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| I SAGGI DI LEXIA 46 I CRONOTOPI DEL VOLTO a cura di elsa soro, cristina voto, massimo leone I SAGGI DI LEXIA 46 Direttori Ugo V Università degli Studi di Torino Guido F Università degli Studi di Torino Massimo L Università degli Studi di Torino I SAGGI DI LEXIA Aprire una collana di libri specializzata in una disciplina che si vuole scientifica, soprattutto se essa appartiene a quella zona intermedia della nostra enciclopedia dei saperi — non radicata in teoremi o esperimenti, ma neppure costruita per opinioni soggettive — che sono le scienze umane, è un gesto ambizioso. Vi potrebbe corrispondere il debito di una definizione della disciplina, del suo oggetto, dei suoi metodi. Ciò in particolar modo per una disciplina come la nostra: essa infatti, fin dal suo nome (semiotica o semiologia) è stata intesa in modi assai diversi se non contrapposti nel secolo della sua esistenza moderna: più vicina alla linguistica o alla filosofia, alla critica culturale o alle diverse scienze sociali (sociologia, antropologia, psicologia). C’è chi, come Greimas sulla traccia di Hjelmslev, ha preteso di definirne in maniera rigorosa e perfino assiomatica (interdefinita) principi e concetti, seguendo requisiti riservati normalmente solo alle discipline logico–matematiche; chi, come in fondo lo stesso Saussure, ne ha intuito la vocazione alla ricerca empirica sulle leggi di funzionamento dei diversi fenomeni di comunicazione e significazione nella vita sociale; chi, come l’ultimo Eco sulla traccia di Peirce, l’ha pensata piuttosto come una ricerca filosofica sul senso e le sue condizioni di possibilità; altri, da Barthes in poi, ne hanno valutato la possibilità di smascheramento dell’ideologia e delle strutture di potere. . . Noi rifiutiamo un passo così ambizioso. Ci riferiremo piuttosto a un concetto espresso da Umberto Eco all’inizio del suo lavoro di ricerca: il “campo semiotico”, cioè quel vastissimo ambito culturale, insieme di testi e discorsi, di attività interpretative e di pratiche codificate, di linguaggi e di generi, di fenomeni comunicativi e di effetti di senso, di tecniche espressive e inventari di contenuti, di messaggi, riscritture e deformazioni che insieme costituiscono il mondo sensato (e dunque sempre sociale anche quando è naturale) in cui viviamo, o per dirla nei termini di Lotman, la nostra semiosfera. La semiotica costituisce il tentativo paradossale (perché autoriferito) e sempre parziale, di ritrovare l’ordine (o gli ordini) che rendono leggibile, sensato, facile, quasi “naturale” per chi ci vive dentro, questo coacervo di azioni e oggetti. Di fatto, quando conversiamo, leggiamo un libro, agiamo politicamente, ci divertiamo a uno spettacolo, noi siamo perfettamente in grado non solo di decodificare quel che accade, ma anche di connetterlo a valori, significati, gusti, altre forme espressive. Insomma siamo competenti e siamo anche capaci di confrontare la nostra competenza con quella altrui, interagendo in modo opportuno. È questa competenza condivisa o confrontabile l’oggetto della semiotica. I suoi metodi sono di fatto diversi, certamente non riducibili oggi a una sterile assiomatica, ma in parte anche sviluppati grazie ai tentativi di formalizzazione dell’École de Paris. Essi funzionano un po’ secondo la metafora wittgensteiniana della cassetta degli attrezzi: è bene che ci siano cacciavite, martello, forbici ecc.: sta alla competenza pragmatica del ricercatore selezionare caso per caso lo strumento opportuno per l’operazione da compiere. Questa collana presenterà soprattutto ricerche empiriche, analisi di casi, lascerà volentieri spazio al nuovo, sia nelle persone degli autori che degli argomenti di studio. Questo è sempre una condizione dello sviluppo scientifico, che ha come prerequisito il cambiamento e il rinnovamento. Lo è a maggior ragione per una collana legata al mondo universitario, irrigidito da troppo tempo nel nostro Paese da un blocco sostanziale che non dà luogo ai giovani di emergere e di prendere il posto che meritano. Ugo Volli Questa pubblicazione fa parte di un progetto finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (ERC) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione europea (grant agreement 819649 — FACETS). La pubblicazione di questo volume è stata resa possibile grazie al contributo dell’Università di Torino, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione. I CRONOTOPI DEL VOLTO a cura di ELSA SORO, CRISTINA VOTO, MASSIMO LEONE contributi di SILVIA BARBOTTO, NICOLA CARRARA, REMO GRAMIGNA MARILIA JARDIM, VALENTINA MANCHIA,GABRIELE MARINO ANTONIO SANTANGELO, CARLOS A. SCOLARI, MARCO VIOLA © isbn 979–12–218–0270–2 prima edizione ROMA 31 ottobre 2022 indice 9 Prefazione di Massimo Leone, Elsa Soro, Cristina Voto I CRONOTOPI ESPRESSIVI DEL VOLTO 17 Volti del nostro tempo: L’opposizione tra self–made women e vagabonde di Antonio Santangelo 49 Volto di cenere e suono: Cronotopi, semiotica implicata e teatro contemporaneo di Silvia Barbotto 67 Il volto in mostra: Due esempi di esposizioni temporanee di Nicola Carrara I CRONOTOPI IDENTITARI DEL VOLTO 83 La nostra vita (sociale) con la mascherina di Marco Viola 113 The Niqab and the Surgical Mask. Beyond Given Binaries: Visual Semiotics, Figurativisation, and Discursive Interactions of Covered Face di Marilia Jardim 7 8 Indice 141 Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi di Gabriele Marino 157 Volti senza volto: Dalla damnatio memoriae alla cultura della cancellazione di Remo Gramigna I CRONOTOPI TECNOLOGICI DEL VOLTO 183 Ricambiare lo sguardo delle macchine: Dietro gli impliciti della face recognition attraverso le training images di Valentina Manchia 203 The Laws of the Interface di Carlos A. Scolari 247 Autori I cronotopi del volto ISBN 979-12-218-0270-2 DOI 10.53136/97912218027021 pp. 9-13 (ottobre 2022) PREFAZIONE Elsa Soro, Cristina Voto, Massimo Leone Riconoscibile nonostante la sua mutevolezza, singolare benché costantemente soggetto al cambiamento, ogni volto è la traccia dei tempi e dei luoghi che lo hanno prodotto. Del resto, ogni esperienza di riproduzione così come ogni dinamica di fruizione che intratteniamo con il nostro proprio volto o con il volto altrui ci mette a confronto con una dimensione situata. Questo posizionamento installa un confine tra prospettiva biologica e prospettiva culturale, una frontiera dove la riflessione sui processi fisiologici che sottostanno alla natura organica del volto — una lettura necessaria alla visualizzazione del tessuto interconnettivo che ci accomuna con altre specie — si intreccia con la pluralità e la discontinuità che caratterizzano la sua significazione culturale. La variabilità nel tempo si embrica allora con la variabilità nello spazio: ogni volto tradisce le modalità temporali e spaziali che gli conferiscono senso ma, allo stesso tempo, è da queste stesse modalità che viene tradito per mezzo dei discorsi che lo occultano o ritraggono, delle tecnologie che lo cancellano o potenziano, degli artefatti che lo mascherano o magnificano. La diversità culturale diventa allora un aspetto fondamentale per la comprensione fenomenica del volto come risultato di complesse interconnessioni spazio–temporali. È sulla base di queste riflessioni preliminari che il presente volume tratta delle coordinate cronotopiche del volto e del volto come cronotopo del senso. Utilizzare il concetto di cronotopo e associarlo 9 10 Elsa Soro, Cristina Voto, Massimo Leone al dispositivo per eccellenza dell’identità significa evocare il lavoro di Michail Bachtin, una proposta teorica ed euristica capace di garantire l’individuazione di una interconnessione spazio–temporale che favorisce il passaggio dalle strutture semio–narrative alle strutture discorsive (Estetica e romanzo). Nel suo studio sull’estetica del romanzo, l’autore russo definisce il cronotopo come la modalità attraverso cui un’opera assimila ed elabora la percezione del tempo e dello spazio, non tanto come entità trascendenti ma come categorie ideologiche situate in un determinato contesto socioculturale. Pensiamo alla figura della strada nell’epos greco, alla piazza nella produzione latina, al castello nel romanzo cavalleresco, al salotto nel romanzo decimonono e alle figure della soglia o dell’anticamera nei romanzi di Dostoevskij: secondo Bachtin, la discorsivizzazione spazio–temporale determina l’immagine che i testi incarnano nel mondo e del mondo, condensando un’espressione cronotopica senza la quale anche il pensiero più astratto sarebbe impossibile. Da una prospettiva semiotica, parlare di cronotopi significa evocare quelle strategie enunciazionali dei livelli figurativo e plastico–figurale capaci di garantire la circolazione del senso e, nel nostro caso specifico, di quelle strategie formali sul piano dell’espressione che fanno del volto un supporto dell’identità. Tutti i contributi contenuti in questo volume, allora, identificano nel volto un cronotopo, una strategia di condensazione spazio–temporale, uno strumento di studio dell’enunciazione in atto e di aspettualizzazione spazio–temporale. Per l’esplorazione di queste coordinate spazio–temporali dell’identità il volume segue tre rotte significative, tre diversi percorsi di lettura che danno forma ad altrettanti criteri di classificazione e pertinentizzazione differenziali del volto come spazio enunciativo del senso in termini espressivi, identitari e tecnologici. Il dominio dell’arte, nella sua dimensione espositiva, performativa e interpretativa si articola sul volto e nel volto nella prima sezione del volume, dedicata ai cronotopi espressivi. Il contributo di Antonio Santangelo, Volti del nostro tempo: L’opposizione tra self–made women e vagabonde, mette a fuoco i volti di alcuni personaggi del cinema e del mondo dello spettacolo. Analizzando i volti delle protagoniste dei film La vie d’Adèle: Chapitres 1 & 2 (Abdellatif Kechiche, Francia, 2013), Prefazione 11 Jeune femme (Léonor Sérraille, Francia, 2017) e Chiara Ferragni — Unposted (Elisa Amoruso, Italia, 2019), Santangelo cerca di mostrare come i volti e le storie delle protagoniste costruiscano un sistema di senso, gettando luce su alcuni modelli culturali di cui le società contemporanee si servono per assegnare un senso all’esperienza della vita quotidiana. Segue il contributo di Silvia Barbotto, Volto di cenere e suono: Cronotopi, semiotica implicata e teatro contemporaneo, che ricerca nel teatro il motore propulsore di cronotopi altri. S’indaga la categoria di tempo incorporato attraverso una riflessione sulla semiotica del corpo e della cultura. Il testo offre un esercizio di meta–semiotica applicata nell’analisi della drammaturgia di Volto di cenere e suono, una produzione di Terra Galleggiante, inserita all’interno della XXVII edizione del Festival “Immagini dell’interno 2021”. Quest’opera è occasione di una ricerca per sperimentare l’ibridazione tra lo spazio reale e immaginato, tra la multimedialità sensoriale da un lato e, dall’altro, il corpo e il volto come istanze crono–situate e co–abitate. Chiude questa sezione il contributo di Nicola Carrara, Il volto in mostra: Due esempi di esposizioni temporanee, dove si tratta del volto umano quale fenomeno sovente oggetto di strategie curatoriali in ambito artistico. È il caso delle due mostre “FACCE: I molti volti della storia umana” e “IMAGO ANIMI: Volti dal passato”, entrambe curate dal Museo di Antropologia dell’Università di Padova. L’autore ripercorre i due progetti espositivi, legati alle ricostruzioni facciali forensi, per comprendere l’effetto di realismo prodotto da queste tecniche. Nello specifico, si attarda su alcune specifiche sezioni delle mostre: “Guardiamo in faccia la diversità umana”, dedicata alla prospettiva evolutiva della specie umana; “Una faccia, una razza? Non proprio”, sull’inconsistenza scientifica delle cosiddette categorie razziali; “Volti dal passato”, sulle ricostruzioni di volti di personaggi storici legati alla città di Padova; “Lo specchio del viso”, sugli studi scientifici o presunti tali sul volto umano a partire dall’antichità; e infine “Dalla faccia alla maschera: Il viso simbolico”, sugli aspetti culturali di questo tratto distintivo umano. La seconda sezione del volume, dedicata ai cronotopi identitari del volto, raccoglie quattro contributi che mettono in luce la dimensione socio–identitaria veicolata dagli artefatti che coprono o allestiscono i volti. Il contributo La nostra vita (sociale) con la mascherina, di Marco 12 Elsa Soro, Cristina Voto, Massimo Leone Viola, apre la sezione con un intervento che riflette sul “baratto semiotico dell’artefatto” durante la pandemia da Covid 19. La mascherina è infatti analizzata come artefatto che da una parte inevitabilmente sottrae, mentre dall’altra aggiunge potenzialità espressive in quanto superficie di comunicazione. Nel tentativo di tracciare una fenomenologia sociale della mascherina o, più precisamente, del volto mascherato, l’articolo ne fornisce un inquadramento storico–filosofico come oggetto sanitario; passa poi in rassegna alcuni studi psicologici su ciò che la mascherina compromette a livello di comprensione linguistica, riconoscimento dell’identità e delle emozioni, con importanti ricadute sull’empatia; per proseguire successivamente con alcuni spunti di natura antropologica, sociologica e semiotica su ciò che la mascherina comporta nell’operare una significante alterazione delle modalità con cui l’identità è percepita. The Niqab and the Surgical Mask. Beyond Given Binaries: Visual Semiotics, Figurativisation, and Discursive Interactions of Covered Faces, di Marilia Jardim, adotta un approccio vicino a quello della semiotica generativa ed esamina l’opposizione tra mascherina chirurgica e niqab, che l’articolo considera una relazione di contrarietà artificialmente costruita dai media occidentali. Il lavoro parte dal livello superficiale dei due artefatti, concentrandosi sulle relazioni visive e plastiche che si creano nell’interazione tra volto e maschera, per passare poi ai meccanismi di tematizzazione e figurativizzazione a livello discorsivo. In questa prospettiva, la mascherina chirurgica e il niqab vengono analizzati come forme di copertura del volto capaci di svelare i meccanismi culturali soggiacenti. Segue il contributo di Gabriele Marino, Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi, dove l’autore analizza l’iconico volto di Adolf Hitler in quanto oggetto culturale unico, il quale, nonostante il tabù che lo accompagna, non ha abbandonato l’immaginario visivo occidentale. Nel saggio l’autore s’interroga sulle ragioni della persistenza di questa icona dell’epoca della riproducibilità tecnica che ha cannibalizzato l’iconografia di un’intera nazione diventando allo stesso tempo universalmente riconosciuta e amaramente disprezzata. L’analisi verte sulle immagini di propaganda finalizzate a rendere Hitler una presenza sempre più atmosferica e astratta e sul baffo come unica costante e “logo” di Hitler. Chiude questa seconda sezione il contributo di Remo Gramigna, Volti senza volto. Dalla damnatio Prefazione 13 memoriae alla cultura della cancellazione, saggio che ha per oggetto la relazione tra segno e vuoto nella produzione di Umberto Eco, il problema della dimenticanza nella semiotica della cultura di Juri Lotman, il tema della memoria in Francis Yates e Paolo Rossi, per poi soffermarsi sulla damnatio memoriae in riferimento agli interstizi del volto e affrontare così il problema dei volti cancellati, silenziati, repressi, ostracizzati, dimenticati, stigmatizzati, sfigurati e marginalizzati. La terza e ultima sezione ha per oggetto il dominio della tecnologia ed evidenzia la dimensione tecno–cronotopica del volto. Il contributo di Valentina Manchia, Ricambiare lo sguardo delle macchine: Dietro gli impliciti della face recognition attraverso le training images, adotta una prospettiva vicina a quella dei Visual Studies e propone il recupero del concetto di operational images che il videoartista Harun Farocki aveva coniato nel 2005 per riferirsi alle immagini prodotte dalle telecamere di sorveglianza. Dopo aver tracciato una breve storia della visione macchinica, l’autrice guarda a quelle esplorazioni artistiche, come ImageNet Roulette (2019) e From “Apple” to “Anomaly (2019), entrambe di Trevor Paglen, le quali aprono un vertiginoso spaccato sulla visione artificiale, non privo di implicazioni culturali, sociali, politiche e non da ultimo semiotiche. Chiude il volume il contributo di Carlos Scolari, The Law of the Interface. Richiamandosi a una vasta serie di discipline e prospettive teoriche, dell’Interaction Design all’Actor–Network Theory (ANT) passando per l’interazione uomo–macchina (HCI), la semiotica e la sociologia, l’autore offre un tentativo di comprensione dell’ecosistema evolutivo delle interfacce. Il testo ripensa il concetto di interfaccia, analizzandolo oltre i paradigmi di iscrizione della tecnologia digitale, e analizzando questo oggetto dal punto di vista di un modello eco–evolutivo mirato a identificare una serie emergente di leggi. La finalità ultima dello studio è quella di proporre un modello di cambiamento tecnologico in dialogo con quello biologico che possa essere applicato alla sfera sociale, politica ed educativa. I CRONOTOPI ESPRESSIVI DEL VOLTO I cronotopi del volto ISBN 979-12-218-0270-2 DOI 10.53136/97912218027022 pp. 17-48 (ottobre 2022) VOLTI DEL NOSTRO TEMPO L’OPPOSIZIONE TRA SELF–MADE WOMEN E VAGABONDE(1) Antonio Santangelo Abstract: This article is on some faces that symbolically represent a particularly meaningful way to make sense of our lives nowadays. Starting from what critics say about the resemblance of the faces of the main characters of the movies La vie d’Adéle — Capitres 1 & 2 and Jeune Femme to ours, a reflection is carried out on the narrative structure of their stories and on how it differs from other ways of telling stories, like for example the one of Chiara Ferragni, the famous influencer, in her biopic movie Chiara Ferragni — Unposted. Even if the latter is a documentary, it is in fact defined by many other critics as a deceptive fairy tale, while the former movies, which are fictitious, are interpreted as a sort of a precise photograph of the reality we live in. To explain these interpretations, a hypothesis is advanced: that La vie d’Adéle — Capitres 1 & 2 and Jeune Femme on one side, and Chiara Ferragni — Unposted on the other, derive from two different cultural models, the one of vagabonds and the one of self made women, that are logically opposed and that interact every time we must tell, today, the meaning of our experience of life. To demonstrate it, such cultural models are described, connecting the movies that represent them with other texts, like sociological essays, travel diaries, journalistic inquiries that — even if talking about different characters and situations — seem to tell the same stories. The research that is presented here is also an occasion to reflect on sociosemiotics and its methods to find out and describe the collective cultural models we recur to, to share a common vision of the world. In particular, it is shown that the narrative structures of La vie d’Adéle — Capitres 1 & 2, Jeune Femme and Chiara Ferragni — Unposted derive in turn from some “amodal” ways of connecting things and concepts, that are, in a sense, the root of our convictions about how reality is nowadays. Keywords Sociosemiotics, amodal systems, narrative theories, reality, vagabonds, self-made women. (1) Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca (CER) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Orizzonte 2020 dell’Unione europea, in virtù della convenzione di sovvenzione n. 819649 (FACETS). 17 18 Antonio Santangelo 1. Volti e modelli culturali del nostro tempo In queste pagine, intendo occuparmi dei volti di alcuni personaggi del cinema e del mondo dello spettacolo, il cui significato simbolico va oltre la funzione che di solito assegniamo ai volti stessi, cioè di consentirci di riconoscere gli individui a cui appartengono. Interrogandomi sul modo in cui vengono rappresentati i protagonisti, ma soprattutto le protagoniste dei film La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 (Francia, 2013), Jeune femme (Francia, 2017) e Chiara Ferragni — Unposted (Italia, 2019), cercherò di mostrare come i loro visi e le loro storie si possano collegare, gettando luce su alcuni modelli culturali di cui ci serviamo oggi, per assegnare un senso alla nostra esperienza della vita quotidiana. Parafrasando Barthes, che nel suo breve saggio sui volti di Greta Garbo e di Audrey Hepburn, aveva inteso descrivere «quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale» (Barthes, 1957[1994]: 64), anche io proverò a riflettere sul periodo che stiamo attraversando e sui discorsi che portiamo avanti, nei film e attorno a essi, per “estrarre” alcuni concetti nuovi, a partire da quelli a cui facevamo ricorso in passato. Proprio perché lavorerò sul viso dei personaggi cinematografici, mi concentrerò, in particolare, sul modo in cui quest’ultimo partecipa alla costruzione della loro identità, ma anche della nostra, quando dimostriamo di riconoscervi qualcosa di significativo. Cercherò di farlo, come ho anticipato, comparando e collegando i volti dei protagonisti delle opere che analizzerò, con la struttura delle loro storie. A questo proposito, la mia tesi è che, mentre un tempo ci immedesimavamo nelle vicende di quelli che potremmo definire come delle sorte di self made men e self made women, che lottano per assumere un ruolo di rilievo dentro al sistema di valori collettivamente accettato dalla loro — e, in fondo, anche dalla nostra — società, pian piano questo genere di “eroi” sono diventati sempre meno significativi, nel cinema come altrove. Questo è dimostrabile, riflettendo sul progressivo affermarsi di altre figure, percepite da molti come più credibili e verosimili. È il caso di quelli che chiamo “vagabondi”, soggetti incapaci di individuare un posto nel mondo e una visione comune delle cose verso cui tendere, pur rimanendo animati dalla generica speranza che, gironzolando senza Volti del nostro tempo 19 tregua, prima o poi approderanno proprio là dove, nel frattempo, si saranno accorti di volere stare. Se si va a vedere come vengono rappresentati i volti di questo genere di individui, nei film che ho citato, ci si accorge che si passa dal riprendere i self made men e le self made women in maniera stabile e nella loro completezza, integrati con lo sfondo su cui si stagliano, con una particolare enfasi sugli occhi e sullo sguardo, a inquadrare i vagabondi con una camera a mano sempre mobile, che li insegue senza riuscire facilmente a mostrarli nella loro interezza, separandoli nettamente dallo sfondo ed enfatizzandone soprattutto gli organi di senso. Questo si è determinato, a mio parere, perché si è andato sempre più affermando, come ho anticipato sopra, un nuovo modo di concepire la costruzione del significato della vita nelle nostre società: non più a partire da una solida cornice di valori che si dà a priori, secondo parametri stabiliti da altri — i genitori, le istituzioni laiche o quelle religiose, i media, i gruppi dominanti —, capaci di indicare un percorso da seguire e un punto di arrivo ben visibile, al termine di una strada irta di difficoltà, ma in fondo già tracciata. Pian piano, si è cominciato a ritenere che il senso sia, piuttosto, qualcosa che deve essere trovato, che si manifesta un po’ per caso e che si riconosce a posteriori, dopo aver provato sulla propria pelle ciò che significa percorrere non solo una, ma tutte le vie che si ritiene di voler esplorare. Questi modelli culturali, che sono dei veri e propri sistemi semiotici, capaci di dettare le regole per la costruzione e l’interpretazione delle narrazioni che facciamo circolare, a proposito di chi siamo e di come stabiliamo il senso di ciò che ci accade, stabiliscono anche il modo in cui concepiamo, rappresentiamo ed interpretiamo i volti. A questo proposito, però, mi preme sottolineare che, anche se le pellicole su cui lavorerò sono quasi tutte il frutto di produzioni internazionali e, dunque, lasciano intuire che certi discorsi e certi visi sono significativi in Italia come in Francia, negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, ho potuto appurare che essi lo sono un po’ di più da noi. Mentre per i critici cinematografici italiani — le cui recensioni, come si vedrà, sono al centro della mia ricerca — i volti e le vicende di Adèle e Paula, le protagoniste vagabonde de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e Jeune Femme, sono quasi unanimemente visti come rappresentativi di quelli di tutti 20 Antonio Santangelo i giovani d’oggi e, allo stesso tempo, il viso e la storia personale di una self made woman di successo come la nota influencer del mondo della moda, Chiara Ferragni, almeno per come sono raccontati in Chiara Ferragni — Unposted, vengono interpretati come artefatti, frutto di una narrazione fiabesca senza alcun contatto con la realtà, all’estero i giudizi dei critici sono più sfumati: qualcuno condivide le stesse interpretazioni che circolano in Italia, ma qualcun altro no, come se la contrapposizione tra il modello culturale di chi ce la fa da sé e riesce a inserirsi dentro a un sistema di valori precostituito e condiviso a priori da tutti, invece di vagabondare alla ricerca di un senso che non trova ma che spera, prima o poi, di afferrare, fosse più significativa nella nostra società. Questo, forse, può far riflettere sulle differenze tra la nostra attuale visione del mondo e quella che circola in altri Paesi. 2. Le matrici dei discorsi su di noi e su come è fatto il mondo Prima di addentrarmi nell’analisi dei volti e delle narrazioni di cui ho scritto, mi pare necessario un breve excursus teorico, per spiegare come è stata strutturata la ricerca di cui mi accingo a illustrare i risultati. L’idea di fondo è che, come ha dimostrato Lévi–Strauss in diverse occasioni, ci sono delle analogie tra le storie che, in una cultura, ci si racconta, per dirsi come è fatto il mondo, che senso hanno le cose che vi si trovano o che vi accadono, e ciò che nella società in cui circolano tali narrazioni si trova e accade realmente (es. Lévi–Strauss, 1964[1998]: 64). A questo proposito, della protagonista de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2, alcuni critici hanno scritto che, «estremizzando Flaubert, Adèle c’est nous», poiché questa giovane donna rappresenta il «problema di fondo della solitudine dell’individuo contemporaneo, della miseria delle proposte di liberazione e di affermazione piena e profonda di sé che quest’epoca mette a disposizione». Di Paula, l’eroina di Jeune femme, altri hanno sostenuto che «è davvero uno dei personaggi femminili più autentici degli ultimi anni», «simboleggia il grido delle nuove generazioni che vogliono rivendicare il loro posto nel mondo […] ritrae alla perfezione i timori e i sogni di una gioventù che, in un mondo senza più certezze, cerca ardentemente uno scopo, una ragione di esistere» ed «è una Volti del nostro tempo 21 matrice sulla quale si potrebbe apporre un volto estratto a caso dal lotto della gioventù europea contemporanea». Come ho sostenuto altrove (Santangelo, 2017: 155–170), il riconoscimento di queste analogie è dovuto al fatto che, dietro ai discorsi, non importa se di finzione o fattuali, ma anche, in generale, dietro al modo di pensare e di agire di chi vive in determinati contesti, operano i medesimi modelli culturali. Tra i modelli culturali che utilizziamo per interpretare il mondo, ce ne sono alcuni che sono capaci di proiettarsi su elementi molto diversi di quest’ultimo, facendoci intuire, per esempio, che c’è qualcosa che accomuna un certo movimento di macchina in un film, o la scelta dell’inquadratura del volto di un attore, al modo di essere o di vivere delle persone al di fuori del film stesso. Oppure, che certe opposizioni tra modi differenti di riprendere il profilmico sono simili ad altre opposizioni, tra cose o individui che si trovano nella realtà quotidiana. Questo accade anche nelle opere che analizzerò, dove, per citare un altro esempio, la capacità di tratteggiare personaggi le cui esperienze ricalcano le nostre è sottolineata, ancora una volta, dai critici cinematografici di Jeune Femme, che apprezzano la scelta della regista, Leonor Serraille, di operare le riprese «centrando la camera sulla protagonista e accentuandone disagio e perplessità tramite jump–cut in serie, sequenze con macchina a mano». Queste soluzioni linguistiche, infatti, sono in grado di riprodurre a un livello che potremmo definire “estetico”, l’idea che l’eroina di questo film somigli a tanti giovani di oggi, perché la sua e le loro storie di vita sono, in fondo, come quelle inquadrature in cui il volto di Paula non si integra con lo sfondo su cui si staglia, deve essere rincorso da una cinepresa che dà origine a immagini imperfette e incomplete, sempre in movimento, montate “saltellando”, senza apparentemente seguire traiettorie e logiche troppo codificate. Secondo Ferraro (2019: 267–284), sensazioni come quella espressa dagli interpreti di Jeune Femme scaturiscono dal fatto che, sia per interpretare la realtà, sia per interpretare i film, ci serviamo di sistemi semiotici “amodali”, che producono significazione, appunto, a prescindere dal loro modo di manifestazione, vale a dire dagli elementi su cui si proiettano. Anche quelli amodali, come gli altri sistemi semiotici, strutturano il nostro modo di vedere le cose (nel senso delle teorie strutturaliste derivanti dagli insegnamenti di Ferdinand de Saussure), ma dotano 22 Antonio Santangelo le cose stesse di un significato — potremmo dire — “secondo”, che ci consente di capire che non ci troviamo, come nel caso dello studio che presento qui, solo di fronte a un’opera di finzione e al volto o alla storia di uno dei suoi personaggi, i quali ci ricordano il viso di una persona vera o un evento della sua vita, ma a qualcosa di più concettuale e simbolico, che influenza il nostro modo di assegnare un senso a tutte queste cose insieme, collegandole tra di loro. Ferraro sostiene che i sistemi semiotici amodali che danno corpo ai modelli culturali di cui sto scrivendo sono descrivibili, tra le altre cose, ricostruendo la matrice narrativa comune dei vari discorsi che portiamo avanti, a proposito di noi e del mondo, poiché quest’ultima determina il modo in cui mettiamo in relazione le cose di cui parliamo. Essa è costituita da un insieme di segni che si ripetono, all’interno delle varie forme testuali che produciamo, venendo collegati da una qualche logica di connessione altrettanto ricorrente, che può essere definita, per l’appunto, “narrativa”. Dunque, se rinveniamo le analogie di cui ho scritto, tra gli elementi che compongono una storia di finzione e una fattuale, questo accade perché essi ci sembrano il frutto della medesima matrice, dato che il loro significato ci appare leggibile servendoci degli stessi segni, incardinati all’interno di una struttura narrativa comune. Tra le strutture narrative di cui ci serviamo per inquadrare il senso di ciò di cui facciamo esperienza e parliamo, sono particolarmente rilevanti, per lo studio dei volti e del loro valore simbolico, quelle su cui si fondano le storie di classe Alfa (Ferraro, 2019: 96–98), che si concentrano su come si determina l’identità dei loro personaggi principali, in funzione del rapporto tra un sistema di valori individuale, detto anche istanza di prospetticità, e un sistema di valori collettivo, detto istanza di destinazione (Ferraro, 2012: 172–174). Il primo dà origine a tutte quelle parti di questo genere di storie in cui si parla del significato che cose ed eventi assumono agli occhi del loro protagonista, sulla base delle sue più intime convinzioni personali. Il secondo, invece, è responsabile del significato che quei medesimi elementi della vicenda narrata acquisiscono, per chi si fa portatore del modo di vedere e di pensare degli altri personaggi che costituiscono la realtà sociale in cui il protagonista stesso opera. Tra queste due istanze, possono sussistere vari tipi di relazione, incentrati sul contratto, la manipolazione, il conflitto, la Volti del nostro tempo 23 mediazione, la disgiunzione totale, eccetera (Ferraro, 2019: 98–100), e questo, come mostrerò con le mie analisi, gioca un ruolo fondamentale, per determinare, appunto, l’identità di chi, all’interno di una storia, sostiene un sistema di valori o un altro, nonché il senso complessivo delle sue vicende. Ciò che è interessante, però, è che le relazioni che si istituiscono tra l’istanza di destinazione e di prospetticità di una narrazione di classe Alfa determinano anche quelle tra gli elementi segnici collegabili a queste ultime, che danno forma alle varie parti della narrazione stessa. Dunque, se un personaggio rappresenta l’istanza di prospetticità in conflitto con quella di destinazione, anche i segni che collegano, per esempio, il suo volto ai suoi valori, rendendo il primo veicolo dei secondi, saranno in conflitto con quelli che mettono in relazione il volto e i valori di chi rappresenta l’istanza stessa di destinazione, ed è soprattutto questa relazione di conflittualità a rendere così simbolici questi visi, nonché i concetti a cui essi rimandano. Nelle pagine che seguono, quindi, cercherò di dimostrare come le logiche su cui si incentrano i rapporti tra l’istanza di prospetticità e l’istanza di destinazione delle storie dei film che analizzerò influenzino direttamente la rappresentazione dei volti dei loro protagonisti e come tutto questo, agli occhi degli interpreti di queste opere, sembri somigliare simbolicamente a ciò di cui facciamo esperienza nella vita quotidiana. Ma c’è di più: poiché il significato di ciò che si trova all’interno di una storia dipende in larga parte dalla struttura narrativa di quest’ultima, e visto che una struttura narrativa è qualcosa che non si può constatare materialmente, essendo solo una logica di collegamento tra gli elementi che costituiscono la storia stessa, spesso accade che, tra i segni che si possono leggere sulla superficie di una narrazione, alcuni rappresentino tale struttura, ancora una volta, per analogia, in modo da fornire a chi la deve riconoscere la possibilità di farne, in un certo senso, esperienza. In pratica, se una vicenda si fonda — poniamo il caso — sulla disgiunzione totale tra la sua istanza di destinazione e quella di prospetticità, allora al suo interno si troveranno diversi segni che rappresentano il concetto di disgiunzione totale tra di esse. Ma, dato che il volto ha notoriamente a che vedere con l’identità di un individuo, e poiché le narrazioni di classe Alfa, mettendo in relazione in una certa maniera le rispettive istanze di destinazione e di prospetticità, parlano 24 Antonio Santangelo proprio di questo, i segni che richiamano, per analogia, la struttura narrativa di tale genere di storie si possono ritrovare proprio nel modo in cui vengono rappresentati i visi dei protagonisti di queste ultime. Un meccanismo semiotico, questo, che può contribuire a gettare ulteriore luce sul perché i volti dei personaggi dei film che prenderò in analisi incarnino simbolicamente, agli occhi dei loro interpreti, le strutture narrative di quelle storie che, in maniera sempre più ricorrente, e in funzione di alcuni importanti modelli culturali che si vanno affermando, cominciano a circolare nella società contemporanea, per determinare il senso della nostra esperienza della vita che vi conduciamo. 3. Storie di vagabonde Tenendo a mente le teorie che ho appena illustrato, posso procedere a descrivere il funzionamento del primo modello culturale di cui intendo parlare, la matrice che dà origine alle storie di vagabonde. Per tratteggiarlo, come ho anticipato, faccio riferimento a La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e Jeune Femme, due film che, pur non citandosi tra di loro, appaiono strettamente collegati, essendo accomunati dal ricorso a segni e strutture narrative simili. Entrambe queste opere, infatti, parlano di giovani donne che cercano di definire la propria identità, trovando un loro posto nel mondo. Queste ragazze provengono da famiglie piccolo borghesi della periferia di due città francesi, Lille e Parigi, e provano l’esperienza di uscire dal contesto in cui sono nate, intavolando relazioni con artisti appartenenti all’alta borghesia: Paula, in Jeune Femme, si innamora di Joachim, un affermato fotografo molto più grande di lei, mentre Adèle si invaghisce di Emma, una pittrice, ancora una volta, un po’ più matura, che studia all’accademia di belle arti. Entrambe, però, vengono violentemente espulse dalla vita dei rispettivi amanti: Jeune Femme comincia proprio così, con la porta dell’appartamento di Joachim chiusa in faccia a Paula e lei che urla e sbatte la testa contro questa barriera per farsi riaprire, procurandosi una ferita alla fronte. La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2, invece, arriva progressivamente a questa situazione, dopo che la protagonista, andata a convivere con Emma, tradisce quest’ultima con un collega e, scoperta, viene mandata via. Volti del nostro tempo 25 Le analogie tra le due pellicole continuano. Paula comincia a vagabondare da un contesto sociale all’altro, in cerca di un posto dove stabilirsi. Trova due lavori, come baby sitter della figlia di una donna benestante, che le dà anche da dormire nella soffitta della sua bella casa nel centro di Parigi, e come commessa in un centro commerciale, dove conosce Ousmane, una guardia giurata di colore, separato e con un figlio, col quale intavola una fugace relazione. Ma Paula sembra invaghirsi anche di Yuki, una ragazza conosciuta per caso nel metrò, con la quale esplora il mondo dei locali notturni. Prova a farsi ospitare dagli amici ricchi di Joachim. Accetta addirittura di rivedere il suo ex amante, quando lui, tornando sui suoi passi, la va a cercare. Infine, incontra anche sua madre, con cui ha rapporti burrascosi e che vorrebbe trattenerla con sé, ma lei fugge con decisione. Adèle, dal canto suo, non è meno ondivaga. Nel primo “capitolo” della sua esistenza — il film che la racconta, la ritrae da adolescente e poi da adulta — accetta la corte di Thomas, un suo compagno di scuola, tanto desiderato dalle sue amiche. I due, che hanno gusti e stili di vita simili, fanno anche l’amore, ma la scintilla non scocca, almeno da parte di Adèle, che capisce di sentirsi attratta dalle donne e, in particolare, da Emma, la pittrice anticonformista coi capelli blu, che le sembra incarnare gli ideali di bellezza e libertà di cui legge nei romanzi dei suoi corsi di letteratura o nei suoi libri di filosofia. Ma, dopo essersi lasciata andare alla passione e trasferitasi dalla sua compagna, in un contesto sociale molto diverso da quello da cui proviene, non si sente compresa, né valorizzata, se non come oggetto dell’espressione artistica della stessa Emma. Le due, animate da orizzonti esistenziali inconciliabili, si allontanano, fino al succitato tradimento, perpetrato da Adèle ancora con un uomo, che, per un istante, sente più vicino, perché appartiene al mondo che lei si è scelta per inclinazione, quello dell’insegnamento ai bambini. Solo che, scoperta e allontanata, la stessa Adèle sente di voler tornare a tutti i costi con la sua ex amante. Una speranza che, purtroppo, si rivela vana, visto che Emma si rifà una vita con un’altra donna, ben inserita, come lei, nel mondo dell’arte. Sia Adèle, sia Paula, dunque, “vagabondano” tra un’esperienza di vita e un’altra, accettando e trasgredendo regole e cliché, in cerca di una propria identità, che però non trovano. A questo proposito, entrambi 26 Antonio Santangelo i film finiscono con le protagoniste che, dopo l’ennesima esperienza forte e significativa, dolorosa ma non risolutiva — per Paula, la scelta di abortire da sola in ospedale, rinunciando al figlio concepito con Ousmane, per Adèle la partecipazione al primo trionfale vernissage di Emma, nel quale constata di essere ormai per lei un ricordo passato, perpetuato nei dipinti che la raffigurano, appesi alle pareti — camminano per strada pensierose, da sole, attraversando luoghi anonimi, a cui non appartengono. Istanza di destinazione 1 Istanza di destinazione 2 Istanza di destinazione N Istanza di prospetticità Figura 1. La struttura narrativa dei due film. La struttura narrativa dei due film è quella della figura 1. L’istanza di prospetticità, rappresentata dalle due protagoniste e dal loro desiderio di libertà, che le spinge a cercare sé stesse a prescindere da qualunque luogo comune, si scontra con l’istanza di destinazione, rappresentata, invece, dalle regole sociali che informano di sé i vari mondi con cui le giovani si confrontano e che le vorrebbero definire, dicendo loro chi dovrebbero essere. Emma comunica esplicitamente ad Adèle cosa dovrebbe fare per piacerle: quando quest’ultima le confida che il suo sogno è di fare la maestra, l’altra la esorta, piuttosto, a diventare scrittrice. Il fatto che la dipinga nelle sue opere, le consente inoltre di esplicitare ciò che di bello vede in lei e, soprattutto, di condividerlo con tutti quelli che guardano i suoi quadri, racchiudendo in qualche modo in un’immagine, “socializzata” in un contesto ben preciso, solo quei tratti di Adèle che le appaiono interessanti, a prescindere da ciò che Volti del nostro tempo 27 quest’ultima pensa di sé e desidera mostrare pubblicamente. Queste esperienze vengono vissute anche da Paula, visto che anche lei viene “definita” dalle foto di successo di Joachim e che il suo compagno la espelle dalla propria vita, ancora una volta, perché la giudica inadatta a lui, che ha un lavoro di prestigio (lei, invece, all’inizio del film, è disoccupata ed è reduce da un viaggio all’estero, alla ricerca di sé stessa) e degli obiettivi esistenziali chiari. Ma Adèle e Paula, al contrario dei loro amanti, non sanno chi sono e vorrebbero semplicemente sperimentarsi per capirlo. Solo che, ben presto, si rendono conto che questo è complicato, se anche l’amore è regolato dai valori che discendono dall’istanza di destinazione dei contesti sociali a cui appartengono le persone di cui esse si invaghiscono e, non appena se ne allontanano, per provare altro, vengono brutalmente messe alla porta. Purtroppo, però, le due ragazze non riescono ad aderire a nessuno dei modelli in cui si imbattono, perché all’interno dei loro confini faticano a riconoscere la propria identità. Così, finiscono per “vagabondare” tra un’istanza di destinazione e un’altra (questo è il significato delle diverse frecce della figura 1), ma le dinamiche del confronto con le persone e con gli ambienti che rappresentano tali istanze — tra cui ci sono anche i loro genitori, i datori e i colleghi di lavoro, i compagni di scuola, gli amici, che a loro volta le vorrebbero definire e che le giudicano — sono sempre le stesse: Adèle e Paula rimangono tagliate fuori (questo, invece, è il significato della linea orizzontale della figura 1), senza mai “trovare casa” definitivamente. Questa struttura narrativa viene perfettamente riconosciuta dai critici cinematografici italiani, autori delle recensioni dei due film, che la ritengono determinante, per la sua capacità di dire com’è la vita dei giovani d’oggi. Della protagonista di Jeune Femme, per esempio, qualcuno scrive che, «indecisa sui propri mezzi, sui propri affetti, sulle proprie ambizioni, Paula è lo specchio di una generazione che non si identifica più con gli ideali e le aspirazioni borghesi del secondo Novecento […], eppure è troppo debole per proporre un modello alternativo». Il suo vagabondare tra una istanza di destinazione e un’altra, alla ricerca della propria identità, viene ricondotto all’estetica della flanerie, tante volte utilizzata dai registi della nouvelle vague francese, ma qualcuno fa giustamente notare che «rispetto ai film dei giovani turchi, quello della 28 Antonio Santangelo Seraille è figlio di una sceneggiatura più scritta e meno libera, come pure di una visione del mondo in cui lo smarrimento della protagonista e il suo perdersi nel non sense del quotidiano non è una dichiarazione d’anarchia nei confronti delle regole quanto un modo per rientrare a farvi parte». Paula, in effetti, non vagabonda perché è anticonformista, ma solo perché non sa capire, a priori, quale debba essere il principio di destinazione che stabilisce i valori di quella parte di società nella quale desidera vivere. Così, tenta di percorrere diverse strade, che però non la portano mai dove vorrebbe veramente arrivare: «per tutto il film, non consegna mai il suo personaggio a un modello riconoscibile o calcolatamente amabile, rimanendo carattere costantemente cangiante, metamorfico, inafferrabile, in transizione a ogni livello». Ella finisce per dimostrare tutta la sua inadeguatezza nei confronti delle aspettative delle persone che incontra, un’inadeguatezza che, però, «è portatrice in realtà di un’adeguatezza d’altro segno. Quella dell’apertura agli altri, grande rimosso di questi tempi cupi e meccanici». Le stesse tematiche vengono identificate e ritenute significative dai critici de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2, a conferma del fatto che la storia raccontata dal regista, Abdellatif Kechiche, essendo il frutto del medesimo modello culturale, appare sovrapponibile a quella narrata da Serraille in Jeune Femme. Molti, infatti, sottolineano la grande apertura di Adèle, il suo desiderio di sperimentare la vita senza pregiudizi. Ma mettono in evidenza la natura castrante, per molti versi iniqua, di quei meccanismi sociali che provocano sofferenze ai giovani d’oggi: chi, come la stessa Adèle, cerca la propria strada liberamente, al di fuori del contesto socio–culturale da cui proviene, va incontro allo scacco esistenziale, trovandosi a “vagabondare” tra porzioni di mondo molto diverse tra di loro, nelle quali non è possibile stabilirsi definitivamente. A questo proposito, qualcuno sottolinea come la ragazza non compia «una traiettoria evolutiva tradizionale, che prevede una serie di cambiamenti nella visione del mondo fino al conclusivo raggiungimento di una certa maturità ed equilibrio emotivo». Se così fosse, ella troverebbe, alla fine del film, una propria identità. Invece, come ho anticipato, Adèle finisce con lo sperimentare il problema di fondo della solitudine dell’individuo contemporaneo, la miseria delle proposte di liberazione e di affermazione piena e profonda Volti del nostro tempo 29 di sé che quest’epoca mette a disposizione», come avviene sempre nel cinema di Kechiche, tutto incentrato sulle «classi sociali come regolatrici di un ordine difficilmente negoziabile; […] e sulle tranches de vie […] intese mai come semplici sezioni del quotidiano, ma piuttosto come segmenti emblematici di percorsi formativi che non producono evoluzioni. 4. Volti da vagabonde Come ho anticipato nel secondo paragrafo di questo lavoro, la struttura narrativa de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e di Jeune Femme viene rappresentata per analogia da un insieme di segni che vengono utilizzati diverse volte, nel corso dei due film, dando forma anche ai volti delle protagoniste. Per esempio, poiché il fatto di non individuare a priori una istanza di destinazione che indichi loro una precisa direzione esistenziale, pone l’accento sulla necessità, da parte di Adéle e Paula, di trovare una strada a posteriori, la rappresentazione delle due ragazze si caratterizza per l’enfasi che viene posta sui dettagli dei loro organi di senso. Esse, infatti, si muovono a tentoni, provando con il proprio corpo, prima ancora che con la propria progettualità razionale, le conseguenze di ciò che significa vivere nei vari contesti sociali con cui si confrontano. Figura 2. Segni che enfatizzano le sensazioni provate dai personaggi. 30 Antonio Santangelo Tutti gli interpreti delle due opere in questione sottolineano l’importanza simbolica di questa enfasi posta sulle sensazioni corporee di Adèle e Paula. Qualcuno mette in evidenza che Adèle «legge il mondo solo attraverso il proprio corpo, reso strumento di esplorazione dell’esperienza fenomenica», poiché per lei «l’esistenza viene prima dell’essenza; ovvero, l’esperienza non è resa comprensibile da una pregressa definizione del sé, ma al contrario la soggettività è determinata dalla molteplicità delle esperienze stesse». Ma anche Paula è un personaggio che «finalmente vede e percepisce il mondo con gli occhi e il corpo di una donna, una donna vera, che non ha paura di essere ciò che si sente di essere». In particolare, poiché il volto è forse il principale terminale sensoriale del corpo umano, tutti i critici de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e di Jeune Femme riconoscono che la rappresentazione dei visi delle protagoniste è fondamentale. Adèle «è costantemente filmata con i primi piani o i dettagli che esaltano la sua fisicità straripante, i suoi liquidi umorali, dalle lacrime al muco, il senso di una calda e profonda istintualità». «È vorace, come suggerisce il costante ritorno di Kechiche alle sue labbra riprese mentre dorme, mangia: labbra protese, avide, quasi distinte dal resto del corpo, come vivessero di vita propria e trascinassero la protagonista in avanti contro la sua volontà». Ma Figura 3. Le locandine dei due film. Volti del nostro tempo 31 anche Paula «fatica a restare dentro l’inquadratura, per l’incapacità di quest’ultima di contenerne la debordante fisicità. Prima di affondare la macchina da presa dentro la storia della ragazza […] la regista Léonor Séraille si mantiene sulla superficie degli eventi e sul corpo ferito e insofferente dell’attrice Laetitia Dosch», di cui, in particolare, mette in risalto gli occhi di due colori diversi, «“occhi bipolari”, specchio di un’anima altrettanto bipolare e inquieta». Come si può vedere anche nelle locandine dei due film, riportate nella figura 3, gli organi sensoriali dei volti di Adèle e Paula, in particolare la bocca della prima e gli occhi e la pelle escoriata della fronte della seconda, sono fondamentali, per comunicare simbolicamente il significato delle storie delle due ragazze. Queste ultime, infatti, entrano in relazione con una realtà materiale che funziona secondo i valori delle istanze di destinazione rappresentate dai luoghi, dalle persone, finanche dai cibi che vi si trovano. Adèle, all’inizio dell’opera di Kechiche, viene mostrata mentre gusta la “semplice” pasta al sugo cucinata da suo padre, coi dettagli dei denti che masticano voracemente e del mento che si sporca, per la troppa foga. Ma quando va a trovare i genitori più altolocati di Emma, viene rappresentata mentre assaggia le ostriche, un piatto notoriamente più “raffinato”, che lei assapora con una certa titubanza. Quando fa l’amore con la giovane pittrice, ne scandaglia voluttuosamente il corpo soprattutto con la bocca e, sempre con la bocca, quando la tradisce e viene esclusa dalla sua vita, sente il sapore amaro delle proprie lacrime e del muco che le cola giù dal naso: se Paula, quando viene allontanata da Joachim, si ferisce alla testa, Adèle rimane ferita nell’animo. Diventa chiaro, allora, che c’è un’opposizione, nelle due pellicole, tra le labbra e la pelle delle protagoniste da una parte, e gli occhi dall’altra. Le prime rappresentano il senso, anche nella sua accezione, per l’appunto, sensoriale, che viene trovato a posteriori, collegando queste due componenti dei volti di Adèle e Paula alla loro istanza di prospetticità. Un’istanza a cui è associata, paradossalmente, una sorta di mancanza di prospettiva, un’incapacità di guardare lontano, al di là dell’orizzonte limitato del qui e ora. Gli occhi, invece, rinviano alle varie istanze di destinazione che si trovano nel mondo in cui vivono le ragazze. Sono sguardi su quest’ultimo, istituzionalizzati e definiti a priori, capaci di indicare una direzione. Come quelli di Emma e Joachim, che 32 Antonio Santangelo non a caso fanno arte osservando e definendo la realtà dal loro punto di vista che è già “di successo” o che presto lo sarà, perché sanno che è condiviso con tutti quelli con cui fanno società. Ma Adèle e Paula, più o meno metaforicamente, hanno occhi cangianti, che non le portano a vedere le cose come chi ha l’iride di un colore solo. Loro sono diverse (si noti, a questo proposito, anche la differenza tra gli occhi di Adèle e quelli di Emma, nella locandina de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2). In quanto “vagabonde”, non guardano al mondo da una prospettiva sola, ma provano a immedesimarsi nel punto di vista di diverse istanze di destinazione. Un tentativo, questo, sicuramente pieno di stimoli sensoriali dal sapore forte, ma caratterizzato anche dal rischio concreto di “sbattere la testa” e di farsi male. Come è evidente, dunque, i segni che rendono pertinenti le caratteristiche sensoriali dei volti e dei corpi delle protagoniste dei due film, stanno per qualcos’altro. Essi assumono un significato secondo, simbolico, chiaramente collegato alla struttura narrativa della storia che contribuiscono a raccontare e, in particolare, al rapporto che, all’interno della storia stessa, si istituisce tra l’istanza di prospetticità e l’istanza di destinazione. Questo è quanto accade anche per i segni che enfatizzano il movimento, sia quello di Adèle e Paula tra un contesto sociale e l’altro, sia quello della macchina da presa, rigorosamente a mano, che le riprende, in tutte le sequenze finalizzate a far immedesimare lo spettatore nel loro punto di vista di “vagabonde”. Anche a questi segni viene riconosciuto un valore centrale, per comunicare il significato più profondo del discorso portato avanti dai registi dei due film. A questo proposito, ho già avuto modo di scrivere, all’inizio di questo lavoro, di quanto i critici di Jeune Femme apprezzino la perizia di Serraille nell’utilizzo della camera a mano. Ma lo stesso viene sottolineato nelle recensioni de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2, evidenziando che «la macchina, raramente piazzata lontana dal volto dei personaggi, è un sismografo dalla sensibilità icastica e immediata; ogni cambiamento di umore è rilevato in tempo reale». La perizia che viene riconosciuta a Kechiche è di saper documentare sempre la manifestazione del “senso”, nell’istante esatto in cui, provandolo con il proprio corpo e con gli organi del proprio viso, esso viene individuato con consapevolezza dalla protagonista della sua pellicola. Volti del nostro tempo 33 Strettamente collegati a questi segni, sono quelli che comunicano una sensazione di incompletezza, sia della vita di Adèle e Paula, sia delle immagini che la rappresentano. La camera a mano, infatti, puntata più sui dettagli dei volti delle due ragazze che sull’insieme, rende difficile la costruzione di inquadrature complete e bilanciate, stabili e armoniche. Del resto, poiché completezza, bilanciamento, stabilità e armonia non fanno parte dell’esistenza delle protagoniste dei due film, questi concetti non vengono ricercati nemmeno a livello visivo, per raccontare le loro storie. Se Adèle e Paula riuscissero a integrare la loro istanza di prospetticità con una delle istanze di destinazione del mondo in cui vivono, se la loro identità si lasciasse, per l’appunto, “inquadrare” all’interno delle logiche e dei valori di una di tali istanze di destinazione, allora il modo di filmare le due giovani e, più in generale, di narrarle, sarebbe diverso. Ma Serraille, intervistata sul messaggio di fondo del suo film, si domanda: «che cosa significa essere una giovane donna? Spesso veniamo invitate a corrispondere ad un determinato schema, a un’identità, a una definizione. “Giovane donna” dovrebbe essere un’espressione libera, volutamente indefinita». E, del resto, La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 si intitola così proprio perché Kechiche non intende raccontare per intero la vita della sua eroina, che preferisce lasciare nell’incompiutezza, nel bel mezzo del suo vagabondaggio. Un po’ come accade nell’opera, a sua volta incompiuta, La vie de Marrianne (Marivaux, 1731), uno dei libri che Adèle studia a scuola, traendone ispirazione per la sua ricerca esistenziale. Figura 4. Segni che enfatizzano la separazione dei personaggi dal contesto in cui vivono. 34 Antonio Santangelo Infine, nelle due opere che sto analizzando, sono fondamentali i segni che comunicano separazione. Gli autori delle recensioni de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 sottolineano l’importanza dell’enfasi posta dal regista sui piani molto stretti della protagonista del suo film, che mantengono, per l’appunto, separata la figura di quest’ultima dal contesto in cui vive. Così si esprime, per esempio, chi ritiene esaltante la perizia di Kechiche «nel rapprendere i dettagli dei volti e dei corpi, nel soffermarsi sui primissimi piani, per poi allargare le inquadrature anche ad altro, laddove è strettamente necessario, solo quando gli altri divengono attrazione per lo sguardo di Adèle», poiché «non esiste nulla oltre a ciò che la giovane conosce ed esperisce»: «entrano nel campo visivo più luce, più particolari, ma si sfocano anche le cose sullo sfondo». A loro volta, i commentatori di Jeune Femme sottolineano come Paula «sia ripresa quasi sempre da sola», per enfatizzare la sua difficoltà a integrarsi col contesto che la circonda. Come si può osservare nella figura 4, anche in questi casi, le immagini che raffigurano i volti e i corpi delle protagoniste dei due film, così nettamente separati da quelli degli altri personaggi che popolano il loro mondo, nonché dagli spazi che questi ultimi occupano, non fanno altro che rappresentare simbolicamente, per analogia, la separazione tra l’istanza di prospetticità e l’istanza di destinazione, attorno a cui sono strutturate le loro storie. 