si offre il rimando all’ed. antologica Bertelli, 1971; del tutto inaffidabile il testo dell’ed. moderna complessiva Marongiu, 1970-72); Annali d’Italia di Muratori (Muratori, 1744 e 1749, princeps citata con qualche minimo intervento su segni diacritici e interpunzione; ove il passo sia incluso si offre il rimando all’ed. antologica Falco, Forti, 1976); Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di Cuoco (ed. Nicolini, 1929; pubblica criticamente il testo della prima stesura la recente ed. De Francesco, 1998); Storia d’Europa nel secolo decimonono di Croce (Croce, 1948). 122 davide colussi espositivo-argomentativo7. Viene a disegnarsi in tal modo una polarità in cui finisce per rientrare l’altra grande categoria interpretativa novecentesca della teoria storiografica: la spiegazione, intesa che sia come applicazione di leggi generali o come riconoscimento di condizioni e motivi specifici8. È una duplice valenza che a ben vedere trova espressione già nel proemio delle Storie erodotee, ove si richiamano due giustificazioni alla stesura dell’opera: «perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e inoltre per mostrare per qual motivo vennero a guerra fra loro» (Fausti, 2007, i, p. 75). Per un verso gli accadimenti, per l’altro le ragioni di quegli accadimenti; secondo distinzione che in Tucidide implicherà anche un’ordinata distribuzione nel testo: «Quanto alle ragioni per cui [Spartani e Ateniesi] denunciarono quella pace, ho premesso al racconto le cause e i dissensi, perché nessuno un domani debba ricercare per quali ragioni si sia prodotta in Grecia una guerra così im7. Sui tipi di testo si veda il quadro aggiornato bibliograficamente di Lala (2010); su testi espositivi e narrativi rispettivamente De Cesare (2010) e Roggia (2010). Sulle difficoltà che comporta il riconoscimento di una distinta classe di testi espositivi, peraltro ignorata in un lavoro di riferimento come Beaugrande, Dressler (1984, pp. 239-40), si vedano in partic. Mortara Garavelli (1988, p. 163) e Lavinio (2004, p. 157: «l’espositivo è parente stretto dell’argomentativo»); di «funzione esplicativo-argomentativa» discorre in effetti Lala (2010, p. 1493), di «funzione espositivo-esplicativa» De Cesare (2010, p. 1475), con ripresa della formula da Ferrari, Zampese (2000, p. 410). Il riconoscimento di una tale duplicità funzionale nella prosa storiografica già in Matucci (1986, pp. 85-6), con riferimento alle note categorie di tempi narrativi e tempi commentativi elaborate da Weinrich (1978). 8. È un’irriducibilità rilevata, su altro piano, da Ricoeur (2008), che pure rivendica la necessità di un nesso dialettico fra ricerca storica e competenza narrativa: «A livello delle procedure, la storiografia nasce, come ricerca – historia, Forschung, enquiry –, dall’uso specifico che essa fa della spiegazione. Anche se […] ammettiamo che il racconto è “auto-esplicativo”, la storia-scienza separa dalla trama del racconto il processo esplicativo costituendolo in problematica distinta» (p. 263), sicché fra «la spiegazione storica e la spiegazione narrativa sussiste uno scarto che è la stessa ricerca» (p. 269); e già Gay (1974, p. 189), apoditticamente: «Historical narration without analysis is trivial, historical analysis without narration is incomplete». Si veda al riguardo il bilancio di Rossi (1983b), che osserva fra l’altro come le interpretazioni storiografiche in chiave di spiegazione o in chiave di narrazione, di fatto compatibili nella prassi di ricerca storica ma «reciprocamente alternative» sul piano teorico, si siano ciascuna per sua parte dimostrate incapaci da sole di «render conto della moltiplicità di indirizzi che costituisce il panorama della storiografia contemporanea» proprio in ragione dell’unilateralità dei loro schemi teorici, «inadeguati rispetto alla complessità del campo a cui si riferiscono» (pp. xxi-xxii). Un tentativo di contemperare le due prospettive si legge in Topolski (1997). cronaca e storia 123 mane» (i 23; Canfora, 1996, p. 31). E non diversamente Giovanni Villani nell’incipit della Nuova cronica: «mi pare che si convegna di raccontare e fare memoria dell’origine e cominciamento di così famosa città […] per dare essemplo a quegli che saranno delle mutazioni e delle cose passate, e le cagioni, e perché» (i 1; Porta, 2007, i, pp. 3-4)9. La tesi qui postulata è dunque che i tratti formali rinvenibili nelle opere storiografiche possano essere analizzati secondo un duplice parametro: la loro funzione in ordine alla narrazione dei fatti esposti e la loro funzione in ordine all’interpretazione o spiegazione di quei fatti. Sotto questa luce, il testo storiografico appare insomma come l’esito combinato di due istanze, che di volta in volta vengono a incidere con forza e misura differenti nell’opera senza però che l’una esautori del tutto l’altra. Nelle pagine seguenti – come discende dalle premesse svolte sin qui – vengono passati in rassegna alcuni tratti di natura essenzialmente sintattico-testuale, che non saranno per ciò stesso da ritenersi gli unici degni di interesse o passibili di osservazione nella lunga o lunghissima durata, né tantomeno andranno intesi come configurazioni stabili. Anzi proprio la loro mutevolezza permetterà di integrare, nell’invarianza delle categorie date, un elemento di evoluzione anche marcata, secondo una traiettoria che in alcuni casi si potrà far corrispondere alla «progressiva svalutazione», cui si assiste nelle scienze moderne, «del modo narrativo di rappresentazione nelle descrizioni dei fenomeni che comprendono i loro oggetti specifici di studio»10. Va ricordata infine la generale scarsità di lavori linguistici sulla nostra prosa storiografica, che rende spesso le pagine che seguono non già il rendiconto sintetico di accertamenti già svolti, bensì una serie di prime indicazioni di analisi, a indirizzo e auspicio di studi futuri più sistematici11. 9. E con Matucci (1986, p. 98) si può ricordare l’esordio del libro iii dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, laddove Machiavelli ne indica la duplice natura di narrazione e discorso: «E per dimostrare a qualunque quanto le azioni degli uomini particulari facessono grande Roma e causassino in quella città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e discorso di quegli» (Bausi, 2001, p. 535). Su questo binomio è poi imperniato il più ampio Matucci (1991). 10. White (1983, pp. 33-4); è ciò che Ricoeur (2008, pp. 147-84), con riferimento tanto alla storiografia novecentesca francese quanto all’epistemologia neopositivistica di lingua inglese, ha chiamato «eclissi del racconto». 11. Nota la lacuna anche il recentissimo Gualdo (2013, p. 11), edito quando la stesura di queste pagine era già ultimata e di cui perciò non si è potuto tener conto. 124 davide colussi 2. Gradi e tipi di complessità sintattica Con palese infrazione della linearità cronologica, consideriamo per primo un assoluto vertice di complessità sintattica volta alla disamina dei fatti storici quale quello costituito dalla Storia d’Italia di Guicciardini, nell’ipotesi di riconoscervi presenti, a uno stadio di massima densità ed evidenza, alcune conformazioni tipiche della prosa storiografica in genere; al paragone con questo estremo – tale giudicato anche da Leopardi, che vi riconosceva spinta sino all’abuso l’ampia facoltà di strutturazione ipotattica concessa dalla lingua italiana – misureremo in seconda battuta altri esiti sintattici possibili12. Nel caso del «grande sintatticista» Guicciardini, l’eccezionale ramificazione interna al periodo va messa in diretto rapporto con lo sguardo singolarmente ampio – per cui si è parlato di «volontà panoptica» – di cui fa mostra l’autore nell’insieme dell’opera13. Si assiste perciò spesso a un forte sviluppo tanto della zona a sinistra della proposizione principale quanto della zona a destra: appannaggio la prima delle premesse necessarie all’accadimento contenuto nella reggente, la seconda delle conseguenze che ne scaturiscono, con l’effetto di sistemare gerarchicamente per via sintattica in un serrato meccanismo logico i fatti di cui lo storico dà conto, per giunta saldati talvolta – come nell’esempio che segue, particolarmente complesso – ai contenuti del periodo precedente mediante coniunctio relativa: Con le quali pratiche essendosi condotti, secondo l’uso antico, a Franchefort, terra della Germania inferiore, quegli a’ quali, non per più antica consuetudine o fondata ragione ma per concessione di Gregorio [quinto] pontefice romano di nazione tedesco, appartiene la facoltà di eleggere lo imperadore romano, mentre che stanno in varie dispute per venire, al tempo debito, secondo gli ordini loro alla 12. Il giudizio leopardiano si legge, entro una più ampia riflessione sulla naturale libertà e «pieghevolezza» sintattica dell’italiano, a c. 2100 dello Zibaldone (Pacella, 1991, i, p. 1172). 13. Entrambe le citazioni sono ricavate da Nencioni (1985, pp. 191, 193), tuttora lo studio linguistico di riferimento sull’autore, prezioso anche per le osservazioni sullo sviluppo diacronico dello stile storiografico guicciardiniano, dalle Storie alle Cose fiorentine, direttamente aggettanti sulla grande Storia; sulla vicenda elaborativa di questa si veda Bagioli (1987), con edizione delle varianti in appendice. Sulla sintassi del periodo della Storia a confronto con quella delle Istorie fiorentine machiavelliane cfr. Rigon (2007); un’analisi a campione operata sul primo paragrafo della Storia in Mengaldo (2001, pp. 59-63 e 2008, pp. 90-3); osservazioni sparse anche in Pozzi (1973, pp. 63-9). Prime schede sul lessico politico della Storia d’Italia in Bruni (2012). cronaca e storia 125 elezione, uno esercito messo in campagna per ordine del re di Spagna, il quale fu più pronto a spendere i danari in raccorre gente che a dargli agli elettori, avvicinatosi a Francofort sotto nome di proibire chi procurasse di violentare la elezione, accrebbe l’animo agli elettori che favorivano la causa sua, tirò nella sentenza degli altri quegli che erano dubbi, e spaventò il brandiburgense, inclinato al re di Francia, talmente che, disperato che a questo concorressino gli altri elettori, e volendo fuggire l’odio e la infamia appresso di tutta la nazione, non ebbe ardire di scoprire la sua intenzione: in modo che, venendosi allo atto della elezione, fu eletto, il dì vigesimo ottavo di giugno, imperadore Carlo d’Austria re di Spagna da’ voti concordi di quattro elettori, l’arcivescovo di Magunza e quello di Cologna, dal conte Palatino e dal duca di Sassonia (xiii 13; Seidel Menchi, 1971, pp. 1363-4)14. Ma si danno anche casi di periodi con predominante sviluppo a sinistra, dove si radunano prolettiche di natura temporale o causale, o temporale e causale insieme, come nei frequenti casi di gerundiali in serie, dove la dilazione della principale può corrispondere funzionalmente – come nell’esempio che segue – all’accumulo di tensione nei soggetti dell’azione principale, che risultano strettamente condizionati nel loro agire e quasi schiacciati dall’enumerazione dei fatti anteposti: Perché, perduto Arezzo, vedendosi mancare le speranze e le promesse fatte loro da ogni banda, la fortificazione che si faceva della città dalla banda del monte non ancora ridotta in termine che, benché vi si lavorasse con grandissima sollecitudine, non paresse a’ soldati che prima che fra otto o dieci dì potesse mettersi in difesa, e intendendo l’esercito inimico camminare innanzi, ed essendosi dalla banda di Bologna mosso per ordine del papa Ramazzotto con tremila fanti, saccheggiata Firenzuola ed entrato nel Mugello, e temendosi non andare a Prato, i cittadini spaventati cominciorono a inclinarsi all’accordo, e massime che molti se ne fuggivano per timore: in modo che, nella consulta del magistrato de’ dieci proposto alle cose della guerra, nella quale consulta intervennero i cittadini principali di quel governo, fu parere di tutti di spedire a Roma libero e ampio mandato per rimettersi nella volontà del pontefice (xix 25; ivi, pp. 2025-6)15. Oppure si avrà che il periodo produce un forte sviluppo a destra, dove attraverso serie graduate di causali si passa a discernere le ragioni di 14. Il luogo è commentato in Nencioni (1985, pp. 196-7). 