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Riccio in Bachis & Pusceddu

STORIE DI QUESTO MONDO Percorsi di etnografia delle migrazioni A cura di Francesco Bachis e Antonio Maria Pusceddu DALLE CONNESSIONI TRANSNAZIONALI ALLE ESPERIENZE DEI GIOVANI DI ORIGINE STRANIERA. RIFLESSIONI TEORICO-METODOLOGICHE SULL’ANTROPOLOGIA DELLE MIGRAZIONI IN ITALIA Bruno Riccio Per molto tempo, lo studio delle migrazioni, considerato un campo di ricerca di pertinenza della sociologia, ha incontrato diffidenze, ostacoli e diverse difficoltà ad essere riconosciuto come legittimo all’interno dell’antropologia italiana (Signorelli, 2006; Bachis, 2010). Tuttavia, dagli anni novanta fino ad oggi, diversi antropologi hanno gradualmente prestato sempre più attenzione allo studio delle migrazioni, arricchendo una tradizione che aveva conosciuto rari ma significativi contributi che ne avrebbero anticipato la futura diffusione. In questa sede, senza pretesa di esaustività e attraverso la lente (situata) delle mie esperienze di ricerca poste in dialogo con una panoramica degli studi di altri colleghi, desidero condividere alcune riflessioni, sia teoriche sia metodologiche, sull’evoluzione delle prospettive antropologiche negli studi dei processi migratori nel nostro paese.1 Schematizzando, si può sostenere che in Italia lo sviluppo dell’antropologia delle migrazioni ha seguito un percorso simile a quello avvenuto in altri paesi d’immigrazione, sebbene in modo più accelerato. Inizialmente, una critica alle molteplici forme del razzismo contemporaneo (Gallini, 1996; Tabet, 1997; Tabet, Di Bella, 1998; Rivera, 2003), anche attraverso una rivisitazione dei concetti di cultura ed etnicità (Dore, 1991; Fabietti, 1995; Maher, 1994; Scarduelli, 2000), si è imposta al centro dell’attenzione di numerosi antropologi; successivamente, come vedremo meglio in seguito, si è passati dalle riflessioni teoriche allo studio empirico delle reti sociali, locali così come transnazionali, e delle strategie 1 Ringrazio Francesco Bachis per l’invito a questo esercizio irrituale di riflessività e dialogo e Laura Bonato, la quale mi chiese due anni fa di redigere una scheda di approfondimento sull’antropologia delle migrazioni in Italia per la seconda edizione italiana del manuale di Conrad Kottack Antropologia culturale (2011) da lei curata. È ripercorrendo quel lavoro che in questa sede affronto alcuni temi che sono emersi dalle mie ricerche degli ultimi anni. 30 Bruno Riccio d’inserimento nel mercato del lavoro e nel tessuto sociale del contesto di approdo, alle più sfumate differenziazioni interne alle comunità straniere, sia sulla base delle differenze generazionali che di genere. Infatti, anche grazie ai ricongiungimenti famigliari, e ad una più generale femminilizzazione delle migrazioni globali (Castles, Miller, 2012), la diversificazione dello scenario migratorio ha comportato vari tipi di approfondimento. Per esempio, all’interno del crescente dibattito sulla migrazione femminile in Italia (Miranda, 2009; Pinelli, 2011a) e sul lavoro domestico e di cura (Vietti, 2010), è opportuno segnalare, oltre alla ricerca multilocale di Ruba Salih (2008) sulle migranti marocchine, i complessi studi che provano a misurarsi con le sfide etiche e politiche di alcune pratiche percepite come problematiche, quali le modificazioni genitali femminili e il discorso pubblico che esse alimentano all’interno della società italiana (Fusaschi, 2003; Pasquinelli, 2007). Più recentemente, un crescente interesse ha assunto il tema dei diritti e della cittadinanza vista da differenti vertici di osservazione: quello delle istituzioni italiane attraverso lo studio delle politiche di trattenimento (Ravenda, 2011; Pinelli, 2011b) come di accoglienza dei migranti e dei rifugiati (Van Aken, 2008; Sorgoni, 2011a; 2011b) e quello rappresentato dalle ambivalenti esperienze delle cosiddette ‘seconde generazioni’ (Chiodi, Benadusi, 2006; Callari Galli, Scandurra, 2009; Falteri, Giacalone, 2011). In tutti i casi si evidenzia con forza l’‘effetto-specchio’ che le migrazioni producono sulla società italiana e il suo apparato istituzionale, rivelandone in modo incisivo diverse sfumature problematiche. In questa sede, oltre a rivisitare questo percorso attraverso il punto di vista per nulla esaustivo delle mie ricerche, desidererei evidenziare sia le novità metodologiche e i processi di cambiamento nelle prospettive adottate, sia i forti elementi di continuità che caratterizzano l’approccio antropologico alle migrazioni e che non sempre vengono riconosciuti adeguatamente. Come in altri contesti (cfr. Brettell, 2008; Cuche et al., 2009; Vertovec, 2010), l’attenzione prestata alle reti