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architettura FIRENZE 2.2017 genealogie FIRENZE UNIVERSITY PRESS Periodico semestrale Anno XXI n.2 € 14,00 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze In copertina: Aldo Rossi ad Atene 1971 foto Gianni Braghieri DIDA DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA architettura FIRENZE via della Mattonaia, 14 - 50121 Firenze - tel. 055/2755433 fax 055/2755355 Periodico semestrale* Anno XXI n. 2 - 2017 ISSN 1826-0772 (print) - ISSN 2035-4444 (online) Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Direttore responsabile - Saverio Mecca Direttore - Maria Grazia Eccheli Comitato scientifico - Alberto Campo Baeza, Fabio Capanni, João Luís Carrilho da Graça, Francesco Cellini, Maria Grazia Eccheli, Adolfo Natalini, Fabrizio Rossi Prodi, Chris Younes, Paolo Zermani Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Riccardo Butini, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Alberto Pireddu, Michelangelo Pivetta, Andrea Volpe, Claudio Zanirato Collaboratori - Simone Barbi, Gabriele Bartocci, Caterina Lisini, Francesca Privitera Collaboratori esterni - Gundula Rakowitz, Adelina Picone Info-Grafica e Dtp - Massimo Battista - Laboratorio Comunicazione e Immagine Segretaria di redazione e amministrazione - Donatella Cingottini e-mail: firenzearchitettura@gmail.com Copyright: © The Author(s) 2017 This is an open access journal distribuited under the Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License (CC BY-SA 4.0: https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/legalcode) published by Firenze University Press Università degli Studi di Firenze Firenze University Press via Cittadella, 7, 50144 Firenze Italy www.fupress.com Printed in Italy Firenze Architettura on-line: www.fupress.com/fa Gli scritti sono sottoposti alla valutazione del Comitato Scientifico e a lettori esterni con il criterio del DOUBLE BLIND-REVIEW L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte nel caso non si fosse riusciti a recuperarli per chiedere debita autorizzazione The Publisher is available to all owners of any images reproduced rights in case had not been able to recover it to ask for proper authorization chiuso in redazione dicembre 2017 *consultabile su Internet http://tiny.cc/didaFA FIRENZE architettura 2.2017 per Aldo Rossi Genealogie 3 Dialogo maieutico con Aldo Rossi Maria Grazia Eccheli 4 Questo amore azzurro. Aldo Rossi a Samos, lo stupore nella scena di fine estate Vincenzo Moschetti 12 Pier Luigi Pizzi - Tornare a sognare il già sognato: il ‘Furioso’ televisivo di Luca Ronconi ed Edoardo Sanguineti Andrea Volpe 22 Paolo Zermani - Nel Sant’Andrea Paolo Zermani 38 Herzog & de Meuron - Segni, tracce e latenze. Lavorare con la storia Un progetto totale di un museo a Colmar Alberto Calderoni 48 Natalini Architetti e Guicciardini & Magni Architetti - L’ampliamento dell’Opera del Duomo Adolfo Natalini 58 Aurelio Galfetti - Castelgrande a Bellinzona: rifondare il senso dei luoghi Francesca Privitera 68 Fabrizio Rossi Prodi Fabio Capanni due scuole - Appunti di scuola Fabrizio Rossi Prodi 76 Renato Rizzi - La Cattedrale di Solomon a Lampedusa Susanna Pisciella 86 scritture Francesco Venezia - L’azione del tempo Mauro Marzo 92 eredità del passato La giusta distanza dalle cose. Due opere di Ignazio Gardella Francesca Mugnai 102 Guido Canella ristrutturazione del Palazzo di Giustizia ad Ancona 1975-1989 Dentro un fragile “resto” Riccardo Butini 110 Un restauro creativo. 1972 Pierluigi Spadolini e la sede storica del Monte dei Paschi di Siena Fabio Fabbrizzi 118 ricerche Wrigth, Rudofsky, Eldem: incontro con la casa giapponese Serena Acciai 126 percorsi L’ultima notte. Il concerto dei Pink Floyd a Venezia Sara Marini 134 Futuro presente Michelangelo Pivetta 142 cento anni I tre mausolei di Lenin di Aleksej Viktorovič Ščusev Federica Rossi 150 eventi ArtFarm Maria Grazia Eccheli 160 letture a cura di: Eliana Martinelli, Alberto Pireddu, Ivan Brambilla, Micol Rispoli, Riccardo Renzi, Giulia Fornai, Andrea Volpe, Francesca Mugnai, Francesco Collotti 164 genealogie Firenze Architettura (2, 2017), pp. 164-167 ISSN 1826-0772 (print) | ISSN 2035-4444 (online) © The Author(s) 2017. This is an open access article distribuited under the terms of the Creative