CAPITOLO SECONDO – LA PITTURA
Tenebre e luci, tra patetismo, magniloquenza e bon goût
Fra gli affannati rivolgimenti del secolo la peste del
come in un arguto gioco di specchi, l’illusione diviene
1630, immortalata nelle tele di Antonio Zanchi e Pie-
metafora della realtà. Una realtà spesso dura e brutale
tro Negri della Scuola Grande di San Rocco, si poneva
è così esorcizzata e sublimata attraverso la narrazione
quale violento spartiacque tra due epoche. In tale con-
pittorica di patetiche o trionfali storie sacre e mitolo-
testo, Venezia confermava la sua vocazione di città co-
giche, di idealizzate vicende famigliari e di incantate
smopolita e ospitale verso gli artisti stranieri. D’altro
favole arcadiche che costituivano, alle volte, lo sfondo
canto, essendo allora i veneziani «i più ricchi huomini
di vitalissime accademie letterarie.
d’Italia» era normale che attirassero «gli artefici che
E dove si rende più manifesto lo spirito barocco, se
vanno dove corre il danaro e dove le genti son mor-
non nei teatri, in particolare nell’allestimento dei
bide e grasse» (Doglioni 1675). Inoltre i pittori dove-
drammi in musica? con dispiegamento di straordina-
vano confrontarsi con il cosiddetto ‘secolo d’oro’
rie ‘macchine’ predisposte in ogni circostanza, anche
dell’arte, il Cinquecento. Un siffatto termine di para-
lontano dai palcoscenici (e persino nei funerali); stu-
gone sarà metabolizzato proprio grazie all’apporto dei
pefacenti rappresentazioni dove il provvisorio, l’incon-
foresti, che mai come in questa congiuntura furono
sistente e addirittura il falso entrano in competizione
così determinanti nello sviluppo della tradizione ve-
con il reale. Pittori, architetti e scultori furono chia-
neta, tradizione che al contempo volgeva lo sguardo
mati a impegnare il loro talento con materiali più o
verso Roma e Bologna (Lucco 2001; Pedrocco 2001).
meno duraturi, per dar vita a composizioni di pietra e
Paolo Veronese, in particolare, è il modello per artisti
di marmo, ma persino di verzura nei giardini, e poi di
come Pietro Liberi, che nel 1652 dispiega il suo lin-
cartone, di legno, di tela, di stucco, di cera, di vetro, di
guaggio sensuale e chiarista a villa Foscarini a Stra, o
fiori, di zucchero, di pane, di frutta, per inventare spe-
come Giovanni Antonio Fumiani che fra il 1697 e il
ricolati catafalchi funebri, trionfi da tavola, macchine
1710 squaderna una mirabolante rappresentazione
da foghi d’allegrezza, imbarcazioni da regata, palchi per
sacra sul soffitto di San Pantalon, memore dei suoi
orchestre, banchi per le fiere, improbabili alcove ed
trascorsi da scenografo teatrale.
ogni sorta di stravagante, bizzarro e straordinario ag-
A partire dalla metà del Seicento Venezia si af-
geggio in grado di stupire e istruire (Romanelli 1980).
ferma, altresì, come l’indiscussa capitale europea del
Lo sfarzo si fece strabiliante, per esempio, nel 1641 in
dramma in musica, connotazione originale che get-
occasione della cerimonia per l’ingresso alla carica di
terà i suoi riverberi sull’intero mondo dell’arte. La tra-
procuratore di San Marco del futuro doge Giovanni
sposizione degli effimeri apparati scenografici
Pesaro. Gli apparati veneti è il titolo della relazione che
attraverso i trompe-l’oeil, dai palcoscenici alle più du-
illustra i tre giorni di spettacoli con «continue alle-
rature superfici murarie di chiese, palazzi e ville, è il
grezze» e «apparati maestosi e insoliti»; un prototipo
sintomo della volontà di una classe dirigente di stu-
da imitare e, se possibile, da superare laddove, nella
pire e istruire, un motto che può efficacemente riassu-
spirale dell’iperbole celebrativa, Pesaro veniva parago-
mere lo spirito di tutta l’arte barocca. All’improvviso,
nato ad Apollo, agli imperatori Augusto e Tito, vatici-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – LA
PITTURA
PAGINA A FIANCO, Antonio Zanchi, San Rocco invocato per la cessazione della peste, particolare, Scuola
Grande di San Rocco, parete destra
dello scalone.