e alle relazioni sociali, alle trasformazioni socio-culturali in relazione dialettica con i processi migratori (a loro volta fonti ed effetti del cambiamento sociale) ed una marcata focalizzazione sulle connessioni tra i contesti di immigrazione e di emigrazione accomunano diversi sguardi antropologici. In particolare, lo sguardo sulle migrazioni dal luogo di origine costituisce un aspetto distintivo della prospettiva antropologica e conosce importanti pionieri tra gli studiosi italiani. Dalle connessioni transazionali alle esperienze dei giovani di origine straniera 31 1. Transnazionalità e “culture delle migrazioni” Lo studio delle migrazioni ha tradizionalmente facilitato la sperimentazione di soluzioni metodologiche sofisticate nella costruzione del campo d’indagine. Anche se già presenti in passato (Bianco, 1974), oggi si contano sempre più ricerche multi-situate (Marcus, 1995), con studiosi impegnati a indagare i processi attraverso i quali i migranti, grazie anche alle innovazioni tecnologiche, tessono reti e mantengono relazioni sociali multiple che collegano le loro società di origine a quelle di approdo, creando spazi sociali che attraversano confini nazionali, geografici e politici. Questi spazi transnazionali uniscono le culture dell’emigrazione e le soluzioni organizzative che caratterizzano i luoghi di origine con i complessi tessuti istituzionali ed associativi che animano i contesti di approdo (Ceschi, Riccio, 2007; Giuffrè, 2009a). Per quanto riguarda l’Italia, si tratta, per lo più, di studi a carattere etnografico solitamente focalizzati su un particolare gruppo nazionale di migranti o su specifiche categorie di lavoratori (Persichetti, 2003; Riccio, 2007; Capello, 2008; Cingolani, 2009; Vietti, 2010; cfr. Giuffrè, Riccio, 2012). Vi sono inoltre lavori che, pur se compiuti prevalentemente o unicamente nei contesti di destinazione, condividono una lettura dei fenomeni migratori dislocata su diverse sponde e tengono in considerazione il gioco di rimandi continuo fra contesti di emigrazione e luoghi di immigrazione (Altin, 2009; Bachis, 2009; Ceschi, 2005; Marabello, 2012). L’adozione di una prospettiva transnazionale nello studio dei processi migratori ha favorito un’analisi più approfondita, segnata da una maggiore sensibilità verso la comprensione delle trasformazioni economiche e socio-politiche nell’interazione tra i contesti di approdo e quelli di origine. A questo proposito è opportuno ricordare come i lavori pionieristici nello studio delle migrazioni in Italia si siano focalizzati sulla stessa emigrazione italiana e siano stati caratterizzati da un’attenzione approfondita e sistematica nei confronti delle caratteristiche e dei molteplici cambiamenti indotti dalle migrazioni nelle società di origine. Paradossalmente, nei dibattiti internazionali contemporanei riguardanti le “culture dell’emigrazione” in Africa (Bellagamba, 2011; Capello, 2008) come in Europa (Cingolani, 2009) riecheggiano le intuizioni e le questioni affrontate dall’antropologia nello studio dell’emigrazione italiana (Signorelli et al., 1977; Signorelli, 2006; Piselli, 1981; Minicuci, 1989). “Oggi” come “ieri” (Giuffrè, 2010a), le migrazioni costituiscono un fattore di profondo cambiamento sociale e culturale dei contesti d’origine in cui 32 Bruno Riccio si scorgono immediatamente le conseguenze prodotte dagli investimenti degli emigrati che tendono a modificare il paesaggio urbano o rurale. Al tempo stesso, i comportamenti assunti dalle famiglie o dai singoli migranti durante i ritorni tendono ad influenzare l’immaginazione delle persone che rimangono, i non migranti. Nelle località di emigrazione le immagini dei paesi stranieri e degli emigrati diventano metafore con cui pensare i cambiamenti sociali che caratterizzano la località stessa. I migranti vengono rappresentati come eroi contemporanei che incarnano le nuove vie di mobilità sociale e veicolano modelli di esistenza e stili di vita alternativi, che vanno oltre il semplice successo materiale (Riccio, Lagomarsino, 2010). I momenti fondamentali nel processo di alimentazione delle culture delle migrazioni sono costituiti dai ritorni al luogo d’origine che per i migranti assumono significati plurimi: rinsaldare i legami con la comunità d’origine e, allo stesso tempo, esibire il successo raggiunto nelle esperienze di migrazione (Riccio, 2007; Giuffrè, 2007a). Per esempio, i giovani migranti che tornano per le vacanze rappresentano per gli adolescenti in Marocco un modello da emulare e nutrono le rappresentazioni collettive dell’emigrazione come via di fuga, come opportunità di miglioramento in cui l’altrove viene visto come spazio simbolico di libertà e