Commons License CC BY-SA 4.0 Firenze University Press DOI 10.13128/FiAr-22654 - www.fupress.com/fa/ letture Kenneth Frampton A genealogy of modern architecture: comparative critical analysis of built form Ashley Simone, (a cura di) Lars Müller Publishers, Zurich 2015 ISBN: 978-3-03778-369-6 “Genealogy is gray, meticulous, and patiently documentary.” Con questa citazione di Michel Foucault si apre il recente libro di Frampton, che raccoglie il lavoro didattico condotto con gli studenti della Columbia University di New York, tra il 2005 e il 2008. L’intento pedagogico, sviluppato da Frampton già dai primi anni ’70 e portato avanti in diverse scuole, era quello di formare una coscienza critica nei confronti della forma architettonica, finalizzata al progetto di architettura. Nel corso della sua esperienza d’insegnamento, Frampton matura l’idea che l’analisi di un singolo edificio non è in grado di rivelare completamente i valori intrinseci della forma; è più efficace invece ricorrere all’analisi comparativa di coppie di edifici simili per dimensione, epoca e programma funzionale, ma preferibilmente prodotti da un diverso punto di vista culturale, cioè da una diversa “tradizione del nuovo”. I quattordici binomi di edifici qui raccolti consistono in esempi paradigmatici dell’architettura del XX secolo, e vanno da case private e collettive (Maison Cook, villa Tugendhat, la Siedlung Halen) fino a edifici pubblici di varia funzione (la Casa del Fascio, il Kursaal di San Sebastian, il museo Kimbell). Gli studenti sono stati invitati ad analizzare i casi studio attraverso disegni e testi, sulla base di precise categorie che Frampton determina a partire dalle implicazioni ontologiche espresse in The human condition di Hannah Arendt a proposito della produzione umana. Le categorie sono: (1) Type vs. Context, cioè come l’artificio si adatta alla preesistenza (2) Public, semi-public, private and service space, cioè come le azioni pubbliche si coniugano con quelle private (3) Route/Goal, cioè che tipo di promenades architecturales si svolgono all’interno degli edifici (4) Structure/Membrane, cioè che grado di espressività tettonica è raggiunto nel rapporto tra struttura e rivestimento (5) Connotational Summation, cioè quali riferimenti formali e materici si ritrovano negli edifici. Alla genealogia dell’architettura moderna si affianca dunque la ricerca di un’ontologia dell’architettura. Ma l’aspetto più interessante di questo metodo didattico è che la procedura analitica può diventare essa stessa genealogica, rivelando un sistema di valori che cambia in base all’evoluzione della cultura architettonica nel tempo. Eliana Martinelli 164 Martina D’Alessandro Oswald Mathias Ungers a Treviri. Due musei Bononia University Press, Bologna 2015 ISBN: 978-88-6923-091-2 Il volume, frutto della ricerca di dottorato condotta dall’autrice e seguita da Gianni Braghieri, indaga il profondo legame scientifico e affettivo che un architetto instaura con la propria città di sperimentazione, elevandola a messa in opera concreta del proprio pensiero. Treviri rappresenta per Ungers più cose simultaneamente. È innanzitutto un “esempio didattico”, nella sua conformazione per strati indipendenti, su cui emergono alcuni elementi. È in secondo luogo un “museo delle idee”, in quanto l’elaborazione di un progetto complessivo per la città coinvolge in primis edifici di affezione, che rivestono per l’architetto un significato ben preciso. Ma Treviri non è solo contenente, è anche contenuto: è infatti essa stessa opera d’arte, “oggetto di interpretazioni e di trasformazioni per mezzo di analogie”. Come ben spiega l’autrice, il progetto per Ungers non è un’operazione di ricostruzione, ma di “ermeneutica del luogo”, che ricostituisce nuovo ordine e nuova identità ai fatti urbani. Attraverso l’esemplificazione di due casi studio e del loro rapporto con l’archeologia, viene analizzato in maniera ampia il pensiero di Ungers. Con il Museo delle Thermen am Forum (1988-96) si affronta il tema dell’astrazione. La forma assoluta e isotropa dell’edificio, concepito come monumento urbano, risulta separata dal contesto, per immagine e significato. Gli scavi archeologici rappresentano l’opera esposta, dunque dalla loro traccia non scaturisce nessuna nuova forma. Il nuovo ingresso alle