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CAPITOLO SECONDO – LA PITTURA Tenebre e luci, tra patetismo, magniloquenza e bon goût Fra gli affannati rivolgimenti del secolo la peste del come in un arguto gioco di specchi, l’illusione diviene 1630, immortalata nelle tele di Antonio Zanchi e Pie- metafora della realtà. Una realtà spesso dura e brutale tro Negri della Scuola Grande di San Rocco, si poneva è così esorcizzata e sublimata attraverso la narrazione quale violento spartiacque tra due epoche. In tale con- pittorica di patetiche o trionfali storie sacre e mitolo- testo, Venezia confermava la sua vocazione di città co- giche, di idealizzate vicende famigliari e di incantate smopolita e ospitale verso gli artisti stranieri. D’altro favole arcadiche che costituivano, alle volte, lo sfondo canto, essendo allora i veneziani «i più ricchi huomini di vitalissime accademie letterarie. d’Italia» era normale che attirassero «gli artefici che E dove si rende più manifesto lo spirito barocco, se vanno dove corre il danaro e dove le genti son mor- non nei teatri, in particolare nell’allestimento dei bide e grasse» (Doglioni 1675). Inoltre i pittori dove- drammi in musica? con dispiegamento di straordina- vano confrontarsi con il cosiddetto ‘secolo d’oro’ rie ‘macchine’ predisposte in ogni circostanza, anche dell’arte, il Cinquecento. Un siffatto termine di para- lontano dai palcoscenici (e persino nei funerali); stu- gone sarà metabolizzato proprio grazie all’apporto dei pefacenti rappresentazioni dove il provvisorio, l’incon- foresti, che mai come in questa congiuntura furono sistente e addirittura il falso entrano in competizione così determinanti nello sviluppo della tradizione ve- con il reale. Pittori, architetti e scultori furono chia- neta, tradizione che al contempo volgeva lo sguardo mati a impegnare il loro talento con materiali più o verso Roma e Bologna (Lucco 2001; Pedrocco 2001). meno duraturi, per dar vita a composizioni di pietra e Paolo Veronese, in particolare, è il modello per artisti di marmo, ma persino di verzura nei giardini, e poi di come Pietro Liberi, che nel 1652 dispiega il suo lin- cartone, di legno, di tela, di stucco, di cera, di vetro, di guaggio sensuale e chiarista a villa Foscarini a Stra, o fiori, di zucchero, di pane, di frutta, per inventare spe- come Giovanni Antonio Fumiani che fra il 1697 e il ricolati catafalchi funebri, trionfi da tavola, macchine 1710 squaderna una mirabolante rappresentazione da foghi d’allegrezza, imbarcazioni da regata, palchi per sacra sul soffitto di San Pantalon, memore dei suoi orchestre, banchi per le fiere, improbabili alcove ed trascorsi da scenografo teatrale. ogni sorta di stravagante, bizzarro e straordinario ag- A partire dalla metà del Seicento Venezia si af- geggio in grado di stupire e istruire (Romanelli 1980). ferma, altresì, come l’indiscussa capitale europea del Lo sfarzo si fece strabiliante, per esempio, nel 1641 in dramma in musica, connotazione originale che get- occasione della cerimonia per l’ingresso alla carica di terà i suoi riverberi sull’intero mondo dell’arte. La tra- procuratore di San Marco del futuro doge Giovanni sposizione degli effimeri apparati scenografici Pesaro. Gli apparati veneti è il titolo della relazione che attraverso i trompe-l’oeil, dai palcoscenici alle più du- illustra i tre giorni di spettacoli con «continue alle- rature superfici murarie di chiese, palazzi e ville, è il grezze» e «apparati maestosi e insoliti»; un prototipo sintomo della volontà di una classe dirigente di stu- da imitare e, se possibile, da superare laddove, nella pire e istruire, un motto che può efficacemente riassu- spirale dell’iperbole celebrativa, Pesaro veniva parago- mere lo spirito di tutta l’arte barocca. All’improvviso, nato ad Apollo, agli imperatori Augusto e Tito, vatici- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – LA PITTURA PAGINA A FIANCO, Antonio Zanchi, San Rocco invocato per la cessazione della peste, particolare, Scuola Grande di San Rocco, parete destra dello scalone. 139 nandone l’elezione al dogado, certo meritata poiché il dilettevole incanto e «le fatiche» profuse ritornavano a «beneficio publico» (Vincenti 1641). Beneficio pubblico che si confonde nel 1682 con la celebrazione privata nel soffitto di palazzo Pesaro per mano di Nicolò Bambini, e si manifesta esplicitamente nella definitiva consacrazione di san Lorenzo Giustiniani nel 1690 con la commissione pubblica a Gregorio Lazzarini e Antonio Bellucci dei due teleri per il presbiterio della cattedrale di San Pietro di Castello. I patrizi veneti, intrisi di ammirazione per i lodati esempi dell’arte romana e per l’impareggiabile grand goût francese in voga nella seconda parte del Seicento, trovano modo di esprimere le loro preferenze anche nella decorazione dei palazzi dove, a partire dai primi anni novanta, si sperimenta a Ca’ Zenobio con Antonio Gaspari e Louis Dorigny la tipologia del salone a doppia altezza che sostituisce il tradizionale portego passante. Verso la fine del secolo, s’insinua e convive un diverso registro, più ‘lieve’, dettato dal bon goût della nascente estetica rococò. Un passaggio guidato da Sebastiano Ricci e Giannantonio Pellegrini, che introducono nelle lagune il nuovo gusto, secondo l’accezione veneziana di Barocchetto. IN ALTO, Domenico Mauro, Imbarcazione in forma di mostro marino, incisione. IN BASSO, Alessandro Mauro, Imbarcazione da regata con la Cina condotta in trionfo dall’Asia, incisione. PAGINA A FIANCO, Antonio Zanchi, San Rocco invocato per la cessazione della peste, particolare, Scuola Grande di San Rocco, parete destra dello scalone. 140 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – LA PITTURA DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE Dalla peste di Antonio Zanchi all’oro di Pietro Liberi GLI ANTESIGNANI Il San Gerolamo ispirato dall’angelo della chiesa di San Nicola da Tolentino, dipinto intorno al 1627 dal tedesco Johann Liss, s’impone come manifesto della pittura barocca veneziana (Pedrocco 2000). Qui i colori si fondono mirabilmente con la luce attraverso la stesura sensuale di una materia pittorica liquida, trasparente e spumosa, che dovette impressionare i contemporanei e per certo anche i successivi protagonisti del Barocchetto settecentesco. Questo risultato scaturisce da una meditazione profonda dell’artista nel quale egli riversa, in una geniale sintesi, tutto il suo bagaglio formativo nordico, l’esperienza caravaggesca assorbita A DESTRA, Johann Liss, San Gerolamo ispirato dall’angelo, Chiesa dei Tolentini. PAGINA A FIANCO, Bernardo Strozzi, San Lorenzo distribuisce gli arredi sacri ai poveri, Chiesa dei Tolentini. a Roma e il colorismo della tradizione veneziana. Due anni dopo la morte di Liss, avvenuta a Verona nel 1631 a causa della peste, giunge nelle lagune Bernardo Strozzi, detto il Prete Genovese per la sua origine e l’appartenenza all’ordine cappuccino. Con una formazione molto simile a quella del pittore tedesco – sebbene con esiti diversi per l’ascendente del naturalismo lombardo – Strozzi si inserisce a pieno titolo nel rinnovamento del linguaggio pittorico veneziano avviato intorno alla fine degli anni trenta. Ricercato soprattutto come ritrattista, lascia anch’egli nella chiesa dei Tolentini, in compagnia di altri ‘rinnovatori’ quali Nicolas Régnier, Girolamo Forabosco e Camillo Pro- 142 La trasformazione della pittura veneziana nella prima metà del secolo procede lenta, ma inarrestabile; non imbocca una direzione univoca, ma si fa carico degli apporti più disparati. «Sanguinolenti languidori e pietosi sentimenti» (Fabri 1690) caratterizzano il successivo periodo, denso di rivolgimenti sociali e politici, nel quale un altro genovese, Giovanni Battista Langetti giunto a Venezia intorno al 1655, introduce caccini, una prova emblematica della nuova, emer- con prepotenza nelle lagune la cultura caravaggesca, gente maniera nel San Lorenzo che distribuisce gli dando vita alla corrente dei tenebrosi (Pedrocco 2000; arredi sacri ai poveri. A un disegno perfetto, accompa- Aikema 2001). Si tratta di uno stile intriso di dram- gnato da un saldo impianto compositivo, si unisce matico realismo distante dalla sensibilità veneziana una pennellata corposa dalla felicissima resa croma- tutto sommato ancora neocinquecentesca, ma adesso tica e chiaroscurale tradotta con impasti vigorosi piut- altrettanto affine al clima di incertezza e di ansia ge- tosto che con colori puri (Pedrocco 2000). nerato dalle alterne vicende della guerra di Candia. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE Langetti nella pala con Cristo crocifisso e la Maddalena del 1663, già nella chiesa delle Terese e oggi a Ca’ Rezzonico, fa sfoggio di un energico gioco chiaroscurale, ove il corpo inchiodato alla croce con le braccia quasi parallele tradisce una matrice neomedioevale (Stefani Mantovanelli 1990; Mason 2001). Su uno fondo scuro come la pece, si levano in un gesto di disperata emulazione le braccia della Maddalena colta in una scomoda posa inarcata, a zanna d’elefante. Il dipinto trasuda una sofferenza sovraccarica, da sacra rappresentazione, legata alla spiritualità dell’ordine delle carmelitane scalze che avevano dedicato il loro monastero veneziano a santa Teresa d’Avila, la mistica spagnola delle estasi divine. Nella medesima temperie si colloca l’attività di Pietro Vecchia, artista stralunato, con una predilezione per il grottesco, autore di fisionomie bizzarre e a volte spaventevoli. Il dipinto con Francesco Borgia che assiste all’esumazione del cadavere dell’imperatrice Isabella, già nel convento dei Gesuiti a Venezia ed eseguito tra il settimo e l’ottavo decennio del secolo, rappresenta un teatrale memento mori (Mason 2001). Il raccapriccio che genera la vista dell’orrido, oramai decomposto cadavere di quella che fu in vita la bella regina di Spagna si configura come un tremendo monito sulla caducità delle cose. L’effimera consistenza della vita è qui sottolineata dalla ricercatezza dell’abito e dai gioielli che contrastano con il volto scheletrico, deformato da un ghigno agghiacciante, mentre la corona è caduta definitivamente dal capo dell’illustre defunta. Il pittore non ha voluto risparmiarci nemmeno il fetore che sprigiona dalla salma, inserendo la figura del paggio che con disgusto si tura il naso: uno spettacolo tremendo che convince, nella tela, il nipote Francesco Borgia a rinunciare al mondo per arruolarsi nell’ordine dei gesuiti. Maestri nell’uso della retorica della persuasione, questi reagiscono alla moda imperante della celebrazione personale con una risposta tuttavia reticente da esibire non al pubblico, all’interno della chiesa, ma nel chiuso delle 144 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE stanze del monastero. Termini forti per suscitare reazioni altrettanto forti, come avviene negli stessi anni con la facciata celebrativa di Bartolomeo Cargnoni all’Ospedaletto che richiama con ‘invadente’ insistenza il viandante alle opere di carità. Di rimando, la toccante Deposizione che il partenopeo Luca Giordano realizza, intorno al 1665, per Santa Maria del Pianto, ora alle Gallerie dell’Accademia, definisce una drammatica scena nella quale i personaggi si dispongono ai lati, lasciando, in un violento e disordinato moto centrifugo, un cupo e angosciante vuoto al centro (Pedrocco 2000). La Madonna implorante, con le braccia spalancate, è con le dovute correzioni facilmente rapportabile all’iconografia secentesca di Venezia supplice nei dipinti votivi. Nulla in comune con le tele della Salute, eseguite dallo stesso pittore qualche anno più tardi, nelle quali si stempera una neotizianesca celebrazione mariana. I TENEBROSI: ANTONIO ZANCHI E PIETRO NEGRI NELLA SCUOLA GRANDE DI SAN ROCCO Antonio Zanchi, campione della corrente dei tenebrosi, è noto per la «maniera forte e naturale di colorire» (Angelieri 1743). Nato a Este nel 1631, artista dal spare Mauro. In particolare Zanchi aveva provveduto a dipingere i fondali con una «Campagna di vendemmia», «la Piazza di Menfi» e la «Sala di Rodope». Se non sono giunte finora ulteriori notizie sulla sua attività di scenografo, sappiamo che già negli anni cin- gusto severo e austero pittore di temi biblici e mitolo- quanta del secolo, e almeno fino al 1687, egli si gici, anch’egli non poteva rimanere del tutto immune impegnerà a più riprese nell’ideare le composizioni dalla passione per l’effimero che caratterizzò il suo per le minuscole incisioni che decoravano le antiporte tempo. Giunto nelle lagune all’età di vent’anni, dopo di alcuni libretti d’opera (Favilla-Rugolo 2003-04). un precoce alunnato presso il pittore bresciano Gia- Che il nostro fosse in grado d’imbastire grandiosi como Pedrali, Zanchi trovò nel romano Francesco apparati, ne darà prova nel 1666, quando il guardian Ruschi un maestro «non del tutto corrotto dall’esorbi- grande della Scuola di San Rocco, Bernardo Broli, gli tanze de’ tempi e istintivamente tenero ancora delle commissionava due teleri per la parete destra dell’ul- glorie passate». Nel 1657, agli esordi della sua carriera, tima rampa dello scalone che conduce alla sala supe- partecipava alla realizzazione delle scenografie per il riore dell’edificio, sede della prestigiosa confraternita dramma in musica Le fortune di Rodope e Damira an- (Zampetti 1987). Il pittore dispiega un artificio sce- dato in scena nel teatro veneziano di Sant’Aponal. Di- nico in due scomparti separati da un pilastro, ma con rettori delle «macchine» erano due tra i maggiori una prospettiva assolutamente unitaria: un ‘gran tea- registi teatrali dell’epoca, Francesco Santurini e Ga- tro’ che gli consente di inscenare un evento dramma- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, PAGINA A FIANCO, Giovanni Battista Langetti, Cristo crocifisso e la Maddalena, Venezia, Ca’ Rezzonico, già nella chiesa delle Terese. IN ALTO, Pietro Vecchia, Francesco Borgia assiste all’esumazione del cadavere della zia, l’imperatrice Isabella di Spagna, Brest, Musée Municipal, già Venezia, convento dei Gesuiti. SENSUALITÀ E BIZZARRIE 145 chiesa del Redentore che sembra ‘sbucare’ da dietro la parasta divisoria. Da un punto di vista, che possiamo collocare all’imbocco sul Canal Grande del rio della Fornasa, guardando sulla destra verso il Redentore – quasi in asse con il ponte di barche che tutti gli anni veniva, e tuttora viene allestito, la terza domenica di luglio tra le Zattere e la Giudecca –, si svolge la tragica scena di morte, sigillata, in questa formale e simbolica triangolazione della città, dalla ‘rassicurante’ apparizione del campanile marciano. In alto la Vergine e san Rocco intercedono per la cessazione del morbo presso il Cristo irato, che stringe nella mano destra, posata sul globo, il patente attributo dei fulmini del castigo. Non v’è dubbio, allora, che qui il protagonista sia proprio un Cristo-giudice – novello Apollo, indifferente seminatore della vita e della morte –, emanante una luce terribile che investe gli appestati, caritatevolmente assistiti dai devoti della scuola di San Rocco. Un angelo in primo piano esibisce il taumaturgico bastone da pellegrino del santo, additato dagli stessi soccorritori quale strumento di conversione e miracolosa guarigione. Siamo di fronte al primo e più violento stadio del flagello scatenato, come registrano le cronache del 1630, dalla giusta «ira divina»; e non era bastata la ‘prova’ del 1576, poiché nuovamente Venezia pare qui essere ricaduta nei medesimi errori. La cupa e spettrale, anzi ‘nera’ e ‘negativa’ apparizione del tempio del Redentore tra i fumi miasmatici ne costituisce la scomoda, scandalosa, lontana ancorché irremovibile e non vana testimonianza: le tinte infuocate degli IN ALTO E PAGINA A FIANCO IN ALTO, Antonio Zanchi, San Rocco invocato per la cessazione della peste, particolari, Scuola Grande di San Rocco, parete destra dello scalone. PAGINA A FIANCO IN BASSO, Pietro Negri, Venezia ottiene la cessazione della peste, particolare, Scuola Grande di San Rocco, parete sinistra dello scalone. 146 tico quale la pestilenza del 1630. Ed è forse opportuno spaventosi nembi evocano sinistre corrispondenze scorgervi anche il ricordo dell’altro flagello che deva- con la fine di Sodoma, mentre in alto la Vergine, ai stò le lagune tra il 1575 e il 1577 (Rugolo 1997). La piedi del Figlio, tenta sommessamente di placarne i fosca ambientazione, col crudo realismo degli appe- furori; e san Rocco, rimettendosi all’imperscrutabile stati e dei pizzegamorti (la versione veneziana dei mo- volontà dell’Eterno, richiama senza posa gli umani natti) in primissimo piano, non impedisce di alla necessità del pentimento e della conversione. Si riconoscere il profilo del campanile di San Marco, aggiunga inoltre che sul vicino pianerottolo della scala sullo sfondo a sinistra, dalla inconfondibile cella cam- è collocata una lapide fatta incidere dal guardian panaria sopra cui si staglia la sagoma del leone mar- grande Domenico Ferro in memoria della peste del ciano. Sulla destra si scorge, invece, la facciata della 1576, «vendicatrice dei nostri peccati», in modo che i VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE posteri fossero indotti a lacrime di commiserazione, dal momento che aveva strappato alla Scuola ben quattrocento confratelli. Un’epigrafe nella quale si descrive la desolazione di quei giorni coi cadaveri sparsi per le vie: e quella pestilenza si esaurì proprio grazie all’aiuto della Vergine Maria e di san Rocco, mediatori presso il Redemptor mundi. Chi perciò non accetta la luce punitiva, ma al contempo purificatrice, di Cristo non ha speranza di salvezza, come l’uomo intabarrato di nero che, invece di prestare soccorso agli appestati, si allontana furtivamente sul ponte turandosi il naso. Venezia, nuova Gomorra – siamo nell’imminenza della perdita di Candia –, sembra aver lasciato il campo al libero trionfo della morte. Tuttavia la morte a Venezia non può avere lunga durata, perché i pilastri della fede appaiono incrollabili e salgono fino al cielo, come si intravede appena dietro le figure di san Rocco e degli angeli, prefigurando così il voto di erigere un santuario alla Madre di Dio, giust’appunto nel sito da cui stanno sorgendo, come per incanto, le colonne giganti. Il successivo e decisivo momento della storia può essere raccolto nei teleri della parete sinistra dello scalone, collocati in situ nel 1673 per volontà del guardian grande Angelo Acquisti, che li affidò al pennello di Pietro Negri, pittore che aveva seguito il medesimo percorso formativo di Antonio Zanchi. L’artista delinea la personificazione di Venezia, assistita da san Marco e circondata dalle Virtù e dalla Religione, che nel 1630 invoca san Rocco e in subordine san Sebastiano affinchè intercedano presso la Vergine e il Bambino assisi su di un trono di nuvole, mentre la luce salvifica della divina grazia discende da un ideale punto fuori campo a diradare i miasmi, ricacciando nelle tenebre l’immagine della Peste funesta compagna della Morte. L’arcangelo Michele, brandendo la lancia, assiste la Madonna nella sua missione. L’opera, esattamente speculare al suo pendant, mostra sullo sfondo a destra il particolare scorciato della Salute con la cupola minore e parte della maggiore, cui fa da VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE 147 A FIANCO, Antonio Zanchi, San Rocco invocato per la cessazione della peste, Scuola Grande di San Rocco, parete destra dello scalone. 149 A FIANCO, Pietro Negri, Venezia ottiene la cessazione della peste, Scuola Grande di San Rocco, parete sinistra dello scalone. 