15. Cfr. ancora Nencioni (1985, p. 198): «l’affastellamento delle premesse è dovuto ad una commozione rappresentativa». Sull’«ambivalenza semantica» dei costrutti impliciti in italiano antico, «sottesa tra temporalità e causalità», si veda ora Bianco, Digregorio (2012, pp. 290-1). 126 davide colussi quanto già enunciato in esordio dalla reggente: come nel caso seguente, in cui le sovraordinate al modo finito introdotte da uno dei «soliti perché guicciardiniani»16 vengono incise da subordinate gerundiali e participiali che corredano di cause e circostanze secondarie la disamina; a breve distanza un secondo periodo replica per l’essenziale la struttura del precedente: Le quali disposizioni dell’animo dell’uno e dell’altro incominciorono in breve spazio di tempo a manifestarsi: perché Cesare, delle forze proprie non confidando, né sperando più che per le ingiurie sue si risentissino i príncipi o i popoli di Germania, inclinava a unirsi col re di Francia contro a’ viniziani, come unico rimedio a ricuperare l’onore e gli stati perduti; e il re, avendogli lo sdegno nuovo rinnovata la memoria delle offese che si persuadeva avere ricevute da loro nella guerra napoletana, e stimolato dall’antica cupidità di Cremona e dell’altre terre possedute lungo tempo da’ duchi di Milano, aveva la medesima inclinazione […]. Stimolava similmente l’animo del re contro a’ viniziani nel tempo medesimo il pontefice, acceso oltre all’antiche cagioni da nuove indegnazioni; perché si persuadeva che per opera loro i fuorusciti di Furlì, i quali si riducevano a Faenza, avessino tentato di entrare in quella città, e perché nel dominio veneto aveano ricetto i Bentivogli, stati dal re scacciati del ducato di Milano (viii 1; ivi, pp. 722-3). Si tratta di disposizioni sintattiche non esclusive di Guicciardini; e in forme pur meno sontuose possiamo riconoscerle come stabili della prosa storiografica, nella sua costante esigenza di esprimere nessi di temporalità e causalità. Ecco dunque il tipo che conglomera causali o temporali prolettiche alla principale: Il re di Francia montato in superbia perché da lui era proceduta la morte di papa Bonifazio, credendo che la sua forza da tutti fusse temuta, faccendo per paura eleggere i cardinali a suo modo, addomandando l’ossa di papa Bonifazio fussono arse e lui sentenziato per eretico, tenendo il Papa quasi per forza, opponendo e disertando i Giudei per tòrre la loro moneta, appognendo a’ Tempieri resìa [‘accusando i Templari di eresia’] minacciandoli, abassando gli onori di santa Chiesa, sì che per molte cose rinnovate nelle menti degli uomini la Chiesa non era ubbidita, e non avendo braccio né difenditore, pensarono [scil. il Papa e i cardinali] fare uno imperadore, uomo che fusse giusto, savio e potente, figliuolo di santa Chiesa, amatore della fede (Compagni, Cronica, iii 23; Cappi, 2013, p. 101); 16. Fubini (1941, p. 184). cronaca e storia 127 Essendo il detto papa Urbano e la Chiesa così abbassata per la potenzia di Manfredi, e li eletti due imperadori (ciò era quello di Spagna e quello d’Inghilterra) nonn-aveano concordia né potenzia di passare in Italia, e Curradino figliuolo del re Currado, a cui apartenea per retaggio il regno di Cicilia e di Puglia, era sì piccolo garzone, che non potea ancora venire contro a Manfredi, il detto papa per infestamento di molti fedeli della Chiesa, i quali per le forze di Manfredi erano cacciati di loro terre, e spezialmente per gli usciti guelfi di Firenze e di Toscana che al continuo erano seguendo la corte, compiagnendosi a’ piè del papa, il detto papa Urbano fece uno grande concilio de’ suoi cardinali e di molti prelati, e propuose come la Chiesa era soggiogata da Manfredi, e come sempre quegli di sua casa e lignaggio erano stati nimici e persecutori di santa Chiesa, non essendo grati di molti benifici ricevuti, che, quando a·lloro paresse, avea pensato di trarre santa Chiesa di servaggio, e di recarla in suo stato e libera (Villani, Nuova cronica, vii 88; Porta, 2007, i, p. 396; con coordinazione di modo finito a modo indefinito)17. Anche con risalita nella catena delle cause a un ulteriore grado di subordinazione e scavo di un’ampia nicchia sintattica («perché uno nobile cittadino cavaliere…»), prospetticamente più distante dalla principale che è ancora da venire: Nell’anno dalla incarnazione di Cristo mcclxxx, reggendo in Firenze la parte guelfa, essendo scacciati i Ghibellini, uscì d’una piccola fonte uno gran fiume, ciò fu d’una piccola discordia nella parte guelfa una gran concordia con la parte ghibellina. Ché, temendo i Guelfi tra loro, e sdegnando nelle loro raunate e ne’ loro consigli l’uno delle parole dell’altro, e temendo i più savi ciò che ne potea avvenire, e vedendone apparire i segni di ciò che temeano – perché uno nobile cittadino cavaliere, chiamato messer Bonaccorso degli Adimari, guelfo e potente per la sua casa, e ricco di possessioni, montò in superbia con altri grandi, che non riguardò a biasimo di parte, ché a uno suo figliuolo cavaliere, detto messer Forese, diè per moglie una figliuola del conte Guido Novello della casa de’ conti Guidi, capo di parte ghibellina –, onde i Guelfi, dopo molti consigli tenuti alla Parte, pensarono pacificarsi co’ Ghibellini che erano di fuori (Compagni, Cronica, i 3; Cappi, 2013, pp. 33-4)18. 17. Sulla sintassi di Villani, tendente a una maggiore complessità col passare dalla trattazione ai fatti più prossimi relativi a Firenze, cfr. Giovanardi, Pelo (1995, pp. 70-7); un cenno già in Porta (2007, p. xxvi). 18. Su «strutture correlative ipotattiche» come la presente, in cui la reggente viene rinforzata da un connettore da interpretarsi come anaforico (onde ‘per queste ragioni’), cfr. Ghinassi (1971, pp. 56-7), dov’è annoverato il luogo di Compagni, e ora Meszler, Samu, Mazzoleni (2010, pp. 788-9), da cui la formula citata, e De Caprio (2010). In particolare sulle strutture paraipotattiche della trecentesca Cronaca di Partenope si veda l’eccellente De Caprio (2012, pp. 43-4), con altre osservazioni sintattiche e stilistiche sulla cronachistica napoletana fra Tre e Cinquecento. 128 davide colussi Ma in generale sarà difficile riscontrare dopo Guicciardini fenomeni di accumulo a sinistra così intensi: le serie di causali tenderanno a collocarsi a destra – come vedremo subito – e sfoltirsi; le temporali prolettiche, rastremate anch’esse, si residueranno in zone liminari dell’opera, come gli attacchi di libro o capitolo. Due esempi settecenteschi: Fondati perciò tanti Monasterj, i Monaci, cotanto arricchiti e vedutisi in tanta elevatezza, tentarono ora più che mai di scuotere affatto il giogo de’ Vescovi (Giannone, Istoria, v ult.; Giannone, 1723, i, p. 374 = Bertelli, 1971, p. 468); Terminata la sanguinosa battaglia coll’eccidio de’ Romani, nel dì seguente i vittoriosi Goti, bene informati che in Andrinopoli erano ricoverati i tesori e i principali ufiziali della corte, volarono ad assediar quella città (Muratori, Annali, a. 378; Muratori, 1744, ii, p. 484 = Falco, Forti, 1976, p. 91). Fanno dunque eccezione i casi del costrutto reperibili in Croce, dov’è adibito a una rapida visione d’insieme degli avvenimenti siglata sinteticamente dalla principale (lo scatto dalla disamina analitica alla conclusione è avvertito dal segno di lineetta)19: secondo un dispositivo non privo di legami con l’impostazione propriamente idealistica della storiografia crociana, specialmente in opere che spaziano entro un largo campo di osservazione come la Storia d’Europa, dove nella varietà delle diverse contemporanee vicende nazionali o subnazionali lo sguardo del filosofo scorge la comune attuazione di un principio spirituale di libertà: Alla fine dell’avventura napoleonica, sparito quel geniale despota dalla scena che tutta occupava, e mentre i suoi vincitori s’intendevano o procuravano d’intendersi fra loro e di procedere d’accordo per dare all’Europa, mercé restaurazioni di vecchi regimi e opportuni maneggiamenti territoriali, uno stabile assetto che sostituisse quello fortemente tenuto ma sempre precario dell’Impero della nazione francese, – in tutti i popoli si accendevano speranze e si levavano richieste d’indipendenza e di libertà (Croce, 1948, p. 3); Un sostenitore dell’assolutismo, che avesse passato in rassegna i popoli dell’Europa negli anni immediatamente precedenti il 1830, e in quelli che parevano con maggiore letizia sorridere ai suoi ideali, quando le rivoluzioni costituzionali erano state domate, e l’Austria, e per essa il suo principe di Metternich, dominava in Germania e in Italia, e regnavano in Ispagna Ferdinando vii, in Portogallo don 19. Cfr. Colussi (2007, p. 51). cronaca e storia 129 Miguel, in Sardegna Carlo Felice, nelle due Sicilie Francesco i, in Russia Nicola i e in Francia governava il principe di Polignac, – difficilmente avrebbe potuto trarre da ciò motivo di soddisfazione e di gioia e argomento di tranquillità (ivi, p. 83). Quanto alla collocazione delle causali di séguito alla principale, per solito al modo esplicito, è stato osservato come il tipo corrisponda bene a una modalità rappresentativa di Machiavelli, il quale si trova in tal modo nella condizione di «guidare la narrazione partendo da alcuni assunti» e «anticipare