Kaiserthermen (2003-07) è il risultato di una scelta diversa: l’edificio è un muro abitato, una stoà che, questa volta, delimita l’archeologia in un’area urbana aperta. I volumi e i vuoti, in sequenza modulare, assumono plurimi significati: le stanze diventano pergolati, i pilastri si trasformano in alberi e infine in bandiere, riportandoci alla mente il castello di Glienicke di Schinkel. Il volume contribuisce a delineare e a contestualizzare il metodo compositivo di Ungers. Il procedimento per varianti, che prevede lo studio della formazione e della trasformazione, ricorre in buona parte dell’architettura tedesca e risente della Gestalttheorie: l’architettura implica la modificazione della realtà, che è concepita prima di tutto come una questione formale. Eliana Martinelli RE–USA 20 american stories of adaptive reuse A toolkit for post-industrial cities Matteo Robiglio 3 Invenzione della tradizione L’esperienza dell’architettura Antonella Gallo e Giovanni Marras (a cura di) Il Poligrafo, Padova 2017 ISBN 978-88-7115-935-5 Nell’inaugurare, all’alba del 1954, la nuova stagione della rivista “Casabella”, nel segno di una continuità con la coscienza storica e il “modo di sentire” degli amici Giuseppe Pagano e Edoardo Persico, Ernesto Nathan Rogers introduceva una riflessione intorno al fondamentale tema della tradizione destinata a futuri, fecondi, approfondimenti. Il libro, curato da Antonella Gallo e Giovanni Marras per i tipi de Il Poligrafo, arricchisce quel dibattito, in-attuale per sua stessa definizione, di nuovi punti di vista e originali interpretazioni, scaturenti dal concetto di “invenzione della tradizione” contenuto nel volume The invention of Tradition, a cura di Eric Hobsbawm e Terence Ranger. Un classico della letteratura nel campo degli studi storici e antropologici nel quale, mentre si precisa la differenza tra consuetudine e tradizione, progressivamente sfuma la (altrimenti troppo netta distinzione) fra tradizione e modernità, con la conseguenza che la stessa identità assume il carattere (progettuale?) di una costruzione da realizzare. I contributi di C. Magnani, G. Fabbri, A. Dal Fabbro, L. Semerani, G. Grassi, A. Monestiroli, B. Albrecht, M. Meriggi, E. Mantese, C. Eusepi, P. Grandinetti, L. Monica, V. Bertini, R. Cantarelli, G. Scavuzzo, C. Torricelli, A. Iorio, G. Rakowitz, G. Marras, P. Montini Zimolo, R. Neri e A. Gallo, sono l’esito prezioso di un seminario monografico sul tema, organizzato nell’ambito delle attività promosse dal curriculum in Composizione architettonica della Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia. La loro eterogeneità, conseguenza, certo, di una personale ‘tradizione’ dei singoli autori, restituisce una (provvisoria) definizione, per dirla con Luciano Semerani, del rapporto fra tradizione e invenzione all’interno del complesso mondo della “vita delle forme”, in altre parole dell’architettura. Così, lo “spettacolo della storia” di una Damasco dalla millenaria stratificazione convive con la ricerca di una possibile geografia dei “luoghi dell’avanguardia antica” e con le straordinarie visioni di Fischer von Erlach; il ricordo dei maestri con delicati passaggi sulle “terre delle nostre tradizioni ancestrali”, viaggi verso Nord, l’Africa o la Cina, riflessioni sull’arte e sul “saper fare”, sulla continuità di una certa consuetudine dell’architettura, sull’aspetto costantemente inventivo di ogni riferimento a una tradizione, di là da qualsiasi visione teleologica della cultura e della storia. Alberto Pireddu Christoph Mäckler, Frank Paul Fietz, Saskia Göke Stadtbausteine: Elemente der Architektur DOM publishers, Berlin 2016 ISBN 978-3-86922-551-7 Ottavo volume pubblicato all’interno della collana “Bücher zur Stadtbaukunst” curata da Christoph Mäckler e Wolfgang Sonne, il libro raccoglie una selezione di foto di architettura esposte in occasione delle “Dortmunder Architekturtage”, il noto appuntamento annuale presieduto tra il 1975 e il 1981 da Josef Paul Kleihues e riavviato a partire dal 2005 dal Deutsches Institut für Stadtbaukunst. Il volume presenta un centinaio di immagini di progetti contemporanei, ognuno accompagnato da un autorevole riferimento scelto dal rispettivo autore. Le coppie di foto sono ordinate in dieci capitoli, secondo la successione tematica delle singole