opportunità (Capello, 2008; Notarangelo, 2011). È spesso solo nel luogo d’origine, agli occhi di coloro che sono rimasti, familiari, vicini di casa, compaesani, che avviene il pieno riconoscimento del successo migratorio (Catani, 1986; Giuffrè, 2007a; Cingolani, 2009). L’insieme di queste caratteristiche trova una concretizzazione nelle costruzioni di nuove case e, al tempo stesso, si iscrive nello spazio, o meglio nella (tras)formazione di una gerarchia degli spazi. A questo proposito, Vietti evoca l’immagine di “una mappa mentale” del paese d’origine (Moldavia) che suddivide chi è rimasto da chi è partito, mettendo in atto una vera e propria ri-significazione dello spazio. La costruzione di case nei luoghi d’origine diventa una sorta di status symbol, l’emblema del successo migratorio raggiunto, poiché vengono ristrutturate in ‘stile europeo’ secondo una diversa riorganizzazione dello spazio della casa e un diverso significato dell’abitare. La distinzione tra case in stile europeo delle famiglie dei migranti e quelle ‘tradizionali’ si traduce in una divisione di status nelle famiglie del luogo d’origine (Vietti, 2010) Tuttavia, le rappresentazioni che emergono dai vissuti e dai discorsi sull’emigrazione e sui luoghi che fungono da meta reale, o ‘immaginaria’, delle avventure migratorie sono caratterizzate da una profonda ambivalenza (degli Uberti, 2010; Gaibazzi, Bellagamba, 2009; Persichetti, 2003). Dalle connessioni transazionali alle esperienze dei giovani di origine straniera 33 Nell’utilizzo, ad esempio, del capitale accumulato grazie all’esperienza migratoria è ricorrente il dilemma tra le spese ostentatorie e l’investimento nella realizzazione di progetti a lungo termine. Un’altra tensione che spesso si registra nelle rappresentazioni dei migranti è quella tra la reiterata necessità di conservare la propria identità culturale e, per contro, lo ‘sradicamento’ e l’acquisizione di un atteggiamento conforme al modo in cui viene percepita la cultura del contesto d’immigrazione (Riccio, 2007). Nonostante quest’ambivalenza, lo studio delle migrazioni senegalesi in Italia mi ha permesso di individuare come lo spazio transnazionale e le località di origine divengano uno scenario in cui le persone possono cambiare status e ricevere legittimità di questo cambiamento. Tuttavia, nella mia etnografia ho cercato di evidenziare che vi sono diversi modi di essere trasmigrante rispetto agli specifici contesti di partenza, alle classi socioeconomiche, alle diverse appartenenze religiose e alla provenienza da aree rurali o urbane. Inoltre, è stata evidenziata la natura processuale delle migrazioni transnazionali, le quali implicano un insieme di pratiche non riducibili ad un sistema di reti “ossificato” (Riccio, 2007). Infatti, i connazionali possono superare differenze etniche e religiose quando si trovano all’estero forse con più facilità che in Senegal, e, oltre alle reti comunitarie, molti si avvalgono anche di nuovi legami nati nel contesto di approdo. Oltre a questa dimensione ‘micro’ della processualità che caratterizza la transnazionalità senegalese, nella ricerca è stata evidenziata anche una dimensione ‘macro’, che storicamente caratterizza la transnazionalizzazione delle confraternite e di quella muride in particolare. Da questo punto di vista, si è ritenuto limitato considerare esclusivamente le caratteristiche del contesto di approdo e i cambiamenti economici internazionali per spiegare un fenomeno transnazionale che può presentare una traiettoria storicamente più profonda della semplice reazione ai mutamenti nei paesi di immigrazione. Al contrario è sembrato opportuno concepire la formazione della comunità transnazionale dei senegalesi come un processo storico-sociale, il quale, partendo dalle migrazioni interne, che sono per l’Africa occidentale una caratteristica più significativa delle emigrazioni verso l’Europa (Bellagamba, 2011), tende ora a sposarsi con le trasformazioni del capitalismo mondiale contemporaneo. Dunque, come alcune configurazioni transnazionali sono nate da soluzioni organizzative che hanno caratterizzato il processo di urbanizzazione in Senegal, così futuri sviluppi del transnazionalismo senegalese possono nascere dall’interazione con specifici contesti di migrazione. Un livello ‘meso’ e organizzativo, tipico delle associazioni di villaggio, ha visto uno sviluppo in un 34 Bruno Riccio certo tipo di progetti che nascono da un’interazione costruttiva con le istituzioni di alcuni contesti di accoglienza. Infatti, gradualmente, prima in Francia e ora anche in Italia, le associazioni di migranti si impegnano oltre che in iniziative sociali come la costruzione di scuole e ambulatori