ai fatti la loro interpretazione, segnando così un preciso e univoco percorso di lettura»20: il quale [scil. Bellisario], ritornato con poche forze, perdé più tosto la reputazione delle cose prima fatte da lui, che di nuovo ne riacquistasse; perché Totila, trovandosi Bellisario con le genti ad Ostia, sopra gli occhi suoi espugnò Roma; e veggendo non potere né lasciare né tenere quella, in maggiore parte la disfece, e caccionne il popolo, e i senatori ne menò seco; e stimando poco Bellisario, ne andò con lo esercito in Calavria a rincontrare gente che di Grecia in aiuto di Bellisario venivano. Veggendo per tanto Bellisario abbandonata Roma, si volse ad una impresa onorevole, perché, entrato nelle romane rovine, con quanta più celerità potette rifece a quella cità le mura e vi richiamò dentro gli abitatori. Ma a questa sua lodevole impresa si oppose la fortuna, perché Iustiniano fu in quel tempo assalito da’ Parti e richiamò Bellisario, e quello per ubbidire al suo signore abbandonò la Italia, e rimase quella provincia a discrezione di Totila, il quale di nuovo prese Roma (Istorie, i 10; cfr. Montevecchi, Varotti, 2010, pp. 121-2); e successivamente si daranno ancora esempi di relativa effusione delle subordinate causali, come nel caso seguente di Sarpi, dove il disegno delle causali, in sé meramente allineativo («poiché Ferdinando […] incomminciò […] e […] la regina suddetta […] era andata […] e Massimiliano […] se ne tornò»), viene complicato e offuscato dalla continua interposizione di subordinate accessorie: Ma mentre quello [scil. il concilio] si celebra, Carlo, avendo con quel dissegno posto in gelosia tutti i prencipi cristiani, trovò i primi incontri in casa propria; 20. Rigon (2007, p. 120); sull’assetto sintattico-testuale delle Istorie cfr. Giovanardi (2004) e Stefinlongo (2004, in partic. pp. 623-4 sull’uso del perché eziologico). Sulla «sequenzialità causale» delle Istorie cfr. anche Anselmi (1979, pp. 165-6); sull’espressione della causalità nel Principe e nell’Arte della guerra si vedano rispettivamente Chiappelli (1952, pp. 43, 51-2) e Frenguelli (2002, pp. 125-6). Un quadro sintetico dei principali fatti linguistici osservati in un campione delle Istorie fornisce Scavuzzo (2003, pp. 140-3). 130 davide colussi poiché Ferdinando, se ben altre volte pareva che avesse consentito di far l’Imperio commune ad ambidue, come già fu tra Marco e Lucio con ugual autorità, essempio che fu seguito da Diocleziano e più volte dopo, e poi far opera che Filippo fosse eletto re de’ Romani per succeder ad ambidue, avendosi per questo affaticato efficacemente la regina d’Ongaria, sorella loro, a persuaderlo al fratello Ferdinando per grandezza della casa, nondimeno, consegliato meglio da Massimiliano suo figlio, incomminciò a sentir altrimenti, e dandosi principio alla negoziazione, per effettuare la quale Filippo fu chiamato dal padre, acciò fosse conosciuto dagl’elettori nella dieta d’Augusta del 1551, ritiratosi Ferdinando, la regina suddetta per risarcir la concordia tra i fratelli era andata alla dieta; e Massimiliano, temendo che la bontà del padre potesse soccombere, lasciato il governo de’ regni di Spagna, a’ quali l’imperatore l’aveva preposto, in mano della moglie, figlia di Cesare, repentinamente se ne tornò in Germania (v; cfr. Vivanti, 1974, p. 618)21. Ma ben più spesso la tendenza a costruire strutture periodali meno complesse comporterà anche la riduzione dei nessi subordinativi causali in serie, che al limite – come nell’esempio di Cuoco che segue – serviranno a svolgere ordinatamente e partitamente le implicazioni contenute nella sovraordinata, con formula di schema additivo («meno dannoso alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché […]; meno strano, perchè […]»)22: Il re istesso, ne’ momenti della maggiore ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si prendesse, tutto rimaneva alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno strano, perché egli era realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione che si osservava nell’editto di Faipoult (Saggio, xxix; cfr. Nicolini, 1929, pp. 140-1). Sicché in quella prosa ormai fortemente lineare e coupée ci si potrà imbattere, a proseguire di un capoverso la lettura, in soluzioni come la seguente, in cui tutti i nessi di causalità fra i fatti che vi sono descritti sono surrogati dalla pura coordinazione, ora sindetica ora asindetica: Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò Faipoult (xxix; ivi, p. 141). 21. Sulla sintassi del periodo sarpiana si vedano i rilievi di Bozzola (2001, pp. 54-76): vi si osserva fra l’altro la tendenza a sbalzi e asimmetrie che cospirano a un progressivo sfaldamento testuale del discorso. 22. Sulla figura di schema additivo o Summationssschema (Curtius), cfr. Bozzola (1999, pp. 74-5). cronaca e storia 131 Certo le tendenze qui rilevate non valgono a descrivere compiutamente la fisionomia sintattica della prosa storiografica; né strutture più semplici e puramente allineative andranno necessariamente ascritte a prosatori postcinquecenteschi. Basti pensare ad esempio, a dispetto dell’esempio di complessità quasi guicciardiniana prodotto qualche riga sopra, alla «paratassi giustappositiva» perseguita nella sua Cronica da Compagni23, particolarmente efficace nella rappresentazione di scontri per l’effetto che ne deriva di dinamismo e concitazione delle azioni descritte: Gli Aretini assalirono il campo sì vigorosamente e con tanta forza, che la schiera de’ Fiorentini forte rinculò. La battaglia fu molto aspra e dura: cavalieri novelli vi s’erano fatti dall’una parte e dall’altra. Messer Corso Donati con la brigata de’ Pistolesi fedì i nimici per costa [‘attaccò i nemici di fianco’]. Le quadrella pioveano: gli Aretini n’aveano poche, et erano fediti per costa, onde erano scoperti. L’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano, e sbudellàvalli; e de’ loro feditori trascorsono tanto, che nel mezzo della schiera furono morti molti di ciascuna parte (i 10; cfr. Cappi, 2013, p. 38). O al caso, eccezionale anche sotto questo riguardo, dell’Anonimo romano24, propenso non soltanto a scandire per via di asindeti i suoi periodetti a bassissimo sviluppo ipotattico, coincidenti spesso con la frase semplice, ma anche a impiegare con abbondanza lo stile nominale, che in questo vuoto di elementi connettivi trova una sorta di trampolino: La citate de Roma stava in grannissima travaglia. Rettori non avea. Onne dìe se commatteva. Da onne parte se derobava. Dove era luoco, le vergine se detoperavano [‘vituperavano’]. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se furavano e menavanose a desonore. La moglie era toita allo marito nello proprio lietto. Li lavoratori, quanno ivano fòra a lavorare, erano derobati, dove? su nella porta de Roma. Li pellegrini, li quali viengo [‘vengono’] per merito delle loro anime alle sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobati. Li prieiti stavano per male 23. Cfr. Folena (1960, p. 72). Osservazioni sulla sintassi di Compagni in Pirodda (1967, pp. 371-5), Moro (1970-71, pp. 24-36), Cappi (2009, p. 614). 24. Sullo stile della Cronica cfr. anzitutto Contini (1940, pp. 5-6); osservazioni sparse in Ugolini (1935), Anselmi (1980, pp. 186-7), Tanturli (1980, pp. 89-90); l’analisi di un brano in Mengaldo (2008, pp. 42-5). Sulla lingua dell’Anonimo romano Porta (1979, pp. 533-682; 1989); un quadro sintetico in Bruni (1984, pp. 317-9); in particolare sulla sintassi Dardano (1983) e Formentin (2002); specifici aspetti sintattico-testuali indagati in Pelo (1999), Dardano (2002), D’Achille, Giovanardi (2004). 132 davide colussi fare. Onne lascivia, onne male, nulla iustitia, nullo freno. Non ce era più remedio (xviii; cfr. Porta, 1979, p. 153)25. A un’ultima considerazione si presta la rapida ricognizione svolta nel settore della sintassi. In «stile medio» – seguiamo le partizioni di Dardano – nei primi secoli del volgare, improntata a caratteri di tendenziale «semplicità di svolgimento e di dettato»26, assai più ricca poi e complessa in età rinascimentale, la prosa storiografica appare nell’insieme distante ed estranea, nelle figure esemplari che qui si considerano, al tipo del periodare boccacciano, che pure a sua volta aveva eletto a modello, fra gli antichi, proprio uno storico come Livio e la sua prosa «solida e succosa» (solida atque succiplena oratio), com’è qualificata dallo stesso Boccaccio27. 3. Il discorso riportato Codificata sin dagli esordi della storiografia antica in virtù della funzione modellante che vi esercitò dapprima un genere di carattere acroamatico come l’epica, la configurazione in forma diretta del discorso riportato assicura o impone per secoli allo storiografo un margine di reinvenzione narrativa: com’è avvertito da Tucidide, che discrimina fra resa dei fatti, da restringere alla fedele riproduzione dell’accaduto, e resa dei discorsi, improntata alla verosimiglianza: E quanto ai discorsi che ciascuno pronunciò o nella fase che immediatamente precedette la guerra o durante il suo svolgimento, era difficile ricordare puntualmente alla lettera le parole dette: sia per me, relativamente ai discorsi che io stesso udii, sia per coloro che me li riferivano attingendo alle varie fonti. I discorsi li ho perciò scritti – attenendomi beninteso al senso generale di ciò che fu effettiva25. L’esempio in Trifone (1986, p. 231), dove è larga documentazione del fenomeno. 26. Cfr. Dardano (1989, pp. 5 e 9, da cui le citazioni); la denominazione di «prosa media» già in Dardano (1969, p. 10). 