rassegne presentate tra il 2006 e il 2015: la finestra su strada, il tetto, l’ingresso, la scala, la facciata, ornamento e dettaglio, la corte urbana, lo zoccolo al piano terra, il sistema murario in facciata e balcone – bovindo – loggia. Oltre ad opere realizzate da autori tedeschi, sono raccolti nel libro esempi di architetti stranieri, tra i quali figurano i nomi italiani di Paolo Zermani, Francesco Collotti, Paolo Fusi e Simona Malvezzi. Il contributo italiano è oltremodo confermato anche dai riferimenti progettuali, con un’ampia selezione di opere magistrali del nostro ricco patrimonio architettonico. Continuità storica e rapporto tra architettura e città sono i presupposti teorici del libro, il quale, riallacciandosi al passato, rimette al centro del progetto il tema urbano. Come evidenziato da Christoph Mäckler, nel suo intervento alla settima edizione delle “Dortmunder Architekturtage”, qui pubblicato come testo introduttivo, la spazialità e l’immagine delle architetture contribuiscono fortemente alla qualità dei luoghi. Gli elementi architettonici, definiti “Stadtbausteine” – letteralmente “pietre di costruzione della città” –, sanciscono il legame tra edificio e contesto, secondo una processo induttivo che dal particolare rimanda al generale, prediligendo alla speculazione teorica la verifica sperimentale. Come in un carnet de voyage la successione di immagini, pur illustrando architetture tra loro spesso geograficamente o concettualmente distanti, suggerisce una linea operativa tendenzialmente unitaria capace di evocare visioni possibili di città analoghe, trascendendo la specifica condizione spazio-temporale degli esempi stessi. Ivan Brambilla Matteo Robiglio RE-USA. 20 american stories of adaptive reuse JOVIS Verlag GmbH, Berlin 2017 ISBN 978-3-86859-473-7 Con l’espressione adaptive reuse Matteo Robiglio si riferisce ad un approccio al riuso, ormai internazionale, volto a riproporre il patrimonio industriale dismesso in maniera creativa: infrastrutture ed edifici abbandonati vengono rivalutati, rinnovati e riattivati con modalità affini al nostro tempo, grazie all’inserimento, al loro interno, di attività legate a cultura, svago, sport, educazione, design, residenza, produzione e mercato contemporaneo. L’autore indaga il caso studio americano per gli insegnamenti che esso è in grado di impartire, per il fascino, la forza e il dinamismo delle sue realtà industriali, per il forte senso civico e comunitario che permea le città statunitensi. RE–USA ha la triplice natura di libro di viaggio, manuale e saggio teorico, ripartito in tre parti. La prima si sofferma sull’analisi di progetti di riuso operati in centri industriali quali Philadelphia, Washington D.C., Pittsburgh, Chicago, Detroit e New York. Qui l’intenzione è quella di raccontare approcci alternativi e progetti emblematici di adaptive reuse, di raffigurare il contrasto o la collaborazione tra processi pianificati top-down e l’attivismo bottom-up, eventi effimeri e sfide a lungo termine, iniziative scaturite dall’azione di volontari locali o da imprenditori immobiliari, rapporto tra comunità e impresa, grandi investimenti e operazioni low-cost, architettura d’élite e soluzioni fai da te, strategie estensive a grande scala e interventi puntuali e progressivi. La seconda parte introduce una serie di strategie per l’adaptive reuse: illustrando ognuna di esse con riferimenti ai progetti analizzati, ne svela i fattori di successo e sintetizza le lezioni apprese in un kit di strumenti e guida di facile comprensione, rivolto a chiunque sia interessato a conoscere di più riguardo a tale pratica di riuso, o a divenire parte attiva di un processo simile nel proprio contesto. La terza ed ultima parte esplora le implicazioni storiche e teoriche dell’adaptive reuse e del suo valore di pratica sociale, introducendo riferimenti alle diverse tipologie di spazio industriale. Le esperienze analizzate mostrano che l’innovazione è il risultato di pratiche sociali durevoli generate indipendentemente dall’architettura, ma che raggiungono il loro pieno potenziale se interpretati e valorizzati da essa. Ripercorrendo i punti cardinali del suo lavoro, l’autore riflette su quale sia, a tal punto, il ruolo dell’architetto. Lontano da grandi gesti ed autocelebrazione, ciò che conta