5. La storia di una self made woman Il modello culturale che fa da matrice alle storie di vagabonde e alla rappresentazione dei loro volti si contrappone nettamente a quello delle storie dei self made men e delle self made women. Per dimostrarlo, basta osservare come è costruito Chiara Ferragni — Unposted, di Elisa Amoruso. Qui viene mostrato che Chiara, fin da bambina, ha sempre avuto un unico desiderio: seguire la strada della madre, nota professionista del mondo della moda, per affermarsi a sua volta in questo contesto. Dunque, l’istanza di prospetticità, rappresentata dai valori e dalle convinzioni individuali della protagonista di questo film, si inquadra perfettamente all’interno dell’istanza di destinazione con cui ella si confronta, che costituisce, per lei, un orizzonte esistenziale valido a priori, capace di riempire di senso Volti del nostro tempo 35 Istanza di destinazione Istanza di prospetticità Figura 5. La struttura della storia di una self made woman e le immagini che la rappresentano. ogni sua scelta di vita. La sua identità dipende, allora, dalla capacità di rompere la barriera di cui ho scritto, descrivendo la struttura narrativa delle storie di vagabonde: la “giovane donna” raccontata da Amoruso, così diversa da quelle delle opere di Kechiche e Serraille, deve riuscire a guadagnarsi un ruolo di rilievo nella società dei professionisti che condividono le sue stesse passioni. Qui, ottiene cittadinanza grazie al suo talento e alla sua dedizione, spinta innanzitutto dai suoi fan sui social network, i primi a riconoscere le sue qualità. Grazie al loro supporto, Chiara percorre il suo cursus honorum: dai primi passi come fashion blogger, fino al raggiungimento della fama, con i numerosi attestati di stima ricevuti dai più grandi stilisti, dai manager delle più note griffe, da modelle e giornalisti specializzati, ma anche con la fondazione di un proprio marchio di vestiti e accessori, il matrimonio con il noto cantante e showman Fedez, la nascita del figlio Leone e il trasferimento di tutta la sua famiglia a Los Angeles, dove frequenta le più grandi stelle del jet set internazionale. Nella figura 5, si possono osservare la struttura narrativa della storia raccontata in Chiara Ferragni — Unposted e alcune delle tante immagini che, all’interno del film, la rappresentano per analogia. Come è naturale, visto che si tratta del riconoscimento dell’identità di una giovane “outsider” all’interno del mondo della moda, un ruolo preminente è giocato dal volto di quest’ultima, “inquadrato” dentro agli spazi più rappresentativi di questo contesto, dalle copertine delle riviste patinate alle boutique, dalle passerelle alle sedi delle aziende più importanti. Ma della rappresentazione del viso di Chiara parlerò dopo. Qui, piuttosto, è interessante sottolineare che il racconto della sua vita accomuna le vicende della nota influencer a quelle degli eroi delle fiabe di magia russe analizzate da Propp (1928), che non a caso Ferraro, nel suo libro sulle teorie della narrazione (Ferraro, 2015: 75–85), definisce, per l’appunto, come dei “self made men”. Essi, infatti, come ha sostenuto, 36 Antonio Santangelo del resto, lo stesso Propp, in una sua opera successiva (Propp, 1946), ricordano le figure di quei giovani che, desiderosi di mostrare di essere degni di riprodurre il sistema di valori istituito dall’istanza di destinazione del contesto sociale nel quale aspirano a inserirsi, si sottopongono a una sorta di rito di iniziazione, affrontando delle dure prove individuali e perseguendo, così, una qualche forma di riconoscimento collettivo, soprattutto da parte di chi già si trova in una posizione di rilievo, all’interno di quella società. Come è risaputo, questa matrice narrativa è stata ripresa da una certa manualistica hollywoodiana (soprattutto in Vogler, 1992, che riprende gli studi sui miti di Joseph Campbell), al fine di indicare agli sceneggiatori dei film americani la strada per costruire storie di successo, dotate di un forte significato simbolico per gli spettatori di tutto il mondo (Santangelo, 2013). Del resto, guardare film su personaggi come quelli delle fiabe, che partono poveri e diventano ricchi, cominciano il loro percorso al di fuori di un certo sistema sociale e finiscono, con merito, al centro di quest’ultimo, per molti può risultare edificante. Tutto questo, infatti, incarna il “sogno americano”, ma, in fondo, rappresenta il desiderio di affermazione di chiunque creda di poter trovare sé stesso aderendo ai valori condivisi da chi appartiene a quella fetta della società in cui aspira a vivere. In questo senso, dunque, Chiara Ferragni — Unposted si inserisce in una tradizione narrativa antica. In effetti, leggendo le recensioni di questo film, questa matrice e il modello culturale di cui essa è portatrice vengono riconosciuti da tutti. Eppure, soprattutto nel contesto italiano, la scelta di farvi ricorso, per raccontare la storia di una persona vera, in cui tanti giovani si immedesimano, viene fortemente criticata, con ragionamenti come quello che segue: se parliamo di affermazione e realizzazione personale […] il film chiarisce certamente un punto, ovvero che l’idea che chiunque, con impegno e determinazione, possa realizzare i propri sogni, è ancora un concetto molto pervasivo. Ma soprattutto: una narrativa che garantisce incassi multimilionari […] Il vero nodo dove il film si rivela artificiale è […] il messaggio alla base di quest’impero. Potete farcela da sole. Non avete bisogno di nessuno. Credete nei vostri sogni e tutto può accadere […] E dire che il documentario mostra Chiara fin da bambina, filmata e fotografata dalla splendida madre, che proveniva proprio dal mondo della moda. Volti del nostro tempo 37 Vedremo una famiglia ricca e felice […] Vedremo soprattutto uno stuolo di collaboratori onnipresenti, amichevoli e solerti, pronti perfino ad allacciarle le scarpe […] Farcela da sole? È certo nobile combattere per l’idea che le donne possano essere completamente autonome e indipendenti ma forse, chi ha vissuto solo una dimensione tanto privilegiata, non dovrebbe speculare su certe illusioni pericolose […] la macchina dei sogni, dopo aver visto il film, sembra sempre più una fabbrica mortale, pronta a generare incessantemente frustrazione e tristezza. In realtà, c’è anche chi si dimostra entusiasta di vedere finalmente, sul grande schermo, la storia di una ragazza come tante, che riesce a realizzare i suoi sogni, come scrive chi magnifica Chiara Ferragni — Unposted, che gli appare «quasi un miracolo, prezioso nell’entrare in una realtà a noi lontana, per mostrare il valore unico di una imprenditrice, blogger, modella e designer cha ha rivoluzionato il mondo della moda, superando le barriere all’entrata di un settore chiuso e snob, scomodo perché mostra il volto e l’impatto di una vera influencer». Ma entrambi questi tipi di interpretazioni — di cui i fautori della seconda polemizzano apertamente con quelli della prima, scrivendo che «le recensioni negative della critica sono […] abbastanza indirizzate negativamente a causa di una scarsa comprensione del fenomeno» — si possono capire a fondo, solo se le si confronta con quelle sulle storie Visione Integrazione Completezza Figura 6. I segni che rappresentano simbolicamente la struttura narrativa del film. 38 Antonio Santangelo di vagabonde, di cui ho scritto nei paragrafi precedenti. Infatti, per chi ritiene che il modello culturale e la matrice di storie come quelle de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e di Jeune Femme descrivano con precisione il modo di essere della realtà contemporanea, nonché la condizione dei giovani d’oggi, il richiamo al sogno americano realizzato dalla famosa fashion blogger italiana non può che apparire “finto”, figlio di un immaginario fiabesco, buono solo per il successo internazionale al botteghino e per generare falsi miti, da parte di un cinema ormai incapace di dire davvero come va il mondo. Dunque, anche chi ritiene che Chiara Ferragni — Unposted rappresenti una ventata di novità genuina, sa di doversi confrontare con il modello culturale opposto, che è quello condiviso dalla maggior parte dei critici italiani. 6. Il volto di una self made woman Poiché la matrice narrativa di Chiara Ferragni — Unposted si contrappone a quella de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e di Jeune Femme, lo stesso avviene per i segni che, all’interno del film di Amoruso, rappresentano per analogia la struttura della storia che vi viene raccontata. Questi segni, come nelle opere di Kechiche e di Serraille, a loro volta, vengono utilizzati anche per costruire l’immagine del volto di Chiara Ferragni. Innanzitutto, come si può osservare già nella figura 5, e come si vede anche nella figura 6, la figura e il viso della famosa influencer non vengono quasi mai separati dallo sfondo del contesto sociale in cui ella si aggira, perché è importante mostrare la sua integrazione con quest’ultimo e con tutte le persone che lo popolano. Inoltre, la cinepresa che la riprende è raramente mobile, ma è fissa, su un cavalletto, a significare anche la stabilità della condizione della protagonista del film, che è arrivata dove vuole essere, si lascia osservare e consente al pubblico di curiosare nel suo mondo, spiegando, nel frattempo, come ha fatto a entrarvi. Solo in alcuni casi, nelle immagini di repertorio, riprese da sua madre con la cinepresa amatoriale, quando Chiara era piccola, ritroviamo l’estetica della camera a mano de La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e di Jeune Femme: significativamente, nelle scene che raccontano di quando la protagonista del film di Amoruso non era ancora famosa Volti del nostro tempo 39 e chi la osservava, un po’ come Kechiche e Serraille con Adèle e Paula, cercava di capire quale sarebbe stata, in futuro, la sua identità. Ma, proprio perché Chiara ha ormai trovato sé stessa, la regista che racconta la sua storia sceglie di parlare della completezza di lei come persona e della sua esistenza, confezionando riprese armoniche e bilanciate, perfettamente in linea con il bilanciamento e l’armonia dell’eroina della sua pellicola, magicamente capace di tenere insieme tutto, dal successo alla famiglia, dall’orgoglio della sua italianità all’internazionalità della sua fama, dall’amicizia verso i suoi dipendenti alla facoltà di dirigerli come una grande manager. Soprattutto, però, invece di parlare, come ne La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e in Jeune Femme, di sensazioni corporali, di bocche e di epidermidi che cercano senso nel qui e ora, Amoruso si concentra sulla capacità di visione di Chiara Ferragni, sui suoi splendidi occhi azzurri che sanno guardare lontano e sul logo della sua griffe, che non a caso è rappresentato a sua volta da un occhio come il suo. Sono questi occhi, incastonati in un viso sereno e soddisfatto, inquadrati con compostezza e precisione, sullo sfondo dello scintillante mondo della moda, a rappresentare simbolicamente la struttura narrativa del modello culturale da cui deriva Chiara Ferragni — Unposted. Anche in questo film ci sono, in effetti, segni che si concentrano sulle sensazioni corporee e sulla pelle della protagonista, che all’inizio del racconto delle sue vicende vuole farsi un tatuaggio, per ricordare per sempre il momento felice che sta attraversando, e alla fine si siede in riva al mare, gustandosi la piacevole brezza della spiaggia californiana, vicino al luogo in cui ha preso casa. Ma proprio in quest’ultima sequenza, nella quale Chiara scruta l’orizzonte, immaginando come sarà il futuro, si comprende la differenza, rispetto al racconto della vita di Adéle e Paula. Ci troviamo, infatti, alla fine di un percorso di realizzazione personale di cui la stessa Chiara si gode i risultati, che le restano impressi nel corpo e nell’anima, rendendola fiduciosa in ciò che verrà. Nelle opere di Kechiche e Serraille, siamo piuttosto in mezzo al guado, nel pieno del vagabondaggio di due giovani donne più o meno della stessa età della protagonista del film di Amoruso, che legittimamente potrebbero aspirare a essere, a loro volta, delle self made women, ma sono ancora in cerca di sé stesse e di un posto nel mondo. Ciò che manca loro, appunto, è una visione, capace di 40 Antonio Santangelo tenere insieme la loro istanza di prospetticità e l’istanza di destinazione che regola i contesti sociali in cui tentano di integrarsi. 7. Il modello dell’occhio e quello della lingua Come ho sostenuto nel secondo paragrafo di questo lavoro, ci sono dei modelli culturali, caratterizzati da precise matrici narrative e da un insieme di segni incardinati al loro interno, che accomunano i discorsi che circolano nelle nostre società, riguardo a come è fatto il mondo, al senso della nostra esperienza al suo interno e a chi siamo noi che vi viviamo. Questi modelli culturali significano per differenza rispetto ad altri e funzionano secondo delle logiche che ho definito “amodali”, vale a dire mettendo in una certa relazione alcuni concetti astratti e facendoci vedere che questa stessa relazione determina il significato di tante cose, molto più “tangibili”, collegabili a questi medesimi concetti. A questo proposito, mi sembra evidente che l’opposizione tra le vicende e i visi delle vagabonde e quelli delle self made women sia particolarmente significativa, nella nostra società, come se ci fosse un codice di lettura della realtà che, allo stesso tempo, oppone i modelli narrativi che ho descritto nelle figure 1 e 5, ma anche la visione al gusto, la stabilità al movimento, la completezza all’incompletezza, l’integrazione alla separazione dal contesto sociale in cui si vive, come cerco di riassumere nella figura 7. Istanza di destinazione 1 Istanza di destinazione 2 Istanza di destinazione N Istanza di destinazione VS Istanza di prospetticità Istanza di prospetticità Sensazione, Movimento, Separazione, Incompletezza VS Visione, Stabilità, Integrazione, Completezza Figura 7. Sistemi semiotici amodali e relazioni tra diversi aspetti della realtà. Volti del nostro tempo 41 In quest’ottica, soprattutto per quanto riguarda lo studio dei volti e del loro significato simbolico, trovo che sia interessante citare le ricerche di Gobbi e Morace, due autorevoli osservatori dei cambiamenti dei modelli culturali che determinano il senso complessivo delle nostre esperienze di vita nelle nostre società, che essi studiano per intercettare le nuove tendenze nell’ambito del consumo. Questi autori sostengono che viviamo in un’epoca in cui è entrata in crisi la logica che ha caratterizzato, negli ultimi vent’anni, la storia del nostro modo di consumare, fondata «sull’occhio e sulla moda, sull’immagine e sulla pura sensibilità visiva. In questo modello imperava lo status personale […] espresso attraverso un paesaggio di oggetti e prodotti che rimanevano all’esterno della nostra esperienza tattile, corporea, cinestesica, senza entrare mai in contatto con l’epidermide, con la pelle, con le mani» (Gobbi e Morace, 2007: 84–85). In passato, vivevamo in una “economia dell’occhio e della vista”, simboleggiata dalla passione per i vestiti e gli accessori di abbigliamento, ma in generale dagli status symbol, le immagini mediatiche, il racconto di qualcuno che era arrivato là dove voleva essere e che, per questo, desiderava essere ammirato, “sanzionato” positivamente perché si portava addosso i segni del proprio successo. Quella contemporanea, invece, è una “economia della mano e della lingua”, rappresentata simbolicamente dalla passione per il cibo. Essa è legata all’esperienza sensoriale nel suo farsi: «il pensiero discende dell’esperienza personale […] il reale diventa un unico, immenso, permanente gelato […] la lingua rimanda direttamente anche ad altre esperienze […] prima di tutto, all’esperienza della conversazione, della parola, del dialogo […] e poi, in modo ancora più profondo, ad un’esperienza erotica con la realtà, in cui ciò che ci piace vale la pena di essere leccato e assaporato» (Gobbi e Morace, ibidem). Come si vede, molti di questi concetti sono comuni alle analisi che ho condotto sin qui, come se il consumo di un film come Chiara Ferragni — Unposted si addicesse di più a chi predilige il modello dell’occhio, mentre l’apprezzamento di opere come La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 e Jeune Femme fosse il frutto di un modo di vedere il mondo più simile a quello che deriva dal modello della lingua. Naturalmente, le sfumature critiche nei confronti della nostra società, che si possono rinvenire dietro alle vicende di Adèle e Paula, così come sono raccontate da 42 Antonio Santangelo Kechiche e Serraille, o dietro alle forme di biasimo del discorso portato avanti da Amoruso, nella sua narrazione della vita di Chiara Ferragni, non si vedono, nelle riflessioni di Gobbi e Morace. Del resto, gli studi sul consumo non hanno questa funzione. Eppure, c’è qualcosa che fa dire a molti osservatori della cultura contemporanea che le nostre logiche di lettura della realtà stanno cambiando e questo si riverbera su tante cose, tra cui anche il nostro modo di pensare e di interpretare simbolicamente i volti. 8. Vecchi e nuovi modelli di costruzione del senso Considerazioni come quelle che ho appena scritto, ci fanno riflettere sul fatto che il premio Oscar per il miglior film drammatico del 2021 sia stato assegnato a Nomadland (USA, 2020), di Chloé Zhao, che parla del fenomeno sempre più diffuso di quei cittadini americani che scelgono di abbandonare le proprie abitazioni e la propria vita dentro al sistema produttivo e culturale di stampo capitalistico che tutti condividiamo, per vagabondare da un luogo all’altro della loro nazione, alla ricerca di sé e dell’autenticità dell’esistenza. Allo stesso modo, il premio Strega per il miglior romanzo italiano del 2017 è andato a Le otto montagne di Paolo Cognetti (2016), sulle vicende di un giovane che cerca in montagna, tra la natura e le tradizioni di un tempo, il senso del suo stare al mondo, ma non lo trova e capisce che il suo destino è di restare sempre in movimento, girando come un nomade, appunto, tra le metaforiche otto montagne che richiamano un mito tibetano. Lo stesso Cognetti, nel 2018, ha pubblicato Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, dichiarando di essersi ispirato a Il Leopardo delle nevi di Peter Matthiessen (1978), che secondo lui, descrivendo il suo pellegrinaggio in Tibet, aveva saputo cogliere la vera essenza della vita. A questo proposito, lo scrittore italiano afferma che: Peter aveva usato una parola ben precisa per il suo viaggio. Gnaskor, ovvero girovagare […] Un pellegrinaggio è in ogni cultura un cammino di purificazione, però nel girovagare, nel camminare in tondo, non c’è alcun punto d’arrivo, che invece è fondamentale nei pellegrinaggi Volti del nostro tempo 43 che intendiamo noi. Gerusalemme, Roma, La Mecca: senza una meta, come si sa quando si è raggiunta la purezza? Trovavo un legame tra questo bisogno di città sante alla fine del cammino e l’ossessione alpinistica per le vette delle montagne: fin da bambino sentivo usare la cima come metafora del paradiso, e la parola ascesa in senso spirituale […] invece, il più importante pellegrinaggio tibetano consiste nel compiere un giro intorno al monte Kailash, che per quella cultura è sacro. Kora in tibetano, circumambulazione in italiano: i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi. Trovavo della violenza nel primo gesto, della gentilezza nel secondo; un desiderio di conquista contro uno di comprensione (Cognetti, 2018:20–21). Come si vede, pur con le dovute differenze che è necessario cogliere, tra tutti questi discorsi su chi siamo noi e sul valore delle nostre esperienze nel mondo d’oggi, l’opposizione di cui ho scritto nel primo paragrafo di questo lavoro è diventata la matrice di tante opere contemporanee di successo. Da una parte, c’è chi parla di un senso della vita trovato a priori, all’interno di un sistema come quello della nostra società, in funzione di una istanza di destinazione su cui quest’ultima è incentrata, capace di indicare un percorso verso una meta visibile come, per esempio, una vetta lontana, ma comunque faticosamente raggiungibile da chi decide di allinearsi con la propria istanza di prospetticità. Dall’altra parte, c’è un senso della vita riconosciuto a posteriori, dopo aver provato sulla propria pelle cosa significa seguire fino in fondo i valori della propria stessa istanza di prospetticità, entrando e uscendo da diverse istanze di destinazione, alcune centrali e condivise da molti, nella nostra medesima società, altre più periferiche e minoritarie, altre ancora del tutto esterne, provenienti da un “altrove”. Rimane da chiedersi perché l’opposizione tra i modelli culturali di cui ho scritto sin qui appaia così significativa, tanto da giustificare l’interesse delle opere che ne parlano. In filigrana, nel corso della mia trattazione, si sono potute intuire diverse spiegazioni. C’è quella più politica, per esempio, su un mondo occidentale che vorrebbe dare a credere di essere strutturato per fornire a tutti la possibilità di emergere entro un sistema di valori che pretenderebbe di essere allo stesso tempo liberista e libertario, ma che in realtà è rigidamente suddiviso in classi, separate le une dalle altre. Questo provocherebbe uno scollamento, rispetto 44 Antonio Santangelo alla “narrazione” che ho definito dei self made men e delle self made women, rendendo più verosimile l’idea che le nostre società siano popolate da vagabondi e vagabonde, condannati a cercare un senso che faticano a trovare. A questo proposito, c’è una sequenza molto interessante, in La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2, in cui si vede la protagonista che, dopo aver pranzato a casa con i genitori piccolo borghesi, guardando la tv, si ritrova a scuola ad ascoltare una lezione sul già citato La vie de Marianne di Marivaux, un’opera che appartiene a una cultura più “elevata” e che le insegna a desiderare le stesse cose che poi vedrà incarnate in Emma. Questo le consentirà di entrare in relazione con la giovane artista, ma, come sappiamo, non sarà sufficiente per tenere insieme le due ragazze. Il tentativo di integrazione sociale operato dal sistema scolastico, dunque, fallirà, a causa di una serie di sperequazioni esterne ad esso, che non si possono sanare. C’è, poi, la spiegazione socio–economica, secondo cui le persone, consapevoli del fatto di poter trovare sul mercato prodotti e servizi molto diversi e tutti di valore, abbastanza accessibili e capaci di far provare a chi li consuma ciò che significa condurre un certo “stile di vita”, anche molto lontano dal proprio, non accetterebbero più di “chiudersi” dentro agli orizzonti esistenziali di uno solo di essi, per quanto desiderabili, ma sarebbero portati a sperimentarli tutti, alla ricerca di quello più adatto a sé. Fiumi di inchiostro si sono spesi, sugli “incoerenti” consumatori “post–moderni” (Fabris, 2003), che potrebbero benissimo essere rappresentati simbolicamente dagli orientamenti bisessuali di Adèle o dagli occhi bicolore di Paula. Sicuramente, i ragionamenti di Gobbi e Morace, di cui ho scritto nel paragrafo precedente, vanno nella direzione di leggere il senso delle nostre scelte di vita in questa chiave, molto meno critica nei confronti delle nostre società. Infine, c’è la spiegazione “antropologica” fornita da Cognetti, secondo cui l’incontro con altre culture, al termine di un’esperienza non troppo felice entro i confini della nostra, ci avrebbe consentito di uscire dalla prospettiva cristiana (di weberiana memoria?), indirizzata a seguire con fatica le indicazioni di una istanza di destinazione condivisa da tutti, capace di suggerirci in che direzione andare, per assegnare un senso alle nostre scelte di vita, per abbracciarne un’altra, di stampo orientale, più incline a un “vagabondaggio” finalizzato alla ricerca di sé Volti del nostro tempo 45 come una forma di epifania. A questo proposito, lo scrittore italiano, come anticipato, cita il lavoro di Matthiessen, che sente vicino alla propria sensibilità, e dice che «gli anni Settanta, con le loro promesse mancate, lo avevano deluso, o forse era lui stesso la fonte della propria delusione: entrava nella mezza età e si rendeva conto di aver combinato poco» (Cognetti, 2018: 17). Insomma, dopo aver provato più strade e non avere ancora trovato il proprio posto nel mondo — l’autore de Il leopardo delle nevi aveva partecipato anche all’esperienza della psichedelia —, se ne tenta un’altra ancora, ma non per uscire per sempre dalla propria società, bensì per scrivere un libro significativo e farne parte, come rappresentanti di una delle tante istanze di destinazione che in essa vengono riconosciute. 9. Modelli e contesti culturali differenti In generale, comunque, come ho anticipato sempre nel primo paragrafo, tutti i ragionamenti sulla rilevanza del passaggio dal modello culturale dei self made men a quello dei vagabondi, da un certo modo di costruire il senso della propria esistenza a priori a uno a posteriori, vengono portati avanti soprattutto nel contesto italiano, come del resto è facilmente riscontrabile, se si va a vedere come vengono recensiti La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2, Jeune femme e Chiara Ferragni — Unposted (Italia, 2019) all’estero. Nel mondo anglosassone, in particolare, l’opera di Kechiche viene letta principalmente in una chiave femminista, facendo riferimento al rapporto tra lo sguardo del regista e le attrici che impersonano Adéle e Emma, le quali hanno più volte dichiarato di essersi sentite a disagio, venendo riprese sempre molto da vicino, con la camera a mano puntata sui loro corpi spesso nudi, per immortalare scene di sesso omosessuale lunghe ed estenuanti, ripetute fino allo sfinimento, per soddisfare le esigenze artistiche dell’autore algerino. Il problema politico sollevato dal film appare piuttosto quello dell’imposizione di un punto di vista maschile nella rappresentazione di una storia d’amore tutta al femminile, ma non la questione delle differenze di classe di cui ho scritto sopra, tanto che il vagabondaggio che, per i critici italiani, deriverebbe da queste ultime, viene derubricato 46 Antonio Santangelo alla normale insicurezza di una adolescente come Adèle, a proposito di ciò che vuole fare ed essere da grande. Due interpretazioni, queste, che valgono anche per la storia di Paula, apprezzata per il tentativo di Serraille di raccontare — sempre al femminile, visto che viene da molti enfatizzato che la sua troupe si è composta di sole rappresentanti del gentil sesso — come una ragazza diventa donna, oppure per il modo in cui la regista francese si interroga sugli stereotipi femministi, circa la liberazione dai legacci della cultura patriarcale. Evidentemente, per gli autori delle recensioni che circolano negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il fatto che La vie d’Adèle — Chapitres 1 & 2 narri anche della vita di Adèle da adulta, o che la protagonista di Jeune Femme abbia 31 anni, nella fase della sua esistenza che viene messa in scena nel film di Serraille, non è molto pertinente: quando entrambe matureranno, troveranno un loro posto nel mondo, come accade a tutti. Magari, si realizzeranno come Chiara Ferragni, della quale, infatti, sempre nel contesto anglosassone, non si critica mai la problematicità della vicenda personale da self made woman. Anzi, il suo successo viene letto, ancora una volta, come un bell’esempio del nuovo ruolo delle donne in una società che un tempo era maschilista, ma che ora sta cambiando. Piuttosto, ci si interroga — con una certa ammirazione — su quanto debba essere difficile vivere sempre sotto i riflettori dei social network e dei media in generale, riuscendo allo stesso tempo a essere madre, moglie, imprenditrice e tutto il resto. Questa discrepanza nel modo di interpretare le opere che ho analizzato ed il loro rapporto con la realtà dà da pensare, sulle differenze tra contesti culturali. Ma si intuisce, comunque, che i visi di Adèle, Paula e Chiara vengono riconosciuti come simbolici anche all’estero. Essi, infatti, anche per i critici stranieri di cui mi sono occupato, sono in grado di incarnare alcune logiche di lettura della realtà che appaiono fortemente significative, per leggere i tempi e i luoghi in cui viviamo. Il fatto che le nostre interpretazioni cambino, da una cultura all’altra, non è strano, e sarebbe certamente interessante vedere se l’opposizione tra il modello culturale dei vagabondi e quello dei self made men è pertinente anche in Francia, in Sud America, o in altre parti del mondo. Oppure, sarebbe utile domandarsi se il modello femminista di cui parlano i critici anglosassoni si basi su discorsi in cui il senso di ciò che le donne vogliono e devono Volti del nostro tempo 47 essere si costruisce a priori, come nel caso delle self made women, o a posteriori, come in quello delle vagabonde. Questo consentirebbe di generalizzare ulteriormente le riflessioni che ho condotto in queste pagine, ma per il momento esula dagli obiettivi del mio lavoro. Ciò che mi premeva, invece, era mostrare quali sono i meccanismi semiotici che si attivano, nel determinare le nostre convinzioni, a proposito dei volti simbolici, che ci sembrano rappresentare alcuni dei più importanti modelli culturali con cui leggiamo il senso della nostra esperienza della vita quotidiana. A questo proposito, ritengo che quelli che ho descritto siano particolarmente significativi, da un punto di vista, allo stesso tempo, teorico e pratico. Riferimenti bibliografici Barthes R. (1957) Mythologies, Éditions du Seuil, Paris; trad. it. (1994), Miti d’oggi, Einaudi, Torino. Cognetti P. (2016) Le otto montagne, Einaudi, Torino. Cognetti P. (2018) Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi, Torino. Ferraro G. (2012) Fondamenti di teoria sociosemiotica. La visione “neoclassica”, Aracne, Roma. Ferraro G. (2015) Teorie della narrazione. Dai racconti tradizionali all’odierno storytelling, Carocci, Roma. Ferraro G. (2019) Semiotica 3.0. 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Ceronetti G., 2010: 78–79 Abstract: In order to study chronotopes, in addition to incorporating and arguing collective and individual erratic landscapes, it is necessary to take into account forces of a physical nature, those events that materially and significantly regulate physicality on which we then experience meaning and formulate interpretations. We therefore discern different types of timing and counting of time: the time of objects and bodies in space is first and foremost, the time of their movements, of their relationships, but also the time attributed to them through our gaze that focuses and pays attention by capturing their mechanism. We immerse ourselves in the length, width and depth of the infinite lines that regulate space and recognize in the mutual positioning one of the most urgent axiological characters to be investigated; we study matter and its attributes, observing and intervening in it. We will attempt this through the semiotics implied by artistic and specifically theatrical (multimedia) language, by creating, analyzing and staging the dramaturgy entitled “Face of ash and sound”. Keywords: Chronotopes, imply semiotic, multimedia theater, face, ash, sound. 1. Introduzione Il collocarsi cronotopico implica una presa di posizione ideologica, politica, estetica e, certamente, semiotica. L’itineranza all’interno del tempospazio si inserisce nel campo della significazione dove intervengono anche le (1) Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca (CER) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Orizzonte 2020 dell’Unione europea, in virtù della convenzione di sovvenzione n. 819649 (FACETS). 49 50 Silvia Barbotto interazioni fondamentali: oltre ad incorporare ed argomentare i panorami erratici collettivi e individuali, è necessario tener conto delle forze di natura fisica, di quegli avvenimenti che regolano fenomenicamente la fisicità su cui poi noi esperiamo significato e formuliamo interpretazioni. Lontano dall’essere una superposizione ex post, però, l’ubicazione nella sfera cronotopica è di indole interpenetrante e formante: le forze della natura non vanno solamente considerate come variabili significate e prefabbricate nella coniugazione quadrimensionale da parte degli esseri umani, ma piuttosto come entità significanti in sinergia con l’approssimazione multidimensionale categoriale e sistematizzante di ogni essere vivente. Il tempo degli oggetti e dei corpi nello spazio è dunque, innanzitutto, il tempo dei loro movimenti, delle loro relazioni, ma anche il tempo a loro attribuito attraverso il nostro sguardo che focalizza e pone attenzione captandone il meccanismo: «lo spazio è ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista: l’ostacolo: dei mattoni, un angolo, un punto di fuga: lo spazio, è quando c’è un angolo, quando c’è un arresto, quando bisogna girare perché si ricominci» (Perec, 2016: 89). Sebbene sia risaputo che nelle scienze esatte queste entità sono calcolabili con criteri estremamente meticolosi, sappiamo invece che nelle scienze umane tali dimensioni sono spesso intangibili, invisibili e, forse per questi stessi motivi, trascurate: riflettere sul cronotopo risulta quindi un gesto di grande attualità e necessità. Pur optando preferibilmente per la divagazione e l’erranza, tendenze defluenti talvolta in dimensioni labirintiche e fuorvianti, facciamo riferimento a Calvino che, nella rettitudine come forma geometrica e pista per avanzare testualmente, scorge invece l’infinito: […] preferisco affidarmi alla linea retta, nella speranza che continui all’infinito e mi renda irraggiungibile. Preferisco calcolare lungamente la mia traiettoria di fuga, aspettando di potermi lanciare come una freccia e scomparire all’orizzonte. Oppure, se troppi ostacoli mi sbarrano il cammino, calcolare la serie di segmenti rettilinei che mi portino fuori dal labirinto nel più breve tempo possibile (Calvino, 1988: 38). Ci immergiamo nella lunghezza, larghezza e profondità delle infinite linee che regolano lo spazio e riconosciamo nel mutuo posizionamento uno dei caratteri assiologici più urgenti da indagare. Volto di cenere e suono 51 Osserviamo anche che la linearità è solamente un aspetto della polifonia tempospaziale: la linea retta così dritta e apparentemente monolitica è l’insieme d’infiniti punti discontinui e comunicanti, riedificabili nella circolarità di un tempo ciclico e sferico. Dopo brevi accenni alla relatività cronotopica, anche in relazione agli assiomi fisici e filosofici intrinseci, vedremo quindi come la prospettiva sia la chiave di lettura con la quale si costruisce la nostra interpretazione sul rapporto s–oggetto / s–oggetto e ricercheremo nell’armonia il basamento relazionale tra micro e macrosistema. È nell’arte e nel teatro che ritroviamo, per questo manoscritto, il motore propulsore di tempispazi altri. All’incorporare il tempo, includendo la categoria del tempo incorporato, ci soffermeremo su come la semiotica del corpo, oltre che quella della cultura, sia illuminante nell’affrontare i face studies: l’ultima parte sarà quindi un esercizio di metasemiotica applicata ed implicata e monitoreremo la creazione, analizzandone la drammaturgia, di Volto di cenere e suono. 2. Bio–percorso relativo di un tempo perduto A metà marzo 2018, 25 Paesi del Continente Europeo (ENTSOE: European Network of Transmission System Operators for Electricity) soffrono una deviazione nel conteggio del tempo dovuta a un prepotente calo dell’energia elettrica necessaria alle centrali di controllo del blocco SMM, Serbia, Macedonia e Montenegro. L’orologio elettrico basato sulla standardizzazione delle frequenze è scosso durante settimane e registra un ritardo di 6 minuti. In un lavoro artistico diretto da Aksioma (Lubijana), Tao G. Vrhovec Sambolec riflette sulla relativizzazione del tempo evidenziando la deviazione temporale intercorsa durante il conflitto. Il giorno in cui ho presentato la prima bozza di questo testo era il 25 marzo 2021, secondo il tempo ciclico del calendario Maya il 13.0.8.6.16: eccone una brevissima diagrammazione. Cicli Durata (giorni) 25/03/2021 Baktún 144.000 13 Katún 7200 0 Tun 360 8 Uinal 20 6 K’in 1 16 52 Silvia Barbotto A quale tempo vogliamo dunque rivolgerci? A quale conteggio di riferimento adibiamo la posizione del nostro stare? Pur assumendo in prima persona lo stato malleabile della percezione temporale, ci affidiamo ai conteggi standardizzati per capirlo e capirci, talvolta con l’ambizione anche di controllarlo e controllarci. Nell’introdurre l’aspettualizzazione temporale ciclica e circolare, subalterna rispetto alla versione lineare predominante, portiamo alla luce la necessità di assoggettare qualsiasi interpretazione della cultura ai processi di significazione sottostanti e vincolanti. A differenza di un approccio ontico o fenomenico, perciò, la semiotica non si occupa del tempospazio reale, ma della sua manifestazione linguistica adottata e proposta da specifici interpretanti, i quali abbracciano specifiche visioni prospettiche. La prospettiva, in termini generici, sottolinea un certo distanziamento tra il s–oggetto d’interesse e il s–oggetto interessato: tale relazione può essere figurativizzata tra la dicotomia vuoto/pieno del divenire narrativo di un testo e l’alternarsi materico tangibile/intangibile la cui costruzione epistemica prevede, sempre, un allontanamento. Tale scostamento non esclude, però, una possibile interpenetrazione patemica, un’embriage quasi metafisico, un prolungamento la cui convessità agevola invece l’abrogazione del distanziamento: è proprio la prospettiva che, anche in termini spaziali, consente la dinamizzazione topologica e la valorizzazione dell’aspetto formante. La prospettiva endogena, emica, ha la tendenza ad assumere un carattere empatizzante e spugnoso, ricco di fibre invasive ed invadenti le cui diramazioni coabitano, sincrone, il contesto connotato. Esogena, etica, è qualsiasi operazione interpretativa proveniente da un percorso logico tendente ad un temperamento deduttivo e i cui filamenti diffusi si caricano di lungimiranza fatta di uno spaziotempo altro. Corpo e ambiente instaurano un rapporto dialogico, giassia di assorbimento o emanazione, unitarietà o dualità, ma così come riferisce Fontanille (2008: 290) «local/global, unitario/multiple, direccional/no direccional son algunas de las categorias que podrian contribuir al redespliegue esperado…». Nella semiotica del corpo sinestesico, effettivamente, si studiano i percorsi che intercorrono tra lo spazio circostante e quello percettivo intrinseco al sentire: è il risultato del sentire stesso che sfocia, poi, in segni e testi e ciò avviene a livello di corpo individuale e di corpo collettivo. Volto di cenere e suono 53 Merleau Ponty (2003) avvertirebbe, a partire dalla fenomenologia della percezione, una sorta di simultaneità tra l’intenzionalità dell’oggetto a conoscere ed il testimone conoscitore che, nel gesto ricettivo fatto di espressione linguistica e spaziale, al contempo crea e co–costruisce il rimando. Il ridimensionamento di tale passaggio comporta un’avvicinamento prospettico verso l’endogenia: l’immersione o assorbimento, estrapolando le proprie radici dai connettori sintattici rettilinei, si evidenzia come entità paradigmatica. La semiosfera immersa definisce quindi i propri confini pertinentizzanti, ma necessita altresì uno sguardo esterno ed esogeno, uno sguardo insomma che problematizzi incessantemente il suo significare: il corpo ha bisogno di continui rifermenti ad una struttura cronotopica mereologica. Cronotopo, letteralmente tempospazio, è stato utilizzato per la prima volta in campo umanistico–letterario da Michail Bajtín il quale lo descrive così: Vamos a llamar cronotopo (lo que en traducción literal significa «tiempo–espacio») a la conexión esencial de relaciones temporales y espaciales asimiladas artísticamente en la literatura. Este término se utiliza en las ciencias matemáticas y ha sido introducido y fundamentado a través de la teoría de la relatividad (Einstein). A nosotros no nos interesa el sentido especial que tiene el término en la teoría de la relatividad; lo vamos a trasladar aquÍ, a la teoría de la literatura, casi como una metáfora (casi, pero no del todo); es importante para nosotros el hecho de que expresa el carácter indisoluble del espacio y el tiempo (el tiempo como la cuarta dimensión del espacio) (Bajtín, 1989: 237). L’autore riprende evidentemente le teorie della relatività i cui fondamenti sembrerebbero abitare i metodi della fisica proposti da Albert Einstein e le scienziate/gli scienziati a lui contemporanee/i: nelle loro proposte risiede il tentativo di negare gli assolutismi e risaltare invece la duttilità in riferimento non solamente al posizionamento materico di un corpo nel tempospazio, ma anche all’azione descrittiva dello stesso fenomeno, dipendente appunto dal descrivente. Every description of the scene of an event or of the position of an object in space is based on the specification of the point on a rigid body 54 Silvia Barbotto (body of reference) with which that event or object coincides. This applies not only to scientific description, but also to everyday life. […] This primitive method of place specification deals only with places on the surface of rigid bodies, and is dependent on the existence of points on this surface which are distinguishable from each other. But we can free ourselves from both of these limitations without altering the nature of our specification of position (Einstein, 2006: 10–11). Con le nuove teorie si propone dunque una sorta di liberazione epistemica dal pensiero dominante, rigido e gerarchico, all’insegna di nuovi tentativi di consolidamento testuale in cui il sistema di coordinate tridimensionali si apre formalmente all’interazione dell’asse temporale, la cosiddetta quarta dimensione. La magnitudine, quindi la misurazione, viene validata dalla virtualità potenzializzata dell’atto osservativo e la transitorietà temporale sostiene la congiunzione plasmabile di un insieme di punti nello spazio: l’articolazione di questo spazio multidimensionale è resa intellegibile dall’incessante, seppur fuggevole, equilibrio stabilizzante nel tempo. L’armonia, già dalla concezione pitagorica, designava il processo attraverso cui ci si univa all’Universo, o meglio, attraverso cui l’Universo era connettibile al fine di garantire la propria stabilità: il parallelismo e l’interazione tra corpo universale e corpo materico risale alle culture antiche. L’ampliamento del panorama agevola la digressione antropocentrica a favore di un posizionamento cosmogonico di maggior respiro: non ci interessa dunque il corpo del singolo individuo nello spazio culturale, ma il mutuo posizionamento dei corpi viventi e non viventi nelle culture spaziali. Topology is about mutual positioning of points and figures and was, originally known as analysis situs. […] While central projection is the geometry of places, the science of the mutual positioning of places in a space devoid of all metrics, in which central projection’s points and lines at infinity have therefore become irrelevant (Marcussen, 2008: 36). L’analisi cronotopica si occuperebbe quindi di studiare il posizionamento relativo di qualcosa rispetto a qualcos’altro per qualcuno in un certo tempo e spazio. Ma in questa nuova chiave in cui vige il Volto di cenere e suono 55 mutualismo, allora vi dev’essere sempre un ritorno, una controparte, un altro elemento referente dal quale decentrare, spazializzare, coordinare, proiettare, misurare. Facendo un ulteriore passo, assistiamo ad una specie di conversione eidetica in cui la stabilizzazione non è solamente spazio/temporale, bensì energetica: in quanto relazionali, corpo e spazio, ambiente ed esseri, si figurano nell’interazione tra forze e sostanze, tra energie e materie. En el encuentro de la energía y la materia se producen efectos a los que clásicamente se les ha llamado “formas”. En efecto, la materia opone su propia inercia, o su resistencia, y las fuerzas de excitación se combinan con las fuerzas de resistencia. […] Entre el movimiento corporal que tropieza con la envoltura del mundo y el movimiento del mundo que tropieza con la envoltura corporal, el principio semiótico permanece constante […] y es siempre el de la conversión eidética: la forma figurativa (eidos) resulta de la conversión de los limites o de los umbrales que se oponen a los flujos energéticos; en el punto en que dichos flujos se estabilizan, aparece la envoltura de una forma, comparable a la “película” que se genera por tensión superficial sobre una masa fluida estabilizada (Fontanille, 2008: 173). Tale conversazione eidetica affiorata, emerge dunque da una formula corroborante caratterizzata da tempo, spazio ed energia: approfondiremo tale sincretismo attraverso il linguaggio del corpo e le categorie semiotiche dei sub–testi Lotmaniani, i contributi di Ugo Volli per la semiotica del teatro, quelli di Guido Ceronetti per la poetica e quelli di Andrea Balzola per ciò che concerne la sfera drammaturgica multimediale. Nello specifico faremo riferimento al teatro di figura sperimentale e all’uso trasfigurato del volto/ corpo: il corpus di questo segmento è una produzione di Terra Galleggiante che si inserisce all’interno della XXVII ed. del Festival “Immagini dell’interno 2021” e si intitola “Volto di cenere e suono”. 3. Spazio teatro e forma corpo suono Se un semiotico si fabbrica un testo per conto suo e poi lo analizza, al resto del mondo che importa? Sarebbe un gioco tautologico e fine a sé 56 Silvia Barbotto stesso. Se si tratta invece di costruire un modello parziale o ideale, come sempre fanno le scienze naturali, si tratta di essere acutamente consapevoli di quel che si tralascia, e di porlo come limite esplicito alla validità delle conclusioni. […] penso che si debba fare i conti con quegli oggetti sociali che chiamiamo testi, così come sono, limitandoci a ritagliarli onestamente secondo le linee di frattura che sono già designati in essi (Volli in di Tommaso, 2009: 4). “Volto di cenere e suono”(2) è una ricerca teatrale, ancora in atto, che sperimenta l’ibridazione tra lo spazio reale e immaginato, la multimedialità dell’unità sinestesica, il corpo e il volto come istanze cronosituate e coabitate. In quanto testo da me scritto e stando ai suggerimenti di Ugo Volli si presenta come uno studio analitico e pragmatico, a priori carente che, pur non aspirando alla costituzione di nuovi modelli né assiomi, propone un’esercitazione di semiotica applicata e implicata: riferirsi all’implicazione oltre che all’applicazione valorizza il carattere edificante della disciplina, la quale non viene in questo caso, presa e superposta su oggetti di studio ma piuttosto, in quanto humus fondante, offre le proprie risorse nella costruzione di un s–oggetto il quale, a sua volta, costituisce un riflesso utile alla disciplina stessa per consolidarsi, ripensarsi e migliorarsi continuamente. È una trilogia formalmente e sintatticamente scomponibile, ma ogni parte è, a livello profondo, sequenzialmente collegata alle altre. Si inserisce in un percorso intrinseco alla materia come elemento spaziale nel tempo, alla materializzazione e smaterializzazione come fattualità evenemenziali dimensionate, ma anche alla liminalità come zona di conflitto e creatività per l’interazione e integrazione tra ipseità e alterità: nel volto avvengono, contemporaneamente, questi tre fenomeni. Su suggestione e monitoraggio di Damiano Privitera, la sperimentazione e creazione è avvenuta all’interno del paradigma del Teatro di Figura, attualmente in rinascita sotto nuove vesti, dove — scrive il direttore del teatro sul “Manifesto dell’essere”, — «non siamo agitatori di marionette simulando(ci) ma assimilando(ci) […] nella dissolvenza tra corpi, senza soluzione di continuità dove se è vero che si da vita, è anche vero che si diventa parte della materia morta». Un termine a noi caro è quello di corpo esteso, introdotto da Angela Mengoni nell’articolo titolato In potentia: margini del figurativo e corpo (2) https://bit.ly/3JCQChq. Volto di cenere e suono 57 esteso e utilizzato nell’analisi di Cremaster Cycle dell’artista Matthew Barney. L’eidos assume, attraverso l’adozione del corpo esteso, una sorta di sospensione indifferenziata della situazione in cui materie, corpo e ambiente (digitale e analogico), interagiscono mutuamente configurando nuovi canoni creativi ed interpretativi. L’indifferenziazione, presente soprattutto nella prima parte della trilogia, verte ad annullare le categorizzazioni aprioristiche e propone, nella transitorietà del corpo esteso, la mediana soluzione assiologica di tali polarizzazioni: fronte/retro, alto/basso, uomo/donna, volto/testa. Nella drammaturgia di “Volto di cenere e suono” si è pensato ad un’organizzazione del volto che prevede l’utilizzo di maschere con precise caratteristiche geometriche, ma è nell’uso e nella pratica che corpo e volto, costume e maschera, forma e figura, assumono un carattere vivo e creano una situazione particolare. L’ambiguità nella conformazione dello statuto semisimbolico realizza una conversione eidetica parziale e, nel presentarsi malleabile e interattivo rispetto agli impulsi energetici di corpo e luci, di suoni e parole, diviene supporto potenziale in continuo divenire: «i “limiti” del figurativo — intesi come capacità di operare una distinzione tra formanti figurativi — sono momentaneamente sospesi» (Mengoni, 2012: 107). Alcune istanze performative rendono agibile tale laboriosità: il travestimento, lo sdoppiamento, l’interposizione materica, la tematizzazione e, chiaramente, la collaborazione operativa tra i vari aspetti tecnici in questione. A convertirsi eideticamente è il corpo drammaturgico il quale, nell’insieme, si incarica di costruire e trasmettere una figuralità materica ed energetica. Volto e corpo anch’essi si convogliano verso una ambiguità percettiva che, seppur testualizzata e delimitata, fluttua concomitante al fluttuare genealogico degli elementi trasfigurati. Lontano dalla testualità tensiva in cui il divenire sequenziale è graduale e ordinato, ci rivolgiamo quindi ad una lettura figurale dell’avvenimento teatrale, del fenomeno scritto e raccontato, della cronotopicità multilaterale: nella figuratività l’interposizione di forma e contenuto, aspettativa e valorizzazione, è ricorrente; nell’astrattività è invece ricorsivo il dinamismo linguistico che si avvale dell’inconformità nei confronti di gerarchie nette e dicotomie distanti e che detona quindi variabili, spesso risultanti da logiche abduttive, impensabili in fase ipotetica. 58 Silvia Barbotto Vi è un’ulteriore opzione, consona a queste riflessioni metasemiotiche e metateatrali, ed è la figuralità come quel frangente ibrido, parte del continuum contenutistico ed espressivo in cui la riproduzione simbiotica tra attesa e volontà diventa fragile: l’immediatezza del riconoscimento è continuamente filtrata, problematizzata, avvolta, lontanamente suggerita e mai confermata. Il significato del contenuto tematico si integra con la parola parlante, il corpo movente, l’udito ascoltante, l’alterità presente. La funzione del corpo nella memoria può essere compresa solo se la memoria non è la coscienza costituente del passato, ma uno sforzo per riaprire il tempo a partire dalle implicazioni del presente, e se il corpo, essendo il nostro mezzo permanente per “assumere atteggiamenti” e per fabbricarci così degli pseudo–presenti, è il mezzo della nostra comunicazione sia con il tempo che con lo spazio (Merleau–Ponty M., 2003). Tempi passati e futuri risultano quindi coesistenti alle implicazioni vissute dai corpi presenti che a loro volta concentrano, nello spazio occupato, possibilità verosimili. Il conteggio temporale scorre, ma una una specie di sospensione incoativa e paradossale occupa lo spazio dell’Arte. Dal punto di vista della scrittura drammaturgica, inoltre, sono, previsti altri rimandi cronotopici, soprattutto nel teatro multimediale: esso costituisce infatti, non solo una sintesi delle arti (spaziali e temporali), ma anche una nuova estetica. Il percorso è minuziosamente raccontato nel testo di Balzola (2004) che, esponendo e ordinando numerosissimi casi studio, esplora il divenire rivoluzionario aggregato di arte, comunicazione e tecnica: innanzitutto la riproducibilità tecnica, poi la trasmissione della stessa a distanza in diretta ed infine la “sintesi digitale connettiva”. L’innovazione multimediale, dunque, è ampliata grazie al contributo della tecnologia digitale, ma avviene soprattutto in seno alle nuove modalità con cui i media si relazionano sia agli oggetti–soggetti, sia ai propri statuti. Se fare arte significa oggi interrogare creativamente le modalità di comunicazione e di espressione del medium, lo spostamento di attenzione Volto di cenere e suono 59 Figure 1. A, B, C. Fotogrammi rappresentativi di Asmitā (A), Pratiak cetanā (B), Vāsāna (C). 60 Silvia Barbotto dall’oggetto al medium presuppone anche uno spostamento dall’opera al processo creativo. “Un orientamento questo, analogo e parallelo allo spostamento dell’attenzione scientifica dall’oggettività del fenomeno alla soggettività dell’osservatore e quindi alla relazione tra fenomeno e osservatore (Balzola, 2004: 111–12). In questo senso, tempi e spazi (transmediali) non si circoscrivono al corpo attoriale performando con un pubblico presente e sincrono, ma espandono le proprie periferie innalzando il livello di inclusione di altri tempi, di altri spazi. Ognuna delle tre parti costitutive di “Volto di cenere e suono” sviluppa al suo interno una specificità tematica (A, B, C) e performativa (i cui elementi sono sintetizzati in diagramma). Iniziamo da quella tematica: – A. Asmitā: Veicolo di Corpo esteso – B. Pratiak cetanā: Opacità e soglia – C. Vāsanā: Intersuono di ripresa I titoli delle tre parti, fulcro isotopico intorno al quale è costruita la concettualizzazione della messa in scena, includono termini in lingua sanscrita di cui vengono qui forniti alcuni chiarimenti: A. «Il termine sanscrito asmitā deriva da asmi, che letteralmente significa “io sono”. Io sono, o egoità, rappresenta la pura consapevolezza dell’auto–esistenza, ed è pertanto l’espressione, […] della coscienza pura» (Taimni 1970: 139). L’io, entità necessaria per affermare la vita, è solito identificarsi con tutti i tipi di veicoli della quotidianità, siano essi materia vivente (per esempio il corpo) o ruoli e funzioni, che fungono da illusione e progressivo distacco dalla natura originaria. Qui avviene la dichiarazione estremizzata ed identificata con la magnitudine tangibile, col senso di “presa” spesso associato all’ipseità continuamente desiderante. Il veicolo del corpo esteso, che raggiunge ed origina pezzi di nuove vite metaforiche e plastiche (tra cui una marionetta a corpo), è avvolto da una tunica maestosa e doppia maschera: asmitā, pura coscienza, è spesso sopraffatta dal senso egoico affermativo e sanzionatore. B. Pratiak cetanā: può esser considerata la coscienza che attinge all’interno, in opposizione alla coscienza che per affermarsi, ribadendo Volto di cenere e suono 61 a sé stessa la propria negazione, protende verso l’esterno (parānga). Il campo di analisi e sperimentazione di questa parte, è relazionato al lavoro semiotico sul corpo di Jacques Fontanille che ci ha portato alla distinzione tra il corpo proprio (identità) e il corpo altro (alterità): Existe, de una parte, aquello que es sentido como proprio (el Sí) y, de otra parte, aquello que es sentido como otro (el mundo para Sì); la construcción de un Sí pasa entonces por la delimitación de una frontera (la envoltura). El cuerpo de Sí es el cuerpo proprio mínimo, delimitado por una envoltura. […] La envoltura del Sí tiene ahora dos caras: una cara que da al mundo exterior y otra que da a un espacio interno, y, según los casos, autoriza o no autoriza la comunicación entre esos dos espacios. […] El campo interno, interiorizando y desplegando las experiencias de contacto (tactil, olfativo, gustativo), diseña un “teatro interno” del cuerpo, el teatro de una secuencia espacio–temporal y actorial (Fontanille, 2008: 151–152). L’avvolgimento (envoltura), composto stratificante in successione, è ciò che facilita la distinzione tra l’esterocezione e l’interocezione: questo percorso agevola lo sviluppo attoriale del corpo, dell’attante in azione e delle forze che lo abitano. Le estensioni corporali interne ed esterne, dialogano e co–costruiscono continuamente la dimensionalità metamorfica e metaforica delle proprie frontiere, forze, auree ed energie. Figura 2. Fontanille (157) Modos y campos de lo sensible. Diagramma da libro digitale. 