139
nandone l’elezione al dogado, certo meritata poiché il
dilettevole incanto e «le fatiche» profuse ritornavano a
«beneficio publico» (Vincenti 1641).
Beneficio pubblico che si confonde nel 1682 con la
celebrazione privata nel soffitto di palazzo Pesaro per
mano di Nicolò Bambini, e si manifesta esplicitamente
nella definitiva consacrazione di san Lorenzo Giustiniani nel 1690 con la commissione pubblica a Gregorio Lazzarini e Antonio Bellucci dei due teleri per il
presbiterio della cattedrale di San Pietro di Castello.
I patrizi veneti, intrisi di ammirazione per i lodati
esempi dell’arte romana e per l’impareggiabile grand
goût francese in voga nella seconda parte del Seicento,
trovano modo di esprimere le loro preferenze anche
nella decorazione dei palazzi dove, a partire dai primi
anni novanta, si sperimenta a Ca’ Zenobio con Antonio Gaspari e Louis Dorigny la tipologia del salone a
doppia altezza che sostituisce il tradizionale portego
passante. Verso la fine del secolo, s’insinua e convive
un diverso registro, più ‘lieve’, dettato dal bon goût
della nascente estetica rococò. Un passaggio guidato da
Sebastiano Ricci e Giannantonio Pellegrini, che introducono nelle lagune il nuovo gusto, secondo l’accezione veneziana di Barocchetto.
IN ALTO, Domenico Mauro, Imbarcazione in forma di mostro marino,
incisione.
IN BASSO, Alessandro Mauro, Imbarcazione da regata con la Cina condotta in trionfo dall’Asia, incisione.
PAGINA A FIANCO, Antonio Zanchi, San Rocco invocato per la cessazione della peste, particolare, Scuola
Grande di San Rocco, parete destra
dello scalone.
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VENEZIA BAROCCA – CAP. II – LA
PITTURA
DRAMMA, SENSUALITÀ E BIZZARRIE
Dalla peste di Antonio Zanchi all’oro di Pietro Liberi
GLI ANTESIGNANI
Il San Gerolamo ispirato dall’angelo della chiesa di
San Nicola da Tolentino, dipinto intorno al 1627 dal
tedesco Johann Liss, s’impone come manifesto della
pittura barocca veneziana (Pedrocco 2000). Qui i colori si fondono mirabilmente con la luce attraverso la
stesura sensuale di una materia pittorica liquida, trasparente e spumosa, che dovette impressionare i contemporanei e per certo anche i successivi protagonisti
del Barocchetto settecentesco. Questo risultato scaturisce da una meditazione profonda dell’artista nel quale
egli riversa, in una geniale sintesi, tutto il suo bagaglio
formativo nordico, l’esperienza caravaggesca assorbita
A DESTRA, Johann Liss, San Gerolamo ispirato dall’angelo, Chiesa dei
Tolentini.
PAGINA A FIANCO, Bernardo Strozzi,
San Lorenzo distribuisce gli arredi
sacri ai poveri, Chiesa dei Tolentini.
a Roma e il colorismo della tradizione veneziana.
Due anni dopo la morte di Liss, avvenuta a Verona
nel 1631 a causa della peste, giunge nelle lagune Bernardo Strozzi, detto il Prete Genovese per la sua origine e l’appartenenza all’ordine cappuccino. Con una
formazione molto simile a quella del pittore tedesco –
sebbene con esiti diversi per l’ascendente del naturalismo lombardo – Strozzi si inserisce a pieno titolo nel
rinnovamento del linguaggio pittorico veneziano avviato intorno alla fine degli anni trenta. Ricercato soprattutto come ritrattista, lascia anch’egli nella chiesa
dei Tolentini, in compagnia di altri ‘rinnovatori’ quali
Nicolas Régnier, Girolamo Forabosco e Camillo Pro-
142
La trasformazione della pittura veneziana nella
prima metà del secolo procede lenta, ma inarrestabile;
non imbocca una direzione univoca, ma si fa carico
degli apporti più disparati. «Sanguinolenti languidori
e pietosi sentimenti» (Fabri 1690) caratterizzano il
successivo periodo, denso di rivolgimenti sociali e politici, nel quale un altro genovese, Giovanni Battista
Langetti giunto a Venezia intorno al 1655, introduce
caccini, una prova emblematica della nuova, emer-
con prepotenza nelle lagune la cultura caravaggesca,
gente maniera nel San Lorenzo che distribuisce gli
dando vita alla corrente dei tenebrosi (Pedrocco 2000;
arredi sacri ai poveri. A un disegno perfetto, accompa-
Aikema 2001). Si tratta di uno stile intriso di dram-
gnato da un saldo impianto compositivo, si unisce
matico realismo distante dalla sensibilità veneziana
una pennellata corposa dalla felicissima resa croma-
tutto sommato ancora neocinquecentesca, ma adesso
tica e chiaroscurale tradotta con impasti vigorosi piut-
altrettanto affine al clima di incertezza e di ansia ge-
tosto che con colori puri (Pedrocco 2000).