è la sua capacità di donare continuità al passato e al contempo deviarlo in maniera intelligente, negoziando con molteplici attori e in condizioni mutevoli. La sua capacità creativa è qui chiamata ad attivare la trasformazione, motivare gli attori, gestire e ottimizzare il processo. Micol Rispoli 165 Fabio Fabbrizzi IN-SITU Musealizzazione dell’area archeologica di Frascole DidaPress, Firenze 2016 ISBN 978-88-9608-047-4 Riccardo Butini Progetto contemporaneo nel paesaggio archeologico DidaPress, Firenze 2016 ISBN 9788896080429 Lorenzo Arruga Pier Luigi Pizzi Inventore di teatro Cronologia e ricerca iconografica di Franca Cella Umberto Allemandi&C., Torino 2006 ISBN 978-88-422-1321-5 Il volume di Fabio Fabbrizzi racconta esperienze didattiche di progetto sul tema della riqualificazione generale delle strutture a servizio di un sito archeologico toscano posto nell’alto Mugello. Il lavoro contenuto nel libro nasce da un accordo iniziato nel 2014 fra il Dipartimento di Architettura e la Soprintendenza Archeologia della Toscana. Alla presentazione dei progetti sono anticipati saggi di Saverio Mecca, di Susanna Sarti (funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana), di Laura Paoli (archeologo e direttore scientifico del Museo Archeologico Comprensoriale del Mugello, Alto Mugello e Val di Sieve), di Claudio Piferi e di Fabio Fabbrizzi in grado di spiegare da differenti punti di osservazione la complessità del tema affrontato, con le sue autonome criticità, e le non semplici condizioni operative. Risulta di estremo rilievo la riflessione di Fabbrizzi nel suo saggio riferita alle molteplici impostazioni metodologiche affrontabili e sulle loro differenti ricadute nel percorso didattico che guida lo studente dall’inizio del progetto fino alla sua espressione finale. Di tale riflessione godono i progetti degli allievi presentati nella sezione prevalente del volume. Essi sono connotati da una sensibilità e da una maturità che sapientemente mette frutto il preliminare percorso analitico per poi comprendere il difficile rapporto fra volontà di disegno architettonico e necessità di tutela dei caratteri autonomi del paesaggio archeologico. Al progetto infatti viene affidato il ruolo di fenomeno che accompagna e tutela il luogo senza mai prevaricarlo e senza mai ometterne alcuna componente; come insieme di azioni volte alla conservazione, il progetto ha in questo caso l’onere e la difficoltà di divenire un elemento di protezione, svincolandosi da sistemi formali che ne potrebbero caratterizzare troppo apertamente un’adesione a parametri o linguaggi propri ma estranei al contesto. Proprio l’assenza di un sistema linguistico rintracciabile in tematiche urbane o sistemi relazionali definiti in approfondimenti tipologici cui il progetto potrebbe poggiare parte della sua composizione, determina una forte assenza che risulta caratteristica di questo tipo di dimensione a cavallo fra architettura e paesaggio. I lavori qui presentati non cadono nel pericoloso tranello dell’attribuzione di un ruolo gerarchico prevalente ad una delle due condizioni, progetto o presenza. Essi dimostrano invece uno dei fondamentali princìpi didattici del percorso in Architettura: come l’esercizio dell’ascolto dei caratteri identitari del luogo, strumento operativo assai difficile soprattutto per i primi anni, doti gradualmente lo studente di una consapevolezza il cui i progetto non deve e non può permettersi di rinunciare, in nessuna fase. Riccardo Renzi Le rovine sono ancora materia viva? Basterebbero le poche immagini affiancate al testo, sapientemente selezionate, a fornire una sicura risposta: architetture dirute invase da una rigogliosa vegetazione, che fuoriesce dalle pietre e dai pavimenti come sangue vivo, e diviene metafora della intrinseca fertilità delle architetture del passato, solo in apparenza morte. Il saggio che Butini fornisce delinea, partendo da questo assunto, un preciso metodo progettuale, che riflette sui temi della permanenza, dell’ascolto, della trasmissione. Le rovine e l’antico divengono sostanza plasmabile, un ‘prezioso deposito’ di modelli e misure, in cui ritrovare le fondamenta resistenti su cui appoggiare il progetto d’architettura. Metafora e testimonianza del mondo passato, esse vivono un tempo sospeso, una duplice condizione