sanitari, anche nell’implementazione di complessi, anche se piccoli, programmi di irrigazione o di raccolta di rifiuti con l’obiettivo di rendere il migrante attore protagonista dello sviluppo del proprio paese d’origine (Riccio, 2007). Contemporaneamente, il riconoscimento dell’esistenza di migrazioni circolari, temporanee o transnazionali, che la ricerca empirica ha consentito di analizzare, è stata assunta e valorizzata come possibile strategia di sviluppo dei paesi d’emigrazione anche dalle istituzioni internazionali. Flussi finanziari quali le rimesse verso le famiglie, attività economiche quali gli investimenti di ritorno a carattere immobiliare e produttivo nei contesti di provenienza, così come iniziative sociali di gruppi e associazioni di immigrati indirizzate al miglioramento delle condizioni di vita delle proprie comunità, diventano terreni di intervento e di ricerca interessanti per le agenzie di sviluppo pubbliche e per le istituzioni internazionali, nazionali e locali impegnate in attività di cooperazione (Ceschi, Stocchiero, 2006; Ceschi, Riccio, 2007). Sulla base di diverse esperienze di ricerca (Riccio, 2008; Marabello, 2012), si è potuto constatare come questo rapporto tra sviluppo e migrazione, proprio per la complessità dei fattori che, su diversi piani, agiscono nei processi migratori – politiche internazionali, politiche economiche e sociali su scala nazionale e locale, politiche di regolazione e gestione della migrazione, discorsi sullo sviluppo come discorsi sull’integrazione ed il multiculturalismo – appaia essere molto più problematico rispetto alle modalità in cui viene presentato ed affrontato nella retorica delle organizzazioni internazionali. D’altra parte, per le stesse identiche ragioni, esso merita di essere esplorato come un’opportunità analitica per analizzare aspetti rilevanti dei processi migratori contemporanei. Dalle ricerche emerge come i migranti, organizzati in associazioni, debbano misurarsi con difficili sfide per ottenere pieno riconoscimento su entrambe le sponde dell’esperienza migratoria (Riccio, 2009). Inoltre, è solo quando un certo grado di inclusione nel tessuto associativo e istituzionale del contesto di immigrazione viene garantito, che si crea la condizione per potere esplorare, in interazione con altre organizzazioni quali le ONG e gli enti locali, le opportunità per l’attivazione di questa tipologia di progetti. Per esempio, lo studio del fenomeno associativo senegalese dimostra come dinamiche di integrazione sul territorio Dalle connessioni transazionali alle esperienze dei giovani di origine straniera 35 italiano e pratiche transnazionali fondamentalmente rivolte al paese di provenienza, non siano in una relazione inversamente proporzionale ma si rinforzino invece reciprocamente. In tal senso, molti dei limiti evidenziati nelle capacità di transnazionalizzare le proprie attività da parte delle realtà associative vanno collegati con le barriere e gli ostacoli trovati sul versante della società di approdo; così come le maggiori capacità di attivarsi attraverso i confini nazionali dimostrate da alcune associazioni sono ricollegabili alla creazione e alimentazione di reti sociali, e al possesso e allo scambio di conoscenze e informazioni, nella società ospite (Riccio, Ceschi, 2010). Contrariamente alla dicotomia ricorrente nel dibattito americano tra assimilazione e transnazionalismo, lo studio del doppio impegno delle associazioni di migranti nel contesto di origine e in quello di approdo rivela in realtà come l’azione sociale, economica e finanziaria nella società di arrivo e quella nei contesti di provenienza intrattengono una relazione complessa e di interazione reciproca. Tuttavia, anche questo tipo di consapevolezza presenta illustri predecessori in ambito antropologico (Arrighi, Passerini, 1976). Per esempio, già i coniugi Mayer (1994), anche se in ambito dell’urbanizzazione, si esprimevano con queste parole: il coinvolgimento attivo nei sistemi sociali urbani non è indice di un non coinvolgimento nei sistemi extraurbani. Legami extraurbani possono invero essere contemporaneamente compresi in quelle stesse azioni che indicano partecipazione a un sistema urbano (Mayer, Mayer, 1994, p. 160). La stessa riflessione è valida oggi quando si prendono in considerazione le migrazioni transnazionali ed i processi di inclusione nella società di immigrazione. 