62 Silvia Barbotto C. Vāsanā: sono le impressioni latenti e, parafrasando Squarcini (2019) costituiscono uno dei modi di operare tracce, conciliate sia dalle circostanze di nascita, luogo e tempo, sia dalla memoria (sovvenimento mnemonico, smriti) che dalle pulsioni residuali (samskāra). Le impressioni latenti sono anche «aggregate assieme dalle [interazioni tra] cause (hetu), frutti (phala), sostrati (āsraya) e supporti [oggettuali] (ālambana)» (Squarcini, 2019: 40) Suono e cenere intervengono a sublimare e trasformare alchemicamente le tracce accumulate. Questi assi tematici vengono elaborati nella scena, dal punto di vista allegorico e plastico, grazie all’utilizzo di varie risorse, ordinate nel seguente diagramma: Manifestazioni/ Risorse Focus palco Elementi scena Abbigliamento Volto Luci Movimenti Suono Elementi A. Centrale (C) Piedistallo Saio e turbante Doppia maschera (fronte/retro) Proiezione C Img. fissa S Oculata D Lenti crescendo e decrescendo. Dettati da saio e marionetta Bordone Sruti Voce analogica Interposizione suono/ parola Marionetta Estensione B. Sinistra (S) Teca Lungo lino 2 maschere Oculata S + Proiezione S Oculata D C. Destra (D) Violoncello Lungo lino 1 maschera + volto nudo Oculata C Proiezione S Oculata D Alternati in velocità e Sinestesici intensità Bordone Sruti Rumore di contatto Bordone Sruti Violoncello di contatto Vapore acqueo Cenere La conversazione eidetica che mira a sgretolare le consuetudini della figura stessa, sperimentare i limiti e sedimentarsi in nuovi canali connettivi e astratti, avviene nel riconoscimento parziale dell’espressione che sfugge e qui sfiora, senza risiedere del tutto, le certezze archetipiche ed i formanti solidificati. L’attuazione e il sentire, ai due estremi di una continuità timica, si intersecano con le sostanze protese all’avvolgimento e al movimento, la forma e Volto di cenere e suono 63 la forza: sul sistema di riferimento cartesiano, questi caratteri del corpo in quanto sostrato materico si orientano su due assi, quello dell’estensione e dello spiegamento da una parte e quello dell’intensità e dell’energia dall’altra. Secondo Iuri Lotman (1998) i testi della cultura possono stratificarsi in due specie di subtesti: quelli che, immobili, caratterizzano la struttura del mondo e ne spiegano l’organizzazione e quelli che, dinamici, caratterizzano il luogo che li circonda, la posizione e l’attività, scomponendosi in situazioni e raccontando le modalità e motivazioni di tale conformazione. La trilogia, intrinsecamente dinamica e cambiante, si avvale di una struttura profonda fissa: l’immobilità qui proposta è infatti uno stato transitorio, seppur effimero e passeggero, di un equilibrio stabilizzante. La configurazione è ondivaga, oscilla nel cronotopo semi–perentorio ed energicamente co–abita i punti fermi e le linee connettive rovesciandosi, ribaltandosi, figurandosi ed astraendosi. Come performance artistica e rappresentazione di teatro diffuso, come insieme di pezzi modellanti e mai replicati, si spiega come epifenomeno di un amplia congiuntura interspaziale. Nell’incorporare il diagramma su i modi e il campo del sensibile risiede un tentativo di scremare le forme e i movimenti alla ricerca di una modalizzazione mirata e, sul divenire della terza parte, l’avvento del corpo movente viene processato dall’effetto della cenere neutralizzante e dalla realizzazione monofonica catalizzatrice e unificatrice dei sensi meditativi attraverso la profusione del bordone emanato dal violoncello. In una sorta di addormentamento cosciente delle quattro formule modellizzanti atte al volere, potere, sapere, fare, il corpo, nel quale esse risiedono, compie un passaggio appacificante in una stasi sensoriale sospesa, in una specie di equanimità soggiacente. Volto: rivolgi altro da te, il complemento di orifizio perduto colmo di paura che poi, calmo, si ferma. Creta di vulcano, voce di tuono canto di vasto e vicino involucro di vento. Sopra scaffali di un mulino in movimento, sei marionetta di legno e fuoco di venere 64 Silvia Barbotto che riporta su ossa la carne incollata con caustica e cemento. Rimani in vita e ti sciogli in sostanza sprovvista, vorace di vissuti sottosuolo. Sigillo sospeso, schermato, saziato ti riprendi poi nel profumo in attesa del risveglio, nella perpetua permanenza senza parole. Rispecchiati, intravedi altri volti rifratti e raffinati e vi riconoscete: sfiorite le articolazioni primordiali, previsione di attesa e rumore, materia tra le ere geologiche congelate, corpi di cenere e suono. Riferirementi bibliografici Artaud A. (2003) [1976] L’arte e la morte, Pasko S. (a cura di), Il nuovo melangolo, Genova. Bajtín M. (1989) [1975] Teoría y estética de la novela, Kriokova H., Cazcarra V. (trans.) Taurus Humanidades, Madrid. Balzola A., Monteverdi A.M. (2011 dig.) [2004] Le arti multimedia digitali. 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They gave the opportunity to present to the public some of the most significant findings of the University of Padua Museum of Anthropology, before the opening of the Natural History Museum in Palazzo Cavalli, expected for the end of 2022. They also reflected some fields of research in the museum, particularly for the forensic facial reconstructions. The exhibitions focused on the simplicity of the idea and its ability to be shared by a wide audience, young and adult. We all intuitively recognize faces, since as children. We all try to interpret them, to understand and anticipate the intentions of the other. Human diversity is reflected in faces but also, the profound unity of our evolutionary history has left its traces. The exhibitions were enriched in every section from multi–user interactive exhibits, essentially based on Computer Vision and Augmented Reality technologies, with the aim of bring the visitor actively to the exhibition, making a unique and personalized visit: they were open–source and the material produced were released freely under open licenses. Keywords: Temporary exhibition, Museum of Anthropology, forensic facial reconstruction, augmented reality, open–source licenses. In due occasioni il volto umano è stato protagonista di mostre temporanee ideate e curate dal Museo di Antropologia dell’Università di Padova. La prima dal titolo “FACCE. I molti volti della storia umana” è stata allestita negli spazi dell’Orto Botanico di Padova dal 14 febbraio al 15 dicembre 2015. Tre anni dopo, dal 24 marzo al 24 giugno 2018, ospitata nel Palazzo Assessorile di Cles (TN), è stata aperta la mostra “IMAGO ANIMI. Volti dal passato”. 67 68 Nicola Carrara Entrambe le esposizioni avevano delle finalità comuni. In una fase di chiusura al pubblico del Museo di Antropologia, esse sono servite a presentare al pubblico alcuni dei reperti più significativi e le ricerche del museo, in attesa dell’apertura del Museo della Natura e dell’Uomo, prevista nel 2022 in occasione degli 800 anni dalla fondazione dell’ateneo patavino. Inoltre, i visi hanno offerto lo spunto per affrontare tematiche care all’Antropologia, evidenziando come le frontiere di studio di questa disciplina siano molto cambiate nel tempo, arrivando spesso a ribaltare oggi quello che veniva asserito nel passato. Infine, si sono volute creare mostre open source, in cui il materiale prodotto è stato essere rilasciato liberamente con licenze aperte (Bezzi et al. 2016). Queste esposizioni partivano da un lavoro di ricerca legato alle ricostruzioni facciali forensi. La prima domanda a cui si voleva dar risposta era: quanto sono realistici i visi ricostruiti con queste tecniche? Non tutte le fasi della ricostruzione facciale forense hanno, infatti, la stessa attendibilità scientifica. Il primo passaggio è quello più rigoroso dal punto di vista metodologico perché, grazie alle molte misurazioni effettuate sui tessuti molli profondi di cadaveri, si può ottenere un’idea precisa delle masse muscolari dato che le ossa del cranio portano traccia delle loro inserzioni. Nel passaggio successivo, quando si “vestono” crani e muscoli con la pelle, inevitabilmente si lavora con un po’ di fantasia. In questo caso possono venire in soccorso le fonti storiche o i confronti con individui simili. Queste tecniche sono, dunque, un mix di scienza e di arte e hanno avuto importanti validazioni: particolarmente nei paesi anglosassoni, molte persone scomparse sono state identificate grazie alle ricostruzioni facciali forensi, permettendo, in alcune occasioni, di risolvere intricati casi giudiziari (Bezzi e Moraes 2018). Le due esposizioni erano suddivise in cinque sezioni con tematiche indipendenti, ma connesse dal tema unificante del volto umano. Questi erano i titoli delle sezioni e le rispettive tematiche: – “Guardiamo in faccia la diversità umana”, dedicata all’evoluzione umana; – “Una faccia, una razza? Non proprio”, sull’inconsistenza scientifica delle cosiddette razze umane; – “Volti dal passato”, con le ricostruzioni dei visi di personaggi storici molto importanti legati alla città di Padova; Il volto in mostra: due esempi di esposizioni temporanee 69 – “Lo specchio del viso”, sugli studi scientifici o presunti tali sul viso umano a partire dall’antichità; – “Dalla faccia alla maschera: il viso simbolico” sugli aspetti culturali di questo tratto distintivo umano. L’aver progettato sezioni tematiche indipendenti ha permesso, in due occasioni, che queste fossero allestite in contesti differenti delle mostre temporanee. Infatti, per il Festival della Scienza di Genova nel 2016 è stata esibita in modalità “leggera”, priva cioè dell’allestimento tipico delle mostre temporanee, la sezione sull’evoluzione umana che ben si adattava al pubblico scolastico che frequenta il festival genovese. Analogamente, in occasione della Giornata della Memoria del 2018, a Vigonza (Pd) è stata presentata una piccola esposizione basata sulla sezione “Una faccia, una razza? Non proprio” per approfondire le drammatiche conseguenze della suddivisione dell’umanità in razze. Durante la mostra “IMAGO ANIMI. Volti dal passato” una sesta sezione è stata aggiunta. Curata da Marcello Nebl, la sezione “I volti dell’anima” esibiva alcune opere d’arte contemporanea che declinavano ulteriori aspetti del volto umano, andando a coprire un tassello importante nella narrazione del tema (Nacci 2018). 1. Guardiamo in faccia la diversità umana Un filo non sempre chiaramente visibile unisce quello che oggi siamo con le nostre origini. I crani e i visi che seguono raccontano una storia in cui noi pensiamo di essere i protagonisti. Serve, però, una certa cautela… Sono i vincitori che scrivono la storia e quella che segue è la storia dell’evoluzione umana scritta da Homo sapiens. Nel gioco evolutivo tutti, tranne noi, sembrerebbero essere dei “perdenti”, perché estinti. Ma tutti questi ominini ebbero un notevole successo evolutivo per lungo tempo e certamente ciascuno di essi occupa un posto unico in natura. L’evoluzione non è un processo lineare in cui ogni specie porta avanti il suo patrimonio verso qualche obbiettivo: è piuttosto un’esplorazione di differenti strategie adattative. Certamente possiamo intendere i nostri antenati e cugini ominini come uno specchio che riflette la nostra posizione tra l’infinita varietà degli 70 Nicola Carrara esseri viventi, ma sarebbe un errore vederli come una versione inferiore o incompiuta di noi stessi. Qui potrete per la prima volta guardarli tutti negli occhi! Queste parole accoglievano i visitatori che entravano e racchiude il messaggio forte di questa sezione, derivato dal progredire delle scoperte nel campo della paleoantropologia: l’evoluzione umana, così come quella delle altre specie biologiche, non è un processo lineare in cui ogni specie porta avanti il proprio patrimonio verso qualche obbiettivo. É piuttosto un’esplorazione di differenti strategie adattative che può essere rappresentata dal cespuglio che il giovane Charles Darwin (1809– 1882), durante il viaggio sul Beagle, abbozza sul suo taccuino. Uno schizzo che deve sostituire l’iconica e sbagliata “corsa dell’umanità” in cui lo scimpanzé si alza su due gambe, diventando prima un australopiteco poi un uomo arcaico e, infine, l’uomo moderno. Le venti ricostruzioni facciali andavano a coprire un arco cronologico lungo 7 milioni di anni, dalla comparsa in Africa del più antico ominino scoperto (Sahelanthropus tchadensis) fino alle specie umane più recenti, diffuse sul nostro pianeta 50 mila anni fa: Homo sapiens, Homo floresiensis e Homo neanderthalensis (Carrara 2018). Quest’ultimo è particolarmente significativo perché è il viso che noi — Homo sapiens — da oltre 150 anni abbiamo cercato maggiormente di rappresentare: il desiderio di vedere quanto diversi (o quanto uguali) siamo rispetto ai nostri cugini estinti più stretti, i Neandertaliani, ha mosso il lavoro degli studiosi e la curiosità degli appassionati. Nel 1908, a seguito della scoperta di uno scheletro neandertaliano ottimamente conservato a La Chapelle–aux–Saints in Francia, il paleontologo Marcellin Boule si occupò della ricostruzione anatomica — dimostratasi poi completamente errata — del fossile. Ne venne fuori un individuo di “aspetto bestiale” e in «contrasto con gli uomini del periodo successivo, gli uomini del tipo Cro–Magnon […] che furono i primi a meritare il glorioso titolo di Homo sapiens». Questa descrizione influenzò moltissimo anche Cesare Lombroso padre dell’antropologia criminale, nell’elaborazione della sua teoria sull’atavismo. Nel 1957 gli anatomisti William Straus e A.J.E. Cave riesaminarono il fossile francese, correggendo gli errori di Boule. Ne uscì un neandertaliano decisamente più umano. Scrissero a commento: «Se potessimo farlo rivivere e vederlo Il volto in mostra: due esempi di esposizioni temporanee 71 nella metropolitana di New York, lavato, rasato e abbigliato con abiti moderni, dubitiamo che il suo aspetto attirerebbe maggior attenzione di certi altri passeggeri». Dal lavoro di Straus e Cave, gli studi e le scoperte successive hanno definitivamente consolidato il successo, espresso anche attraverso ricche produzioni culturali, di quest’altra specie umana (Constable 1979). 2. Una faccia, una razza? Non proprio Quando l’ufficio immigrazione statunitense chiese ad Albert Einstein, in fuga dalla Germania nazista, di indicare a quale razza appartenesse, lo scienziato rispose: “Razza? Umana”. Negli anni a seguire, gli studi di biologia molecolare e genetica umana hanno mostrato che aveva ragione: l’idea che esistano “razze umane” biologicamente distinte è scientificamente inconsistente. Per esempio, la differenza nel DNA tra un pigmeo africano e un europeo è soltanto di pochissimo superiore a quella che si può osservare tra due pigmei o tra due europei: l’umanità è una sola! Siamo una giovane specie africana, divisa in popolazioni, non in razze. Tutti parenti e tutti differenti, a livello individuale. Eppure, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, la smania di dividere e di classificare l’umanità spinse gli antropologi a ideare strumenti e metodologie per valutare le caratteristiche morfologiche razziali dei singoli individui. L’esito tragico di questi studi fu la loro strumentalizzazione, che alimentò presunte teorie scientifiche utilizzate per giustificare discriminazioni, persecuzioni e stermini. Con queste parole veniva introdotto il tema della sezione, molto delicato e strettamente legato alla storia dell’Antropologia che, in passato, ha cercato di suddividere l’umanità in razze diverse a seconda di alcune caratteristiche fisiche, contribuendo così ad alimentare il razzismo. Esso è un prodotto dell’Età Moderna, figlio delle scoperte geografiche e strumento delle politiche colonialiste che necessitavano di essere legittimate da basi scientifiche. Linneo (1707–1778) fu uno dei primi a utilizzare il concetto di “razza” applicandolo all’uomo. Nella sua opera Systema Naturae (prima 72 Nicola Carrara edizione del 1735), egli propose all’interno della specie Homo sapiens quattro non meglio specificate sottodivisioni. Queste categorie erano: Americanus, Asiaticus, Africanus ed Europeanus. Esse si basavano primariamente sul luogo d’origine e secondariamente sul colore della pelle. Linneo associò a ogni razza anche alcuni caratteri della personalità che erano, a suo avviso, endemici in ciascuno degli individui di quel gruppo. I Nativi Americani erano di pelle rossa, tenaci e collerici. Gli Asiatici erano giallastri, malinconici e selvaggi. Gli Africani di pelle nera erano flemmatici e senza rigore. Gli Europei erano bianchi, gentili e ricchi di inventiva. Successivamente Johann Friedrich Blumenbach (1752–1840) operò, invece, una classificazione basata su misure craniometriche. Individuò cinque razze: Caucasica, Americana, Malese, Mongola ed Etiopica, senza però attribuire alcuna caratteristica comportamentale o giudizio morale. La classificazione di Blumenbach si basava solo su (presunte) considerazioni biologiche, anche se fu utilizzata per legittimare le politiche razziste degli anni a venire. Nel breve excursus storico del XVIII e XIX secolo legato al tema non si può non nominare Charles Darwin che aveva già compreso, con una lungimiranza di oltre un secolo, che le razze umane non esistono. Egli preferì parlare di “sottospecie” che si graduano l’una dall’altra impercettibilmente. Con arguzia, egli fece notare che lo stesso fatto che gli scienziati non siano mai riusciti a mettersi d’accordo sul numero preciso di razze umane esistenti, stia a significare che l’oggetto di discussione fosse inconsistente (Carrara 2007). Protagonisti di questa sezione espositiva erano i calchi facciali in gesso policromo realizzati da Lidio Cipriani (1892–1962), antropologo ed esploratore italiano. La sua figura è ancora oggi molto controversa, dato che fu uno dei firmatari del Manifesto della Razza del 1938, nonché uno dei più convinti sostenitori dell’inferiorità del popolo africano e della legittimità della politica colonialista italiana. Nel 1923 conseguì la laurea in Scienze Naturali a Firenze e nel 1939 gli fu affidata la direzione del Museo e Istituto di Antropologia di Firenze. Tra 1927 e il 1955, a fasi alterne, compì numerosi viaggi in Africa e Asia durante i quali scattò migliaia di fotografie, raccolse moltissimi reperti e descrisse minuziosamente le abitudini e le caratteristiche di popolazioni e culture Il volto in mostra: due esempi di esposizioni temporanee 73 attualmente in via d’estinzione. Nel 1945, a guerra finita, fu arrestato con l’accusa di essere stato uno dei firmatari del Manifesto della Razza, anche se fu rilasciato dopo pochi mesi. Le sue attività e le sue conferenze furono spesso ostacolate da chi lo criticava per i suoi trascorsi fascisti e solo oggi, a distanza a sessant’anni dalla morte, si può valutare la sua attività scientifica con maggiore obiettività: soltanto contestualizzando la sua figura al momento storico in cui ha operato, e separando la sua attività scientifica dalle sue convinzioni politiche, è possibile valutare obiettivamente l’importanza dei suoi studi, alcuni dei quali rappresentano ancora oggi un punto di riferimento in campo antropologico. La collezione Cipriani giunta a Padova conta quasi 120 calchi, rappresentativi di differenti popolazioni: Zulu, Cinesi, Etiopi, Pigmei, Arabi dello Yemen, Tuareg, Baria e Cumana, Mozambico, Berberi. Figli di un’epoca e di un’ideologia razziste, lo scopo dei calchi facciali era quello di mostrare le differenti razze umane, esaltando il primato intellettuale, morale e fisico dei cosiddetti ariani sulle altre popolazioni. Nello svolgersi del percorso espositivo, la rigidità classificatoria di Cipriani veniva via via demolita dalle numerose evidenze delle ricerche accumulatesi nel tempo — prime fra tutte quelle dei dati della genetica — che hanno tolto ogni possibile valenza scientifica all’esistenza delle razze umane (Tacchetto 2018). Come ideale contraltare alla rigida successione dei calchi di Cipriani, la sezione terminava con un’istallazione denominata “la giungla di facce”, in cui foto di visi di persone note o meno si mescolavano in un apparente disordine che mostrava la notevole variabilità fenotipica della nostra specie e la velleità di ogni sua divisione (Pagani 2018). 3. Volti dal passato La sezione aveva come protagonisti i visi di alcuni affascinanti personaggi del passato legati, in diversi modi, alla città di Padova: un sacerdote egizio di epoca tolemaica, Francesco Petrarca, Sant’Antonio, il beato Luca Belludi e Giovanbattista Morgagni. Le loro fattezze sono state ricostruite con l’ausilio delle più moderne tecnologie forensi e con l’occasione sono stati presentati i risultati di alcuni lavori di studio e ricerca del Museo di Antropologia. 74 Nicola Carrara La ricostruzione del viso di sant’Antonio è stato il lavoro che più ha interessato l’opinione pubblica e che ha avuto una notevole eco mediatica. Antonio, al secolo Fernando di Buglione, nacque a Lisbona nel 1295 da famiglia nobile. Mutò il suo nome quando si unì ai frati del convento di San Antonio de Olivares vicino a Coimbra, intorno al 1220. Giunse a Padova per la prima volta nel 1229, dove morì due anni dopo all’età di 36 anni. In meno di un anno fu canonizzato. Egli è tra le figure più carismatiche della storia della Chiesa e sicuramente il santo più venerato al mondo, I suoi Sermones furono redatti dal beato Luca Belludi (1200–1286), suo dotto discepolo. Per tutti i padovani Sant’Antonio è semplicemente “il Santo”, così come la basilica a lui dedicata. Il lavoro di ricostruzione del suo viso ereditò i risultati di alcuni studi fatti in passato. Nel 1981 avvenne l’ultima ricognizione dei resti mortali di S. Antonio, seguita da alcuni esperti dell’ateneo di Padova guidati dal prof. Vito Terribile Wiel Marin (1939–2015). In quell’occasione venne realizzato il calco del cranio ad opera dello scultore Roberto Cremesini. Si tratta di un calco in metallo completo di mandibola. L’eccezionalità del calco risiede nel fatto che dal 1263 la mandibola è tradizionalmente conservata in un apposito reliquiario connesso alla famosa “lingua del Santo”: solo nel 1981 essa è stata riunita con il cranio per la realizzazione della replica in metallo. Al termine della realizzazione, il calco è stato validato da scrupolose misurazioni osteometriche perfettamente rispondenti rispetto all’originale. Partendo dalla replica, lo stesso Cremesini realizzò anche una ricostruzione facciale artistica del Santo nel 1985. Il 10 giugno 2014, all’interno delle iniziative de “Il Giugno Antoniano” venne presentata pubblicamente la ricostruzione facciale forense di sant’Antonio, frutto del lavoro di ricerca del gruppo coordinato dal Museo di Antropologia. Il volto ricostruito era indubbiamente diverso da quello iconico che compare su statue e santini devozionali, ma rispettoso dei dati scientifici e storici disponibili e avvicinabile alle raffigurazioni più antiche del Santo, quelle di scuola giottesca ancora oggi visibili all’interno della basilica padovana a lui dedicata. Il lavoro di ricostruzione fu supportato dalla collaborazione del Centro Studi Antoniani per quanto riguardava le fonti storiche e dalle analisi paleopatologiche emerse durante la ricognizione dei resti nel 1981. Queste Il volto in mostra: due esempi di esposizioni temporanee 75 evidenziarono una notevole “estroflessione” delle ultime costole dovuto ad un aumento del contenuto endoaddominale, evidenza della malattia che colpì Antonio: questa causò un accumulo di liquidi sottocutanei a livello del viso e dell’addome (idropisia). Anche le fonti storiche ne parlano e descrivono il Santo negli ultimi anni di vita come corpulentus; per questa ragione nella ricostruzione del viso se n’è tenuto conto, aumentando gli spessori dei tessuti molli a livello delle guance e del mento. Il colore dei capelli è stato tarato sul ritrovamento di capelli marroni all’interno della tomba, mentre quello degli occhi e dell’incarnato è attribuibile al tipo “mediterraneo”, in coerenza con la provenienza portoghese di sant’Antonio. La tonsura e il saio (tipologia e colore grigio) sono elementi riscontrati in diverse fonti storiche (Carrara et al. 2014). 4. Lo specchio del viso Fin dall’antichità molti sono stati gli studi, scientifici o presunti tali, che hanno avuto il viso come loro oggetto di interesse. Illustri personaggi si sono occupati di fisiognomica e frenologia: per secoli — come ancora testimoniano tanti detti popolari — si è ritenuto che le qualità morali di una persona fossero rispecchiate nell’aspetto esteriore, in particolare nel viso. Ne Il ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde descrive magistralmente questa convinzione: il degrado morale del personaggio viene registrato dal suo ritratto, che denota via via un uomo vecchio e spaventoso. Togliendo gli orpelli di vecchie teorie, lo studio scientifico dei visi è continuato nel tempo perché, innegabilmente, il volto dice molto di noi e della nostra storia, sia individuale che di specie. Con queste parole il visitatore veniva introdotto in un excursus storico che ripercorreva le tappe più significative di questi interessi. Già ai tempi di Aristotele (IV sec. a.C.) si riteneva che ci fosse una correlazione marcata tra l’aspetto esteriore di un individuo e il suo carattere. Questa idea era sostenuta dalla fisiognomica, disciplina che ebbe molta fortuna fino al XIX secolo, tanto da essere insegnata nelle università. A essere influenzati dai suoi principi furono molti nomi illustri, primi fra tutti Leonardo e Michelangelo. 76 Nicola Carrara Il viso fu particolarmente studiato perché ritenuto capace di “registrare” i segni di passioni e desideri e, quindi, di fornire uno spaccato del temperamento morale di una persona. Sul finire del XVIII secolo, il medico viennese Franz Joseph Gall mutò l’oggetto di studio, ma non le conclusioni: non più il volto, ma il cranio. Secondo i principi della frenologia da lui elaborati, il cervello veniva diviso in 27 aree, ognuna associata a una precisa abilità. Più questa caratteristica era spiccata, più l’area cresceva in dimensioni spingendo sulla scatola cranica. Da qui l’espressione «avere il bernoccolo per…», retaggio di un’epoca in cui i profili morali delle persone si definivano palpeggiando teste (Carrara 2018). Cesare Lombroso (1835–1909) è una delle figure più importanti del positivismo italiano e internazionale: Ragione e Scienza erano per lui i cardini su cui costruire, su basi laiche, un mondo migliore. Il suo positivismo si esprimeva nell’estrema attenzione per la statistica e per l’accumulo di dati e nell’applicare il metodo scientifico a discipline esistenti o nascenti, con una speciale attenzione per la devianza: psichiatria, antropologia criminale, sociologia del genio, del folle e del delinquente, (presunti) fenomeni paranormali. Nel 1870, studiando il cranio del brigante Villella, Lombroso osserva una fossetta anomala a livello del lobo mediano del cervelletto. Attribuisce erroneamente a questa caratteristica variabile il carattere di primitività, tipico degli animali inferiori: a suo avviso è la prova biologica della predisposizione a delinquere. È il germe della sua teoria dell’“atavismo”, del ritorno di caratteri deleteri di un antenato in un lontano discendente. L’antropologo torinese trova argomentazioni a favore delle sue tesi nella ricostruzione, da lui commissionata, delle fattezze del neandertaliano di La Chapelle–aux– Saints (Francia), dai tratti forzatamente bestiali. Anche il mondo vegetale non rimane immune da questa teoria: le piante carnivore offrono un esempio di caratteri atavici, quasi si trattasse di “piante criminali” (Cilli e d’Antonio 2018). Anche Charles Darwin si avvicinò allo studio dei visi quando pubblicò, nel 1872, «L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali». Il naturalista inglese inserì la questione nell’ambito della sua teoria evoluzionistica, notando le analogie e le differenze tra la psicologia umana e il comportamento degli animali: «Noi possiamo comprendere Il volto in mostra: due esempi di esposizioni temporanee 77 anche il fatto che gl’individui (...), nell’uomo come negli animali, esprimano uguali modificazioni dell’animo con movimenti eguali». Un secolo dopo, nel 1967, Desmond Morris immaginando di mettere in fila le pelli di tutti i primati viventi, evidenziava come una si staccherebbe dalle altre: è Homo sapiens o, come scrisse lo zoologo inglese, la “scimmia nuda”. La nudità della nostra specie non riguarda solamente la pelliccia che ricopre il corpo, ma ha un impatto notevole sui visi. Grazie a una complessa e unica muscolatura facciale, facendo piccoli movimenti con la bocca, il naso, gli occhi, le sopracciglia e la fronte e combinando di nuovo i movimenti in maniera diversa, la nostra specie è l’unica in grado di esprimere una vasta gamma di complessi cambiamenti di emozioni. La “scimmia nuda” condivide moltissimi tratti con gli altri primati. Uno dei più sorprendenti è stato scoperto agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma guidati dal neurofisiologo Giacomo Rizzolatti. La corteccia cerebrale motoria delle scimmie (Homo sapiens compreso) non coordina solamente i muscoli per l’esecuzione dei movimenti, ma anche alcune aree neurali dette “neuroni specchio” che hanno proprietà sia motorie che visive: l’osservazione di un altro individuo che esegue un’azione induce nell’osservatore l’attivazione del medesimo circuito nervoso che è deputato al controllo della stessa azione. Il sistema dei neuroni specchio si candida a essere la base neurofisiologica della capacità di imitare il comportamento altrui (sbadiglio, riso, ecc.) e, soprattutto, permette la comprensione delle azioni e delle emozioni altrui simulandole nel proprio cervello (Ferrari 2007). Una postazione multimediale molto apprezzata chiudeva la sezione e riguardava due aspetti apparentemente opposti legati alla percezione del viso. Nella specie umana e in molti altri animali, riconoscere i volti (due occhi, un naso, una bocca, anche stilizzati) è una competenza fortemente innata che si manifesta subito dopo la nascita. Esistono, però, alcune persone che soffrono di un deficit percettivo acquisito o congenito del sistema nervoso centrale, detto prosopagnosia, che impedisce ai soggetti che ne vengono colpiti di riconoscere correttamente i volti delle persone. A seconda della forma e della gravità con cui la malattia si manifesta, essa può causare ai soggetti prosopagnosici forte limitazioni nella vita sociale. 78 Nicola Carrara Se la prosopagnosia è fortunatamente una condizione rara — si stima che probabilmente il 2% della popolazione umana ne sia colpito in forma lieve — molte persone, di contro, “soffrono” di pareidolia. La pareidolia non è una malattia, ma la tendenza istintiva a vedere forme familiari in immagini disordinate, tanto che è esperienza comune quella di vedere nelle nuvole, nelle venature dei marmi o in diversi oggetti d’uso dei volti umani. 5. Dalla faccia alla maschera: il viso simbolico Uno degli aspetti che più ci distingue dagli altri animali è l’atto di coprirsi la faccia per nascondersi o assumere nuove fattezze. Non si tratta di una raffinata tecnica di mimetismo perché, sebbene mascherati, rimaniamo in interazione con gli altri: le maschere rappresentano, piuttosto, affascinanti territori simbolici. Questi volti sostitutivi, presenti in moltissime culture umane in tutto il mondo, assumono nuovi e molteplici significati. Il viso, mascherato e moltiplicato, entra così a pieno titolo nell’evoluzione culturale umana. Le maschere esposte nella Sezione 5 sono quelle più significative del Museo di Antropologia: esse provengono da differenti collezioni etnografiche dell’Africa, dell’Asia e dell’Oceania (Carrara 2018). Ad arricchire ulteriormente la sezione è stata la preziosa collaborazione con il Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori” e il Centro maschere e Strutture Gestuali di Abano Terme (Padova) che ha portato in esposizione altre maschere di interesse etnografico e, soprattutto, parte della preziosa collezione di maschere teatrali frutto della produzione artistica degli scultori Amleto (1915–1962) e Donato Sartori (1939–2016) in più di ottant’anni di attività creativa. Una maschera molto legata alla tradizione veneta che ha trovato uno spazio approfondito nell’esposizione è quella di Arlecchino. Di questo famoso personaggio della Commedia dell’Arte, scaltro e dalla battuta sempre pronta, si racconta ai bambini di come la povera madre gli abbia cucito il costume di carnevale usando vecchi pezzi di stoffa. In realtà, la sua storia nasconde un passato oscuro. Il nome, di origine germanica, deriverebbe da Hölle König (re dell’inferno), traslato in Helleking o Harlequin. Nel Nord Europa precristiano si credeva che nei Il volto in mostra: due esempi di esposizioni temporanee 79 mesi invernali il cielo fosse percorso da una “masnada selvaggia” composta da demoni di ogni sorta, guidati da un re demoniaco. Il cristianesimo ha trasformato questa leggenda in una schiera di dannati, a seguito del re dell’inferno. Lo stesso Dante ne La Divina Commedia riferisce di un diavolo di nome Alichino, che, pur conservando i tratti demoniaci dell’origine nordica, non manca di mostrare caratteristiche burlesche (Meli 2000). Secondo Dario Fo, Arlecchino ebbe origine dalla contaminazione di due tradizioni: lo Zanni bergamasco da una parte e «personaggi diabolici farseschi della tradizione popolare francese», dall’altra. Della seconda, sulla maschera ne conserva un segno: un punto rosso sulla fronte, segno delle corna diaboliche mozzate (Fo 2011). Riferimenti bibliografici Bezzi A., Bezzi L., Moraes C., Carrara N., Pievani T., Tiziani M. (2016) FACCE. I molti volti della storia umana. Una mostra open source, in Basso P., Caravale A., Grossi P. (a cura di), ARCHEOFOSS. Free, Libre and Open Source Software e Open Format nei processi di ricerca archeologica. Atti del IX Workshop (Verona, 19–20 giugno 2014). Archeologia e Calcolatori, Supplemento 8, pp. 271–279. Bezzi L., Moraes C. 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In this essay, I first provide a historical–philosophical analysis of face masks qua medical tool. I then review and comment on what psychologists and other social scientists say on what social information the mask subtracts or adds to human face perception. Finally, I conclude by highlighting some implications of masked face perception and by speculating about the future use of face masks. Keywords: facemasks; face; Covid–19; facial expressions; social sciences 1. Come la pandemia (di mascherine) ha cambiato il volto (del nostro progetto di ricerca sul volto) Dall’ottobre 2019 al giugno 2022 ho il piacere di lavorare nell’ambito di un ambizioso progetto di ricerca europeo, denominato FACETS — Face Aesthetics in Contemporary eTechnological Societies (http://www. facets–erc.eu/) — da cui d’altronde scaturisce questo volume. Lo scopo del progetto, molto in breve, è studiare l’evoluzione dei modi in cui i volti vengono presentati e rappresentati alla luce dei cambiamenti tecnologici delle odierne società. Nel concepire il progetto, il suo (1) Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca (CER) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Orizzonte 2020 dell’Unione europea, in virtù della convenzione di sovvenzione n. 819649 (FACETS). 83 84 Marco Viola estensore, Massimo Leone, aveva in mente soprattutto le ultime frontiere delle tecnologie digitali: social network che ti permettono di “sfogliare” ampli cataloghi di facce e dating apps che ti permettono, con un solo tocco, di “scartarne” alcune e metterne invece altre “nella wishlist”; di conseguenza, filtri e programmi di fotoritocco capaci di adeguare le (foto delle) nostre facce all’esigente mercato di queste ultime (salvo poi alienarci dalle nostre facce non filtrate!); robot che assomigliano sempre di più agli esseri umani; reti neurali generative avversarie che permettono, con sforzo sempre minore, di generare volti sempre più credibili, a cui però non corrisponde alcuna identità (mai fatto un giro su https://thispersondoesnotexist.com/?). È infatti a quest’universo digitale che guardano molte pubblicazioni del nostro gruppo (es. Leone 2019; 2020a,b, 2021c; Barbotto 2021; Soro 2021; Soro et al. 2021; Giuliana 2021; Surace 2021). Tuttavia, all’inizio del 2020 la pandemia di Covid–19 spariglia le carte in tavola di tutto il mondo, ivi incluso il nostro progetto. Nel nostro caso, la pandemia scombina i nostri piani in una doppia accezione. Innanzitutto, sul fronte della logistica, limitando sul nascere le nostre ambizioni collaborative e costringendoci — ironia della sorte! — a vederci soltanto in quanto “facce proiettate su uno schermo” (cfr. Surace 2020; Voto 2021). Ma anche in accezione teorica: perché l’oggetto tecnologico che più di ogni altro ha modificato le nostre esperienze percettive di volti, l’oggetto che per Leone (2021a, abstract) «can undoubtedly be considered as “the object of 2020”» non è l’ennesimo gingillo digitale sfornato da qualche colosso della Silicon Valley, bensì un oggetto molto più semplice e antico, che affonda le sue radici nella storia della medicina tra diciannovesimo e ventesimo secolo: la mascherina sanitaria. Benché le linee progettuali di FACETS contemplassero già lo studio delle maschere, e alcuni nostri lavori si concentrano in effetti su maschere non sanitarie (es. Gramigna 2020; Marino 2021a; Soro e Voto 2021; cfr. Biggio e Dos Santos Bustamante 2021), la mascherina sanitaria in particolare ha finito per catturare l’attenzione di molti di noi (es. Leone 2020c, 2021a,b; Santangelo 2020; Viola 2020, 2021a; Cagol e Viola 2020; Marini et al. 2020). Molteplici sono le ragioni per cui abbiamo dedicato cotanto inchiostro (virtuale) a questo oggetto relativamente semplice. Semmai ci fosse La nostra vita (sociale) con la mascherina 85 bisogno di “giustificare” questo interesse, per i più venali basti menzionare il fatto che nel solo 2020 si stima che gli italiani abbiano speso 164 milioni di euro per acquistare le mascherine in farmacia (dati IQVIA). Ovviamente, la mascherina è interessante dal punto di vista medico: in quanto dispositivo di protezione individuale, si è rivelata un prezioso alleato contro la diffusione del virus (e forse, per serendipità, anche di altre influenze stagionali; dati InfluNet). Tuttavia, benché la sua funzione primaria sia di natura sanitaria, come scienziati sociali ci siamo interessati piuttosto agli effetti sociali della mascherina. Per noi esseri umani, con l’eccezione di chi non vede o è affetto da disturbi dello spettro autistico, le interazioni sociali passano soprattutto dal volto. Quando incontriamo qualcuno è innanzitutto il suo volto che guardiamo; è innanzitutto al suo volto che associamo il suo nome; è a partire da questo volto che ci formiamo dei pregiudizi, anche quando non ce ne accorgiamo o non ci piacerebbe ammetterlo (Todorov 2017); è (anche) osservando i movimenti del volto che “leggiamo” lo stato emotivo di un interlocutore, e magari lo facciamo un po’ nostro; ed è (anche) osservando i movimenti di una regione particolare del volto, quella attorno alla bocca, che comprendiamo il linguaggio parlato. Non credo di esagerare se affermo che il volto è la principale interfaccia della comunicazione umana. Rendendo indisponibile circa metà di questa interfaccia — quella inferiore — la mascherina altera dunque in modo significativo la comunicazione. Probabilmente la fenomenologia quotidiana delle nostre relazioni mascherate ce l’ha già insegnato, risultando più persuasiva di qualsiasi argomento teorico! La mascherina però non si limita a sottrarre qualcosa all’esperienza percettiva: essa inoltre aggiunge qualcos’altro. Questo “baratto semiotico” è sicuramente asimmetrico: ci priva di una parte particolarmente dinamica ed espressiva del nostro “corpo naturale” per ricoprirla di materia artificiale e inerte (non ho notizia di maschere che si muovono). E tuttavia, anche se quest’inerzia non permette l’ampia sfumatura di movimenti che rende la nostra faccia così espressiva, la superficie statica della mascherina non è però totalmente priva di potenzialità espressive: in base al contesto, la mascherina che indossa il mio prossimo mi può suggerire di trovarmi di fronte a una persona attenta alla moda (se griffata e/o abbinata al colore del mio vestiario; fig. 1a; cfr. 86 Marco Viola anche Pozzato 2021); a una persona che tifi una particolare squadra di calcio (fig. 1b); a una persona che vuole farsi beffa simbolicamente delle norme che impongono l’uso di mascherina (fig. 1c); a una persona che ci tiene ad apparire esuberante, se è una mascherina che non si vede spesso in giro (fig. 1d). Queste impressioni possono essere più o meno fondate, e potenzialmente indipendenti da qualsivoglia intento comunicativo del portatore di maschera (cfr. Leone 2020c); ma proprio così come non possiamo esimerci dal formarci un’impressione di una faccia “nuda” (Todorov et al. 2015), nemmeno, credo, siamo davvero capaci di una perfetta epochè a riguardo di una faccia mascherata. In questo contributo mi ripropongo dunque di tracciare una sorta di “fenomenologia sociale della mascherina” — o più precisamente, del volto mascherato. Benché il nostro interesse non risieda nella sua natura di presidio sanitario, sono le sue ambizioni mediche a determinarne la conformazione, ed è in virtù di questa conformazione che essa produce effetti sociali: pertanto, nel prossimo paragrafo (§2) fornirò un inquadramento storico–filosofico della mascherina come oggetto sanitario. Successivamente (§3) passerò in rassegna alcuni studi psicologici su ciò che la mascherina sottrae ai nostri sguardi avidi di informazioni sociali, per proseguire poi (§4) con alcuni spunti di natura antropologica, sociologica e semiotica su ciò che la mascherina invece aggiunge. In conclusione (§5) rifletterò brevemente sul futuro delle mascherine. 2. La mascherina come artefatto sanitario A partire da Aristotele, i filosofi (e non solo) tendono a ripartire gli oggetti del mondo in due macro–categorie: naturali a artificiali. Ovviamente, chiunque abbia speso almeno cinque minuti a riflettere sulla dicotomia naturale–artificiale capirà che si tratta di una distinzione problematica, piena di controesempi (come quasi sempre in filosofia): se da un lato è piuttosto pacifico che il Monte Bianco sia naturale mentre un iPhone è artificiale, cosa dire delle angurie senza semi? E dei cani, che a differenza dei lupi sono frutto di un processo di selezione umana durato secoli? La questione è controversa, ma possiamo fortunatamente accantonarla La nostra vita (sociale) con la mascherina (a) (c) 87 (b) (d) Figura 1. Modelli di mascherina e potenziali interpretazioni (a) Mascherina di design Louis Vuitton. Fonte: https://myleapstore.com/louis–vuitton–leather–face–mask/. (b) Mascherina commercializzata dalla squadra di calcio Juventus. Fonte: https://store.juventus.com/it/847/29903/juventus–face–mask–3–pezzi (c) L’imprenditore John McAfee dal suo profilo Twitter mette all’asta i tanga della moglie, che egli usava come “maschere anti–Covid” in protesta contro l’obbligo di mascherina. Fonte: https://twitter.com/officialmcafee/status/1291720883061620736. (d) Il comico e politico italiano Beppe Grillo, che più volte si è presentato in pubblico con maschere eccentriche, tra cui un casco di astronauta, qui indossa una maschera che riproduce la forma inferiore della sua faccia. Fonte: https://www.tgcom24.mediaset.it/politica/foto/grillo–e–la–sua–mascherina–invisibile–a–conte–e–di–maio–continuate–cos_22847435–2020.shtml. 88 Marco Viola perché l’oggetto che ci interessa, la mascherina, è un oggetto artificiale al di là di ogni ragionevole dubbio. Tra gli oggetti artificiali possiamo isolarne una sottoclasse che i filosofi sono soliti definire artefatti: oggetti “creati” intenzionalmente al fine di svolgere qualche funzione (Hilpinen 1993; Preston 2020). Dal momento che (per fare il verso a Lavoisier) “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, parlando di “creazione” di un artefatto si intende in effetti la trasformazione di uno o più oggetti naturali o artificiali di modo da conferirvi determinate proprietà: quelle che permetteranno loro di svolgere una determinata funzione. Tuttavia, conferire ad un certo oggetto determinate proprietà è solo metà della storia: anche se chi studia gli artefatti ne parla relativamente poco, chi invece li progetta e costruisce sa bene che un aspetto altrettanto importante nella loro “creazione” è quello di evitare proprietà indesiderate (è a questo che servono i collaudi). La funzione (o le funzioni) che un artefatto è pensato per svolgere determinerà dunque le sue caratteristiche strutturali tramite l’intervento di uno o più creatori. Ma è possibile che certi artefatti, in virtù delle loro proprietà, si trovino ad avere effetti collaterali inaspettati; e quando questi effetti vengono sfruttati attivamente da qualche agente per svolgere un compito diverso da quello previsto dalla loro funzione primaria, possiamo parlare a buon titolo di “funzioni secondarie”. Gli accendini sono progettati per produrre una fiammella, ma la superficie da cui si impugnano è sufficientemente rigida da permettermi di riutilizzarli per stappare una birra quando sono sprovvisto di un apribottiglie. Questa distinzione è piuttosto nota ai filosofi della tecnologia, anche se ne parlano con etichette e sfumature teoriche leggermente diverse (cfr. Preston 2020). Rimandando ad altra sede le perniciose disquisizioni che si potrebbero fare attorno a questa distinzione, limitiamoci a denominare primarie quelle funzioni “istituzionalizzate” che hanno un legame diretto con la produzione di un oggetto, e dunque determinano il processo di creazione; e secondarie quelle “improvvisate”, che emergono come per serendipità. Passando dallo studio della produzione (una tantum) di artefatti a quello della loro riproduzione (seriale), ovverosia storicizzando la produzione di oggetti, la storia della tecnologia ci mostra come questa dicotomia sia dinamica (cfr. Preston 2013). Restando La nostra vita (sociale) con la mascherina 89 in un ambito non tanto distante da quello a cui vogliamo approdare, prendiamo la storia di un farmaco prodotto dalla Pfizer: il famigerato viagra. La pillola blu venne inizialmente brevettata per curare l’angina pectoris. Dimostratasi inefficace a tale scopo, rivelò tuttavia un sorprendente effetto collaterale nel promuovere l’erezione nei soggetti maschili. Visto che ad oggi viene prodotta, commercializzata e acquistata prevalentemente a questo scopo, possiamo ben dire che la sua funzione primaria si è cioè evoluta nel corso del tempo (un fenomeno piuttosto comune nel mercato dei farmaci; cfr. Ashburn e Thor 2004). Equipaggiati di questo armamentario concettuale, possiamo finalmente volgere la nostra attenzione all’oggetto di questo studio: la mascherina. La genesi e sviluppo storico delle mascherine è presentata con eleganza in un recente libro dello storico della medicina Vittorio Sironi (2021). Più che alle maschere progettate e costruite per svolgere primariamente una funzione sociale — si pensi a quelle utilizzate nei riti tribali, o ai balli in maschera — la mascherina nasce per svolgere una funzione più prossima alle maschere protettive — dalle maschere antigas a quelle da hockey (Sironi 2021, cap. 4). Scavando nella loro “preistoria”, Sironi individua l’antesignano delle odierne mascherine nelle maschere dei medici della peste (fig. 2): le prime vere maschere con scopi medici compaiono […] a Venezia e a Roma durante le epidemie di peste del 1575 e del 1630. Avevano la grottesca forma di un grande becco d’uccello lungo e adunco, nella cui punta venivano poste paglia e sostanze aromatiche […] in funzione protettiva e “isolante” per evitare il contagio, che si riteneva potesse avvenire attraverso l’olfatto (Sironi 2021, p. 38). Tuttavia, l’origine più prossima delle mascherine che affollano le città durante la pandemia di Covid è invece da rintracciarsi nelle maschere impiegate dai chirurgi a partire da inizio Novecento (Sironi 2021, cap. 3.1). Complice una migliore comprensione dell’origine microbica di molte patologie, dovuta soprattutto agli studi di Pasteur, a cavallo tra Ottocento e Novecento alcuni chirurgi si pongono il problema di prevenire l’infezione dei pazienti che operavano a causa dei germi emessi 90 Marco Viola Figura 2. Rappresentazione del costume di un medico della peste, il dottor Schnabel (noto come “Dottor Becco”), nella Roma del Seicento. Fonte: Wikimedia commons. dai medici che parlino o anche solo respirino. Nascono così le prime mascherine chirurgiche, composte da alcuni strati di garza sovrapposti. Nelle prime decadi del Novecento l’uso delle mascherine comincia a diffondersi (non senza incontrare difficoltà e resistenze da parte di molti colleghi medici), viene studiato (scoprendo per es. che le mascherine non filtrano se bagnate, o se il naso rimane fuori), e perfezionato (per es. giustapponendo materiali più filtranti tra le due garze). Abbiamo parlato sino a qui delle mascherine chirurgiche atte a proteggere il prossimo. Ma è sempre ad inizio Novecento, in occasione della peste in Manciuria, che la storia della medicina vedrà sviluppare le mascherine filtranti, che proteggono (anche) coloro che le indossano: la loro ideazione e diffusione ad opera del medico cinese Wu fu salutata come simbolo della razionalità medica cinese (Lynteris 2018). L’impiego di mascherine filtranti sarà poi replicato pochi anni dopo in Europa, per contrastare l’influenza spagnola (Sironi 2021, cap. 3.2). Negli anni della pandemia, complici le raccomandazioni o gli obblighi imposti dai governi, abbiamo visto una vasta diffusione di entrambi La nostra vita (sociale) con la mascherina 91 i generi di mascherine: sia quelle chirurgiche o di comunità, atte a proteggere il prossimo dal nostro respiro, e proprio per questo chiamate talvolta “altruiste”; sia quelle filtranti, atte (soprattutto) a proteggere chi le indossa dai contaminanti dell’ambiente, per questo dette “egoiste”. Astraendo da questo elemento “direzionale”, possiamo asserire che la loro funzione primaria resta sostanzialmente la stessa che avevano ai loro albori: proteggere gli individui isolandoli da possibili contaminanti. Tuttavia, a questa funzione primaria si aggiungono alcuni “effetti collaterali”. Non mi riferisco qui alla loro presunta interferenza nella respirazione. E nemmeno alle miriadi di usi creativi ma idiosincratici cui le mascherine possono assolvere — alcuni piuttosto divertenti, ma nessuno così popolare da poter ambire al titolo di “funzione primaria”. Penso piuttosto a una serie di alterazioni che le mascherine apportano alla nostra vita sociale. Ne parliamo nei successivi due paragrafi. 3. Ciò che la mascherina toglie Ogni vestito, al netto delle proprie funzioni “tecniche” (per es. proteggerci dal freddo) ha anche un effetto “sociale” in quanto sottrae alla vista altrui una parte del nostro corpo. Tuttavia, se stiamo parlando di mondo sociale, il volto non è una parte del corpo come le altre. Già dalle prime ore di vita, i neonati della nostra specie tendono a guardare con più interesse e insistenza le configurazioni visive a forma di triangolo invertito (∵) rispetto ad altri simboli visivi; e farlo stimola l’attività di una regione cerebrale che negli adulti sappiamo associate all’elaborazione di facce, la cosiddetta “area facciale fusiforme” (Buiatti et al. 2018). Questa preferenza per gli stimoli a forma di “∵” è stata riscontrata anche nei feti al terzo trimestre (Reid et al. 2017). Secondo i ricercatori, queste configurazioni sarebbero una sorta di schema archetipico di una faccia (due occhi sopra, una bocca sotto). Siamo così “ghiotti” di facce che tendiamo a vederne anche laddove non ci sono — per esempio nelle nuvole o nel cibo — purché sia visibile una configurazione di quel tipo: è il fenomeno della cosiddetta paraeidolia facciale. Il risultato di questa “predestinazione biologica” è che, per dirla con Georg Licthenberg, acuto critico della fisiognomica settecentesco, “la più 92 Marco Viola divertente superficie della Terra è per noi quella della faccia umana”. I più maliziosi potrebbero essere tentati di ribattere che il corpo umano dispone di certe altre superfici assai più divertenti del volto. Ebbene, i risultati di un esperimento condotto dallo psicologo Nummenmaa e colleghi (2012) potrebbero disinnescare questa obiezione, o perlomeno ridimensionarla. Gli scienziati hanno monitorato lo sguardo di alcuni soggetti sperimentali mentre a costoro venivano mostrate fotografie di corpi umani, sia vestiti che nudi. Se i maliziosi avessero ragione, nel caso di soggetti nudi lo sguardo dei soggetti avrebbe dovuto subito indugiare sulle zone “divertenti” — quelle tradizionalmente considerate erogene. Ma così non è stato: anche quando venivano esposti a corpi nudi, gli occhi dei soggetti tendevano a soffermarsi prima sulla faccia, e solo in seguito a cadere verso altre zone! La faccia (o qualsiasi cosa che ne richiami la configurazione schematica) funziona come una sorta di calamita per i nostri sguardi. E non solo: quando incontriamo una faccia, ne deriviamo come d’istinto diverse informazioni sociali sulla persona. “Conosco questa persona? È giovane o vecchia? Femmina, maschio o non–binari ? Felice o arrabbiata? Da quale parte del mondo proviene? È attraente? Affidabile? La voterei alle prossime elezioni?” Appena vediamo una faccia (o — ripetiamolo — qualcosa che gli assomiglia!), il nostro cervello risponde a queste e molte altre domande in modo automatico e in tempi molto rapidi (nell’ordine delle decine di millisecondi). Lo fa anche senza che ne rendiamo conto. Se è un volto noto, queste risposte saranno fondate sulla nostra conoscenza della persona. Ma quando vediamo degli sconosciuti, il nostro cervello si spingerà ad azzardare qualche risposta, magari sbagliata o per lo meno infondata; e magari lo farà seguendo euristiche di cui, se ci rendessimo conto, non andremmo fieri — come il razzismo implicito o altre forme di pregiudizi (per una panoramica cauta degli studi psicologi sul tema, si veda Todorov et al. 2015). Insomma, quando vediamo una faccia è pressoché impossibile rimanere rimanere impassibili. E venendo alla bocca in particolare, vedere i movimenti fono–articolatori della bocca facilita la comprensione delle lingue. Concentriamoci qui su tre aspetti delle informazioni sociali facciali compromesse dalla mascherina: l’identità, l’espressione emotiva e la comunicazione verbale. La nostra vita (sociale) con la mascherina 93 Partiamo da quest’ultima. Che la comprensione del linguaggio parlato sia multimodale, e cioè la congruenza o incongruenza tra la percezione uditiva di fonemi e la visualizzazione del corrispettivo movimento fonoarticolatorio la faciliti o complichi (rispettivamente) è noto per lo meno sin dalla scoperta del cosiddetto effetto McGurk (McGurk e McDonald 1976). Nella quotidianità, dove la congruenza tra movimento articolatorio e suono è la norma, tendiamo a non accorgerci di questa nostra capacità inconscia di “lettura del labiale”. Ma ne abbiamo avvisaglia nei casi di incongruenza — quando per esempio sentiamo un film doppiato male. Vedere il gesto fonoarticolatorio è altrettanto importante quando si deve imparare una nuova lingua (es. Hardison 2003). Le mascherine complicano la percezione del linguaggio orale perché interferiscono con entrambi i canali: in misura minore quello uditivo, perché bloccano alcune onde sonore, soprattutto alle alte frequenze (più o meno alte, a seconda dei materiali; Magee et al. 2020; Corey et al. 2020; Saunders et al. 2020); e in misura maggiore quello visivo, perché non permettono la lettura del labiale (Giovannelli et al. 2021). Quest’ultimo aspetto è relativamente poco grave nei normoudenti, visto che la lettura del labiale costituisce per loro solo un sistema ausiliario; mentre diventa molto più grave per i sordi (non– e ipo–udenti), che dipendono integralmente dalla lettura del labiale quando cercano di decodificare le lingue naturali, e che usano dei movimenti della bocca come informazione linguistica in molte lingue dei segni. Per mitigare questo problema così debilitante per i soggetti sordi sono state inventati e commercializzati diversi modelli di mascherine parzialmente o totalmente trasparenti (fig. 3) — alcuni brevettati già prima della pandemia di Covid. Avendo appreso nello scorso paragrafo di come certi artefatti esibiscono proprietà e funzioni inaspettate, è legittimo chiedersi se queste mascherine, prodotte originariamente a beneficio dei sordi, presentino effetti collaterali inaspettati anche per i normoudenti. Rispondere a questa domanda è tuttora complesso: da un lato, la letteratura sulla multimodalità della comprensione suggerirebbe che vedere la bocca ripristini la possibilità di “leggere il labiale”. Che io sappia, non esistono attualmente studi che comparino direttamente l’efficacia dell’insegnamento 94 Marco Viola fonetico senza mascherina, con mascherina trasparente e con mascherina normale; mentre un solo studio compara la comprensione linguistica tra volti con mascherina e volti che indossano una protezione trasparente (il face shield; fig. 3c), riportando il risultato controintuitivo che le protezioni trasparenti peggiorano anziché migliorare l’accuratezza nella comprensione nei soggetti testati, un gruppo di bambini, verosimilmente perché i riflessi di luce sullo shield confondo chi osserva (Singh et al. 2021). Bisogna peraltro considerare che, per quanti accorgimenti si possano prendere, la trasparenza di queste mascherine è spesso parzialmente compromessa dal fatto che queste si appannano per effetto del respiro (chi indossa la mascherina assieme agli occhiali saprà bene di cosa parlo). Infine, se anche le mascherine trasparenti facilitassero la comprensione sgomberando gli ostacoli nel canale visivo, le plastiche con cui sono realizzate sono proprio il tipo di materiale che blocca il più ampio spettro di frequenze sonore (Corey et al. 2020). Ciò detto, come vedremo poco oltre, le mascherine trasparenti sembrano produrre altri “effetti collaterali” rispetto ad altri aspetti della percezione del volto. Veniamo ora a identità ed emozioni. In psicologia e neuroscienze vi è un certo consenso intorno all’idea che le informazioni relative all’identità dei volti e allo stato emotivo che esprimono siano elaborate in maniera relativamente indipendente da due sistemi neurocognitivi Figura 3. Alcuni modelli di mascherine trasparenti. (a) La mascherina parzialmente trasparente prodotta in Italia da DIENPI srl, certificata come dispositivo di protezione individuale. Nell’aprile 2021 il commissario speciale per l’emergenza Covid in Italia ne ordina 7 milioni da distribuire alle scuole in cui vi siano studenti sordi. (b) La mascherina trasparente dell’azienda americana ClearMask, in produzione già da prima della pandemia. (c) Un modello di visiera o face shield. La nostra vita (sociale) con la mascherina 95 parzialmente distinti (Bruce e Young 1986; Haxby et al. 2000). Il primo, deputato a stabilire l’identità, sfrutterebbe soprattutto i tratti statici del volto — la sua conformazione strutturale; il secondo, che inferisce le emozioni, soprattutto i tratti dinamici — i movimenti dei numerosi gruppi muscolari presenti sulla faccia umana (Bernstein e Yovel 2015). Partiamo dall’identità. Per coloro che ci conoscono, vedere il nostro volto è il modo più immediato per scoprire chi siamo. È per questa ragione che chi fa una rapina in banca si copre la faccia — magari approfittando di un passamontagna, la cui funzione primaria sarebbe di natura “tecnica” (proteggere dal freddo), per fargli svolgere una funzione secondaria di tipo sociale (occultare l’identità). Per lo stesso motivo la legislazione di diversi paesi proibisce di girare a volto coperto a meno di avere validi motivi. C’è una ragione teorica per pensare che la mascherina complichi il riconoscimento dell’identità: il riconoscimento dei volti sembra infatti funzionare in modo (più) “olistico” rispetto al riconoscimento di oggetti. Proprietà visive di tipo relazionale quale la distanza tra occhi, naso e bocca, sembrano insomma contare molto di più di proprietà puntuali quali il colore degli occhi. Diversi gruppi di psicologi hanno confermato che le mascherine rendono più complicato il riconoscimento dell’identità (Freud et al. 2021; Carragher e Hancok 2021; Marini et al. 2021; Noyes et al. 2021). Questo aumento di difficoltà in presenza di mascherina è stato riscontrato in modo piuttosto robusto (sia pure con diverse magnitudini) in compiti sperimentali diversi: dall’identificare un volto noto (tipicamente una celebrità) all’abbinare due volti fotografati in contesti diversi, fino al ricordarsi se un volto ignoto è stato già incontrato. La presenza di mascherine con finestra trasparente che lascia intravedere la bocca (fig. 4b) non sembra facilitare la memorizzazione rispetto alle mascherine tradizionali (Marini et al. 2021). E la difficoltà sembra riguardare tanto i soggetti dotati di capacità di riconoscimento nella media quanto i cosiddetti “super–riconoscitori”, persone dotate di una capacità di riconoscere volti fuori dal comune. Persino gli algoritmi faticano a riconoscere le facce quando mascherate, tant’è che sviluppare algoritmi capaci di riconoscere volti anche in presenza di ostruzioni — come la mascherina appunto — è una delle sfide che si sta ponendo chi sviluppa sistemi di machine vision (Damer et al. 2020). 