di presenza ed assenza, eterno e provvisorio: in questa discontinuità è la possibilità di un germoglio, di un innesto. L’autore dunque, in una narrazione che si struttura in tre scritti, sollecita ad abbandonare le ‘novità sciocche e stravaganti’ e ad interrogarsi sulle cose, a collaborare con la storia, a esercitare la pratica dello sguardo: è esso lo strumento principale attraverso cui ricercare, sempre mutevole e per questo sempre capace di rinnovare e ciclicamente ridestare a nuova vita il frammento, consentendone letture sempre nuove. Per infine ‘scavare un suolo ideale’ alla ricerca del progetto, quasi esso risiedesse, già inscritto, nelle tracce dell’antico, in attesa di essere scoperto; recuperando, nel comune atto del sottrarre e dello scegliere, un punto di contatto con la disciplina dell’archeologia. La pubblicazione affianca al contributo teorico, completandone il ragionamento, una selezione di lavori prodotti all’interno del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura I, esercizi di composizione sul possibile legame tra il progetto e i temi dell’antico, delle rovine e del paesaggio archeologico. Tuttavia in un ragionamento che sembra condurci dal generale al particolare, si ritrova, nelle pieghe, anche il percorso inverso: se, in una dilatazione di scala, intendiamo il paesaggio italiano contemporaneo come una grande rovina, fatta di frammenti di paesaggi già stati, allora il metodo tracciato acquista carattere universale e pare estendersi a tutta la pratica architettonica dell’oggi: in un continuo corpo a corpo con il tempo, soltanto i progetti capaci di interrogare il passato senza rimpiangerlo, potranno ‘far convivere le parti’, avvicinando ‘i tempi dell’architettura fino a farli coincidere’. Giulia Fornai “Questo libro [...] ha la speranza di aiutarvi a entrare in queste invenzioni, di capirle e viverle a vostro modo, come in teatro. «Come in teatro» vuol dire una cosa tanto semplice che a scriverla pare lapalissiana, ma non è: che Pizzi in teatro ha fatto sempre e solamente teatro. Non c’è spettacolo in mezzo secolo che non abbia pensato e realizzato per andarsi a confrontare là, in scena, con gli attori o i cantanti e il pubblico, nel momento della verità.” Così si apre il primo volume (il secondo, Pier Luigi Pizzi Bis! sempre pubblicato da Allemandi, sempre con testi di Lorenzo Arruga e apparati curati da Franca Cella, è uscito nel 2015) che raccoglie le scenografie, i costumi e le architetture della visione che Pizzi ha costruito nell’arco della sua vita. Un’opera, quella del Maestro milanese, che con misurata eleganza ha segnato e continua a segnare la storia del teatro di prosa, del cinema e della lirica italiana. Organizzato in due parti, il volume illustra le collaborazioni di Pizzi con la Compagnia dei Giovani, col solo Giorgio De Lullo per le regie liriche, con Luca Ronconi e con altri importanti registi e poi, nella seconda sezione, quelle di Pizzi con Pizzi; ovvero il suo lavoro di regista lirico che lo ha rivelato al mondo come uno degli interpreti più autorevoli dell’opera barocca e del repertorio di Rossini. Fotografie e disegni che documentano non solo la straordinaria forza del suo operare ma anche la sua dimensione etica, il suo senso dello spazio e la sua cura nel concepire la dispositio di elementi che nel corso degli anni si andranno a rarefare non rinunciando però a caricarsi di significato. La figura di Pizzi che emerge dalle pagine di questa ponderosa monografia è in buona sostanza quella di un potente architetto, costruttore di una bellezza la cui sorte non si gioca nell’attimo dell’apertura del sipario di ogni atto, alla ricerca del facile applauso, ma al contrario nel momento finale della rappresentazione, quando è la coerenza del fare ad essere sottoposta al giudizio del pubblico, al trionfo, all’immediata sensazione di perdita per aver assistito durante lo spettacolo alla fragile rivelazione del mistero del rito teatrale. Come diceva Manfredo Tafuri a proposito del Teatro del Mondo di Rossi, ‘l’effimero è eterno’. Queste pagine consegnano a noi architetti-lettori un’analoga dimensione di architettonica monumentalità. Andrea Volpe 166 Alberto Pireddu In limine Firenze University Press, Firenze 2017 ISBN 978-88-6453-519-7 La “grande triade” descritta da Renè Guenon