2. Razzismo e ‘multiculturalismo all’italiana’ tra integrazione ed esclusione Per quanto concerne la società italiana, possiamo constatare come negli anni Novanta si fosse pienamente trasformata in contesto di immigrazione. Una delle prime preoccupazioni degli antropologi in questa fase è stata quella di contribuire all’analisi critica di una forma di razzismo contemporaneo che, abbandonata la forma di una concezione deterministica, biologica e genetica, di marca positivista, ha assunto quella reificante, nell’essenzializzare le differenze sociali, culturali e religiose, presentandole come a-storiche, assolute, immutabili, per poter giustifi- 36 Bruno Riccio care l’ostilità o il rifiuto degli altri, o, peggio, per legittimare pratiche discriminatorie (Gallini, 1996; Rivera, 2003). Tuttavia, da alcune ricerche empiriche emerge come l’essenzialismo culturale caratterizzi non solo i discorsi dei “razzisti”, ma anche di coloro che occasionalmente possono esserne vittima (Piasere, 1999), o di coloro che si identificano e si impegnano nella attuazione delle politiche sociali e, indirettamente, nella realizzazione dei diritti civili (Riccio, 2007; Pazzagli, Tarabusi, 2009). L’avere sottolineato la natura “ibrida” o “meticcia” dei processi culturali è sicuramente stato un fattore di crescita all’interno del dibattito antropologico in generale. D’altra parte, si è rivelata non sufficiente la celebrazione dell’‘ibridità’ o del ‘meticciato’ in astratto, ma più opportuna l’analisi dei confini i quali, se non altro, sono significativi per le persone che si studiano. In altre parole, esponendo e ragionando sulla molteplicità delle traiettorie professionali ed esistenziali che caratterizzano i gruppi sociali migranti, ho ritenuto euristicamente più efficace coniugare l’impegno verso un anti-essenzialismo analitico con un’attenzione e riflessione sull’essenzialismo prosaico e quotidiano presentato dalle persone coinvolte nei processi di negoziazione interculturale (Riccio, 2007; 2008). La contestualizzazione e definizione piuttosto che la demonizzazione di questo essenzialismo narrato e rappresentato dagli interlocutori di ricerca ha permesso di rivelare proprio come la costruzione discorsiva di differenze e somiglianze sia un processo multiplo, contestato ed in continuo mutamento (cfr. Baumann, 2003). Riflessioni simili valgono anche per l’approccio antropologico nello studio della società multiculturale. Se su questo genere di temi siamo ormai abituati ad imbatterci in discussioni normative ed astratte, in cui s’invoca una necessaria accettazione o diffidenza nei confronti dell’altro o della differenza culturale come risorsa o minaccia, in molti lavori etnografici di stampo socio-antropologico la discussione è animata più da uno spirito analitico che prescrittivo. Infatti, gradualmente, gli antropologi italiani hanno affiancato alla pur rilevante analisi critica del razzismo o del multiculturalismo rigido (Pompeo, 2007), approfondite esplorazioni empiriche nella quotidianità sociale e culturale delle migrazioni, come si evince nei contributi all’interno dei numeri specificatamente dedicati ai movimenti migratori dalle principali riviste dell’antropologia italiana: Etnoantropologia, La Ricerca Folklorica e Lares (AA.VV., 2000; Dore, 2001; Giuffrè, 2009b). Il dettagliato approfondimento etnografico è spesso bilanciato da un’impostazione in cui gli studi si collocano all’interno di processi di ricerca più ampi e sfociano in pubblicazioni collettive che facilitano il Dalle connessioni transazionali alle esperienze dei giovani di origine straniera 37 moltiplicarsi delle prospettive e dei temi. L’attenzione di queste ricerche antropologiche spazia dallo studio delle reti sociali e delle traiettorie professionali dei migranti, alle loro biografie, anche cliniche (Beneduce, 1998; Taliani, Vacchiano, 2011), in contesti urbani specifici come Torino (IRES Piemonte, 1991; Sacchi, Viazzo, 2003), Roma (Clemente, Sobrero, 1998; Pompeo, 2011) o Milano (Marazzi, 2005), per poi spostarsi gradualmente verso l’esplorazione etnografica delle molteplici traduzioni locali in cui si esprime il ‘multiculturalismo all’italiana’, a Bologna e in altre province dell’Emilia Romagna (Grillo, Pratt, 2006) come a Perugia (Giacalone, Pala, 2005). La crescente consapevolezza delle enormi variazioni locali che caratterizzano le configurazioni multiculturali nella società italiana, ha comportato recentemente l’allargamento dell’analisi all’immigrazione nell’Italia meridionale, caratterizzata da una realtà sociale più frammentata, per molto tempo inesplorata, che ora è oggetto d’osservazione di ricerche collettive di tipo socio-antropologico, che rivelano configurazioni inedite e profondamente diverse da quelle studiate tradizionalmente nell’Italia settentrionale (Resta, 2008; Petrarca, 2010). I nuovi approcci di ricerca vedono entrare gli etnografi nelle istituzioni e nei servizi, per esplorarne ambivalenze e contraddizioni, linguaggi e