151 Paolo Veronese sul soffitto della sala del collegio in Palazzo Ducale durante la pestilenza del 1575-77. Nel telero di Pietro Negri la Salute diventa visibile manifestazione del voto esaudito, cui corrisponde sullo sfondo in basso a sinistra la processione dogale che s’avvia verso la punta della Dogana, quest’ultima alludente, con la nave, alla subitanea ripresa dei traffici marittimi. Lontano, il tempio votivo del Redentore testimonia di un analogo e più antico sacrificio, dal quale, come sempre, la ‘vergine’ città uscì indenne e, dal punto di vista urbanistico, arricchita. L’architettura palladiana, sempre presente sull’orizzonte, ne è la tangibile dimostrazione. Il confronto tra Palladio, che è già storia e mito, e il contemporaneo Longhena (la sua chiesa non risulta ancora del tutto finita), non potrebbe farsi qui più esplicito. Il prototipo del Redentore, che viene replicato per ben due volte in queste tele (sia da Zanchi che da Negri), costituisce così il simbolo della Venezia che non può mai arrendersi, che anzi, di fronte al ripresentarsi dei medesimi mali, A FIANCO, Sebastiano Mazzoni, Annunciazione, Venezia, Gallerie dell’Accademia. contraltare sulla sinistra l’antica torre merlata della Dogana – nella versione già registrata nella veduta cinquecentesta di Jacopo de’ Barbari e prima del rifacimento di Giuseppe Benoni databile a partire dal 1677 (Frank 2004) –, mentre spunta all’orizzonte, die- si riconferma nella sua temprata saldezza, per uscirne ancor più rinvigorita e grande, «magnifica et con pompa» come la basilica della Salute. NEL CROGIOLO DELL’ALCHIMISTA: PIETRO LIBERI A PALAZZO FINI tro i pennoni di una nave ormeggiata nel canale della Giudecca, nuovamente il simbolico ma questa volta 152 Il fiorentino Sebastiano Mazzoni, nato nel 1611 e solare e positivo profilo del Redentore. La scena è os- trasferitosi a Venezia nei primi anni quaranta, forse al servata, con i dovuti aggiustamenti prospettici, da un seguito dell’amico Pietro Liberi di ritorno nella Do- punto collocabile all’incirca presso le arcate, all’epoca minante, s’incammina su un’ormai consolidata linea transitabili, del Fonteghetto della Farina a San Marco, barocca. È da porre a cavallo degli anni cinquanta sotto cui l’artista avrebbe idealmente organizzato la l’Annunciazione inondata di luce, impastata con colori teatrale mobilitazione dei maggiori simboli conno- morbidissimi, caldi e trasparenti, oggi alle Gallerie tanti le supreme e saldissime virtù della Repubblica dell’Accademia (Benassai 1999). L’attenzione si con- del leone (che compare in basso al centro mestamente centra sull’iconografia non convenzionale, onirica e sdraiato con uno sgualcito Vangelo). Venezia stessa stralunata, dove uno stravagante angelo «invasato, per assicurare la salvezza ai suoi pentiti cittadini è scapigliato, rutilante tutto circondato dal fruscio delle scesa umilmente dal suo trono di porpora, sopra il ali e dalle stoffe seriche, ridondanti e svolazzanti» quale come proterva dominatrice già l’aveva assisa (Ivanoff 1957), assomiglia più al genio scaturito da VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE una lampada magica che a un messo divino. Mazzoni sensualità. Una pittura «gustosa» che «rallegra si inserisce nel dibattito innescato a Venezia dallo sto- l’anima» (Zanetti 1771). Uomo di vasta cultura, dagli rico Marco Boschini sul primato del colore rispetto al interessi più disparati, Liberi «non rappresentò quasi disegno, suscitando il risentimento di quest’ultimo mai istorie ma bensì parecchie favole e moltissimi ge- per aver manifestato irriverenza con la penna e col roglifici, alcuni de’ quali egli solo forse intendeva» e pennello verso un atteggiamento ritenuto anacroni- soprattutto fu «della sua maniera inventore» (Zanetti stico (Puppi 1997). Nella temperie infuocata dell’este- 1733). Dopo una lunga serie di viaggi, che lo porta- nuante assedio di Candia il poeta-pittore rispondeva rono a Costantinopoli, a Malta, in Portogallo, in Spa- nel 1661 pubblicando La pittura guerriera, «una sorta gna e in Francia, infine a Roma e a Firenze dove di polemico controcanto alla prospettiva veneto-cen- prestò la sua opera per i Medici, rientrato a Venezia trica e anti-vasariana della coeva Carta del navegar pi- riuscì nel 1682, insieme ad Antonio Zanchi e Carl toresco» di Boschini (Rossi 2008; Leone 2008). Nel Loth, a emancipare i pittori veneziani dalla fraglia dei Tempo perduto, raccolta di versi dedicati agli artisti dipintori (Favaro 1975). Nel 1653 venne insignito contemporanei attivi a Venezia, il fiorentino si rivolge dalla Repubblica del titolo di cavaliere di San Marco e all’amico Pietro Liberi confidando di poter giungere successivamente fu nominato conte palatino dall’im- all’«immortalità» grazie al privilegio di venir da questi peratore Leopoldo I. Coronò la sua prestigiosa e for- effigiato in ritratto. Mazzoni non ha pregiudizi, per- tunata carriera costruendo sul Canal Grande un ché non esiste pittore più ‘veneziano’ di Liberi. monumentale palazzo su progetto dell’amico pittore- Allievo di Alessandro Varotari detto il Padovanino, poeta-architetto Sebastiano Mazzoni. Sebbene la parte in pieno tenebrismo, Pietro diede vita attraverso più consistente della sua produzione sia da cavalletto, l’esempio di Tiziano e Veronese a una maniera «rorida Liberi si dedicò anche all’affresco: valgano per tutti i e fulva» (Mariuz 1998b), permeata da una morbida fulgidi esempi dell’Apoteosi di sant’Antonio per la sa- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, IN ALTO, Pietro Liberi, L’Onore accolto in cielo dalla Gloria, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, soffitto. SENSUALITÀ E BIZZARRIE 153 crestia del Santo a Padova e delle complesse allegorie nubi (cfr. Ripa 1645). Tutto ciò si può effettivamente per la barchessa di villa Foscarini a Stra (Ruggeri legare all’ascesa della famiglia verso l’empireo del pa- 1996; Favilla-Rugolo 2008b). triziato veneto, raggiunto nel 1649 con l’esborso di Sul soffitto e sul fregio di una sala che si affaccia 100.000 ducati da parte di Vincenzo Fini, meta poi sul Canal Grande di palazzo Fini, ora sede del Consi- consolidata nel 1658 con l’aquisto per una somma glio Regionale Veneto, si dispone un ciclo pittorico uguale della prestigiosa carica di procuratore di San realizzato dall’artista dopo il 1661 per Girolamo Fini, Marco. Inoltre prudenza, eloquenza e temperanza fratello ed esecutore testamentario di quel Vincenzo sono le virtù che sopra le altre deve possedere un morto l’anno prima ed eternato sulla facciata della uomo di legge come in effetti era Vincenzo, al quale chiesa di San Moisè. Era stato Girolamo ad acquistare, dunque oltre alla facciata di San Moisè veniva forse nel 1661, la casa dominicale dai Flangini il cui com- dedicata anche la decorazione di questa sala. pletamento fu probabilmente affidato all’architetto 154 Il motivo dell’oro si dispiega sul fregio che corre in Alessandro Tremignon (Bassi 1990). Di significato alto a raccordo fra le pareti e il soffitto, ove si espli- equivocabile è l’interpretazione dell’allegoria raffigu- cano le conseguenze dell’auspicabile utilizzo positivo rata nella tela del soffitto. Non è possibile riconoscervi del nobile metallo contrapposte a un uso negativo. Da tout court un’Apoteosi di Ercole, poiché il soggetto non un lato infatti abbiamo un Cupido ammiccante ac- reca alcuno degli attributi suoi propri (cfr. Bassi 1990; canto a una Venere in amorosi sensi con un giovane Ruggeri 1996). Unici elementi assonanti con il mitico Bacco che le offre un grappolo d’uva, mentre un nano personaggio sono la prestanza fisica e il volto barbato. elegantemente abbigliato invita entrambi a dedicarsi Più verosimilmente si tratta della personificazione al gioco delle carte. Altre tele più piccole raffigurano: dell’Onore, «bello, vestito di porpora e coronato d’al- un amorino intento a versare del vino in una conchi- loro», che, circondato e sostenuto dalle virtù della glia, attributi rispettivamente di Dioniso e Afrodite e Prudenza con specchio e serpente, dell’Eloquenza con latori di una velata allusione sessuale; altri due scher- il libro e della Temperanza con la clessidra, accompa- zano con un caprone a sua volta simbolo di lascivia; gnate dalla Cognizione con il cuore in mano e dalla due giocano con un uccellino e un mantello; mentre Fama con la tromba, viene accolto dalla Gloria «ve- in due riquadri degli eroti sono intenti a riempire e stita d’oro, tutta risplendente» assisa su un trono di trasportare sacchi di monete d’oro e d’argento; un ul- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE teriore dipinto coglie una Venere neotizianesca ripresa compagnate da due amorini, stanno insaccando mo- di spalle insieme al figliolo. Questi vizi, per quanto in- nete raccolte da un forziere, un vero tesoro rinvenuto vitanti e piacevoli, sono da rifuggire, come da aborrire nel ventre della terra. A sinistra la Diligenza con gli è lo sperpero sconsiderato del denaro per soddisfarli. speroni in mano fa da trait d’union con il successivo Nella parte più articolata del fregio sono rappresen- scomparto dove probabilmente la Sollecitudine con la tate invece le virtù della Prudenza, della Temperanza e facella accesa insieme a un’altra figura indica, nel ri- forse della Fortezza che persuadono l’Avarizia a cedere quadro posto sull’altra parete, alla Liberalità di di- la borsa di denaro che tiene «legata e stretta» (Ripa spensare ai bisognosi i denari, che in gran quantità di 1645). La lussuria è qui impersonata da Venere e Eros sacchi le vengono recati da uomini di fatica. assopiti, completamente ebbri per il vino consumato Onorabile è allora colui che abbia saputo far saggio da un fiasco che si scorge accanto. Il lontananza, sulla uso delle proprie sostanze, come Vincenzo Fini che di- destra, tre figure femminili non ben identificabili, ac- chiarava di essere diventato ricco per aver «convertito VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE IN ALTO, Pietro Liberi, La Liberalità dispensa il denaro ai bisognosi, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, fregio della parete. IN BASSO, Pietro Liberi, La Sollecitudine, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, fregio della parete. PAG. 156, Pietro Liberi, La Liberalità dispensa il denaro ai bisognosi, particolare, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, fregio della parete. PAG. 157, Pietro Liberi, L’Onore accolto in cielo dalla Gloria, particolare, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, soffitto. 155 IN ALTO, Pietro Liberi, Bacco, Venere e il Gioco, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, fregio della parete. IN BASSO, Pietro Liberi, Le Virtù persuadono l’Avarizia a cedere il denaro, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande, fregio della parete. in oro» il sudore della sua fronte (Gaier 2002). Se in rosi titoli dedicati a quest’arte esoterica (De Kunert qualche misura il giovane nerboruto dipinto sul sof- 1931; Ton 2008); non solo, egli era in strettissimi rap- fitto da Pietro Liberi può richiamare anche la vicenda porti con il «negromante» e rosacroce Federico di Ercole giunto all’immortalità, trasfigurato dopo Gualdo – che, ricordiamo, per la sua capacità di far lunghe e tormentose fatiche sul rogo acceso dall’eroe fruttare le miniere era ricercato da illustri famiglie ve- stesso sul monte Oeta, così era potuto accadere a un neziane – verso il quale si era obbligato «d’esserli ‘uomo nuovo’ come Fini che da semplice cittadino di buono e fedele suddito» lasciandogli in pegno anche origine candiota divenne, per le sue virtù e con note- una ciocca di capelli (ASVE, S.F., b. 119). Il suo inte- vole esborso di denaro, patrizio veneto e procuratore resse quindi non si era fermato a un ambito pura- di San Marco. Questi è allegoricamente equiparato mente teorico, ma si era spinto fino all’applicazione all’Onore-Ercole, che tra nubi corrusche e cupi ba- pratica. Nel 1677 Liberi, come un Mariano Fortuny gliori si accende, nel crogiolo di se stesso, del colore ante litteram, aveva anche «inventato» un procedi- del fuoco, l’elemento più puro e più nobile identifi- mento «in cognito» e «secreto» per produrre «tele co- cato con l’oro del processo alchemico. Il miracolo è al- lorate all’uso persiano e di Soria [Siria]», e ottenuto lora accaduto, si è voluto provare che dalla materia dal Senato il privilegio ventennale per l’esclusiva più bruta si può trarre il metallo più fino, dal vile (ASVE, P.C., b. 7). Il pittore era noto ai contemporanei piombo il prezioso oro, dalla condizione ‘plebea’ la per la sua ricchezza: veniva definito «un toco d’oro» nobiltà (Rugolo 1997). e paragonato a una speciale calamita, che invece di La predilezione di Liberi per l’alchimia è peraltro attestata dalla presenza nella sua biblioteca di nume- 158 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA, attirare «el fero» attraeva i «cecchini [zecchini]» (Boschini 1640). SENSUALITÀ E BIZZARRIE DAL TRIONFO DI VENEZIA DI NICOLÒ BAMBINI AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA DI GIAMBATTISTA TIEPOLO NICOLÒ BAMBINI A CA’ PESARO destino di una delle più importanti famiglie veneziane con quello ancor più grande e mitico della Repubblica: e per i contenuti e per la forma, proponendo Nel 1676 il procuratore di San Marco Leonardo Pesaro, nipote del defunto doge Giovanni, dava mo- una tipologia decorativa che nella sua ricchezza stra di «ingegno superiore» e «grandezza dell’animo» echeggia i soffitti cinquecenteschi, ma già classici, di (Ivanovich 1688), allestendo nell’incompiuto palazzo Veronese a Palazzo Ducale. di famiglia sul Canal Grande a San Stae una superba festa in occasione di un duplice evento: la visita del LOUIS DORIGNY A CA’ TRON nunzio apostolico e il matrimonio della figlia Elena con Pietro Contarini. Il «sontuoso lavoro» di Bal- Tra il 1680 e il 1681 Baldassare Longhena, veniva dassare Longhena per questo monumentale edificio coinvolto nel cantiere per l’ampliamento della cin- si protrasse per lungo tempo, e a quella data era quecentesca dimora dei Tron a San Stae sul Canal «avanzato solamente» per la facciata verso il canale Grande. A questa campagna seguì, intorno al 1685, dove si potevano già ammirare «le fondamenta l’incarico per i dipinti del portego del piano nobile adornate di teste chimeriche di diversi animali» (cit. in Frank 2004). A FIANCO, Louis Dorigny, Caino uccide Abele, Ca’ Tron, portego del piano nobile. Nicolò Bambini allievo di Sebastiano Mazzoni e, a Roma, di Carlo Maratta, dal quale apprese l’accuratezza nel disegno e l’eleganza delle forme, dipinse nel 1682 sul soffitto di una sala d’angolo del palazzo alcune tele innestate in un’articolata struttura impreziosita da rigogliosi intagli lignei. Nell’ovale al centro della composizione con il Trionfo di Venezia si staglia la figura dell’inclita Dominante, di una bellezza classica ispirata ai modelli tizianeschi e veronesiani filtrati dall’esempio di Pietro Liberi. Nel legno della cornice, sul lato corto del soffitto, sono scolpiti turchi soggiogati e incatenati, mentre la Fama che regge il corno dogale s’accampa sullo stemma gentilizio della casata che è replicato due volte e congiunge le tele che raffigurano la Prudenza e la Fortezza con lo scomparto centrale. Nel complesso, il felice connubio tra scultura e pittura, forse con la sapiente regia di Longhena, riesce a legare indissolubilmente, per l’ennesima volta, il VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 159 PAGINA A FIANCO, Nicolò Bambini, Trionfo di Venezia, Ca’ Pesaro, sala d’angolo sul Canal Grande, soffitto. A FIANCO, Louis Dorigny, Abramo e i tre angeli, Ca’ Tron, portego del piano nobile. che venne affidato al francese, naturalizzato veneziano, Louis Dorigny, un artista noto per il suo virtuosismo (Favilla-Rugolo 2003b). L’abilità nello scorciare le figure e nel dosare le luci e le ombre, la padronanza della scienza prospettica, la perfezione nel disegno, lo «style héroïque & sublime», il potersi fregiare del titolo di Peintre du Roi (di Luigi XIV), l’aver soggiornato a Roma frequentando l’Accademia di San Luca e, non ultimo, l’essere nipote di Simon Vouet e allievo di Charles Le Brun resero Dorigny ricercato, nell’ultimo quarto del Seicento, dai patrizi veneziani e della terraferma (Dal Pozzo 1718; Dézallier D’Argenville 1762). È necessario sottolinerae che la commissione a un unico artista per un intero ciclo su tela è cosa assai rara all’epoca nel panorama veneziano. I quindici dipinti disposti lungo le pareti del portego di Ca’ Tron e raffiguranti episodi del Vecchio Testamento sono legati a un importante evento per la famiglia, ovvero la nascita, il 21 settembre 1685, dopo ben sei anni di infecondo matrimonio tra Andrea Tron e Gracimana Priuli, del primogenito maschio Nicolò. I soggetti, tratti dalla Genesi, si possono infatti ricondurre alla continuità di una dinastia nel segno della generazione e della figliolanza. Nelle tele, ora bisognose di restauro, risaltano la materia pittorica grassa, le tona- sarà tesaurizzato dalle successive generazioni artisti- lità calde dei colori, la definizione dei contorni nei che dei Ricci, dei Pellegrini e dei Tiepolo. contrasti luministici. Una luce radente costruisce le masse dei corpi, temperata dalle morbidezze di una I LUNETTONI DI SAN ZACCARIA pennellata di tocco. Numerosi sono gli apporti della cultura figurativa contemporanea, romana e non D’intento nettamente celebrativo legato all’«historia meno veneziana. Impressionano le citazioni dal Cin- della fondatione» del vetusto monastero benedettino, quecento. Ritroviamo il Raffaello (e gli allievi) delle femminile, di San Zaccaria sono i lunettoni che ornano Logge Vaticane nella Separazione del Caos, il Tiziano del San Pietro Martire, già ai Santi Giovanni e Paolo, le pareti delle navate laterali dell’omonima chiesa; teleri nel Caino che uccide Abele, visto con gli occhi di Carl monumentali affollati di personaggi che si accalcano in Loth e Antonio Zanchi. Negli Angeli che appaiono ad primo piano. L’esecuzione di questo ciclo era già avviata Abramo e nel Sacrifico di Isacco, per la grazia e la le- alla fine del 1683 (Martinelli 1684), quando compari- vità dei personaggi, Dorigny sembra anticipare il Ba- vano in situ le due tele di Andrea Celesti con Il doge Giu- rocchetto, configurandosi quale prezioso esempio che stiniano Partecipazio e l’imperatore Leone V l’Armeno VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 161 Andrea Celesti, Il doge Giustiniano Partecipazio e l’imperatore Leone V l’Armeno ricevono dall’oriente il corpo di san Zaccaria, Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra. che ricevono dall’oriente il corpo di san Zaccaria e con tura veneziana, evocando negli scorci più arditi delle La visita di papa Benedetto III al monastero nell’855, in- figure, in particolare nel corpo ignudo del santo, il sieme a quella di Antonio Zanchi con Il trasferimento fantasma di Jacopo Tintoretto, stabilendo una linea dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dalla vecchia alla di continuità che ha la sua origine nel Cristo morto di nuova chiesa. Più tardi, ma completati entro i primis- Mantegna, ora a Brera. Ricordiamo che nel potente e ricco monastero di simi anni del Settecento sono invece i dipinti di Daniel Heintz, Il doge Pietro Lando assiste alla consacrazione San Zaccaria erano accolte le figlie delle più impor- della chiesa nel 1543, di Giovanni Antonio Fumiani, La tanti casate veneziane. L’artista con tutta probabilità visita dell’imperatore Ottone III alla chiesa nell’anno venne ispirato dalla committenza a celebrare, attra- 1001, e di Giovanni Antonio Zonca, La visita pasquale verso le glorie del monastero, anche le glorie dello del doge alla chiesa (Bertoli-Perissa 1994). Stato: nel primo telero a sinistra campeggia, solenne e bardata dei più sontuosi broccati, ermellino e Andrea Celesti si distingue per una pittura mate- 162 rica e al contempo smaltata, accesa di riflessi dorati corno dogale compresi, la stessa personificazione dalla consistenza filante, ove emerge il migliore inse- della Repubblica. Attorniata dalle virtù, reca in gnamento di Sebastiano Mazzoni, con un risultato grembo il modellino della chiesa. Le fa da contral- finale di «incredibile felicità e bell’effetto di tene- tare sulla destra il doge, anch’esso onusto delle inse- rezza» (Zanetti 1771). «Una fiumana spumosa e iri- gne proprie del rango e affiancato dai senatori tutti descente: fragola, lampone, arancio, azzurro vestiti di porpora. Questi accoglie con condiscen- cangiante in rosa, il tutto temperato dal nivore dei denza, dall’alto del suo trono e a capo coperto, l’im- bianchi» (Ivanoff 1967). Celesti nel primo lunettone peratore romano d’Oriente privo di corona e paga altresì il debito verso il secolo d’oro della pit- accompagnato da un giovane dalla bionda e fluente VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA IN ALTO, Andrea Celesti, La visita di papa Benedetto III al monastero nell’855, Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra. IN BASSO, Antonio Zanchi, Il trasferimento dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dalla vecchia alla nuova chiesa, chiesa di San Zaccaria, navata sinistra. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 163 Andrea Celesti, Il doge Giustiniano Partecipazio e l’imperatore Leone V l’Armeno che ricevono dall’oriente il corpo di san Zaccaria, particolare, Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra. chioma, avvolto in principeschi mantelli, forse il fu- polano, mentre più di un personaggio non resiste alla turo doge Giovanni Partecipazio. tentazione di rivolgere il viso verso lo spettatore e Dal lato opposto Giovanni Antonio Zonca ci ri- ‘guardare in macchina’. Un brano di vita veneziana porta sulla terra, lasciando una galleria di vivide effigi. che comprende la badessa con le monache inquadrate I protagonisti sono immortalati, come in una ordinata dietro la grata del parlatorio. Quasi un Pietro Longhi foto di gruppo, in occasione dell’annuale visita del ante litteram, ma senza la sua ironia. doge al monastero. Dal dipinto si può apprezzare la 164 Antonio Zanchi invece replica l’interno della specializzazione di Zonca nel genere del ritratto (De- chiesa con una magistrale precisione prospettica nel lorenzi 2009). La lunetta diventa quindi l’occasione delineare l’architettura quattrocentesca dell’abside ove per squadernare uno dei più interessanti repertori fi- si svolge la scena della traslazione, avvenuta nel 1628, siognomici del tempo, che va dall’aristocratico al po- dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dall’antica alla VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA nuova chiesa. Abilissimo nell’articolare composizioni damaschi; in primo piano un delicato giovinetto dalla affastellate di personaggi, Zanchi dipana l’ordinato gorgiera inamidata pizzica con soavità le corde di un corteo processionale facendo emergere i due baldac- arciliuto. In basso compunti senatori, una devota chini, ma ponendo quello di san Pancrazio al centro e dama e diaconi indaffarati sembrano strisciare come in tralice nel momento in cui viene sollevato in modo lumaconi sul bordo della cornice. La scena è chiusa scomposto per salire i gradini. Si tratta dell’unica, stu- sulla sinistra da un’inquieta figura muliebre dal man- diata, nota dissonante nell’armonia musicale dell’in- tello scarlatto e, sulla destra, da due gravi e pensierosi sieme. Armonia che si coglie nella scansione perfetta patrizi dalle vesti sovrabbondanti, ‘scolpite’ dal pen- dello spazio e delle figure che lo abitano e che viene nello di Zanchi che qui sembra voler emulare la ribadita dai coristi e dai musici che si assiepano in alto grande maniera di Tiziano. a sinistra in una provvisoria cantoria rivestita di rossi VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA Antonio Zanchi, Il trasferimento dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dalla vecchia alla nuova chiesa, particolare, Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra. Infine, Giovanni Antonio Fumiani, con la conseuta AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 165 Daniel Heintz, Il doge Pietro Lando assiste alla consacrazione della chiesa nel 1543, Chiesa di San Zaccaria, navata destra. capacità di impalcare scene di marcato sapore verone- di San Giovanni Decollato, insieme a Orfeo punito siano sottolineate da scenografici e misuratissimi arti- dalle baccanti di Gregorio Lazzarini e Ercole e Onfale fici prospettici, indugia in accattivanti dettagli di Antonio Bellucci; tutte opere oggi conservate a Ca’ naturalistici disposti in primo piano; valga per tutti la Rezzonico (Craievich 2005). Tuttavia, il prestigio raggiunto dal trentenne Moli- vecchia venditrice neotizianesca, vestita di colori trasparenti e acidi, che sta offrendo un bussolà a una nari si misura anche da una nuova scoperta archivi- bambina. stica che permette di assegnare al pittore una parte delle Storie della Vergine, situate sulla parete e sulla ANTONIO MOLINARI NEI MOSAICI DI SAN MARCO volta del transetto sud di San Marco, sopra la porta del Tesoro e del battistero; queste erano finora attribuite a Giovanni Antonio Fumiani (San Marco 1991). Ai primi anni ottanta del Seicento, Antonio Moli- 166 I procuratori di San Marco de supra, cui spettava nari faceva il suo ingresso, preceduto dal maestro An- l’amministrazione della basilica, l’11 febbraio 1683 tonio Zanchi, nel sacro scrigno bizantino della basilica (1682 more veneto) compensavano «Antonio Molinari di San Marco. Artista dal genio «vigoroso e originale» pittor per haver fatto un quadro, serve per modello di (Zanetti 1771), questi si era emancipato dalla pittura mosaico sopra la porta del battistero» (ASVE, P.S.M., tenebrosa di Zanchi elaborando un’efficace sintesi tra reg. 16). Successivamente, il 3 aprile dello stesso anno, tensione barocca e misura classicista. Il suo stile ben si veniva saldato per «san Gioacchino e sant’Anna al apprezza nel dipinto di felicissima ispirazione giorda- tempio» e il 9 settembre 1685 per «un quadro fatto nesca raffigurante la Lotta dei centauri con i Lapiti rea- per li mosaici della Natività della Beata Vergine con fi- lizzato, verso la fine degli anni novanta, per i Correr gure 19 1/2, tra intere, meze, teste et architettura, a VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA IN ALTO, Giovanni Antonio Fumiani, La visita dell’imperatore Ottone III alla chiesa nell’anno 1001, Chiesa di San Zaccaria, navata destra. IN BASSO, Giovanni Antonio Zonca, La visita pasquale del doge alla chiesa, Chiesa di San Zaccaria, navata destra. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 167 A FIANCO E PAG. 170, Giovanni Antonio Zonca, La visita pasquale del doge alla chiesa, particolari, chiesa di San Zaccaria, navata destra. PAG. 171, Giovanni Antonio Fumiani, La visita dell’imperatore Ottone III alla chiesa nell’anno 1001, particolare, Chiesa di San Zaccaria, navata destra. 169 Domenico Cigola su modello di Antonio Molinari, Presentazione di Maria al tempio, Basilica di San Marco, transetto ovest. ducati cinque per figura» (ASVE, P.S.M., reg. 17). Sei in orizzontale tutta la scena: un’impostazione neove- anni più tardi, il 9 aprile 1691, Antonio riceveva no- ronesiana nella quale prevale, ovviamente, il fondo vantadue ducati «per haver fatto il dissegno della sto- oro, senza che ciò pregiudichi la resa plastica delle fi- ria di Maria sempre Vergine quando si presenta al gure, con un risultato di semplicità e di chiarezza Tempio, opera che rimane nella maestà del vòlto» compositiva. L’archetipo iconografico degli antichi sopra la porta «che si va in tesoro». Le ultime due mosaici marciani, e in particolare quello del portale di composizioni furono tradotte dal mosaicista Dome- Sant’Alipio, sarebbe riaffiorato a fine secolo, come no- nico Cigola che appose la sua firma e la data su en- tava Adriano Mariuz, nel telero con La traslazione del trambe (San Marco 1691). Il primo mosaico fu corpo di san Marco della parrocchiale di Crespano del completato nel 1690 e il secondo l’anno successivo. È Grappa nel trevigiano. Un’eredità raccolta nel 1728 in particolar modo nella Presentazione al tempio, sulla anche da Sebastiano Ricci che, proprio per l’arcata del cui superficie si aprono ben tre finestre, che si può ap- secondo portale da sinistra contiguo a quello di prezzare l’abilità di Molinari. Grazie alla sua «sorgiva Sant’Alipio, approntava una smagliante Venerazione vivacità d’invenzione» (Mariuz 1982a) egli risolve e al del corpo di san Marco (Daniels 1976). contempo sfrutta il limite posto dalle tre aperture, Molinari moriva il 3 febbraio 1704 e la Pallade Ve- unificando lo spazio con una scalinata che attraversa 172 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA neta gli dedicava un necrologio: «Il signor Antonio AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA Molinari d’anni 51 celebre competitore della natura a seguito della canonizzazione di Giustiniani, comple- nel delineamento delle tele ha cessato alla necessità de’ tano l’allestimento della cappella maggiore dedicata al fati che vogliono mortali gl’huomini, benchè immor- nuovo santo protettore dei destini della Repubblica. Leopoldo dal Pozzo su modello di Sebastiano Ricci, La Signoria veneziana venera il corpo di san Marco, Basilica di San Marco, facciata, secondo arcone. Gregorio Lazzarini, guadagnandosi il plauso dal tale l’habbino reso le tante di lui opere esposte in molte basiliche» (BNMVE, Mss. It., VII, 1834). principe dell’Accademia romana di San Luca Carlo Maratta, si inserì in quel movimento vocato alla ‘nor- GREGORIO LAZZARINI E ANTONIO BELLUCCI PER SAN LORENZO GIUSTINIANI malizzazione’ dell’iperbole barocca che vuole la perfezione del disegno contrapposta o quanto meno superiore al «colore» della scuola veneziana (Lucco Legate alla celebrazione pubblica del primo pa- 2001). La sua produzione da cavalletto fu ricercata in triarca di Venezia sono l’Elemosina di san Lorenzo Italia e all’estero per l’originale invenzione composi- Giustiniani, di Gregorio Lazzarini, e il Voto del doge tiva, come nell’Elemosina dove l’artista volle inserire il Nicolò Contarini al beato Lorenzo Giustiniani per la proprio ritratto tra la folla che osserva il santo mentre cessazione della peste, di Antonio Bellucci, collocate nel con gesto magnanimo gratifica i bisognosi (da Canal presbiterio dell’allora cattedrale di San Pietro di Ca- 1809). Possiamo oggi riconoscere la sua effigie stabi- stello. Teleri di grande respiro, posti in opera nel 1691 lendo un confronto con l’Autoritratto giovanile, con- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 173 servato presso l’Accademia Carrara di Bergamo, che 1676, aveva «dimorato a Sebenico» insieme al nobi- pare quasi ritagliato dal telero. È l’Elemosina un’opera luomo Angelo Emo (ASPVE, E.M. reg. 91), ove coltivò il intessuta in una trama prospettica che rammenta suo talento sotto la direzione dello sconosciuto pittore Paolo Veronese, ma temperata da una compostezza at- dalmata Domenico Difnico (da Canal 1809; Magani tinta da Padovanino (Pallucchini 1981). Il santo si 1995). Rientrato a Venezia all’età di 22 anni, riuscì ben erge imperturbabile, luminoso, sulla scalea che con- presto ad affermarsi, per passare poi a Vienna, presso duce verso un palazzo di sobria, classica architettura, diverse corti tedesche e a Londra. Infine, dopo lungo attorniato da questuanti. Lazzarini nel dipingere i mi- peregrinare per l’Europa, ritornò in patria e si ritirò a serabili che s’affollano attorno a Giustiniani manifesta Soligo, nel trevigiano, dove morì nel 1726. Il pittore un naturalismo privo di enfasi, smorzando gli accenti anima il Voto del doge Nicolò Contarini di accordi cro- in senso accademico. L’intera composizione è trattata matici accesi e brillanti, definendo i volumi con un di- con una maniera «naturale e non furiosa, soda e ben segno nitido e disponendo armoniosamente le masse intesa nell’ombre» (da Canal 1809). tra le architetture monumentali. Un’ariosa loggia in Il Voto del doge Nicolò Contarini al beato Lorenzo ombra separa lo spazio in primo piano, abitato dalle Giustiniani, di Antonio Bellucci, è invece il frutto della comparse, rispetto a un’immaginaria navata pervasa maturità di un artista che in gioventù, tra il 1668 e il di luce, nella quale si scorge un sontuoso altare lon- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA PAGINA A FIANCO IN ALTO, Antonio Molinari, Lotta dei centauri con i Lapiti, Ca’ Rezzonico. PAGINA A FIANCO IN BASSO, Gregorio Lazzarini, Orfeo punito dalle baccanti, Ca’ Rezzonico. IN ALTO A SINISTRA, Gregorio Lazzarini, Elemosina di san Lorenzo Giustiniani, particolare con l’autoritratto dell’artista, Chiesa, già cattedrale, di San Pietro di Castello. IN ALTO A DESTRA, Gregorio Lazzarini, Autoritratto, Bergamo, Accademia Carrara. 175 PAGINA A FIANCO E IN ALTO, Gregorio Lazzarini, Elemosina di san Lorenzo Giustiniani, intero e particolari, Chiesa, già cattedrale, di San Pietro di Castello. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 177 IN ALTO E PAGINA A FIANCO, Antonio Bellucci, Voto del doge Nicolò Contarini al beato Lorenzo Giustiniani per la cessazione della peste, intero e particolare, Chiesa, già cattedrale, di San Pietro di Castello. gheniano ospitante una pala con la personificazione tratta di un culto di Stato inscritto in un processo che della Repubblica inginocchiata di fronte al Padre esalta la valenza ‘nazionale’ della religione (cfr. Roca Eterno, quasi un richiamo della tela con Venezia che fa De Amicis 2008a). Anche se queste erano le intenzioni il voto a sant’Antonio da Padova per la cessazione della della committenza, Bellucci restituisce l’evento con guerra di Candia, che Pietro Liberi aveva dipinto nel una percezione distaccata e storicizzata; oramai la 1652 per la basilica della Salute. «Il lume che sbatte e peste è un ricordo lontano; sullo sfondo di una Vene- rischiara in controluce» giunge come un’eco del gusto zia assolata si materializza su un ponte il passaggio di tenebroso di Antonio Zanchi (Pallucchini 1981): in un mesto funerale; lontane sono anche le dolorose particolare nel gruppo che sulla destra circonda la ca- sconfitte di Candia, poiché i primi successi di France- daverica Peste, colpita dall’asta del vessillo di san sco Morosini in Morea gettano una nuova positiva Marco e al contempo sferzata per impedirle di mietere luce sulle illusioni di un futuro ancora glorioso per la nuove vittime. Repubblica. Mentre il primo telero descrive un episodio della vita del santo avvenuto nel XV secolo, questo, che è l’ultimo del ciclo della cattedrale, illustra l’ennesima tappa, la più clamorosa, la più alta e ridondante nella costruzione del mito di Giustiniani, quando interviene nel 1630 per salvare la città e l’intera patria. Si 178 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA AMPLIFICARE LO SPAZIO: FRESCANTI E QUADRATURISTI A VENEZIA conda metà del secolo, almeno per i vani chiesastici: prima il lucchese Pietro Ricchi nel chiostro dei Santi Giovanni e Paolo e a San Giuseppe di Castello in compagnia del quadraturista bolognese Pietro Antonio Venezia, pur rimanendo ancora nel Seicento una città variopinta per le sue facciate affrescate, durante Torri, poi il romano (allievo di Pietro da Cortona) Gi- buona parte del secolo continuerà a preferire per gli rolamo Pellegrini nella volta del presbiterio e nel ca- ambienti interni le tele o i «cuori d’oro» (cuoi incisi e tino absidale di San Pietro di Castello, nell’abside di dorati). Volendo prestar fede alle parole pronunciate San Zaccaria, nella cappella Sagredo a San Francesco nel 1692 dal mercante napoletano Simon Giogalli, re- della Vigna e nella cupola dei Santi Cosma e Damiano ferente sulla piazza veneziana di Luca Giordano, nella alla Giudecca (Magani 2001). A San Lazzaro dei Men- città lagunare i pittori, «che ad oglio possino passar dicanti il soffitto era lavorato «a fresco con vaghissima per buoni virtuosi», a fresco «sono rediculosi, infatti architettura opera di Faustin Moretti bresciano con le poco si usa qui un tal dipingere, perché per il salso figure del cavalier Liberi» (Doglioni 1675); a San Mar- non tengono le calcine» (cit. in Ravelli 1988). Tale te- tino di Castello si poteva ammirare «la volta della sa- stimonianza – condizionata invero dall’interesse di grestia» decorata «a fresco con bellissima architettura promuovere l’abilità dei frescanti della scuola parte- di Simone Guglielmi da Piove [di Sacco] e le figure di nopea – non va ad ogni buon conto sopravvalutata, se Antonio Zanchi», mentre Domenico Bruni e Giacomo teniamo in considerazione la rinnovata fortuna che Pedrali, ancora due bresciani, avevano operato sul questa tipologia riscontrava giusto a Venezia nella se- cielo della navata. Pitture murarie si stendevano agli VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA IN ALTO E PAGINA A FIANCO, Girolamo Pellegrini, Apoteosi di san Lorenzo Giustiniani, intero e particolare, Chiesa, già cattedrale, di San Pietro di Castello, catino absidale. PAGG. 182-183, Pietro Ricchi e Pietro Antonio Torri, Soffitto della chiesa di San Giuseppe di Castello, intero e particolare. PAGG. 183-184, Nicolò Bambini, Antonio Felice Ferrari e Girolamo Mengozzi Colonna, Apoteosi di Venezia, Ca’ Dolfin, volta del salone. 181 Ognissanti da parte di Agostino Litterini e a San Luca per mano di Domenico Bruni (Flores d’Arcais 2001); così come nel 1675 la chiesa di San Silvestro da poco rifabbricata attendeva di vedere il vasto soffitto «dipinto a fresco con altri ornamenti» (Doglioni 1675). Per questo incarico si sarebbe scelto, nel 1682, il giovane Louis Dorigny da poco giunto nelle lagune dopo un proficuo soggiorno nell’Italia centrale. I soffitti di chiese e palazzi erano in molti casi caratterizzati dalla compresenza di figure e architetture effimere, quest’ultime dipinte da artisti specializzati. Tale stratagemma, di chiara derivazione teatrale, veniva utilizzato per amplificare virtualmente lo spazio architettonico. A partire dagli anni sessanta del Seicento farà la sua comparsa nei domini della Repubblica la quadratura bolognese, più articolata e ricca di commistioni con elementi vegetali e floreali di quella già in uso di matrice bresciana, che si distingueva per una scansione serrata e regolare delle membrature. La scuola bolognese si affermò con successo avendo come protagonisti principali Pietro Antonio Cerva, Pietro Antonio Torri, Antonio Felice Ferrari e Ferdinando Fochi, giungendo infine, nei primi decenni del nuovo secolo, agli esiti del ferrarese Girolamo Mengozzi Colonna, che diverrà il geniale collaboratore di Giambattista Tiepolo. A Pietro Antonio Torri spetta la «maestrevole architettura» illusoria del soffitto della chiesa di San Giuseppe di Castello, mentre le gigantesche figure sono opera di Pietro Ricchi (Martinelli 1684). L’affresco, della fine degli anni sessanta del Seicento, presenta una divisone della volta in tre scomparti, sostenuti da effimere colonne, che segnano gli episodi con l’Apoteosi di San Giuseppe nel riquadro centrale e Santa Monica e Sant’Agostino negli ottagoni laterali. Torri intende raddoppiare in altezza il vano della navata e lo fa proponendo un finto soffitto a cassettoni neocinquecenteschi. Ciò è sottolineato dalla presenza delle mensoline dipinte che contornano le cornici degli ottagoni, simili anche nella parte figurativa al lacunare Giovanni Antonio Fumiani, Martirio e glorificazione di san Pantaleone, Chiesa di San Pantalon, soffitto. 186 dell’antisala della Libreria Marciana che ospita la Sa- più miracoli che quadri» (Fabri 1690). Il soffitto di pienza di Tiziano. tela più vasto del mondo non era ancora iniziato nel 1697 (Pacifico 1697) e appariva a buon punto nell’ot- Il frutto più maturo e spettacolare della quadratura di gusto bolognese lo troveremo oltre trent’anni più tobre del 1706, quando era stato scoperto, «benchè tardi a Ca’ Zenobio, a opera di Louis Dorigny, e, in non sia finito», su richiesta di Teresa Cunegonda So- una versione inconsueta per Venezia, nel salone di Ca’ bieska, elettrice di Baviera di passaggio a Venezia (cit. Dolfin a San Pantalon fra il 1711 e il 1715. In quel in Zava Boccazzi 1990). La principessa «assai inten- contesto Nicolò Bambini, ma in particolar modo il dente di pittura» era rimasta colpita e «molto con- quadraturista Antonio Felice Ferrari, coadiuvato dal tenta» dello spettacolo, e «tutta la nobiltà» aveva giovane allievo Girolamo Mengozzi Colonna, ridus- manifestato soddisfazione tanto da richiedere che sero «il finto ad una grande emulazione del vero» (Ba- l’opera rimanesse in vista per otto giorni. ruffaldi 1846; Favilla-Rugolo 2008g). Si tratta di un La lunga vicenda esecutiva, conclusasi entro il eloquente manifesto che esalta le virtù della famiglia 1710, anno di morte del pittore, ricalca la travagliata Dolfin distintasi sullo scorcio del Seicento in campo rifabbrica dell’edificio alla quale partecipò anche Bal- politico, militare e letterario. L’Apoteosi di Venezia dassare Longhena. Il cantiere si era aperto nel 1667 squadernata sulla volta del salone con un multiforme con la posa della prima pietra e veniva bloccato nel repertorio figurativo è inscritta in un’illusoria, son- 1671 «per il veleno interamente vomitato dal demo- tuosa loggia di marmo rosa, movimentata da balcon- nio», a causa dei dissidi accorsi fra il pievano e la cini flessuosi aperti su gonfie balaustre, dietro le quali Scuola del Santissimo Sacramento cui spettava l’am- si scorgono candide statue annicchiate e ritratti di ministrazione dell’omonima cappella (Frank 2004). personaggi della casata, tratteggiati a monocromo e Nel 1684 era stata edificata soltanto «la capella mag- incastonati entro dorate cornici ovali. Mentre nel deli- giore con una sol ala di chiesa» (cit. in Favilla-Rugolo neare le figure Bambini rivolge lo sguardo alle recenti 2004-05). Ancora nel 1697 si era da poco conclusa la felicissime tele di Sebastiano Ricci sullo scalone di Pa- navata, mentre si andavano «fabbricando gli altari», e lazzo Mocenigo a San Samuele (ora a Berlino, Staatli- solamente la cappella di San Pantaleone era ornata che Museen), nell’impaginare la vastità del cielo «con pitture molto ben compartite dipinte da Antonio aperto rammenta invece la grande maniera di Pietro Fumiani» (Pacifico 1697). Possiamo dunque immagi- da Cortona. Nell’Apoteosi di Venezia pubblico e pri- nare che intorno a questa data l’artista si mettesse vato coincidono ancora una volta nei contenuti: le all’opera nella vasta impresa, finché «al presente anno sorti e la gloria della famiglia sono indissolubilmente 1704» la chiesa appariva «quasi ridotta a perfetione in legate a quelle dello Stato. buona struttura e dissegno con 7 altari tra quali alcuni» adornati «con finissimi marmi»; al contempo LA TELA PIÙ GRANDE DEL MONDO: GIOVANNI ANTONIO FUMIANI A SAN PANTALON «il soffitto tutto si rinnova dal suddetto Fumiani» (Martinelli 1705). La partecipazione all’allestimento di scenografie per drammi in musica, in particolare nel teatro ducale Uno straordinario effetto teatrale si sprigiona dal di Piacenza nel 1669 (Mancini-Muraro-Povoledo Martirio e glorificazione di san Pantalon, che riveste 1995), e l’insegnamento del suo maestro Domenico l’intera volta dell’omonima chiesa, dipinto da Gio- degli Ambrogi, frequentato a Bologna in giovanissima vanni Antonio Fumiani, «mano felice nata a disegnar età, consentono a Fumiani di approntare una ‘mac- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 187 188 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA LE MOLTE MANIERE DI DIPINGERE china’ che sarà definita persino «inutile» (Longhi 1946). Si tratta in realtà di un magnifico apparato da fruire come una perpetua sacra rappresentazione, che vede Arduo sarebbe voler fissare rigide barriere tra le di- come protagonista Pantaleone, medico nicomediese, verse correnti che convivevano a Venezia nell’ultimo martire sotto l’imperatore Diocleziano. Sull’enorme sof- quarto del Seicento, utilizzando categorie mentali date fitto, fra la moltitudine di figure, in corrispondenza a posteriori. Non c’è ragione infatti di immaginare una dell’altar maggiore si staglia il santo in piedi al vertice di spiccata preferenza dei committenti, a cavallo dei due un’erta scalinata sospesa sul precipizio, esibendosi ai secoli, verso il nascente Barocchetto a scapito del clas- suoi carnefici in attesa del martirio mentre contempla sicismo di stampo marattesco. E se è impossibile ri- imperturbabile innanzi a sé la gloria celeste che lo at- scontrare un’omogeneità tra gli artisti operanti in tende. Si tratta di uno spettacolo allestito dipingendo a questo torno di tempo, poiché vi erano in città «tante terra con lavoro certosino pezzo per pezzo, come se si maniere quanti erano quelli che dipingevano» (Zanetti trattasse di quinte teatrali successivamente poste in 1771; Magani 2001; Craievich 2005), tale varietà era opera; un insieme di tele cucite fra loro come una mae- vista allora come tutt’altro che inconciliabile, e soprat- stosa vela gonfiata da un soffio spirituale più che fisico. tutto era percepita come una ricchezza, un vero e pro- Grazie al trompe-l’oeil delle possenti architetture la volta prio valore aggiunto (Aikema 2006). Ciò è verificabile, del soffitto si spalanca e si trasforma così in una sorta di per esempio, in un contesto pubblico come quello prosecuzione verso l’alto dell’aula sacra che illusionisti- della Scuola Grande della Carità. Nel 1700 il capitolo camente si moltiplica in altezza per perdersi nella lonta- della Scuola decideva di provvedere al rinnovamento nanza infinita dell’empireo inondato di luce. Come in degli apparati decorativi interni (Moretti 1978). Per teatro la sapiente orchestrazione della vera luce, che qui l’occasione, furono indirizzate le richieste ad artisti di- proviene dai finestroni termali, è essenziale per garan- versi per età e stile: Gregorio Lazzarini, Antonio Bale- tire l’effetto d’insieme. Si riconosce nell’immediato il stra, Giovanni Segala, Angelo Trevisani, Giovanni debito verso Paolo Veronese, per i colori a volte diafani, Antonio Fumiani, Sebastiano Ricci e Simone Brentana. a volte luminosi, spesso cangianti, e non mancano poi Conclusa la campagna decorativa, il 3 aprile 1704 il riminiscenze michelangiolesche della Cappella Sistina doge Alvise II Mocenigo si recò in visita alla Scuola e qui reinterpretate con enfasi tutta barocca (Ivanoff «vidde coperto ogni nicchio d’ammirabili pitture de’ 1962). Oltre agli insegnamenti prospettici di Domenico più famosi pennelli del secolo presente» (cit. in Favilla- degli Ambrogi (Rossetti 1996), l’ascendente di Andrea Rugolo 2009). Se una committenza pubblica non ma- Pozzo, che tra il 1691 e il 1694 affrescava la volta di nifestava particolari predilezioni per l’una o per l’altra Sant’Ignazio a Roma, parrebbe palese, considerando tendenza, non v’è ragione di immaginare, d’altro anche che la sua Perspectiva pictorum et architectorum canto, una preferenza dei privati verso le ‘avanguardie’. veniva edita nella stessa città a partire dal 1693. Un esempio a questo proposito è rappresentato dalla Alla fine, per Fumiani San Pantalon diverrà la ‘sua’ giusta miscela di classicismo e Barocchetto profusa agli chiesa, alla quale è consegnata per sempre la fama del inizi del Settecento nei quattro ovali concepiti per una proprio nome. È suo non solo il soffitto della navata, ma sala di palazzo Pisani a Santo Stefano (Marinelli 2003; anche quello della cappella maggiore. Inoltre lascerà Marinelli 2004; Favilla-Rugolo 2005a), ove Dorigny e opere su tela in ben cinque altari laterali su sette, e dopo Balestra, da una parte, e Ricci e Pellegrini, dall’altra, si tante fatiche troverà degno riposo in un sepolcro inca- sfidano in una tenzone nella quale il rigore del disegno stonato nel pavimento della navata. prevale felicemente, senza per questo tarpare le ali ai VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA Giovanni Antonio Fumiani, Martirio e glorificazione di san Pantaleone, particolare, Chiesa di San Pantalon, soffitto. AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 189 cosiddetti coloristi, anzi conferendo loro particolare e Raffaello, Correggio, Annibale Carracci e Andrea Sac- insolito smalto. Nella medesima congiuntura, i Manin chi. Durante il soggiorno romano del 1691-95, «dise- chiedevano dipinti a Nicolò Bambini, Gregorio Lazza- gnò da Raffaele, Carracci, e dall’antico continuamente, rini, Giovanni Segala, Angelo Trevisani, Giannantonio nella loggia de’ Chigi, Stanze Vaticane, Galleria Far- Pellegrini, Sebastiano Ricci e allo stesso Balestra per il nese» (cit. in Ghio-Baccheschi 1989). loro palazzo a Rialto (Frank 1996). Nel 1709 quest’ul- Balestra fu un artista dal genio «allegro prudente- timo veniva chiamato da Gregorio Barbarigo di Santa mente» e dall’«operare amoroso» (Zanetti 1771), ca- Maria del Giglio, insieme a Ricci e Bambini, per realiz- ratteristiche che ritroviamo nella Madonna con il zare un telero «d’un historia di sua eccellentissima Bambino e i santi Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga e casa» da collocarsi nel portego del palazzo dominicale Francesco Borgia, per la chiesa di Santa Maria Assunta affacciato sul Canal Grande. I quadri celebrativi dei dei Gesuiti. L’opera, firmata e datata 1704, riscosse im- fasti della stirpe barbariga andavano ad aggiungersi mediatamente un vasto successo per l’inarrivabile agli altri già in situ, definiti «quadri moderni» e raffi- equilibrio dell’invenzione, il disegno, la «grazia» e la guranti «istorie» della famiglia, opera di Zanchi, Da- «nobiltà». Una grazia suadente e mite contraddistin- niel Heintz, Lazzarini, Molinari, Bellucci, Fumiani e gue infatti le attitudini dei personaggi, definiti da un Celesti, dipinti sullo scorcio del secolo appena passato contorno lindo e preciso rafforzato da una stesura pit- (Favilla-Rugolo c.s.). Artisti vecchi e nuovi, per l’ana- torica soffice tutta giocata su tonalità sobrie ma smal- grafe e per lo stile, si affiancavano dunque, non po- tate. Dall’insieme, perfetto in ogni sua parte, traspare tendo sottrarsi al confronto e, forse, al dialogo. Tant’è una placida, ma intensa vena pietista. In basso a destra che già nel 1690 Dorigny, Zanchi, Loth, Fumiani, CerPAGINA A FIANCO, Antonio Balestra, Madonna con il Bambino e i santi Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga e Francesco Borgia, Chiesa dei Gesuiti. PAGG. 192-193, Antonio Balestra, Adorazione dei pastori, Chiesa di San Zaccaria. è una ‘natura morta’ che evoca appena – nella vanitas velli, Bellucci, Lazzarini e Bambini si erano fatti pro- del teschio e delle insegne regali abbandonate sotto il motori della formazione di una stabile «Accademia dei disco ‘infuocato’ del cappello cardinalizio – un lontano corpi humani» in Venezia e per l’emancipazione defi- e sfumato ricordo: l’angosciosa scoperta della caducità nitiva, quindi, della pittura che fino al 1682 era rimasta delle cose da parte del giovane Francesco Borgia cru- legata all’arte dei «dipintori» (Favaro 1975). damente narrata, quarant’anni prima in pieno tenebri- ANTONIO BALESTRA E IL CLASSICISMO smo, dal pennello di Pietro Vecchia. In tale variegato contesto si inserisce il veronese Zaccaria, la prima di una serie di Natività disseminate Di poco più tarda è l’Adorazione dei pastori per San Antonio Balestra che fin dai suoi esordi sullo scorcio per Venezia. Chiaro appare il debito verso Correggio, del Seicento diverrà, nel solco tracciato da Lazzarini, fulgido esempio filtrato dall’insegnamento di Maratta. l’esponente più rappresentativo della corrente classici- Infatti il disegno è come sempre inarrivabile, il lumini- sta in terra veneta. Discepolo a Venezia di Antonio Bel- smo e la sensibilità coloristica magistrali, la struttura lucci, ebbe come principale modello Carlo Maratta, compositiva equilibrata, le ombre ben dosate, le forme negli ultimi trent’anni del secolo protagonista incon- permeate di una soda, felpata morbidezza. Si percepi- trastato dell’Accademia di San Luca a Roma. Perfe- sce la volontà dell’artista di conseguire una perfezione zione nel disegno, equilibrio nella disposizione delle ideale che non adombra però la dolcezza soave e lieta, masse, eleganza delle forme, grandiosità nel panneg- mai stucchevole, che promana dalla scena. giamento, colorito «grazioso» sono le caratteristiche del suo operare, avendo come principali numi tutelari 190 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 191 192 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 193 A FIANCO, Sebastiano Ricci, Soffitto della chiesa di San Marziale. 194 SEBASTIANO RICCI E IL BAROCCHETTO Un artista che sembra agli antipodi di Balestra – ma che in realtà è da riconoscere come l’altra faccia della stessa medaglia – è invece Sebastiano Ricci. Pittore di fama internazionale, «ricco di doni di benigna natura» (Zanetti, 1771), fu insieme a Giovanni Antonio Pellegrini il promotore dell’orientamento ‘chiarista’ che introdusse nelle lagune, sullo scorcio del Seicento, il gusto rococò secondo l’accezione più propriamente veneziana di Barocchetto. Realizzate a cavallo del secolo, le tele sul soffitto della chiesa di San Marziale (Moretti 1978) raffigurano la Gloria del santo eponimo e due episodi narranti la leggendaria vicenda della statua miracolosa della Vergine, «partita da’ lidi di Rimini» e approdata a Venezia proprio lì, in prossimità della parrocchiale, dove anticamente la città confinava con la laguna nord (Corner 1758). Alla sommità del presbiterio campeggia invece il Padre Eterno con lo Spirito Santo. Le quattro scene sono collocate all’interno di tonde cornici lignee riccamente intagliate che spiccano sulla più chiara superficie dell’intonaco. Qui il «tanto rinomato» Sebastiano Ricci, «singolare per l’idea, diligentissimo nell’attitudine e tanto espressivo nel colorito» (cit. in Selfridge Field 1980) aveva approntato dei quadri «bellissimi» (Martinelli 1705), memore degli scorci arditi e spericolati di Veronese a San Sebastiano. Il cielo virtuale che s’apre negli oculi ritagliati sulla volta si accende di una tersa luminosità. Ciò si coglie in particolare nell’episodio con gli angeli che scolpiscono l’effigie della Madonna. La leggenda descrive di un umile e devoto pastore riminese che nel 1286 avrebbe deciso di modellare in un tronco il simulacro della Vergine, subendo però il boicottaggio del dispettoso demonio che nottetempo ne distruggeva il la- IN ALTO, Sebastiano Ricci, L’arrivo a Venezia della statua miracolosa della Vergine, particolare, Chiesa di San Marziale, soffitto. IN BASSO, La statua miracolosa della Vergine condotta in barca dagli angeli, particolare, Chiesa di San Marziale, altare della Beata Vergine, paliotto. voro. Per aiutarlo a finire l’opera intervennero miracolosamente due angeli in sembianze di «vaghi e ben vestiti fanciulli» (Corner 1758). Nel tondo Ricci li raffigura intenti a maneggiare con estrema grazia VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 195 martello e scalpello, svolazzando come api intorno a un fiore gravido di nettare, mentre un terzo si occupa di tenere a bada con ‘innocente’ violenza un diavolo nero come la pece spinto sull’orlo del precipizio; assiste al soprannaturale evento l’allibito pastore all’ombra di un albero sghembo. Nell’altra tela la navicella con l’effigie della Madonna è giunta al bordo di una chiusa immaginaria, mentre dal ponte di San Marziale i passanti osservano incuriositi la scena e un uomo tenta di avvicinare l’imbarcazione alla riva aiutato con il remo da un atletico angelo traghettatore. L’artista ingentilisce con il pennello la foggia di quella che in realtà è una rozza scultura lignea tardogotica che a tutt’oggi è venerata nel suo altare eretto nel 1697 sulla parete sinistra della navata. Le composizioni sono intrise di effetti madreperlacei e di «argentine luci riflesse» (Moretti 1978); le forme appaiono sode e ben tornite in uno sfumato carezzevole. Lo stesso Ricci nel settembre del 1711 aveva completato gli affreschi, ora perduti, nella cappella maggiore di San Sebastiano. La Pallade Veneta in quell’occasione, facendo il paragone con Veronese, ammetteva con iperbole tutta barocca: «bisogna confessarlo, [Ricci] se non superiore [è] al men uguale a quell’insigne emulante della natura» (cit. in Selfridge Field 1980). Fra il 1708 e il 1709 nella chiesa di Santa Maria del Carmine, sopra l’altare dell’Abito della Madonna, Ricci spalanca un altro ritaglio di firmamento celeste (Moretti 1978). Gli angeli volteggiano nell’empireo dorato, quale omaggio alla tradizione bizantina mai totalmente morta nelle lagune. Alcuni stanno comodamente adagiati su soffici nuvole, mentre un paffuto specchio, oggi oramai deteriorato, che in origine do- angiolotto esibisce lo scapolare della Vergine. La mate- veva moltiplicare i raggi del sole. Nascoste all’occhio ria instabile e cangiante, fragrante e imbevuta di luce, del visitatore, perché incassate in alto sopra l’arco che è caratterizzata da una stesura a tocco d’estrema viva- divide la cappella dalla navata della chiesa, sono le tele cità. Una pittura felice e spiritosa, di raro virtuosismo a monocromo con due gigantesche figure angeliche nel violento accostamento delle diverse tonalità. La distese e separate da un vaso, tratteggiate con una luce naturale che illumina la volta proviene da tre pennellata larga, furiosa, compendiaria, a sfregazzo, grandi finestroni termali e, con stratagemma berni- omaggio al magistero di Jacopo Tintoretto. PAGINA A FIANCO, Sebastiano Ricci, Gli angeli scolpiscono la statua della Vergine e atterrano il demonio, Chiesa di San Marziale, soffitto. IN ALTO, Sebastiano Ricci, Angeli, Chiesa di Santa Maria del Carmine, cappella della Scuola dei Carmini, parete verso la navata. PAGG. 198-199, Sebastiano Ricci, Gloria d’angeli, Chiesa di Santa Maria del Carmine, cappella della Scuola dei Carmini, volta. niano, dal lanternino alla cui sommità e inserito uno VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 197 IL CICLO DI SAN STAE Gli esempi summenzionati relativi a cicli pittorici che vedevano coinvolti artisti di formazione più disparata, non dovevano rimanere casi isolati, anzi sembrano proprio dettare una regola. Un insieme di tele, eseguite a partire dal 1722 grazie al lascito testamentario del nobiluomo Andrea Stazio, raduna nella chiesa di San Stae nomi già affermati insieme a quelli di giovani esordienti: Nicolò Bambini, Gregorio Lazzarini, Sebastiano Ricci, Antonio Balestra, Silvestro Manaigo, Angelo Trevisani, Giovanni Antonio Pellegrini, Pietro Uberti, Giambattista Piazzetta, Giambattista Pittoni, Giambattista Mariotti e Giambattista Tiepolo (Moretti 1973). Artisti i più diversi per formazione e per età: Bambini aveva settantun anni, Tiepolo il più giovane ne aveva ventisei. I dodici dipinti, collocati in origine alla sommità dei pilastri della navata, soltanto dopo il 1733 verranno trasportati nel presbiterio e incastonati all’interno di cornici a stucco. Le scene sono disposte per coppie narrative, hanno per soggetti martiri di santi e costituiscono una galleria ‘parlante’ della pittura veneziana degli anni venti del Settecento: dal composto e levigato classicismo di Lazzarini e Balestra, alle forme drammatiche e chiaroscurate di Piaz- IN ALTO, Giovanni Antonio Pellegrini, Martirio di sant’Andrea, Chiesa di San Stae, presbiterio. IN BASSO, Gregorio Lazzarini, San Paolo, Chiesa di San Stae, presbiterio. PAGINA A FIANCO, Giambattista Piazzetta, Cattura di san Giacomo, Chiesa di San Stae, presbiterio. zetta e Tiepolo, al protervo fulgore coloristico di Ricci, Pellegrini e Pittoni. I CIELI DI PIAZZETTA E TIEPOLO Nel 1723 il capitolo dei padri domenicani dei Santi Giovanni e Paolo incaricava i confratelli responsabili della fabbrica della cappella di San Domenico, finalmente compiuta dopo trent’anni di lavori, di scegliere fra i diversi pittori che si erano proposti di dipingere su tela il soffitto del sacello (Mariuz 1982b). Giambattista Piazzetta risultò alla fine vincitore, ma sappiamo per l’esistenza dei modelletti che al concorso parteciparono almeno Giambattista Tiepolo e Mattia Bortoloni. Il 14 gennaio 1726 la volta venne inagurata con 200 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA grande partecipazione di pubblico, tra cui numerosi pittori, che incuriositi «si portaron a vedere sì insigne opera» con la Gloria di san Domenico (cit. in Moretti 1984-85). Piazzetta, figlio dell’intagliatore Giacomo, affonda le sue radici nel Seicento, nella pittura tenebrosa appena mitigata dal «dipingere di macchia» di Domenico Fetti, dallo «spumeggiare frenetico del colore» di Johann Liss e dalle «iridescenze» di Bernardo Strozzi (Pallucchini 1995). Pittore lento e da cavalletto, Giambattista affronta qui per la prima e unica volta un’impresa di carattere decorativo. Superando il limite di una matrice fortemente chiaroscurale e pur utilizzando una tavolozza sobria composta di colori rugginosi, impalca una composizione vorticosa con effetti di controluce. Un rigore ottico viene applicato nello scorciare le figure dei frati che si affacciano da immaginari gradini, con il santo proiettato come una freccia verso il cielo sostenuto da angeli che pedalano nell’aria, mentre altri eseguono un concertino con i più attuali strumenti dell’epoca. Una lezione che «può essere stata importante anche per il Tiepolo, che pure si spingerà ben oltre» (Mariuz 1982b). Il 16 maggio 1722 i Giudici del Piovego concede- PAGINA A FIANCO, Giambattista Tiepolo, Martirio di san Bartolomeo, Chiesa di San Stae, presbiterio. IN ALTO, Sebastiano Ricci, San Pietro liberato dal carcere, Chiesa di San Stae, presbiterio. IN BASSO, Antonio Balestra, Martirio di san Giovanni, Chiesa di San Stae, presbiterio. PAG. 204, Andrea Tirali, Cappella di San Domenico, Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. PAGG. 205-207, Giambattista Piazzetta, Gloria di san Domenico, intero e particolari, Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, cappella di San Domenico, soffitto. vano licenza a «mastro Valentin Sardi murer» di ricostruire dalle fondamenta la facciata di un casa posta a Sant’Angelo in corte dell’Albero in prossimità del Canal Grande di proprietà del «nobil huomo eccellenza Sandi» (ASVE, G.P., b. 23). Si andava edificando su progetto dell’architetto Domenico Rossi (Selvatico 1847) la nuova dimora dei Sandi, famiglia di origine feltrina nobilitata nel 1685 e dedita all’avvocatura. Conclusi i lavori, Tommaso Sandi intorno al 1724-25 chiamò un giovane pittore, Giambattista Tiepolo, e uno anziano Nicolò Bambini, per decorare – curiosamente – non la sala principale della casa, la più luminosa che si affaccia sulla calle, ma quella sul retro del palazzo che guarda verso il rio. Il ciclo decorativo venne intrapreso con ogni probabilità per sancire il passaggio di Tommaso alla prestigiosa avvocatura della Signoria e l’ingresso alla professione forense del VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 203 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 207 figlio Vettor (Ton 2004). Il soggetto dell’affresco sul d’aria con i personaggi disposti sui lati, violentemente soffitto è stato riconosciuto come Il trionfo dell’Elo- scorciati, in bilico sul vuoto. Il moto centrifugo è asse- quenza e si articola in quattro episodi mitologici a condato da eccitati accordi cromatici che si stempe- questa connessi che si dispiegano per mano di Tie- rano nel fondo azzurro del cielo percorso da nembi polo: Anfione costruisce le mura di Tebe con il suono multicolori. Le figure attorte e sode denunciano della lira, Orfeo trae Euridice fuori dall’Ade, Ercole li- un’intonazione drammatica, ancora barocca, l’ultimo bera i Cercopi perché indotto al riso dai loro discorsi e temporale prima che il vento della critica corrosiva Bellerofonte uccide la chimera, mentre al centro si sta- dell’Illuminismo schiarisca il limpido cielo della ra- gliano Minerva e Mercurio (Ivanoff 1951; Knox 1993). gione. Quella di palazzo Sandi è una ragione consape- Un fregio a monocromo su tela corre tutto intorno al vole che in ogni momento potrebbe precipitare nella di sotto dell’affresco, ove si dipana un’intrecciata con- condizione ferina e preumana. Tutti i protagonisti, da gerie di terree, mostruose figure attribuita a Nicolò Anfione a Orfeo, compresi anche quelli delle tele un Bambini. Completavano l’arredo pittorico della sala i tempo sulle pareti, dimostrano che solo l’eloquenza e dipinti delle pareti, oggi non più in