27. Sull’influsso liviano in Boccaccio cfr. Schiaffini (1943, pp. 134, 159-60, da cui la citazione). L’«inesistenza di una tradizione boccacciana, quantomeno all’interno dei confini cinquecenteschi», a fronte della proposta bembiana, è illustrata da Bozzola (1999, pp. 149-204; il passo citato a p. 200) e poi, con specifici esempi da Machiavelli e Guicciardini, da Tesi (2007, pp. 239-50); la questione viene ripresa in Rigon (2007, pp. 98-9). cronaca e storia 133 mente detto – come a me pareva che ciascuno avrebbe appropriatamente parlato nelle varie circostanze (i 22; cfr. Canfora, 1996, p. 29)28. Ci limiteremo qui a considerare per un verso alcune tipologie di discorso diretto adottate dalla prosa storiografica, per l’altro il processo di scomparsa del costrutto, una volta che l’elemento di aperta contraddizione a un principio di veridicità faccia aggio sulla tradizione di genere, rendendo inservibile il modulo allo storico. L’ampiezza d’uso del discorso diretto che si osserva in una fase iniziale come quella delle cronache trecentesche può venir bene esemplificata da un testo come la Cronica di Compagni, dove ne riscontriamo non solo l’impiego nel caso – prototipico nella storiografia antica – di discorsi pubblici, pur brevi, come ad es.: Messer Barone de’ Mangiadori da San Miniato, franco ed esperto cavaliere in fatti d’arme, raunati gli uomini d’arme, disse a loro: «Signori, le guerre di Toscana si sogliono vincere per bene assalire; e non duravano, e pochi uomini vi moriano, ché non era in uso l’ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi. Il perché io vi consiglio che voi stiate forti, e lasciateli assalire» (i 10; cfr. Cappi, 2013, p. 38); ma anche quando resti indeterminata la precisa occasione del discorso, con l’effetto di prospettare come iterata e abituale la battuta riportata (primo esempio: si noti l’uso del tempo imperfetto), o il locutore stesso (secondo esempio), oppure il discorso venga attribuito a una pluralità di soggetti, riassumendone plasticamente il comune sentire (gli esempi restanti): Baldino Falconieri, uomo vile, dicea: «Signori, io sto bene: perch’io non dormia sicuro» […]. Messer Lapo Salterelli […] biasimava i Signori dicendo: «Voi guastate Firenze! Fate l’uficio nuovo comune. Recate i confinati in città». […] Messer Lotteringo da Monte Spertoli dicea: «Signori, volete voi esser consigliati? Fate l’uficio nuovo; ritornate i confinati a città: traete le porti da’ gangheri […]» (ii 10; ivi, p. 62); 28. Sul conformarsi della storiografia greca all’uso dell’epica, ciò che comporta a partire da Erodoto l’inserzione di discorsi diretti, sia pure generalmente meno estesi di quelli presenti in Tucidide, si veda Canfora (1971, pp. 64-7). L’impiego di tali discorsi (contiones) sarà poi considerato requisito tradizionale della storiografia latina, come si evince dai giudizi di Cicerone, per il quale – ad applicare una distinzione del De oratore – si tratterà di un elemento che separa gli exornatores rerum dai semplici narratores rerum quali gli annalisti, e Quintiliano: cfr. Leeman (1974, pp. 229, 238, 456-8, 487); al riguardo si ricordino anche le pagine di Auerbach (1992, pp. 46-7). 134 davide colussi I cittadini buoni biasimavano quello che era fatto; altri dava la colpa a Giano, cercando di cacciarlo o farlo malcapitare; altri dicea: «Poi che cominciato ab<b>iamo, ardiamo il resto!» (i 16; ivi, p. 44); La gente che tenea co’ Cerchi ne prese viltà: «Non è da darsi fatica, ché pace sarà» (ii 5; ivi, p. 58); Onde i grandi fortemente si doleano delle leggi, e alli essecutori d’esse diceano: «Uno caval corre, e dà della coda nel viso a uno popolano; o in una calca uno darà di petto sanza malizia a uno altro; o più fanciulli di piccola età verranno a quistione; gli uomini gli accuseranno: debbano però costoro per sì piccola cosa esser disfatti?» (i 12; ivi, p. 41); Ma i savi uomini diceano: «E’ sono mercatanti, e naturalmente sono vili; e i lor nimici sono maestri di guerra e crudeli uomini». […] ma a chi ne li [scil. i Cerchi] riprendeano, non lo negavano, credendo esserne più temuti e con questo batterli, dicendo: «E’ ci temeranno più, dubitando che noi non ci acostiamo a loro; e i Ghibellini più ci ameranno, avendo speranza in noi» (i 27; ivi, p. 55)29. Siamo di fronte insomma a un quadro di franca apertura al discorso diretto e al limite di libera interscambiabilità con l’indiretto, sicché il secondo può fluidamente tramutarsi nel primo sulla scorta del verbum dicendi reperibile nel cotesto («fu consigliato»): E posevi l’assedio, perché così fu consigliato: ch’ella non si potea tenere, perché non erano proveduti di vittuaglia e erano nella fine della ricolta, e «veggendo il campo posto, la gente si arrenderà tosto; e se tu la lasci, tutta Lombardia è perduta, e tutti i tuoi contrarii quivi faranno nidio; e questa fia vettoria da fare tutti gli altri temere» (iii 29; ivi, p. 106)30; e per converso un’eco del primo permanere nel secondo, che salvaguarda 29. Casi di discorso diretto come «espressioni di un pensiero comune» sono rilevati nella più tarda cronaca di Marchionne di Coppo Stefani da Matucci (1991, p. 34); a questa sola fattispecie – brevi battute che esprimono la vox populi – è riservato il discorso diretto nella primocinquecentesca Storia fiorentina di Piero Parenti (Matucci, 1985, p. 192). Sui discorsi in Compagni cfr. Pirodda (1967, pp. 365-6) e Cappi (2009, pp. 631-2). 30. Sul fenomeno in italiano antico cfr. Durante (1981, p. 110) e spec. Mortara Garavelli (1985, pp. 142-5), con esempi, fra gli altri, dalla Cronica dell’Anonimo romano; altri casi interpretabili come slittamento dall’indiretto al diretto sono osservati da Herczeg (1973, pp. 34-7) in Matteo Villani, ma sulla pertinenza di alcuni esempi addotti si vedano le obiezioni di Mortara Garavelli (1985, p. 130). Sul tipo si veda ora anche Colella (2012, pp. 527-30). cronaca e storia 135 tratti propri della performance orale come la veemente correctio deprezzativa del passo che segue («una gente di popolani grassi, anzi cani»): E messer Corso, per l’animo grande che avea, alle piccole cose non attendea e non si dichinava, e non avea l’amore di cotali cittadini per sdegno. Sì che, lasciando il popolo grasso, co’ grandi si congiurò, mostrando molte ragioni come eglino erano prigioni e in servitù d’una gente di popolani grassi, anzi cani, che gli signoreggiavano e togliènsi gli onori per loro: e così parlando, raccolse tutti i gran cittadini che si teneano gravati, e tutti gli giurarono (iii 2; ivi, p. 82). Non stupisce dunque che in un simile contesto trovino spazio gli scambi dialogici, talora di gusto schiettamente novellistico; la soluzione, come nel luogo seguente di Villani, dov’è giustificata per il suo valore di exemplum («Avemo di queste piccole e vili parole fatta menzione per assempro che niuno cittadino, e massimamente i popolani o di piccolo affare, quando ha signoria non dee essere troppo ardito o prosuntuoso»), sarà utile a rilevare concitazione e impressività delle battute di dialogo: la città di Lucca […] si tenne a parte guelfa uno tempo, e fu rifuggio de’ Guelfi di Firenze, e degli altri usciti di Toscana. I quali Guelfi di Firenze feciono loro istanza in Lucca in borgo intorno a San Friano; e la loggia dinanzi a San Friano feciono i Fiorentini. E ritrovandosi i Fiorentini in quello luogo, messer Tegghiaio Aldobrandi veggendo lo Spedito che nel consiglio gli avea detta villania, e che si cercasse le brache, s’alzò e trassesi de’ caviglioni vc fiorini d’oro ch’avea, e mostrogli allo Spedito che di Firenze era uscito assai povero; disse per rimproccio: «Vedi com’io ho conce le brache? A questo hai tu condotto te e me e gli altri per la tua audacia e superbia signoria». Lo Spedito rispuose: «E voi perché·cci credavate?» (vii 81; cfr. Porta, 2007, i, p. 384). Mentre in Compagni l’espediente non disdice neppure all’indicazione di fatti storici di prima importanza, come quella che si riconosce causa essenziale della scissione in guelfi e ghibellini, secondo tendenza della storiografia antica a «riportare il contrasto macro-politico a modeste e occasionali cause micro-politiche»31: E di ciò fu cagione, in Firenze, che uno nobile giovane cittadino, chiamato Buondalmonte de’ Buondalmonti, avea promesso tòrre per sua donna una figliuola di 31. Vàrvaro (1989, p. 163). Sulla presenza nelle cronache trecentesche della «parola, dialogata nelle strade e nelle piazze del comune, dalle finestre e dai profferli, dai pulpiti e dalle ringhiere; che sembra espandersi dall’interno delle case verso l’esterno – sempre dall’individuale al sociale – in una drammatizzazione della vita cittadina», cfr. Miglio (1986, pp. 46-7). 136 davide colussi messer Oderigo Giantruffetti. Passando dipoi un giorno da casa i Donati, una gentile donna chiamata monna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a’ balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli una delle dette figliuole, e disseli: «Chi hai tu tolta per moglie? Io ti serbavo questa!». La quale guardando molto li piacque, e rispose: «Non posso altro oramai!». A cui monna Aldruda disse: «Sì puoi, ché la pena pagherò io per te». A cui Bondalmonte rispose: «E io la voglio». E tolsela per moglie, lasciando quella avea tolta e giurata (i 2; cfr. Cappi, 2013, p. 33); e lo si ritroverà impiegato nel medesimo contesto ancora in Machiavelli: E sperando di potere, con la bellezza della figliuola, prima che quelle nozze si celebrassero perturbarle, vedendo messer Buondelmonte, che solo veniva verso la sua casa, scese da basso, e dietro si condusse la figliuola, e nel passare quello se gli fece incontra, dicendo: «Io mi rallegro veramente assai dello avere voi preso moglie, ancora che io vi avesse serbata questa mia figliuola»; e sospinta la porta gliene fece vedere. Il cavaliere, veduta la bellezza della fanciulla, la quale era rara, e considerato il sangue e la dota non essere inferiore a quella di colei che gli aveva tolta, si accese in tanto ardore di averla, che non pensando alla fede data, né alla ingiuria che faceva a romperla, né ai mali che dalla rotta fede gliene potevano incontrare, disse: «Poi che voi me la avete serbata, io sarei uno ingrato, sendo ancora a tempo, a rifiutarla»; e senza mettere tempo in mezzo celebrò le nozze (Istorie, ii 3; cfr. Montevecchi, Varotti, 2010, p. 196)32. Ma a questa altezza storica più cogente si fa il modello della storiografia classica, che prevede ampie contiones ornate retoricamente, quali si ritro32. L’episodio di Buondelmonte, «elemento comune a molte cronache, storie, annali di Firenze» (Cabrini, 1985, p. 36), è invece privo dello scambio dialogico in Villani (Porta, 2007, i, p. 267); anche per questa ragione insiste troppo unilateralmente Fiorini (1962, pp. 121-5) sulla derivazione di Machiavelli da Villani; a una probabile influenza di Compagni – e in particolare sulla resa dialogica del passo – fa pensare invece la lezione dell’abbozzo autografo, nel quale Buondelmonte replica più schiettamente, sulla falsariga della Cronica («E io la voglio»): «Poi che voi me l’avete serbata, io la voglio» (Montevecchi, Varotti, 2010, p. 802), com’è osservato da Cabrini (1985, p. 43; 2001, pp. 247-8) e sulla sua scorta da Bausi (2005, pp. 258-9); altrimenti si deve supporre che «i particolari narrativi comuni» siano «stati attinti indipendentemente da una stessa versione orale del famoso episodio» (Cappi, 2009, p. 657). Sulla fortuna dell’episodio, che fornirà materia a un’autonoma novella del Pecorone, si vedano anche Vàrvaro (1989, pp. 167-8) e Miglio (1989, pp. 173-4, 18890); ricorda il «gremium comune» fornito a storiografia e novellistica in età medioevale dalla pratica di narrazione di fatti quotidiani Biondi (1984, p. 1078). Sulla qualità propriamente novellistica del racconto machiavelliano in questo specifico luogo cfr. Montevecchi (1967, pp. 76-7) e Cabrini (1985, p. 