nerato dalle alterne vicende della guerra di Candia.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
Langetti nella pala con Cristo crocifisso e la Maddalena del 1663, già nella chiesa delle Terese e oggi a Ca’
Rezzonico, fa sfoggio di un energico gioco chiaroscurale, ove il corpo inchiodato alla croce con le braccia
quasi parallele tradisce una matrice neomedioevale
(Stefani Mantovanelli 1990; Mason 2001). Su uno
fondo scuro come la pece, si levano in un gesto di disperata emulazione le braccia della Maddalena colta
in una scomoda posa inarcata, a zanna d’elefante. Il
dipinto trasuda una sofferenza sovraccarica, da sacra
rappresentazione, legata alla spiritualità dell’ordine
delle carmelitane scalze che avevano dedicato il loro
monastero veneziano a santa Teresa d’Avila, la mistica spagnola delle estasi divine.
Nella medesima temperie si colloca l’attività di
Pietro Vecchia, artista stralunato, con una predilezione per il grottesco, autore di fisionomie bizzarre e
a volte spaventevoli. Il dipinto con Francesco Borgia
che assiste all’esumazione del cadavere dell’imperatrice
Isabella, già nel convento dei Gesuiti a Venezia ed eseguito tra il settimo e l’ottavo decennio del secolo,
rappresenta un teatrale memento mori (Mason 2001).
Il raccapriccio che genera la vista dell’orrido, oramai
decomposto cadavere di quella che fu in vita la bella
regina di Spagna si configura come un tremendo monito sulla caducità delle cose. L’effimera consistenza
della vita è qui sottolineata dalla ricercatezza dell’abito e dai gioielli che contrastano con il volto scheletrico, deformato da un ghigno agghiacciante,
mentre la corona è caduta definitivamente dal capo
dell’illustre defunta. Il pittore non ha voluto risparmiarci nemmeno il fetore che sprigiona dalla salma,
inserendo la figura del paggio che con disgusto si tura
il naso: uno spettacolo tremendo che convince, nella
tela, il nipote Francesco Borgia a rinunciare al mondo
per arruolarsi nell’ordine dei gesuiti. Maestri nell’uso
della retorica della persuasione, questi reagiscono alla
moda imperante della celebrazione personale con
una risposta tuttavia reticente da esibire non al pubblico, all’interno della chiesa, ma nel chiuso delle
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VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
stanze del monastero. Termini forti per suscitare reazioni altrettanto forti, come avviene negli stessi anni
con la facciata celebrativa di Bartolomeo Cargnoni
all’Ospedaletto che richiama con ‘invadente’ insistenza il viandante alle opere di carità.
Di rimando, la toccante Deposizione che il partenopeo Luca Giordano realizza, intorno al 1665, per
Santa Maria del Pianto, ora alle Gallerie dell’Accademia, definisce una drammatica scena nella quale i
personaggi si dispongono ai lati, lasciando, in un
violento e disordinato moto centrifugo, un cupo e
angosciante vuoto al centro (Pedrocco 2000). La
Madonna implorante, con le braccia spalancate, è
con le dovute correzioni facilmente rapportabile
all’iconografia secentesca di Venezia supplice nei dipinti votivi. Nulla in comune con le tele della Salute,
eseguite dallo stesso pittore qualche anno più tardi,
nelle quali si stempera una neotizianesca celebrazione mariana.