loco, con Apollo la legge, come facce della stessa medaglia della civiltà, che scortica Marsia, Ercole e Anteo, Ulisse che scopre consentono agli uomini di sollevarsi dall’orrido caos Achille tra le figlie di Nicomede di Tiepolo, e le Tre Gra- della barbarie. Il programma iconografico intende zie e Coriolano davanti alle porte di Roma di Bambini sottolineare il valore dell’eloquenza sulla falsariga del (Aikema 1986). pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico – Il soffitto sembra scoperchiato da una tromba VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA PAGG. 208-209, Giambattista Tiepolo, Il trionfo dell’Eloquenza, Palazzo Sandi, soffitto della sala. PAGINA A FIANCO E IN ALTO, Giambattista Tiepolo, Il trionfo dell’Eloquenza, particolari con Anfione che costruisce le mura di Tebe con il suono della lira e con Bellerofonte che uccide la Chimera, Palazzo Sandi, soffitto della sala. PAGG. 212-213, Giambattista Tiepolo, Il trionfo dell’Eloquenza, particolare con Cerbero e le Furie, Palazzo Sandi, soffitto della sala. formulato in particolare nel Diritto universale edito AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA 211 IN ALTO E PAGINA A FIANCO, Nicolò Bambini, Le oscure radici della civiltà, particolari, Palazzo Sandi, fregio della sala. tra il 1720 e il 1722 – che aveva un grande seguito nella letta 1995). Un ‘errore’ cui dovrà porre rimedio Vettor Venezia contemporanea (Ton 2004). La composizione Sandi, provvedendo per anni al mantenimento del fra- è animata da una vis pedagogica che crede nel pro- tellastro e della sua famiglia. gresso dell’umanità attraverso i corsi e i ricorsi della 214 L’insieme del fregio sottostante, nel quale si snoda un storia – che non sono lineari, ma spiraliformi come il groviglio informe e osceno, senza soluzione di conti- cielo di Tiepolo – in cui è necessario tenere soggiogati i nuità, di corpi parte umani e parte bestiali, è tratteggiato mostri dell’irrazionalità, anche quelli interiori. Persino con una forza inaudita che lascia sorpresi, assuefatti Orfeo, inventore della civiltà, ne è rimasto preda nel come siamo alla grazia cortonesca di Nicolò Bambini. momento in cui ha ceduto alla passione dei sensi, per- L’artista dà prova di una fantasia feconda, quella «desta dendo così per sempre l’amata Euridice. Spettatrici di arguzia dell’intelletto» (Tesauro 1656) che evoca le teste questa esemplare ‘caduta’ sono le raccapriccianti figure mostruose innestate da Baldassare Longhena sulla base infernali, «cupe furie degl’orridi abissi», che si affac- della facciata di Ca’ Pesaro, a significare che la ragione e ciano dalla bocca dell’Ade in un brano che preannun- quindi la civiltà hanno le loro oscure radici nel disordine cia Goya. Forse Tommaso Sandi pensava a se stesso. (Romanelli 2006). La bellezza della cultura e l’equilibrio Infatti alla sua morte, nel 1743, si scoprirà l’esistenza di del comportamento etico scaturiscono e sono legati a un figlio venticinquenne, nato da una relazione extra- doppio filo con il ‘brutto’ e con quanto di più profondo e coniugale con una nobildonna sposata (cfr. Dalla Col- indicibile proviene dall’irrazionalità dell’inconscio. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO DI VENEZIA AL TRIONFO DELL’ELOQUENZA BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO Il concetto del bel composto di origine berniniana, DA Il secondo, Louis Dorigny, si cimentò nell’impresa di ovvero la sintesi delle arti visive in un tutto armonico, si conciliare l’inconciliabile, ovvero la vocazione ba- manifesta attraverso un’articolata, coinvolgente, all’ap- rocca con le radici del classicismo francese, che egli parenza infinita, successione spaziale e prende forma da aveva progressivamente nutrito con gli esempi ro- un’organica continuità di architettura, pittura, scultura mani e bolognesi e suggellato nel culto di Paolo Ca- (soprattutto a stucco) e, bisogna aggiungere, di musica liari. Per tali motivi Dorigny può essere definito grazie a una particolare attenzione per l’acustica: uno l’esponente per eccellenza, nelle Venezie, del classici- spettacolo dove la luce, reale e illusoria, sostanzia il smo barocco ovvero di una tendenza che vorrebbe tutto. Venezia, per tramite del cardinale Federico Cor- fondere Vouet con Bernini, Poussin con Baciccia, di- naro, fu protagonista involontaria nell’affermarsi della stillandoli attraverso il vitalismo aulico del maestro nuova estetica, materializzatasi alla metà del Seicento Charles Le Brun, mentre elementi del naturalismo nella sfolgorante struttura concepita da Gianlorenzo caravaggesco emergono inaspettati, qua e là, negli an- Bernini per la cappella della potente famiglia veneziana goli più riposti della sua opera. in Santa Maria della Vittoria a Roma, il cui pseudomo- Gaspari sperimenta negli anni novanta, a Ca’ Ze- dello su tela nel 1654 entrava a far parte delle collezioni nobio e nel casino Zane, la tipologia del salone a dop- ospitate nel palazzo dominicale dei Corner a San Polo pia altezza che, nel primo caso, sostituisce il (Barcham 2001). tradizionale portego passante. Egli inoltre erige nello PAGINA A FIANCO, Antonio Gaspari, Louis Dorigny e Abondio Stazio, Salone da ballo di Ca’ Zenobio. IN ALTO, Louis Dorigny, L’Onore con la Fortezza e L’Ignoranza, Ca’ Zenobio, soffitto dell’andito, particolari dei riquadri. stesso torno di tempo, a palazzo Gozzi ai Gesuiti (FaDA CA’ ZENOBIO A PALAZZETTO ZANE villa-Rugolo 2008-09), un monumentale scalone a doppia rampa come quello impiantato da Baldassare Il prezioso seme del bel composto germoglierà più Longhena nel chiostro palladiano di San Giorgio, ri- avanti, nel 1689, all’interno della chiesetta del nobi- levante prototipo, quest’ultimo, che meriterà di essere luomo Bernardo Nave a Cittadella nel padovano, «uno replicato a Versailles (Favetta 2006). dei più integri, omogenei e qualitativamente eletti Anche per Venezia non possiamo prescindere, fin esempi di decorazione pittorica e plastica del tardo Sei- dalle più precoci attestazioni del bel composto, dal ruolo cento» (Mariuz-Pavanello 1997a), e attecchirà dopo il dell’architetto – ovvero del pittore – nell’ideazione di 1695 anche nel salone di Ca’ Zenobio a Venezia. insiemi compiuti, né è immaginabile lasciare a scelte In entrambi i casi vi operano in simbiosi un archi- estemporanee o a momenti troppo divaricati la succes- tetto e un pittore. Il primo, Antonio Gaspari, è un con- sione delle campagne decorative. Nell’oratorio Nave vinto assertore, tra le lagune, del gusto barocco poco importa che le sculture siano probabilmente di nell’accezione più squisitamente romana, benché fil- recupero, poiché si inseriscono nell’ingranaggio della trata e contaminata dalla tradizione, avendo tentato di ‘macchina’ decorativa in perfetta sintonia col tutto, en- innestare nella Dominante una poetica finalizzata a co- trando in risonanza con le eleganti grisailles del finto niugare Bernini e Borromini (Favilla-Rugolo 2006-07). cornicione che circonda il soffitto. Le stesse peculiarità VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 217 si riscontrano a Ca’ Zenobio, ove l’allegoria dell’Aurora che precede il carro di Apollo rappresentata da Dorigny nell’ovale del soffitto si configura come la sintesi ultima di un programma che coinvolge anche l’andito che accompagna alla sala, ove campeggiano sulla volta all’interno di cornici a stucco: L’Onore accompagnato dalla Fortezza e dalla Prudenza viene esaltato dalla Fama; L’Affabilità e la Ricchezza unitamente alla Nobiltà e alla Giustizia conducono alla Fama e alla Virtù, e in ultimo, La Superbia, l’Ignoranza e l’Avarizia sono sconfitte e scacciate (Favilla-Rugolo 2003 e 2005b). L’elegante figura neomanierista dell’Onore disinvoltamente assisa su una nuvola con la gamba accavallata si rivela come consapevole omaggio di Dorigny alla madrepatria e, al contempo, alla lezione italiana del Cinquecento, conformandosi all’Apollo dipinto da Primaticcio nel quarto compartimento della galleria d’Ulisse nel castello di Fontainebleau. In tale contesto lo stucco instaura un proficuo dialogo con la pittura. Ricordiamo almeno i due cartigli dipinti che racchiudono monocromi dalle intonazioni dorate con la Caduta di Fetonte e Apollo e Diana che saettano i Niobidi, scene concitate definite da un segno essenziale, guizzante, in continuità e in gara con le quattro sovrapporte di vero stucco dorato, opera di Abondio Stazio (Aikema 1997) che contengono tondi narranti due storie di Apollo articolate in quattro episodi complessivi: La sfida tra Apollo e Marsia, con la tenzone presieduta da Re Mida nel primo tondo, e La punizione di Marsia nel secondo; Apollo si innamora di Dafne e Dafne trasformata in alloro, negli altri. L’ideologia che sottende l’intero apparato non prescinde da una consapevole interdipendenza tra pittura e scultura, trattandosi di un invito all’esaltazione nella moderazione, accompagnato dal monito incrociato a non cedere all’hibris, da pochi decenni ascritta nel Libro d’oro dei patrizi veneti (Favilla-Rugolo 2008c). Per aggiungere un ulteriore elemento di riflessione, ove persino il nume tutelare del ciclo, Apollo, è sog- ricordiamo che nel 1696 si colloca la campagna decora- getto e al contempo vittima egli stesso di superbia tiva per il casino di Angelo Correr a Murano, in cui la punita: un monito a non insuperbirsi quanto mai op- modellazione delle superfici a stucco attribuite a Pietro portuno per una famiglia ‘nuova’ come gli Zenobio, Roncaioli (De Grassi 1999) – che fingono cornici ovali VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO PAGINA A FIANCO DALL’ALTO, Louis Dorigny, La caduta di Fetonte tra due Muse; Apollo e Diana che saettano i Niobidi tra due Muse, Ca’ Zenobio, salone da ballo. DALL’ALTO, Abondio Stazio, Apollo si innamora di Dafne e Dafne trasformata in alloro, Ca’ Zenobio, salone da ballo, sovraporte. 219 IN ALTO, Sebastiano Ricci, Ercole tra la Gloria e la Virtù, Casino Zane, soffitto della sala. IN BASSO, Giovanni Antonio Pellegrini, Alessandro e Clito, Murano, Casino Correr. PAGINA A FIANCO, Sebastiano Ricci, Il Tempo rapisce la Verità, Casino Zane, soffitto della scala. e arazzi appesi alle pareti – è contestuale alla stesura della sco raffigurante il Tempo che rapisce la Verità raccolto in materia pittorica da parte di un esordiente Giannantonio una rotonda cornice e accompagnato da quadrature ar- Pellegrini (Favilla-Rugolo 2008d) in «uno stile concitato chitettoniche. Precisi riscontri documentari hanno e muscoloso», ancora prossimo alla maniera del maestro consentito di assegnare con certezza tali pitture a Seba- Paolo Pagani (Mariuz 1998b). Una prova non scevra di stiano Ricci (Favilla-Rugolo 2008e). L’esecuzione di acerbità, ma che già rivela l’inconfondibile caratura del questo ciclo si colloca a ridosso del 1698, quand’egli era giovane artista che diverrà uno «spirito di pennello riso- appena rientrato a Venezia dalle sue peregrinazioni tra luto» ricercato in tutta Europa (da Canal 1810). Parma, Roma e Milano, e si configura come la più Ritroviamo armoniosamente dosata la compresenza 220 acerba testimonianza, in patria, del suo talento per l’af- di stucco e pittura anche nel casino di Marino Zane a fresco e l’unica sopravvissuta a Venezia insieme a quella San Stin, completato nel 1697 su progetto di Antonio per la cappella della Scuola dei Carmini. La decora- Gaspari (Bassi 1961; Favilla-Rugolo 2008e). Nel riqua- zione a stucco degli ambienti risulta, inoltre, la prima dro centrale sul soffitto del salone a doppia altezza si opera documentata di «Abondio Statio stucadore», in staglia Ercole tra la Gloria e la Virtù e, negli angoli della collaborazione con Andrea Pelli, mentre le quadrature volta, medaglioni a monocromo accoppiati raffigurano della scala e di alcune stanze adiacenti, ora in parte Mercurio e Diana, Anfitrite e Nettuno, Giunone e Pan, emerse dal restauro, appartengono al bolognese Ferdi- Ercole e Giove, simboli forse dei quattro elementi: terra, nando Fochi (Favilla-Rugolo 2008e), che agli inizi del acqua, aria, fuoco. Questi sono inseriti in cornici di Settecento collaborerà con Giannantonio Pellegrini stucco sostenute da leggiadri putti e intrecciate con nella decorazione della Biblioteca del Santo a Padova serti, ora di quercia ora d’alloro, e si configurano – tali (Mariuz 1998b). Le ingiurie del tempo compromisero monocromi – quale momento paradigmatico del rac- purtroppo la leggibilità di alcuni brani. Il Tempo che ra- cordo tra forme plastiche e pittoriche. Singolari nel pa- pisce la Verità risulta invece l’episodio che ha meno sof- norama veneziano sono le quattro grandi conchiglie ferto e si rivela particolarmente felice per l’incastro dei modellate in stucco, all’interno delle quali dimorano corpi sodi e sapientemente plasmati da una luce ra- infanti dipinti a colori vivaci che giocano con un leone dente di sottoinsù, con un muscoloso Saturno, intento e una tigre. Il vano della scala reca sulla volta un affre- nello sforzo deciso di afferrare la giovane ignuda. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO Nel lungo riquadro che s’apre sul soffitto del portego la figura di un giovane Ercole intende esaltare le nobili virtù del committente, mentre i monocromi posti ai quattro angoli della sala, autentici punti cardinali di questo microcosmo, restituiscono un Olimpo già rivisitato, con Ercole barbato accolto a pieno titolo nell’aureo consesso. I putti che si accampano nelle grandi conchiglie di stucco, impegnati in trastulli innocenti, alludono alla gioia dell’evento che, calato nella quotidianità e nella cronaca famigliare, potrebbe essere accostato alla celebrazione di una non minore promessa di fecondità e quindi di immortalità per la stirpe, dovuta al matrimonio di Vettor Zane, figlio di Marino, con Elena Michiel, celebrato l’8 febbraio 1697 (cfr. Aikema 1997). Buoni auspici che non troveranno seguito dal momento che nel corso di pochi anni la famiglia si estinguerà nel ramo maschile. STUCCHI E PITTURE: DA PALAZZO BARBARO A CA’ SAGREDO Nello stesso torno di tempo Alvise Barbaro, esponente di una famiglia di antico e prestigioso lignaggio, affiderà ad Antonio Gaspari l’ampliamento del proprio palazzo sul Canal Grande a San Vidal. L’architetto darà vita a un corpo di fabbrica stilisticamente autonomo rispetto alla parte principale dell’edificio, che si presentava ancora in forme tardogotiche. All’interno della nuova ala Barbaro farà allestire un’ampia sala quadrata a doppia altezza, un salone da ballo esemplato sul modello coevo di Ca’ Zenobio ideato dallo stesso Gaspari. Il cameron era già compiuto alla fine del 1695 (Aikema 1987) e intorno a quegl’anni si colloca l’esecuzione della fitta trama di candidi stucchi a motivi vegetali con inserti dorati del soffitto, attribuiti a Pietro Roncaioli, il geniale stuccatore della Cappella delle reliquie del Santo decano dei pittori veneziani, fra tutti il più longevo poiché morirà ultranovantenne nel 1722. Per le pareti volle invece un artista emergente come a Padova (De Grassi 1999). Sulla volta a ombrello sono Sebastiano Ricci, che impalcherà un Ratto delle Sabine incassate cinque tele ovali raffiguranti alcune celebri vicino allo stile di Luca Giordano e già in situ nel feb- donne della storia antica dalle fisionomie icastiche. Per braio del 1699 (Aikema 1987; De Grassi 1999). La morte tale compito il proprietario chiamò Antonio Zanchi, il di Alvise Barbaro, avvenuta il 2 dicembre del 1698, se- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO PAGINA A FIANCO, Sebastiano Ricci, Mercurio e Diana, entro stucchi di Abondio Stazio e Andrea Pelli, Casino Zane, soffitto della sala. DALL’ALTO, Sebastiano Ricci, Giochi di putti, entro conchiglie a stucco di Abondio Stazio e Andrea Pelli, Casino Zane, soffitto della sala. 223 IN ALTO E PAGINA A FIANCO, Antonio Gaspari, Salone di palazzo Barbaro, insieme e particolari delle decorazioni a stucco attribuite a Pietro Roncaioli. PAG. 226 IN ALTO E PAG. 227, Sebastiano Ricci, Ratto delle Sabine, intero e particolare, Palazzo Barbaro, salone. PAG. 226 IN BASSO A SINISTRA E A DESTRA, Antonio Zanchi, Donne illustri del mondo antico, Palazzo Barbaro, soffitto del salone. gnerà un momentaneo arresto della campagna decora- Scevola all’ara di Giambattista Piazzetta (Mariuz tiva che verrà ripresa nei primi anni del Settecento 1982b) e con le tele delle sovrapporte di Giambattista dallo stesso Roncaioli con gli stucchi che ornano le pa- Tiepolo raffiguranti donne virtuose dell’antichità, oggi reti, ove ricorre lo stemma della famiglia in un turbinio in vari musei del mondo (Pedrocco 2002). Rispetto a di puttini svolazzanti e scherzosi che s’accompagnano Ca’ Zenobio, qui l’immacolato stucco percorso da fili con conchiglie, serti di quercia e d’alloro, festoni ridon- d’oro costituisce una sorta di prezioso guscio dalla su- danti frutta e fiori. perficie porosa e variegata nei cui anfratti si incasto- Nel 1709 Antonio Balestra consegnerà per il medesimo contesto Coriolano supplicato dalle donne romane, una prova da «pittore finito, studiato in ogni parte» (da calde e variamente contrastate. I temi sviluppati in questi dipinti sono relativi alla sto- Canal 1810), arricchita da una turgidezza di forme che ria dell’antica Roma repubblicana. Per l’ennesima volta, lievitano come i marmi berniniani, soprattutto nei anche nel chiuso dei saloni, Venezia appare quale vera e panneggi, con misurata enfasi teatrale. autentica erede del glorioso passato della città eterna, ma Ma soltanto negli anni quaranta del Settecento si completerà l’allestimento del vasto ambiente con Muzio 224 nano, come rari gioielli, i quadri e gli ovali dalle cromie VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL avendo sempre come esempio da imitare il periodo che precede l’involuzione dispotica dell’età imperiale. COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 228 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO PAG. 228, Antonio Zanchi, Scena di storia antica, Palazzo Barbaro, soffitto del salone. PAG. 229, Antonio Balestra, Coriolano supplicato dalle donne romane, Palazzo Barbaro, salone. IN ALTO, Giovanni Antonio Pellegrini, Le Virtù scacciano i Vizi, con gli stucchi di Abondio Stazio, Palazzo Albrizzi, soffitto del portego. PAGINA A FIANCO, Palazzo Albrizzi, portego. Gli Albrizzi, una famiglia ascritta al patriziato nel 1667, agli inizi del nuovo secolo vollero anch’essi rin- riflessi accesi dalle pitture. La malleabilità del materiale novare gli interni del loro palazzo a San Cassiano. e l’abilità di Stazio si possono apprezzare in un’altra Nell’occasione chiamarono Abondio Stazio, artista sala dove lo stucco «latteo, duttile, appena luminescente noto per il suo straordinario virtuosismo nel modellare per la presenza di polvere di marmo nell’impasto» di- lo stucco (Aikema 1997). La campagna decorativa inve- viene l’unico e incontrastato protagonista (Mariuz-Pa- stì alcuni vani del piano nobile, a iniziare dal portego vanello 1997b). L’artista con un escamotage passante, l’ambiente più rappresentativo nella struttura illusionistico sguinzaglia una frotta di puttini che s’im- della casa dominicale veneziana. In questo caso si recu- pegnano a sostenere un’immaginaria tenda in sostitu- perarono le tele di illustri maestri seicenteschi già in zione della volta: uno spunto berniniano di grande loco sulle pareti: Pietro Liberi, Sebastiano Mazzoni, Carl effetto, «una visione gioiosa ed effimera fissata per sem- Loth, Antonio Zanchi, Ludovico David; mentre per i tre pre». Il tutto poteva essere inaugurato in occasione del scomparti del soffitto fu incaricato il giovane Giannan- solenne ingresso di Giambattista Albrizzi alla carica di tonio Pellegrini. procuratore di San Marco il 30 gennaio 1702. A questo Stazio riveste interamente di stucchi la superfice del 230 ‘stalattiti’ dai candidi baluginii, che contrastano con i proposito la Pallade Veneta ricordava che più di tutto lungo salone: l’effetto è di uno sbalorditivo horror fece impressione «il sfoggio magnifico del di lui palazzo vacui, un’incredibile congerie di concrezioni trasfigu- con stucchi dorati, suppellettili d’oro e quadri preciosi» rano il portego in una meravigliosa grotta, un antro di (BNMVE, Mss. It. VII, 1834). VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO Ai primi di gennaio del 1716 sempre la Pallade Veneta informava i suoi lettori che a palazzo Sagredo a Santa Sofia si era sviluppato un incendio in «una stanza nuova de’ stucchi» dove, per far asciugare più celermente la decorazione, era stata accesa una «gran foghera» (ASVE, I.S., b. 713). Le fiamme si svilupparono rapidamente a causa dell’impasto dove era stato utilizzato anche olio, e non «bastò tutta la diligenza usata» per domarle, tanto che restò consumata buona parte del detto palazzo incenerendo anco alcuni di quei preciosi arredi». Una notizia che testimonia come l’antichissima famiglia Sagredo, che annoverava fra le sue fila anche un santo, in quel torno di tempo stesse facendo rimodernare alcuni interni della casa dominicale d’impianto