37). cronaca e storia 137 vano in Sallustio, Tacito e specialmente Livio e d’altra parte già in Bruni e Bracciolini, esplicitamente richiamati, non senza che se ne prenda le distanze, nel proemio delle Istorie fiorentine33. Qui Machiavelli procede ora a dilatare il discorso reperito nelle fonti, ora a introdurlo di propria iniziativa: al primo tipo andrà ascritta, ad esempio, l’orazione molto estesa – dov’è incastonato a sua volta un excursus storico – che un anonimo cittadino rivolge ai Priori in iii 5 (Montevecchi, Varotti, 2010, pp. 301-8), fondata su quella molto sintetica assegnata a Filippo Bastari nella cronaca di Marchionne di Coppo Stefani che Machiavelli aveva fra mano (Rodolico, 1903, p. 281)34; al secondo tipo i casi famosi del priore al duca d’Atene in ii 34 (Montevecchi, Varotti, 2010, pp. 267-70) e del “ciompo” in iii 13 (ivi, pp. 327-32). Dove la frequente attribuzione a figure senza nome, «presentate come personaggi qualunque, voci del popolo, cittadini», per un verso consente che ai locutori sia affidata più agevolmente l’«eloquente difesa di princìpi fondamentali» per l’autore stesso35, per l’altro andrà ricondotta allo sforzo machiavelliano di «individuazione e rappresentazione» non già di singole personalità ma di «forze che agiscono entro la storia»36. Basti qui un saggio della robusta inteleiatura retorica che sorregge le demegorie machiavelliane, cui provvedono in special misura figure per ordinem come i parallelismi, spesso rimarcati da ripetizioni interne ai membri: «a uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa e ogni legame lo strigne» (ii 34; ivi, p. 269); «uomini che avessero in loro qualche umanità e alla loro patria qualche amore» (iii 11; ivi, p. 323); «Quante volte ho io udito dolervi della avarizia de’ vostri superiori e della ingiustizia de’ vostri magistrati!» (iii 13; ivi, p. 331); anche reduplicati a contatto: «quanto più umilmente ci portiamo, quanto più vi concediamo, tanto più insuperbite e più disoneste 33. Su questo complesso rapporto cfr. Dionisotti (1968-73, p. 373); sulla retorica storiografica di Bruni e Bracciolini si veda Struever (1970); sulle orazioni di entrambi già Wilcox (1969, pp. 46-7, 123-6, 167-8). Nota Matucci (1991, pp. 18-21, 54) il progressivo ampliarsi, secondo modelli classici, dei discorsi diretti riportati già fra la cronaca di Giovanni Villani e la prosecuzione che ne fornisce il fratello Matteo. 34. Cfr. Cabrini (1990, p. 43). 35. Garin (1990, p. 54); ciò non significa che gli oratori andranno interpretati come semplici controfigure dell’autore; rileva il carattere ambivalente dei discorsi machiavelliani Rubinstein (1987, p. 706). 36. Marietti (1985, p. 188); ivi anche un regesto delle contiones impiegate nelle Istorie. Sul valore eminentemente politico dei discorsi machiavelliani si veda fra gli altri Raimondi (1972, pp. 157-9); sulla loro funzione di messa in rilievo e attualizzazione dei fatti narrati cfr. Anselmi (1979, p. 179). 138 davide colussi cose domandate» (iii 11; ivi, p. 323); «quella città nella pace faccino serva, la quale tanti nimici potenti hanno nella guerra lasciata libera? Che trarrete voi delle disunioni vostre, altro che servitù? O de’ beni che voi ci avete rubati o rubasse, altro che povertà?» (iii 11; ivi, p. 324); o i chiasmi: «a ricchezze grandi e a grande potenzia pervengono» (iii 13; ivi, p. 330). Lo schema binario delle disposizioni si specifica talvolta in alternativa dilemmatica, ben caratteristica del procedere argomentativo machiavelliano: «di necessità conviene o che diventino simili, o che presto l’uno per l’altro rovini. Voi avete adunque a credere o di avere a tenere con massima violenza questa città […] o di essere contento a quella autorità che noi vi abbiamo data» (ii 34; ivi, p. 270); «giudicando potere o come prosuntuosi essere notati, o come ambiziosi condannati» (iii 5; ivi, p. 301). Ma si danno anche isocolie ternarie: «il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno non consuma e merito alcuno non contrappesa» (ii 34; ivi, p. 268); «E quando i costumi vostri fussero santi, i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare non basterebbeno» (ii 34; ivi, p. 269); «Voi avete voluto tôrre la autorità a’ capitani di Parte, la si è tolta; voi avete voluto che si ardino le loro borse e faccinsi nuove riforme: noi lo abbiamo acconsentito; voi volesti che gli ammuniti ritornassero negli onori, e si è permesso» (iii 11; ivi, p. 323), quest’ultimo direttamente ricalcato su Livio, iii 67: «Tribunos plebis concupistis; concordiae causa concessimus. Decemviros desiderastis; creari passi sumus. Decemvirorum vos pertaesum est; coegimus abire magistratu»37. Un segno pur tenue di intenzionale caratterizzazione diastratica sarà forse da riconoscere a questo punto nella relativa scarsezza di tali figure nel discorso del ciompo38. Una medesima e talora anche più esasperata tornitura retorica presentano le orazioni di Guicciardini, che risentiranno direttamente dell’influsso machiavelliano; è un tratto che non sfugge già a lettori cinquecenteschi di rango come Bodin e Montaigne («la partie de quoi il se semble vouloir prévaloir le plus»)39. Ecco ad esempio già nelle Cose fiorentine, dove fanno 37. Scàndola (1982, pp. 160-2: «Bramaste i tribuni della plebe: per amore della concordia ve li abbiamo concessi. Desideraste i decemviri: abbiamo consentito che fossero creati. Prendeste in uggia i decemviri: li abbiamo costretti a deporre la carica»); al riguardo si vedano Marietti (1985, pp. 192-3) e Cabrini (1990, p. 96); su altre dirette reminiscenze liviane nei discorsi cfr. Richardson (1971, pp. 38-9). 38. Ma si veda per contro Raimondi (1972, pp. 159-62); su questo discorso si diffonde da ultimo Pedullà (2003), cui si rimanda per ulteriore bibliografia. 39. Essais, ii 10 (Garavini, Tournon, 2012, p. 746: «la parte dell’opera di cui sembra voler farsi più forte»); cfr. Grafton (2000, pp. 74-5). cronaca e storia 139 la loro prima comparsa – Guicciardini non vi ricorre mai nelle giovanili Storie fiorentine – per venire in parte poi trapiantate nel tessuto della più vasta Storia, un caso di triplice anafora con forte climax suscitata dalla prolessi al verbo della sovraordinata e dallo sgranarsi del terzo segmento in tante più brevi proposizioni: Quello che innanzi a papa Gregorio, presente tucta la corte romana, difesi così franchamente et con tanto mio pericolo la ragione et la degnità di questa cictà; quello che per giustificare la causa sua andai al re di Francia et al re di Ungheria et a tucti quasi e’ prìncipi del Ponente; quello che sono andato per voi in infinite imbascerie, che ho sempre amato la patria più che me medesimo, che in servigio di quella non ho recusato mai nè faticha nè pericolo, fedelissimo sempre a questo palagio, lealissimo a questo Commune, hora, essendo sforzati a fare tanta ingiustitia e’ ministri et executori della giustizia, et cavate contro a’ buoni quelle armi che furono trovate per adoperare contro a’ captivi, sono in premio del mio fare, come uno publico ladrone, come inimico di questa patria condocto vituperosamente in sul muro del capitano a morire (ii; cfr. Ridolfi, 1945, p. 80). E come per Machiavelli – è stato notato – anche per Guicciardini le orationes rectae sono luogo d’elezione per l’inserimento di giudizi e commenti che l’autore schiva di allegare altrimenti alla vicenda storica40. Sicché non saranno da giudicarsi mera esibizione di eloquenza ma correlato della «complessità sostanziale degli eventi», come tipicamente nel caso di orazioni contrapposte, secondo un modulo tucidideo già messo largamente a frutto da Machiavelli: «non luogo di ornamento, dunque, ma di massimo sforzo speculativo, calato, senza infrangere “la legge dell’istoria”, nel flusso degli avvenimenti»41. Anche per questo verso la prosa guicciardiniana sembra segnare un culmine non più eguagliabile. Appare sintomatico che Sarpi, ripiegando pressoché sempre sulla forma indiretta42, si premuri anche di avvertire della qualità 40. Nencioni (1985, p. 180); di qui anche la notazione che i discorsi vengono adottati a partire dalle Cose fiorentine. 41. Palumbo (1991, pp. 35-6). 42. Con effetti di potente complessità sintattica studiati da Bozzola (2001, pp. 52-6, 658). E si veda il caso antecedente, ricordato da Ginzburg (1988, pp. 34-5), degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, il quale nell’introduzione al primo tomo (1588) dichiara «di aver voluto evitare la consuetudine pagana (ma in verità non solo pagana) di inserire lunghi discorsi fittizi, intessuti di ornamenti retorici»; dove – osserva ancora Ginzburg – «l’esclusione dei discorsi fittizi, imposta dal genere annalistico, rientrava in un atteggiamento antiretorico basato su una comunicazione scarna, spoglia, verosimilmente ispirata 140 davide colussi approssimativa della restituzione mediante formule come «in sostanza», «in somma», persino in caso di discorso diretto come nel secondo esempio: Dopo fu letto dal secretario del concilio il mandato degli oratori di Cesare, Diego di Mendozza e Francesco di Toledo, quello assente e questo presente, qual con brevi parole salutati i padri per nome dell’imperatore, disse in sostanza: essere manifesto a tutto ’l mondo che Cesare non reputa cosa più imperatoria, quanto non solo il defender il grege di Cristo dagli nimici, ma liberarlo da’ tumolti e sedizioni (Istoria, ii; cfr. Vivanti, 1974, p. 277); Gioanni Verdun […] in somma disse: quando una dispensa è ricchiesta, o siamo in caso che, se fosse stato previsto quando la legge si fece, sarebbe stato eccettuato, e qui vi è dispensare, eziandio non volendo, o siamo in caso che, preveduto, sarebbe stato compreso, e qui non si estende potestà dispensatoria (vii; ivi, p. 1048)43. E si veda, sotto questo aspetto, come Muratori discrimini fra resa indiretta della dichiarazione di papa Clemente v e testuale riproduzione di un passo dell’enciclica: Ora Clemente dichiarò che tali giuramenti prestati da i Papi sono giuramenti di fedeltà, volendo insinuare che gl’Imperadori son vassalli del Papa. E nella Clementina Pastoralem, con cui abolisce la suddetta sentenza d’Arrigo, aggiugne queste parole: Nos tam ex superioritate, quam ad Imperium non est dubium nos habere, quam ex potestate, in qua vacante Imperio Imperatori succedimus &c. («Noi, tanto per la supremazia che senza dubbio abbiamo nei riguardi dell’impero, quanto per la potestà nella quale succediamo all’imperatore essendo vacante l’impero…»: Annali, a. 1314; Muratori, 1744, viii, p. 77 = Falco, Forti, 1976, p. 281). La reinvenzione oratoria ha qui già lasciato il posto al suo corrispettivo moderno, la citazione44. (o almeno vista con favore) da san Filippo Neri, il fondatore della Congregazione dell’Oratorio. La ricerca della verità appariva a Baronio incompatibile con un discorso levigato e stilisticamente omogeneo». 