I
TENEBROSI:
ANTONIO ZANCHI E PIETRO
NEGRI NELLA SCUOLA GRANDE DI SAN ROCCO
Antonio Zanchi, campione della corrente dei tenebrosi, è noto per la «maniera forte e naturale di colorire» (Angelieri 1743). Nato a Este nel 1631, artista dal
spare Mauro. In particolare Zanchi aveva provveduto
a dipingere i fondali con una «Campagna di vendemmia», «la Piazza di Menfi» e la «Sala di Rodope». Se
non sono giunte finora ulteriori notizie sulla sua attività di scenografo, sappiamo che già negli anni cin-
gusto severo e austero pittore di temi biblici e mitolo-
quanta del secolo, e almeno fino al 1687, egli si
gici, anch’egli non poteva rimanere del tutto immune
impegnerà a più riprese nell’ideare le composizioni
dalla passione per l’effimero che caratterizzò il suo
per le minuscole incisioni che decoravano le antiporte
tempo. Giunto nelle lagune all’età di vent’anni, dopo
di alcuni libretti d’opera (Favilla-Rugolo 2003-04).
un precoce alunnato presso il pittore bresciano Gia-
Che il nostro fosse in grado d’imbastire grandiosi
como Pedrali, Zanchi trovò nel romano Francesco
apparati, ne darà prova nel 1666, quando il guardian
Ruschi un maestro «non del tutto corrotto dall’esorbi-
grande della Scuola di San Rocco, Bernardo Broli, gli
tanze de’ tempi e istintivamente tenero ancora delle
commissionava due teleri per la parete destra dell’ul-
glorie passate». Nel 1657, agli esordi della sua carriera,
tima rampa dello scalone che conduce alla sala supe-
partecipava alla realizzazione delle scenografie per il
riore dell’edificio, sede della prestigiosa confraternita
dramma in musica Le fortune di Rodope e Damira an-
(Zampetti 1987). Il pittore dispiega un artificio sce-
dato in scena nel teatro veneziano di Sant’Aponal. Di-
nico in due scomparti separati da un pilastro, ma con
rettori delle «macchine» erano due tra i maggiori
una prospettiva assolutamente unitaria: un ‘gran tea-
registi teatrali dell’epoca, Francesco Santurini e Ga-
tro’ che gli consente di inscenare un evento dramma-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
PAGINA A FIANCO, Giovanni Battista Langetti, Cristo crocifisso e la
Maddalena, Venezia, Ca’ Rezzonico,
già nella chiesa delle Terese.
IN ALTO, Pietro Vecchia, Francesco
Borgia assiste all’esumazione del cadavere della zia, l’imperatrice Isabella di Spagna, Brest, Musée
Municipal, già Venezia, convento dei
Gesuiti.
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
145
chiesa del Redentore che sembra ‘sbucare’ da dietro la
parasta divisoria. Da un punto di vista, che possiamo
collocare all’imbocco sul Canal Grande del rio della
Fornasa, guardando sulla destra verso il Redentore –
quasi in asse con il ponte di barche che tutti gli anni
veniva, e tuttora viene allestito, la terza domenica di
luglio tra le Zattere e la Giudecca –, si svolge la tragica
scena di morte, sigillata, in questa formale e simbolica
triangolazione della città, dalla ‘rassicurante’ apparizione del campanile marciano. In alto la Vergine e san
Rocco intercedono per la cessazione del morbo presso
il Cristo irato, che stringe nella mano destra, posata
sul globo, il patente attributo dei fulmini del castigo.
Non v’è dubbio, allora, che qui il protagonista sia proprio un Cristo-giudice – novello Apollo, indifferente
seminatore della vita e della morte –, emanante una
luce terribile che investe gli appestati, caritatevolmente assistiti dai devoti della scuola di San Rocco.
Un angelo in primo piano esibisce il taumaturgico bastone da pellegrino del santo, additato dagli stessi soccorritori quale strumento di conversione e miracolosa
guarigione. Siamo di fronte al primo e più violento
stadio del flagello scatenato, come registrano le cronache del 1630, dalla giusta «ira divina»; e non era bastata la ‘prova’ del 1576, poiché nuovamente Venezia
pare qui essere ricaduta nei medesimi errori. La cupa
e spettrale, anzi ‘nera’ e ‘negativa’ apparizione del tempio del Redentore tra i fumi miasmatici ne costituisce
la scomoda, scandalosa, lontana ancorché irremovibile e non vana testimonianza: le tinte infuocate degli
IN ALTO E PAGINA A FIANCO IN
ALTO, Antonio Zanchi, San Rocco
invocato per la cessazione della
peste, particolari, Scuola Grande di
San Rocco, parete destra dello scalone.