96 Marco Viola L’attenzione degli psicologi è stata catturata ancora di più dal tema del riconoscimento delle emozioni a partire delle espressioni dei volti. Le espressioni facciali sono state lungamente considerate un sito privilegiato di espressione delle emozioni. Lo erano già per artisti come Leonardo da Vinci e Charles Le Brun, ma a partire dal diciannovesimo secolo lo diventano anche per uomini di scienza quali Duchenne de Boulogne, Charles Bell e Charles Darwin. Quest’ultimo in particolare inaugura una tradizione di ricerca evoluzionistica che, in polemica con l’idea creazionista che i muscoli facciali umani siano un dono di Dio affinché questi possano manifestare le emozioni (Bell 1824), ravvede l’origine di questi movimenti in comportamenti che sono funzionali per la sopravvivenza dell’organismo, o che per lo meno lo erano per i suoi antenati (Darwin 1872; cfr. Baggio e Parravicini 2020). Ad esempio, storcere naso, occhi e bocca durante le espressioni di disgusto ridurrebbe l’esposizione a sostanze contaminante (Lee e Anderson 2017). Darwin e i suoi eredi non negano che queste espressioni vadano poi a svolgere una funzione essenzialmente sociale; semplicemente, ritengono che questa funzione sociale sia emersa in seconda battuta, rifunzionalizzando qualcosa che aveva un’altra origine evolutiva (Shariff e Tracy 2011). Molti ricercatori ritengono peraltro che vedere un volto esprimente una certa emozione possa produrre in chi osserva un meccanismo di “contagio emotivo”, spesso associato all’azione dei famosi “neuroni specchio” (Caruana e Viola 2018; Palagi et al. 2021; ma cfr. Hess 2021). Questa sincronizzazione motoria ed emotiva costituirebbe l’humus implicito su cui edifichiamo molte relazioni sociali. Guidati dall’assunzione darwinista che le espressioni facciali delle emozioni avessero un’origine biologica, e confortati da alcuni esperimenti che mostravano una qual certo regolarità inter–culturale nella loro interpretazione (Elfenbein e Ambady 2002), diversi psicologi hanno proposto che il repertorio di espressioni facciali delle emozioni si organizzasse a partire da piccole variazioni a partire dagli schemi di attivazione muscolare relativi a un ristretto numero di emozioni dette “di base”. Nella tassonomia di Paul Ekman (1999), verosimilmente il più noto tra loro, figurano tipicamente disgusto, felicità, paura, rabbia, sorpresa e tristezza (più raramente disprezzo). Benché lo statuto di queste emozioni di base sia stato oggetto di numerose e fondate La nostra vita (sociale) con la mascherina 97 critiche (Russell 1994; Crivelli e Fridlund 2019), in pratica queste sei– sette emozioni e le loro corrispettive espressioni hanno assunto una posizione egemonica — che tuttora stentano a perdere — nella ricerca sulle emozioni (cfr. Viola 2021b). Ciò detto, mettendo (chi più chi meno) tra parentesi le criticità derivanti dall’assumere una corrispondenza semplicistica tra espressioni facciali ed emozioni, diversi ricercatori si sono chiesti, se coprendo la metà inferiore, le mascherine complicassero il riconoscimento di certe emozioni (Carbon 2020; Carbon e Serrano 2021; Marini et al. 2021; Kastendieck et al. 2021; Ruba e Pollak 2020; Noyes et al. 2021; Bani et al. 2021). La risposta breve è: sì. Una risposta leggermente più lunga richiede invece alcune specificazioni. Primo, siccome i tratti distintivi di certe espressioni emotive sono situati nella regione degli occhi piuttosto che in quella della bocca (Blais et al. 2012), diverse emozioni sono interessate in diversa misura: ad esempio, non vedere bocca e naso rende molto più arduo riconoscere il disgusto, ma non sembra inficiare significativamente il riconoscimento di espressioni di gioia (Carbon 2020). Secondo, laddove le mascherine sembrano inficiare la capacità di discriminazione “a grana fine” tra emozioni specifiche (es. disgusto/rabbia), tutti i dati disponibili finora suggeriscono che l’abilità di discriminare tra emozioni positive e negative resti preservata (Marini et al. 2021; Kastendieck et al. 2021). Terzo, certi ricercatori tendono a ridimensionare la portata di questi dati in contesti reali. Nel loro studio sulla percezione delle emozioni in volti mascherati nei bambini, pur trovando una riduzione dell’accuratezza di individuazione comparabile ad altre ricerche simili Ruba e Pollak (2020, p. 9) commentano che «children’s ability to infer and respond to another person’s emotion, and their resulting social interactions, may not be dramatically impaired by mask wearing during the Covid–19 pandemic». La loro critica non è priva di mordente: laddove questi esprimenti isolano artificialmente foto di volti statici, nella vita quotidiana le nostre inferenze sugli stati emotivi altrui sono mediate da altri fattori diverse dalla faccia, quali il contesto o i movimenti di tutto il corpo (Aviezer et al. 2017). Inoltre, è pur sempre possibile che, dopo mesi di pandemia, taluni abbiano potuto sviluppare strategie 98 Marco Viola di interpretazione e/o espressione delle emozioni che “aggirano” la mascherina. E tuttavia, anche al netto di questi elementi di mitigazione, è pur sempre vero che il volto è un luogo preferenziale di fissazione dello sguardo; in quanto tale, la sua (parziale) indisponibilità rende il riconoscimento delle emozioni meno fluido. Infatti, i partecipanti dell’esperimento di Carbon (2020) riportano maggiore incertezza nella decodifica di certe emozioni quando il volto è mascherato. Viene quindi spontaneo chiedersi se vedere volti mascherati ostruisca la creazione del legame empatico derivante dal contagio emotivo. Lo studio di Kastendieck e colleghi (2021) affronta la domanda di petto. Per indagare (tra le altre cose) se la maschera attenui la mimesi facciale che sta alla base dei legami empatici, i ricercatori hanno mostrato a diversi soggetti sperimentali alcuni video ritraenti espressioni facciali di gioia e tristezza, con o senza mascherina. Mentre rispondevano ad alcune domande, i soggetti venivano ripresi da una telecamera che ne inquadrava il volto. Grazie ad un software che ha analizzato i movimenti del volto dei soggetti, Kastendieck e colleghi hanno mostrato come gli attori mascherati siano percepiti come socialmente più distanti; e come le facce gioiose (ma non quelle tristi!) evochino una risposta mimica assai più blanda in presenza di mascherina. L’ipotesi che le mascherine possano per così dire “ostruire l’empatia” sembra poi avvallata anche da evidenze indirette, provenienti dalla letteratura sulla comunicazione tra pazienti e personale sanitario. Wong e colleghi (2013) riportano come i medici che visitano i propri pazienti con mascherina sono percepiti come meno empatici di quelli che li visitano a volto scoperto. Per mitigare questo problema di comunicazione emotiva, particolarmente annoso per chi svolge un lavoro sanitario (Marler e Ditton 2020) o educativo (Spitzer 2020), alcuni medici e infermieri hanno sperimentato un intrigante espediente: indossare una fotografia del proprio volto sorridente sul camice — operazione relativamente semplice che sembra aver aumentato la percezione di amichevolezza nei pazienti (Wiesmann et al. 2021). Un’ultima precisazione è che una finestra di plastica trasparente nella regione della bocca (come nella fig. 4b) sembra rimuovere ogni ostacolo al riconoscimento delle emozioni (Marini et al. 2021). In altre parole, al fine del riconoscimento delle emozioni, indossare una mascherina La nostra vita (sociale) con la mascherina 99 trasparente che lasci scoperta (almeno) la bocca è come non indossarne affatto. Ne consegue che un volto senza maschera ispira più empatia? Sembrerebbe di sì, per lo meno a giudicare dai risultati dei questionari di Kratze et al. (2021), che rivelano che i chirurghi che interagiscono con i pazienti indossando una ClearMask (fig. 3b) risultano più empatici di coloro che indossano una mascherina trasparente. Riassumendo, in questa corposa sezione abbiamo esaminato alcuni rudimenti teorici di percezione dei volti per poi esaminare come le mascherine compromettano tre tipi di processi: comprensione linguistica; riconoscimento dell’identità; e riconoscimento delle emozioni — con importanti ricadute sull’empatia. Dal punto di vista della filosofia e storia degli artefatti, è interessante constatare come un effetto collaterale sociale delle mascherine — ostacolare la comprensione linguistica nei sordi — abbia promosso lo sviluppo di una “mutazione tecnologica”; dopodiché, la mascherina trasparente ha prodotto a sua volta almeno un effetto inaspettato — facilitare il riconoscimento delle emozioni e dunque l’empatia — che potrebbe preludere ad una loro adozione più ampia di quanto originariamente programmato, e dunque a un ulteriore slittamento della loro funzionalità. Ma la maschera, come si è detto, non solo ostacola l’accesso a una superficie significante quale la faccia; essa stessa può costituire una Figura 4. Esempio di tre volti mascherati adottati nello studio di Marini et al. (2021). (a) Un volto esprimente paura tratto dal Karolinska Directed Emotional Face database (Lundqvist et al. 1998). (b) Lo stesso volto fotoritoccato con una mascherina parzialmente trasparente o (c) con una mascherina chirurgica tradizionale. Fotoritocco cortesia di Roberto Gamboni. 100 Marco Viola superficie di significazione. Lo sanno bene gli psicologi sociali che hanno voluto comparare l’interpretazione dei volti coperti da mascherina chirurgica e da quelli coperti da altri oggetti, quali sciarpe (Calbi et al. 2021) o Niqab (Hareli et al. 2013). E tuttavia, per arricchire la nostra comprensione dell’informazione sociale aggiunta dalla maschera sarà opportuno volgere lo sguardo dalle scienze sperimentali ad altre discipline più qualitative. 4. Ciò che la mascherina aggiunge Si pensi a come molte culture abbiano costruito ed impiegato maschere per finalità sociali — ad esempio riti religiosi o laici o rappresentazioni artistiche. A tali maschere sociali molta attenzione hanno prestato scienze sociali quali l’antropologia (es. Grimes 1975; Levi–Strauss 1975; Honigmann 1977), la semiotica (es. Pollock 1995; Gramigna 2021; Marino 2021a) e la sociologia (es. Pizzorno 2008; Inglis e Almila 2020). Al prezzo di qualche semplificazione, possiamo dire che queste “maschere sociali” sono concepite come dispositivi per significare un elemento di identità, oppure un qualche cambiamento nell’identità. Una loro caratteristica che merita di essere evidenziata è la loro staticità: “la rigidità, cioè il non mutamento nel tempo, l’identità della cosa a se stessa” (Pizzorno 2008, p. 27). Di contro all’alta motilità dei muscoli del viso, una maschera non si muove. Certo, quando sufficientemente plastica, o quando trasparente, essa può far trapelare le emozioni proprie del volto. Ma di per sé, una maschera, con la sua posa eterna e immutabile, può rappresentare una sola espressione emotiva. Ecco perché per Pizzorno (2008 p. 35) “la maschera comincia là dove si abolisce la persona; l’espressione vi si pietrifica, anzi non è più tale ma è un’apparenza diventata identica a se stessa”. Giova rilevare come non tutti gli oggetti che comunemente chiamiamo “maschera” sono stati ideati per assolvere a uno scopo sociale di questo tipo quale funzione primaria. Chi progetta e costruisce le maschere da sci o le maschere anti–gas tende di solito a privilegiare materiali e lavorazioni che ne valorizzino la funzionalità tecnica. E tuttavia, se la mia ipotesi è corretta, data la centralità della faccia, una maschera — ancor prima e La nostra vita (sociale) con la mascherina 101 ancor più di qualsiasi altro capo di abbigliamento — non può non acquisire una (forte) valenza semantica, e quindi una funzione sociale. Anche laddove la maschera non mimi il caratteristico schema a “∵” che cattura la nostra attenzione, è presumibile che la zona del volto (mascherato) funga comunque da “pista d’atterraggio” dello sguardo in forza dell’abitudine. Pertanto, è ragionevole ipotizzare che un’informazione visiva rappresentata nella zona del volto goda, a parità di condizioni, di maggiore salienza di quanto non farebbe se rappresentata altrove. Se ho ragione, vi è da aspettarsi che, a parità di dimensioni e colori, un tatuaggio in volto salti all’occhio più facilmente di uno su un braccio. L’idea che delle maschere nate specificamente a fini sanitari finiscano per acquisire un valore sociale è peraltro già sottolineata dall’antropologo medico Lynteris (2018) nella sua descrizione del ruolo delle maschere nella lotta alla peste in Manciuria. Enfatizzando il ruolo retorico dell’ampia documentazione fotografica di individui mascherati raccolta dal dr. Wu, promotore dell’uso generalizzato delle mascherine, Lynteris argumenta a tal proposito: while being a practical, and in some cases effective, prophylactic technology, its material application has always already been tied to a symbolic function, which we should more precisely classify as mythic. This function, I would like to claim, renders these devices into masks, in the proper sense of the term (2018, p. 448; cfr. Sironi 2021, capp. 5–6). Laddove il significato delle maschere create per essere sociali viene come coagulato da pratiche di significazione relativamente esplicite e codificate, quello delle maschere che diventano sociali emerge rapsodicamente tramite stratificazioni e circolazioni di significati per così dire “regionali”. Di conseguenza, l’interpretazione di questo significato è maggiormente suscettibile a confusioni e variabilità che possono dipendere da coordinate (a) geografiche, (b) temporali o (c) politiche. Per fare solo alcuni esempi: a. Variabilità geografica: Leone (2020c) enfatizza il contrasto tra come noi occidentali percepiamo come uno “scandalo” il volto mascherato e l’interpretazione della mascherina come un elemento 102 Marco Viola perfettamente normale in alcuni paesi asiatici, dove anzi indossare la maschera in luoghi affollati può venire letto come segno di rispetto verso il prossimo. b. Variabilità temporale: In uno studio antropologico sull’uso delle maschere sulla popolazione cinese di Hong–Kong prima e dopo la pandemia di Sars a inizio millennio, Siu (2016) evidenzia come i valori positivi che vi erano attribuiti prima — quali patriottismo e altruismo — siano stati soppiantati da valori negativi — quali segnale di debolezza. c. Variabilità politica: Ma le interpretazioni ambivalenti possono anche convivere entro le stesse coordinate geografiche e temporali: lo sanno bene i cittadini statunitensi, per i quali l’ostentazione di una maschera o della sua assenza (quando non di un oggetto che ne scimmiotti la funzione, come nel caso di McAfee ritratto nella fig. 1c) diventa un gesto gravido di simbolismi politici durante la campagna elettorale che ha visto contrapposti Biden (dichiaratamente pro–mask) e Trump (più o meno implicitamente no–mask) (Inglis e Almila 2020; Lupton et al. 2021). Simili osservazioni hanno fatto capolino anche nel dibattito italiano, dove il filosofo Agamben (2020) si è fatto promotore di un’aspra critica all’abiura del volto, considerato luogo per eccellenza della politica (ma vedi Marino 2021b; Viola 2021a). Va notato infine che le maschere non si limitano a modificare i comportamenti altrui nei confronti di chi la indossa: essa influenzano il soggetto stesso che la indossa. Nelle parole di Chiara Cappelletto (in stampa), The mask trains, manipulates, and requalifies whomever wears it, adjusts to it, and does or does not adapt to it. It produces a retroactive effect on its wearers, inserting them in a feedback loop and causing a continuous renegotiation between them and their environment. Tutto sommato, l’idea che indossare una maschera alteri la nostra identità, slatentizzando comportamenti e lati del nostro carattere che non si sarebbero manifestati in sua assenza, è un topos piuttosto La nostra vita (sociale) con la mascherina 103 ricorrente nell’inconscio collettivo. Per citare solo un esempio pop (e molto didascalico), si pensi al film The Mask (1994). Nella pellicola, adattamento dell’omonimo fumetto di Arcudi e Mahnke, Jim Carrey veste i panni di Stanley Ipkiss, un impiegato di banca dai modi impacciati, la cui personalità tuttavia si ribalta in quella di un dandy esuberante quando indossa una maschera maledetta. Oltre che essere suggerito dal senso comune, questo potere trasformazionale delle maschere è documentato anche nelle scienze sociali. Honigmann (1977) vi riflette a partire da un vivido resoconto della sua esperienza nel villaggio austriaco di Irdning durante le tradizionali festività di Natale, dove le famiglie vengono visitate da San Nicola accompagnato da una figura demoniaca, il krampus. Impressionato dalla coerenza tra costume ferino e comportamento animalesco, l’antropologo esclude che le condotte licenziose siano determinate soltanto dalla garanzia dell’anonimato (garanzia che, spiega, non è davvero tale in comunità piccole dove è noto chi interpreta il ruolo); piuttosto, suggerisce che il comportamento di chi indossa la maschera possa essere facilitato da un insieme di regole e aspettative sociali, promosse peraltro dalle risposte della comunità; e che dal momento che la faccia costituisce «an anchorage point of identity» (p. 277), «masking, by distantiating identity through concealing the face, overcomes some of the responsibility and conformity to convention that a person’s sense of personal identity normally incorporates» (p. 276). Più di recente, un effetto simile è stato riscontrato anche dagli psicologi in relazione agli avatar negli ambienti virtuali, le cui sembianze sembrano produrre effetti sul comportamento dell’agente (Proteus effect; Yee e Bailenson 2007); e dal recente programma di ricerca sulla enclothed cognition, che ipotizza che indossare un abito modifichi certe performance cognitive (Adam e Galinsky 2012; ma cfr. il tentativo di replicazione fallito di Burns et al. 2019). Cappelletto ipotizza che le mascherine sanitarie non siano scevre di questo potere trasformazionale. A tal proposito, sta avviando un programma di ricerca mosso dalla seguente intuizione: As the daily experience of wearing masks due to the spread of the Covid–19 virus has shown us all, masks, as extrasomatic embodied 104 Marco Viola artifacts, shape our self–experience. They are less effective at altering our appearance than at interfering with our kinesthesis. Despite being broadcasted as political signs and sold as fashion accessories, their primary impact is on spatial and personal interaction. In wearing them, we become less efficient at evaluating the distance of objects and people in our peripersonal space, we walk and run less confidently, we talk in a lower voice. While we can see wearers’ eyes, we lose their lips movements, to the point where companies, to meet the demands of consumers — and most notably, teachers — are producing transparent models designed to show the mouth. Having a mask over our mouth interferes with our touch, our sense of balance, our phonatory apparatus. It is not a surface that we see, but something that we make (use of). (Cappelletto in stampa) Al netto dei dettagli, le evidenze psicologiche disponibili suggeriscono che indossare una mascherina modifichi il nostro comportamento — ad esempio riducendo la distanza interpersonale (Cartaud et al. 2020; Lisi et al. 2021). Chiaramente, i primi studi si sono concentrati sulla distanza interpersonale per rispondere all’emergenza sanitaria; ma potrebbe valere la pena indagare un più ampio spettro di comportamenti, anche meno ovvi. Specialmente se, come credo, le maschere rimarranno a far parte dell’arredo della nostra quotidianità — per lo meno in certi contesti. 5. La mascherina nella vita sociale: un bilancio Ricapitoliamo: anche se congegnata e prodotta con finalità mediche, la mascherina acquisisce inevitabilmente delle funzioni anche sociali. E come potrebbe non farlo, venendo a interagire con il volto, organo sociale per eccellenza? Forti di una conoscenza piuttosto consolidata di percezione dei volti, gli psicologi sperimentali si sono soprattutto concentrati su come la mascherina tolga informazione sociale, interferendo con la percezione e l’apprendimento del linguaggio orale, con la memorizzazione e il riconoscimento dell’identità, nonché con la comprensione delle emozioni e la sincronizzazione empatica mediata dalla mimica facciale. Tuttavia, come ci insegnano altre scienze sociali, le La nostra vita (sociale) con la mascherina 105 mascherine, in quanto maschere, aggiungono anche altre informazioni sociali, alterando il modo in cui viene percepita la nostra identità — forse persino da noi stessi! Vale la pena ribadire che nulla di quanto detto finora va interpretato in chiave assiologica. In altre e più povere parole, non è affatto detto che l’informazione sociale tolta sia un male; o che quella aggiunta sia un bene. Infatti, se da un lato un allarmato Agamben (2020) lamenta che «[u]n paese che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini è, allora, un paese che ha cancellato da sé ogni dimensione politica», dall’altro Leone (2020c, p. 50) riporta la confessione di alcune sue studentesse di Shanghai, che affermano come con la mascherina «they would feel more at ease, more protected from alien gazes». Dopotutto, a ben vedere, la faccia è la regione del nostro corpo che dice più cose di noi; in questo senso è molto più intima di qualsiasi altra. Se ci aggiungiamo che il nostro volto scatena in chi non ci conosce pregiudizi che sfuggono al nostro controllo, vale la pena domandarsi per quale motivo la collettività dovrebbe privarci la libertà di decidere se, quando e a chi mostrarlo? Riferimenti bibliografici Adam H., Galinsky A.D. (2012) Enclothed cognition, «Journal of experimental social psychology», 48(4): 918–925. 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An analysis and theoretical reflection dedicated to the surface levels of manifestations, through an exploration of visual semiotics, the discursive level of the generative trajectory, and the discursive interactions emerging from texts about masked faces in different socio–cultural situations, the work debates the disconnection between discursive and semio–narrative levels the contrariety of niqabs and surgical masks manifests. The analysis is divided into three parts: an initial discussion of the plastic of masked faces, following Greimas (1983) Figurative Semiotics; an examination of the mechanisms of thematisations and figurativisation (Greimas & Courtés 1993); and an exploration of the Discursive Interactions (Oliveira 2013) emerging from the production of communications about the objects in relation to their cultural contexts. By exploring this false contrariety, originated in a given binary supporting a power imbalance between Western and Oriental cultures and practices, we aim at visiting the mechanisms of meaning–making — particularly the ones discussed by Barthes (1970a, 1970b, 2009), such as the bending of signifiers through myth or the construction of the Other through a collection of essentialised traits — and what those mechanisms entail both to our current cultural and media landscape, and equally for a theory of construction and apprehension of meaning. Such exploration of a crisis of meaning and its models occasions the overlapping with the Post–structuralist tradition, particularly the work of Deleuze and Guattari (1980) and their idea of rhizomatic anti–models of meaning. The work concludes with a reflection about the matter of veridiction and its construction, as well as the role of random sense in both creating the current chaos of information and crises of truth and in becoming a performative tool to restore a sense of meaning, helping subjects — meaning makers and meaning readers — to restore their sense of identity. Keywords: niqab; surgical mask; visual semiotics; discursive level; discursive interaction. 113 114 Marilia Jardim 1. Introduction The firsts lines of L’empire des signes present the possibility of imagining a fictional people, giving it an invented name, so as to avoid compromising a real country in a fantasy: Barthes’ analysis of Japan, he confesses, is not an attempt at a historical, philosophical, political or cultural approach to the Other (or to a reality), but a collection of “traits” from which to deliberately form a system (Barthes 1970a p. 11). That crucial distinction — a country’s “reality” versus its essentialised elements — has become almost absent in 21st–century cultural logic and its systems of production and apprehension of sense. While the search for a seemingly absent meaning becomes the root cause of identity fragmentation, collections of traits from those identities are deliberately used in the construction of systems that are almost fictional — like Barthes’ Japan. Those fictions of nations, built from decontextualised paradigms that are forced into becoming emblems of cultures, can be used to serve (at least) two functions: either to the ostentation of cultural difference, creating a façade of diversity and inclusion without addressing the systemic root of exclusion and cultural hegemony; or in the dysphoric construction of the Other, utilising fragments of cultural practices to invent a barbaric, uncivilised enemy. The creation of cultural practices in a reductionist way, examining traits rather than systems, only results in discourses that are disconnected from sense, when considered in the traditional semiotic approach that understands meaning as articulated through a hierarchy of levels: a meaningless form of meaning–making that no longer seems to “obey” the structures of a Semiotic theory. The result is an understanding of a variety of questions, as well as the understanding of Others and their cultures, to be often enclosed in an incomplete trajectory of meaning which seems to amputate the semio–narrative level: the figures of expression are often confused with fundamental meaning, and the most superficial contrasts of things are accepted as if they were values forming a fundamental category. While discussing such matters may seem like a theoretical exaggeration of details and definitions, the difference between the levels is central in the recent epidemic of “semantic contradictions” becoming a dominant story. The niqab and the surgical mask 115 Such settings are fertile ground for the “multiplicities” conceptualised by Deleuze & Guattari in Mille Plateaux: the rhizome as a principle of connection and heterogeneity, rather than a fixed point facilitating chains grounded in order and hierarchy, which the authors approximate to the image of the root or tree (Deleuze & Guattari 1980). Rather than fixing points in a way that limits the world, the rhizome is pure relation, lines that reach in all directions. In such “anti– genealogies”, the hierarchy of meaning–making is disrupted, reversed, enabling visual contrasts to become sense instead of manifesting it. In a rhizomatic manner, the meaning makers and the meaning readers collage pieces of expression and pieces of content that are not homologated, perhaps resulting from a form of discursive interaction producing random sense, as is substantiated by Oliveira (2013): a mode of meaning construction in which the roles of enunciator and enunciatee, as well as sense itself, are not fixed or pre–determined by a code. Random modes of constructing discourses are also closely connected to Barthes’ understanding of myth as a semantically cumulative mode of signification that hijacks different signs, reverting them back into signifiers of new meanings. Although those myths often seem to be grounded in logical reductions, Barthes remarks the arbitrary nature of such investments (or re–investments) of significance in objects, particularly images (Barthes 2009 p. 132): rather than obeying the hierarchical logic of semiosis, homologating a predictable expression and content relation, myth permits creating sense about groups and objects, even when it contradicts one or multiple cultural contexts. While for Barthes myth is an “extension” of the sign, reused as a new signifier that is not preceded by the loss of its original meaning, it is also possible to understand the phenomenon concerning the “false opposition” created around niqabs and surgical masks as a disjunction of expected expression and content, rather than a resignification or accumulation. The random significations we see today seem to relate more to a form of “self–sufficient” discursive level that needs no semio–narrative level, creating modes of signification that rely solely on surfaces, visual or verbal, as a prevalent mechanism of meaning–making. Dissecting such phenomena, widespread in a globalised Western culture and in the media it utilises to disseminate itself, could provide 116 Marilia Jardim some clarification on the cultural contradictions and double standards existing in our prevalent discourses today. Equally, whenever the part is taken as the totality–in this case, the discursive level becomes the complete generative trajectory–it becomes crucial to understand the mechanisms, typical of the discursive level, utilised in the construction of misrepresentations through artifices of “truth creation” that are often at the base of political discourses, both mainstream or “conspiratory”. Making truth from lies–or, at least, gross misconceptions–is an isotopic trait in Western thinking, and the analysis of objects touching upon the untouchable binary of West and Orient are necessarily intersectional with political issues, particularly the ones addressed by Post– colonial and Decolonial thinking. The logic behind the polarisation of niqabs and surgical masks is no different, in which part of its project relates to a symbolic “truce” suspending some long–standing convictions that are at the core of Western ideas of freedom and other cultural beliefs, in response to a life–changing (or life–threatening) event: the Covid–19 pandemic. However, the visual contrasts in which such oppositions are constructed don’t seem to survive a hierarchical, generative analysis: beyond the marked visual differences between the niqab and the surgical mask, or the linguistic variations of what we call things, a semio–narrative level seems to unite, rather than diverge those objects. Underneath the visual contrast, similar roles and narratives, similar trajectories of acquisition, loss, and transformation, similar fundamental values that transit in equivalent operations show us not the original antithesis of West and Orient that supports widespread narratives of “I” and “Other”, but that we are not so different after all (Jardim 2021a). In such light, the niqab and the surgical mask are also two seemingly different façades, carrying socio–cultural values that we are used to perceiving as being opposed to one another but which, in the end, are deceptive outward appearances enclosing very similar narratives and values, welcoming a semiotic problem of what things are versus what things appear to be (Greimas 1983, 2002). To bring light to those questions, the work aims at analysing the superficial level of this false binary, the niqab and the surgical mask, exploring what visual and plastic relations are created in the interaction of face and mask, as well as masked The niqab and the surgical mask 117 faces and the eye. Rather than merely inventorying the elements present in the objects, we follow Marsciani’s argument that there is semiosis in all the levels of the generative trajectory (Marsciani 2014) and, similarly, Oliveira’s (2004, 2013) work presenting the possibility that interactions also occur at the discursive level. Hence, the analysis will explore three different aspects of the opposed pair: the plastic and visual formants and the visual relations they construct in a dynamic of face and mask, and masked faces; the sartorial discourses in which masked faces utter meaning; and the discourses about the objects, or how the differences are constructed and communicated through texts. Through this exercise, the work aims at addressing how mechanisms of masking through different apparatuses operate equivalently and, yet, are capable of constructing oppositions separating practices, ideologies, and material objects. Ultimately, it’s important to reflect on how the “semanticization” of superficial contrasts appears as a tool of constructing and reinforcing differences, often weaponised to sustain power dynamics that can only thrive in uncritical polarity. 2. The plastic of masked faces Once the opposition of niqabs and surgical masks, as well as of the traditions they allegedly represent, are grounded in the perception of visual, surface contrasts apprehended in those forms of facial dress, it seems of interest to start with a visual examination: not one separating the objects and endorsing the oppositional relation, but an analysis of the act of masking. Applying a supplement or apparatus over the face is an act radically disrupting its surface in all its plastic formants: if there is a relation of opposition to be formed, it is the difference created between a “bare” human face and a face that was partially or completely covered with a different substance. It is not only the “erasure” of features which, at least in a Western cultural logic, are responsible for ensuring the recognition of an “identity”: if “to see is to have from a distance” (Merleau– Ponty 1961 p. 1597), then the act of disguising the visage contains in 118 Marilia Jardim itself an act of dispossession, taking away something the viewer believes to own. In this Cartesian form of seeing as touching, the covered face adds yet another theme of loss (to the viewer): the prevention of “touching with the eye” appears as a reaffirmation of the interdiction to touch (with the hands, with the body) — an interpretation that is appropriate to the pandemic laws, but equally to the commandment of veiling and lowering the gaze in Islam. Furthermore, a masked face is transformed altogether in its form, colour, material, and in its topological organisation — which is to say that the markers securing a “reading grid” for the face are replaced with new parameters for apprehending or decoding that disrupt the object and its ability to articulate sense (or, at least, the sense that is expected). It is possible to say, thus, that the visual transformation is necessarily a transformation in the functions or “expected uses” of the face, following the transformation in the ability to articulate sense. Although the effect of facial covering is often perceived as a “veiling continuum”, surgical masks and niqabs are not seamless, flat extensions of material but contain their own eidetic structures of lines and cuts that are very different from the lines of the face and, yet, responding to an effort to “accommodate” the face. The presence of pleats, seams, or draping, common both in veils and masks, are similar to the presence of the same mechanisms in clothing but not as committed to revealing the silhouette or providing a perfect fitting with it. While, to an extent, a mask or veil must somehow follow the shapes of the face — otherwise, their function of effectively covering would be compromised — their role is not, as that of the garment, to “reveal” in the act of covering: while a good dress, with the exception of some Avant–garde designs, aims at covering the body metaphorically, while completely revealing a human form (and, for that effect, whether that form is “real” or created by the action of the garment is of little importance), the mask as a mechanism covers, manifesting itself in the process. It is not a simulacrum of the face we see when gazing at veiled or masked faces, as is the case when we look at dressed bodies: it is the mask, with its horizontal pleats or vertical seams, or the veil, with its layered drapings or loose évasé form that makes itself seen, the face underneath becoming a suggestion, a possibility. Unlike the clothed The niqab and the surgical mask 119 body, that sustains a close relation with the identity the wearer aims at presenting to the world, the veiled or masked face is dispossessed of all its markers: the wearer displays a face somehow ageless and sometimes even genderless, except for that which the eyes and its surroundings can reveal–but even that can be imprecise, deceiving. While the mere presence of a face veil marks a gender identity–women in the fundamentalist, Arabised versions of Islam; or men, among the Tuareg–sufficient discussion was dedicated to the possibility of a burqa containing “the unexpected”. A masked face is no longer brows, eyes, nose, cheeks, mouth and chin: when covered, partially or completely, two–thirds of the “natural” human face are in disguise, replaced by an alien material (fabric or some kind of non–woven matter) which is non–human — artificial, technological, culturalised object which serves functions that reach beyond the abilities of the human body. With a mask or a veil, although the “original” features seem to try to furtively make themselves seen as volume or relief, the face is clipped in its form, introducing harsh lines or limits to what used to be a smooth transition: the continuum of face and neck, for example, is either completely erased, or delimited by the outlines of the object applied over the face. Rather than a succession of plates without defined borders — except, perhaps, for the eyes, the nostrils, and the open mouth, which also determine hard limits between the inside and the outside of the body — masks create well–delimited boundaries of where the body meets the inside and outside, and where one part of the face becomes something else. The theme of gradation replaced by hard boundaries is continued in the colour and matter: the application of something over the face disrupts its original colours, at times introducing a new chromatism that is, perhaps intentionally, utterly opposed to the “natural” colour of the face. Even over brown skin, the black niqab creates chromatic contrast, which is even more radical in the case of the blue veil worn by the Tuareg, once indigo is by no means a human skin colour — and yet, the French colonialists named them “the blue men”. Similarly, the non–woven surgical masks, which come in light blue or green, contrast non–human, non–skin colours with the possible shades of human skin. Even when one attempts to mask oneself in colours creating 120 Marilia Jardim plastic rhymes with the skin, the effect can become even more uncanny: the contrast of similar colour but different quality seems to deepen rather than suppress the gap of human/non–human, inviting connotations of artificiality that can only construct dysphoria: the attempt to imitate the inimitable. The walls of material framing the parts of the face and head that are allowed to be seen perform an operation extending the well–established privacy of the body (particularly the torso, which always goes somehow covered) to the face, including it in the inventory of bodily places that must not be displayed to the world, expanding the limits and taboos relating to the naked body to regions of the face. As much as clothes invest the body with an ambivalence uniting curiosity and repulse, desire and fear, marking the relation of solidarity of those forces — or, to evoke Freud’s timeless essay about the unheimlich, the simultaneous desire to see and not to see (Freud 1919) — masks grant the same power to the face: the want to know what is underneath fuels the want to transgress the interdictions of seeing and touching, while also fuelling the fear of the transgression, as well as the fear of what the objects interrupt. The possibility of beauty or simply the friendly recognition of another are inseparable from the dangers behind the mask: the possibility of sin and damnation, or the viral particles associated with death — the equally timeless dichotomy of artificiality and culture that “protect” from the threat of a deadly nature. The contrast of distinguishable features, organised in a known topology with each element flowing seamlessly to the next, versus a radical rupture of inside/outside, human/non–human, natural/artificial constructs new ways of interacting with faces (and, thus, of “reading” them). The eyes become the centre and the focal point, the only place where any human emotion or intention can be read; the same is true when it comes to the relation of the masked subject with the surrounding world: the disruption in the breathing partially filtering the smells from the outside but amplifying one’s own smells which are trapped in the mask, the muffled voices which disrupt the other’s ability to hear, the impossibility of tasting, and the reduction of tactile relations to the ones the mask or veil produces, the eye becomes our only organ capable of an unfiltered perception of the world. That extends the family of The niqab and the surgical mask 121 complex contrarieties to the use of the senses, enlarging visual perception even though visual face–to–face interaction is partially suspended while numbing the other senses, even though sounds, smells, tastes and touch remain available (even if forbidden). Such contradictions of what is enabled and what is interdicted create dynamics of showing and disguising — public and private — that can be homologated to visual relations that are aligned with the desire to see, the desire to show, and equally the desire to hide or not to see in the act of presenting and apprehending the body. In their turn, such relations are homologated to a series of roles invested in the clothes, which are carefully conceived as mechanisms of simultaneously showing and disguising, following the needs and wishes of subjects, the norms of society, fashion, religion, and peer groups. In that sense, the roles of body and clothes, including masks, are not unilaterally determined but interchangeable: the dynamics of what is shown and what is hidden emerges from exchanges or mutual adaptations between body and dress. On the one hand, the act of wearing a face–disrupting object rests with the subject who, ultimately, is the one who applies the apparatus onto their body. Nonetheless, while one wears a veil or mask, the garment is simultaneously wearing them, performing the series of transformations to the face–utterance, which is reconstructed to the gaze of others. While for the “I” wearing the object, it is clear what is the body and what is the garment, for the others who gaze the veiled/masked body, the person becomes an amalgamation: a continuum of dress through which some gaps of skin and eyes are visible, but also as a “person” whose face is fabric. Rather than the human face with its multiple possibilities of expressions, the material of the mask becomes the face: a plate of colour and material with its own form that introduces a discontinuity in the presentation of the face, limiting its ability to manifest in the ways of a human face, but manifesting something else in its place: the compliance with a code of conduct, humorous statements, a desire for decoration, or even figures of protest and disobedience overlapped with the badge of obedience being displayed. The disruption of identity or “recognisability” the mask facilitates becomes, in a Western cultural context, the perfect condition for the construction of alterity places. Rather than the recognisable face of the 122 Marilia Jardim neighbour — as well as the ability to recognise their emotions, their intentions — the mystery of a mask or veil, the distorted voice without a mouth, the partial, clipped collection of facial fragments contributes to a project of dehumanisation: no longer an individual or a subject, but a faceless body — a view that is either the origin of the association of the Islamic veil with oppression or a construction emerging with the objective of supporting that narrative. Today, those figures of expression are repeated, but in a twisted plot: oppression is replaced with “collective sacrifice” to save lives — and if altruism is not sufficient motivation, there is always a group of people ready to hoard masks with the goal of saving their own life… 2.1. Interlude: Faciality On the one hand, it is possible to apprehend (and describe) the transformations in the formants of a covered and uncovered visage and to interpret transformations in the plane of content that might occur when we transition from one state of the face to the other. However, Deleuze and Guattari (1980) raise a crucial question about whether faces can ever be truly “naked”. Beyond the obvious forms of masking applied over faces — such as makeup or surgical interventions — they reflect on the idea of “faciality”, or the face that is not a given or an object, but a process that is constantly produced and communicated. Thus, for Deleuze and Guattari, the uncovered face is not the naked human face but yet another mask: a plane of resonance, aligning the mental or felt “real” to a dominant reality. Rather than an object, the face is a screen of signifier — and more so, it is not a signifier that is chosen by the subjects, but the subjects are chosen by visages: not, as is theorised in Greimasian semiotics, a figure that disseminates a semantic category but, on the contrary, figures that programme signification. If a mask is something that hides and dissimulates even when it shows — hence fulfilling a negative function — then visages are also masks, in which they can programme our semiologic screen to manifest whatever we desire to, “real” or “simulated”. Like a literal mask, the bare face is also an interrupter, also a two– way barrier: it can choose to block certain forms of communication The niqab and the surgical mask 123 without the need for an external apparatus and, through its own mechanisms, it can enable others — false signs that, as much as material masks can do, echo the function of dress in the construction of an idealised body. On the one hand, Deleuze and Guattari develop this discussion into the normativity of Western visages, stating that the so– called “outsiders” are merely the ones who should have looked like us (Deleuze & Guattari 1980). For that effect, one of the greatest revelations of the Covid–19 crisis and our need to adopt the custom of masking could lie in the discovery that, although our identity is largely constructed in opposition to the masked Other, it would take only a pandemic to reveal that we are, after all, just like them: a mob of faceless bodies, reduced to our statistical viral status. Transposing their concepts to the problem of masking and veiling, however, adds on yet another layer. It is not just about the visage, another form of “mask” in itself, and the features it imprints on the human face but the addition of a culturalised object over the face, which equally inscribes markers of race beyond the body’s material dimension. Against the Western ideal of “seeing the face” and the reliance on biometrical markers as the recognition of identity, showing oneself becomes a manifestation of true–saying: to show one’s face, in a time of constant CCTV surveillance and ubiquitous face–recognition technology, is to have no secrets. In that sense, the truth manifested in a bare face is contrasted with the dubious ethics of the peoples who mask: the Middle–eastern, Islamic, and far–Asian Other. If for “us”, the showing of the face is the ultimate act of honesty, the idea of disguising the face is encountered with suspicion — perhaps so, because hiding the face is how we act, how we manipulate by using faces that are masks, while “reading faces” is also how we secure an advantage in a variety of situations. However, if the “bare visage” as a mask plays a similar role to the “literal” mask — to preserve an advantage by “seeing without being truly seen” — then the desire to unveil the Other is, literally, a desire to restore a power imbalance disguised as “liberation”: to display the Other naked to our eyes, while we remain masked in our faciality. 