è un’immagine cosmologica dove la relazione fra il cielo, la terra e l’uomo è evocata dal simbolo della croce. L’uomo si trova all’incrocio delle due linee: la verticale per il cielo e l’orizzontale per la terra. Se l’architettura è la casa dell’uomo, anch’essa occupa, insieme al suo abitante, il centro della croce, ovvero il nodo dove può realizzarsi la contemporanea appartenenza al cielo e alla terra. In limine è una raccolta di saggi che riflettono su questa felice condizione di soglia, tanto connaturata all’opera architettonica da potersi considerare il discrimine tra ciò che è architettura e ciò che non lo è. L’analisi colta di Alberto Pireddu, che poggia su di una importante letteratura architettonica e filosofica, si rivolge al rapporto con la terra, penetrando fino alle radici del costruire. Intervistato dall’autore, Kenneth Frampton desume da Semper una intrinseca opposizione tra il basamento e la copertura, dove tuttavia è il primo “quello veramente fondamentale”. Da qui prende le mosse la ricerca di Pireddu, che individua nel contatto con la terra il punto in cui l’architettura realizza e determina la propria condizione di limen. Uno dopo l’altro i saggi compongono, come tessere di mosaico, un’immagine ricca di sfumature, dove questo stato di sospensione appare declinato nelle sue molteplici accezioni in virtù della specifica relazione che ogni volta l’architettura instaura con il suolo: ora affondandovi, ora emergendone, ora sfiorandolo. Dai tumuli tronco-conici di Eccheli e Campagnola per il crematorio di Verona alla piramide pompeiana di Francesco Venezia, dai blocchi cavi di Portela sulle scogliere della Galizia al basamento abitato di Campo Baeza a Cádiz, fino allo scrigno di Cellini per le navi di Istanbul, l’architettura appare sempre sospesa fra gli opposti termini di uno stesso sistema: terra e cielo, terra e mare, particolare e universale, natura e artificio, storia e memoria, idea e materia, concreto e astratto, attimo ed eterno, e così via. Ma è il luogo infine, come ci ricorda anche Francesco Collotti nella intensa prefazione, a suggerire con quali radici un’architettura possa (e debba) sorgere dalla terra, a dettare le modificazioni del tipo atte a consolidare la relazione tra l’una e l’altra, ed è sempre il luogo a determinare i caratteri di quella fondamentale condizione di soglia “magistralmente sospesa nell’indefinibile (perché necessaria) tensione tra una verità da rivelare e una da costruire”. Francesca Mugnai Federica Visconti Pompeji Città moderna/Moderne Stadt Ernst Wasmuth Verlag, Tübingen Berlin 2017 ISBN 978 3 8030 0937 1 ISSN 2364-7663 La presenza dell’antico produce progetto. In tre gradi. Primo, Pompei. Città antica, percorso attraverso la forma della città. Secondo, Oltre Pompei esperienze progettuali di costruzione della città o parti di essa, debitrici alla città antica. Terzo, Pompei analoga dove si indaga, attraverso il progetto e il disegno soprattutto, la lezione ancora oggi operante della struttura urbana. Apparentemente del tutto inattuale, la straordinaria attualità di Pompei sta per gli architetti nel superare la sua natura di sito sospeso e misteriosamente indicibile, per divenire – oggi come allora – luogo abitato, interno plausibile, relazione tra sequenze di spazi e recinti (Carlo Moccia). Rispetto all’archeologo, è dell’architetto facitore di forme il privilegio di guardare a Pompei come città operante, ritrovata negli esempi migliori del Moderno che hanno riflettuto sulle gerarchie tra pieni e vuoti, conferendo valore a quelle proporzioni ed a quei rapporti che son capaci di generare forme che son corti, recinti, muri. Pompei si ritrova per parti, per geometria rettificata, per sogno che prende corpo nelle ricerche per la città orizzontale di Diotallevi e Marescotti, nel frammento di città che è l’unità di Libera al Tuscolano. Pompei non ha mai smesso di progettare. Sta forse un po’ stretta agli archeologi e agli storici questa idea di una città che non si è mai cristallizzata, malgrado la morte violenta che l’ha fermata. Lo stesso Maiuri, controverso e tuttavia straordinario custode, racconta di come lo studio della casa, cellula e nucleo essenziale di ogni abitato urbano, sia ancora oggi possibile comprendere il problema spirituale culturale e umano dell’abitare. La