bizantino-gotico affacciata sul Canal Grande. Ancora una volta l’incarico venne affidato ad Abondio Stazio, qui in compagnia del più giovane Carpoforo Mazzetti Tencalla: insieme completarono l’opera nel 1718, l’anno stesso in cui fu firmata la pace di Passarowitz, ponendo la data e la firma sugli stucchi di un camerino (Mazza 2004). Gli spazi interessati dalla decorazione non sono più i saloni di rappresentanza del palazzo ma le stanze più piccole e segrete, i mezzaPAGINA A FIANCO, IN ALTO E PAGG. 234-236, Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Camera dell’Oseliera e particolari delle decorazione a stucco, Palazzo Sagredo. IN BASSO E PAG. 237 IN ALTO, Camera dei Fiumi e particolare della decorazione a stucco, Palazzo Sagredo. PAG. 237 IN BASSO, Camera dei Trofei, particolare della decorazione a stucco, Palazzo Sagredo. nini del sottotetto, i budoirs, i luoghi intimi e appartati, dove si ricevono gli amici e si tiene conversazione: la stanza da letto con l’alcova, smontata e trasmigrata negli Stati Uniti, la sala dei Trofei, quella delle Arti, quella dei Fiumi, quella del Giudizio di Paride, quella dell’Oseliera. Alle complesse, magniloquenti allegorie dai significati pedagogici o celebrativi, si sostituisce un linguaggio più lieve e pacato ricco di elementi naturalistici e leggiadri decori. Anche le tinte si stemperano: dall’abbacinante biancore intessuto d’oro si passa alle soffici, riposanti tinte pastello. Fra tutti gli ambienti spicca la stanza dell’Oseliera, una fantastica, ariosa voliera dove alberga una gran varietà di uccelli appollaiati su fragili racemi, variopinti volatili ammaestrati da un immaginario abilissimo padrone. Alla sommità delle porte che danno accesso al vano si accampano cani e felini che spuntano da sotto pesanti coltrine; rivolgono VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 233 il loro sguardo verso il basso, osservando con disin- rialzi a penna e inchiostro marrone, scandita da una cantato distacco l’incomprensibile mondo degli quadrettatura da utilizzare per il trasferimento sulla su- umani. Financo una dispettosa bertuccia che s’iner- perficie muraria. Il foglio, dal segno pittorico sveltissimo pica su un tendaggio e uno scoiattolo intento a sgra- e imbozzolato, dal quale affiorano appena le forme, pre- nocchiare la sua ghianda fanno parte di questo senta alcune varianti rispetto al dipinto: nel particolare piccolo, domestico serraglio. dell’alato suonatore di violino sulla sinistra e nella posa delle braccia di uno dei due cantori al centro. In quello di DAI GESUITI AI GESUATI destra la bocca socchiusa è resa con un tocco, quasi una macchia, di inchiostro bruno. Se non è peregrino l’ac- Se il bel composto aveva preso le mosse da Bernini, era costamento con «Luca fa presto» per il modo rapidis- stato soprattutto Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccia, simo, di getto, furioso di fissare l’idea sulla carta, l’esito a portare alle estreme conseguenze questa concezione compiuto non potrebbe essere più distante, poiché a estetica finalizzata a sprigionare una coinvolgente carica questa data lo stile di Louis si è oramai da tempo stabi- emotiva, lasciando nella chiesa madre della Compagnia lizzato in un cliché di attoniti, vacui e premetafisici ‘ma- del Gesù a Roma uno scenario «di incredibile allusività», nichini’, animati soltanto da una linea sinuosa, nel quale i «grovigli di figure attorte nei modi del Ber- arabescata, indipendente, quasi neogotica, e da lumine- nini» smaterializzano la dimensione spaziale (Vicini scenze astratte, a volte algide, a volte spettrali, che insi- 1999). Si tratta di un noto manifesto che farà scuola per stono sulle superfici ampie, levigate e intatte delle un secolo dentro e fuori la penisola italiana. Se durante il forme oggi accostabili alla mano di un arguto fumetti- soggiorno a Roma del 1673 l’onnivoro Dorigny si ine- sta (Marinelli 2003), come si può notare anche nel briò certo nel copiare gli antichi maestri, come il «divino tondo con il Trionfo del nome di Gesù sulla volta della Raffaello» della Battaglia di Ostia (Corubolo 1997) e – crociera dei Gesuiti. Impegnato nel titanico sforzo di immaginiamo – Michelangelo, i Carracci, Guido Reni, decorare le gotiche vele della cattedrale di Trento, il set- Giovanni Lanfranco e gli emiliani tutti, dovette con pro- tantenne Dorigny passò il testimone al più giovane babilità studiare i primi bozzetti e forse, affamato di sem- Francesco Fontebasso, il quale, ai Gesuiti, realizzerà nel pre nuove emozioni, poté sinanco inerpicarsi sui 1734 gli ariosi affreschi della navata (Magrini 1988). ponteggi della nuova ‘macchina’ gesuitica che Baciccia andava impalcando giusto in quegli anni. Se dunque, negli anni venti del Settecento, nella trasposizione finale delle idee compositive, Louis ha lasciato Molto tempo dopo, all’età di sessantasei anni, Louis definitivamente prevalere l’anima classicista portata al- volle rendere un esplicito omaggio a Gaulli nella chiesa l’estremo, con esiti che non consentono alle arti del bel veneziana dei Gesuiti. Proprio a tale contesto rimanda composto di compenetrarsi – e che alla fine paiono con- un disegno raffigurante un Coro di angeli musicanti, già traddire il modello originale di Baciccia, al quale pure si riferito alla mano di Luca Giordano, da identificare in- vorrebbe rendere omaggio – ciò in realtà deve essere in- vece con l’ideazione dell’ovale dipinto da Dorigny sulla scritto all’interno di un vitale dibattito sulla necessità di volta del presbiterio della chiesa di Santa Maria Assunta resuscitare la lezione dell’architettura di Andrea Palladio. dei Gesuiti a Venezia, eseguito a fresco – entro una flo- Dorigny risponde con la sua personale proposta, per reale cornice di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti quanto riguarda la pittura, a questa esigenza di rigore e Tencalla autori dell’intero apparato decorativo a stucco – pulizia formale, nella convinzione sincera di essere riu- per incarico della famiglia Manin nell’estate del 1720 scito a recuperare la lezione di Paolo Veronese, dopo (Favilla-Rugolo 2008-09). Si tratta di una sanguigna con aver operato senza timidezza alcuna nel sancta sancto- VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL A FIANCO, Navata della chiesa dei Gesuiti. PAG. 239, Francesco Fontebasso, Abramo e i tre angeli e La visione di san Giovanni Evangelista, con stucchi di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Chiesa dei Gesuiti, volta della navata. PAG. 240, Francesco Bonazza, Pulpito, Chiesa dei Gesuiti. COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 239 241 PAGINA A FIANCO, Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Decorazioni a stucco della volta della navata, Chiesa dei Gesuiti. IN ALTO, Tappeto marmoreo, particolare, Chiesa dei Gesuiti, presbiterio. PAG. 244, Soffitto della crociera e del presbiterio, Chiesa dei Gesuiti. PAG. 245, Louis Dorigny, Trionfo del Nome di Gesù, con stucchi di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Chiesa dei Gesuiti, soffitto della crociera. PAGG. 246-247, Louis Dorigny, Trionfo del Nome di Gesù, particolari, Chiesa dei Gesuiti, soffitto della crociera. VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 243 248 VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO rum dell’architettura palladiana, ovvero nella sala rotonda di villa Capra a Vicenza, trasfigurandone le superfici murarie per mezzo di un colonnato fittizio dal quale emergono con travolgente esuberanza berniniana le gigantesche, tornite figure delle sue divinità olimpiche. Dietro un’apparente riproposizione di tipologie barocche baciccesche e di stanche, traforate quadrature bolognesizzanti, il suo linguaggio si aggiorna nel tempo distillando forme sempre più pure, autonome, astratte e conchiuse da un segno che non lascia scampo, come in un prezioso intarsio, per trasformarsi gradualmente in vere e proprie monadi, crisalidi inguainate entro gusci ben levigati. Al contempo, a rendere ancora più fermentante un laboratorio di idee già abbastanza nutrito, sullo scorcio del secolo trascorso e all’attacco del nuovo, accanto al più squisito berninismo, si era insinuato nelle lagune un ulteriore registro, un’inflessione più rilassata rispetto al passato, dettata dal bon goût della nascente estetica rococò. Una transizione graduale della quale si faranno interpreti lo stesso Dorigny e Nicolò Bambini – ci sovvengono i briosi affreschi della sala di palazzo Orsetti a Treviso del 1711 circa e quelli coevi di Ca’ Dolfin a Venezia (Favilla-Rugolo 2008f-g) – ma soprattutto Sebastiano Ricci e Giannantonio Pellegrini. Non solo i contenuti, ma anche la linea, il colore e la pennellata, «la molta e lussureggiante vaghezza del colorito e dell’immaginazione» (Zanetti 1771), diverranno più leggeri e sensuali. È il preludio a Tiepolo. Giambattista Tiepolo raccoglierà a piene mani, per condurle a suprema sintesi, l’eredità e le sperimentazioni delle generazioni che lo avevano preceduto. Prendiamo a pitture a fresco del soffitto della chiesa» e si smobilitavano i ponteggi (Favilla-Rugolo 2008-09). Se dunque dobbiamo prendere atto che Tiepolo abbia esempio il caso della decorazione dei Gesuati (Arslan dipinto «tutte le pitture a fresco del soffitto della chiesa», 1932; Niero 1979b e 2006; Pedrocco 2002). Soltanto questo significa, in mancanza di dati più certi, che nel quattro anni dopo l’impresa di Dorigny ai Gesuiti, l’ar- «tutte» siano inclusi anche i monocromi. Questi raffigu- chitetto Giorgio Massari riceveva l’incarico dai domeni- rano i quindici misteri del rosario e attorniano, entro cani riformati di ricostruire la loro chiesa alle Zattere, cornici ovali e mistilinee a stucco, i tre grandi riquadri Santa Maria del Rosario, detta dei Gesuati. Nel febbraio policromi posti sulla sommità della volta con la Gloria di del 1738 «il signor Gio. Battista Tiepoletto pitor» riscuo- san Domenico, l’Istituzione del rosario e La Vergine che ap- teva il primo anticipo e, nel settembre del 1739, all’artista pare a san Domenico. La critica ha finora espunto i mo- veniva liquidato il compenso «per resto e saldo di tutte le nocromi dal catalogo del maestro o, nel migliore dei casi, VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO PAGINA A FIANCO, Louis Dorigny, Angeli musicanti, con stucchi di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Chiesa dei Gesuiti, soffitto del presbiterio. IN ALTO, Louis Dorigny, Baccanale, particolare, Treviso, Palazzo Orsetti Dolfin Giacomelli. IN BASSO, Louis Dorigny, Angeli musicanti, disegno, mercato antiquario. 249 li ha reputati frutto della collaborazione con la bottega, a causa del ruolo all’apparenza più defilato rispetto ai comparti centrali (Pilo 1998). In realtà devono essere considerati come insostituibili ingranaggi dell’intero apparato, alla luce anche del significato antiquietista e antigiansenista assunto dal ciclo, il cui scopo precipuo era di esaltare e rilanciare con forza la devozione mariana, «un complesso unitario, che presenta un saggio di rosario figurato, interpretato secondo i canoni rococò» (Niero 2006). Originalissima l’idea «di disporlo in un soffitto, per aiutare i fedeli a recitarlo, guardando in alto […], quasi un atto corale di contemplazione». «Tiepolo ha montato una grande ‘macchina’ scenografica di effetto ancora barocco» (Pallucchini 1996), benché qui oramai il bel composto si sia stemperato in una nuova poetica: il colpo d’occhio diviene più sobrio, è scomparsa la sovrabbondanza degli stucchi dorati e tutto è giocato sui toni distesi e riposanti dei bianchi e dei grigi. Dalle sculture annicchiate e dai lattei rilievi in marmo carrarese di Giovanni Maria Morlaiter, risalendo le candide, lisce superfici murarie, si giunge – passando giusto per i preziosi, appena increspati, ‘cammei’ delle grisailles – ai tre riquadri del soffitto che, insieme alle magnifiche pale degli altari e al pavimento nel quale si specchiano come in un caleidoscopio, sono le uniche, squillanti e altissime note cromatiche dell’intero invaso, enfatizzate proprio grazie a questa generale monocromia. Per trovare una similitudine squisitamente rococò, l’apparato decorativo ronazione della Vergine e conferma che fu il maestro a dei Gesuati potrebbe essere paragonato al fuoco d’artifi- fornire, almeno, l’idea per questa e – presumiamo – per cio di un piccolo bengala: dal fulcro dei riquadri poli- tutte le rimanenti composizioni. L’inconfondibile ductus cromi sembrano scaturire, come in una crepitante scattante ed eccezionalmente libero della penna, l’adden- pioggia discendente, tutti gli altri decori. sarsi dell’inchiostro nelle zone d’ombra, che si diluisce Il monocromo si conferma dunque quale momento per diventare trasparente nelle penombre, lo affratella del raccordo ideale tra vera forma plastica e vera forma alle prove grafiche note relative agli scomparti centrali. pittorica, quindi non parte secondaria da abbandonare Tale disegno rivela altri elementi che assolvono gli aiuti totalmente all’esecuzione o, ancor meno, all’ideazione da ogni responsabilità che non sia eventualmente quella della bottega. Che quest’ultima possibilità sia da scartare delle campiture e del primo tono d’ombra. Il maggior ri- senza indugio, lo prova un disegno inscritto all’interno salto conferito alla Vergine nella versione definitiva è di una irregolare ellisse, firmato «G.B Tiepolo», che si imputabile all’inesauribile estro dell’autore (cfr. Alpers- rivela essere preparatorio per il monocromo con l’Inco- Baxandall 1995) e, con ogni probabilità, alla volontà di ta VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL PAGINA A FIANCO E IN ALTO, Volta e navata della chiesa dei Gesuati. COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 251 Giambattista Tiepolo, Istituzione del Rosario, Chiesa dei Gesuati, scomparto centrale della volta. 252 adeguarsi ai suggerimenti degli stessi committenti, i frati domenicani, che intendevano enfatizzare in particolar modo il ruolo della Vergine e della sua devozione. Anche la straordinaria Salita al Calvario, per fare solo un ulteriore esempio, non potrebbe mai essere ascrivibile al catalogo di un emulo, per l’altissima qualità inventiva e stilistica, che trova un immediato e paragonabile precedente nel telero dal medesimo soggetto realizzato qualche anno prima, fra il 1735 e il 1736, dal «signor Gio. Battista Tiepoletto» per la chiesa conventuale di Sant’Alvise (cit. in Favilla-Rugolo 2008-09). Identica, seppur condensata, è l’economia compositiva, equivalente il segno facile e allo stesso tempo tormentato, quindi la «vibrazione emozionale», allorché «la lucidità di visione si combina con un pathos estremo, quasi a nervi scoperti» (Mariuz 1998a). Inequivocabili i mascheroni ‘ghignanti’ dei vecchi barbati che si affacciano dal fondale della scena. Come già ai Gesuiti, anche ai Gesuati le ‘arti sorelle’ DALL’ALTO, Giovanni Maria Morlaiter, Battesimo di Cristo e il Profeta Melchisedec, Chiesa dei Gesuati. PAG. 254 IN ALTO A SINISTRA, Giambattista Tiepolo, Incoronazione della Vergine, disegno, ubicazione sconosciuta. PAG. 254 IN ALTO A DESTRA, Giambattista Tiepolo, Incoronazione della Vergine, Chiesa dei Gesuati, soffitto, affresco a monocromo. PAG. 254 IN BASSO A SINISTRA, Giambattista Tiepolo, Salita al Calvario, particolare, Chiesa di Sant’Alvise. PAG. 254 IN BASSO A DESTRA, Giambattista Tiepolo, Salita al Calvario, Chiesa dei Gesuati, soffitto, affresco a monocromo. PAG. 255 DALL’ALTO, Giambattista Tiepolo, Adorazione dei pastori e Gesù predica nel tempio, Chiesa dei Gesuati, soffitto, affreschi a monocromo. appaiono del tutto interdipendenti, pur rimanendo rigorosamente separate. La cultura barocca romana, così come era avvenuto con il Manierismo, entra nella robusta ma permeabile tradizione veneziana sviluppando declinazioni sue proprie. Tiepolo nel crogiolo dei Gesuati – manifesto e vetta del Rococò lagunare – sembra voler fondere Baciccia con Andrea Pozzo: alle sfolgoranti figure, che illusionisticamente invadono lo spazio della chiesa, aggiunge una fuga verso l’alto di impossibili architetture con uno scorcio e un’accelerazione studiati direttamente sui soffitti di Veronese. L’ascendenza prettamente paolesca dell’arditissimo sottoinsù, che si rivela fondamentale nell’economia compositiva, ha fatto pensare a un circoscritto intervento del geniale quadraturista Girolamo Mengozzi Colonna, se non addirittura dell’architetto Giorgio Massari (Domenichini 2004). VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO 253 UN’ALTRA VENEZIA IL MONDO IN MINIATURA DI ROSALBA CARRIERA E PIETRO LONGHI Nella Guida de’ Forestieri per succintamente osservare tutto il più riguardevole nella città di Venetia, del 1697, padre Vincenzo Coronelli non trascurava di inserire nel novero dei «celebri pennelli» quei pittori all’epoca rinomati nell’arte delle «miniature». Egli menzionava: «M. Jean, Pietro Menarola, Giuseppe Juster, Calamati, Gio. Fechel, Angelo Muriani, Ridolfo Manzoni, Rosalba e Giovanna Carriera sorelle». Un’informazione preziosa quella fornita dall’erudito francescano, cosmografo ufficiale della Serenissima, che testimonia l’esistenza nella Dominante di un piccolo nucleo di virtuosi nella «più delicata» tra le pitture (Trattato di miniatura 1755). L’agile volumetto, «indispensabile per poterlo sempre tener in saccoccia» (Coronelli 1713), si proponeva come efficace veicolo pubblicitario per indirizzare i più accorti foresti, ovvero i privilegiati viaggiatori dell’epoca, desi- PAGINA A FIANCO, Pietro Longhi, La famiglia Sagredo, Venezia, Fondazione Querini Stampalia. A FIANCO, Rosalba Carriera, Coperchio di tabacchiera in avorio con ritratto di giovinetta, esterno e interno, Venezia, Museo Correr. derosi di fare acquisti non avventati presso pittori di qualità, specializzati «ne’ Ritratti, nelle Istorie, nelle Battaglie, negli Animali, ne’ Paesi, nelle Miniature, nella Prospettiva ed Architettura» (Coronelli 1697). Non sappiamo se l’ordine in cui l’autore dispose i nomi indicasse la fama acquisita in quel momento dai singoli artisti. In realtà, nel caso dei miniatori citati si tratta per lo più di personaggi oggi quasi sconosciuti (Favilla-Rugolo 2007). Certo è che ultima nella lista coronelliana, in compagnia della sorella Giovanna, appare Rosalba Carriera, una figura che, grazie a «les qualités de l’ame, & par les talens supérieurs dont la nature l’avoit porvûe» (Dézallier d’Argenville 1762), segnerà la storia del ritratto con un procedere personale e irripetibile. Sappiamo che ella, dopo un’iniziale pratica nel disegno per i VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA 257 di Sebastiano Ricci e del cognato Giannantonio Pellegrini. Superando il limite imposto dal tradizionale puntinismo adottato per questo genere – per cui si doveva intervenire sul supporto esclusivamente con un’affilata punta di pennello – ella comprese «che è per mezzo del tocco che il pittore pone nel suo lavoro libertà e forza» (Lacombe 1781). Coronelli, cogliendo la portata inno- Rosalba Carriera, Ritratto del duca di Wharton, miniatura su avorio, Venezia, Ca’ Rezzonico. vativa e singolare della sua maniera, nell’edizione del 1700 della Guida de’ forestieri, collocava il nome della «Cittella [zitella] Rosalba» in testa alla lista dei pennelli celebri nelle miniature, un primato che manterrà incontrastato nelle successive edizioni, come in quella del 1713 curata dal nipote del frate, Vincenzo Maria. Agli esordi della sua carriera, verso la fine del Seicento, appartiene un ritrattino, ora nei depositi del Museo Correr, che orna la parte interna di un coperchio da tabacchiera in avorio, mentre quella esterna è decorata con disegni incisi a bulino e incrostati di tartaruga, corallo e argento (Favilla-Rugolo 2007). La delicata immagine della giovane è immersa in un’atmosfera di grazia spontanea che proviene dal gesto pudico di portare la merletti (Turlon 2002) e un apprendistato presso Antonio Balestra, con il quale mantenne rapporti di amicizia, «diedesi con più attenzione alla miniatura», forse su 1720, è riferibile invece l’effigie fragrante di Philip duca di Wharton, ora esposta a Ca’ Rezzonico (Pasian 2007). Qui Rosalba registra, con mirabile scioltezza di tocco, il consiglio di Jean Steve artista specializzato in decora- copricapo a turbante che in privato sostituiva la par- zione di tabacchiere (Memorie 1843), spendendo il pro- rucca, mentre pennellate d’oro accendono la stoffa dello prio talento nel dipingere ritrattini su supporto di zamberlucco. Dal volto sorridente traspare una parvenza avorio da inserire nei coperchi e nei fondi delle scatoline di frivolezza ma, al contempo, di spessore psicologico per il tabacco; un’attività per la quale non veniva ade- che ella soltanto riesce a infondere nei suoi personaggi. guatamente ricompensata. Tuttavia verso il 1698 «inco- 258 mano al petto. A un momento della maturità, verso il La miniatura rispondeva al principio del «tant plus minciò a farsi nota la sua abilità, sicché da una gran petit, tant plus beau» (Zava Boccazzi 