PAGINA A FIANCO IN BASSO, Pietro Negri, Venezia ottiene la cessazione della peste, particolare, Scuola
Grande di San Rocco, parete sinistra dello scalone.
146
tico quale la pestilenza del 1630. Ed è forse opportuno
spaventosi nembi evocano sinistre corrispondenze
scorgervi anche il ricordo dell’altro flagello che deva-
con la fine di Sodoma, mentre in alto la Vergine, ai
stò le lagune tra il 1575 e il 1577 (Rugolo 1997). La
piedi del Figlio, tenta sommessamente di placarne i
fosca ambientazione, col crudo realismo degli appe-
furori; e san Rocco, rimettendosi all’imperscrutabile
stati e dei pizzegamorti (la versione veneziana dei mo-
volontà dell’Eterno, richiama senza posa gli umani
natti) in primissimo piano, non impedisce di
alla necessità del pentimento e della conversione. Si
riconoscere il profilo del campanile di San Marco,
aggiunga inoltre che sul vicino pianerottolo della scala
sullo sfondo a sinistra, dalla inconfondibile cella cam-
è collocata una lapide fatta incidere dal guardian
panaria sopra cui si staglia la sagoma del leone mar-
grande Domenico Ferro in memoria della peste del
ciano. Sulla destra si scorge, invece, la facciata della
1576, «vendicatrice dei nostri peccati», in modo che i
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
posteri fossero indotti a lacrime di commiserazione,
dal momento che aveva strappato alla Scuola ben
quattrocento confratelli. Un’epigrafe nella quale si
descrive la desolazione di quei giorni coi cadaveri
sparsi per le vie: e quella pestilenza si esaurì proprio
grazie all’aiuto della Vergine Maria e di san Rocco,
mediatori presso il Redemptor mundi. Chi perciò non
accetta la luce punitiva, ma al contempo purificatrice,
di Cristo non ha speranza di salvezza, come l’uomo
intabarrato di nero che, invece di prestare soccorso
agli appestati, si allontana furtivamente sul ponte turandosi il naso. Venezia, nuova Gomorra – siamo nell’imminenza della perdita di Candia –, sembra aver
lasciato il campo al libero trionfo della morte. Tuttavia la morte a Venezia non può avere lunga durata,
perché i pilastri della fede appaiono incrollabili e salgono fino al cielo, come si intravede appena dietro le
figure di san Rocco e degli angeli, prefigurando così il
voto di erigere un santuario alla Madre di Dio, giust’appunto nel sito da cui stanno sorgendo, come per
incanto, le colonne giganti.
Il successivo e decisivo momento della storia può
essere raccolto nei teleri della parete sinistra dello scalone, collocati in situ nel 1673 per volontà del guardian grande Angelo Acquisti, che li affidò al pennello
di Pietro Negri, pittore che aveva seguito il medesimo
percorso formativo di Antonio Zanchi. L’artista delinea la personificazione di Venezia, assistita da san
Marco e circondata dalle Virtù e dalla Religione, che
nel 1630 invoca san Rocco e in subordine san Sebastiano affinchè intercedano presso la Vergine e il Bambino assisi su di un trono di nuvole, mentre la luce
salvifica della divina grazia discende da un ideale
punto fuori campo a diradare i miasmi, ricacciando
nelle tenebre l’immagine della Peste funesta compagna della Morte. L’arcangelo Michele, brandendo la
lancia, assiste la Madonna nella sua missione. L’opera,
esattamente speculare al suo pendant, mostra sullo
sfondo a destra il particolare scorciato della Salute con
la cupola minore e parte della maggiore, cui fa da
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
147
A FIANCO, Antonio Zanchi, San
Rocco invocato per la cessazione
della peste, Scuola Grande di San
Rocco, parete destra dello scalone.
149
A FIANCO, Pietro Negri, Venezia ottiene la cessazione della peste,
Scuola Grande di San Rocco, parete
sinistra dello scalone.
151
Paolo Veronese sul soffitto della sala del collegio in
Palazzo Ducale durante la pestilenza del 1575-77.