rilessione sulla città antica è ancora duqneu una riflessione su che cosa sia casa, che cosa sia abitare. Dunque alcuni disegni di parti di città di Ernst May, Siza, Hilberseimer e Mies, forzati sulla pianta della città antica sono strumenti di misura del progetto. Quasi una verifica per calibrare lo strumento. L’architettura è l’espressione di pensieri che prendono corpo negli spazi (Uwe Schröder), e vi è una scala e una misura che danno conto di come si stabilisca un rapporto tra l’uomo e i luoghi abitati, le forme – ora come allora – sono corte, strada e piazza, tipi che non solo tengono insieme luoghi distanti, ma soprattutto che rendono contemporanea la città antica. Infine circa il disegno. La ricerca grafica di Claudia Sansò, che accompagna tutto il libro in modo chiaro e essenziale, ancora una volta ci rafforza nel pensiero che solo col disegno gli architetti conoscono. Uno strumento difficile, ma di altissima responsabilità civile. Il tutto raccontato in volume collettivo molto piccolo, molto denso, ben stampato per i tipi di un editore prestigioso. Francesco Collotti Salvatore Settis CIELI D’EUROPA Cultura, creatività, uguaglianza UTET, Milano 2017 ISBN 978-88-511-5014-3 La storia, la cultura, persino le rovine delle città d’Europa ci mettono al sicuro? RiOgni cultura umana decifra il mondo a partire dalla propria esperienza. Abbiamo difficoltà ad analizzare il nuovo per quello che è. Tendiamo, insomma, più a riconoscere che ad analizzare: in quel che ci accade intorno (…) ravvisiamo affinità o identità con quel che abbiamo già vissuto. Siamo dunque sicuri di capire fino in fondo, oppure riconosciamo sulla base di pregiudizi, alcuni cruciali sviluppi di fenomeni del nostro tempo? La domanda è diretta: siamo sicuri di intendere non solo per quel che sono, ma per quel che rivelano, le distruzioni intenzionali di opere d’arte, l’incuria che affligge i monumenti e i paesaggi, il declino delle città storiche e il diffondersi dei ghetti urbani? L’incipit della recensione qui a fianco pone una questione analoga in termini positivi, da architetti, ma sempre girando intorno alla constatazione secondo cui, anche nel rimetter mano alla città, stiamo disimparando a convivere con il nostro passato, a cui non sappiamo più guardare se non con nostalgia o con disagio (avevamo già recensito qui qualche anno fa il futuro del classico, sempre di Settis). Se ben sapessimo distinguere e analizzare, non ci toccherebbe – quale esercizio di misura – rimetter mano a Pompei per guardare avanti e tracciare la città futura. Mettere in cornice e imbalsamare, oppure – al contrario – saper cogliere l’energia contenuta nel gesto iniziale e portarla avanti? Guardiamo a Pompei per nostalgia oppure con occhio volto al progetto? Città di rovine? Viviamo una stagione in cui vi è chi fa festa distruggendo (dai Buddha di Bamyian fino a Palmira). Le iconoclastie non sono mai la negazione in toto del passato, ma la scelta, ritualizzata e mirata, di distruggere qualcosa per esaltare qualcos’altro. Vale poi a tal proposito la considerazione che quando si indirizza su un’opera d’arte, per paradosso, l’azione dell’iconoclasta ne riafferma in qualche modo il duraturo potere, che dalla devastazione e nonostante la devastazione può perfino risultare accresciuto. La riflessione di Settis abbraccia una vicenda molto più ampia, che non la sola indignazione per l’iconoclastia di propaganda, toccando un’altra specie di distruzione che è vera perdita di memoria: la violenza che devasta le città, i paesaggi, le memorie storiche, che ne cancella i fragili palinsesti in nome del mercato. Si tratta qui della crisi in corso di una società, della sua decadenza culturale, morale e politica. Ma proprio le rovine sono la condizione per la ripartenza, incentivo efficace alla rinascita, ritorno all’energia creativa delle origini (Settis/Jackson). Nella città della peste (Camus) memoria degli esuli e memoria dei prigionieri corrono il rischio di non servire più a nulla accomunate da rassegnazione, indifferenza, cinismo. Che cosa sarà dunque una memoria d’Europa condivisa tra abitanti di lunga data e nuovi recentissimi arrivi? Sarà questa memoria un materiale da costruzione che dalla decadenza guidi verso una nuova rinascenza? Francesco Collotti 167 ISSN 1826-0772 9 771826 077002