1996), conforman- parte dei più valenti pittori e dilettanti sì patriotti che dosi appieno, nel momento della sua massima fioritura forastieri veniva visitata ed ammirata, crescendo di e diffusione, all’estetica rococò del rovesciamento dei prezzo le cose sue». Dunque, la menzione nella Guida termini, dove ciò che era minuscolo diveniva grandioso, del 1697 appare come il primo esplicito segnale della aulico ed eroico, e viceversa, opponendosi così alla ro- notorietà conseguita dalla giovane artista, allora poco boante magniloquenza del Barocco. Quest’arte si tra- più che ventenne, e il mezzo per diffonderne ulterior- sformava nel simbolo stesso del nuovo secolo, il mente la fama. Con la tecnica a pennellate vivaci e pa- Settecento: i pettini di tartaruga, gli orecchini di perla, stose, Rosalba si confrontava in picciolo con gli esempi gli orologi da tasca, le pregiate porcellane, i merletti a VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA cascata, i flessibili ventagli e le tabacchiere di tutte le erano venuti a definire l’immagine urbana di segni fogge partecipavano in eguale misura al processo este- trionfali, gli ultimi, i più pomposi e i meno ‘giustificati’. tico, veicolo metaforico privilegiato di una realtà minia- Al contempo si ‘ingombravano’ gli spazi interni di trame turizzata, il quotidiano, come nel Riccio rapito di d’orgoglio e d’ambigua eloquenza, d’inquietudini e di Alexander Pope, quando la protagonista, Belinda, vince, presagi ferali. La città, al chiudersi di questa stagione, si «solo col dito e col pollice», l’«ardito Lord» gettandogli presenta non più come il teatro della grandezza che si sul naso una presa di tabacco al termine di una battaglia compiace di se stessa, ma come il luogo della ‘regola’ antiepica in cui, al posto delle omeriche armi o delle co- prestabilita, data una volta per tutte. Il ‘mito’ di Venezia razze seicentesche, «scattano ventagli, frusciano sete, e si svela ora nella sua presunta immutabilità, svuotata dei forti stecche crepitano» (Pope 1714). È per questo che, contenuti che Francesco Sansovino rivendicava nella sua ancora nel 1793, il quasi sconosciuto Leopoldo Zuccolo, Venetia città nobilissima et singolare del 1581, un mito ri- maestro di pittura nel collegio dei barnabiti di Udine, definibile d’ora innanzi unicamente nella dimensione poteva lamentare «che le pareti delle case si empiono di virtuale della pittura. I nuovi, misuratissimi, interventi nienti vezzosi, e brillanti: ora che si amano per lo più mi- architettonici, pubblici e privati, dalla fine del Seicento niature, ritrattini, e picciole galanterie, che fanno sem- alla caduta della Repubblica non conosceranno il ritmo brare che ’l mondo si sia impicciolito» (Zuccolo 1793). febbrile della stagione precedente: un intento norma- Esemplare in questo senso risulta la vicenda di Pietro tivo, nel nome del ‘buon gusto’, all’insegna anche di una Longhi, un altro allievo di Antonio Balestra. Di ritorno a rivalutazione delle teorie palladiane, non consente trau- Venezia da un soggiorno bolognese ove attinse agli inse- matici riassetti della compagine urbana e nemmeno in- gnamenti di Giuseppe Maria Crespi, nel 1734 affrescò dividualistici esibizionismi ‘profanatori’, tutt’al più lievi una roboante Caduta dei Giganti sulle pareti e sul soffitto operazioni di alto maquillage in splendide facciate (che dello scalone di palazzo Sagredo progettato da Andrea comprendono i Gesuiti di Domenico Rossi e i Gesuati Tirali (Pedrocco 2008). Questa rimarrà una prova isolata di Giorgio Massari) di un pacato sia pur originale classi- e unica nel suo catalogo. La conversione ‘illuminista’ dal cismo che perviene infine, dopo la metà del Settecento, retorico all’antiretorico sarà immediata. Archiviata per con Tommaso Temanza a esiti di «scientifica semplicità» sempre la parentesi del Barocco, egli si dedicherà princi- (Favilla-Rugolo 2008a). La riprogettazione urbana è, palmente a ‘fotografare’ gli interni domestici di una Ve- semmai, immaginaria e passa ai vedutisti, all’ideazione nezia ‘umana’, dove anche una famiglia Sagredo tutta al fantastica soprattutto di un Antonio Canal, meglio co- femminile viene ritratta con affabile argutezza. D’ora in- nosciuto come Canaletto. Quella del trionfo personale si nanzi, a inventare e dominare la vastità dei cieli incom- rinserra nelle dimore patrizie, consegnando l’esaltazione mensurabili, rimarrà Giambattista Tiepolo. di virtù d’intelligenza e di ragione, più spesso esibite che praticate, al pennello dei grandi decoratori, al genio in- L’ALTRA VENEZIA DI CANALETTO stancabile di un Giambattista Tiepolo in primis. Luca Carlevarijs e Canaletto iniziano lo studio ‘og- La Venezia di inizio Settecento registra il rapido af- gettivo’ del tessuto urbano della Serenissima. Il primo, fievolirsi dei fervori che, pur nutriti di illusioni e velleità, proponendosi come incisore, con gli attributi di chi mi- avevano tuttavia reso prodiga e gloriosa la stagione sura e rileva, nella dedica al doge Alvise II Mocenigo de compresa tra gli anni trenta e novanta del XVII secolo, Le Fabriche e Vedute di Venetia del 1703, intendeva sot- quando la città si ornava, oltre e soprattutto della ma- tolineare nella sua opera «l’azione dell’intelletto» (Con- gnifica fabbrica della Salute, di tanti altri ‘apparati’ che cina 1995). I legami con l’ambiente culturale del VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA 259 rinnovamento antibarocco, gravitante intorno alla fi- signori e plebei, sono tutti posti sullo stesso piano gura di Andrea Musalo, si esplicano nell’evidente ri- nelle prime vedute di Canaletto, già in collezione Lie- cerca di un teso rigore prospettico. L’approccio allo chtenstein. Quelle conservate a Ca’ Rezzonico con Il scorcio urbano di Carlevarijs è di ben altra tempera- rio dei Mendicanti e Il Canal Grande da Ca’ Foscari tura rispetto alla dirompenza di Canaletto che, già al- verso Rialto, databili tra il 1720 e il 1726 (Puppi 1968; l’esordio, offuscherà l’astro minore, colpevole solo di Corboz 1985; Pedrocco 1995), si qualificano per una aver preceduto un gigante. valenza «concitata e scenografica», che è autentico resi- E maggiormente un intento di ‘catalogazione’ PAGINA A FIANCO DALL’ALTO, Antonio Canal detto Il Canaletto, Il Canal Grande da Ca’ Foscari verso Rialto e Il rio dei Mendicanti verso la Scuola Grande di San Marco, Venezia, Ca’ Rezzonico. IN ALTO, Antonio Canal detto Il Canaletto, Il Canal Grande da Ca’ Foscari verso Rialto, particolare, Venezia, Ca’ Rezzonico. duo del Barocco (Pallucchini 1960): i cieli sono corsi anima, fin dalle prime opere, l’attività del Canal vedu- da nuvole gravide di pioggia e sul Canal Grande il pit- tista, come se l’infinito amore per la città lo condu- tore inventa – anticipando Asimov – due ‘fantascienti- cesse a stilare un tutt’altro che arido inventario fici’ soli che gettano ombre opposte sull’acqua. E sentimentale dove poter fissare il respiro dell’organi- anche sotto l’epidermide della produzione matura smo urbano. Il mattone sbrecciato, gli intonaci a bran- (quella degli anni trenta e oltre), quando nell’eterno, delli, il rivelarsi di finestre gotiche tamponate chissà assolato, abbacinante meriggio senza tempo è il mo- quando, le macchie sulle pareti che trasudano umidità, mento dell’ombra più corta e l’aria è sempre tersa e l’acqua dei canali verdi, il salso sui muri incrostati, gli cristallina, continuano a fermentare in Canaletto i squeri fatiscenti, le sovraccariche chiatte arenate nel- germi del divenire inesorabile e fatale che erano ap- l’ombra spugnosa dei primi piani, il popolo laborioso parsi in tutta la loro ‘scandalosa’ evidenza nelle ‘dram- oppure ozioso delle massaie che si affacciano ai bal- matiche’ vedute giovanili. coni, dei mendicanti mingenti sulla fondamenta davanti alla chiesa, di operai, artigiani, spazzacamini, VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA 261 APPENDICE DI SERENA TAGLIAPIETRA Le tecniche e i materiali del Barocco veneziano Anche a Venezia, in ogni ambito artistico dell’età barocca, la prassi progettuale non risultava mai disattesa ed era anzi investita di una valenza precipua. Tale pratica si concretizzava nell’esecuzione di schizzi, disegni e modelletti da presentare alla committenza. Le fasi più propriamente tecniche della realizzazione dell’opera prevedevano spesso la collaborazione delle diverse componenti della bottega o del cantiere, con compiti ben stabiliti, rispetto ai quali l’artista esercitava la direzione e il controllo, per intervenire eventualmente soltanto alla fine. Illuminanti sono a tal proposito le parole di Giustiniano Martinioni il quale, riferendosi alla costruzione della basilica della Salute, ricordava come «sopra il qual battudo, fatto il suolo di tavoloni di rovere e larese bene collegati e concatenati, s’incominciò a lavorare con pietre e malta, alzandosi la gran macchina nella forma e modello ordinato dall’architetto» (1663). L’ARCHITETTURA Facciate I terreni sabbiosi sui quali è stata edificata Venezia mal sopportavano, per loro natura, il peso degli edifici, per cui si rendevano necessarie preventive operazioni di consolidamento dei fondali. Nel caso di murature soggette a carichi consistenti, come quelle delle facciate di chiese e palazzi, questo avveniva infiggendo nei terreni pali di legno sopra i quali venivano poi inchiodate piattaforme di travi incrociate (Piana 1984). Si provvedeva quindi all’elevazione delle fondamenta e di leggeri setti murari in mattoni, che gli stessi muratori rivestivano con lastre ed elementi variamente conformati in pietra d’Istria, abbozzati dagli scalpellini. Le prime, come ricordato da Francesco Griselini nel suo Dizionario delle arti e de’ mestieri (VIII, 1770), erano ricavate ponendo i blocchi in appositi telai, entro cui venivano tagliati, mentre i secondi subivano un processo più propriamente scultoreo. La prassi comune era quella di non ricavare i differenti elementi architettonici che dovevano comporre la facciata da un unico e dispendioso monolite di materiale (Rockwell 1997), bensì assemblando insieme più blocchi. La loro congiunzione avveniva sia grazie all’inserimento di barre metalliche, saldate secondo l’antica tecnica dell’impiombatura, sia creando delle superfici complementari di contatto, in alcuni casi di tipo maschio-femmina (Faccio-Petrelli 1997). La rifinitura conclusiva consisteva quindi in un trattamento a graffiatura della pietra, per vincere l’opacità di un materiale altrimenti dalla tona- 262 lità troppo sorda e monocromatica. Nel caso del prospetto di Santa Maria del Giglio s’è notato per esempio come i segni lasciati dai differenti strumenti siano stati impiegati per evidenziare taluni elementi architettonici, piuttosto che altri (Rockwell 1997). Singolare risulta invece la facciata degli Scalzi, in quanto realizzata in pregiato marmo di Carrara. Particolare della facciata della chiesa degli Scalzi. Altari e monumenti L’edificazione di altari e monumenti funebri non si discostava dai principi fin qui enunciati, in quanto, anche in tal caso, gli elementi architettonici venivano incassati su una struttura in mattoni e ulteriormente impreziositi con lastre e impiallacciature di marmo. Quest’ultimo era considerato per la sua rutilante cromia uno dei materiali più nobili dell’estetica barocca, come ricordato da Griselini (VIII 1770), che registrava come «alcuni marmi sono bianchi, o neri, altri sono screziati o mescolati di macchie, vene, mosche, onde, nuvole: quanto più i colori e le macchie son vive, e variegate, tanto più i marmi sono preziosi, e cari». Tra i litotipi più belli dal punto di vista cromatico si ricordano la breccia di Seravezza, di colore bianco-violaceo (es. rivestimento parietale degli Scalzi), i diaspri teneri di Sicilia, con toni variabili dal rosso al verde (es. altari della chiesa dei Gesuati) e il rosso Languedoc, d’importazione francese (es. altare maggiore della chiesa degli Scalzi) (Lazzarini 1986). Eccezionale risulta invece per la realtà lagunare la splendida «incrostadura di marmo rimesso di verde antico» (Goi 1994) della navata della chiesa dei Gesuiti, eseguita secondo l’antica tecnica dell’intarsio marmoreo. Questa prevedeva che le crustae di materiale verde, tagliate nelle forme più varie, fossero interconnesse le une alle altre con resina, entro alloggiamenti scavati nelle lastre di marmo bianco (Tosa 2003-2004). Ancor più rare sono a Venezia le opere in commesso fiorentino, per lo più impiegate nei paliotti d’altare (Scarpa 1996) e caratterizzate dalla presenza di crustae di pietre dure e madreperla, giustapposte al marmo, come nelle ante delle porte della cappella Venier agli Scalzi. LA SCULTURA Scultura lapidea I materiali più impiegati per la scultura lapidea d’età barocca a Venezia furono il marmo bianco di Carrara e per gli esterni la pietra d’Istria, un calcare di colorazione verde-carnicio che oggi ha assunto un’intonazione biancastra a causa della patinatura subita nel tempo (Lazzarini 1986). L’estrazione nelle cave risultava in entrambi i casi alquanto ostica per la difficoltà a ricavare blocchi di grandi dimensioni, privi di imperfezioni. Una volta che questi materiali fossero giunti nel laboratorio dello scultore, si provvedeva al riporto sulle loro superfici dei punti principali della composizione, tracciati con i più vari sistemi. S’iniziava quindi il lavoro, eliminando gradualmente porzioni di materiale su tutti e quattro i lati, mediante la percussione, con martelli, di strumenti con punte diverse – subbie, gradine e scalpelli – che abradevano per vibrazione la pietra. Lo scultore e i suoi aiutanti in questa fase agivano gradualmente, approfondendo dapprima le cavità principali, quindi scavando membra e panneggi e solo successivamente abbozzando le parti accessorie. Tra gli attrezzi utilizzati il grande protagonista della scultura barocca fu il violino, un trapano manuale che permetteva di perseguire forti effetti di chiaroscuro, com’è per esempio visibile nella resa delle chiome imparruccate e dei pizzi traforati delle statue dei componenti della famiglia Barbaro a Santa Maria del Giglio. Una volta definito precisamente ogni elemento, si provvedeva alla levigatura e lucidatura finale Enrico Merengo, Ritratto marmoreo di Giovanni Maria Barbaro, particolare, Chiesa di Santa Maria del Giglio, facciata. delle superfici per assottigliamento graduale delle asperità lasciate dai diversi strumenti, mediante raspe e polveri abrasive a grana via via più fine. Dopo tali operazioni di «pulitura», che permettevano l’occlusione dei pori del materiale, la su- perficie veniva quindi trattata con cere o altre sostanze organiche – grassi e oli – che ne esaltavano ulteriormente la brillantezza. Tutti gli strumenti precedentemente citati lasciavano sul marmo segni differenti d’abrasione, solitamente non più osservabili, se non nei casi in cui l’artista se ne fosse servito con una certa finalità espressiva. È questo il caso, per esempio, dei rilievi con storie di Cristo eseguiti da Giovanni Maria Morlaiter ai Gesuati, in cui i segni di differenti strumenti sono stati impiegati, in associazione con parti invece levigate, per rendere la diversa consistenza materica di rocce, alberi, cieli, nuvole, capelli e panneggi. Scultura lignea Rispetto a quanto detto, l’esecuzione di una scultura in legno, pur presentando notevoli similitudini con la lavorazione della pietra – poiché entrambe basate sull’atto del «levare» – se ne discostava sostanzialmente nel processo d’assemblaggio tra le parti che, mentre per le opere lignee costituiva la norma, nel caso di quelle lapidee si configurava come prassi circoscritta (Wittkower 1993). Il legno infatti, pur essendo un materiale tenero e quindi più facilmente lavorabile, presentava l’inconveniente di poter essere scolpito solo a partire da elementi di dimensioni limitate e presupponeva un indispensabile montaggio di parti per mezzo di perni, chiodi, colla e/o di superfici a incastro (Dean-Bonomi 1997). I legni più utilizzati erano quelli di media durezza, tra i quali si ricordano il pero e il noce, apprezzati con il bosso anche per le loro tonalità calde e uniformi (Le tecniche 1981). Anche un’essenza leggera come il cirmolo trovò largo uso, come dimostrano molte opere di Andrea Brustolon (Andrea Brustolon 2009). La presenza di nodi e venature veniva celata grazie a trattamenti particolari, che tendevano a perseguire effetti simili a quelli della statuaria in metallo, in marmo, in stucco e all’oreficeria, tramite il rivestimento delle superfici con lamine di foglia d’oro, con stesure di biacca o di policromia, oppure impiegando essenze scure, quali il mogano, come ad esempio nei guerrieri etiopi e in quelli mori del Fornimento Venier di Brustolon. Possibile era, infine, l’uso di pregiate patinature pigmentate, come nel caso dei banchi con «requadri di nogara intagliati fatti e posti nella Sala Grande» della Scuola di San Rocco, opera di Francesco Pianta e degli zii, Alessandro e Antonio (Rossi 1999a). Stucco L’esecuzione di un’opera stucchiva presupponeva, invece, un procedimento differente da quello finora riscontrato. All’asportazione del materiale si sostituiva, infatti, la sovrapposizione di strati diversi di malta, stesi sopra un supporto idoneo, per le fasi di realizzazione del quale si rimanda al paragrafo sulle pitture murali. L’esecuzione di opere ad altorilievo si differenziava da quelle a più basso rilievo per la presenza di scheletri al loro interno, realizzati ad esempio con chiodi raccordati con spaghi (Fogliata 2004). Su tali strutture si procedeva creando la forma mediante stesure successive di stucco, formato da un impasto di calce spenta e «coppi pesti», ossia laterizi macinati e sabbia. Per abbreviare i tempi d’indurimento di tale impasto s’aggiungeva del «zesso da presa» (Fogliata 2001), come risulta per esempio dai pagamenti per «la facitura de stuchi della capella dell’altar maggiore» della chiesa dei Gesuiti (Goi 1994). Dopo l’ulteriore stesura di strati a base di calce e sabbia, s’eseguiva quindi la «pelle» dell’opera, attraverso la sovrapposizione di tre stesure di malta a base di polvere di marmo e calce spenta, applicata ‘a giornata’ e finemente lisciata. Molto diffusa era quindi la pratica della doratura di alcuni particolari della composizione, mediante la stesura di foglia d’oro applicata a missione o sopra una preparazione a bolo, come nel caso degli stucchi del camerone di palazzo Barbaro. LA PITTURA Affresco L’esecuzione delle pitture murali veneziane, pur manifestando significativi parallelismi con i precetti teorizzati da Andrea Pozzo nella Breve istruzione per dipingere a fresco (1693-1702), presentava alcune varianti legate alla particolarità dell’ambiente lagunare. L’opera prendeva avvio con la predisposizione di un supporto idoneo, costituito da soffitti leggeri, creati grazie all’ancoraggio alla travatura di scheletri formati da sottili listelli di legno (cantinelle), oppure da stuoie di canne palustri (incannucciati). Al di sopra di questi i pittori facevano solitamente stendere due strati di malta, composta da calce e sabbia: uno più grezzo e l’altro, detto intonaco, a grana più fine. Una particolarità veneziana è che solitamente lo strato più grezzo (detto pastellone), dal caratteristico colore rosato, prevedeva l’aggiunta tra i componenti anche di polvere di mattoni, che lo rendeva più resistente all’umidità e conferiva un’intonazione più calda all’intonaco applicato successiva- mente. La modalità di stesura di quest’ultimo avveniva a ‘giornate’, cioè per piccole porzioni corrispondenti alla quantità di composizione che l’artista poteva dipingere in un giorno. In epoca barocca la lavorazione dell’intonaco prevedeva un’operazione di rifinitura dello stesso, detta granitura, effettuata con pennelli duri per «sollevare i minuti granelluzzi di arena, acciocché più facilmente si attacchino i colori» (Pozzo 2001). Si procedeva quindi alla stesura dell’intonaco, trasferendo i contorni delle figure mediante i cosiddetti cartoni, i segni del cui ricalco sono in taluni casi ancor oggi visibili. Nella tecnica definita ad affresco i pigmenti, stemperati in acqua, venivano applicati sull’intonaco ancora umido, in modo da essere inglobati nella malta a causa della reazione d’indurimento della calce, ottenendo una pittura chiara e luminosa, che induceva però il pittore a dipingere «al primo colpo» senza possibilità di ripensamenti e correzioni (Griselini, XIII, 1772). Qualora l’artista avesse continuato a lavorare dopo la fase di carbonatazione – circostanza molto comune questa visti i tempi rapidi di tale processo – le pennellate di colore non avrebbero potuto aggrapparsi all’intonaco ormai indurito. Si verificava così la necessità di un legante che ne favorisse l’applicazione, ossia il latte di calce – tecnica del mezzo fresco – che permetteva d’ottenere pennellate coprenti, che si avvicinavano ai risultati della pittura a olio, senza comunque rinunciare alla luminosità propria dell’affresco. Queste due tecniche sono quelle che maggiormente si attestarono