124 Marilia Jardim 3. Sartorial discourses When it comes to the mechanisms of communication, as well as the manners in which they mediate the communication act occurring between different subjects, surgical masks and niqabs operate through very similar operations, in which both are, by definition, facial coverings and facial disruptors. Covering the face, besides disrupting the facial presentation and its visual structure, also interferes by blocking certain forms of non–verbal communication while also enabling other forms of communication. These encompass both the core statement of religion or political affiliation, and also the possibility of fashion statements in the choice of colour, fabric, and decorations that can be applied to those objects or, even, the possibility of introducing written verbal communications, or the use of cloth with visible branding imprinted on it. Thus, a covered face can become the face of a religion; the face of a political belief; or even the screen where commodities can be advertised. In the past of Western culture, veils came to be associated with a theme of secrecy and mystery, particularly when coupled with religious revelation (Ronnberg & Martin 2010). That is not exclusive to Islam, although it is understandable that the veil as a figure of mystery has its semantic potential amplified by the veil as a figure of alterity, the mark of an ostracised Other: the terrorist, the radical, the “fundamentalist” — in a nutshell, someone who wishes to confront or even destroy the Western way of life, from Christianity to Capitalism. Nonetheless, the theme of mystery may also manifest that which should not be seen, which recovers the narratives of the Arabian Nights and the cliché of beauty so sublime it must remain veiled, and the practice of face veiling among the upper–class women. Indeed, the plastic constitution and construction of veils and masks, with pleats, draping, and seams that disguise and even confuse the facial shape contribute as figures of mystery and uncertainty: they don’t only disrupt the visibility of the visage but produce volumes and shapes that mislead the viewer to what lies underneath. The sense one can apprehend is supported almost completely by the object, the mask, and the meanings it conveys, which invite “assumptions” about the gender, status, beliefs, and even taste of the wearer. The niqab and the surgical mask 125 That ambivalent mystery — simultaneously euphoric: the desire to see; and dysphoric: the impossibility to see — is beautifully explored by Paolo Sorrentino in The Young Pope, in the fictional Pius XIII, who creates a mixture of indignation and a cult around his persona through his refusal to show himself. In a dialogue with the Vatican’s communication director, the Pope asks who were the most important author, film director, contemporary artist, and electronic music group of the last twenty years. Salinger, Kubric, Banksy, Daft Punk. “Do you know what it is, the invisible red thread that connects them all, all these most important figures in their respective fields? None of them let themselves be seen. None of them let themselves be photographed.” One could add the Belgian fashion designer Martin Margiela to his list, as he partook in the ideology against the cult of faces to privilege the cult of his creation. Not a face that becomes Vatican merchandise, descending from an aircraft fully veiled in white to avoid being photographed by the crowds, Pius XIII’s persona causes a mixture of admiration and disappointment: the encounter with a sacred that refuses to reveal itself to profane eyes, but the very profane, human desire to stand out by refusing to be gazed at. Far from being exclusive to one people or tradition, the “magic of masks” and their cultural significance is present both in Western and non–Western traditions, blurring the distinction of religion and science that seems so clear today. On the one hand, Lévi–Strauss dissects the ritual role of masks and their close relationship with myth in the North–American Indigenous traditions, emphasising their role in neutralising oppositions by liberating the wearer of the contrary “virtues” associated with each mask (Lévi–Strauss 1975). Not dissimilarly, Phu (2012) recovers the costume worn by 16th and 17th–century plague doctors, analysing their distinctive beaked mask, which contained aromatics used to dispel the fumes believed to cause the disease. Beyond the possible scientific explanations for the curious uniform, he remarks that the use of masks to exorcise demons was an accepted practice, showing that not only the figure of the doctor was not so distant from that of the Healer or Shaman but, more importantly, that the medical mask is originally a scientific and a religious apparatus. Beyond those themes, however, it is clear that the current Western repulse for veils — always and only when worn by the Other — is 126 Marilia Jardim not, as is often argued, a matter of “miscomprehension” or “cultural ignorance” to the meanings of veils. Rather, it is a confirmation that Western culture understands the power of masking all too well, which is perhaps why it is so important to suppress this practice and the form of mystery it enables: the refusal of being transformed into image to the gaze of the other — or, in semiotic terms, the refusal of being placed into utterance, becoming a “finished text”. Both the fully veiled figure that is only eyes — an all–seeing being that doesn’t show itself — or the faces partially covered by surgical masks make us question what is underneath while also confusing our judgement and even our desire. The displacement of the facial markers, thus, is also an impossibility of installing all the markers of enunciation, transforming covered faces into discourses that are shifting in (embrayage), returning to the illusion of presence and the enunciation in the act (Greimas & Courtés 1993 p. 119): no longer discourses that can be “read” by the viewer as finished products, but processes in which meaning can only be constructed in relation. A second theme figurativised in both objects is otherness. An opposition of West and Orient is strongly aligned to the discursive contrast of “not–masked” and “masked”, in the sense that in contemporary times (before the pandemic), the showing of the face is a trademark of Western peoples (and a marker of Westernisation overseas), while the practices of covering the face are associated either with the Middle– east, particularly the Arabised or Persian manifestations of Islam; or with Japan and China, and the overlapping of respiratory disease outbreaks, ubiquitous urban pollution, and nuclear disasters — which, in themselves, are also symptoms of late development and the need to “catch up” with the global West. Interestingly, “alterity” is a theme that unfolds into several others, constituting Western identity by what it is not: not superstitious, not religious, not oppressed, not “barbaric” but, equally, not a place where living conditions are “dangerous”, not a place plagued by disasters and, chiefly, not a place for dangerous diseases. The naked face can become a figure of “advancement” and “cleanliness” that substantiates the “safety” of European and North American cities. However, not only that idea relies on a “false” sense of safety — as the danger of emissions, pesticides, and even pharmaceutical drugs The niqab and the surgical mask 127 is no longer content of conspiracy theories — but global ways of life showed that Europe and North America are not safe from pandemics, or from brutal, totalitarian, government demonstrations. Finally, the themes of “oppression” and “freedom” as a necessary contrast appear in the issue of control over bodies which is central to both objects. While that contrast is often attributed to the dichotomy of donning niqab versus being unveiled — and even which one means “freedom” or “oppression” can change, depending on the point of view — the controversy also permeated the debate about masks at the pandemic start. Indeed, ambivalence is pivotal in the discussion about covering the face because these apparatuses don’t seem to create contradictions but amplify existing ones in both our practices and beliefs. As the debates around veiling and unveiling prove, both associations seem possible. On the one hand, the thematic trajectory associated with both objects can be one of “compliance” with religious commandment or with government guidelines. The masked ones are the ones obeying and following, accepting a unilateral leadership without questioning it and, hence, can be perceived as “oppressed”. Nonetheless, at the start of the pandemic, even the fiercest opposers of covering the face wanted to be masked, just like a number of Muslim women want to don niqab — particularly in nations where its use is interdicted, a symptom of a broader issue with racism and Islamophobia, which are no lesser a threat than a deadly virus. In that sense, not only freedom of choice is thematised in the act of covering the face, but freedom from: the virus, the contact with contaminants, the chaos instigated by unrestrained sexuality, the threat associated with racial and religious persecution. Once both values are concomitantly disseminated in the discourse, in a relation of mutual presupposition, there is no answer to which value is predominant: freedom of (masks and veils) invite the issues those apparatuses aim at preventing, also inviting the need for control (hence oppression); but taking the oppression to its maximum, completely giving in to the control of the bodies — both through religious regimes and through technology — full–circles into maximum liberation, through the protective control of the body through agents that act by filtering something both ways. Hence, the ones completely free 128 Marilia Jardim to uncover are oppressed by the dangers in the environment, while the ones completely oppressed by being covered liberate themselves from the danger: masks and veils are pure control of the body and its functions, but they can also be pure freedom, pure subjectivity, marking the impossibility of completely isolating one value in a category — freedom and oppression are two sides of the same coin, and will always be co–existing in social discourses, political or religious. Such interchangeability of values is independent of the visual and discursive contrasts of figures at the surface level, extending the disjunction of expected homologations to the fundamental level. In their turn, such possibilities intersect with the problem of interchangeability of enunciator and enunciatee and the idea of masks and veils as another actor in discourse, investing those instances with subjectal roles in the interactions with bodies and others. On the one hand, masks and veils are able to confer actors with a “total subjectivity” emerging from a “refusal of reciprocated regards” (Riedmatten 2016 p. 166), a recurrent issue in writings about the Islamic veil and the practice of “screening” a woman when she meets a suitor for the first time, reiterating the existence of a power imbalance emerging in relations where one can see but interrupts the others’ gaze. As such, both facial supplements link to one’s increased subjectivity or agency, at least when it comes to scopic relations: indeed, a powerful statement is found in Na’ima B. Robert’s (2005) decision to adopt the niqab versus the normalisation of showing the face to everyone all the time. There is agency in deciding when not to show one’s face, making the act of sharing the visage’s nudity when and to whom one sees fit intentional — from that point of view, masking elevates the face to the same investment of intimacy our culture confers to the torso while reiterating the disempowerment or naked bodies (and faces). The relations created by masked individuals disturb a series of expected actions and phenomena linked to visual communications relying on facial exchanges: by disrupting the programmed interactions occurring between faces, “facial interrupters” seem to blur the oppositions we are accustomed to, despite our incessant efforts to polarise those manifestations according to our constructed cultural codes. On the one hand, such disruptions make the masked individual emerge as a pure The niqab and the surgical mask 129 presence, particularly when the mask of choice is one that doesn’t coincide with the “given lines”: the sight of a niqab in a sea of bare faces can have the effect Greimas (2002) describes in his Fractures, suspending time and space for the one who cannot not look, and is flooded with the emotions or esthesis, positive or negative. However, the suspension of the markers resulting from this encounter is a simultaneous installing of other markers, particularly when it comes to social roles. In fact, Fiorin (2016) describes the mechanism of embrayage as a “treachery” artifice, one that can give one person in the place of another: no longer the individual, but an uttered/installed social role — in our case: the believer, the complying citizen but, equally, the rebel, the dissident. Such reinstalls the persons in the discourse, creating specific locations that also create distance: the suspension of facial recognition is the suspension of the possibility of proximity. 4. Discourses about dress Throughout the examination of a plastic and figurative semiotics presented so far, it is possible to see that niqabs and surgical masks share a function as facial covering objects, which causes them to be united in the transformations of the face they promote, as well as in the themes and figures they make surface in their existence as sartorial utterances. Nonetheless, beyond the “correct” or “programmed” articulation of meaning extracted from the standard analysis — in which the production and apprehension of meaning follow the expected direction of semiosis and the transitions from one level to the next — the mechanisms of meaning–making and cultural tools used to conceive, disseminate, and apprehend significance relating to masked faces don’t always seem to “obey” the perfect harmony of the generative trajectory. Indeed, Barthes (2009) remarks that a Semiology grounded in “ideal equivalences” is limited to the operation of “reading” or “deciphering” articulations of expression and content, which are close to the discursive interaction Oliveira (2013) coupled with the production of “coded sense”: a mode of sense construction in which both the meaning and the roles of the enunciation subject are fixed. In such a mode of 130 Marilia Jardim signification, the plastic, as well as the themes and figures faces disseminate, would be homologated to their equivalent semio–narrative level, which, as previously argued, wouldn’t sustain their contrast beyond the superficial structures of discourse. In other words, beyond the surface, different masks don’t seem to form a “true” semantic category: from that perspective, both objects are not separate disseminations of two contrasting values but two actors disseminating equivalent actantial roles and values (Jardim 2021a). Nonetheless, while it is possible that meaning is produced and apprehended through coded sense grounded in a closed relation of sender and receiver in which the message is defined and disseminated unilaterally, the interaction between (at least) two instances in the communication act permits situations in which meaning is constructed, rather than transmitted. In the production of discourses about dress and sartorial practices, other discursive regimes seem to be at play, permitting modes of sense–making in which both enunciatee and enunciator are capable of “fabricating” sense as well, instead of merely decoding (or discovering) it. While the dissemination of given contrasts permits the construction of a collectively agreed substructure permitting the construction of meaning as well as its decoding, it is important to question to what extent the given meaning emerges from homologations of expressions and contents, or is somehow decided “at random”. Coded meaning relies on the enunciator “mapping” the construction of sense for the enunciatee to decode (Oliveira 2013), emphasising the importance of given contrasts, such as the West versus the Orient, as a reading grid for discourses, locating such manifestations in a shared semantic framework — a function similar to the one played by the topological formant in visual texts. As such, the dissemination of given contrasts is central in the maintenance of West and Orient as opposed, in which it creates associations that are unquestioned and unchallenged, permitting both that discourses are read by their intended enunciatees and the continuation of the substructure of meaning that is reproduced through the reading of messages, as well as the production of new discourses. Without the reliance on such codes, the polarisation of different forms of masking — and, consequently, their existence as “cultural practices” — would be impossible, once it The niqab and the surgical mask 131 relies on certainty about differences and oppositions, and can only thrive in contexts in which sense is given. Coded meaning has no room for critical thinking: it is the space of binaries par excellence. Contrastingly, beyond the reign of programmed semiosis, Barthes’ idea of myth as a second–order semiological system creates the conditions to a certain semantic “anarchy” where any significant object can be reduced to the status of language, accumulating new meanings that have no commitment to the original signified of the signs it appropriates. Instead of following the prescribed homologations of coded sense, whether the meaning assigned to an object is “true” or “false”, discourses emerging from myth permit logic–defying constructions of “sense”, in which not only the meaning is open — and flowing with the logic of hazard or randomness — but the hierarchy in its utterance is no longer unilateral, from enunciator to enunciatee. If coded meaning responds to the hierarchical reproduction of a code, random sense is rhizomatic, in the sense Deleuze and Guattari (1980) utilise the term, in which its ability to reach in all directions creates significant conditions that flip the models and undo dualisms, producing relations beyond the rules of the linguistic sign that cannot be tried by generative or structural models. When it comes to Fashion, Culture, Media, and Politics — important pillars sustaining a neoliberal logic today — myth as a sense–making mechanism destroys the meaning of objects, as well as the consensus about it, due to the multiple perspectives involved but, equally, because of a number of mythical appropriations taking place almost simultaneously. Such operations permit an endless cycle of “rebranding” objects or ideas, making them compatible with the established ideologies or with the needs of each era: the transformation of meaning enabling its alignment with dominant ideologies, as well as the possibility of turning an idea into its complete opposite whenever an “enemy” must be constructed. As a result, not only meaning becomes random, but it is also fragmented, with each fragment growing its own relations in multiple directions: the microfascisms that need only to be crystalised (Deleuze & Guattari 1980 p. 16)? Both masks and veils possess chaotic semantic trajectories marked by multilayered mythical accumulations linked to the fragmentation of 132 Marilia Jardim identities and groups, as well as their various semantic needs. The face veil, for example, was an emblem of liberation from the Western cultural and political dominance both for Egypt’s Muslim Brotherhood and for the revolutionaries in Iran (Cf. Ahmed 2011; Shirazi 2003); but for the West, it became a metonymy of the barbaric treatment of Middle–eastern women (Cf. Ahmed 2011; El Guindi 1999) justifying, among other things, the US occupation of Afghanistan. It was recently (re)highjacked as a symbol of ISIS and the possibility of a “Muslim invasion” that populates the imagination of philosophers and authors, such as Žižek and Houellebecq, while it is also presented among social media figures and Muslim activists, such as the journalist Na’ima B. Roberts, as the ultimate liberation from the terrors of Western beauty standards. The surgical mask? A symbol of social standing consolidated in the image of the surgeon, but a radical figure of rebellion when utilised by tattoo artists or alternative music groups. During COVID, simultaneously a desired article of security and liberation from the pandemic dangers; while its imposition recovered the association with crowds of masked Asian urban dwellers (Cf. Burgess & Horii 2012; Phu 2012) and the image of oppression, totalitarianism, and destruction of individual liberties (Cf. Baer 2008; Phu 2012). Both objects seem to not only possess the ability to represent everything to everyone as required, but their meanings seem to be determined by cycles of appropriation that dance between mainstream and counter–cultural practices. Masked faces, thus, are able to manifest narratives and values that not only merge the opposites — completely surrendered, practised bodies, and the transcendence of surrounding oppressions of objectification — but function as emblems of an entire set of social practices and behaviours, even if their meaning is constantly transforming. When objects are hijacked by myth, not only their meanings can be full–circled into their opposite, but, as predicted by Barthes, even the struggle against myth can become myth (Barthes 2009). But, more importantly, there is also a certain arbitrariness in the investments of value uniting the objects, contributing to a chaos of sense confusion that, ironically, emerges in response to the desire for preservation of discourses. In other words, although coded sense is governed by a regime of regularity — secured by unilateral communication The niqab and the surgical mask 133 and fixed roles and meanings — the codes in which such messages are grounded emerge from random investments of value that are equally subjected to re–investments that are unpredictable. In the confines of such an (anti) logic, it becomes possible to fragment our discomfort with covered faces by recategorising different forms of masking into types that respond to created, random codes that, contradictorily, resort to a set of given codes about groups and practices to substantiate themselves. That includes a set of knowns about peoples and cultures, but equally socio–political practices and even modes of rationality. To separate oppression exercised by a religious code as irrational, because it is not scientific; but to accept fragile and forever–changing scientific evidence as truth, embracing (and even desiring) oppression exercised in its name becomes nothing more than the result of “dressing” figures so as to make them similar to “reality”, producing effects of veridiction (Greimas 1983; Greimas & Courtés 1993) that depend on a set of shared agreements on what is real and not, or what is right or wrong. The same mechanisms are what permits society to construct the strive of one group to sustain their way of life and beliefs as an effort to destroy Western ways of life, while the destruction of livelihoods can be reframed as an effort to save lives. Once mythical constructions rely on reductionist practices, it is not only the lack of depth in the discussions in social media rants, tabloids and fake news that facilitates the bending of codes to construct “false realities”: the trademark of our systems of knowledge, relying on the isolation of variables is also a fertile ground for partial and decontextualised fragments to become essentialised traits that can be bent to construct “real realities”. In our inability to look at systems and totalities, the absence of a reasonable rationale goes unnoticed: our relationship with discourses, “official” or “fake”, is mostly supported by shared myths. Sartorial practices — particularly the images produced about them — can be a powerful force in this game, once they are potent signs of group affiliations (and opposition). Hence, constructing and disseminating discourses around dress in mass channels is an important tool to “force” the surfacing of oppositions that are often not verifiable at the fundamental level of objects. The construction of opposition separating niqabs and surgical masks is emblematic of that phenomenon, in which it begins at 134 Marilia Jardim the production and dissemination of verbal and image discourses about the objects that aim at supporting, rather than reporting, the original antithesis of irreconcilable difference, recovering Deleuze & Guattari’s idea of a signifier that programmes meaning, and not the other way around — an inversion of roles, like the others explored in this analysis, that not only destabilises our social structures in its attempt of preserving them but fulfils Merleau–Ponty’s cataclysmic prophecy of what “cybernetic ideology” would bring us: «[...] a cultural regime where there is neither true nor false [...] in a sleep or nightmare from which no one will know how to wake up» (Merleau–Ponty 1961 p. 1592, our translation). When transposed from the fundamental level, as a contrast of values, to the discursive level, as a contrast of figures, the verbal and visual tropes through which niqabs and masks are communicated reverberate the West and the Orient as antithesis. For Barthes, an antithesis is a transgression: a figure of a given, eternal, eternally recurrent opposition whose union appears as a «last attempt of the code to bend the unforgivable» (Barthes 1970b p. 30–1, our translation). If two instances are given as the radical opposition of one another in a discourse, as is the case of the West and the Orient and the multiple figures disseminating the category in the discursive level, then any other possibility beyond the opposition becomes absurd, and the contact of the two opposed substances which are mutually exclusive can only produce catastrophe. Rather than the literal catastrophe — one might say a war (or a pandemic…) — we might debate the matter as one invested with the catastrophic role Landowski (2005) postulates both in the coincidence of two parallel narrative programmes, or the actant joker which is more and more recurrent in the “alternative media” communications, but equally present in mainstream discourses that seem to flip their opinions backwards, as well as entire realities, at random. In communications governed by the regime of accident at their narrative level, or in discursive interactions reversing the hierarchy of roles and levels in the construction of sense, the enunciatee utters the sense instead of merely “reading” it (Oliveira 2013). If it is possible for the enunciation subject to swap places, that discursive regime also makes it possible for the given binaries to randomly interchange, reversing our notions of “good and bad” and “right and wrong”, equally occasioning discourses that no The niqab and the surgical mask 135 longer respond to the hierarchical articulation of the generative trajectory: when the emergence of sense and interaction is open, the meaning we make can be anything, even if it “doesn’t make sense”, and irrespective of whether the information channel is “reliable” or not. Throughout the cases discussed in this article, it is possible to see the passage from a system of coded sense, in which meaning is hierarchically apprehended from a “source code” determining how objects are read or decoded by the enunciatee, to a mode of meaning–making in which the enunciatee takes charge, uttering sense instead of “apprehending” it. That inversion of roles is not only occurring at the level of information consumers, but by the “sense–makers” utilising the chaos of information (and its fragmentary meanings) to spin the wheel of resignification, in the impossible attempt of controlling the unpredictable. However, because random sense is a weapon available to all, the creation of difference and the loose use of concepts (from theory and sciences, but also from cultures and religions) can be performative, in the sense Judith Butler (1990, 1993) uses the term, as it permits the enunciatee to transform the meaning by bending it: it is a pure transgression of hierarchy, pure model–defying multiplicity. The clinging to a narrative in which surgical masks and niqabs are not the same is closely linked to that procedure, as are many other narratives of “cultural difference”, in which the enunciatee (and the enunciator likewise, for that effect) must somehow “make peace” with their own beliefs and substructures of cultural and social meaning whenever new events call those beliefs into question. Ironically, coded sense and random sense can only exist in mutual presupposition, not only in which random sense is the “origin” of the arbitrary investments that make our code: random meaning can equally become a tool through which the predictability of coded sense can be restored. 5. Conclusion The trial of a double–standard created around niqabs and surgical masks continues from our previous analysis of the pair (Jardim 2021a), aiming to deepen into this “false contrariety”. However, rather than following the vertical course of the generative theory, our analysis is 136 Marilia Jardim horizontal, exploring the different tools available in the semiotic theory to the study of the most superficial levels of manifestations — the plastic analysis; the mechanisms of thematisation and figurativisation; and, finally, the reoperation of the same mechanisms in the construction of discourses about the objects, as well as the masked and naked face. To study the implications of this triumph of the surface is an attempt at understanding the zeitgeist, once the turn towards superficial depth is a phenomenon comprising much more than the constructed contrariety of niqabs and surgical masks, inviting the hypothesis that the analysis presented is pertinent beyond the limits of our object of study. While theoretical “depth” is nothing more than another European invention, as remarked by Foucalt (1966) — and, I must add, a response to the movements of “epistemological fashions” during the 18th century — its creation has shaped the advancement of our construction of knowledge since, while also contributing to the chaos of an overproduction of knowledge and information that is at the same time the cause and the consequence of the disjunction of manifestation and meaning discussed in this article. Similarly to the constraints of the fictional text as an effort to preserve the discourse (Barthes 1970b), it is possible to see how the same constructed restrictions invade the realm of “real” life through media texts — an operation that, not surprisingly, draws from the same set of categories Greimas identifies in the works of Dumézil and Lévi–Strauss about Myth: good versus evil and honesty versus dishonesty, aligned with the idea of a “better world” versus a “worse world” (Greimas 1970). Such meaning–making strategy moves away from the “dissemination of information”, constructing a fictionalised discursive reality in which “truth” is equally an object of fiction: created discourses about objects and practices that stand the veridiction test, even when they are not aligned with a “true” semio–narrative level, consolidating constructed codes as given structures of meaning that become a new foundation to a way of seeing the world. On the other hand, the phenomenon studied in this piece also opens the possibility of questioning our mechanisms of meaning–making and knowledge production. While the double standard applied to the niqab and the surgical mask is the surfacing of an issue that is grounded in, or what grounds our general practices of communication and management of socio–cultural issues around the myths that confuse difference of The niqab and the surgical mask 137 customs with cultural difference, the regimes of meaning–making emerging from our socio–cultural milieu makes us question if we have reached the limits of classification and separation of human groups and practices. From that perspective, the return to the surface and the modes of random sense are not pure anarchy or nihilism, but a twisted form of “degrowth” or, as argued by van den Akker & Vermeulen (2017), a “metamodern” overcoming of Post–modern structures by reaching with, among, between and after Modernity — going backwards so as to go forward? Thus, a central theme emerging from the analysis is the matter of inversion: of roles, of meaning, of binaries. On the one hand, such transformations can be an engine of social change, challenging the hierarchies of who gets to make meaning, and the hierarchy of the theoretical mechanisms of construction and apprehension of sense. Anyhow, those inversions also birth a crisis of meaning and of veridiction, flipping the mechanisms of meaning construction and apprehension backwards, pointing to the cracks in the hierarchical, structural, generative models. References Ahmed L. (1986) Women and the advent of Islam, «Signs», 11, 4, 665–691. Ahmed L. 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L’anno prima, nell’agosto del 1942, la Warner Bros aveva già prodotto un cartone di propaganda antinazista per la serie Looney Tunes, diretto da Norman McCabe e intitolato The Ducktators: il protagonista era nientemeno che una incontenibile Hitler–anatra, in una sorta di anticipazione del clima dittatoriale che sarebbe stato di lì a qualche anno della fattoria orwelliana. Il cartone Disney, come l’altro diventato un cult negli anni, gli è però, per così dire, sociosemioticamente (1) Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca (CER) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Orizzonte 2020 dell’Unione europea, in virtù della convenzione di sovvenzione n. 819649 (FACETS). 141 142 Gabriele Marino preferibile, in quanto non solo ci mostra il consueto corredo di svastiche, passi d’oca (di papero) e saluti romano–hitleriani, ma anche il volto del Führer. E non semplicemente in quanto volto, ma in quanto volto rappresentato, tematizzato nella sua rappresentazione: al centro del cartone non vi è, infatti, Hitler, ma il suo ritratto, la sua iconografia, la sua allografia, la sua mediazione e rimediazione. Paperino sta dormendo profondamente quando viene svegliato di soprassalto da un gruppo di soldati che passano sotto la sua finestra cantando a pieni polmoni: “We heil (pffft) / heil (pffft) / right in der Fuehrer’s face”(2). Paperino, comprendiamo, vive in un mondo da incubo (non siamo in grado di distinguere se sia la Germania dell’epoca o un’America nazistizzata, in stile The Man in the High Castle): ogni ora dell’orologio a cucù, per esempio, segna l’ora del Reich in un ciclo continuo di svastiche e l’uccellino che fa entra ed esci ha le fattezze stilizzate del Führer (capelli con scrima di lato, baffetto, occhi puntiformi e fissi), con l’ala sinistra alzata a salutare lo scandire del tempo ariano. Paperino si alza dal letto e rivolge il saluto nazista a una parete (la carta da parati è decorata a svastiche) con i ritratti disposti a piramide della trimurti Hitler–Hirohito–Mussolini: se questi ultimi sono, rispettivamente, malvagiamente ghignante e tronfiamente impettito, il primo, vagamente scarmigliato, con un ciuffetto fuori posto, appare spaurito, spaesato o imbarazzato (ce lo dicono le sopracciglia arcuate au contraire). In una cucina smontabile (che sembra preconizzare quella ante litteram “imbruttita” del Ragazzo di campagna pozzettiano) Paperino consuma una frugale colazione a base, diremmo, di pane e miseria: anche qui, non prima di avere salutato l’ennesimo ritratto del Führer, stavolta dall’espressione stressata (sono tutti uno diverso dall’altro questi ritratti, per lo meno per il momento), che incombe sul desco custodendo a mo’ di pannello scorrevole la credenza a muro. Paperino adesso è pronto per affrontare la sua giornata in fabbrica, verso la quale viene letteralmente calciato di peso dai soldati di cui sopra: il suo compito in catena di montaggio è sigillare la punta dei missili che passano sul nastro trasportatore. A un certo punto, però, assieme ai missili, cominciano a spuntare anche le foto di Hitler (con gli occhi vicini e convergenti, l’espressione un po’ ottusa) incorniciate in portaritratti; (2) I soldati sono nazisti eppure la loro canzone sembra prendere in giro Hitler, sia per la spernacchiata del trombone che la cadenza, sia per l’espressione “in someone’s face”, idiomatica e derogatoria. Il brano, scritto da Oliver Wallace, diventerà un tormentone, anche grazie alla versione di Spike Jones, uno dei maestri della comedy music. Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi 143 come da regola, Paperino non può esimersi dal salutarle, una per una, col braccio teso. La fuoriuscita di questa serie di Hitler–ritratti dal macchinario è frenetica (il messaggio è abbastanza chiaro: le armi dei nazisti non sono solo le bombe, ma anche la propaganda e l’immaginario che questa contribuisce a disegnare) e ciò, assieme al gesto ripetitivo del saluto che ne consegue, fa andare in tilt il povero, alienato papero (in stile Chaplin/Tempi moderni). Paperino, così, prima comincia a salutare le foto del Führer letteralmente con il sedere (la coda prensile simula il gesto della mano tesa) e poi cade preda di un delirio (la scena, dal sapore onirico, ricorda quella dei Rosafanti di Dumbo) in cui, a un certo punto, si vede egli stesso trasformato in ritratto incorniciato di Hitler, con braccio teso e i peculiari capelli e baffetto. Al colmo della frenesia di questa visione da incubo improvvisamente Paperino si sveglia, stavolta sul serio, e si ritrova nel proprio letto: era tutto un sogno (fig. 1). 2. Tra Gesù Cristo e Simon Cowell Sondaggi di vario tipo rivolti a campioni tra i più diversi e relative liste numerate che ne sintetizzano gli esiti ci dicono periodicamente quali sono i volti più iconici della storia secondo questa o quella fetta di popolazione, spesso confermando l’ovvio, ma proponendo anche Figura 1. Collage di momenti dal cartoon Der Fueher’s Face. 144 Gabriele Marino rivelazioni sorprendenti. Se l’aggregatore List Challenges, sulla base di circa 80 mila voti, ci dice che Hitler è la seconda “persona più famosa di tutti i tempi”, subito dietro a Gesù Cristo e prima di Marylin Monroe, Trump, Mao, Einstein, Cleopatra, Michael Jackson, Chaplin e Lincoln(3), una survey del 2012 su 1000 cittadini britannici (Clark 2012) ha rivelato come quella del Führer sia in assoluto il volto più riconoscibile di sempre (riconosciuto da 944 persone), seguito dal deus ex machina di reality come X Factor e Got Talent, Simon “Mr. Nasty” Cowell (riconosciuto da 943 persone). Del resto, sono esistiti — controversi — tentativi di leggere la figura di Hitler attraverso la lente dei celebrity studies ancor più che della storia e della politica: «Hitler ha scavalcato Stalin nel comunicare la propria immagine perché, a differenza di Stalin, […] non aveva intenzione di diventare un politico a tutti i costi. Voleva semplicemente essere famoso. Ha provato a essere un artista, poi un drammaturgo, poi un compositore d’opera. Alla fine scoprì di avere un unico talento: l’oratoria» (Munn 2012, p. 2). Il dato statistico relativo alla teoria di volti più celebri, riconoscibili e riconosciuti ci serve soprattutto per introdurre una domanda tanto banale, quanto complessa da risolvere. Sappiamo che «durante il suo periodo di massimo splendore politico era onnipresente: nei manifesti, nei film, alla radio, nei giornali, nei libri e nelle riviste» (Ascaráte 2006, p. 295), sappiamo che «alla fine della guerra, gli Alleati trovarono ritratti di Hitler ovunque, in ogni casa, in forma di fotografia e di dipinti» (Schmölders 2000, p. 121), sappiamo cioè come sia questa un’icona dell’epoca della riproducibilità tecnica come poche altre, e sappiamo anche, molto semplicemente, come non esista «un volto così ampiamente diffuso, universalmente riconosciuto in tutto il mondo e amaramente disprezzato come quello di Adolf Hitler» (Gray 2006, p. 753). Ma non sappiamo esattamente spiegarci come sia stato possibile tutto ciò. Come è stato possibile che in pochi anni l’immaginario e l’iconografia di un’intera nazione e poi di un intero continente siano stati cannibalizzati da un baffetto a spazzolino? E come è possibile che il volto di Hitler sia ancora oggi il potentissimo totem, negativo (per (3) “200 Most Famous People of All Time”, pagina sul sito List Challenges creata nel 2019: https://www.listchallenges.com/200-most-famous-people-of-all-time (dati relativi a una consultazione in data 30 gennaio 2021). Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi 145 pressoché chiunque) o positivo (auspicabilmente solo per i neonazisti), che è? Questo contributo non intende suggerire una risposta a questa sequela di domande, ma abbozzare una riflessione di natura semiotica su uno dei volti più violentemente iconici della nostra iconosfera. 3. L’ossessione fisiognomica Nata a Heidelberg nel 1944, curatrice e studiosa di cultura visiva (così come intesa in seno alla Kulturwissenschaft), Claudia Schmölders si è formata studiando germanistica, musicologia e filosofia; ha insegnato all’Università Humboldt di Berlino e ha acquisito una competenza pluridecennale nello studio del volto o, meglio, in quella che più precisamente potremmo chiamare fisiognomica culturologica (o lo studio culturologico della fisiognomica). Nel 2000 Schmölders (che continua ancora oggi a monitorare rappresentazione e usi del volto in chiave politica sul suo blog(4)) pubblica un libro straordinario che, come suggerisce il titolo (Hitlers Gesicht: Eine physiognomische Biographie; tradotto in inglese nel 2005 come Hitler’s Face: The Biography of an Image(5)), ricostruisce filologicamente le vicende che hanno condotto al totalizzante successo del volto di Hitler, dal primo arrivo dell’allora acquarellista amatore a Monaco di Baviera nel 1913 fino al tragico epilogo nel bunker berlinese nel 1945. Schmölders mostra essenzialmente due cose: come Hitler sia riuscito a fabbricare e ingegnerizzare, con cura quasi scientifica, la sua iconografia, in un modo che nessun altro leader politico era riuscito a ottenere prima (per ragioni sia politiche, sia tecniche); e come questo suo intervento incredibilmente efficace sull’immaginario e le immagini fosse stato in qualche modo preparato, e agevolato, da alcuni specifici fattori socioculturali profondamente radicati nell’allora storia recente della Germania (riassumibili in una vera e propria ossessione per il volto). La rappresentazione stereotipata della fisionomia ebraica, a partire dalla caricaturale prominenza del naso adunco (si veda il poster drammaticamente iconico del film Der Ewige Jude — L’ebreo errante, in (4) “Gesichtsrundschau”, pagina sul sito ufficiale di Claudia Schmölders creata nel 2010 e tuttora (gennaio 2022) aggiornata: http://www.claudiaschmoelders.de/gesichtsrundschau.html. (5) L’edizione a cui si fa qui riferimento per le citazioni puntuali è, appunto, quella inglese. 146 Gabriele Marino italiano — del 1940, regia di Fritz Hippler, che rinuncia a mostrare segni come kippah, payot e stella di Davide e si concentra su quest’unico tratto; fig. 2), comincia ad affermarsi non prima del XIII secolo (Lipton 2014), andando a costruire una sorta di sistema semisimbolico — il senso è sempre relazionale e oppositivo — che oppone un “volto nordico e ariano” a un “volto ebraico e degenerato”. Figura 2. Il poster del film L’ebreo errante. Il culto nazionalsocialista per l’immagine del Führer si innesta tanto naturalmente, quanto consapevolmente su questa ossessione fisiognomica, che trova una prima compiuta sintesi nell’opera di Johann Kaspar Lavater pubblicata per la prima volta alla fine del XVIII secolo (1775– 1778, e a sua volta basata su quella di Giambattista della Porta, risalente al 1586). Hitler costruisce scientemente la propria immagine pubblica in opposizione alla caricatura, fisica e morale, dell’ebreo parassita della stessa società che l’ha accolto e gli ha consentito di proliferare. La sua programmatica estetizzazione del nazionalismo e del razzismo passa per due convinzioni ideologiche fortemente radicate nel pensiero del tedesco gewöhnlicher Mensch (uomo qualunque) postweimeriano: quella, ancora settecentesca, che l’aspetto fisico sia una puntuale, deterministica metonimia del carattere e dello spirito della persona e quella, tardo ottocentesca, che fosse assolutamente necessario selezionare e glorificare un canone di figure di prestigio da ergere a modelli ed eroi della nazione. Schmölders articola ulteriormente questa seconda ragione ideologica spiegando come il culto della personalità si sia tradotto in un culto per l’iconografia del capo, “portatore” di un volto capace da solo di dominare le folle e condurle all’obbedienza. In particolare, sarebbe stata Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi 147 determinante, per la penetrazione di questa convinzione nella cultura tedesca, la storia Il volto di Wallenstein scritta da Walter Flex e pubblicata postuma nel 1918, in cui un ragazzino abbandona la vita da reietto che conduce alla scorta del padre criminale e mutilato di guerra e diventa un devoto seguace di Wallenstein (uno dei protagonisti della Guerra dei trent’anni, già al centro di una classica trilogia di Schiller del 1799) grazie alla sola imposizione dello sguardo di costui, per il quale finirà per sacrificarsi. Il ragazzino, racconta Flex, “Si sentiva come Adamo che, dopo la caduta, guarda in faccia il Signore”. L’idea di una collezione di modelli a cui ispirarsi si concreta quando, tra il 1913 e il 1933, il direttore del Museo Nazionale di Berlino, Ludwig Justi si imbarca nel progetto di realizzare una Galleria Nazionale di Ritratti. Justi voleva creare una sorta di Valhalla visivo in cui si incontrassero “alto” (i ritratti dei grandi governanti, pensatori, statisti, artisti e scienziati della nazione) e “basso” (tipi anonimi ma rappresentativi di una data condizione sociale, mestiere, origine geografica). Nel 1933 i nazisti interruppero il progetto per concentrarsi esclusivamente sulla figura di Hitler, inteso e presentato come culmine di una linea ancestrale di grandi figure politiche che includevano Federico il Grande, Bismarck e il generale von Hindenburg. Dopo avere tragicamente “perso la faccia”, suggerisce Schmölders, con la disfatta della Prima Grande Guerra e il Trattato di Versailles, i tedeschi avrebbero fatto di tutto non solo per “salvarla”, ma “riconquistarla”, vendicandosi degli ex vincitori ed espandendo la loro influenza in tutta l’Europa continentale(6). 4. Volto massmediato e sguardo immediabile Hitler riuscì a imporsi come l’“uomo forte” grazie un percorso, ovviamente anche iconografico, ossia iconograficamente scandito e puntellato, che lo vide passare da uomo qualunque a politico visionario. Nonostante la proverbiale grandeur dell’apparato mediatico nazista, a ben vedere, (6) Per una “ricostruzione storica dei fondamenti, delle implicazioni e delle trasformazioni della rappresentazione dei volti e delle maschere del potere nelle grandi civiltà orientali antiche”, in una chiave nuova rispetto alla lettura tradizionale che ha sempre penalizzato fortemente l’Oriente antico (per cui il ritratto come lo intendiamo oggi non si sarebbe manifestato come genere visivo prima della civiltà Etrusca), si veda Matthiae (2020). 148 Gabriele Marino Figura 3. Hitler nel 1916 e nel 1936. Fonte: Schmolders 2000, p. 124, fig. 32. Hitler comprese subito molto bene il principio per cui la forza maggiore viene veicolata da un numero ridotto di elementi: se la sua ritrattistica si andava rarefacendo di tratti figurativi e geometrizzando sempre più (fig. 3), e mentre le caricature, proibite e fuorilegge, lo tratteggiavano come un pericoloso despota, la propaganda ufficiale faceva di tutto per “trattenerlo”, normalizzarlo, disinnescarne i lati oscuri (non esistono immagini di Hitler all’interno di un campo di concentramento, accanto a un cadavere o anche solo con in mano una pistola): «il suo volto non mostrava nulla che potesse essere in qualche modo riconducibile […] al suo carattere omicida» (Berghahn e Hermand 2005, p. 9). L’obiettivo della propaganda è rendere Hitler così ubiquo da farlo scomparire, trasformarlo in una presenza sempre più atmosferica, astratta. Figura eroicamente isolata al centro della scena (un tropo visivo questo ancora assai impiegato in politica)(7), il Führer riempie come un gas nobile lo spazio mediale a disposizione: forte del proprio talento di oratore, si giova di un avanzamento nella tecnica del suono e della radiofonia che consente una valorizzazione senza precedenti della sua voce, in origine neppure amplificata e poi non solo amplificata, ma ipermediata (Schmölders 2005); nell’epoca della riproduzione meccanica e dei mezzi di comunicazione di massa, le sue immagini non sono solamente diffuse capillarmente, ma anche modificate — a livello profilmico (costruite) e filmico (ritoccate) — per ottenere effetti specifici. Alla catalogazione eugenista dei fotografi August Sander ed Erna Lendvai–Dircksen, che trattano il volto sotto il paradigma biologico della specie e quindi anonimizzando il soggetto in quanto individualità, fanno eco le fotografie scattate da Heinrich Hoffmann (il “fotografo di corte” del Führer), che catturano le messe in scena accuratamente (7) Si veda la “estetica del corpo isolato a fondo bianco” (Cosenza 2012, p. 87; cfr. anche pp. 18-44 per una – fondamentale – analisi semiotica dell’uso del volto nella comunicazione politica). Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi 149 coreografate da Leni Riefenstahl. Quella di Hitler è, così, una sorta di eugenetica iconografica. E a un certo punto in Germania diviene semplicemente normale essere circondati da svastiche, dal volto di Hitler e sentirne la voce come un basso continuo. L’Hitler “uomo forte” e “uomo solo al comando” è un effetto di senso artatamente studiato e ricercato, ma che non riesce del tutto a risolvere il termine complesso su cui si fonda, quello del piccolo uomo che si è fatto da solo e si trova a dominare uno scenario di ampiezza mondiale: come terrorizzare il nemico senza tiranneggiare il proprio popolo, come infiammare la folla senza bruciarne la fiducia? L’ambivalenza e l’ambiguità di una figura come quella di Hitler emergono anche nella sua iconografia. A cavallo tra il 1936 e il 1937 la città di Amburgo commissionò al pittore Heinrich Basedow un ritratto del Führer. Il dipinto non fu realizzato in posa ma il pittore seguì Hitler durante alcuni eventi pubblici, con l’obiettivo dichiarato di catturarne lo spirito in azione. Il lavoro fu terminato nel 1938. Messi davanti all’opera finita, i committenti si rifiutarono di pagarla (e di darla al Führer come programmato): perché quello che avrebbe dovuto essere un ritratto maestoso, sembrava loro piuttosto una caricatura (fig. 4). Alla fine il quadro fu venduto al sindaco di Dresda, e andò distrutto nel 1945. Membro della Secessione, Basedow realizzò l’opera nel suo stile peculiare (affine al Realismo magico), concentrandosi particolarmente sulla resa degli occhi, dello sguardo di Hitler, notoriamente una delle sue risorse espressive più potenti, illuminandolo con una luce vivace ma sinistra, inquietante. Lo sguardo di Hitler è perturbante (Unheimlich) e, per quanto ipermediato (o forse anche proprio per questo motivo), sembra sfuggire alla cristallizzazione, sembra essere non del tutto efficacemente mediabile: “nessun mezzo di comunicazione sembrava in grado di trasmettere il suo sguardo lampeggiante, che pure doveva apparire così carismatico nell’interazione personale. Anche il tanto lodato — e tanto temuto Figura 4. Fotoriproduzione del ritratto di Hitler realiazzato da Heinrich Basedow, custodito presso il Museo delle Arti di Postdam. 150 Gabriele Marino Figura 5. Maurizio Cattelan, Him, 2001. — azzurro dei suoi occhi è sfuggito alla fotografia in bianco e nero” (Schmölders 2000, p. 133). Sullo sguardo si concentrano ovviamente anche i detrattori del Führer, come nel caso dello studioso Günther Scholdt, citato da Schmölders (ivi, p. 150) in questi termini: «[il volto di Hitler è] come una maschera, con gli occhi vuoti da topo, il cui tanto ostentato sguardo capace di incantare si rivela nient’altro che uno sguardo da cane proveniente da un viso pallido e gonfio». Daniel Druet è lo scultore che per anni ha collaborato con Maurizio Cattelan realizzandone manufatturalmente le opere più celebri e controverse. Tra queste anche Him, raffigurante un Adolf Hitler inginocchiato e con le mani giunte in preghiera, posto al centro di un cortile nell’ex ghetto di Varsavia nel 2001. Questo “lui” è un Hitler disinnescato: vagamente sproporzionato (la testa, adornata di veri capelli umani, è assai più grande di un corpo che sembra essere fermo allo stadio adolescenziale), vestito con abiti borghesi (diremmo impiegatizi), il baffo–marchio a spazzolino degeometrizzato e sfrangiato (fig. 5). Ma, soprattutto, suggerisce Druet, è un Hitler colto in un’espressione assorta, un Hitler “non inquietante, né grottesco”, un non–Hitler: «la personalità di Hitler si trasmette attraverso lo sguardo. Se lo sguardo non fa paura, quello non è Hitler»(8). 5. Baffetti In un mondo sempre più libero dai tabù, uno dei pochi a restare in piedi è certamente quello non tanto della rappresentazione, quanto dell’impersonamento del nazista e di Hitler in particolare. Se si vuole dire che qualcosa è sbagliata, si riporta tutto a Hitler (reductio ad hitlerum), perché (8) https://www.arte.tv/it/videos/093029-020-A/chi-e-l-autore-delle-sculture-di-cattelan/. Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi Figura 6. Meme di Hitler senza baffi. 151 Figura 7. Volto stilizzato di Hitler,caricato su Wikimedia Commons nel 2007. Hitler è considerato il non plus ultra del male fattosi storia: è grottesco che uno dei protagonisti della serie Preacher, Eugene “Arseface”, trovi Hitler, interpretato da Noah Taylor, come suo protettore quando viene catapultato all’Inferno(9). Il nome di Hitler (sia nel senso del cognome, sia di Adolf) ha subito una damnatio memoriae che lo ha fatto sparire dalle anagrafi: lo racconta Matt Ogens nel suo documentario del 2014 intitolato Meet the Hitlers. Non è certo un caso che chi voglia programmaticamente scioccare si rifaccia all’iconografia nazista (pensiamo al primo punk inglese) e che il volto del Führer sia assurto a conformazione plastica la cui sola allusione va evitata a tutti i costi (o, di nuovo, è semmai da ricercare se si vuole ottenere un qualche successo di scandalo): quella scriminatura di lato, quei baffetti. Ma quei baffetti, a spazzolino, più di tutto. Hitler significa quei baffetti e quei baffetti significano Hitler. Per impersonarlo o anche solo rinviare alla sua figura, quei baffetti bastano e avanzano: in un episodio del 2017 della sit–com Camera cafè una mattina Paolo spunta in ufficio con dei baffi alla Hitler, facendo ammattire Luca che non riesce a far capire a lui e agli altri colleghi che deve tagliarseli (Hitler non viene mai nominato e uno dei colleghi pensa Luca si riferisca a una somiglianza con Charlie Chaplin(10)); all’intervistatore Lillo sembra semplicemente impossibile che il cantante Hitler Tony abbia scelto questo pseudonimo e sfoggi, oltre a un ciuffo alla Little Tony (e cioè alla Elvis Presley), anche i baffetti a spazzolino senza dichiarare esplicitamente la figura a cui non può non essersi ispirato(11). Se li togliamo, quei baffetti, Hitler non è più Hitler (fig. 6). Il baffo è l’unica costante nella infinita icono e particolarmente prosopostasi (“teoria, sequela, serie di volti”) di volti hitleriani, ossia di (9) Nel fumetto da cui è tratta la storia il personaggio di Hitler non è presente. (10) https://youtu.be/WvMfXJUFtqQ. (11) https://youtu.be/ny0l-cKyY7I. 152 Gabriele Marino Figura 8. La “Hitler kettle” di J.C. Penny, 2013. figure che hanno provato a indossare, a ogni possibile grado di efferatezza, ucronia o surrealtà, la faccia di Hitler: quello gay interpretato al Saturday Night Live da Chris Kattan tra il 2001 e il 2002; quella Black interpretata da Gabourey Sidibe protagonista del Movie: The Movie prodotto per il Jimmy Kimmel Show nel 2012; fino ad arrivare alle infinite varianti possibili realizzate con il race filter prima lanciato e poi ritirato in fretta e furia da FaceApp(12). È veramente raro che un singolo elemento, un singolo segno, riesca in maniera così potente e univoca a evocare un cronotopo preciso: l’abisso morale del Novecento. Quei baffi rappresentano il logo di Hitler, Hitler che è diventato un logo (fig. 7). Ed è grazie a questa operazione di stilizzazione radicale che comprendiamo come i capelli abbiano un valore puramente locale, topologico, relazionale: servono ad ancorare quei baffetti da qualche parte, ma sono emendabili se si intende significare il personaggio, e ci aiutano quindi a distinguere il diverso nell’apparentemente simile. I baffi del Führer sono simili a quelli di Charlie Chaplin, di Oliver Hardy/ Ollio, di Groucho Marx, ma solo a uno sguardo a grana grossa: il baffo hitleriano appare unico nella sua conformazione interna e nel suo relazionarsi agli altri elementi di un volto per il resto del tutto ordinario. Mentre quello di Chaplin è rastremato (più ampio sulla bocca e più ridotto sotto al naso), quello di Hitler è affilato e tubolare. Quello di Ollio non si sovrappone al labbro superiore, come invece quello hiterliano. Quello di Groucho, per decenni solamente dipinto (il comico si farà crescere i baffi solo in tarda età), è bidimensionale, ha una tonalità più chiara ed è molto più largo. Una teiera (prodotta da JC Penney nel 2013), che vista di lato sembrerebbe un Hitler tondeggiante che fa il saluto a braccio teso (fig. 8), o una scarpa da tennis (un modello della serie Storm Adrenaline prodotta da (12) Si veda la SERP di Google Immagini http://bit.ly/3iPuQtd. Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi 153 Figura 9. Il finale del cartoon Der Führer s Face. Puma nel 2019), che vista da sopra ricorderebbe la conformazione duale hitleriana scriminatura + baffetti, diventano addirittura un caso mediatico. Nel mondo attuale, non esiste figura mitologica più affascinante di Adolf Hitler. Adolf Hitler è il padre fondante della civiltà occidentale. Semplificando drasticamente, in un paese islamico, bisogna tingersi i baffi di henné, perché così ha fatto il Profeta Muhammad; in un paese occidentale, invece si rischia il carcere se ci si fa crescere il baffo solo sotto il naso, perché così ho fatto il Profeta Hitler. Quindi, per un pubblicitario, Hitler rappresenta il logo supremo. Però, questo logo è protetto da un’incredibile barriera di sacralizzazioni; chi lo tocca, rischia concretamente la rovina, la violenza fisica e il carcere, nonché tempeste mediatiche. Toccare Hitler è infinitamente più pericoloso che toccare Gesù, che da decenni ormai è solo oggetto di sbadigli. Proprio per questo, le grandi potenze economiche, che devono investire a lungo termine e hanno un “nome” da difendere, si tengono lontani dal Mito Hitler. Solo pochi osano quindi mettere il dito nella presa e farsi sentire in tutto il mondo. Ma stando giustamente attenti a sfuggire alla rovina sociale. La ditta della teiera, in fondo, può sempre parlare di un semplice caso: il manico è sicuramente ergonomico, il becco della teiera mica potevano farlo rivolto verso il basso… Tutto un caso, quindi (Martínez 2013). 6. Epilogo. Pomodori e topi Paperino si sveglia di soprassalto. Il sollievo di non trovarsi in un mondo in cui Hitler è il capo supremo svanisce però subito: un’ombra che 154 Gabriele Marino Figura 10. Rielaborazione del logo di Maus, di Art Spiegelman, 1991. ha tutta l’aria di essere quella proiettata da un soldato impegnato nel saluto nazista incombe sul Nostro. Paperino si gira verso la finestra: per fortuna è un modellino della Statua della Libertà a proiettare l’ombra. Dissolvenza. Su un fondo verde acido compare il volto, realistico e corrucciato, del Führer. E, mentre suona la musica che dà il titolo al cartone, vediamo un pomodoro spiaccicarvisi contro (fig. 9). Un esempio infantile, ma potente nella sua liberatoria semplicità, di iconoclastia, di prosopoclastia(13). Nel mondo di Maus, il fumetto capolavoro di Art Spiegelman pubblicato lungo tutti gli anni Ottanta e vincitore del Pulitzer nel 1992 — un mondo in cui, come nei cartoni animati (Disney e non), i gatti inseguono e i topi scappano — il trattamento riservato al volto del Führer è assai diverso: non viene mostrato per essere poi dileggiato o cancellato, ma viene del tutto nascosto, negato, rimosso. È la prosopocalissi del volto di Hitler. Presente solo sulla grafica di copertina delle edizioni in volume, a mo’ di sigillo o, appunto, logo (fig. 10), quel volto non comparirà più nelle centinaia di pagine disegnate che compongono questo racconto dell’Olocausto. I gatti nazisti perseguitano e uccidono i topi ebrei che provano a sfuggire e il tutto assume la prospettiva di un racconto che, pure enunciato e raccolto in prima persona (l’autore, attraverso il padre), vuole eliminare ogni soggettivismo, ogni riduzione di responsabilità al protagonismo di una sola troneggiante figura: la Shoah è stata vissuta collettivamente e, in primo luogo, collettivamente perpetrata. (13) In una delle varianti del manifesto utilizzato per pubblicizzare la pellicola gli occhi di Hitler sono sostituiti da due svastiche. Hitler dalla prosopostasi alla prosopocalissi 155 Riferimenti bibliografici Ascárate R.J. (2006) Recensione del volume di Berghahn e Hermand Unmasking Hitler, «Medien wissenschaft!, 3, pp. 295–297, https://doi.org/10.17192/ ep2006.3.1381. Berghahn K.L., Hermand J. (a cura di) (2005) Unmasking Hitler: Cultural representations of Hitler from the Weimar Republic to the present, Peter Lang, Oxford. Clark N. 