pratiche (Pazzagli, Tarabusi, 2007; Riccio, 2008; Salih, 2006). Recentemente, questa strategia si è rivelata particolarmente efficace nello studio dell’accoglienza dei rifugiati (Sorgoni, 2011a; 2011b; Van Aken, 2008); anche in questi casi, come nelle analisi delle politiche del multiculturalismo sopra menzionate, l’attenzione si focalizza sull’attraversamento da parte dei rifugiati di quel complesso istituzionale che si attiva nelle politiche di accoglienza (salute, alloggio, assistenza legale, distribuzione del cibo), rivelando esperienze fortemente ambivalenti che oscillano tra la dipendenza dalle istituzioni e il bisogno di ricostruire forme di socialità e al contempo di intimità; tra le richieste di immobilità delle istituzioni, da un lato, e, dall’altro, quelle di mobilità flessibile da parte del mercato del lavoro. Pur nella varietà e diversità di prospettive e linguaggi, in questo insieme di lavori etnografici la “società multiculturale” diviene una categoria della prassi quotidiana e le differenze culturali vengono a costituire un aspetto del dispositivo interpretativo usato dagli attori sociali in situazioni d’interazione per dotare di senso l’esperienza e il confronto quotidiano (Grillo, Pratt, 2006; Colombo, Semi, 2007). Per esempio, attraversando narrazioni di operatori sociali, mediatori culturali e situazioni concrete di reciproca modulazione significante tra utenti stranieri e funzionari, Fabio Quassoli (2005), un sociologo che ha pubblicato la sua monografia 38 Bruno Riccio in una collana antropologica, mostra come non sia la differenza culturale in astratto a costituire una dimensione centrale nel fraintendimento comunicativo, ma piuttosto il modo con cui il fattore culturale viene evocato nelle narrazioni fornite dagli attori sociali a seconda delle situazioni. Anche in questo caso, possiamo riconoscere alcuni precursori in quel concetto di “situazionalità” adoperato dagli antropologi della scuola di Manchester (Epstein, 1967; cfr. Arrighi, Passerini, 1976; Allovio, 2002) per rendere conto delle riconfigurazioni etniche che avvenivano nei processi di urbanizzazione coloniale e postcoloniale nelle miniere del Copperbelt – attuale Zambia. Nella migrazione, identità e rappresentanza tendono a combinarsi in modo variabile a seconda delle situazioni: ci si può identificare come appartenenti all’associazione di villaggio o della regione di provenienza ma, quando un interesse condiviso minacciato si propone come collante, si può preferire invece mobilitarsi in un fronte unico in quanto migranti senegalesi, nigeriani o ghanesi, ma anche in quanto stranieri. In certe circostanze le ragioni che mobilitano un gruppo possono essere prettamente strumentali, in altre viene ricercata una valenza più simbolica e confortante dal punto di vista esistenziale. Questa prospettiva mi è sembrata analiticamente più utile nello studio dei processi migratori di quanto non si dimostrino astratte evocazioni d’ibridità e contaminazioni, che abbondano nella saggistica italiana (Riccio, 2008). Più precisamente, ho costruito una prospettiva analitica che unisse l’approccio transnazionale discusso nella prima parte e quello del ‘multiculturalismo quotidiano’ ed istituzionale, cercando di lavorare simultaneamente su tre fronti: quello delle istituzioni della società d’approdo, quello degli immigrati e quello della società d’origine (Grillo, 1985). In particolare, nelle ricerche sui senegalesi in Italia, cercando di colmare un divario esistente negli studi sulle migrazioni, ho fornito un resoconto etnografico il cui punto di vista è stato “dall’interno verso l’esterno” e “dall’esterno verso l’interno” oltre che qui e lì. Prendendo in considerazione stralci di vita quotidiana degli attori sociali in termini interattivi e considerando i legami che attraversano i confini degli stati-nazione, è emerso gradualmente un certo grado di porosità tra i confini analitici che separano i concetti di ‘esclusione’ e di ‘integrazione’ sociale e culturale, molto presenti nei discorsi sulle migrazioni (Riccio, 2007). Infatti, nonostante l’ostilità dell’ambiente esterno, attraverso sforzi e sacrifici molti migranti senegalesi riuscivano a portare avanti le loro attività economiche e a risparmiare avvicinandosi ai propri sco- Dalle connessioni transazionali alle esperienze dei giovani di origine straniera 39 pi, pur vivendo in situazioni di esclusione. Grazie alle reti sociali di solidarietà e ai legami transnazionali, i migranti sembravano capaci di costruire una strategia di resistenza all’esclusione e di rispondere alle esigenze degli interlocutori per loro esistenzialmente significativi: la famiglia, il vicinato nel contesto locale