a Venezia tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, mentre per tutto il XVII secolo ebbe grande successo un tipo di pittura murale definita a secco (Muraro-Fiocco-Ivanoff 1960), in quanto i pigmenti venivano per lo più stemperati in Louis Dorigny, Particolare degli affreschi del salone di Ca’ Zenobio. un legante organico e applicati a fase di carbonatazione già avvenuta, ottenendo stesure opache e cariche, più vicine a quelle della coeva pittura su tela. L’impiego concomitante di queste tecniche sembrerebbe ipotizzabile, per esempio, nel soffitto dipinto da Louis Dorigny a Ca’ Zenobio, ove alcuni particolari, come i tappeti e le ghirlande, parrebbero essere stati eseguiti in un secondo momento, a mezzo fresco o a secco, al di sopra della quadratura architettonica già realizzata. Olio In riferimento alla pittura a olio Griselini annotava come a differenza dell’affresco questa «dà all’artefice la facilità di ritoccare il suo quadro quante volte egli vuole» ed evidenziava come tale medium «fa il colorito più morbido, e più dolce, e gli stessi colori nel lavorar si uniscono, si mescolano e si confondono fra loro meglio» (XIII, 1772). La stesura pittorica sfruttava come supporto tele di lino o canapa, applicate su intelaiature flessibili e impermeabilizzate con colle o oli, sopra cui veniva spalmata una mestica, composta nella maggior parte dei casi da una preparazione d’intonazione rosso-bruna, detta ‘bolo veneziano’, impiegata nella pittura lagunare fin dal Cinquecento. Questa era formata da olio, ocre rosse e brune, biacca, nero carbonioso e minio e aveva il compito di costituire un piano levigato e atto ad accogliere gli strati pittorici (Bensi 1998). L’intonazione della mestica serviva inoltre per scaldare le tinte applicate successivamente – come appare evidente in numerosi dipinti di Piazzetta, tra i quali, per esempio, il Muzio Scevola di palazzo Barbaro –; questa funzione poteva inoltre essere assolta anche dalle possibili imprimiture. I pigmenti per essere applicati dovevano essere finemente triturati e miscelati con il mezzo legante – solitamente olio di lino o di noce – e con oli essenziali, come quello di spigo o l’essenza di trementina (Le tecniche 1981). Il modo di dipingere dei pittori veneziani avveniva dapprima applicando il colore a corpo con pennellate piene, stese in maniera spontanea; quindi rifinendo i dettagli in maniera più precisa con stesure successive di colore via via più diluite. Nelle opere giovanili di Canaletto le indagini radiografiche (Mucchi 1983b) hanno rivelato come, sopra un disegno approssimativo, l’artista dapprima abbozzasse con pennellate veloci la cromia e i chiaroscuri degli edifici, definiti minuziosamente solo in un secondo momento. Anche i cieli risultano essere costruiti grazie a pennellate sommarie e cariche di colore, mentre i particolari più minuti – come figure o imbarcazioni – venivano tracciati solo alla fine con «pennellate imprecise a tocco». Sulle pitture così condotte veniva infine applicato uno strato di vernice, eventualmente pigmentata, con funzione protettiva e lucidante. Miniatura La tecnica della miniatura in età barocca impiegò invece nuovi e sempre più pregiati supporti, come metalli preziosi, materiali esotici e particolari litotipi. A fianco della più tradizionale pergamena notevole diffusione ebbe soprattutto l’avorio, impiegato nelle suppellettili più varie, come pettini, orologi, ventagli, scatole, gioielli e tabacchiere (Favilla-Rugolo 2007). Nella resa della parte figurata a miniatura gli artisti si avvalsero in genere della tradizionale tecnica pittorica definita «puntinismo», ossia dell’applicazione dei pigmenti a pennello mediante piccoli puntini più o meno ravvicinati di colore. Si verificava così, solitamente, una commistione tra la pittura a gouache e quella ad acquerello, per cui i pigmenti, stemperati in acqua di gomma arabica, erano stesi in modo da favorire la formazione di film sottili e chiari, in grado di lasciare intravedere l’intonazione dell’avorio sottostante e conferendo particolare morbidezza alla stesura, specie nella resa degli incarnati (Le tecniche 1981). Nota al testo Le presenti schede costituiscono la sintesi di uno studio più organico che la scrivente sta approfondendo sulle tecniche e i materiali artistici impiegati a Venezia in età barocca. 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INDICE DEI NOMI Abele, 161 Abramo, 161 Acquisti Angelo, 147 Agostino (santo), 108, 182 Agrippa Marco Vipsanio, 31, 33 Aikema B., 142, 189, 211, 219, 223, 230 Albrizzi, famiglia, 230 Albrizzi Giambattista, 230 Aleandro Girolamo, 30 Alessandro VIII (papa), 86 Allegri Antonio, detto il Correggio, 190 Alpers S., 251 Andretta S., 30 Anfione (re tebano), 211 Angelieri A., 145 Anna (santa), 166 Antonio da Padova (santo), 153, 178 Arslan W., 249 Asimov Isaac, 261 Augusto (imperatore), 33, 139 Baccheschi E., 190 Bacchi A., 61, 71, 84, 130 Baciccia, vedi Gaulli Giovanni Battista Balestra Antonio, 189, 190, 195, 200, 224, 258, 259 Bambini Nicolò, 140, 159, 187, 190, 200, 203, 211, 214, 249 Baratti Alvise, 37 Barbaro (di San Vidal), famiglia, 263 Barbaro (di Santa Maria del Giglio), famiglia, 46 Barbaro Alvise, 223 Barbaro Antonio, 30, 34, 37, 46, 53 Barbaro Carlo, 37 Barbaro Francesco, 37 Barbaro Giovanni Maria, 37 Barbaro Marino, 37 Barbarigo Gregorio (cardinale), 46 Barbarigo Gregorio, 190 Barcham W.L., 217 Barthel Melchiorre (Barthel Melchior), 71 Baruffaldi G., 187 Bassi E., 24, 154, 220 Baxandall M., 251 Bellucci Antonio, 87, 140, 166, 173, 175, 178, 190 Beltrame Marco, 71 Benassai P., 152 Benedetto III (papa), 162 Benoni Giuseppe, 152 Bensi P., 263 Benzoni G., 30, 31, 34, 53 Bernini Gianlorenzo, 54, 60, 78, 217, 239 Berrettini Pietro, vedi Da Cortona Pietro Bertoli B., 162 Bolzoni L., 116 Bonazza Giovanni, 61, 79 Boni Zanetta, 84 Bonomi R., 262 Borean L., 61 Borgia Francesco (santo), 144, 190 Borgomaniero A., 24 Borromini Francesco, 54, 217 Bortoloni Mattia, 200 Boschini Marco, 153, 158 Brentana Simone, 189 Broli Bernardo, 145 Bruni Domenico, 181, 182 Brustolon Andrea, 122, 128, 129, 262 Buonarrotti Michelangelo, 239 Bushnell John, 61 Cabianca Francesco, 60 Caino, 161 Calamati, vedi Calumati Bortolo, 257 Caliari Paolo, detto il Veronese, 139, 152, 153, 159, 175, 189, 195, 197, 217, 239, 253 Calumati Bortolo, 257 Calvesi M., 112 Canal Antonio, detto Canaletto , 259, 261, 263 Canaletto, vedi Canal Antonio Canciani Giovanni, 60 Cappello Vincenzo, 31, 33, 46 Cargnoni Bartolomeo, 46, 145 Carlevarijs Luca, 259, 261 Carracci, famiglia, 239 Carracci Annibale, 190 Carriera Giovanna, 257 Carriera Rosalba, 257, 258 Casini M., 30, 46 Cavalieri Giovanni Battista, 33 Cavazza Girolamo, 37 Cavrioli Francesco, 71, 86 Celesti Andrea, 162, 190 Cerva Pietro Antonio,182 Cervelli Federico, 128, 190 Cicerone, 108, 116, 117 Cigola Domenico, 172 Colleoni Bartolomeo, 31 Comin Giovanni, 60 Concina E., 18, 55, 261 Contarini Nicolò (doge), 173, 175 Contarini Pietro, 159 Conticelli V., 52, 60, 61 Contin Francesco, 16 Corboz A., 261 Coriolano (generale romano), 211, 224 Cornaro, vedi Corner Corner, di San Polo, famiglia, 84, 217 Corner Caterina, 84 Corner F., 195 Corner Federico, 217 Corner Piscopia Elena Lucrezia, 78, 84, 85 Corner Piscopia Francesco, 85 Corner Piscopia Giovanni Battista, 84 Corner Piscopia Girolamo, 85 Coronelli Vincenzo, 257, 258 Coronelli V.M., 257, 258 Correggio, vedi Allegri Antonio Correr, di San Giovanni Decollato, famiglia, 166 Correr Angelo, 219 Corubolo A., 239 Cozzi G., 13 Craievich A., 166, 189 Crespi Giuseppe Maria, 259 da Canal V., 173, 175, 220, 224 Da Cortona Pietro, 181, 187 da Mosto Alvise, 55, 79 da Narni Erasmo, 31 dal Pozzo B., 161 Dalla Colletta F., 214 Damira, 145 Daniels J., 172 David Jaques Louis, 30 David Ludovico, 230 De’ Barbari Jacopo, 152 De Kunert S., 158 De Grassi M., 128, 219, 223 de’ Medici Cosimo II (granduca di Toscana), 54 de’ Rossi Maria Benedetta, 16 De Vincenti M., 79 Dean M., 262 Degli Ambrogi Domenico, 187, 189 Delmino Giulio Camillo, 116 Delorenzi P., 164 Dézallier d’Argenville J.-A., 161, 257 Difnico Domenico, 175 Diocleziano (imperatore), 189 Diplovataccio Tommaso, 30 Doglioni N., 139, 182 Dolfin, famiglia, 187 Domenichini R., 253 Domenico (santo), 203, 249 Donà Leonardo (doge), 63 Dorigny Louis, 91, 140, 159, 161, 182, 187, 189, 190, 217, 219, 239, 249, 263 Emo Angelo, 175 Ercole (eroe greco), 108, 112, 117, 154, 158, 166, 211, 220, 223 Ermete Trismegisto, 112, 117 Euridice, 214 Fabri Giovanni Battista, 142, 187 Fabris Michele, detto l’Ongaro, 61, 71 Faccio P., 262 Falconi Bernardo, 86, 130 Favaro E., 153, 190 Favetta M., 217 Favilla M., 11, 31, 34, 37, 52, 53, 54, 60, 79, 91, 129, 145, 154, 161, 187, 189, 190, 217, 219, 220, 239, 249, 253, 257, 258, 259, 263 Fechel Giovanni, 257 Ferrari Antonio Felice, 182, 187 Ferro Domenico, 146 Fetti Domenico, 203 Fini, famiglia, 34 Fini Girolamo, 33, 34 Fini Vincenzo, 33, 46, 154, 155, 158 Fini Vincenzo Girolamo, 34, 154 Fini O., 24 Fiocco G., 263 Fischer von Erlach, Johann Bernard, 53, 54 Flangini, famiglia, 154 Flores d’Arcais F., 182 Fochi Ferdinando, 182, 220 Fogliata M., 263 Fontebasso Francesco, 239 Forabosco Girolamo, 142 Fortuny Mariano, 158 Foscarini, di San Stae, famiglia, 84 Frank M., 16, 18, 24, 34, 48, 55, 61, 63, 86, 87, 91, 128, 152, 159, 187 Freschot C., 46, 63, 84 Fumiani Giovanni Antonio, 139, 162, 165, 166, 187, 189, 190 Gaier M., 31, 33, 46, 52, 54, 55, 61, 158 Galeno, 108 Gallego J., 33 Garzoni Girolamo, 61 Gaspari Antonio, 52, 53, 54, 60, 61, 79, 87, 91, 140, 217, 220, 223 269 Gattamelata, vedi Da Narni Erasmo Gaulli Giovanni Battista, detto il Baciccia, 217, 239, 253 Gemin M., 18, 24 Gesù di Nazareth, 37, 91, 144, 146, 147, 162, 190, 239 Ghio L., 190 Giacomo (santo), 46, 48 Gianvizio Giacomo Maria, 128 Gioacchino (santo), 166 Giogalli Simon, 181 Giordano Luca, 145, 181, 223, 239 Giuseppe (santo), 91, 182 Giustiniani Lorenzo (santo), 86, 87, 140, 173, 175, 178 Goi P., 263 Goya Francisco, 214 Gonzaga Luigi (santo), 190 Grimani, famiglia, 33 Griselini Francesco, 262, 263 Gritti Triadan, 34 Groppelli Giovanni Battista, 60 Groppelli Marino, 60 Gualdi Federico, vedi Gualdo Federico Gualdo Federico, 112, 158 Guerriero S., 87 Guidarelli G., 24 Gullino G., 52 Guglielmi Simone, 181 Heintz Daniel, 162, 190 Hopkins A., 16 Isidoro di Siviglia, 108 Ivanoff N., 152, 162, 189, 211, 263 Ivanovich Cristoforo, 63, 71, 74, 159 Isabella d’Aviz (imperatrice), 144 Jean monsieur, vedi Steve Jean Juster Giuseppe, 257 Knox G., 211 Kostka Stanislao (santo), 190 Lacchin E., 108 Lacombe J., 258 Lancillotti Carlo, 116 Lando Pietro (doge), 162 Lanfranco Giovanni, 239 Langetti Giovanni Battista, 142, 144 Lazari V., 87 Lazzari F., 130 Lazzarini Gregorio, 86, 140, 166, 173, 175, 189, 190, 200 Lazzarini L., 262 Le Brun Charles, 161, 217 Le Court Giusto (De Corte Josse), 37, 61, 63, 71, 86, 87 Leone V l’Armeno (imperatore), 161 Leone M., 153 Leopoldo I (imperatore), 153 Liberi Pietro, 86, 139, 142, 152, 153, 158, 159, 178, 181, 230 Liss Johann, 78, 142, 203 Litterini Agostino, 182 Longhena Baldassare, 11, 13, 16, 18, 24, 46, 63, 78, 86, 87, 91, 128, 152, 159, 178, 187, 214, 217 Longhi Pietro, 116, 164, 257, 259 Longhi R., 189 Lorenzo (santo), 142 Loth Johann Carl, 153, 161, 190, 230 Lubrani Giacomo, 71 Lucco M., 139, 173 Lucini Giovanni Battista, 30 270 Luigi XIV (re), 161 Lupis A., 84 Magani F., 175, 181, 189 Magrini M., 239 Manaigo Silvestro, 200 Mancini F., 187 Manin, famiglia, 91, 190, 239 Mantegna Andrea, 162 Manzoni Ridolfo, 257 Maratta Carlo, 159, 173, 190 Marc’Aurelio (imperatore), 31 Marco (santo), 78 Marcello Lorenzo, 53, 79 Maria, madre di Gesù, 18, 24, 91, 145, 146, 147, 166, 172, 190, 195, 197, 249, 251, 253 Maria Maddalena (santa), 144 Marinelli S., 189, 239 Mariotti Giambattista, 200 Mariuz A., 153, 172, 200, 203, 217, 220, 230, 253 Martinelli D., 74, 78, 122, 182, 187, 195 Martinioni Giustiniano, 53, 79, 262 Maschietto F.L., 84 Mason S., 144 Massari Giorgio, 55, 249, 253, 259 Matteo (santo), 48 Mauro Gaspare, 145 Mazza C., 233 Mazzetti Tencalla Carpoforo, 233, 239 Mazzoni Sebastiano, 152, 153, 159, 162, 230 Menarola Pietro, 257 Mengozzi Colonna Girolamo, 182, 187, 253 Menniti Ippolito A., 63 Merengo Enrico (Meyring Heinrich), 34, 37 Merkel E., 122 Michiel Elena, 223 Mida (re), 219 Mocenigo Alvise, da Sant’Alvise, 53, 61 Mocenigo Alvise II, da San Stae (doge), 189, 259 Moli Clemente, 86 Molinari Antonio, 87, 130, 166, 172, 173, 190 Monica (santa), 182 Moretti Faustino, 181 Moretti L., 189, 195, 197, 200, 203 Moretti S., 130 Morlaiter Giovanni Maria, 251, 262 Morosini, di San Canciano, famiglia, 78 Morosini Giovanni Francesco, 71, 74, 79 Morosini Francesco (doge), 13, 24, 30, 52, 53, 54, 60, 78, 79, 178 Morosini Lorenzo, 52, 54 Moschini G., 87 Mucchi L., 263 Muraro M., 187, 263 Muriani Angelo, 257 Musalo Andrea, 55, 261 Muzio Scevola, 224 Nadin Bassani L., 85 Nave Bernardo, 217 Negri Pietro, 139, 145, 147, 152 Niero A., 16, 24, 61, 249, 251 Olivato L., 55 Onfale, 166 Onofri F., 74 Orfeo, 166, 211, 214 Ottaviano Augusto, vedi Augusto Ottone III (imperatore), 162 Pacifico P.A., 187 Padovanino, vedi Varotari Alessandro Pagani Paolo, 220 Palladio Andrea, 18, 53, 55, 152, 239 Pallucchini R., 175, 178, 203, 251, 261 Pancrazio (santo), 162, 164, 165 Pantaleone (santo), 187, 189 Paolo (santo), 130 Paolo V (papa), 61, 63 Parodi Filippo, 54, 60, 78 Partecipazio Giovanni (doge), 164 Partecipazio Giustiniano (doge), 161 Pasian A., 258 Patin Carla, 85 Patin Carlo, 85 Pavanello G., 217, 230 Pedrali Giacomo, 145, 181 Pedrocco F., 116, 139, 142, 145, 224, 249, 259, 261 Pellegrini Girolamo, 87, 181 Pellegrini Giannantonio, 140, 161, 190, 195, 200, 217, 220, 230, 249, 258 Pelli Andrea, 220 Penso Francesco, vedi Cabianca Francesco Perissa A., vedi Perissa Torrini A. Perissa Torrini A., 129, 162 Pesaro Elena, 159 Pesaro Giovanni (doge), 63, 71, 139, 159 Pesaro Leonardo, 159 Petrelli M., 262 Piana M., 262 Pianta Alessandro, 262 Pianta Antonio, 262 Pianta Francesco, junior, 108, 112, 116, 122, 262 Piazzetta Giacomo, 122, 128, 203 Piazzetta Giambattista, 200, 203, 224, 263 Pietro (santo), 130 Pietro Martire (santo), 161 Pilo G.M., 251 Pin C., 63 Pittoni Giambattista, 200 Platone, 108, 130 Pope Alexander, 259 Poussin Nicolas, 217 Povoledo E., 187 Pozzo Andrea, 87, 189, 253, 263 Pozzo Giuseppe (Jacopo Antonio), 87, 91 Praz M., 108, 112, 116, 117 Primaticcio Francesco, 219 Priuli Gracimana, 161 Procaccini Camillo, 142 Puppi L., 18, 153, 261 Querini Valier Elisabetta, 79, 84 Raffaello, vedi Sanzio Raffaello Ravelli L., 181 Ravaioli L., 55 Read J., 112 Régnier Nicolas, 142 Reni Guido, 239 Ricchi Pietro, 181, 182 Ripa C., 34, 37, 61, 78, 86, 108, 112, 116, 117, 122, 154, 155 Ricci Sebastiano, 55, 128, 129, 140, 161, 172, 187, 189, 190, 195, 197, 200, 217, 220, 223, 249, 258 Robusti Jacopo, detto Tintoretto, 108, 112, 117, 162, 197 Roca De Amicis A., 178 Rocco (santo), 146, 147 Rockwell P., 262 Rodope (regina di Tracia) 145 Romanelli G., 117, 139, 214 Roncaioli Pietro, 219, 223, 224 Rossetti L., 189 Rossi Domenico, 55, 203, 259 Rossi M., 153 Rossi P., 37, 61, 63, 87, 108, 112, 116, 117, 128, 129 Rossi Pinelli O., 30 Rues Tommaso, 37, 87 Ruggeri U., 154 Ruschi Francesco, 145 Rugolo R., 11, 16, 31, 34, 37, 52, 53, 54, 60, 78, 79, 85, 91, 108, 129, 145, 146, 154, 158, 161, 187, 189, 190, 217, 219, 220, 239, 249, 253, 257, 258, 259, 263 Sabina (santa), 162, 164 Sacchi Andrea, 190 Sagredo, famiglia, 233, 259 Salutati C., 117 Sandi, famiglia, 203 Sandi Tommaso, 203, 214 Sandi Vettor, 211, 214 Sannazaro Jacopo, 30 Sansovino Francesco, 13, 30, 33, 259 Sansovino Jacopo, 129 Santurini Francesco, 145 Sanzio Raffaello, 161, 190, 239 Sardi Giuseppe, 34, 37, 61 Sardi Valentin, 203 Sartori A., 122 Sassi L., 11 Sebastiano (santo), 147 Segala Giovanni, 87, 189, 190 Selfridge Field E., 195, 197 Selvatico P., 55, 78, 87, 203 Sobieska Teresa Cunegonda, 187 Spiriti A., 78 Stazio Abondio, 219, 220, 230, 233, 239 Stazio Andrea, 200 Stefani Mantovanelli M., 144 Steve Jean, 257, 258 Strozzi Bernardo, 142, 203 Strozzi Giulio, 30, 33, 54 Suomela Girardi F., 87 Tron Andrea, 161 Tron Nicolò, 161 Tumidei S., 78 Turlon E.C., 257 Uberti Pietro, 200 Ulisse, 211 Valier, di San Giobbe, famiglia, 79 Valier Bertucci (doge), 79 Valier Silvestro (doge), 79, 84 Vannacci G., 60 Varotari Alessandro, detto il Padovanino, 153, 175 Vecchia Pietro, 144, 190 Vecellio Tiziano, 153, 161, 165, 187 Vendramin Francesco, 61, 63 Venier, di San Vio, famiglia, 128 Veronese, vedi Caliari Paolo Vicini M.L., 239 Vico Giambattista, 211 Vincenti D., 140 Vio G., 86, 129 Virgilio, 108 Viviani Lorenzo, 60 Vouet Simon, 161, 217 Wittkower R., 262 Wharton Philip, duca di, 258 Zaccaria (santo), 162 Zampetti P., 145 Zanchi Antonio, 139, 142, 145, 147, 152, 153, 161, 162, 164, 165, 166, 178, 181, 190, 223, 230 Zane, di San Stin, famiglia, 129 Zane Marino, 220, 223 Zane Vettor, 223 Zanetti A.M., 153, 162, 166, 189, 190, 195, 249 Zanetto M., 30 Zava Boccazzi F., 187, 258 Zenobio, famiglia, 219 Zonca Giovanni Antonio, 162, 164 Zuccolo Leopoldo, 259 Tabacco Bernardo, 78, 84, 91 Temanza Tommaso, 259 Teresa d’Avila (santa), 144 Tesauro Emanuele, 63, 71, 116, 214 Tesseri Teodoro, 54 Tiepolo Giambattista, 11, 159, 161, 182, 200, 203, 211, 214, 217, 224, 249, 251, 253, 259 Tintoretto, vedi Robusti Jacopo Tirali Andrea, 54, 55, 79, 259 Tirali Piero, 60 Tito (imperatore), 139 Tiziano, vedi Vecellio Tiziano Tommaso d’Aquino (santo), 108 Ton D., 211, 214 Torretti Giuseppe, 91, 122, 129, 130 Torri Pietro Antonio, 181 Toschini Giovanni, 60 Trabucco Antonio, 60 Tremignon Alessandro, 33, 154 Trevisani Angelo, 189, 190, 200 Tron, di San Stae, famiglia, 159 271 Giovanni Battista Cavalieri, Testa deforme, Campanile di Santa Maria Formosa. CREDITI FOTOGRAFICI E RINGRAZIAMENTI Tutte le fotografie sono di Luca Sassi e pertanto proprietà di Sassi Editore srl, eccetto le seguenti: © Cameraphoto Arte / Venezia, pagg. 4-5, 13, 144-145, 148-149, 150-151, 152, 160 © Photoservice Electa / Anelli, pag. 145 © Per gentile concessione della Procuratoria di San Marco – Venezia, pag. 172 © Fondazione Querini Stampalia Onlus, Venezia, pag. 256 © Arsenale Editrice, pag. 231. Le seguenti immagini appartengono all’archivio di Massimo Favilla e Ruggero Rugolo: pagg. 16, 33 in alto, 52 in alto, 53, 54, 60, 79, 85 a sinistra in alto e in basso, 112 in alto, 129 in alto a destra e in basso, 140, 159, 161, 175 a destra, 217, 249 in basso, 257, 258. Si desidera ringraziare il direttore, prof. Giandomenico Romanelli, per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini di pertinenza della Fondazione Musei Civici di Venezia. Si desidera inoltre ringraziare l’Ufficio per la Promozione dei Beni Culturali della Curia Patriarcale di Venezia per aver concesso le autorizzazioni a realizzare le numerose fotografie all’interno delle chiese di Venezia, i parroci delle singole chiese per aver a loro volta reso possibili i servizi fotografici, il Vicario ing. Demetrio Sonaglioni dell’Arciconfraternita della Scuola Grande di San Rocco per le fotografie all’interno della Scuola Grande di San Rocco, il dottor Claudio De Donatis e la dottoressa Barolini del Consiglio Regionale del Veneto per le fotografie di Palazzo FerroFini, il dottor Vespignani dell’ANCE per palazzo Sandi, il dottor Filippo Pedrocco per Ca’ Rezzonico, il signor Sandro Ravagnan della chiesa di san Zaccaria, il dottor Padoan e la dottoressa Schiffini dell’Azienda U.L.S.S. 12 Veneziana per l’ospedale dei S.S. Giovanni e Paolo e per San Lazzaro dei Mendicanti, padre Aldo Genesio per la chiesa dei Gesuiti, padre Roberto Magni per la chiesa degli Scalzi, la dottoressa Lain per Ca’ Sagredo, Ivano Beggio per palazzo Barbaro Curtis, Madame Nicole Bru e Madame Michèle Roche per la Fondation Bru-Zane di palazzetto Zane. Un ringraziamento particolare va a: i direttori e il personale della Biblioteca Nazionale Marciana, della Biblioteca del Seminario Patriarcale, della Biblioteca dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini, dell’Archivio Storico del Patriarcato e dell’Archivio di Stato di Venezia, e del Kunsthistorisches Institut di Firenze; e inoltre la nostra riconoscenza va a: Manuela Barausse, Roberta Battaglia, William Lee Barcham, Giovanna Cafiero, Elisa Castellan, Dennis Cecchin, Alberto Craievich, Cristina Crisafulli, Maria Da Villa Urbani, Adele De Gobbi, Monica De Vincenti, Franco De Virgilijs, Barbara Del Vicario Foscari, Roberto Degano, Paolo Delorenzi, Riccardo Drusi, Helga Durigon, Antonio Foscari, Sandro Franchini, Martina Frank, Rossella Granziero, Simone Guerriero, Laura Levantino, Tommaso Magni, Leonardo Mezzaroba, Piero Pazzi, Lucia Pick, Ida Santisi, Mita Scomazzon, Anna Maria Spiazzi, Enrico Tagliapietra, Vincenzo Tagliapietra, Andrea Tomezzoli, Camillo Tonini, Debora Tosato, Davide Trivellato, Carlo Urbani, Catherine Whistler, Silvia Zanchi, Anna Pia Zanon, Marco Zordan, Emanuela Zucchetta. Il nostro più commosso ricordo va a don Mario Dal Tin, già parroco dei Gesuati, sincero ed entusiasta estimatore dei tesori conservati nella sua chiesa. 272