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Physiognomy in Hitlerism, in Berghahn K.L., Hermand J. (a cura di) Unmasking Hitler: Cultural representations of Hitler from the Weimar Republic to the present, Peter Lang, Oxford, pp. 15–34. I cronotopi del volto ISBN 979-12-218-0270-2 DOI 10.53136/97912218027028 pp. 157-180 (ottobre 2022) VOLTI SENZA VOLTO DALLA DAMNATIO MEMORIAE ALLA CULTURA DELLA CANCELLAZIONE(1) Remo Gramigna Abstract. The denial of the human face with all the paraphernalia of the techniques of cancellation, annulment and ostracization, must be fully included in the study of history of the human face. Faceless, disfigured faces and denied faces are as relevant as all the other representations of human faces. This study traces the conceptual and methodological importance of the study of a series of absences by showing the role of erasure and ostracization in the history of semiotics. The first section of this study focuses on the gnoseological role of the concept of “absence” and “void” in the history of semiotics. The second part, dwells on forgetfulness in cultural systems. The third applies this insight to the study of the erasure, disfigurement and denial of the human face by discussing damnatio memoriae as well as the contemporary “cancel culture”. Keywords: Face, erasure, cancel culture, faceless, damnatio memoriae, disfigurement, memory 1. Segni, tracce, assenze Il film Il nome della rosa (1986) di Jean–Jacque Annaud, tratto dal best seller di Umberto Eco, rappresenta una scena in cui Adso da Melk e Guglielmo da Bascavilla, nel tentativo di venire a capo di una serie di misteriosi delitti, discutono di segni. La scena rappresenta due personaggi: Guglielmo da Bascavilla — il maestro —, e Adso da Melk — il novizio. Guglielmo è un francescano, una sorta di Sherlock Holmes (1) Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca (CER) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Orizzonte 2020 dell’Unione europea, in virtù della convenzione di sovvenzione n. 819649 (FACETS). 157 158 Remo Gramigna ante litteram, amante di Aristotele, ha la fama di uomo sapiente, curioso e acuto. Adso da Melk, novizio benedettino ancora giovane e inesperto, segue i ragionamenti del suo maestro e apprende molte cosa da lui. I due personaggi si trovano in una abbazia benedettina arroccata sulle montagne e indagano sulle morti che si verificano nell’abbazia. Vi è un dettaglio nella scena del film che subito balza all’occhio: l’esplicito richiamo all’universo dei segni e alla loro interpretazione. Mentre perlustrano l’area che costeggia l’abbazia in cerca di indizi, infatti, Guglielmo, ammonisce Adso dicendo: “Attenzione ai segni che sono stati lasciati come una pergamena sul territorio”. Quando il terreno è umido, spiega l’arguto investigatore, le tracce lasciate sono impresse come segni su una pergamena, i quali possono essere riconosciuti e interpretati da chi li osserva. Nella fattispecie, i due personaggi si soffermano sull’identificazione e il riconoscimento di determinati segni lasciati sul terreno. Si tratta di alcune orme impresse nella neve dai sandali di un presunto assassino (fig. 1). In un linguaggio più tecnico, questo tipo di segni sono denominati “segni naturali”, i quali si differenziano dai “segni artificiali” in quanto non hanno una intenzione comunicativa esplicita e ben definita, sebbene essi possano essere considerati come segni da un determinato interprete e, pertanto, assumere una funzione di significazione (Gramigna 2019, pp. 78–79). Nella tipologia dei segni delineata da T. Sebeok (1975, p. 246), si tratta di un esempio di indice. È importante constatare, innanzi tutto, che esiste una relazione — che, per ora, possiamo definire solo in maniera approssimativa — tra il segno e l’assenza. In altre parole, esiste una relazione tra il segno e il Figura 1. Il nome della rosa (Annaud, 1986). Fotogramma. Orme dell’assassino lasciate sulla neve. Volti senza volto 159 “vuoto” lasciato da qualcosa o da qualcuno al quale il segno rimanda, evocando quel qualcosa o quel qualcuno che è assente. Nella fattispecie dell’esempio tratto da Il nome della rosa, è evidente che, in un tempo e in uno spazio imprecisati, un essere umano che indossava dei sandali ha camminato lasciando traccia delle proprie orme impresse nella neve e della traiettoria di una parte del percorso compiuto. Le orme lasciate sulla neve rappresentano un indizio per Guglielmo ed Adso, che si aggiunge ad altri elementi investigativi. In quanto segni, queste orme devono essere decifrate e interpretate. Le orme rappresentano un classico esempio di segno come indizio, tema che è rintracciabile sia nell’antichità — si vedano, per esempio, le trattazioni fatte da Cicerone e Quintiliano sull’inferenza segnica in ambito forense — sia nei recenti studi di semiotica del crimine (Danesi 2014). Vale la pena ricordare che l’arte dell’inseguimento (tracking), con riferimento all’ambito militare e alla psicologia della caccia, ha una lunga storia e molti studi considerevoli si sono soffermati sull’argomento (Brown 1999; Corbett 1953; Scott–Donelan 1998; Elbroch 2003; McDougall 1997; Tannrath 1948; Englewood 1978). Mi preme in questa sede evidenziare che esiste una sottile correlazione, sebbene implicita, tra il concetto di segno e il concetto di assenza. Al fine di mettere in luce questa correlazione, passerò brevemente in rassegna alcune definizioni classiche di segno, a partire dalla definizione formulata da uno dei padri fondatori della semiotica, Roman Jakobson: ogni segno è un rimando (secondo la famosa formula aliquid stat pro aliquo) (Jakobson 1978 [1974], p. 56). Questa definizione, che è molto ampia e generica, evidenzia che il segno rimanda a qualcosa di altro da se stesso. Questa idea si basa sul principio dell’antinomia del segno (Jakobson 1981 [1933–1934], p. 750). Il punto che vorrei sottolineare, e che è implicito nella definizione di Jakobson, è che quel qualcosa al quale il segno rinvia è un rimando a qualcosa che non è presente. Dunque, la rélation de renvoi di cui parla Jakobson, non è altro che un rinvio a un qualcosa di altro da sé, che è, appunto, assente. Facciamo un altro esempio. Consideriamo la famosa definizione di segno elaborata da Charles S. Peirce: A sign, or representamen, is something which stands to somebody for something in some respect or capacity. It addresses somebody, that 160 Remo Gramigna is, creates in the mind of that person an equivalent sign, or perhaps a more developed sign. That sign which it creates I call the interpretant of the first sign. The sign stands for something, its object. It stands for that object, not in all respects, but in reference to a sort of idea, which I have sometimes called the ground of the representation (CP, 2.228). Oppure consideriamo la classica definizione di signum di Agostino: Il segno è una cosa che, oltre all’aspetto sensibile con cui essa si presenta, porta a pensare qualcosa di altro a partire da sé, come quando, viste delle tracce, noi pensiamo che sia passato l’animale a cui appartengono (Doc. Chr. 2,1,1). In entrambe le definizioni risulta evidente che, oltre all’aspetto sensibile con cui il segno si presenta e che viene percepito da un interprete, il segno invita a pensare a qualcosa di altro a partire da sé. È interessante, inoltre, constatare che nella definizione di segno formulata da Agostino vi è un chiaro ed esplicito rimando al concetto di traccia come segno, idea ripresa, come abbiamo visto sopra, nell’esempio tratto da Il nome della rosa. Sulla base della scena del film di Jean–Jaques Annaud e della breve rassegna delle definizioni di segno discusse sopra, possiamo, dunque, pervenire ad una prima conclusione. Il segno, nella sua stessa definizione, richiama implicitamente a un qualcosa di assente. Parafrasando ciò che aveva intuito Umberto Eco alcuni anni fa, il segno “presentifica” l’assenza: [Gli artifici mnemotecnici] sono strumenti per rendere presente qualcosa alla nostra mente, ed è proprio per questo che non si può costruire un’ars oblivionalis sul modello di una mnemotecnica, perché è proprio di ogni semiotica di presentificare l’assenza (Eco 2006). È, forse, un pò azzardato concludere che questo aspetto vale per tutti i tipi di semiosi, in quanto, si potrebbero trovare delle eccezioni a questa regola. Tuttavia, il legame tra il segno e l’assenza, più che una conclusione, è una suggestione degna di nota. I segni, la semiosi e la significazione non solo sono in grado di essere collegati ad un qualcosa di assente, ad un vuoto, a qualcosa che c’è stato ma non c’è più, ma possiedono la peculiare capacità di evocare questa assenza, “presentificandola”, Volti senza volto 161 rendendola, cioè, in qualche modo presente attraverso il meccanismo della significazione. 2. La decifrazione dei segni del volto: la firāsa e l’intuizione fisiognomica Quando Guglielmo da Baskavilla dice al giovane Adso di prestare attenzione ai segni, fornisce una precisa indicazione sul metodo per l’interpretazione degli indizi, i quali, in quanto segni, non solo suscitano l’attenzione di chi osserva, ma vanno correttamente decifrati e interpretati. Una volta riconosciuti, infatti, i segni devono essere letti. Ai fini del presente studio, vale la pena ricordare la ricerca pionieristica dello storico Carlo Ginzburg, il quale, in un saggio diventato ormai un classico, ha tracciato le origini del “paradigma indiziario” (Ginzburg 1979). All’interno della storicizzazione compiuta da Ginzburg per tracciare questo paradigma, trova un posto di rilievo la fisiognomica — quell’antica branca del sapere ormai quasi dimenticata e considerata una pseudoscienza, che si basa sulla decifrazione e lettura dei segni del volto. Secondo Ginzburg, infatti, la fisiognomica antica ha giocato un ruolo non secondario all’interno delle discipline che si sono occupate della decifrazione dei segni. La fisiognomica si occupa della lettura dei segni espressi sul volto umano allo scopo di inferire dai segni esteriori le caratteristiche interiori dell’uomo. La fisiognomica, cioè, mira a leggere l’anima o il cuore di una persona dalle fattezze del volto umano. Generalmente, nelle ricostruzioni della storia della fisiognomica, vengono citati i nomi di Aristotele, Della Porta, Lavater, Lichtenberg e molti altri. J.K. Lavater definisce la parola fisiognomica come «la capacità di riconoscere, dall’aspetto esteriore di un uomo, la sua interiorità» (Lavater 1989, p. 31). Come scrive Eco, nella prefazione all’opuscolo Il Lavater portatile: A sfogliare Aristotele (per esempio Analitici Primi, II, 70 b) si trova che è possibile giudicare la natura di un uomo o di un animale sulla base della struttura corporea, dato che tutte le affezioni naturali trasformano simultaneamente il corpo e l’animo: e così i tratti del volto o le 162 Remo Gramigna dimensioni degli altri organi, sono segni che rimandano ad un carattere interno (Eco 1975b, p. 1). Accanto alla tradizione fisiognomica pseudo–aristotelica, è importante ricordare l’esistenza di un’altra tradizione, parallela a quella occidentale: la tradizione fisiognomica araba. In particolare, lo studio pubblicato nel 1939 da Yousef Mourad che commenta il testo di Fakir–aldin–al–Razi, Kitab Al–firasa, è degno di nota. In questo studio viene discusso il concetto di firāsa, che significa “discernimento”, “intuizione” o “saggezza”. Questo termine viene inteso come interpretazione dei segni, e in particolare dei segni del volto e del corpo umano, e si potrebbe tradurre in italiano come una sorta di “seconda vista” (Courtine, Haroche 1992, p. 39): La firāsa è la pratica del colpo d’occhio e del dettaglio: l’uso dell’intuizione percettiva inferisce dai dettagli del viso e del corpo — un movimento furtivo dello sguardo, un tratto della morfologia del naso o una certa distanza tra i denti — la verità di un’anima o i segreti di un cuore (Courtine, Haroche 1992, p. 39). Dunque, la firāsa è l’estrapolazione immediata, che avviene attraverso lo sguardo, di alcuni dettagli del volto o del corpo al fine di risalire a determinate informazioni importanti. All’interno della fisiognomica araba e, soprattutto, all’interno del paradigma indiziario di cui parla Ginzburg, firāsa aveva eminentemente una funzione pratica (Courtine, Haroche 1992, p. 39). Sebbene oggi non ha più alcun valore, il fisionomo in passato era invece considerato una figura molto autorevole: Il fisionomo è chiamato in tribunale per attribuire paternità e stabilire colpe; al mercato degli schiavi consiglia al momento di giudicare sulla robustezza dei maschi; presso il sultano raccomanda la scelta dei consiglieri, dei cammelli, dei cavalli; predice l’avvenire (Courtine, Haroche 1992, p. 39). Alla fisiognomica, infatti, era riconosciuta una funzione pratica e scientifica: «La fisiognomica si accredita allora come la parte più eletta della medicina, anzi come un vertice della piramide scientifica, la sola che definendo il modello umano dia ragione dell’intero impianto cosmico» (Getrevi 1991, p. 10). Volti senza volto 163 Oggi, la fisiognomica ha perduto il suo statuto di credibilità scientifica e con la crisi del volto dell’uomo «viene tendenzialmente meno anche l’esperienza dello sguardo fisiognomico»(Gurisatti 2006, p. 431). Come ha sottolineato Carlo Ginzburg (1986: 170), «l’errore della fisiognomica è stato quello di affrontare la varietà degli individui alla luce di opinioni preconcette e congetture affrettate: in questo modo è stato finora impossibile fondare una fisionomia scientifica, descrittiva». Non solo è importante riconoscere che le antiche pratiche di decifrazione e lettura del volto hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia del paradigma indiziario come ha scritto Ginzburg, ma esse sono anche da annoverare nel campo di studio della storia della semiotica. 3. Cancellazione e manipolazione segnica Finora si è detto che i segni hanno un legame con l’assenza e che necessitano di riconoscimento e interpretazione. Vengo, ora, alla terza ed ultima astrazione che ho tratto dalla scena del film Il nome della rosa, discusso sopra. Si tratta di un nodo tematico importante in quanto è un punto che si collega al tema centrale della cancellazione. I segni possono indurre in errore, sia intenzionalmente — come nel caso dell’inganno — che inavvertitamente. Secondo una famosa definizione formulata da Eco (1975, p. 17), i segni possono essere usati per mentire. Si tratta di una definizione citata spesso e, per questo motivo, mi astengo dal trattare la questione in modo approfondito. Come giustamente ha scritto C. Morris (1946, p. 98), i segni possono essere usati per diversi scopi e, dunque, l’inganno è soltanto uno tra i vari usi dei segni. In questo contesto mi interessa sottolineare la capacità di manipolazione dei segni, cioè la possibilità di falsificazione attraverso l’uso dei segni. La scena tratta dal film di Annaud è un esempio calzante di manipolazione e di cancellazione semiotica. Nella scena de Il nome della rosa, le orme lasciate sulla neve sono state manipolate dall’assassino allo scopo di depistare i sospetti e di trarre in inganno i due investigatori. Nell’esempio preso in considerazione, dunque, è presente un doppio livello di manipolazione: si ha una cancellazione delle vere tracce dell’assassino, in quanto le vere tracce sono state occultate, e 164 Remo Gramigna una contraffazione segnica (un inganno) delle orme lasciate sul terreno per depistare gli investigatori. In altre parole, l’omicida produce dei segni falsi con l’intenzione di indurre in errore i due personaggi. Adso, giovane e inesperto, cade nella trappola architettata dall’assassino. Infatti, quando Gugliemo gli chiede di decifrare i segni lasciati sul terreno, si accorge che le orme hanno una determinata direzione e una certa profondità. Da queste informazioni Adso deduce che: (1) l’uomo che ha lasciato quelle orme doveva essere molto robusto e (2) che il cammino percorso dell’assassino andava dal basso verso l’alto (fig. 2). Guglielmo, che non si lascia ingannare facilmente dall’apparenza, richiama Adso rimproverandolo per non aver prestato abbastanza attenzione. Adso, infatti, non aveva considerato l’ipotesi che i segni lasciati sul terreno potessero essere usati dall’assassino per disorientarlo. Secondo la tesi di Guglielmo, infatti, è vero esattamente il contrario di quanto afferma Adso. In altre parole, secondo Guglielmo, l’assassino avrebbe trascinato addosso il corpo della vittima e avrebbe camminato a ritroso, al fine di trarre in inganno i due investigatori. Entrambe le deduzioni di Adso, pertanto, sono confutate dal suo maestro e sono errate in quanto (1) le orme nella neve erano molto profonde perché l’assassino portava su di sé il corpo della vittima e questo lo rendeva molto più pesante del suo peso effettivo, e non perché l’assassino è un uomo robusto; (2) l’assassino camminava a ritroso per confondere gli investigatori. Si tratta, dunque, di un tentativo di Figura 2. Il nome della rosa (Annaud, 1986). Fotogramma. I falsi segni dell’assassino lasciati sulla neve indicano una direzione erronea. Volti senza volto 165 depistaggio attraverso la produzione di tracce false. La vera traiettoria delle orme lasciate sulla neve, dunque, segue una direzione che va dall’alto verso il basso (fig. 3). Concludendo queste note introduttive sulla manipolazione segnica, mi sembra di individuare in quest’ultimo esempio proprio un rimando alla idea di cancellazione. Ogni cancellazione lascia delle tracce dell’operazione di occultamento e di rimozione delle informazioni, un aspetto che non sfugge ad un occhio acuto ed a una mente abile e attenta, capace di risalire dalle tracce all’operazione di cancellazione, al tentativo di manipolazione. Un segno cancellato è un paradosso, in quanto, rimane traccia della cancellazione e questa traccia è, a sua volta, un segno. Le cancellazioni di segni sono, dunque, solo dei tentativi di cancellazione, alcuni dei quali vanno a buon fine mentre altri vengono svelati. 4. Semiotica e cancellazione della semiotica: le teorie semiotiche “represse” In questa sezione, farò dialogare l’impalcatura teorico–concettuale discussa finora con la controparte metodologica usando, per motivi che vi saranno chiari a breve, alcune indicazioni fornite dallo stesso Eco. Vorrei, dunque, creare un ponte fra i concetti e il metodo. Mi soffermerò, in modo particolare, su due saggi: Il pensiero semiotico di Jakobson (1978) e Proposals for a history of semiotics (1979), entrambi scritti da Figura 3. Il nome della rosa (Annaud, 1986). Fotogramma. Guglielmo deduce che l’assassino camminava all’incontrario dall’alto verso il basso. 166 Remo Gramigna Eco. Sebbene questi due studi sono stati scritti in contesti diversi, essi presentano dei punti in comune. Il primo è un saggio in cui l’autore fa il punto sul contributo di Jakobson alla semiotica contemporanea e definisce la semiotica come “la storia di un ostracismo” (Eco 1978, p. 7). Si tratta di una definizione importate e provocatoria. La semiotica è la storia di un ostracismo in quanto racchiude, nella sua stessa origine, delle logiche di ostracizzazione e cancellazione. In altri termini, la storia della semiotica è costellata da momenti in cui il suo stesso statuto disciplinare è stato negato e la sua stessa identità marginalizzata. Eco, giustamente, si interroga sui motivi di fondo che hanno ostacolato il processo di istituzionalizzazione della semiotica, nonostante una riflessione sull’importanza dei segni esista già fin dall’antichità, tanto che si potrebbe «rileggere l’intera storia della filosofia in chiave semiotica» (Eco 1978, p. 5). Il riconoscimento della semiotica come scienza istituzionalizzata è stato un percorso difficile e non lineare. La storia stessa di questa disciplina è, pertanto, una storia opaca, sotterranea: una storia nella storia. Rispetto al primo saggio, il secondo articolo di Eco si muove in un campo molto diverso che non riguarda il ruolo di un particolare autore nello sviluppo della semiotica, ma le ipotesi metodologiche che dovrebbero guidare lo storico della semiotica nello studio dello sviluppo delle teorie dei segni. Dal punto di vista metodologico è, anch’esso, un saggio interessante e, stranamente, poco citato. Come nel primo, anche in questo secondo saggio, Eco insiste sui meccanismi di cancellazione a cui è stata sottoposta la storia della semiotica e auspica lo studio di un particolare ambito di ricerca: The whole history of human thought has been haunted by the ideas of this relationship [aliquid stat pro aliquo] which has stimulated different responses. Some of them have been explicit. Some of them, implicit. Some others, more than, implicit, repressed. I think that there are many philosophical theories, as well as other theoretical approaches to human nature, history, reality in general, which are transversally obsessed by the problem of signification, without daring to recognize it. But even the history of these concealments is enormously important to the semiotician (Eco 1979, p. 78, emphasis mine). Volti senza volto 167 La storia della serie di questi occultamenti, dunque, è importante per il semiologo. In questo paragrafo, Eco racchiude e indica una prospettiva di ricerca che ritengo molto stimolante. Se la semiotica si occupa del concetto di segno come proprio oggetto di studio, allora, al fine di pervenire ad una ricostruzione storica della disciplina lo studioso di semiotica dovrà individuare non solo tutti quei casi, quegli autori e quelle epoche storiche in cui il segno è stato riconosciuto e trattato in modo esplicito, ma anche passare in rassegna i casi in cui la relazione segnica è stata “esorcizzata” (Eco 1979, p. 78), negata, nascosta o cancellata. La storia della semiotica è anche la storia di questi occultamenti. Il primo campo di indagine che l’autore individua, definito come “teoria semiotica esplicita”, rappresenta quell’ambito di indagine in cui vi sono teorie, autori o testi che hanno formulato esplicitamente il concetto di segno o concetti affini (Eco 1979, p. 79). Accanto all’individuazione e allo studio delle teorie semiotiche esplicite, secondo Eco, la storia della semiotica dovrebbe annoverare anche lo studio di quelle teorie semiotiche che l’autore definisce “implicite”. Secondo Eco (1979, p. 80), il secondo campo di indagine, più largo rispetto al primo, dovrà includere le teorie semiotiche “implicite” o “represse”, appunto, ostracizzate. In queste pagine, dunque, Eco fornisce delle indicazioni di metodo su come studiare dal punto di vista storico l’oggetto proprio della semiotica, cioè, la relazione segnica. L’intuizione di Eco, che condivido pienamente, è quella di fare la storia di questi occultamenti, una storia obliqua. Bisognerebbe, dunque, studiare anche quei casi, quelle epoche e quei pensatori che hanno trattato la relazione segnica in modo obliquo, in modo implicito o indiretto, oppure quei casi in cui questa relazione è stata occultata, cancellata, repressa, ostracizzata. Eco, allora, riprende il concetto chiave dell’assenza come punto saliente per una storia della semiotica: We want to know not only the cases in which the sign–relation has been dealt with, but even those in which it has been ignored. A history of semiotics should then be the history of a series of presences as well as of a series of absences. We, as semioticians, know very well that there cannot be any consideration of human society and of human mind 168 Remo Gramigna without considering the human attitude to signify and to communicate. We know that a history of semiotics ought to study even those cases in which such an evidence has been cancelled (Eco 1979, p. 78, emphasis mine). Il terzo ed ultimo ambito di indagine individuato da Eco per una storia della semiotica ha, invece, a che vedere con le pratiche semiotiche. In questo campo il semiologo individua alcune pratiche che sono significative per una teoria generale dei segni, i quali dovrebbero essere oggetto di studi specializzati. Ho evocato questa divisione dei campi di indagine proposta da Eco, perché ritengo che sia possibile traslare questo approccio metodologico all’ambito dello studio del volto umano. In altre parole, così come Eco ha formulato questi tre campi di indagine al fine di individuare casi, autori ed epoche che hanno trattato del concetto di segno in modo esplicito, implicito, o represso, allo stesso modo ritengo che si possano ritrovare questi campi di indagine anche nella ricerca sul volto. Di questi tre ambiti di studio, quello su cui vorrei convergere l’attenzione è il secondo — le teorie semiotiche represse — perché il tema in questione è la cancellazione, il vuoto e l’assenza. Quali potrebbero essere, dunque, le aree tematiche della ricerca sul volto come oggetto di studio ostracizzato o represso? Potremmo parlare di volti cancellati, silenziati, repressi, ostracizzati, dimenticati, stigmatizzati, sfigurati e marginalizzati. Potremmo chiamare questo ambito di studio gli interstizi del volto oppure i volti senza volto. Dunque, la ricerca dovrebbe studiare i modi in cui il volto umano è silenziato, opacizzato, dimenticato, stigmatizzato e represso. 5. Juri Lotman: “culturoclasi” e dimenticanza Sebbene si muovano in ambiti e prospettive teoriche abbastanza diverse, ritengo che esistano dei punti di contatto fra U. Eco e J. Lotman sul tema dell’assenza, del vuoto e della dimenticanza. Entrambi, infatti, hanno discusso il problema della memoria culturale e dell’oblio nei sistemi culturali (Eco 1988; 2011; 2013; Lotman 2019). Volti senza volto 169 Secondo Lotman, la memoria è parte integrante di ogni struttura pensante (Lotman 1977; 1982) e gioca un ruolo chiave nel «processo di accrescimento dell’informazione» (Lotman 1975a, p. 27). Dal punto di vista culturologico, secondo Lotman e gli studiosi della scuola di Tartu–Mosca, la cultura funziona come una intelligenza collettiva che possiede una memoria. I sistemi culturali funzionano come meccanismi per la preservazione e la trasmissione di alcuni messaggi — identificati come “testi” — e la produzione di messaggi nuovi (Lotman 2020, p. 77). La cultura è, infatti, per Lotman (1975a, p. 28) «l’insieme di tutta l’informazione non ereditaria e dei mezzi per la sua organizzazione e conservazione» all’interno del quale la lingua svolge una funzione strutturante. Nel sistema della cultura, Lotman individua due poli opposti: la conservazione e la dimenticanza. Alla tendenza verso la memoria, che lavora al fine del filtraggio, della conservazione e della trasmissione di informazioni all’interno di una determinata cultura, fa da complemento la tendenza all’oblio, alla dimenticanza, alla cancellazione e alla distruzione di elementi dal sistema della cultura. Come viene preservata e tramandata la memoria ai posteri? Come funzionano i meccanismi della trasmissione e della dimenticanza nei sistemi culturali? Secondo l’approccio delineato dalla semiotica della cultura, il tramandarsi della memoria culturale avviene attraverso la selezione, la creazione e la fissazione di “testi della cultura” (Ivanov et al. 1979, p. 203), i quali si differenziano da tutti gli altri testi per determinate caratteristiche. I requisiti essenziali, individuati prima da A. Pjatigorskij (1962), e poi riprese da Lotman (1978), di un testo della cultura sono tre: 1. Un testo deve essere fissato nello spazio e nel tempo (espressione materiale, “fissazione”); 2. Un testo deve essere usato per comunicare. Un testo non viene prodotto e fissato senza uno scopo, ma intenzionalmente; il fine è quello di comunicare e veicolare un messaggio; 3. Un testo deve essere comprensibile per coloro che lo ricevono e non deve presentare ostacoli insormontabili per la sua comprensione (Pjatigorskij 1962, p. 79). 170 Remo Gramigna Un esempio di testo culturale è rappresentato dai testi scritti in quelle culture che assegnano ad essi valore testuale, differenziandoli, pertanto, dai testi non scritti o appartenenti alla tradizione orale. All’interno dei sistemi culturali, assume un ruolo non secondario il meccanismo dell’oblio e della rimozione testuale dalla memoria culturale. Già nelle Proposte per il programma della “IV Scuola estiva sui sistemi modellizzanti secondari”, Lotman individua nella dicotomia cultura / non–cultura una direzione di indagine particolare in cui studiare «la lotta contro la cultura come problema culturale (caso analogo: il problema della dimenticanza come componente del meccanismo della memoria). Culturoclasi e acculturazione nella storia della cultura» (Lotman 1979, p. 192). Scrive ancora Lotman, «la storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi» (Lotman, Uspensij 1975, p. 31). La dimenticanza nei sistemi culturali agisce essenzialmente in due modi: 1. Attraverso la selezione; 2. Attraverso l’esclusione e la distruzione dei testi. Sebbene siano complementari, queste due modalità della dimenticanza sono diverse e devono essere distinte. Lotman chiama la prima forma di dimenticanza «dimenticanza in quanto elemento della memoria», e la seconda viene definita dimenticanza «in quanto strumento della sua distruzione» (Lotman, Uspensij 1975, p. 47). Il meccanismo della selezione è un requisito importante dei sistemi culturali in quanto, come detto sopra, soltanto una parte di testi sono selezionati e diventano i testi della cultura in un determinato contesto socio–culturale. Dunque, attraverso questo meccanismo, si selezionano e si fissano soltanto alcuni testi a scapito di altri. Diverso, invece, il caso della dimenticanza attraverso l’esclusione e la distruzione di alcuni testi. Come puntualizza Lotman, «la cultura esclude in continuazione dal proprio ambito determinati testi. La storia della distruzione dei testi, della loro estromissione dalle riserve della memoria collettiva Volti senza volto 171 si muove parallela alla storia della creazione di nuovi testi» (Lotman, Uspensij 1975, p. 47). Un altro modo per considerare il problema della memoria e della cancellazione nei sistemi culturali è attraverso il concetto di “semiosfera” (Lotman 1985; 1989). All’interno di un determinato spazio semiotico, avremo un insieme di testi della cultura, mentre nello spazio extra–semiotico non si ha l’esistenza di testi, ma di non–tesi. I non–testi restano nella nebulosa dello spazio extra–semiotico, essendo qualcosa che non ha ancora attraversato i filtri e i confini della semiosfera e dunque non ha ancora ottenuto lo statuto di testo della cultura, ma potrebbe diventarlo: «tutte le espressioni alle quali la cultura considerata non attribuisce valore e significato (ad esempio, non le conserva), dal suo punto di vista non sono testi» (Ivanov et al. 1979, p. 204). Le Tesi per una semiotica delle culture, inoltre, precisano che «bisogna distinguere un non testo dall’“anti–testo” di una data cultura: l’espressione che non viene conservata dall’espressione che viene distrutta» (Ivanov et al. 1979, p. 204). All’interno di una determinata cultura, dunque, esistono determinati testi che vengono presi di mira e diventano oggetto di distruzione e di “culturoclastia”. Si tratta di anti–testi, cioè, di testi che, per diverse ragioni, possono essere presi di mira e distrutti o essere oggetto di iconoclastia. Questa è una concettualizzazione di come possiamo avere diversi tipi di testi: “testi della cultura”, “non–testi” e “anti–testi”, qualcosa che deve essere, appunto, eliminato, rimosso o distrutto. 6. Ricordare troppo poco? In relazione al tema della memoria è doveroso citare almeno due importanti studi. Il primo è The Art of Memory (1966) di Francis Yates e il secondo è Il passato, la memoria, l’oblio (1991) di Paolo Rossi. Si tratta di due ricerche sull’ars memoriae che tracciano la storia dell’antichissima arte del ricordare e delle tecniche mnemoniche. Questi studi solo trasversalmente si occupano, però, del meccanismo opposto, della possibilità di dimenticare. Evocando Funes, il prodigioso personaggio del libro di Borges, Rossi scrive: 172 Remo Gramigna Il protagonista di Funes el memorioso percepisce, con una sola occhiata, non (come facciamo noi), tre bicchieri sopra a un tavolo, ma tutti i tralci e gli acini di una pergola. Ricorda con esattezza la forma delle nubi dell’alba del 30 aprile 1882 e può confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che ha visto una volta sola. Può ricostruire tutti i suoi sogni. Due o tre volte ha ricostruito nella memoria una sua giornata e la ricostruzione ha richiesto una giornata intera (Rossi 1991, p. 35) Questo, invece, è il passo tratto dal libro stesso di Borges (1995, p. 115), Funes el memorioso: Mi disse: — Ho più ricordi io, da solo, di quanti non ne abbiano tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo. Anche disse: — I miei sogni sono la vostra veglia —. E anche: la mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti. E ancora: Discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso […] Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati. La conclusione che ne trae Rossi è che esistono dei meccanismi della memoria, meccanismi di memorizzazione che rappresentano una ipertrofia patologica della memoria, il ricordare tutto. E questa “patologia del ricordo” (Rossi 1991, p. 35) viene riscontrata in diversi personaggi, come per esempio Funes el memorioso, il quale dopo aver subito un trauma possedeva questa straordinaria capacità di ricordare ogni singolo dettaglio della propria esistenza, ogni cosa che aveva visto o sentito, ogni persona che aveva incontrato. Altro esempio famoso citato da Rossi (1991, p. 37) è quello dell’uomo che ricordava tutto e che viene ripreso da alcuni studi di psicofisiologia Volti senza volto 173 di Aleksandr Lurija. Rossi, tuttavia, non tratta della tendenza opposta, cioè, delle patologie della memoria per difetto, il ricordare troppo poco. Quelle descritte sono patologie della memoria per eccesso. Quindi avere la capacità e probabilmente anche la condanna di ricordarsi tutto. Ma qual è il meccanismo inverso del ricordarsi tutto? Esistono delle patologie della memoria per difetto? A tal proposito, vorrei citare due esempi, abbastanza famosi, tratti dal cinema contemporaneo. Leonard, il protagonista del film Memento (Nolan, 2000), è costretto a dover fare costantemente i conti con l’assenza e con il vuoto di sé stesso, cioè, il dimenticarsi la propria identità, il proprio volto, il non ricordare le persone che si sono incontrate, le parole dette e tutte le informazioni che si dovrebbero immagazzinare. Il film rappresenta bene una forma di patologia della memoria per difetto, una amnesia cronica che costringe Nolan a dover ricordare ciò che si è dimenticato. Quella di Leonard è una disfunzione della memoria come conseguenza di un trauma subito. Dunque, il protagonista del film ha una sorta di vuoto esistenziale e vuoto della memoria che lo ostacolano e lo confondono. Per cui Leonard non sa più chi è e che cosa gli sia successo. Leonard, tuttavia, apprende un metodo per sconfiggere e combattere la dimenticanza, quello della scrittura indelebile sul proprio corpo, attraverso i tatuaggi o la scrittura su fotografie e pezzi di carta dove appunta i nomi delle persone incontrate. Quindi attraverso tali meccanismi di fissazione di scrittura di testi, si salva dall’oblio. È anche interessante rilevare che che tali forme di scrittura sul corpo sono essenzialmente un meccanismo di “auto–comunicazione”: «il caso in cui il soggetto trasmette un messaggio a se stesso, cioè a colui che già lo conosce» (Lotman 1975b, p. 112). In questo caso il teso svolge una funzione mnemonica e, nel caso di Leonard, è una protesi che estende, seppur momentaneamente, la sua memoria. Il secondo esempio è tratto da Eternal Sunshine of the spotless mind (Gondry, 2004), un altro caso emblematico di cancellazione. In esso non si notano patologie della memoria, né per eccesso, né per difetto, ma assistiamo alla volontà del soggetto di cancellare ogni singolo ricordo, ogni singolo testo, ogni singolo dettaglio, ogni foto, ogni libro, ogni regalo ricevuto, ogni rimando o segno che possa evocare quell’assenza. 174 Remo Gramigna L’assenza della persona amata e che riteniamo di aver perduto. In questo caso abbiamo l’esempio lampante di un meccanismo di cancellazione artificiale, il metodo Lacuna, che ha la possibilità di resettare e fare tabula rasa dei ricordi di una persona. Dunque, al caso delle patologie del ricordo per eccesso, discussi da Rossi, fa da pendant il caso delle patologie del ricordo per difetto. 7. I senza volto: la damnatio memoriae Ora abbiamo tutte le coordinate per poter avventurarci in questo tema vastissimo — la damnatio memoriae — perché si tratta di un tema di cui si parla da millenni e che, oggi, riemerge in nuove forme. La locuzione latina, damnatio memoriae significa dannazione della memoria o condanna della memoria. Sembra che il termine è stato usato per la prima volta in una tesi di laurea del 1689 da Sweter Gerlai (Varner 2004, p. 2). Questo modus operandi copre un vasto raggio di sanzioni post–mortem contro la memoria, i monumenti e i ritratti di un individuo condannato. La cosa importante da evidenziare è che queste sanzioni che erano associate alla damnatio memoriae fornivano allo stesso tempo un meccanismo che era di cancellazione e di condanna. Quindi l’individuo che era oggetto di dannazione della memoria subiva allo stesso tempo una cancellazione e una condanna. È sicuramente importante capire che i romani avevano intuito che era possibile alterare e manipolare la percezione del passato modificando la cultura materiale di un popolo, così influenzando la percezione della storia nelle generazioni future. Si potrebbe dire, dunque, che i romani erano dei semiologi ante litteram, in quanto avevano intuito la forza delle immagini, che venivano usate contro i nemici al fine di danneggiare, cancellare, e mutilare la memoria del singolo all’interno della collettività. Le sanzioni si rivolgevano generalmente contro gli hostes, cioè i nemici dello stato romano e si concretizzavano con la distruzione fisica, il danneggiamento, la cancellazione e la mutilazione dei monumenti e delle immagini che rappresentavano il soggetto colpito dalla dannazione della memoria. Essa produceva effetti devastanti: il nome e il titoli della persona specifica venivano eliminati dalle liste ufficiali; vi era l’obbligo di non Volti senza volto 175 mostrare le maschere mortuarie che rappresentavano l’individuo che era deceduto durante i funerali aristocratici; i libri scritti dai condannati venivano confiscati e bruciati; i diritti di proprietà completamente perduti; i testamenti venivano annullati; il giorno del compleanno della persona oggetto della damnatio memoriae veniva proclamato dies nefastus, mentre l’anniversario della morte veniva celebrato (Varner 2004, p. 1). La damnatio memoriae fu applicata in modo molto severo nel periodo di Vespasiano nei confronti di Nerone. Infatti, con una legge specifica lo fece escludere dal novero dei boni principes. Esempi di questa pratica sono la cancellazione delle iniziali di Commodo (CO) rimosse da un bassorilievo, oppure il Tondo Severiano che raffigura Geta con i suoi genitori e il fratello Caracalla. Come si vede bene in questa immagine (fig. 4), Geta ha un volto senza volto, in quanto il suo volto è letteralmente cancellato, rimosso e non risulta più visibile sul Tondo Severiano. Questa immagine raffigura bene la logica della damnatio memoria e si può considerare come una tecnica di cancellazione del volto e dell’identità di imperatori che erano stati considerati in qualche modo come scomodi. Un altro esempio è un bassorilievo in cui si ha la cancellazione, ad opera di Caracalla, della rappresentazione di Geta da un rilievo. Figura 4. Tondo severiano raffigurante Geta con i suoi genitori e il fratello Caracalla. 176 Remo Gramigna 8. Nuove forme di “culturoclastia”: la cancel culture Oggi il tema della cancellazione della memoria e dell’oblio si ripropone con forza. Il concetto di damnatio memoriae viene ripreso e traslato nel contesto contemporaneo, assumendo nuove forme. Si parla molto, infatti, di “cultura della cancellazione” (cancel culture). Il dizionario australiano MacQuarie ha selezionato di recente, nel 2019, cancel culture come la parola dell’anno, affermando che questo fenomeno è diventato, nel bene e nel male, una forza potente e nella sezione “Words we are wathcing”, il Merriam–Wesbster Dictionary spiega che il verbo “to cancel” sta assumendo un nuovo significato. Secondo questo dizionario, laddove in passato il termine si riferiva alla cancellazione di un oggetto, un evento o una sottoscrizione, oggi “il cancellare e la cultura della cancellazione hanno a che vedere con la rimozione del supporto a figure pubbliche in risposta a loro opinioni o comportamenti discutibili”. Questo può includere sia forme di boicottaggio che il rifiuto di promuovere il loro lavoro. Nella più recente accezione del termine “cancellare”, vengono comprese le persone e, in particolare, celebrità, politici o chiunque prende spazio nella coscienza pubblica. Cancellare qualcuno (in genere una celebrità o un personaggio pubblico molto conosciuto) significa negare supporto a quella determinata persona. Le ragioni di una cancellazione possono variare, ma sono generalmente dovute al fatto che la persona in questione abbia espresso una opinione discutibile, o che abbia avuto una condotta non accettabile. Secondo il Merriam–Webster l’origine del termine è da rintracciare nel movimento #cancelculture usato su Twitter, il movimento #MeToo e si tratterebbe di una specie di stigmatizzazione nel mondo digitale. Il dizionario, inoltre, associa la cancellazione allo scioglimento di un contratto, cioè, la rescissione del vincolo contrattuale che lega il fan al personaggio pubblico. Un altro punto di vista, che non intendo discutere in questo saggio, considera la cultura della cancellazione come un’invenzione della destra per screditare personaggi scomodi di sinistra. A differenza della damnatio memoriae, la cancel culture non riguarda imperatori scomodi, ma riguarda personaggi di rilievo pubblico come, ad esempio, musicisti, attori di Hollywood. In conclusione, ho voluto portare l’attenzione sul tema della cancellazione perché ritengo che esso sia non solo, un argomento di studio Volti senza volto 177 semiologico ma anche di recente attualità. Ritengo che la semiotica, così come altre discipline umanistiche, possa svolgere un ruolo di rilievo come critica all’ideologia sottostante questi fenomeni contemporanei di censura e possa assolvere un ruolo educativo verso le generazioni future, individuando i rischi di ogni operazione di cancellazione in un sistema socio–culturale. Come ha giustamente scritto Paolo Rossi (1991, p.28): «per ogni cancellazione vi è un prezzo da pagare». Riferimenti bibliografici Agostino d’Ippona (1989) La Dottrina Critiana (Trad. it. e introduzione di Luigi Alici), Edizioni Paoline, MilanoBenanti P. 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I CRONOTOPI TECNOLOGICI DEL VOLTO I cronotopi del volto ISBN 979-12-218-0270-2 DOI 10.53136/97912218027029 pp. 183-201 (ottobre 2022) RICAMBIARE LO SGUARDO DELLE MACCHINE DIETRO GLI IMPLICITI DELLA FACE RECOGNITION ATTRAVERSO LE TRAINING IMAGES Valentina Manchia Abstract: Facial recognition technologies, which are increasingly part of our experience of daily interaction with artificial intelligence, are often presented, both by developers and by the companies and institutions that adopt them, as pure utilities in a context of simple and effective automation (Floridi 2019, 2020). The vast field of automated facial recognition (AFR) includes all those technologies that apply algorithms to the human face and facial expressions, from face recognition apps to CCTV and police cameras, decoding features and characteristics through a purely artificial vision. What happens, however, if we focus on the peculiar visual AI’s way of seeing and, at the same time, classifying the human face? Which are the (social, political, cultural, and semiotic) implications of automated facial recognition, machinic vision with the human face as its object? A number of artistic projects have turned attention to facial recognition technologies by reflecting on the “invisible” images (Paglen 2019) on which computer vision based on convolutional neural network (CNN) feeds in order to function, the so–called training images. After some notes on AFR as a form of artificial intelligence, this paper aims to examine some of such artistic projects, specifically Trevor Paglen’s ImageNet Roulette and From “Apple” to “Anomaly” (2019), considering them a possible way to access a greater understanding of facial recognition as well as computer vision as a peculiar phenomenon of the contemporary visual landscape. Keywords: artificial intelligence, computer vision, automated facial recognition, ImageNet, semiotics, semantics Sempre più spesso su smartphone e tablet, in app di e–commerce, in telecamere di sorveglianza a circuito chiuso o nel database delle foto riprese durante rilievi segnaletici operano tecnologie biometriche per il riconoscimento facciale. Questi e altri esempi di automated facial recognition (AFR), così come molte delle forme attuali di artificial intelligence (AI) con cui ci 183 184 Valentina Manchia confrontiamo abitualmente — dell’autocompletamento nella scrittura delle e–mail ai suggerimenti di acquisto sui vari profili online — assolvono dei compiti per noi in modo automatico e pressoché invisibile. Dell’AFR e di altre forme di AI, in altre parole, vediamo i risultati (lo sblocco di uno smartphone o il percorso giusto per noi, su una mappa), ma non le vediamo in azione. Il rilievo, apparentemente banale, ha una qualche importanza dal momento che rimarca un cambiamento importante nel modo in cui pensiamo, oggi, all’AI. Essa, infatti, non è più l’entità, identificabile e nominabile, incarnata, per così dire, in una “thinking machine” (Turing 1950) pensata come agency artificiale, strutturata per imitare il funzionamento del pensiero umano. Così è stato dagli albori della cibernetica, dagli anni ’50–’60, in cui “la visione originaria dell’IA aveva come obiettivo quello di insegnare a un computer a svolgere una serie di compiti cognitivi” (Manovich 2018), ovvero la messa a punto di un’agency macchinica capace di ottenere un risultato attraverso una serie di regole, di un “mechanized thinking” (Shannon 1950). Assistiamo invece, oggi, a una vera e propria normalizzazione dell’AI (Floridi 2020) che passa attraverso la sua invisibilità: come argomenta Manovich (2018), “una volta che il campo dell’IA risolve un problema e la soluzione è implementata nell’ambito dell’industria, questa non viene più considerata come parte dell’ambito originario. Paradossalmente, associamo all’Intelligenza Artificiale solo i problemi che non sono ancora stati risolti.” Floridi (2020), inoltre, registra la crescente tendenza, in un contesto istituzionale come quello delle smart cities, a integrare le AI (AFR compresa) al servizio dei cittadini come pure utilities, secondo una logica di “Utility–Fication” delle AI viste come pure mindless agency, ovvero sistemi programmati per ottenere risultati. La formula è interessante perché cerca di superare l’etichetta stessa di intelligenza artificiale come agency “pensante”, descrivendola invece come un “divorzio” (Floridi 2019) — una disgiunzione (semioticamente parlando) — tra la capacità di mirare a un obiettivo specifico (= problema da risolvere) e il bisogno di essere intelligente per farlo (altrimenti detto, tra l’acquisizione di competenze in vista in un fare e questo stesso fare). Ricambiare lo sguardo delle macchine 185 La visione di Floridi (2020) è interessante perché se da un lato mette a fuoco la necessità di supervisionare e gestire l’AI in quanto mindless (andando a monte, alla scrittura degli algoritmi che ne guidano l’azione), dall’altro lato mostra bene, in controluce, che la vulgata di aziende e istituzioni descrive l’AI come un puro risultato, sul quale non occorre invece guardare agli impliciti. Proprio per questo può essere importante interrogarsi sugli impliciti della mind che muove questa agency invisibile, per approfondire il funzionamento della face recognition da un punto di vista non solo tecnologico e cercare così di ricambiare il suo sguardo. Cercheremo di farlo attraverso alcune esplorazioni artistiche che aprono un vertiginoso spaccato, non privo di implicazioni culturali, sociali, politiche e, non da ultimo, semiotiche, sulla visione artificiale. 1. Breve storia della visione macchinica. Qualche nota sull’AFR come forma di intelligenza artificiale Prima però di spostare l’attenzione sulla face recognition e sulle sue dinamiche intrinseche, è il caso di tracciarne un rapido profilo. A farne una breve storia, l’AFR nasce negli anni ’90, con la messa a punto dei primi algoritmi per consentire alle macchine la decodifica del volto. L’AFR, tuttavia, sarebbe impensabile senza l’antecedente apporto della computer vision, dapprima grazie a Marvin Minsky e alla sua idea di sperimentare, nel laboratorio di Intelligenza artificiale al MIT di Boston, la connessione tra una fotocamera e un computer (sin dal 1966) e successivamente grazie agli studi e alle ricerche di David Marr, a partire dagli anni ’70. Come l’etichetta di artificial intelligence porta molto spesso a dimenticare che le macchine non sono dotate di un’intelligenza del tutto analoga a quella umana, anche quella di computer vision nasconde il fatto che nel computer non c’è una vera e propria visione, paragonabile a una visione organica: piuttosto, si tratta un filtraggio di elementi visivi di input, secondo dei parametri prestabiliti, per ottenere, come output, un’elaborazione degli input di partenza. Già Marr (1982, ma pubblicato postumo), proponendo una via per l’implementazione della computer vision a partire dal funzionamento 186 Valentina Manchia della vista umana, descrive la visione come un processo che fa corrispondere a una rappresentazione bidimensionale un’interpretazione tridimensionale, e di conseguenza mostra come sia possibile “insegnare” a una macchina, mediante l’applicazione di modelli “mentali” che di fatto traducono tratti 2D in immagini 3D, a interpretare configurazioni di tratti visivi come immagini di oggetti del mondo. Su questa scia, analogamente, i sistemi di AFR sono in grado di interpretare determinate configurazioni visive di pixel come volti umani, e andando ancora più oltre di analizzare i parametri visivi di un volto secondo determinate caratteristiche, in modo da associare un’immagine a uno specifico referente. Ora, image recognition e AFR sono campi sterminati. Non potremmo nemmeno accennare a tutte le specifiche modalità di computer vision, né ai diversi algoritmi per l’AFR messi a punto nel corso degli anni. In linea generale, possiamo però dire che i sistemi di face recognition operano secondo due modi distinti, e si raggruppano di conseguenza in due grandi categorie: i sistemi di face verification (o authentication) e i sistemi di face identification (o recognition propriamente detta). Come riassumono Mane e Shah (2019, p. 276), nella loro utile cronistoria sulle tecnologie di facial analysis: A face recognition system automatically identifies the face present in an image or video. It can operate in one of the following two modes: face verification (or authentication), and face identification (or recognition). For verification, we have an input image and we need to check if this image matches one specific in a given database (one–to–one match). On the other hand, with identification we have to compare a given image with all the images in the database (one–to–many match). Queste due modalità di riconoscimento facciale, espresse secondo la logica della corrispondenza, tra un input e un output, a un token, nella face verification, o a un type, nella face identification, in entrambi i casi mediante una regola che guida l’associazione, non nascono naturalmente con la computer vision ma si allineano con la duplice tendenza di lettura del volto che nel corso dei secoli ha caratterizzato gli studi fisiognomici (Magli 1995). Ricambiare lo sguardo delle macchine 187 Magli, in particolare, iscrive le procedure di riconoscimento all’interno di quella tradizione fisiognomica che esegue una “minuziosa opera di pertinentizzazione del corpo” (Magli 1995, p. 32), sottolineando la natura di “impresa semiotica” di tale operazione. Estendendo il suo ragionamento, l’etichettatura delle emozioni attraverso la raccolta e la comparazione di tratti del volto operata da uno dei primi e più noti algoritmi AFR come Japanese Female Facial Expression (JAFFE) non dista molto dalle classificazioni di Charles Le Brun, teorico della patemica del volto della seconda metà del Seicento. Le procedure di identificazione, invece, che in quanto tali portano all’“appercezione di un volto in quanto unico e irripetibile” (Magli 1995, p. 19), si riconducono alla tradizione che vede nella certificazione dell’identità di un singolo individuo un vero e proprio strumento di controllo sociale mediante la presa sul corpo. Rispetto alle procedure di schedatura antropometrica perfezionate da Auguste Bertillon (Sekula 1986; Magli 1995; Leone 2020), i nuovi algoritmi per la face verification ricalibrano nuovamente la questione della sorveglianza, secondo gli attuali surveillance studies: è infatti un occhio inorganico, macchinico, e non una specifica figura di controllo, il solo a poter dare un’identità a immagini che sono di fatto “disembodies identities” (Gates 2011), come quelle delle telecamere di sorveglianza. Il funzionamento della face verification meriterebbe di essere indagato da vicino, ma per ora, come accennato, vorremmo concentrarci sulla face recognition propriamente detta, all’interno della quale ricadono la maggior parte delle varietà di AFR. A seconda delle classificazioni che vengono rese pertinenti, molti sono i modi di comparare una data immagine di input con altre immagini all’interno di un dato database, allo scopo di ottenere, come output, una etichettatura, per così dire, dell’immagine di input, in funzione di una o più categorie. Anche in questi casi si tratta di procedure essenzialmente invisibili delle quali esperiamo solamente i risultati, come quando cerchiamo per parole chiave nella gallery del nostro smartphone o usufruiamo della ricerca per immagini sui motori di ricerca. È difficile, insomma, arrivare a intravedere le dinamiche che consentono a una macchina di vedere e di restituirci il risultato della sua 188 Valentina Manchia visione — più o meno come, rimarcava Eco (1997), Marr e Nishishara (1978), nel loro lavoro sulla simulazione computerizzata dei processi percettivi, postulano una corrispondenza tra input e output (così come tra realtà e rappresentazione) ma senza indagare il perché tale corrispondenza funzioni. Proprio per provare a capire meglio quali siano gli impliciti della face recognition può essere interessante guardare alle cosiddette training images, ovvero i grandi dataset con immagini e relative istruzioni di lettura che consentono a determinati algoritmi di elaborare input e trasformarli negli output di cui così automaticamente fruiamo. Un buon punto di partenza sono i lavori di Trevor Paglen, che da anni, sulla scena dell’arte contemporanea, si interroga sul lavoro tra arte e tecnologia. 