di origine. D’altra parte, per quanto riguarda le politiche orientate a facilitare l’inclusione dei migranti nella società di immigrazione, si è potuto constatare come la tendenza verso percorsi ‘più integrati’ non comportasse necessariamente una maggiore soddisfazione dei desideri di questi migranti e non impedisse loro di incontrare situazioni difficili all’interno dell’ambiente del lavoro dipendente o incomprensioni nel reperire un alloggio. Al contrario, proprio la loro organizzazione transnazionale e la percezione di una loro mancanza d’identificazione con l’Italia li rendevano un problema dal punto di vista della logica sedentarista che si trovava spesso alla base del modello di ‘integrazione’ della società di approdo (Riccio, 2007). L’inadeguatezza di una retorica semplicistica ‘dell’integrazione’ emerge con ancora più forza quando lo sguardo antropologico si sposta verso i figli delle migrazioni. 3. Cittadinanze praticate Infatti, non meno ricche di contraddizioni si rivelano le esperienze dei figli di migranti in Italia, le cosiddette ‘seconde generazioni’, che attraggono sempre più l’attenzione degli antropologi (Chiodi, Benadusi, 2006; Callari Galli, Scandurra, 2009; Falteri, Giacalone, 2011; Guerzoni, Riccio, 2009; Pazzagli, Tarabusi, 2009; Notarangelo, 2011). Questi giovani provano ad orientarsi tra i dilemmi quotidiani di identificazione soggettiva e tra le richieste delle famiglie e quelle della società italiana. Per quanto riguarda le tensioni inter-generazionali, Notarangelo studia il caso dei giovani marocchini in età pre-adolescenziale emigrati principalmente con il proprio padre, analizzandone il graduale distanziamento dalla famiglia nel luogo d’origine, la rottura con il progetto migratorio familiare iniziale e l’allentamento della relazione con la famiglia allargata. I giovani marocchini, non condividendo il progetto migratorio iniziale dei padri e l’immagine che essi restituiscono della comunità marocchina, instaurano con loro una relazione molto ambivalente, quando non conflittuale (Notarangelo, 2011). 40 Bruno Riccio Sull’altro versante, ovvero la relazione con la società italiana, i giovani di origine straniera incontrano difficoltà ulteriori. In particolare, da altre ricerche emergono con particolare vigore i forti vincoli esistenti alla loro equiparazione ai cittadini italiani (Guerzoni, Riccio, 2009; Falteri, Giacalone, 2011). Questo aspetto smaschera la contraddizione tra un percorso riuscito di socializzazione ed uno negato di mobilità sociale e accesso a diritti e opportunità in una società che li vede come stranieri a vita. È comunque importante evidenziare come le diverse ricerche mettano in luce il divario esistente tra un’idea ‘semplificata’ di integrazione e le complesse dinamiche che possono compromettere il tipo e il grado di identificazione all’interno di una società. Dalla mia ricerca sulle associazioni dei giovani di origine straniera (Riccio, Russo, 2009) è emerso come questi giovani, con il loro obiettivo di inserirsi come cittadini di fatto nel tessuto sociale del territorio per realizzare una cittadinanza partecipata, comprovassero la crescente esigenza, più volte ribadita in ambito antropologico (Ong, 2005; Brettell, 2008), di uscire analiticamente dai confini strettamente formali della cittadinanza per esplorarne le forme di traduzione nella vita quotidiana dei soggetti. Nella definizione di Thomas H. Marshall (2002) la cittadinanza coincide con lo status di coloro che sono pienamente membri della comunità e che condividono, in ordine storico, diritti civili, politici e sociali. Dal punto di vista analitico, però, la cittadinanza potrebbe essere considerata come una costruzione multi-dimensionale che caratterizza l’appartenenza delle persone a diversi tipi di collettività: locali, etniche, nazionali e transnazionali. La comunità evocata da Marshall si riferiva alla nazione concepita come un’entità culturalmente omogenea. Al contrario, una questione centrale nei dibattiti attuali sulla cittadinanza è costituita dal grado in cui la differenza comporti discriminazione tra i cittadini. Ovvero, nonostante i cittadini siano in teoria portatori di uguali diritti, l’effettiva capacità di esercitarli pienamente è influenzata da tensioni e divergenti posizionamenti definiti da genere, provenienza ed etnicità. In modo paradossale, forse, sono i gruppi marginali di non cittadini, esclusi dalla partecipazione formale alla comunità politica, che hanno avuto l’impatto più significativo sull’idea di cittadinanza e sulle sue trasformazioni storiche. Non è escluso che i figli di migranti costituiscano un simile esempio. È comunque opportuno chiarire, onde evitare