Nel telero di Pietro Negri la Salute diventa visibile
manifestazione del voto esaudito, cui corrisponde
sullo sfondo in basso a sinistra la processione dogale
che s’avvia verso la punta della Dogana, quest’ultima
alludente, con la nave, alla subitanea ripresa dei traffici marittimi. Lontano, il tempio votivo del Redentore testimonia di un analogo e più antico sacrificio,
dal quale, come sempre, la ‘vergine’ città uscì indenne
e, dal punto di vista urbanistico, arricchita. L’architettura palladiana, sempre presente sull’orizzonte, ne è la
tangibile dimostrazione. Il confronto tra Palladio, che
è già storia e mito, e il contemporaneo Longhena (la
sua chiesa non risulta ancora del tutto finita), non potrebbe farsi qui più esplicito. Il prototipo del Redentore, che viene replicato per ben due volte in queste
tele (sia da Zanchi che da Negri), costituisce così il
simbolo della Venezia che non può mai arrendersi,
che anzi, di fronte al ripresentarsi dei medesimi mali,
A FIANCO, Sebastiano Mazzoni,
Annunciazione, Venezia, Gallerie dell’Accademia.
contraltare sulla sinistra l’antica torre merlata della
Dogana – nella versione già registrata nella veduta
cinquecentesta di Jacopo de’ Barbari e prima del rifacimento di Giuseppe Benoni databile a partire dal
1677 (Frank 2004) –, mentre spunta all’orizzonte, die-
si riconferma nella sua temprata saldezza, per uscirne
ancor più rinvigorita e grande, «magnifica et con
pompa» come la basilica della Salute.
NEL CROGIOLO DELL’ALCHIMISTA:
PIETRO LIBERI A PALAZZO FINI
tro i pennoni di una nave ormeggiata nel canale della
Giudecca, nuovamente il simbolico ma questa volta
152
Il fiorentino Sebastiano Mazzoni, nato nel 1611 e
solare e positivo profilo del Redentore. La scena è os-
trasferitosi a Venezia nei primi anni quaranta, forse al
servata, con i dovuti aggiustamenti prospettici, da un
seguito dell’amico Pietro Liberi di ritorno nella Do-
punto collocabile all’incirca presso le arcate, all’epoca
minante, s’incammina su un’ormai consolidata linea
transitabili, del Fonteghetto della Farina a San Marco,
barocca. È da porre a cavallo degli anni cinquanta
sotto cui l’artista avrebbe idealmente organizzato la
l’Annunciazione inondata di luce, impastata con colori
teatrale mobilitazione dei maggiori simboli conno-
morbidissimi, caldi e trasparenti, oggi alle Gallerie
tanti le supreme e saldissime virtù della Repubblica
dell’Accademia (Benassai 1999). L’attenzione si con-
del leone (che compare in basso al centro mestamente
centra sull’iconografia non convenzionale, onirica e
sdraiato con uno sgualcito Vangelo). Venezia stessa
stralunata, dove uno stravagante angelo «invasato,
per assicurare la salvezza ai suoi pentiti cittadini è
scapigliato, rutilante tutto circondato dal fruscio delle
scesa umilmente dal suo trono di porpora, sopra il
ali e dalle stoffe seriche, ridondanti e svolazzanti»
quale come proterva dominatrice già l’aveva assisa
(Ivanoff 1957), assomiglia più al genio scaturito da
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
una lampada magica che a un messo divino. Mazzoni
sensualità. Una pittura «gustosa» che «rallegra
si inserisce nel dibattito innescato a Venezia dallo sto-
l’anima» (Zanetti 1771). Uomo di vasta cultura, dagli
rico Marco Boschini sul primato del colore rispetto al
interessi più disparati, Liberi «non rappresentò quasi
disegno, suscitando il risentimento di quest’ultimo
mai istorie ma bensì parecchie favole e moltissimi ge-
per aver manifestato irriverenza con la penna e col
roglifici, alcuni de’ quali egli solo forse intendeva» e
pennello verso un atteggiamento ritenuto anacroni-
soprattutto fu «della sua maniera inventore» (Zanetti
stico (Puppi 1997). Nella temperie infuocata dell’este-
1733). Dopo una lunga serie di viaggi, che lo porta-
nuante assedio di Candia il poeta-pittore rispondeva
rono a Costantinopoli, a Malta, in Portogallo, in Spa-
nel 1661 pubblicando La pittura guerriera, «una sorta
gna e in Francia, infine a Roma e a Firenze dove
di polemico controcanto alla prospettiva veneto-cen-
prestò la sua opera per i Medici, rientrato a Venezia
trica e anti-vasariana della coeva Carta del navegar pi-
riuscì nel 1682, insieme ad Antonio Zanchi e Carl
toresco» di Boschini (Rossi 2008; Leone 2008). Nel
Loth, a emancipare i pittori veneziani dalla fraglia dei
Tempo perduto, raccolta di versi dedicati agli artisti
dipintori (Favaro 1975). Nel 1653 venne insignito
contemporanei attivi a Venezia, il fiorentino si rivolge
dalla Repubblica del titolo di cavaliere di San Marco e
all’amico Pietro Liberi confidando di poter giungere
successivamente fu nominato conte palatino dall’im-
all’«immortalità» grazie al privilegio di venir da questi
peratore Leopoldo I. Coronò la sua prestigiosa e for-
effigiato in ritratto. Mazzoni non ha pregiudizi, per-
tunata carriera costruendo sul Canal Grande un
ché non esiste pittore più ‘veneziano’ di Liberi.