2. ImageNet Roulette e From “Apple” to “Anomaly”: vedere come vedono le macchine ImageNet Roulette (2019) è uno dei progetti di Trevor Paglen che sono confluiti in Training Humans, mostra da lui curata con Kate Crawford per Fondazione Prada Osservatorio (Milano, 12 settembre 2019–24 febbraio 2020). Come suggerisce il nome, si tratta dell’esplorazione casuale del database di immagini ImageNet. ImageNet, in realtà, è molto più di un semplice database. Si tratta di un progetto di ricerca in collaborazione tra le università di Princeton e Stanford: nello specifico, di una immensa raccolta di immagini, prelevate da Internet, per esempio dalle immagini senza copyright su Flickr o pubblicate sui social, con l’obiettivo di “to map out the entire world of objects”, nelle parole della responsabile scientifica e cofondatrice del progetto, Fei–Fei Li (cit. in Crawford–Paglen 2019). Il dataset di ImageNet, composto da 15 milioni di immagini descritte ed etichettate da più di 50000 workers di 167 paesi e gratuitamente disponibile sin dal 2009 in rete, è così diventato il più grande training set per il machine learning basato sulle reti neurali convoluzionali (CNN), una particolare classe di algoritmi di apprendimento automatico, capaci ovvero di apprendere e di autoimplementarsi se “nutriti” al contempo da grandi moli di materiali e da istruzioni su come organizzarli. Ricambiare lo sguardo delle macchine 189 Più dettagliatamente, le immagini prese dalla rete funzionano da input, e la macchina ImageNet, un vero e proprio ibrido di infrastruttura tecnologica e competenze umane (quelle dei workers), restituisce come output le stesse immagini ma etichettate una a una e classificate in training set più ristretti, raggruppati per categorie o sottocategorie (sono oltre 20000 le categorie implementate). Output finale di ImageNet sono dunque le training images classificate, descritte e taggate che confluiscono nel database disponibile sul sito (https://www.image–net.org/), pronte per costituire così il cuore del processo di visione macchinica che sta alla base della face recognition: sono infatti lo strumento principale (il modello mentale, per dirla con Eco 1997) che consente alle reti neurali la trasformazione di ulteriori immagini di input in immagini di output, che sono, come si vedrà, degli oggetti di natura complessa, così come sono decodificati dallo sguardo artificiale. Un’immagine letta dalle CNN non è più, infatti, solo un insieme di tratti visivi su una superficie bidimensionale, ma ha già ricevuto, grazie al confronto con training images che presentano pattern analoghi, un’interpretazione, condensata in una descrizione in tag che potranno a loro volta nutrire nuovi e futuri riconoscimenti di immagini. Un esempio efficace è quello che fornisce Fei–Fei (2015), a partire dall’immagine di un bambino alle prese con una torta, immagine che, per poter essere “vista” dagli algoritmi di machine learning, viene segmentata in diverse aree, a seconda delle salienze evidenziate dalle categorie presenti e attive: così l’area della torta viene identificata come “cake”, la sedia da giardino come “high chair”, con una classificazione più dettagliata, e la figura in piedi del bambino che guarda la torta viene ricondotta all’azione di “standing on”. Come sintetizzano Mane e Shah (2019, p. 281) le reti neurali imparano a riconoscere le immagini solo se hanno a disposizione grandi database di immagini di training su cui esercitarsi; ed è solo grazie a questa prima fase che si sviluppa un “trained CNN model”. Quello che però si tende a dare per scontato è che nonostante le reti neurali procedano individuando autonomamente, a partire dalle immagini di cui preliminarmente si nutrono, pattern e ricorrenze, non possano dare senso a ciò che registrano (non possano effettivamente “vedere”) senza uno schema che sia in grado 190 Valentina Manchia di dire loro cosa vedono. La costruzione di questo modello mentale riposa dunque sulle associazioni categoriali depositate nelle training images. Detto altrimenti, la costruzione delle training images, da parte dei workers che le processano, è il sommerso dell’image recognition: e, andando ancora più in profondità, senza una previa classificazione che metta a fuoco cosa è pertinente che l’algoritmo rilevi relativamente a ogni categoria, nessun riconoscimento sarebbe possibile. Riguardo alle categorie adottate per le immagini, occorre specificare che ImageNet, sottolineano Crawford–Paglen (2019), si basa sulla struttura semantica di WordNet, un database lessicale risalente agli anni ’80. La tassonomia è organizzata secondo una struttura annidata di synset, ovvero di sinonimi cognitivi. Ogni synset rappresenta un concetto distinto, con i sinonimi raggruppati, e i vari synset sono organizzati in una gerarchia annidata, da concetti generali a concetti più specifici. Per esempio, il concetto di sedia è nidificato come artefatto>arredo>mobili>sedile>sedia. Mentre WordNet tenta di organizzare l’intera lingua inglese, ImageNet è limitato ai soli nomi e nella sua gerarchia ogni concetto è organizzato in una delle nove categorie di primo livello: pianta, formazione geologica, oggetto naturale, sport, artefatto, fungo, persona, animale e varie. Quello che si scopre analizzandone la struttura, tuttavia, è che talvolta si basa su categorie più o meno scientifiche (come per la classificazione degli organismi viventi, ispirata alla nomenclatura binomia di Linneo, per il genere e per la specie), ma in altri casi le classificazioni applicate sono piuttosto rozze e intuitive, quando non basate su veri e propri preconcetti. È il caso della categoria Person, individual, someone, somebody, mortal, soul, su cui non a caso si esercita la critica di Paglen. Sotto la categoria Person (fig. 1) figurano categorizzazioni etniche, o presunte tali (Slav), attributi caratteriali o su stati emotivi (Introvert, Optimist), veri e propri giudizi sommari (Creditor, Anti–American, Nonperson, ma anche Loser, come in fig. 2). Ricambiare lo sguardo delle macchine 191 Figura 1. Alcune sottocategorie nella categoria Person su ImageNet, 2011 Fall Release (screenshot da Archive.org). Figura 2. La sottocategoria Failure nella categoria Person su ImageNet (cit. in Crawford–Paglen 2019). 192 Valentina Manchia Questa tassonomia, veicolata alle CNN attraverso le immagini di training, è la struttura che si fa carico di filtrare l’input visivo e di restituirlo dotato di un riconoscimento: tutto questo, però, è invisibile agli utenti che ricadono nel raggio d’azione degli algoritmi per la face recognition. A essere visibile, dell’operato di tali mindless agency, sarà solo il risultato della loro applicazione. ImageNet Roulette esibisce, invece, con una specifica interfaccia, la struttura categoriale implicita nel funzionamento per training images. Il progetto (https://imagenet–roulette.paglen.com/, ora non più accessibile se non in alcuni screenshot in Crawford–Paglen 2019) per poter funzionare richiedeva all’utente il caricamento di un’immagine o un nuovo scatto. Immediatamente dopo era in grado di restituire l’output finale, filtrato alla luce delle categorie di ImageNet: la stessa immagine con il risultato in termini di face recognition, ovvero l’area del volto circoscritta da un contorno verde con applicata un’etichetta con la “lettura” del volto da parte del sistema. I risultati sono evidenti, e notevoli, come nelle figure 3–5, prese da post di Twitter in cui gli utenti commentano la loro esperienza con ImageNet Roulette. L’etichettatura operata dai workers, per produrre le training images, si applica su generiche immagini prese dalla rete, vere e proprie “disembodied identities” (Gates 2011), perché estrapolate senza più alcun riferimento al soggetto originario; quello che invece fa esplodere l’indignazione dei visitatori di Training Humans alle prese con ImageNet è vedere la propria immagine, ben ancorata alla propria identità, data in pasto a categorie che si mostrano subito per quello che sono. Detto altrimenti, quello che astrattamente, sulle immagini del database, è percepito come classificazione, nel progetto di Paglen mostra immediatamente la sua natura di giudizio. A ben vedere, diversi sono gli impliciti a proposito della mind che muove la face recognition portati alla luce dall’installazione di Paglen: innanzitutto, l’opacità delle categorie di classificazione, su Person essenzialmente declinate non come descrizioni ma come prese di posizione, e il fatto che ogni lettura basata su queste classificazioni possa produrre la cristallizzazione di nuovi stereotipi (che si autoalimentano proprio attraverso l’autoapprendimento delle reti neurali). Ricambiare lo sguardo delle macchine 193 Figure 3–5. Alcuni post su Twitter su ImageNet Roulette. 194 Valentina Manchia Altro implicito non meno rilevante, il fatto che l’AFR basata sulle CNN implichi la trasformazione di una visione situata in una visione assoluta: è evidente in fig. 3, dove la prevalenza della sola etichetta black su ogni scatto di @lostblackboy, a prescindere dalle differenze di stile e di contesto dell’immagine, ha come risultato quello di marcare il nero, come colore della pelle, come diverso dallo standard — e mostra, in controluce, lo sguardo “bianco” e “standard” del sistema da cui ha origine. Sguardo “bianco” che quando si esercita sulla foto di @ Rogdiggity (fig. 4) non lo marca per il colore della pelle, ma attraverso altri tag. Discorso a parte meriterebbero poi le etichette vistosamente misogine (vedi fig. 4, la ragazza in basso). Ecco che l’AFR emerge anche come terreno di scontro e di definizione dell’alterità oltre che dell’identità, non perché crei autonomamente nuove categorie ma perché fornisce un nuovo, ancora più pericoloso perché invisibile, campo di applicazione delle categorie dell’alterità, che da sempre si fondano su una specifica polarità, volta a identificare da una parte lo standard e di converso la deviazione da esso. Se si parla di categorie visive dell’alterità questo meccanismo di doppia messa a fuoco è ancora più evidente, come mostra Stoichita (2019) portando a esempio la cosiddetta Negra di padre Gumilla, affetta da una sorta di vitiligine, la cui pelle è ostinatamente descritta non come nera con problemi di pigmentazione ma come ricoperta da una sorta di “mantelletta nera” e da “guanti neri” (Le Cat, 1765, cit. in Stoichita 2019) quasi che, dal punto di vista del bianco esploratore, le parti nere non potessero essere viste che come accessorie, un di più rispetto alla “normale” pelle bianca. Un altro implicito che ImageNet Roulette porta alla luce è la trasformazione delle espressioni mutevoli del volto delle immagini di input in classificazioni permanenti nei risultati di output, come per esempio in fig. 5. Il diverso intento classificatorio che ha da sempre orientato e distinto fisiognomica (come studio delle strutture del volto) e patognomica (come studio delle passioni espresse dal volto) si fonde insomma nelle bizzarre categorizzazioni applicate dai workers, che riassumono in tag sommari (dalle connotazioni spesso decisamente misogine o razziste) espressioni e atteggiamenti del volto. La riflessione di ImageNet Roulette trova, ci sembra, un ulteriore approfondimento in un altro progetto di Paglen, From “Apple” to Ricambiare lo sguardo delle macchine 195 “Anomaly” (2019), installazione per il Barbican Center. Il materiale di partenza è sempre ImageNet, ma lo scopo del progetto è differente. Al posto dell’esplicitazione delle strutture classificanti, c’è l’esibizione simultanea di una porzione di materiale, corrispondente a più di 200 categorie. Le training images sono riprodotte insieme e allineate senza soluzione di continuità su un lungo muro del centro espositivo. L’esplorazione va da apple, categoria com’è prevedibile molto facile da segmentare tassonomicamente, ad Anomaly, l’etichetta generica che ImageNet attribuisce alle immagini che non riesce a classificare, ovvero che ricadono del tutto fuori dalle maglie del sistema. Il che però porta a un paradosso: anche la categoria Anomaly, che denuncia l’impossibilità di una classificazione, è una categoria che opera una classificazione. Per costruzione, per taglio, per orientamento, la macchina non riesce a vedere queste immagini, perché non trova dei match tra immagine di input e immagini del training set lungo nessuna delle categorie previste; ma l’inclassificabilità in termini algoritmici confina le immagini “devianti” dal sistema in una categoria a parte, di fatto stigmatizzandole. La visione artificiale, la visione aggregata della macchina, in ultima analisi, individua un suo personale visibile circoscrivendo però anche quello che è per lei non visibile, ovvero che non rientra tra le sue categorie. Una discriminazione per difetto di visione (cfr. anche Buolamwini, Gebru 2018), che potremmo definire “passiva”, in contrapposizione alle pratiche di discriminazione “attiva”, per marcatura, che allineano determinati input visivi in categorie biometriche molto specifiche, per esempio implementando negli algoritmi per la scansione dei tratti facciali le caratteristiche somatiche di un dato gruppo etnico come nel noto caso degli uiguri in Cina (Mozur 2019), operando per social sorting (Lyon 2003). 3. Da training images a operational images: guardare alle immagini come dati Sia ImageNet Roulette che From “Apple” to “Anomaly”, in ultima analisi, offrono all’osservatore una prospettiva privilegiata per riflettere sugli impliciti della face recognition, mostrando molto chiaramente la 196 Valentina Manchia necessità di pensare alla visione artificiale come a una visione che potremmo definire informazionale, proprio perché mette in atto delle dinamiche di classificazione a partire dalla specificità del singolo volto. La face recognition, infatti, riduce la complessità dell’immagine del volto a un insieme di dati, attraverso l’imposizione di una data prospettiva di visione che passa per la messa a punto di categorie (e di modelli descrittivi) e l’applicazione di tali categorie, proprio come nell’information design sia la trasformazione dei raw data in informazione strutturata che la scelta di una specifica modalità di visualizzazione per l’informazione sono oggetto di pratiche di traduzione (Manchia 2020). Detto altrimenti, fondamentalmente non esistono immagini, così come le intendiamo noi, per le reti neurali, ma piuttosto dati che possono essere organizzati in informazione, ovvero che diventano leggibili solo grazie all’intervento di queste strutture “pensanti” che li lavorano, tra le maglie della visione artificiale. Per questo motivo può essere interessante ripensare alle training images non più come immagini ma come information, per esempio sulla scia del lavoro di ricerca di Harun Farocki sulle immagini di sorveglianza, su cui anche Paglen ha lungamente riflettuto (cfr. per esempio Paglen 2014). In particolare, proponiamo di riprendere il concetto di operational images che Farocki (2005) conia per riferirsi alle immagini che le telecamere di sorveglianza producono, nel senso di “images that are not simply meant to reproduce something, but instead are part of an operation.” Il girato cieco e automatico dei dispositivi a circuito chiuso diventa infatti per noi una serie di immagini, dotata di un valore e di un senso, solo all’interno di una narrazione orientata, come quella di Farocki in Eye/Machine (2001–2003) o in War at Distance (2003). Fuori dal montaggio che ci fa conoscere quelle immagini come immagini, le operational images sono infatti puri pezzi di operatività per il sistema che li produce, elementi che il sistema produce per se stesso e nei quali noi potremmo anche non avere alcuna parte. Ci sembra che si possano fare delle considerazioni simili anche sulle training images. Quello che forse ci colpisce di più, dunque, in operazioni come quelle di Paglen, è che mostrano con chiarezza l’esistenza di un mondo di immagini non destinate a noi, “invisible images” (Paglen Ricambiare lo sguardo delle macchine 197 2019), appunto, che delle immagini hanno l’apparenza, per il nostro sguardo analogico, mentre per la visione artificiale non sono altro che un input di partenza, il campo di applicazione di algoritmi volti all’ottenimento di specifici risultati. 4. Epilogo. Il prossimo futuro della visione artificiale In chiusura, occorre aggiungere che, nei mesi che sono seguiti allo scandalo sollevato da ImageNet Roulette, a opera del gruppo di ricercatori capitanato da Fei–Fei Li ci sono stati degli ulteriori, importanti sviluppi. Nello specifico, in Yang et al. (2020) sono stati riscontrati tre principali problemi da correggere nel subtree Person: lo “stagnant concept vocabulary of WordNet”, che si propone di correggere attraverso l’individuazione (e l’eliminazione) delle categorie unsafe perché offensive o sensitive, ovvero che sono “not inherently offensive but may cause offense when applied inappropriately”; la carente rappresentazione delle minoranze nel corpus di immagini di ImageNet, risolvibile implementando nel database immagini che rappresentino uno spettro più ampio di casistiche rispetto al genere, al colore della pelle o all’età, correggendo così i bias che portano di fatto alla cancellazione di alcune casistiche; e, infine, l’impossibilità di individuare un’equivalenza visiva per ogni synset di WordNet. Più in dettaglio, molte delle distorsioni rese evidenti da ImageNet Roulette vengono ricondotte all’impossibilità di avere sempre una corrispondenza efficace tra synset e immagini, ovvero dalla non–imageability di alcuni concetti e sulla conseguente necessità di introdurre un imageability score che tagli fuori, dall’azione dell’AFR, i concetti che ottengono valori più bassi in sede sperimentale. Viene però da chiedersi, in una prospettiva che non è più quella della computer vision ma degli studi visivi, tra semiotica, teoria delle immagini e visual culture studies, che cosa implichi cercare di vagliare, come i ricercatori di ImageNet fanno, le categorie chiave per la computer vision sulla base di un imageability score che misuri l’immediatezza attraverso la quale un concetto può essere tradotto in un’immagine. Non sarebbe piuttosto utile riflettere, a monte, sulla diversità intrinseca di 198 Valentina Manchia un concetto come quello di apple (per riprendere l’esempio di Paglen 2019), decisamente più nouny (Lakoff 1987), rispetto a un concetto astratto, perché può rifarsi a una configurazione data di tratti visivi che corrispondono, a partire da una specifica griglia di lettura, a dati tratti del mondo naturale (Greimas 1984)? Yang et al. (2020) ammette poi l’esistenza di categorie “imageable, hard to classify”, anche nel caso di concetti apparentemente molto semplici come basketball player. Ma chi è davvero un basketball player per le CNN? È di default un giocatore di basket, o soltanto una persona che gioca a basket? Nella stessa categoria non possono che convivere un’accezione ristretta e un’accezione più allargata del termine: certamente il setting in cui l’azione si svolge, che enciclopedicamente indirizza la lettura (Eco 1975), e le istruzioni per il riconoscimento che si basano su precedenti esperienze percettive (Eco 1997) orientano la nostra visione, ma come rendere tutto questo accessibile agli algoritmi? Esiste il rischio concreto, insomma, che computer vision e AFR vedano il mondo solo a misura delle categorie che contribuiscono a incasellarlo, come nelle pericolose derive nel controllo sugli uiguri e altre minoranze (cfr. anche Manchia 2021). Vedere, insomma, si dice in molti modi, per gli umani ma anche per le macchine: e sarebbe interessante continuare a riflettere da vicino sulla grande distanza che separa questi due sguardi, che di fatto individuano due mondi del visibile non immediatamente sovrapponibili tra di loro. Riferimenti bibliografici Arcagni S. 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The interface holds together the two dimensions of becoming: movement and metamorphosis. It is the operator of the passage (Lévy, 1992:190). The pages that follow are inspired by a wide range of authors, disciplines and theories, from interaction design to Actor–Network Theory (ANT), Human–Computer Interaction (HCI), complexity, sociology of technological change, economy, and semiotics. Linguistics, biology, engineering and anthropology have also left their mark on more than one law. In this text I propose an analysis of interfaces focused on macroprocesses, in which the biological dialogues with the technological. To understand the ecosystem and evolution of interfaces I (1) This text is a synthesis of the book Las leyes de la interfaz (Barcelona: Gedisa, 2021). 203 204 Carlos A. Scolari have borrowed concepts and interpretive models from the bionatural sphere and applied them to the technocultural sphere. Therefore, the two main objectives of this work are: – To rethink the concept of /interface/ and extend its use beyond digital technology. – To analyze the interface from an eco–evolutionary model to identify a set of emerging laws. Basically, what interests me most is to propose a model of technological change that dialogues with models of biological change but that, at the same time, can be applied to other spheres, for example social, political or educational. 1. Why Laws? In the scientific domain a “law” is a “statement of fact to the effect that a particular natural or scientific phenomenon always occurs if certain conditions are present”. In this sense the “law” is almost similar to a “principle”: “a general scientific theorem or natural law” (Oxford Dictionary). This scientific aura around the law does not mean that it is absolutely certain: it just means that the evidence tends to support it. Laws were made to be broken. That’s the way knowledge evolves. Nobody loses if we break a knowledge law; everybody wins if we ask a new question, search for a new answer or generate a new law. Nobody should have the last word in any conversation (and knowledge is one of the most fascinating social conversations of humankind). 2. Towards a Theory of Interfaces The path from a primary application of the eco–evolutionary metaphor to the development of more sophisticated theoretical models of technological change is not direct. In this context, the concept of /interface/ could become one of the necessary keywords for understanding the The Laws of the Interface 205 transformations of contemporary society. If in the 1950s everything was /structure/, in the 1960s it became /sign/, then in the 1980s /text/ was presented as the key concept for understanding an infinity of phenomena. Could the /interface/ be one of the keywords of the 21st century? Finally, this Theory of Interfaces that we are in the process of building is itself a great theoretical interface that connects the contributions and organizes the reflections of an extensive network of intellectuals, scientists, designers and creators who, in the last two centuries, have been reflecting on the evolution of technological species and designing new places of interaction. 3. First Law. The interface is the place of interaction What’s an interface? I’ve discovered that each definition of the interface hides a metaphor. In other words: the interface can be understood from different perspectives and analogies. 3.1. The interface as a surface According to The Oxford English Dictionary an interface is “a surface between two portions of matter or space that have a common limit”. The term was introduced by J. T. Bottomley in Hydrostatics (1882) to identify a “separation surface” between two liquids. But the interface does not only separate: it allows certain elements (molecules, particles, etc.) to pass through it, like in osmosis. The spread in the 1980s of personal computers with operative systems designed with the philosophy of WYSIWYG (What You See Is What You Get) expanded and upgraded the metaphor of the interface as a surface. These devices introduced a new way of exchanging information between the user and the digital machine based on graphic representations on the screen. From this perspective, the interface is like a skin that conveys information that explains how to use the interface to the user. 206 Carlos A. Scolari 4. The interface as an information interchange device Half a century later, Bottomley computer scientists took the concept and used it to define a material device that allows the interchange of data between two systems, for example, the “interface between a computer and a printer” or a “USB interface”. In short: we do not only have an interface on the screen at front of our computer. Turn it around and look at the back: there are plenty of interfaces! Interfaces for connecting the printer, the mouse, the screen, an external disc, a camera, a smartphone, an Ethernet line or another computer. Many of these connections today have become wireless interfaces. 4.1. The interface as a conversation Some researchers and designers consider that the interface is a conversation between the user and a technical device. This idea was especially important in the 1950s, when computer scientists started developing the first Artificial Intelligence programs. As the Turing Test proclaimed, an “intelligent machine” should at least speak and understand human language (Turing, 1950). From a semiotic perspective the conversation is not between the machine and the human but between the designer and the user, like in a text–mediated interchange between an author and the reader. When we read a book we establish a “conversation” with the author of the text: the author puts something inside the text and we, the readers, collaborate in the construction of the meaning of the work (Eco, 1979). Similarly, when we interact with a computer we establish an asynchronous and remote interchange with the creator of the interface. 4.2. The interface as an instrument Leading human–computer interaction experts like Don Norman (1990a) adopted a definition that considers the interface as an instrument, a tool or a prosthesis that allows the subject to manipulate a technical device and accomplish a task. According to Norman the best interface disappears when we are using it: “The real problem with the The Laws of the Interface 207 interface is that it is an interface. Interfaces get in the way. I don’t want to focus my energies on an interface. I want to focus on the job” (Norman, 1990b). The interface as a tool is the mother of all the metaphors, the first conception that a user frequently formulates in front of any technological device. To say that the interface is a tool is also a basic and primary response of the interface analyst. I wrote The Laws of the Interface to change this vision of the interaction process (Second Law). I believe that the interface is something more than a simple tool or instrument. 5. The interface as a place The arrival of the World Wide Web and the propagation of videogames in the 1990s has reinforced this metaphor. For new generations social media are a place to meet people and interchange information of any kind. The metaphor is so strong that it’s very difficult to avoid using it in everyday conversations. From a scientific perspective, the interface as a place where different actors interact and maintain relationships is one of the most useful conceptions for developing a Theory of the Interface. Figure 1. The interface as a place where human and technological actors interact. 208 Carlos A. Scolari 6. Towards an expanded definition of the /interface/ In short: What’s an interface? A univocal definition of interface does not exist. At this point the interface means so many things that we can make it say whatever we want. Its semantic existence is so weak, fluctuating and malleable that we can only metaphorize it: the interface as a membrane, the interface as a communication device, the interface as an instrument, the interface as a conversation, the interface as a place. Each of these metaphors illuminates certain aspects of the interface, privileging some of its properties but at the same time hiding others. My experience in this field suggests to me that the “interface as a place” is possibly the best metaphor, the one that reveals the most pertinent traits of the interaction. This metaphor also contains the rest of the metaphors: in a place we can manipulate instruments, connect devices between them, perceive information from the surfaces and establish conversations. In this context, the interface is the place where human (individual, institutions) and technological actors interact and maintain different kinds of relationships. Or, in a few words, the interface is the place where things happen. The metaphor also works like a perception and interpretation modeler agent that guides the interface designer’s actions. It is not the same to design interfaces in the belief that they are docile instruments in the hands of the user as it is to design them in the belief that they are conversational interchanges. Likewise, it is not the same to study interfaces as if they were a membrane as it is to study them as a space in which semiotic and cognitive processes take place. We could spend an entire lifetime looking for a good definition of /interface/. And while we design, use, reflect, define, classify and write about them, interfaces evolve, contaminate and live an independent existence far away from our theoretical ruminations. 7. Second Law. Interfaces are not transparent Interfaces are something more than just a tool or an instrument designed to accomplish a task. Interfaces are interaction environments The Laws of the Interface 209 where different human and technological actors maintain different kinds of relationships (First Law). The distance between a tool and an environment should be clear to the reader: a tool is used while an environment is lived. 7.1. The best interface disappears When we drive a car we pay attention to the traffic and the road signals and not to the gearshift, the accelerator or the brake pedals. If we concentrate on these devices, we’ll probably run over a pedestrian. Remember Don Norman: “I don’t want to focus my energies on an interface. I want to focus on the job”. The world of digital interactions does not escape this dynamic: in this precise moment my mind is thinking in the sentence I’m writing and not in the keyboard. The dream of every designer is to create transparent interfaces. This is the logical consequence of considering the interface as a tool (First Law). However, what’s good for the designer and especially for the user it is not necessarily good for the researcher. The disappearance of the interface is the utopia of every interface designer, but it is the nightmare of the interface theoretician. 7.2. The apparent transparency of interfaces Even the simplest example of interaction — such as clicking on a button to turn the light on or transferring a document to the trash — hides an intricate network of interpretative negotiations and cognitive processes between the actors involved in the interchange. The interface, like any other place where sense production and interpretation processes take place, is never neutral or transparent. Like reading a book or watching a movie, the interaction is an interpretation game. Umberto Eco (1979) believes that a text — a novel, a movie, a picture — is the place where two strategies confront each other: the author’s strategy and the reader’s strategy. Mutatis mutandis, we can say the interface is the place where two strategies challenge each other: the designer’s strategy and the user’s strategy (Ninth Law). 210 Carlos A. Scolari 7.3. Proposals, contracts and grammars of interaction It could be said that every interface presents an interaction proposal that the user can accept or not. This contractual relationship between designers and users challenges the hypothesis of the interface transparency of the interaction. When we enter a new videogame, software or website, we explore the surface of the user interface and interpret it. First, we identify interactive and non–interactive elements; second, we try to identify their functions and the possible consequences of interacting with them: ¿What’s this icon for? ¿What happens if we click on it? In brief: the interface engages in a dialogue with the user. Or better, the user makes the interface speak, explores it, reconstructs its code and interprets it while interacting (Scolari, 2004). But interfaces never do what the designers expect them to do. A system designed for receiving messages can be used for creating virtual communities, and a digital animation software can be turned into a platform for multimedia production. The users co–design the interface and use it in their own way, even over–interpreting it, frustrating the intentions of the designers, who try to dominate the process and make the user do what they want. In this context the user can accept or not the interaction proposal of the interface. If it is accepted, them the user will establish an interaction contract with the interface. This contract is like the “suspension of disbelief” identified by the theorists of literature (Coleridge, 1817): when the interaction contract is signed the user accepts the rules and cooperates with the interface, making it work. Now, after the interaction proposal and the interaction contract, let me introduce you to the interaction grammar. What is grammar? It is a series of rules and principles that governs the creation of meaning in verbal and non–verbal languages. User interfaces must have a grammar to regulate the interchanges with the users. In 1984 Macintosh popularized a series of principles that were later incorporated into the rest of the computer user interfaces. For example: One click ▶ Select element Double click ▶ Open the element Drag’n’drop ▶ Move element The Laws of the Interface 211 This grammar has remained the same for more than twenty years, at least until the arrival of smartphone multi–touch screens and laptop trackpads. Interaction grammars are not as complex as verbal or audiovisual grammars, but interface designers must respect their principles like any other speaker or writer if they want to be understood. 8. Breaking the rules Although most user interfaces have been designed for doing activities like writing a text, sending an email, retouching a photo, changing television channels, driving a car or setting the oven temperature, sometimes interface designers create opaque interfaces. In other words: on some occasions the best interface is not the most transparent. This means that it is not compulsory to follow the guidelines of the usability gurus: if the interface designer is looking for an emotional experience and a deeper participation from the user, the best solution might be to blast the conventions and create a brand new interaction grammar. The interaction contract with the user will be much more intense and the user experience a long–lasting one. 9. From micro to macro–interactions Interfaces are the place where complex perceptive and interpretative processes take place. It is possible to find conflict and cooperation, tension and collaboration in interfaces. This activity can be described as a permanent interplay of interaction proposals and interaction contracts in the context of an interaction grammar. If we consider the interface as just a tool or an instrument, these processes remain invisible to the analyst. The interplay that we have identified in the micro–interactions of the individual actors can also be found at a macro–social level. The interface embodies conflicts and cooperation at both levels. If at the micro–level the conflict/cooperation is mostly perceptual and cognitive, 212 Carlos A. Scolari at the macro–level the conflict/cooperation is conditioned by economic, social and political issues. Interfaces are political devices and they carry particular ideologies and conceptions of the world inside them (Ninth Law). 10. Third Law. Interfaces form an ecosystem Interfaces live in an ecosystem and there is a fertile and conflicting exchange among them. When the engineers who created the first computers needed a device to program them, they simply adapted what they already had: the typewriter QWERTY keyboard. And when in the 1960s the computer needed a real–time output device, they had no doubts: the television screen was waiting for them. Like the synapses of a neuron or the valences of a chemical element, interfaces have the possibility of linking with other interfaces. Interfaces, as Claude Lévi– Strauss (1964) said about myths, engage in a dialogue and “think each other”. The dialogue between interfaces does not discriminate against any type of device or human activity. What today is on the screen, yesterday was in the real world, and what will appear tomorrow in a videogame, will later be found on the Web. Interfaces form a network that looks like an expansive hypertext in perpetual transformation that carries out operations of movement, translation, transduction and metamorphosis. The evolution of interfaces depends on the correlations that they establish with other interfaces. If the interface does not engage in a dialogue with other interfaces, it does not evolve and it runs the risk of being extinguished (Fourth Law). 11. The impossible interface Sometimes the interface does not find good interlocutors for dialogue. The printing press, invented in China a millennium before Johannes Gutenberg, could not become consolidated in that society because it was almost impossible to dialogue with a system of ideographic writing The Laws of the Interface 213 in which each sign corresponds to a concept. As Marshall McLuhan (1962) explained, the interface of the Chinese press lacked an interlocutor: the Latin alphabet. The Gutenberg machine, on the other hand, integrated into one interface the wine press, the Latin alphabet, paper, binding systems and the techniques of fusing and molding lead. Five hundred years after Gutenberg something similar happened with graphical interfaces. Several companies attempted to market a personal computer with a user–friendly interface (Apple Lisa in 1980, the Xerox Star in 1981), but they failed. Finally, in the prophetic year of 1984, the miracle occurred: the Macintosh, the machine for the rest of us, conquered the public. Why did the Mac succeed where the Apple Lisa and the Xerox Star had failed? Because it established a dialogue between its graphic operating system, the printer laser of Hewlett–Packard and the PostScript language of Adobe. The union of these three technologies revolutionized the way the world understood computing, created new professional fields such as Desktop Publishing (DTP) and generated the conditions for the personal computer revolution in the 1980s (Lévy, 1992). 12. Perfect interfaces The situation happened again at the beginning of the 21st century. As Steven Levy explains in The Perfect Thing (2006), the appearance of the iTunes software, the progressive reduction in the size of hard disks, the lower price of memories and the development of the Firewire interface converged into the coolest product of the new decade: the iPod. The iPod is an interface that integrates different hardware and software elements — a 1.8–inch hard drive, the Firewire connection, the MP3 format for audio compression — with the former Macintosh application for playing and managing music: iTunes. As in 1984 with the Macintosh, the interconnection of actors determined the success of the perfect thing. Just one year after Levy’s book was published it was already old. On 29th June 2007 Apple introduced a new perfect thing with an even more extended network of actors: the iPhone. This description of high–technology devices that converge into a single interface should not eclipse the human actors that participate 214 Carlos A. Scolari in them. Designers (the Apple design team, not just Steve Jobs), institutions of any kind (media, markets, Apple Stores, research labs, etc.) and, obviously, consumers, participate and interact in the network built around these almost perfect — new improved models are presented every semester — interfaces. 13. Theoretical networks Social sciences have had an intermittent interest in technological change. Classical thinkers like Adam Smith, David Ricardo or Karl Marx saw mechanization or division of labor as fundamental topics of their economic theories. Nevertheless, from the end of the 19th century to the 1950s the economy was more interested in the equilibrium of variables so that the attention was focused on other fields. The development of a new school of thinking around the Austrian economist Joseph Schumpeter brought the problem of technology, innovation and entrepreneurship into focus again. For many years, researchers believed that the role of inventors was central in the innovation process: that’s why we still talk about James Watt’s steam engine, Thomas Edison’s light bulb, Alexander Bell’s telephone and Steve Jobs’ Macintosh. To every name there is a corresponding artifact, or more than one (Thomas Edison also “invented” the phonograph, and Steve Jobs the iPod, the iPhone and the iPad). This conception is based on the heroic role played by each individual inventor in the creation of a new artifact. Researchers like Nathan Rosenberg (1992), one of the most recognized historians of economy, denounced this “heroic theory of invention” that impregnates our language, patent system and history books. In this context, the Laws of the Interface prefer to establish a dialogue with conceptions and theories like the Social Construction of Technology (SCOT) (Hugues, 1983; Bijker, Hughes and Pinch, 1987; Bijker and Law, 1992; Bijker, 1997), the Actor–Network Theory (ANT)(Callon, 1986, 1987; Law and Hassar, 1999; Latour, 2005), media ecology (McLuhan, 1962, 2003; McLuhan & McLuhan, 1992; Scolari, 2012, 2015; Strate, 2004, 2007, 2008), media archaeology (Huhtamo & Parikka, 2011; Parikka, 2012) and media evolution The Laws of the Interface 215 (Scolari, 2013, 2019). The contributions of Arthur (2009), Basalla (1988), Logan (2007), Frenken (2006), Manovich (2013) and Ziman (2000) have also been integrated into this interdisciplinary and polyphonic conversation. The Laws of the Interface, in a few word, proposes an eco–evolutionary approach to socio–technological change based on the contributions of all of these authors and disciplines. 14. The content of one interface is always another interface What happens when we deconstruct an interface? The windmill was one of the most important inventions of the Middle Ages. If we deconstruct a windmill, what do we find? A combination of the water mill and ship sails, two technologies invented in Antiquity. If we dismantle the water mill we will find a wheel, an axis and many other technological actors that interact with them. When we open an interface we always find more interfaces. This fractal dimension of interfaces could take the form of a new law or at least a corollary: the content of one interface is always another interface. 15. Fourth Law. Interfaces evolve Charles Darwin never employed the concepts of evolution or ecosystem in his most important and revolutionary text: On the Origin of Species (1859[1975]). However, he set the foundations for an integrated theory of evolution and wrote many pages about species, variety, diversity, extinction, and natural selection. According to Darwin biological species undergo mutations — changes in their genetic material — caused by copying errors during cell division, exposure to radiation, chemical mutagens, viruses, or generated by the organism itself. In recent years human manipulation of genetic material has also contributed to this process. Mutation is an essential source of variation, which is the emergence of a new individual in an ecosystem. Darwin realized that ecosystem populations can’t expand indefinitely because the resources are limited. Then, the new individuals must 216 Carlos A. Scolari compete for survival with the old ones. If the mutation assists the organism in continuing to exist, the individual will adapt to the environment and reproduce; if not, it will be eliminated by natural selection. Most mutations are deleterious; evolution progresses through the few individuals that have favorable mutations. When a species generates a new different branch, biologists talk about a bifurcation or forking process. Darwin’s theory integrated into the same picture the emergence of new species by variation and the destruction of non–adapted species. The basic principle behind this process — also known as the “Darwin machine” — can be reduced to two words: natural selection, the key concept of the Darwinist approach. 16. Evolution of technology If the Galapagos Islands ecosystem attracted Charles Darwin’s attention to the diversity of life and the emergence of new living forms, Karl Marx — who had read, cited and much appreciated Darwin’s contributions — was surprised by the production of more than five hundred different models of hammers in Birmingham (Marx, 1990). Unfortunately, he did not live long enough to witness the explosion of technological species in the 20th century. However, during the last decades, hundreds of researchers from different scientific fields have developed a Darwinian approach to technology evolution, for example George Basalla, author of the classic The Evolution of Technology (1988). Basalla considered that the human–made world contains a far greater variety of things than are required to meet our fundamental needs. This diversity of objects is the result of technological evolution. Researchers like Basalla advocate the idea that innovation and diversity of technical objects have been present at all times and in all places where human culture has developed. Without variety and natural selection, the life on Earth would be composed of the same species as millions of years ago: a soup of microorganisms. By the same logic, without innovation and diversity the Homo sapiens would still use primitive silex tools and silicon digital machines would not have been created. The Laws of the Interface 217 Figure 2. Evolutionary tree drawn by Charles Darwin in his First Notebook on Transmutation of Species (1837). 17. Techno–Cambrian explosions Around 530 million years ago there was a sudden increase in new species on Earth, better known as the Cambrian explosion. The fossil record demonstrates a rapid — “rapid” in evolutionary terms, that is millions of years — diversification of organisms and an increased complexity of their organization (Gould, 1989). Although it is not 218 Carlos A. Scolari easy to understand what happened 530 million years ago, we can analyze and reflect on modern techno–Cambrian explosions of new interfaces. Like in biological systems, at certain moments of the technological evolution there are bursts of new species that modify the configuration of the socio–technological network (Kauffman, 1995; Barabasi, 2010). The evolution of technology offers many other case–stories of Cambrian explosions, like the sudden increase in aircraft models in the first two decades of the 20th century and after World War II, or the upsurge of hundreds of different smartphones and sneakers in the 21st century. Media have also gone through Cambrian explosions, for example the multiplication of radio stations in the 1920s, the increase in superheroes in comic books in the late 1930s and 1940s, the proliferation of television channels in the 1980s, or the boom of blogs and social media in the 2000s and mobile apps in the 2010s. 18. If variety, then selection In the socio–technological network, variation and selection are indivisible processes: an increase in the technological diversity is usually followed by a selection process that puts things in order and establishes a new equilibrium. When an interface adapts to the socio–technological network, it is selected and chosen for replication. Or in other words: when users decide to adopt a technology — that is, they decide to join the interface and interact with the rest of the actors — at the same time they are discarding competing interfaces. Discarded interfaces may be condemned to extinction... or not (Sixth Law). The famous Darwinian “struggle for survival”, like the rest of the eco–evolutionary metaphor, cannot be automatically applied to technology evolution. More than an individual struggle for survival, in the ecology of interfaces it is possible to identify a collective struggle where different actors — users, designers, producers, political institutions, economic groups, military hierarchies, consumer organizations, etc. — try to condition the development of a technology (Ziman, 2000). The Laws of the Interface 219 19. Variation and the Long Tail Digital technology facilitates the explosion of new species and, in certain cases, makes their survival easier. To record a song, write a text, take a photo, edit a video or develop an application has never been so simple. To distribute them has never been so easy. Millions of songs, texts, pictures, videos and mobile applications can be discovered, compared, bought and downloaded in an almost infinite number of online databases. In a brick–and–mortar economy the selection process condemned many goods and species to extinction. In the digital economy, the non–selected goods and species do not disappear: they survive in the long tail (Anderson, 2006). From the perspective of the Laws of the Interface it could be said that the long tail is like an ecological reserve of cultural artifacts (texts, songs, photos, videos, applications) that have not reached the critical mass for surviving in the mass–market environment. If in the traditional market these species were condemned to extinction, in a networked environment they survive in their own digital niches and interact with a small but often devoted community of consumers. In this sense the long tail shrinks the mortality of cultural beings. 20. Fifth Law. Interfaces coevolve with their users /Coevolution/ is a phenomenon of mutual evolutionary adaptation between two or more biological species based on their reciprocal relationships (Allaby, 1998). These relationships can be symbiosis, parasitism, competition, pollination, mimicry or the eternal fight between prey and predator. In coevolution, evolutionary changes in one species place pressure on the selection process of the others, which in turn affects the first species. A classic example of coevolution is the complementation that exists between flowering plants and insects; for example, for the pollination of their flowers figs (Ficus) depend on small wasps (Hymenoptera chalcidoidea). Simultaneously, these wasps develop their larvae in the ovaries of figs, so the two species are interdependent. Today for you, tomorrow for me. 220 Carlos A. Scolari 21. Media as extensions In the first pages of Understanding Media: The Extensions of Man Marshall McLuhan (2003[1964]) introduced the idea that each medium — and, consequently, every technology — extends some physical, cognitive or social function of Homo sapiens. During the mechanical ages we had extended our bodies in space. Today, after more than a century of electric technology, we have extended our central nervous system itself in a global embrace, abolishing both space and time as far as our planet is concerned. Rapidly, we approach the final phase of the extensions of man — the technological simulation of consciousness, when the creative process of knowing will be collectively and corporately extended to the whole of human society, much as we have already extended our senses and our nerves by the various media (…)(McLuhan, 1964: 3). McLuhan warned that the effects of technology “do not occur at the level of opinions or concepts, but alter sense ratios or patterns of perception steadily and without any resistance” (18). Homo sapiens are born, grow up and live in technological environments that model their perception and cognition. These intuitions, developed by McLuhan in the postwar period when brain research was still barely in its infant stage, return to us today with an unusual force. The relationships between Homo sapiens and technology have never been easy to understand and the phantom of determinism is always lurking around them. In The Laws of the Interface I place my bet on a dialectical relationship between subject and technology (Second Law) within the framework of an eco–evolutionary conception (Third and Fourth Laws). 22. Human–technology coevolution The World Wide Web has evolved since the creation of the first website in August 1991. Today any home page can contain dozens of blocks of text, images, videos, infographics and hundreds of links. The whole The Laws of the Interface 221 surface of the screen is covered with contents; it’s as if web designers are afraid that there will be blank spaces on the screen. Horror vacui. But… What would have happened if, back in 1995, a contemporary website suddenly popped up on my Power Macintosh 7200 screen? Would I have been able to navigate it? Would I have been able to understand the amount of information and links it contains? Surely it would take me a while to understand the interaction proposal (Second Law) and adapt to such a baroque interface... What has happened? The web has evolved and I, like the rest of the early users, have also evolved with it. In other words, the World Wide Web and users have coevolved over the last quarter century. And the interface has been the witness and the place of that coevolution. In the coevolution between humans and technologies we can identify three actors: the designers, the users and the technological artifact. The interface is the place where these three actors interact and establish (or break) contracts of interaction (Second Law). The designer, understood as a creator of interaction spaces, is a transversal professional expert in the generation of links and combinations between human and technological actors (Tenth Law). The user, as we conceive it in The Laws of the Interface, is an active subject that can dispute the designer’s power (Second and Ninth Law). 23. Deviated uses In 1982, a decade before the arrival of the World Wide Web, the French public company PTT (Poste, Téléphone et Télécommunications) introduced a new service: Minitel, a videotext system that operated through the telephone network. Users could make purchases online, book trains, look up stock market values, find people in the phone book or even chat with other subscribers. Minitel was originally designed to query databases but the French appropriated the technology and put it at the service of their interpersonal communications (Perriault, 1991). In this way Minitel ended up becoming a gigantic space to chat and exchange information among users, and the other possible uses became marginalized. If the designer proclaims “do as I say”, users will retort: “we do what we want”. 222 Carlos A. Scolari Figure 3. Transpermia by M. Antúnez (2003). 24. Future coevolutions To imagine the future of interfaces it is not enough to talk to designers, inventors and users: to visualize the future artists are the best interlocutors we can find. In his one–man show Transpermia (2003) the Catalan artist Marcel·lí Antúnez presented a utopian vision of human–technology coevolution that begins with the origin of life on Earth more than 3,000 million years ago and continues with a surprising series of new interfaces to perceive and intervene in the world (http://www.marceliantunez.com). During the show, the artist is embedded in his Dreskeleton, a body interface of exoskeletal nature with which he samples his voice, modulates sounds and controls the videos that are projected on the screens. Among many other devices Antúnez presented the Neurohelmet, a brain interface that reads neural connections and allows telematic action on things, or the Telesensor, a prototype for a “full bodily experience” that includes tactile mesh, nasal spray, taste ball, hearing aids and screen glasses. The Tactile Net is a device that reproduces the tactile sensations thanks to vibrators located in the epidermis. Other technologies The Laws of the Interface 223 that Antúnez described in Transpermia are the Vocalometer, a translation interface that allows users to speak any language; Teleidentity, a connection between the Neurohelmet and foreign identities; and Ultrainterfaces, a global system of automatic interfaces without human intervention, making it possible to control the climate and the over–exploitation of planetary resources. Not even Black Mirror dares to image so much. 25. Sixth Law. Interfaces don’t disappear, they transform Like biological ones, technological species and their interfaces evolve (Fourth Law). In less than a century the aircraft evolved from the Wright brothers’ first models into supersonic invisible combat arrows or wide–bodied airplanes that carry hundreds of passengers. However, many components of the Wright’s Flyer I are still present in large cargo aircraft as well as fighter jets. The same may be said of other technologies and interfaces. This leads us to a question: Do interfaces become extinct? 26. Story of two Bibles Two Bibles are displayed in the Library of Congress (Washington, DC): the manuscript of the Giant Bible of Mainz and the first Bible printed by Johannes Gutenberg. The Giant Bible is composed of 459 vellum pages bound in two volumes. The text was written by the same hand into two columns of sixty lines each. The decorated initials, the illuminated images (made with very thin gold sheets), the rubrics and the regularity of the letters make the Giant Bible of Mainz a work of art that expresses the highest level that manuscript production reached in the 15th century. Gutenberg’s Bible, exhibited a few meters away from the Giant Bible, is one of the 180 copies printed in his workshop in Mainz around 1455. This particular copy is one of the thirty–five printed on vellum. Gutenberg’s Bible is composed of 1,282 pages of 17 x 12 inches. Like the handwritten version, the text is distributed into 224 Carlos A. Scolari two columns but in forty–two lines. The images and colors were added after the printing process, by hand, as in the not so olden times. If the Giant Bible of Mainz is a capolavoro of medieval manuscript production, Gutenberg’s Bible is an example of technical reproduction that still surprises us today by its perfection. Never have two cultural objects been so far apart: one is the refined output of hundreds of years of manuscript text evolution, while the other inaugurated the era of mechanical reproduction and mass culture. But, at the same time, the Giant Bible and Gutenberg’s Bible show many continuities in their interface: both were produced on parchment, the text is distributed into two columns and includes handmade decorations. The width of the margins of Gutenberg’s Bible is based on the golden ratio of the manuscripts, and the abbreviations printed by Gutenberg were the same as those of the 15th century copyists. However, the first generation of printers soon included new elements in the book’s interface, for example the frontispiece. The tension between continuity and discontinuity is a constant of the evolution of interfaces. And the best place to detect and interpret these continuities and discontinuities is the interface itself. 