incomprensioni, come non si stia in questa sede sostenendo che il tema cittadinanza non rientri tra le richieste delle associazioni delle seconde generazioni. Anzi, Dalle connessioni transazionali alle esperienze dei giovani di origine straniera 41 alcune di queste associazioni, come la rete G2 (Zinn, 2011),2 nasce proprio con l’obiettivo di modificare una legge, come quella italiana, troppo sbilanciata sullo ius sanguinis rispetto allo ius soli, e questo è stato uno dei temi di massima discussione interna. Tuttavia, molti membri di queste organizzazioni nella pratica sembrano avere un approccio più ‘aperto’ alla cittadinanza in senso di appartenenza, di pari opportunità. È come se fosse chiaro per molti di loro che si può essere cittadini senza avere la cittadinanza, e si può sentire appartenenza ai luoghi vissuti anche in assenza di un riconoscimento formale. La ‘pratica’ della cittadinanza è una pratica quotidiana, che nasce dal dialogo con tutti gli attori del territorio. I giovani sembrano testimoniare tale necessità di “cittadinanza partecipata” che supera i confini della cittadinanza formale e di appartenenza, un approccio orientato alla quotidianità, che spesso è intrisa di discriminazioni anche quando la cittadinanza giuridico-formale è già stata ottenuta: Sì, io sono straniero, è una cosa effettiva. Se mi danno la cittadinanza, è una cosa burocratica, io sono sempre uno straniero, se cammino per strada sono sempre un marocchino, non ti credere… anche se fai vedere il passaporto rosso di cittadino italiano sei sempre marocchino… agli occhi della legge sei diventato un italiano a tutti gli effetti ma, agli occhi della gente che non lo sa, rimani uno straniero (in Riccio, Russo, 2009, p. 463). Questo giovane italiano di origine marocchina, oltre a mettere bene in evidenza la persistente rilevanza degli elementi somatici a renderlo ‘diverso’ ed ‘estraneo’ al gruppo dominante, mostra anche lo scollamento esistente tra il riconoscimento giuridico-formale della cittadinanza, e quello ancor più ‘ambito’ del riconoscimento sociale. In alcune circostanze, esiste un significativo scarto tra il riconoscimento formale e l’effettiva realizzazione dei diritti, la quale è spesso influenzata da negoziazioni tra individui e gruppi. Oltre a macro-dinamiche attraverso le quali i diritti di cittadinanza sono acquisiti, esistono, infatti, micro-dinamiche attraverso le quali gli stessi diritti vengono negoziati, realizzati o negati (Riccio, 2008). Negli ultimi anni il concetto di cittadinanza ha ricevuto una notevole attenzione da parte di alcuni antropologi a livello internazionale (Ong, 2005; Brettell, 2008) e nazionale (Bellagamba, 2009; Pompeo, 2011), i quali invitano a focalizzare l’attenzione proprio sulle sue dimensioni vissute e praticate. 2 www.secondegenerazioni.it/about/ 42 Bruno Riccio 4. Conclusioni Continuando a “vivere l’etnografia” (Capelletto, 2009), l’antropologia delle migrazioni in Italia esplora questi processi di effettiva realizzazione della cittadinanza, come del multiculturalismo e del transnazionalismo, privilegiando la prospettiva dei soggetti migranti senza dimenticare come questa costituisca uno specchio (a volte impietoso, a volte non privo di sorprese) delle istituzioni e della società italiana nel suo complesso. Finisce qui questo percorso nell’antropologia delle migrazioni in Italia, in cui, anche se brevemente, abbiamo potuto considerare diversi aspetti di continuità per quanto riguarda tanto la dimensione fenomenologica quanto quella metodologica. Da quest’ultimo punto di vista, abbiamo potuto ricordare come l’attenzione alle culture delle migrazioni, quanto alle situazionali strategie d’identificazione ed affiliazione nell’esperienza migratoria, presenti importanti precursori nell’antropologia internazionale e nazionale. Inoltre, abbiamo potuto constatare la continua disposizione analitica ad esplorare la costruzione di confini (tra un ‘noi’ e un ‘loro’, tra inclusione e integrazione, tra cittadini e non cittadini) e, contemporaneamente, di connessioni (tra contesti d’origine da un lato, e le molteplici strategie di inserimento e di mobilità nella società di immigrazione, dall’altro), con uno stile piuttosto comune a molta antropologia delle migrazioni: prendere sul serio le persone, le loro relazioni sociali e i loro modi di interpretare ed agire nel mutevole contesto in cui vivono. Questa prospettiva stimola a prendere in considerazione sia le pratiche che le rappresentazioni, le costruzioni d’identità e di differenze collettive, le reti sociali e le influenze dei contesti locali e globali, le trasformazioni sociali e culturali, ma anche gli adattamenti e i fattori di continuità.