43. Si tenga conto però della formula «in questa sentenza» (o «in questa forma»), ricalcata sul lat. in hanc sententiam, a indicare «un discorso non riproposto nelle esatte parole, ma reinventato nello spirito complessivo, nel suo tenore» (Montevecchi, Varotti, 2010, p. 267), preposta con costanza alle orazioni in Machiavelli e Guicciardini, dov’è tematizzata nel caso del suo primo impiego entro la Storia d’Italia: «parlò, secondo si dice, in questa sentenza» (i 4; cfr. Seidel Menchi, 1971, p. 29). 44. E tuttavia «ancora alla fine del Settecento e agli inizi dell’Ottocento i testi storiografici anche di livello alto presentano frasi o interi brani fra virgolette», per «esigenze in cronaca e storia 141 4. La presenza dell’io Il riferimento a un contesto esterno alla narrazione costituisce una modalità essenziale di documentazione circa il carattere non finzionale di quanto si viene narrando: di qui la rilevanza della categoria di deissi in un’analisi della prosa storiografica. Ciò può intendersi anzitutto sul piano temporale: il valore didattico riconosciuto sin dalle origini alla narrazione dei fatti accaduti implica per sé stesso uno stretto legame con il presente, nel quale tali fatti sono sempre nella possibilità di ripetersi, secondo una concezione in ultima istanza analogica in cui risiede – è stato detto – «il punto d’incontro tra conoscenza storica e concezione della storia»45. Si ricorderà la prima delle ragioni addotte dall’Anonimo a giustificazione della cronaca che imprende a scrivere: «Questo affanno prenno per moite cascione. La prima, che omo trovarao alcuna cosa scritta la quale se revederao avenire in simile» (i; cfr. Porta, 1979, p. 4). È anzi su questa relazione sempre latente con il presente dello storico o dei suoi lettori che la storiografia fonda propriamente la sua politicità. Scrive fascinosamente Benjamin in una pagina preparatoria alle Tesi di filosofia della storia, in avversione a una prospettiva fluidamente sequenziale degli eventi storici: Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessun fatto è, in quanto causa, già perciò storico. Lo diventa, postumamente, attraverso altre circostanze che possono essere separate migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso, nel quale, per così dire, sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico. Questo concetto istituisce una connessione tra storiografia e politica, che è identica a quella teologica tra rammemorazione e redenzione46. Non è possibile soffermarsi qui sui modi in cui la categoria di presente è richiamata o allusa negli storiografi della nostra tradizione (un caso particolare di riferimento analogico fra tempi storici sarà però osservato al qualche misura realistiche, spesso per ambientare meglio il contesto narrativo o per dare maggior forza a qualche elemento della narrazione»: cfr. D’Achille, Giovanardi (2003, p. 295), da cui la citazione, con esempi da Cuoco, e D’Achille, Proietti (2004, p. 652). 45. Canfora (2010, p. 36). 46. Benjamin (1997, p. 74). 142 davide colussi par. 5); dedicheremo invece le rapide annotazioni delle pagine a venire a un secondo tipo di deissi, di natura personale, e più precisamente ai riferimenti rinvenibili nelle opere storiografiche all’io dello storico, nelle varie funzioni che questa figura si presta ad assumere nel corso del tempo47. Diversamente che Villani, dove la narrazione è fatta principiare ab antico e l’autore tiene a rappresentarsi perciò nelle battute proemiali come un compulsatore e fedele restitutore di testi altrui («non sanza grande fatica mi travaglierò di ritrarre e ritrovare di più antichi e diversi libri, e croniche e autori, le geste e’ fatti de’ Fiorentini compilando in questo; e prima l’orrigine dell’antica città di Fiesole, per la cui distruzione fu la cagione e ’l cominciamento della nostra città di Firenze», i 1; cfr. Porta, 2007, i, p. 4), cronisti come Compagni e l’Anonimo si ritraggono anzitutto come fonte diretta, in qualità di astanti o al limite ricettori delle versioni più attendibili fra quelle circolanti oralmente in merito ai fatti raccontati: Quando io incominciai, propuosi di scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udi’, però che furon cose notevoli, le quali ne’ loro princìpi nullo le vide certamente come io. E quelle che chiaramente non vidi, proposi di scrivere secondo udienza; e perché molti secondo le loro volontà corrotte trascorrono nel dire e corrompono il vero, proposi di scrivere secondo la maggior fama (i 1; cfr. Cappi, 2013, p. 32); Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo’ vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno. E de ciò io poneraio certi segnali, secunno la materia curze, li quali fuoro concurrienti con esse cose. Questi segnali farrao lo leiere [‘il leggere’] essere certo e non suspietto de mio dicere (i; cfr. Porta, 1979, pp. 5-6). La presenza dell’autore è certificata anche puntualmente, laddove se ne avverta necessità. È il modulo dell’adtestatio rei visae, che ricorre tipicamente nel caso di fatti stupefacenti quale in Compagni la funesta visione della «croce vermiglia» sopra il palazzo dei Priori la sera del 6 novembre 1301: «Onde la gente che la vide, e io che chiaramente la vidi, potemo compren47. Si ricordi d’altra parte come in prospettiva puramente linguistica uno studio ormai classico di Benveniste (1971, p. 285) consideri l’assenza della prima persona come tratto dirimente dell’enunciazione propriamente storica in quanto scevra da ogni marca linguistica di autobiografismo. cronaca e storia 143 dere che Iddio era fortemente contro alla nostra città crucciato» (ii 19; cfr. Cappi, 2013, p. 69); e nell’Anonimo il trave enorme e «antiquo quanto che l’aleluia» scoperto nei lavori per il rifacimento della copertura di San Pietro Maggiore: «Quanno lo tetto viecchio se posava, fonce trovato uno esmesuratissimo trave de mirabile grossezze. Io lo viddi. Dieci piedi era grosso» ecc. (vii; cfr. Porta, 1979, p. 30)48. Ma questi, intraprendendo il racconto di un evento miracoloso come l’inspiegabile abbondanza di fave che si constatò nel raccolto di Ianni Macellaro, remunerato in tal modo da Dio per la generosità dimostrata durante la carestia, tiene a precisare che si tratta di accadimenti che gli sono stati riferiti: «Nella contrada de Roma, in uno castiello lo quale se dice Castiglione delli Alberteschi, incontrao un aitro miracolo, como io intesi da perzone fidedegne» (ix; ivi, p. 49). E in altro luogo dell’opera il cronista si rappresenta nell’atto di interrogare due reduci della battaglia del rio Salado presso Tarifa nel 1340, testimoni nel corpo segnato dalle ferite di come i Saraceni in rotta si difendessero con «fionne e prete»: Io ademannai uno pellegrino spagnuolo se de questa rotta alcuna cosa sapeva. Quello disse ca nce fu, e trassese sio capiello de capo e scoperze la fronte e mustrao una sanice [‘cicatrice’] rotonna in mieso della fronte, e disse ca quello fu colpo de preta. Un aitro, lo quale similemente adimannai, scoperze lo capo de sio cappuccio e mustraome tre sanici de colpo de spada e una nella fronte de preta (xi; ivi, p. 76). Altrimenti l’Anonimo ci informa con costanza e copia di dettagli sui luoghi della storia in cui si è venuto trovando, bene in sintonia con la sua fortissima sensibilità visiva, talora ai limiti dell’ekphrasis, che tematizza l’atto del vedere quanto è narrato, anche con brusco salto del tempo verbale al presente e rinforzo di un indicatore attualizzante come ora: «Là erano schierati li sollati e l’aitre iente. Ora vedese currere de cavalli» (iii; ivi, p. 16); «L’oste pranzava. Ora vedese occidere de iente, vedese fuire, vedese strilla e pianto» (v; ivi, p. 21), e così via49. Ecco ad esempio: «Tutta Roma stava armata. Bene me recordo como per suonno. Io stava in Santa Maria dello Piubico e viddi passare la traccia delli cavalieri armati li quali traievano a Campituoglio» (ii; ivi, pp. 10-1); «In quello tiempo io me retrovai in 48. Su questo aspetto in Compagni cfr. Pirodda (1967, pp. 340-2), nell’Anonimo Seibt (2000, pp. 57-61). 49. A questo riguardo cfr. Tanturli (1980, pp. 89-90: «i fatti umani […] non sono, ma sono visti»), dal quale ricavo anche il riferimento al genere ecfrastico, e Seibt (2000, p. 45). 144 davide colussi Bologna e vedeva che quelli delle ville venivano in citate a comparare dello pane in gabella. Deh, como tornavano tristi, quando non ne portavano!» (ix; ivi, p. 47); e con successiva, inusuale attribuzione di un turno dialogico all’io che induce l’interlocutore a deporre testimonianza: Fatta che fu questa sconfitta, lo re de Granata per tema de sio reame deventao tributario a re de Castelle. Io pozzo dicere in bona fede con veritate, ché delle arme de questi io viddi per questa via. Nella citate de Tivoli venne Carlo imperatore, anno Domini mccc………, como se dicerao. La iente era moita [‘molta’]. Io stava in una pontica, là dove venne uno a comparare cannele de cera e confietti e spezie. Questo teneva una spada sotto vraccio. Lo pomo era tutto inaorato e lavorato a igli e fiori. Dissi io: «Vòi tu vennere questa spada?», e trassila fòra dello fodero. […] Respuse lo buono omo e disse: «Io non la voglio vennere, né la dera [‘darei’] per cinquanta fiorini». E ciò fermao con sacramento. La iente che intorno stava disse: «Perché?» Respuse e disse: «Questa spada fu guadagnata nella rotta de Spagna, nello granne stormo quanno fu sconfitto lo re de Bellamarina dallo re de Castiglia. Io me nce retrovai. Dunque, benché assai bona sia, aiola cara troppo. Non la dera per moneta alcuna» (xi; ivi, pp. 84-5)50. In Compagni poi la rivendicazione di un primato autoptico («nullo le vide certamente come io») presuppone e in certa misura annuncia la presenza dell’autore anche in veste di personaggio propriamente storico, del quale si registrano gli incarichi politichi («E io Dino Compagni, ritrovandomi gonfaloniere di giustizia nel 1293, andai alle loro case e de’ loro consorti, e quelle feci disfare secondo le leggi», i 12; cfr. Cappi, 2013, p. 40), còlto perciò sovente nell’atto di arringare e appellarsi a concittadini («Ritrovandomi in detto consiglio io Dino Compagni, disideroso di unità e pace fra’ cittadini, avanti si partissono dissi: “Signori, perché volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro a’ vostri fratelli? Che vettoria arete? Non altro che pianto”. […] Udito questo, m’acozzai con Lapo di Guazza Ulivieri, buono e leale popolano, e insieme andamo a’ priori, e conducemovi alcuni erano stati al detto consiglio», i 24; ivi, p. 52; e cfr. ii 5, 8, 10, 11), talvolta persino