27. The evolution of digital user interfaces Past and present coexist in the interface. The early 19th century typewriter designers drew inspiration from the piano keyboard; some of these pioneering models were even known as the Cembalo Scrivano or the Literary Piano. The telegraph — like the Electro–motor Printing Telegraph designed by George Phelps in 1884 — also borrowed the keyboard from the musical instrument. Years later, the keyboard turned into little metal circles and went from typewriters to personal computers, and from there to mobile devices (Tenner, 2004). The first computers had an alphanumeric interface — like the MS– DOS system — that forced the user to interact with the machine using a keyboard inspired by the typewriter. The diffusion of graphic interfaces in the 1980s moved many interactions from the keyboard to the mouse. However, the alphanumeric interfaces refused to abandon us: to use a search engine, communicate in a chat or modify an article in The Laws of the Interface 225 Figure 4. Electro–motor Printing Telegraph (1884). Wikipedia we must use the keyboard. Interactions in social media remain mainly alphanumeric. To understand an interface we must first be archaeologists. The World Wide Web interface can only be understood as a synthesis that concentrates six millennia of writing technology: it is displayed vertically as a papyrus scroll, it organizes the text into columns like clay tables, and uses typographic variations to hierarchize contents like a medieval codex or a printed newspaper. This promiscuity of the World Wide Web interface also includes videos from television, infographics from printed newspapers, and interactive navigation devices inspired by electronic and mechanical devices. More than a /medium/, the World Wide Web is a /meta–medium/. In the same way, the interface of a mobile device concentrates several evolutionary lines, from personal computing to telephony, not forgetting the legacy of portable video game consoles or digital cameras. 28. Survival or extinction? In the biological field, mutations generate new species that, chosen by a natural selection, adapt and reproduce with greater intensity. It could be 226 Carlos A. Scolari said that these mutations are a natural form of innovation. Specimens that do not adapt to the environment become extinct. In this context: Can interfaces become extinct? In the ecosystem of interfaces there are alternating moments of agitation and stillness. Sometimes interfaces seem to disappear and be replaced by other interfaces. However, if we analyze the dynamics of this ecosystem from an evolutionary perspective, we will discover a different panorama: interfaces or their actors can be reborn from their ashes and reincarnated in a new network of actors. That’s because it is not so difficult to find iron bridges that follow the patterns of stone bridges, hammers that keep the same shape for thousands of years, or reading gestures (like browsing) that pass from the book to the interactive screen. The conflict between continuity and discontinuity appears in every artifact that we dissect on the table. The problem is not in the evolutionary processes but in the point of view that the researcher adopts. Continuity and discontinuity are not so much properties of technological evolution as two opposing approaches to that evolution. Both vectors, continuity and discontinuity, are always present in the evolution of interfaces, which leads us to think that they can never be considered totally extinct: sooner or later one of their actors may reappear in another interface. 29. Seventh Law. If an interface can’t do it, it will simulate it If interfaces do form part of an ecosystem and “think each other” (Third Law), they also “see each other” and, in some cases, they may activate mimetic processes. In biology, mimicry occurs when a species evolves and shares common perceived characteristics with other animals and plants or with the natural objects it lives among. For many biological species mimicry should be considered a strategy for survival. One of the most important forms of visual mimicry is camouflage. For many interfaces mimicry is also an adaptation strategy that takes the form of simulation. The Laws of the Interface 227 30. The Streamlined Style During the 1920s and 1930s the studies of aerodynamics — with the objective of eliminating wind–resistance in aircrafts — and the search for a high–speed aesthetics inspired by the Futurist movement, stimulated the development of a design trend known as Streamlined Style. The criteria developed by designers like Paul Jaray, one of the creators of German zeppelins, or the Italian futurist architect Antonio Sant’Elia, were adopted by industrial designers. A new era characterized by aerodynamic automobiles, trains, water dispensers, irons, pencil sharpeners, tractors, toasters, refrigerators, radios, vacuum cleaners and caravans was born. 31. Simulating aircrafts Many high–speed trains — antecedents of the Spanish AVE and the French TGV — were produced in the 1930s inspired by the Streamlined Style. For example the German Schienenzeppelin (rail zeppelin) was a locomotive prototype designed by the aircraft engineer Franz Kruckenberg in 1929. Even if certain streamlined models were tested in the wind tunnel (like the Italian ETR 200), the style applied to locomotives was more a visual statement for the railway companies than Figure 5. Duchess of Hamilton steam locomotive (1939). 228 Carlos A. Scolari a real solution for increasing the performance of the train. The success of stainless steel locomotives — many of them still driven by powerful, although 19th century, technology steam engines — attracted the passengers, so that many old trains were streamlined to catch the clients’ attention. At the same time, the most important automobile manufacturers adopted the Streamlined Style (Remember the Batmovile of the TV series?). The Streamlined Style is a great example of simulation of interfaces. What are we talking about? To /simulate/ means to imitate, to enact an object or a process. In other words, that is the sense of this Law: what an interface can’t do — fly, travel at high–speed, break the sound barrier — it will simulate by adopting a tear drop form, rounding the edges and putting chrome strips on its surface. 32. Simulating the graphic interface For many years operative systems had an alphanumeric interface like MS–DOS. The user did not only type letters to write: all the textual manipulations — from copying to cutting, moving, or formatting — were done by introducing instructions through the keyboard. The arrival of graphic interfaces modified this dynamic: text was still written using the keyboard but the manipulation could be carried out much more simply with the mouse. Figure 6. An alphanumeric interface (MS DOS) simulates a graphic interface. The Laws of the Interface 229 How did the old command–line operative systems react to the diffusion of the new graphic interfaces? They tried to imitate the graphic interface. How? By putting colored rectangles around the commands to simulate the icons of the graphic interfaces. In other words, although the former alphanumeric interfaces did not allow actions like drag’n’drop, they simulated the look’n’feel of graphic interfaces. 33. Media simulations Gutenberg was a great simulator of manuscript books (Sixth Law). The first generation of typographers tried to reproduce the art of the craftsmen that created prestigious hand–written books. The same dynamics can be found in contemporary media, from photography to television and the World Wide Web. In 1839 Louis Daguerre took the first photo of a person. Photography, a “new media” still in construction in the mid 19th century, made portraits available to the masses. The style of these first portraits was inspired by the aesthetics of painting. Photography was a cheaper, popular and user– friendly simulation of traditional painting based on optical and chemical technology. Before photography, portrait painting was an element of social distinction; it was relatively expensive and reserved to members of the higher classes. Photography was the portrait for the “rest of us”. In the 1840s photography simulated painting, and fifty years later cinematography simulated theater. Although projection technology was invented at the end of 19th century, the film grammar and the cinema interface had still to be created. The first motion pictures just showed flat snippets of the real world with no editing or narrative articulation. In the best case, the cinema 1.0 was a fixed camera on a tripod and a group of characters entering/leaving the scene. Film grammar was developed in the following years and reached its maximum expression in the works of D. W. Griffith (1875–1948) and Sergei Eisenstein (1898–1948)(Martin, 2009). Before these geniuses, cinema was just a simulation of theatre (Manovich, 2001). If photography simulated painting in the 1840s and cinema simulated theater in the 1900s, why would the World Wide Web not 230 Carlos A. Scolari simulate old media in the 1990s? Let’s dismantle a web page. The orthogonal structure comes from the printed page as well as their textual structure (title, text, photo). Banners appeared in 1994. Their format and business model were nothing more than an adaptation of press advertisements to the interactive screen: in short, the objective was to sell small plots of screen surface to catch the users’ attention. A few years later, many blog formats were inspired by the design of printed magazines. But the World Wide Web also tried to simulate television, for example with the diffusion of Flash technology in the early 2000s or YouTube channels since 2011 (McLuhan and McLuhan, 1992; Bolter and Grusin, 1998)(Sixth Law). But nowadays the World Wide Web no longer needs to simulate old media. Now the old media try to simulate it! Today, reading a newspaper is like navigating a web page. The printed publications have modified their look’n’feel to resemble web pages and, in this way, adapt to the reading habits of the new generations. In these publications the articles tend to be shorter, small icons identify the different sections, infographics proliferate and the page bursts into a myriad of textual fragments that the reader must put together like a puzzle. In this case the printed publication simulates an interactive and hypertextual environment. Newspapers, today, are no longer newspapers: they have become printed web pages (Scolari, 2013). 34. Eighth Law. Interfaces are subject to the laws of complexity Once upon a time... Historical narratives are usually presented as a linear succession of events. Henry VII (1485–1509) was followed by Henry VIII (1509–1547), Edward VI (1547–1553) and Lady Jane Grey, who only governed for nine days in 1553. In the same way, the version 1.0 of Photoshop (1990) was followed by 2.0 (1991), 2.5 (1992) and 3.0 (1994), which was perhaps the most revolutionary of all because it incorporated layers. Applying linear models to evolutionary processes ends up generating mythical discourses impregnated with an ideological faith in the future. The linear series like 1.0, 2.0, 3.0, etc. only show a part of a much more complex and conflictive process. Marketing The Laws of the Interface 231 experts know this very well. We are all waiting for the new version of a smartphone and we feel frustrated because we know that the one we just bought is already old. How can the evolution of interfaces be represented without falling into the simplicities of the sequential model? Is it possible to complement a linear interpretation with other perspectives that allow us to visualize the evolutionary processes in another way? In this Law I will reflect on the evolution of the interface ecosystem (Third Law) from the perspective of the complexity theory. 35. Complexity Talking about complexity is not simple at all. A system is complex when it is composed of interrelated elements that exhibit general properties not evident in the sum of the individual parts (Waldrop, 1992). The complexity can be disorganized, for example when millions of elements have random relationships with each other, or organized, when the number of relationships between elements is reduced. A system composed of gas molecules in a container is an example of disorganized complexity; organized complexity manifests itself in biological or economic systems. According to Ricard Solé “complexity surrounds us and is part of us” (2009:20). Stuart Kauffman (1995) believes that the general principles of coevolution and self–organization govern the biological (biosphere), economic (economosphere) and technological (technosphere) domains. Perhaps, as Kauffman suspects, the same law applies to all the biospheres of the cosmos. Kauffman and other scientists from the Santa Fe Institute consider that technological evolution is based on laws similar to those that govern the biological domain. After 2.5 million years of evolution it could be said that the culture of Homo sapiens is a network of designers, users, design strategies, use tactics, skills, practices, processes, institutions, texts, hardware, software, artifacts, proposals and interaction contracts, and, above all, a network of interfaces (First and Third Law) whose complexity has nothing to envy of biological ecosystems. According to Kauffman “tissue and terracotta may evolve by deeply 232 Carlos A. Scolari similar laws” (1995:194). This migration of analytical models from biological to technological research is fundamental for understanding the interface ecosystem because, among other advantages, it definitively takes us away from any form of determinism. The complexity theory facilitates understanding phenomena such as the Cambrian explosion of technological species or the proliferation of variations in certain moments of the evolution of an interface (Fourth Law). 36. Technology, complexity and increasing returns The best interfaces generate virtuous circles. Brian Arthur, a researcher from the Santa Fe Institute and author of The Nature of Technology (2009), argues that technologies improve with their use and adoption, which leads to greater use and adoption, thus generating positive feedback (increasing returns). He also affirms that new technologies are nothing else than combinations of previously existing technologies. However, this “combination principle” was not enough for Arthur, so he decided to complete his model with a second principle: technologies are recursive systems, that is, assemblies of other technologies similar to building blocks. If the content of an interface is always another interface (Third Law), Arthur complements this idea stating that “each component of technology is itself in miniature a technology”. For Arthur the assemblages that form a technology communicate with each other and generate an evolutionary process that he defines as “combinatorial evolution”. This process, which resembles a conversation between components, never ends. The technologies, adds Arthur, are fluid: they are always in motion. As the number of actors and interfaces increases, the possibility of new emerging combinations also increases. However, not all combinations are possible or make sense (Third Law). Some combinations work; others, don’t. According to complexity principles, we cannot know what combinations will emerge from a sociotechnical network. The digital simulations that Arthur and his colleagues developed to analyze the evolution of logic circuits showed that combinations can create very complicated The Laws of the Interface 233 products. They also identified Cambrian explosions of new models after long periods without innovations and “avalanches of destruction”. Like in any other complex system, technological evolution depends on small events. 37. Impossible predictions The configurations adopted by the socio–technological network and the properties that emerge cannot be explained by the individual properties of each actor. Original black and white television included color television within its possible evolutions but nobody in the 1950s could have imagined that it would be possible to watch TV on demand on a phone. Nor would anyone have thought that emails would become one of the main contents of the first Internet, or that SMS would be the killer content of the first generation of mobile phones. These developments existed in nuce, almost imperceptible, but until they connected to other actors in a new interface, they remained hidden from the observer. In a complex system the whole is much more than the sum of its parts, and what we can come to know about an interface or its actors is never enough to understand the entire ecosystem. According to Kaufmann, it is impossible to predict the evolution of the biosphere. Something similar can be said about the socio–technological network: new variables (mutations, variations, symbiosis and interactions) emerge both in the biosphere and in the technosphere without a solution for continuity. In the socio–technological network unpredictability increases due to overuses, misunderstandings, redesigns, negotiations, confrontations, deviant interpretations and many other amazing activities of human actors (Second Law). In this context, the evolution of interfaces is an open and unpredictable process (Fourth Law). Kauffman argues that, in “chaotic systems we can not predict long–term behaviour” but he adds: “not predicting does not mean failing to understand or explain” (1995:17). 234 Carlos A. Scolari 38. Ninth Law. The design and use of an interface are political practices The interface is the battlefield of a conflict where the strategy of the designer and the tactics of the users face each other. The exchanges between users and designers are never peaceful (Second and Fifth Law). How designers think an artifact should be used rarely coincides with the users’ actual interpretations and uses. This dialectic can be found throughout the socio–technological network. From the perspective of The Laws of the Interface, the role played by users can never be underestimated. If, as Michel De Certeau argues in L’invention du quotidian (1990), tactics are the resource of the weak to counteract the strategy of the strong, then it is pertinent to speak of “user tactics” when deviant or unforeseen uses are implemented (Fifth Law). Is it possible to avoid these frictions between designers and users? Like interfaces, the design process in some cases may seem transparent but it never is (Second Law). As the Czech philosopher Vilém Flusser said, objects are “mediations between myself and the rest of the subjects” (1999:59). Designers are not users and users are not designers, but they meet, discuss, and agree (or disagree) in the interface (Second Law). Each of them occupies different positions and takes on different roles during this interactive game. This is how the sense of the interfaces is built: intersubjectively. 39. Beyond technological artifacts Can we imagine a use of the concept of /interface/ that goes beyond the strictly technological? Can the concept of /interface/ be useful for understanding or, better yet, transforming other areas of the social life of Homo sapiens? In most countries citizens complain because politicians “do not represent them”. This symptom, which expresses a deep illness motivated by the crisis of the political structures in charge of representing the citizens, could be approached from the perspective of the Laws of the Interface. In short: democracy is a network of actors ranging from citizens to institutions, such as political parties or the media, The Laws of the Interface 235 technologies, such as ballot boxes, vote counting systems or parliamentary debate spaces, and a grammar that is expressed in a Constitution and a set of laws and regulations. Democracy is the political interface par excellence, the place where all these actors interact and put into practice their tactics and strategies of cooperation and competition. Now, if we recover the fractal dimension (the content of an interface is always another interface) (Third Law), one of the components of political interfaces is especially in crisis: political parties. Few would dare to argue against the idea that in these initial years of the 21st century representative democracy manifests symptoms of exhaustion. Expressed in other terms, it could be said that both democracy and, on another scale, political parties are interfaces that are in crisis and must be redesigned. Something similar occurs with the economy: What is the market but a large, increasingly globalized interface where millions of actors interact and exchange goods, services and information in real time? And moving to a somewhat smaller scale... Why not think of unions as an interface that, like political parties, should be redesigned? The unions were born in the heat of the steam engine and mass production but they have not found their place in postindustrial society; therefore, they run the risk of being displaced if they fail to rebuild their own network of connections with other social and political actors. Both the markets — which have increasingly become a financial flow of bits to some extent autonomous from the real economy — and the unions — organizations designed to defend the rights of workers in a 19th century production system — are interfaces that must be redesigned. 40. Gastronomic interfaces Slow Food was born in 1989, an eco–gastronomic movement that aimed to “counteract fast food and fast life, prevent the disappearance of local gastronomic traditions and combat the general lack of interest in nutrition, origins, the flavors and the consequences of our food choices”. The movement, which in just a few years reached global dimensions without abandoning its local roots, has promoted a new vision of the production, distribution and consumption of food. What began as a group 236 Carlos A. Scolari of militants led by Carlo Petrini (2016) who wanted to rediscover “the richness and aromas of local cuisine” ended up becoming a global organization with strong political content that champions small producers and promotes three concepts: good, fair and clean. It could be said that Slow Food proposes a redesign of the gastronomic interface both at the micro level (the individual fact of eating) and the macro level (the processes of production, distribution and consumption of foods on a planetary scale). 41. Educational interfaces The public school model that we know was born in the 18th century to educate the citizens of the new nation states, and adopted its final form during the Industrial Revolution. Education for the masses. This industrial school, where all students receive the same knowledge through a standardized training process, is now in crisis. We need a new school– interface, less industrial and more networked, and, above all, attentive Figure 7. A classroom in 1937 and 2008. The Laws of the Interface 237 to the interests of each student. It is not enough to introduce “new technologies” in the classroom: we must be able to generate a space for different educational interactions between the different actors. Undoubtedly, the university is the other educational interface that has not sufficiently adapted to post–industrial society. In many countries its teaching model is largely tied to the linear transfer of knowledge and old routines. Taking into account this situation it was predictable that, sooner or later, new actors would appear, from collaborative platforms to companies that offer courses or MOOC platforms that, located on the margins or directly outside the educational circuit, offer alternatives to traditional training. 42. The politics of the interface The interface is the place where a conflict of power between two or more actors is expressed. This conflict is present both in the micro–interactions (the subject in front of the interactive device) and the social macro–interactions (gastronomy, political parties, unions, schools, universities, etc.). On the other hand, in all these interfaces the individual or institutional actors are never still: they (re)formulate their strategies and tactics, set positions, make advances and suffer setbacks as in any confrontation. Therefore, the activities of both the designer and the user could be considered as exquisitely political practices that reinforce the idea expressed in the Second Law: interfaces are never neutral. 43. Tenth Law. The interface is the place of innovation What is a designer? How many professional profiles exist within the world of design? Let’s check Wikipedia: clothing and textile designer, fashion designer, jewelry designer, landscape designer, graphic designer, industrial designer, interior designer, multimedia designer, video game designer, audiovisual designer... We could also add interaction designer, web designer, mobile application designer and, last but not least, the designer of interfaces. It seems that almost all professions fall into the field of design. 238 Carlos A. Scolari 44. The interface designer If the designer seems to be a transversal and omnipresent figure, What is an interface designer? A professional who sketches interactive elements and action sequences on paper? Or an expert in the creation of icons for interactive screens? An international star that models lemon squeezers? Or a gourmet who invents new combinations and techniques in a kitchen–laboratory? If we develop this reflection further, a new conception emerges: the interface designer as an expert in the construction of spaces for interaction between human and technological actors. If every interface hides a set of possible developments or evolutionary paths, the designer is responsible for detecting them and promoting interactions with other actors and interfaces. The interface designer is not only concerned with the creation of an interface for a software or website, or the design of an application for mobile devices. An engineer is also an interface designer who masters different technologies, skills and knowledge to build, for example, a bridge or a spaceship; similarly, a film director puts a series of technologies and professionals (actors, photographers, editors, writers, audiences, critics, etc.) at the service of an audiovisual narrative. An inventor, a gourmet or an entrepreneur are all interface designers because their function is to create a place for the interaction of human and technological actors. The same can be said of a transmedia producer: this figure, responsible for designing and implementing a communication strategy in different media and collaborative platforms, is for all intents and purposes a designer of narrative worlds. Or, in other words, the transmedia producer is a designer of narrative interfaces that link texts, characters, plots, audiences, fan clubs, media and languages. At this point we must avoid a temptation: to consider the interface designer a genius who builds a network of actors and controls it from an external position. This is nothing more than an optical illusion: the designer is part of that network and is involved, like any other actor, in its tensions, complexities and conflicts (Second and Ninth Law). The Laws of the Interface 239 45. Radical innovation vs. incremental innovation Researchers from various disciplines have proposed categories for describing and classifying the different innovation strategies. For example James Fleck (2000) identified twelve modes of technological innovation: mutation, simplification, integration, elaboration, standardization, incrementation, crystallization, configuration, innofusion (innovation during diffusion), resolution, cross–fertilization and implementation. Other researchers, such as Koen Frenken (2006), have proposed models inspired by the theory of complexity (Eighth Law). Sometimes the evolution of an interface is expressed in great changes that transform at the same time all systems and subsystems (radical innovation), while on other occasions the change only moves forward by small steps (incremental innovation). Regarding radical innovation, in the middle of the 19th century, gas was the most popular lighting system in the main European and American cities. A series of technologies developed at the end of the century (fluorescent, electric or incandescent lamps made of carbon wire, transformers, power plants, etc.) and the adoption of a new standard (alternate current instead of direct current) led to the advent of the electric lighting system. The conflict known as the “war of the currents”, sometimes reduced to a personal dispute between Thomas A. Edison and George Westinghouse, also involved political, scientific and economic actors. The successful recombination of actors in a novel interface implied a radical transformation of the lighting system and the consolidation of a new paradigm based on a network of power plants that produced alternate current, distribution lines, transformers and incandescent lamps. If we analyze the mutations of the media ecosystem since the arrival of the World Wide Web, the development of participatory environments such as blogs or Wikipedia and the explosion of platforms such as Facebook, YouTube, pram, Netflix or Twitter, we cannot stop ourselves from thinking about a radical innovation process. The so–called web 2.0 or collaborative web is something more than a set of innovative technologies: it is a brand new configuration of the relationships of human and technological actors that generates a new interface. 240 Carlos A. Scolari The incremental innovation strategy may be found in different domains and processes. Let’s look at the evolution of Personal Computers. The appearance of the IBM PC and the Apple Macintosh in the early 1980s popularized a new interface for human–computer interaction that included graphical user interface, a hard disk, a processing unit, a screen and a series of input/output devices. In the 1990s this interface did not go through deep changes: microprocessors were faster, screens increased their definition and hard disks expanded their capacity, but the PC paradigm did not change at all. The same is now occurring with smartphones after the arrival of the iPhone: devices are faster, their cameras take incredible pictures and the memory is constantly expanding, but the basic model does not change. The evolutions of the PC in the 1990s and smartphones in the 2010s are both good examples of an incremental innovation strategy. When an interface approaches its limits, it is more difficult to introduce incremental changes by actor addition or substitution. For example, in the 1950s the transistor replaced the vacuum tube when that technology had almost exhausted all its possibilities. When the transistor arrived at the same situation, the microprocessor replaced it at the end of the 1960s. The diminishing returns from a technology trigger the search for innovation. Once it reaches a point in its evolution, the interface has nothing more to say or do (Frenken 2006). Radical or incremental processes are just a limited sample of the typologies of technological change (we can also find other types like architectural or systemic innovation, modular or component innovation, etc.). Nothing guarantees that one is better than the other or that one of them will be successful. In all cases we must always take into account one element: the users’ tactics. As we saw, all the designer’s strategies are negotiated, criticized and reinterpreted by the users within the interface (Second and Ninth Law). In the battle of the interfaces, nobody will have the last word. 46. Conclusions. The Laws of the Interface In these Laws of the Interface I have proposed a different view point where the /interface/ is the unit of analysis. It is an interface–centered The Laws of the Interface 241 approach to technological evolution that can also be extended to the social domain. These Laws do not discard artifacts, their inventors or social forces: all of these actors are integrated into a socio–technological network of relationships, exchanges and transformations in order to analyze them from an eco–evolutionary perspective. Why are these biological metaphors so useful in understanding the system of interfaces? The great variety of artifacts that humans have created in the last 2.5 million years, and the increasing complexity acquired by the technological sphere, can only be compared to the variety and complexity of the biological world. Explaining this technological diversity by putting the concept of /interface/ at the center, appealing at the same time to the idea of ecosystem and the theory of evolution, is a path that deserves to be explored. Aristotle wrote memorable texts on nature and technology but never established an analogy between the two universes. It was in the Renaissance that intellectuals began to discover parallels between the organic and the technological domain. Initially, technological models were used to describe living entities, but in the 19th century, after Darwin, the analogies reversed and went from biology to technology. Metaphors are interchangeable: we can see the biological universe from the perspective of technology, for example when a scientist considers the human body as a machine or the brain as a computer, or the socio–technological network from an eco–evolutionary perspective, as I have done in The Laws of the Interface. 47. The limits of the eco–evolutionary metaphor Working with analogies can be problematic. Some laws and biological principles do not support a technological translation. Human bodies are not machines, in the same way that interfaces are not living entities. Biological analogies can provide new concepts (/variety/, /selection/, / coevolution/, etc.) and suggest promising lines of research (Can interfaces become extinct? How do humans coevolve with technology?) but they do not always provide good answers. These analogies should be approached with caution due to the large differences between the biological and the technological domains. For example, the transmission 242 Carlos A. Scolari of acquired characters — the so–called /lamarckism/ — is central in the technological domain, whereas, in the biological world, it is only verified at the level of microorganisms and very exceptionally. Another great difference is found in the different evolutionary velocities: rapid in the technological domain, slow in the biological one. Another point of disagreement between the biological and technological domains is the distance between the actors that establish a relationship. While two biological species separated by thousands of kilometers or living in different continents will probably never be able to establish a relationship, two technological artifacts located in different domains can join and create a new interface at any time. The gasoline engine was an element of the automobile system that was not part of the tradition of flying machines until the Wright brothers made them converge; similarly, the telephone system was initially far from computers until the creation of ARPANET in the late 1960s. In the world of interfaces, the distance between two actors is zero. Returning to the question of metaphor, it is possible that at some point the analogy between technological and biological domains has more limitations than advantages. When this occurs it will be the time to look for new analogies to interpret socio–technological change. However, the eco–evolutionary metaphor has just begun to be explored and it has a long way to go. Nor can it be ruled out that both the technological and the biological domains will one day end up converging into a single integrated theoretical body. The dream of a single theory. References Allaby M. (1998) A Dictionary of Ecology, Oxford, Oxford University Press. Anderson C. (2006). The Long Tail. Why the Future of Business is Selling Less of More, New York, Hyperion. Arthur B. (2009) The Nature of Technology. What It Is and How It Evolves, New York, Penguin. Barabasi A.–L. (2010) Bursts. The Hidden Patterns Behind Everything We Do, from Your E–mail to Bloody Crusades, New York, Dutton. 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New York, Simon & Schuster. Ziman J. (2000) Technological Innovation as an Evolutionary Process, Cambridge, Cambridge University Press. AUTORI E AUTRICI Silvia Barbotto Forzano è ricercatrice Post Doc nel progetto ERC FACETS, docente dei corsi Interactive storytelling and art c/o Università degli studi di Torino (It) e Semiotica dello spazio c/o Università Autonoma dello Yucatan (Mx). Phd in Arte c/o Politecnico di Valencia, Scuola San Carlos (Sp). La sua ricerca radica nella disciplina semiotica coordinata a metodologie etnografiche e paradigmi dell’arte. Studia il volto e il corpo, la sinergia dell’abitare umano con la materia e con altri esseri viventi, gli ambienti postantropocentrici, la percezione e l’intelligenza artificiale, le espressioni e gli artefatti audio–visivi, i linguaggi multimediali. Si occupa di pratiche estetiche e performatività, coniugando teoria e pratica nella situatività locale e nella dimensione transculturale. Ha presentato i suoi lavori in numerosi paesi europei e latinoamericani, ha collaborato con associazioni in Asia e Africa, ha pubblicato su riviste accademiche open access scaricabili su https://iris. unito.it/cris/rp/rp10339. Nicola Carrara è conservatore del Museo di Antropologia dell’Università di Padova dal 2000. Biologo, collabora come antropologo fisico in molti scavi archeologici sia italiani che stranieri e come perito in contesti forensi. Come conservatore si occupa del riordino, studio, catalogazione e valorizzazione delle collezioni museali. Ha pubblicato più di cinquanta lavori dedicati ai suoi campi di interesse su riviste italiane 247 248 Autori e internazionali o come capitoli di libri. Ha ideato e collaborato alla realizzazione di una decina di mostre temporanee di ambito scientifico. Dal 2013 ha iniziato, assieme ad altri professionisti del settore, il progetto “FACCE” con lo scopo di ricostruire i volti di importanti personaggi storici o dei nostri antenati sulla linea evolutiva umana. Remo Gramigna è assegnista di ricerca Post–doc FACETS (Face Aesthetics in Contemporary E–Technological Societies) presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino. Laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università “La Sapienza” Roma e in Semiotica a Tartu, in Estonia. Consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Semiotica e Studi della Cultura presso l’Università di Tartu con una tesi sul problema filosofico del segno e della menzogna in S. Agostino. È stato Visiting Scholar presso l’Università di Siena, Research Fellow presso l’Università di Tartu e redattore della rivista internazionale di semiotica Sign Systems Studies. Ha pubblicato numerosi saggi su riviste e pubblicazioni nazionali e internazionali, soprattutto sulla storia della semiotica. Si è interessato ai problemi de semiotica generale, di semiotica della cultura, di teoria dei linguaggi e dei testi, di semiotica della manipolazione e dell’inganno. Ha pubblicato fra l’altro: Augustine’s theory of signs, signification, and lying (De Gruyter 2020); The place of language among sign systems: Juri Lotman and Émile Benveniste in “Sign Systems Studies”, 2013; Imagining others. Deception, Prediction, and Disguised. Intentions in Strategic Interactions in “Versus”, 2020; Le forme della maschera. Aspetti semiotici della manipolazione del volto e della plasticità dell’apparenza in “Lexia, 2022”. Marilia Jardim è Senior Lecturer di Contextual and Critical Studies presso la Università per le Arti Creative, Epsom (United Kingdom). La sua ricerca fonde diverse tradizioni teoriche, promuovendo un approccio intersezionale e interdisciplinare che utilizza la semiotica e la socio–semiotica come punto d’incontro tra comunicazione, teoria della moda e teoria postcoloniale. Si è formata nel programma post–laurea in Comunicazione e Semiotica della Pontificia Università Cattolica di San Paolo (Brasile) e nel Communications and Media Research Autori 249 Institute dell’Università di Westminster (Regno Unito). Il suo lavoro indaga la relazione tra corpo e abbigliamento esplorando i diversi discorsi che sorgono da questo incontro, dalla cultura materiale alla rappresentazione. Le sue ricerche più recenti si concentrano sulle dinamiche Occidente–Oriente, esplorando le approssimazioni semantiche e narrative dei contrasti costruiti tra la moda occidentale e i codici di abbigliamento islamici. Massimo Leone è professore ordinario di Filosofia della Comunicazione, Semiotica della Cultura e Semiotica Visiva presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, professore part–time di Semiotica presso il Dipartimento di Lingua e Letteratura Cinese dell’Università di Shanghai, Cina, membro associato di Cambridge Digital Humanities, Università di Cambridge, e direttore del Centro di Studi Religiosi della Fondazione Bruno Kessler di Trento. È stato visiting professor in diverse università dei cinque continenti. È autore di quindici libri, ha curato più di cinquanta volumi collettivi e pubblicato più di cinquecento articoli in semiotica, studi religiosi e studi visivi. È il vincitore di un ERC Consolidator Grant 2018, il più prestigioso finanziamento di ricerca in Europa. È caporedattore di Lexia, la rivista di semiotica del Centro di ricerca interdisciplinare sulla comunicazione dell’Università di Torino, caporedattore di Semiotica (De Gruyter), e direttore delle collane “I Saggi di Lexia” (Aracne), “Semiotics of Religion” (Walter de Gruyter), e “Advances in Face Studies” (Routledge). Valentina Manchia insegna presso la Scuola del Design del Politecnico di Milano, nel corso di laurea magistrale in Design della Comunicazione, e presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, nel corso di Laurea in Design del prodotto industriale, oltre che all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA) di Urbino e allo IAAD di Torino. Dottore di ricerca in Semiotica e Comunicazione simbolica presso l’Università di Siena, collabora con il Centro Interateneo di Ricerca CROSS (Centro di Ricerca Omar Calabrese di Semiotica e Scienze dell’immagine) ed è redattrice delle riviste “Carte Semiotiche” e “Ocula”. Tra i suoi interessi di ricerca le intersezioni tra verbale e visivo 250 Autori e tra rappresentazione e visualizzazione, con particolare attenzione per la comunicazione visiva, la data visualization e il panorama visuale contemporaneo. Tra le sue ultime pubblicazioni Il discorso dei dati. Note semiotiche sulla visualizzazione delle informazioni (FrancoAngeli 2020). Gabriele Marino, semiologo, è ricercatore all’Università di Torino, dove insegna Semiotica delle culture musicali. Si occupa di musica, comunicazione online e problemi di teoria semiotica. È membro di FACETS (progetto europeo dedicato allo studio del volto), di OLiNDiNUM (osservatorio linguistico sulla comunicazione digitale) ed è Segretario dell’AISS–Associazione Italiana Studi Semiotici. Ha co– creato il seminario permanente #semioboomer, in onda sui social della rivista “Lexia”. Antonio Santangelo è ricercatore presso l’Università di Torino, dove si occupa di definire i confini e il metodo della semiotica intesa come scienza sociale della significazione, secondo le indicazioni che da Saussure a Lévi–Strauss giungono ai giorni nostri. In particolare, il suo campo d’indagine è quello della teoria della narrazione, applicata agli studi sui media, sui consumi e sulle tecnologie digitali. Carlos A. Scolari è dottore in Linguistica Applicata e Linguaggi della Comunicazione per l’Università Sacro Cuore di Milano. Professore di Teoria e Analisi della Comunicazione Digitale Interattiva presso il Dipartimento di Comunicazione dell’Universitat Pompeu Fabra — Barcellona, dove coordina dal 2018 il Dottorato in Comunicazione. La sua ricerca si è concentrata sulla nuova ecologia e sull’evoluzione dei media, le interfacce e le narrative transmediali. Tra gli altri ha pubblicato: Hacer Clic (2004), Hipermediaciones (2008), El Fin de los Medios Masivos (con M. Carlón, 2009/12), Crossmedia Innovations (con I. Ibrus, 2012), Narrativa Transmedia (2013), Transmedia Archaeology (con P. Bertetti e M. Freeman, 2014), Ecología de los Medios (2015), Las Leyes de la Interfaz (2018), Media Evolution (con F. Rapa, 2019/21), Cultura Snack (2020) e La Guerra de las Plataformas (2022). È stato PI dei progetti TRANSLITERACY (Programma UE H2020, 2015– 18), TRANSALFABETISMOS (Mineco, 2015–18) e PLATCOM Autori 251 (MICINN, 2020–23). Nel 2021 ha pubblicato il suo primo romanzo: La Gran Enciclopedia Argentina. Elsa Soro è stata post–doc presso l’Università degli Studi di Torino, all’interno del progetto di ricerca ERC FACETS (Face Aesthetics in Contemporary E–Technological Societies). Attualmente è coordinatrice del corso di master in Business Tourism Management presso la Barcelona School of Tourism, Hospitality and Gastronomy (CETT) dell’Università di Barcellona dove tieni corsi di comunicazione turistica. Dopo il conseguimento del dottorato in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione (Università Autonoma di Barcellona– Università degli Studi di Torino) ha alternato attività di ricerca, docenza e consulenza presso enti pubblici e privati su comunicazione, marketing, industrie culturali e turismo, in Italia e all’estero. Ha pubblicato saggi e articoli e tenuto lezioni e conferenze sui suoi temi di ricerca in Italia e all’estero. Marco Viola è ricercatore a tempo determinato in filosofia presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma3. Addottoratosi alla Scuola di Studi Avanzati IUSS Pavia, durante la sua carriera ha collaborato con vari atenei a Mosca, Sydney, Siena; e più recentemente a Torino, dove ha fatto parte per un triennio del progetto FACETS. I suoi interessi di ricerca vertono soprattutto sulla filosofia della psicologia e delle neuroscienze, sull’epistemologia sociale e sulla cognizione sociale –– e in particolar modo sulle emozioni e sulla percezione del volto. Su questi temi ha pubblicato circa 40 contributi scientifici in italiano e in inglese, nonché il libro Come funzionano le emozioni (con Fausto Caruana) per i tipi del il Mulino. Cristina Voto è assegnista di ricerca presso il progetto ERC FACETS radicato all’Università di Torino dove insegna Comunicazione visiva presso il corso di laurea magistrale in Comunicazione e culture dei Media. Insegna Strutture visive per le arti elettroniche e co–dirige un progetto di ricerca presso l’Universidad Nacional de Tres de Febrero, Argentina. Inoltre, è membro del consiglio scientifico del dottorato in Design e creazione dell’Universidad de Caldas, Colombia, e curatrice 252 Autori della Biennale dell’immagine in movimento di Buenos Aires. Si occupa di culture visive, arte digitale e studi sul futuro da una prospettiva intersezionale e decoloniale. Nel 2023 sarà Visiting Scholar presso la Vrije Universiteit, Amsterdam, per lo sviluppo di un progetto di ricerca sulla rappresentatività delle identità non–binarie nei sistemi di IA. È autrice della monografia Monstruos audiovisuales. Agentividad, movimiento y morfologia (Aracne 2021). I SAGGI DI LEXIA . Gian Marco D M (a cura di) Ieri, oggi, domani. Studi sulla previsione nelle scienze umane  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Alessandra L Anime allo specchio. Le mirouer des simples ames di Marguerite Porete  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Leonardo C Soltanto per loro. Un manifesto per l’animalità attraverso la politica e la filosofia  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Jenny P Lingue angeliche e discorsi fondamentalisti. Alla ricerca di uno stile interpretativo  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Gian Marco D M, Antonio S (a cura di) La TV o l’uomo immaginario  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Guido F Fondamenti di teoria sociosemiotica. La visione “neoclassica”  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Piero P Umberto Eco e il dibattito sull’iconismo  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Antonio S Le radici della televisione intermediale. Comprendere le trasformazioni del linguaggio della TV  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Gianluca C Resti del senso. Ripensare il mondo a partire dai rifiuti  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Guido F, Antonio S (a cura di) Uno sguardo più attento. I dispositivi di senso dei testi cinematografici  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L, Isabella P (a cura di) Semiotica delle soggettività  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Roberto M (a cura di) Writing the city. Scrivere la città Graffitismo, immaginario urbano e Street Art  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L Annunciazioni. Percorsi di semiotica della religione  ----, formato  ×  cm,  tomi,  pagine,  euro . Antonio S Sociosemiotica dell’audiovisivo  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Mario D P, Alessandro P La signora del piano di sopra. Struttura semantica di un percorso narrativo onirico  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Jenny P La narrativa di argomento risorgimentale (–). Tomo . Sistemi di valori e ruoli tematici. Tomo . Analisi semiotica dei personaggi  ----, formato  ×  cm,  tomi,  pagine,  euro . Guido F, Alice G, Gianfranco M, Stefano T (a cura di) Dire la Natura. Ambiente e significazione  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L Signatim. Profili di semiotica della cultura  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L, Henri  R, Victor I. S Il sistema del velo / Système du voile. Trasparenze e opacità nell’arte moderna e contemporanea / Transparence et opacité dans l’art moderne et contemporain  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Mattia T (a cura di) Gamification urbana. Letture e riscritture ludiche degli spazi cittadini  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Ugo V Alla periferia del senso. Esplorazioni semiotiche  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Giampaolo P La semiotica di Charles S. Peirce. Il sistema e l’evoluzione  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Guido F, Antonio S (a cura di) I sensi del testo. Percorsi interpretativi tra la superficie e il profondo  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Marianna B Linguaggi del consumo. Segni, luoghi, pratiche, identità  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Guido F (a cura di) Narrazione e realtà. Il senso degli eventi  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Alessandro P (a cura di) Comunicazione e potere. Le strategie retoriche e mediatiche per il controllo del consenso  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Vitaliana R La voce dell’immagine. Parola poetica e arti visive nei Neue Gedichte di Rilke  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Vincenzo I C, Bruno S, Mattia T (a cura di) I discorsi della fine. Catastrofi, disastri, apocalissi  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Patrícia B, Nadirsyah H, Massimo L, Richard M (edited by) Tools of Meaning. Representation, Objects, and Agency in the Technologies of Law and Religion  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Simona S I sensi del cibo. Elementi di semiotica dell’alimentazione  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Guido F Semiotica ..  idee chiave per un rilancio della scienza della significazione  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Simone G Narrarsi in salvo. Semiosi e antropo–poiesi in due buddhismi giapponesi  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L Il programma scientifico della semiotica. Scritti in onore di Ugo Volli  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L, Bruno S, Jun Z (edited by) The Waterfall and the Fountain. Comparative Semiotic Essays on Contemporary Arts in China  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Jenny P, Mattia T, Vincenzo I C (a cura di) Languagescapes. Ancient and Artificial Languages in Today’s Culture  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Andrea M Trasumano mon amour. Note sul movimento H+ (scritti -) Prefazione di Riccardo de Biase Traduzione di Annamaria Di Gioia, Federica Fiasca, Francesco Tagliavia, Giorgio Cristina  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Mattia T Ludosemiotica. Il gioco tra segni, testi, pratiche e discorsi Prefazione di Ugo Volli  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L Colpire nel segno. La semiotica dell’irragionevole  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Massimo L Scevà. Parasemiotiche  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Federico B, Victoria D S, Gianmarco Thierry G (ed.) Meaning–Making in Extended Reality. Senso e Virtualità  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Gabriele M Frammenti di un disco incantato. Teorie semiotiche, testualità e generi musicali Prefazione di Andrea Valle Postfazione di Ugo Volli  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Xianzhang Z Text – Image Theory: Comparative Semiotic Studies on Chinese Traditional Literature and Arts  ----, formato  ×  cm,  pagine,  euro . Cristina V Monstruos Audiovisuales. Agentividad, movimiento y morfología  -----, formato  ×  cm,  pagine,  euro 44. Silvia Barbotto, Cristina Voto, Massimo Leone (Editado por) Rostrosferas de América Latina isbn 979-12-5994-921-9, formato 17 x 24 cm, 212 pagine, 18 euro 45. Jenny Ponzo, Francesco Galofaro (a cura di) Autobiografie spirituali isbn 979-12-5994-878-6, formato 17 x 24 cm, 280 pagine, 16 euro 46. Massimo Leone, Elsa Soro, Cristina Voto (a cura di) I cronotopi del volto isbn 979-12-218-0270-2, formato 17 x 24 cm, 260 pagine, 20 euro Finito di stampare nel mese di ottobre del 2022 dalla tipografia «The Factory S.r.l.» via Tiburtina, 912 — 00156 Roma I SAGGI DI LEXIA / 46 i cronotopi del volto Ogni volto è la traccia dei tempi e dei luoghi che lo hanno prodotto e continuamente ci mette a confronto con una dimensione situata. Questo posizionamento installa un confine tra prospettiva biologica e prospettiva culturale, una frontiera dove le riflessioni sui processi fisiologici che sottostanno alla natura organica si intrecciano con la pluralità e la discontinuità che caratterizzano la sua significazione culturale. Per l’esplorazione di queste coordinate spazio-temporali il volume I cronotopi del volto riconosce nel volto una strategia di condensazione spazio–temporale, uno strumento di studio dell’enunciazione in atto e di aspettualizzazione spazio-temporale dell’identità. Contributi di Silvia BARBOTTO, Nicola CARRARA, Remo GRAMIGNA, Marilia JARDIM, Valentina MANCHIA, Gabriele MARINO, Antonio SANTANGELO, Carlos A. SCOLARI, Marco VIOLA. elsa soro Coordinatrice del corso di master in Business Tourism Management presso la Barcelona School of Tourism, Hospitality and Gastronomy (CETT) dell’Università di Barcellona dove tieni corsi di comunicazione turistica. Dopo il conseguimento del dottorato in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione ha alternato attività di ricerca, docenza e consulenza presso enti pubblici e privati su comunicazione, marketing, industrie culturali e turismo, in Italia e all’estero. Ha pubblicato saggi e articoli e tenuto lezioni e conferenze sui suoi temi di ricerca in Italia e all’estero. cristina voto Assegnista di ricerca presso il progetto ERC FACETS radicato all’Università di Torino dove insegna Comunicazione visiva. Insegna Strutture visive per le arti elettroniche, co–dirige un progetto di ricerca presso l’Universidad Nacional de Tres de Febrero, è membro del consiglio scientifico del dottorato in Design e creazione dell’Universidad de Caldas, è curatrice della Biennale dell’immagine in movimento di Buenos Aires. Si occupa di culture visive, arte digitale e studi sul futuro da una prospettiva intersezionale e decoloniale. È autrice della monografia Monstruos audiovisuales. Agentividad, movimiento y morfologia (Aracne 2021). massimo leone Professore ordinario di Filosofia della Comunicazione, Semiotica della Cultura e Semiotica Visiva presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, professore part– time di Semiotica presso il Dipartimento di Lingua e Letteratura Cinese dell’Università di Shanghai, Cina, membro associato di Cambridge Digital Humanities, Università di Cambridge, e direttore del Centro di Studi Religiosi della Fondazione Bruno Kessler di Trento. È stato visiting professor in diverse università dei cinque continenti. È autore di quindici libri, ha curato più di cinquanta volumi collettivi e pubblicato più di cinquecento articoli in semiotica, studi religiosi e studi visivi. in copertina Sanupi x Vercufasto, Silvia Barbotto; della serie Facce Anti-Covid19 30x30 cm. Encaustica, pigmenti e olio su legno. Piemonte 2020 20,00 euro ISBN 979-12-218-0270-2