monumentale palazzo su progetto dell’amico pittore-
Allievo di Alessandro Varotari detto il Padovanino,
poeta-architetto Sebastiano Mazzoni. Sebbene la parte
in pieno tenebrismo, Pietro diede vita attraverso
più consistente della sua produzione sia da cavalletto,
l’esempio di Tiziano e Veronese a una maniera «rorida
Liberi si dedicò anche all’affresco: valgano per tutti i
e fulva» (Mariuz 1998b), permeata da una morbida
fulgidi esempi dell’Apoteosi di sant’Antonio per la sa-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
IN ALTO, Pietro Liberi, L’Onore accolto in cielo dalla Gloria, Palazzo
Fini, sala sul Canal Grande, soffitto.
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
153
crestia del Santo a Padova e delle complesse allegorie
nubi (cfr. Ripa 1645). Tutto ciò si può effettivamente
per la barchessa di villa Foscarini a Stra (Ruggeri
legare all’ascesa della famiglia verso l’empireo del pa-
1996; Favilla-Rugolo 2008b).
triziato veneto, raggiunto nel 1649 con l’esborso di
Sul soffitto e sul fregio di una sala che si affaccia
100.000 ducati da parte di Vincenzo Fini, meta poi
sul Canal Grande di palazzo Fini, ora sede del Consi-
consolidata nel 1658 con l’aquisto per una somma
glio Regionale Veneto, si dispone un ciclo pittorico
uguale della prestigiosa carica di procuratore di San
realizzato dall’artista dopo il 1661 per Girolamo Fini,
Marco. Inoltre prudenza, eloquenza e temperanza
fratello ed esecutore testamentario di quel Vincenzo
sono le virtù che sopra le altre deve possedere un
morto l’anno prima ed eternato sulla facciata della
uomo di legge come in effetti era Vincenzo, al quale
chiesa di San Moisè. Era stato Girolamo ad acquistare,
dunque oltre alla facciata di San Moisè veniva forse
nel 1661, la casa dominicale dai Flangini il cui com-
dedicata anche la decorazione di questa sala.
pletamento fu probabilmente affidato all’architetto
154
Il motivo dell’oro si dispiega sul fregio che corre in
Alessandro Tremignon (Bassi 1990). Di significato
alto a raccordo fra le pareti e il soffitto, ove si espli-
equivocabile è l’interpretazione dell’allegoria raffigu-
cano le conseguenze dell’auspicabile utilizzo positivo
rata nella tela del soffitto. Non è possibile riconoscervi
del nobile metallo contrapposte a un uso negativo. Da
tout court un’Apoteosi di Ercole, poiché il soggetto non
un lato infatti abbiamo un Cupido ammiccante ac-
reca alcuno degli attributi suoi propri (cfr. Bassi 1990;
canto a una Venere in amorosi sensi con un giovane
Ruggeri 1996). Unici elementi assonanti con il mitico
Bacco che le offre un grappolo d’uva, mentre un nano
personaggio sono la prestanza fisica e il volto barbato.