grammaticalmente distinto dall’io narrante per l’adozione della terza persona: 50. Cfr. Contini (1940, p. 4): «Qua e là, infatti, la persona fisica del testimone s’affaccia: eccolo assistere alla cacciata di Jacopo Savelli; eccolo a Tivoli nel 1356 durante la visita di Carlo iv». Sul dialogato nella Cronica dell’Anonimo si vedano anche le considerazioni di Anselmi (1980, pp. 186-7). cronaca e storia 145 Ma i Signori che erano in quel tempo erano in gran discordia – i quali furono messer Ruggieri da Cuona giudice, messer Iacopo da Certaldo giudice, Bernardo di messer Manfredi Adimari, Pagno Bordoni, Dino Compagni autore di questa cronaca, e Dino di Giovanni vocato Pecora, che furono da dì xv d’aprile a dì xv di giugno 1289 – […] e d’accordo rimisono in Dino Compagni, perché era buono e savio uomo, ne facesse quanto li paresse. Il quale mandò per messer Durazzo, nuovamente fatto da lui cavaliere, e in lui commise conchiudesse il trattato col vescovo il meglio potesse (i 8; ivi, pp. 36-7)51. Occasionali informazioni sul luogo e i modi in cui lo storico assiste ai fatti o ne viene a conoscenza non sono da escludersi neppure nei secoli successivi. Non ne è estraneo ad esempio ancora Muratori, una volta che la sequenza annalistica sia pervenuta all’annotazione della contemporaneità: Mi trovava io allora in Milano, e mi convenne udire la terribil sinfonia di quel popolo contro il nome, casa e persona di quel sovrano, trattando lui da traditore e come reo di nera ingratitudine, che si fosse servito di tanto sangue e tesoro de gli alleati per accomodare i soli suoi interessi, con altre villanie ch’io tralascio (Annali, a. 1696; Muratori, 1749, xi, p. 425 = Falco, Forti, 1976, p. 412). Ma in generale l’io dello storico viene a ridursi nel tempo a una presenza ragionativa e potremmo dire indagativa o investigativa, rifacendoci alla distinzione di Johann Gustav Droysen fra esposizioni storiche in forma narrativa (erzählende Darstellung) e in forma indagativa (untersuchende Darstellung)52. E si tratterà – con esiti di varietà che sono da ricondursi anzitutto alle singole personalità degli autori – di indicazioni sul ritmo conferito alla narrazione, come le suggestive indicazioni agogiche fornite dall’Anonimo: «Qui me voglio un poco stennere» (ix; cfr. Porta, 1979, p. 58); «Vogliome stennere sopra questa materia» (xxvii; ivi, p. 266). O di giustificazioni a una digressione che comportano la confessione di un turbamento intimo, sconveniente in sé all’abito dello storico e per ciò stesso del tutto eccezionale in Guicciardini: «Ma ritornando al principale proposito nostro, dal quale il dolore giustissimo del danno pubblico m’aveva, più ardentemente che non conviene alla legge dell’istoria, traportato» (iv 51. La singolare frequenza con cui l’«autore pronuncia il suo “io”» nella Cronica diniana è notata da Berisso (1996, p. 13). 52. Cfr. Droysen (1994, pp. 338 ss.), dove untersuchend è reso con la perifrasi «conforme all’indagine». 146 davide colussi 12; cfr. Seidel Menchi, 1971, p. 428)53. Oppure di più ampi procedimenti argomentativi, mediante i quali lo storico apparecchia e sottopone quindi al giudizio del lettore il tracciato stesso di ipotesi, deduzioni e conclusioni che è venuto formulando, con procedimento non impermeabile al dubbio, come plasticamente nella prosa interrogativa di Cuoco: Forse il miglior metodo per organizzare le province era quello di far uso delle autorità costituite che già vi erano. Tutte le province aveano di già riconosciuto il nuovo governo: le antiche autorità o conveniva distruggerle tutte, o tutte conservarle. Non so quale di questi due mezzi sarebbe stato il migliore: so che non si seguì né l’uno né l’altro, ed i consigli mezzani non tolsero i nemici né accrebbero gli amici. […] Quale strana idea era quella dei democratizzatori? Io non ho mai compreso il significato di questa parola. S’intendea forse parlar di coloro che andavano ad organizzar un governo in una provincia? Ma di questi non ve ne abbisognava al certo uno per terra. S’intendeva di colui che andava, per cosí dire, ad organizzare i popoli e render gli animi repubblicani? Ma questa operazione né si potea sperare in breve tempo né richiedeva un commissario del governo (Saggio, xxxi; cfr. Nicolini, 1929, p. 143). Si capisce che solo analisi individualizzate potrebbero dar conto a dovere di una fenomenologia tanto frastagliata. Ma una volta rilevata l’assenza pressoché assoluta di questi tratti in Croce – fatte salve zone peritestuali o liminari (conclusivamente, nella Storia d’Europa: «da tale necessità è nata anche questa rimeditazione che abbiamo voluto fare, e invitare a fare, della storia del secolo decimonono», Croce, 1948, p. 348) e fatti salvi banali elementi coesivi di deissi personale con valore di raccordo testuale, spesso funzionali a rimarcare proprietà e forza di formule coniate dall’autore («Anche allora, del resto, alla corporeità che abbiamo detta 53. Ma cfr. Nencioni (1985, p. 199) a commento di questo passo: «Dalla commozione e dall’indignazione il Guicciardini è tutt’altro che immune; come tutti i grandi storici, cioè come gli storici che s’immergono nel flusso degli eventi umani partecipandovi con tutti se stessi, egli, diversamente da quanto hanno asserito insigni critici, è un giudice appassionato, e se ne rende conto». Sull’autorappresentazione di Guicciardini in quanto personaggio storico nella Storia d’Italia si veda ora Jodogne (2012); sulla tendenza a dissimulare la propria diretta osservazione dei fatti narrati Varotti (2012). Quanto al Machiavelli storico, cfr. Matucci (1991, p. 205): «L’“io” narrante che abbiamo osservato più volte agire nei Discorsi non è mai l’“io” che ha ‘visto’, caro a tutta la tradizione dei mercanti, ma un “io” che “giudica” e “escogita”» (e cfr. ivi, p. 220: «La scissione […] fra l’“io” che ha ‘visto’ e l’“io” che giudica non è, per Machiavelli, sanabile»); su alcuni esordi di capitolo delle Istorie in cui si affaccia la figura dell’autore Giovanardi (2004, p. 617). cronaca e storia 147 spiritualizzata, se ne accompagnava talvolta un’altra non spiritualizzata e perciò malsana», ivi, p. 16; «un unico processo, nel quale quella che abbiamo definita la religione della libertà si afferma lottando con le proprie e necessarie opposizioni», ivi, p. 57) –, non sarà troppo avventato interpretare tale assenza come indice e negativo di una perentoria aspirazione all’oggettività. 5. L’indicazione delle fonti scritte Omologo al riferimento al contesto mediante elementi di deissi personale e spaziale di cui si è dato breve saggio sopra è il riferimento ad altri testi: anche in questo caso la narrazione cerca una fuoriuscita dal piano del racconto rimandando a segmenti di realtà autonomi da quello, a riprova del carattere veridico di quanto vi è sostenuto. Benché omologo, il procedimento non può tuttavia dirsi storicamente parallelo, se è vero che all’indicazione di fonti orali più o meno determinate, cui spesso si assiste nelle cronache medioevali (alcuni esempi sono incidentalmente occorsi nel par. 4), per lungo tempo non corrisponde, se non in modo del tutto sporadico, quella di fonti scritte. Un facile riscontro può ottenersi considerando un autore il cui laboratorio di fonti storiche è stato indagato con particolare attenzione e penetrazione come Machiavelli54. Nelle Istorie, se teniamo a parte l’esordiale richiamo – già ricordato al par. 3 – ai predecessori in veste di storiografi ufficiali di Firenze Bruni e Bracciolini, che non intende schermare professando deferenza una nettissima diminuzione della loro opera, in tanto ammessa implicitamente come fonte in quanto giudicata deficitaria e bisognevole di rifacimento: Lo animo mio era, quando al principio deliberai scrivere le cose fatte dentro e fuora dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione mia dagli anni della cristiana religione 1434, nel quale tempo la famiglia de’ Medici, per i meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre, prese più autorità che alcuna altra in Firenze; perché io mi pensavo che messer Lionardo d’Arezzo e messer Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate particularmente tutte le cose che da quel tempo in drieto erano seguite (Proemio; cfr. Montevecchi, Varotti, 2010, p. 89), 54. A partire dal commento parziale di Fiorini (1962); intensivamente su secondo e terzo libro Cabrini (1985; 1990). 148 davide colussi scarso o nullo è il computo che ne risulta, e anche il solitario rimando a Villani in cui ci si imbatte in apertura di secondo libro sarà certo dettato dalla possibilità di notare la singolare convergenza del cronachista con Dante in merito alla genesi di Firenze quale luogo di mercato in pianura prescelto dai fiesolani più che non dall’impulso a esplicitare qui e non in mille altri possibili luoghi il nome di un autore costantemente sul tavolo di Machiavelli: Egli è cosa verissima secondo che Dante e Giovanni Villani dimostrano che la città di Fiesole, sendo posta sopra la sommità del monte, per fare che i mercati suoi fussero più frequentati e dare più commodità a quegli che vi volessero con le loro mercanzie venire, aveva ordinato il luogo di quelli non sopra il poggio, ma nel piano, intra le radice del monte e del fiume d’Arno (ii 2; ivi, p. 191)55. Altro il discorso se consideriamo il ricorso a fonti classiche. A questo riguardo, caratteristico dell’Anonimo, «questo perenne citatore di classici»56 che si appella due volte all’autorità di Livio già nel rendere inizialmente le ragioni del proprio scrivere (i; cfr. Porta, 1979, pp. 4-5), è addurre luoghi della storiografia latina ridestati nella memoria dalla similitudine con gli accadimenti raccontati; la comparazione può essere graduata o attenuata come nel secondo esempio («In bona fe’, questo non viddi avenire in quello tiempo»): L’opera de Veneziani con questo tiranno fu como l’opera de Romani, li quali mannaro la ambasciata a Benevento. Beneventani sparzero aduosso alli ambasciatori la orina. Per la quale cosa Romani fuoro turbati, e per essi fu destrutta la provincia de Sannio e fu suiugata allo Communo de Roma, como Tito Livio dice (viii; ivi, p. 45); Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu vennuto in Roma xxi libre de provesini lo ruio [‘ventun lire di provesini a rubbio’]. Currevano anni Domini mcccxxxviii. Scrive Tito Livio che nello tiempo fu una fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente, presure [‘numerose’] perzone, ’nanti volevano perdire la vita, che vivere in fame. Donne abolveano [‘avvolgevano’] lo cappuccio innanti delli occhi per non vedere loro morte e sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati perivano, e collo perire remediavano la fame. In bona 55. Sul problema della fondazione della città in Machiavelli cfr. Rubinstein (1967); sul ruolo decisivo di Villani nell’elaborazione del mito originario Bruni (2003, pp. 129-36). 56. Contini (1940, p. 5). cronaca e storia 149 fe’, questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite femine fuoro le quale iettaro loro onore per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia [‘vendette la propria indipendenza’] per lo pane (ix; ivi, p. 47). Ma fra gli autori qui censiti è in Muratori e Giannone, pienamente rappresentativi sotto questo aspetto del moderno paradigma documentario entro il quale si viene a concepire l’opera storiografica, che la procedura di esplicitare le fonti scritte si dispiega con il massimo effetto di novità e intensità, come già rivela a un primo sguardo l’impiego di abbreviazioni e note in calce o a margine57. Anche prescindendo dalla considerazione della mise en page tipografica, ci si può chiedere se la presenza di indicazioni bibliografiche consegua qualche effetto sulle modalità presentative degli eventi storici. Un primo ordine di fenomeni può ricondursi al piano argomentativo o diciamo metaragionativo. Siamo a un dipresso nell’ambito già sondato nel par. 4, e infatti il riferimento a fonti può ricorrere combinato alla presenza testuale dell’io dello storico: come nel seguente caso muratoriano, dove la sequela di richiami risulta anche implicitamente connessa alla persona dello storico per il fatto di rimandare al tesoro dei Rerum Italicarum Scriptores, impresa che gli Annali in un primo tempo intendevano doppiare anche nell’esatta corrispondenza dell’arco cronologico considerato: Strepitosa fu nell’anno presente la guerra de’ Veneziani e Genovesi. Il racconto d’essa esigerebbe più carte; ma io, seguitando la brevità, ne accennerò solamente i fatti più importanti, rimettendo per gli altri men riguardevoli il lettore a Daniello Chinazzi [Chinazzi Istor. Tom. xv. Rer. Italic.], al Caresino [Caresin. Chronic. Venet. Tom. xii. Rer. Italic.], a i Gatari [Gatari, Istor. di Padova, To. xvii. Rer. Italic.] e al Redusio [De Redusio, Chronic. Tom. 19 Rer. Italic.] (Annali, a. 1379; Muratori, 1744, viii, p. 387 = Falco, Forti, 1976, p. 299)58. Oppure si esamini questo luogo di Giannone, dove alla premessa giustificativa che solleva il problema di una discordanza tra le fonti («non è di tutti conforme il parere») e insieme preannuncia l’importanza dell’argomento per la successiva trattazione («dee occupare una gran parte della nostra Istoria») segue la considerazione di un duplice piano di fonti, con 57. Sulla storia delle note a piè di pagina cfr. Grafton (2000). 58. Il testo delle note è riportato qui e avanti entro parentesi quadre in luogo del segno di appicco di nota. Sulla progressiva diminuzione e scomparsa di apparati eruditi e note negli Annali via via che si avvicinano al presente cfr. Bertelli (1960, p. 422). 150 davide colussi risalita dalle secondarie alla primaria, della quale si valuta l’attendibilità in base a considerazioni anche di natura formale («le parole e la frase usata da Paolo Warnefrido […] non con fermezza ma con un putatur, refertur, fama est se ne disbriga»): Ma poiché del principio ed instituzione del Ducato Beneventano non è di tutti conforme il parere, e questo Ducato dee occupare una gran parte della nostra Istoria, per lo spazio di 500 e più anni, sicome quello il quale non solamente per la durata ma per la sua ampiezza si stese tanto che abbracciò quasi tutto quel ch’è ora regno di Napoli, non rincrescevol cosa doverà perciò essere che di esso più partitamente si ragioni. Il Ducato di Benevento credesi comunemente che da Autari in questo anno 589 fosse stato la prima volta instituito, e che Zotone ne fosse stato creato Duca da questo stesso Principe. Passa per indubitato presso a tutti gl’Istorici che questo Zotone fosse il primo Duca di Benevento; ma chi ve l’avesse fatto, ed in quali tempi, non è di tutti concorde il sentimento. Carlo Sigonio [Sigon. de R. Ital. lib. 1.] e Wolfango Lazio [Wolfran. Laz. lib. 12 de Migrat. gent.], non avendo ben esaminate le parole e la frase usata da Paolo Warnefrido [P. Warn. lib. 2. c. 16.] quando di questa instituzione favella, tennero costantemente per la costui autorità che fosse stato instituito da Autari in questo stesso anno ch’egli conquistò il Sannio e Benevento, creduto da essi in questi tempi capo di quella Provincia; ma dal modo istesso con cui ne parla Warnefrido, che non con fermezza ma con un putatur, refertur, fama est se ne disbriga, e da ciò che ne vien da lui soggiunto, che Zotone tenne il Ducato di Benevento venti anni (il che non s’accorderebbe colla serie delle cose dapoi avvenute e colla cronologia de’ tempi degli altri Duchi che seguirono, se da questo anno 589 si volessero cominciare a numerare i venti anni del Ducato di Zotone), perciò alcuni altri, fra i quali Scipione Ammirato nelle Dissertazioni de’ Duchi e Principi di Benevento ed Antonio Caracciolo [Ant. Carac. Propyleo ad quatuor Chron.], hanno cominciato a dubitare se si dovesse ne’ tempi più antichi fissar l’Epoca di questo Ducato (Istoria, iv 2; Giannone, 1723, i, p. 252). Un secondo ordine di fenomeni condizionato dalla presenza testuale di indicazioni bibliografiche riguarda la focalizzazione e disposizione sintattica di quanto viene trattato dallo storico, il quale procede bene spesso a collocare in posizione di soggetto della principale l’autore cui di volta in volta si appoggia e il fatto narrato entro completiva o serie di completive, chiaro riflesso della nuova preminenza assunta dalla fonte, talora – come nel secondo esempio – posta in ulteriore rilievo dalla presenza di un’espansione appositiva che veicola informazioni accessorie («quanto buon Cittadino, altrettanto appassionato Istorico nelle azioni del Duca d’Ossu- cronaca e storia 151 na»), con eventuali esiti complessivi di approfondimento ipotattico che andranno mentalmente accostati a quelli osservati al par. 1: Narra il Nani [Nani, Istor. Ven. lib. 3. A. 1617.] che, avendo la Repubblica per mezzo del suo Ambasciador Gritti fattane di ciò doglianza colla corte di Spagna, avesse ottenuti ordini diretti all’Ossuna di rilasciarla, ma che costui con superbissimo animo gli disprezzasse, non senza sospetto di connivenza della stessa Corte, la quale godesse di coprire i disegni più arcani con l’inobbedienza di capriccioso Ministro (xxxv 4; ivi, iii, p. 320); Il Nani, quanto buon Cittadino, altrettanto appassionato Istorico nelle azioni del Duca d’Ossuna, rapporta che costui, per natura vanissimo di lingua e d’animo, non solo applicava a turbar il mare, ma di continuo parlava di sorprendere Porti dell’Istria, saccheggiar Isole, e penetrare ne’ recessi medesimi della Città dominante: che ora in carta, ora in voce delineava e divisava i disegni, ordinava barche di fondo atto a’ Canali e paludi, tracciava macchine, nè più volentieri alcuno ascoltava che coloro i quali lo trattenessero con adulazioni al suo nome, o con facilità dell’impresa; ma che però non era tanto ciò ch’egli credeva di poter eseguire, quanto quello che desiderava che si credesse: acciochè si tenesse la Repubblica involta in maggiori dispendi, e distratta a tal segno, che più debolmente ed offender potesse l’Arciduca ed assistere a Carlo Duca di Savoja (xxxv 4; ivi, iii, p. 321). Non sempre tuttavia Giannone si riserva di chiarire pienamente i rimandi, a riprova di un’istanza non meramente erudita, ma anche politica e formale, recepita nel suo fare di storico. Senza rievocare qui le accuse di plagio da cui l’opera fu colpita dall’immediata pubblicazione sino a metà Novecento, delle quali risulta oramai chiarita l’antistoricità, si può annotare anzitutto che nell’Istoria civile non vengono mai citati gli autori contemporanei, anche quando adoperati ampiamente e con profitto59. Non casualmente poi, trattandosi di Machiavelli, il rimando potrà darsi nella forma di un’allusione: So che alcuni credono esser queste tante virtù di Teodorico state imbrattate dall’insidie, e morte finalmente fatta dare ad Odoacre; e nell’ultimo della sua vita da alcune crudeltà cagionate per varj sospetti del Regno suo, con avere ancora 59. Al riguardo cfr. Fiorentino (1964, p. 397), saggio fondamentale, benché ricolmo di sviste ed errori nelle citazioni del testo, nel dimostrare l’atteggiamento tutt’altro che parassitario e anzi nell’insieme criticamente rielaborativo e sintetico di Giannone nei confronti delle proprie fonti. 152 davide colussi fatto morire Simmaco e Boezio suo genero Senatori ed al Consolato assunti (iii 2; ivi, i, p. 185)60. E giunto a trattare del periodo angioino, Giannone dichiara espressamente di non trattenersi dal riprendere letteralmente luoghi della Storia del Regno di Napoli di Angelo di Costanzo, per ammirazione nutrita verso lo storico tanto quanto il prosatore: compilò poi Angelo di Costanzo quella sua grave e giudiziosa Istoria del regno di Napoli, che siccome oscurò tutto ciò che insino allora erasi scritto, così ancora per la sua gravità, prudenza civile ed eleganza, si lasciò indietro tutte le altre che furon compilate dopo lui dalla turba d’infiniti altri scrittori. Per questa cagione l’Istoria di questo insigne scrittore sarà da noi più di qualunque altra seguitata, né ci terremo a vergogna se alle volte colle sue medesime parole, come che assai gravi e proprie, saranno narrati i loro avvertimenti (xx 1; ivi, iii, p. 3-4). Non troppo diversamente, e ancora per fascinazione anche linguistica subìta dall’oggetto trattato, sceglierà di operare nella propria monografia vichiana («pur valendomi assai spesso […] delle parole testuali dell’autore, non ho creduto opportuno virgoleggiarle […], avendole di solito messe insieme prendendole da luoghi varî e ora abbreviate ora allargate e sempre frammischiate liberamente con parole e frasi mie di commento», Audisio, 1997, p. 9) Benedetto Croce, nel cui nome dunque si chiude così come si era aperta questa breve rassegna di fatti61. 60. Si veda ancora Fiorentino (1964, p. 150), che rimanda a Istorie fiorentine, i 3; sull’effettiva importanza del Machiavelli storiografo nell’impostazione antipapale dell’Istoria civile cfr. anche Ricuperati (1970, pp. 161-2). 61. È ancora da indagare il grado di dipendenza dalle fonti adoperate nelle scelte linguistiche del Croce “narratore” e biografo storico (quello di volumi come Storie e leggende napoletane e Vite di avventure, di fede e di passione), spesso improntate a una letterarietà all’apparenza anche più marcata di quella consueta nel filosofo, per ricerca – si direbbe – di sintonia o mimetismo con l’ambientazione storica restituita dal racconto: alcuni primi dati interpretabili in questo senso in D’Onghia (2011b, p. 63).