elegantemente abbigliato invita entrambi a dedicarsi
Più verosimilmente si tratta della personificazione
al gioco delle carte. Altre tele più piccole raffigurano:
dell’Onore, «bello, vestito di porpora e coronato d’al-
un amorino intento a versare del vino in una conchi-
loro», che, circondato e sostenuto dalle virtù della
glia, attributi rispettivamente di Dioniso e Afrodite e
Prudenza con specchio e serpente, dell’Eloquenza con
latori di una velata allusione sessuale; altri due scher-
il libro e della Temperanza con la clessidra, accompa-
zano con un caprone a sua volta simbolo di lascivia;
gnate dalla Cognizione con il cuore in mano e dalla
due giocano con un uccellino e un mantello; mentre
Fama con la tromba, viene accolto dalla Gloria «ve-
in due riquadri degli eroti sono intenti a riempire e
stita d’oro, tutta risplendente» assisa su un trono di
trasportare sacchi di monete d’oro e d’argento; un ul-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
teriore dipinto coglie una Venere neotizianesca ripresa
compagnate da due amorini, stanno insaccando mo-
di spalle insieme al figliolo. Questi vizi, per quanto in-
nete raccolte da un forziere, un vero tesoro rinvenuto
vitanti e piacevoli, sono da rifuggire, come da aborrire
nel ventre della terra. A sinistra la Diligenza con gli
è lo sperpero sconsiderato del denaro per soddisfarli.
speroni in mano fa da trait d’union con il successivo
Nella parte più articolata del fregio sono rappresen-
scomparto dove probabilmente la Sollecitudine con la
tate invece le virtù della Prudenza, della Temperanza e
facella accesa insieme a un’altra figura indica, nel ri-
forse della Fortezza che persuadono l’Avarizia a cedere
quadro posto sull’altra parete, alla Liberalità di di-
la borsa di denaro che tiene «legata e stretta» (Ripa
spensare ai bisognosi i denari, che in gran quantità di
1645). La lussuria è qui impersonata da Venere e Eros
sacchi le vengono recati da uomini di fatica.
assopiti, completamente ebbri per il vino consumato
Onorabile è allora colui che abbia saputo far saggio
da un fiasco che si scorge accanto. Il lontananza, sulla
uso delle proprie sostanze, come Vincenzo Fini che di-
destra, tre figure femminili non ben identificabili, ac-
chiarava di essere diventato ricco per aver «convertito
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
IN ALTO, Pietro Liberi, La Liberalità
dispensa il denaro ai bisognosi, Palazzo Fini, sala sul Canal Grande,
fregio della parete.
IN BASSO, Pietro Liberi, La Sollecitudine, Palazzo Fini, sala sul Canal
Grande, fregio della parete.
PAG. 156, Pietro Liberi, La Liberalità
dispensa il denaro ai bisognosi, particolare, Palazzo Fini, sala sul Canal
Grande, fregio della parete.
PAG. 157, Pietro Liberi, L’Onore accolto in cielo dalla Gloria, particolare, Palazzo Fini, sala sul Canal
Grande, soffitto.
155
IN ALTO, Pietro Liberi, Bacco, Venere e il Gioco, Palazzo Fini, sala sul
Canal Grande, fregio della parete.
IN BASSO, Pietro Liberi, Le Virtù
persuadono l’Avarizia a cedere il denaro, Palazzo Fini, sala sul Canal
Grande, fregio della parete.
in oro» il sudore della sua fronte (Gaier 2002). Se in
rosi titoli dedicati a quest’arte esoterica (De Kunert
qualche misura il giovane nerboruto dipinto sul sof-
1931; Ton 2008); non solo, egli era in strettissimi rap-
fitto da Pietro Liberi può richiamare anche la vicenda
porti con il «negromante» e rosacroce Federico
di Ercole giunto all’immortalità, trasfigurato dopo
Gualdo – che, ricordiamo, per la sua capacità di far
lunghe e tormentose fatiche sul rogo acceso dall’eroe
fruttare le miniere era ricercato da illustri famiglie ve-
stesso sul monte Oeta, così era potuto accadere a un
neziane – verso il quale si era obbligato «d’esserli
‘uomo nuovo’ come Fini che da semplice cittadino di
buono e fedele suddito» lasciandogli in pegno anche
origine candiota divenne, per le sue virtù e con note-
una ciocca di capelli (ASVE, S.F., b. 119). Il suo inte-
vole esborso di denaro, patrizio veneto e procuratore
resse quindi non si era fermato a un ambito pura-
di San Marco. Questi è allegoricamente equiparato
mente teorico, ma si era spinto fino all’applicazione
all’Onore-Ercole, che tra nubi corrusche e cupi ba-
pratica. Nel 1677 Liberi, come un Mariano Fortuny
gliori si accende, nel crogiolo di se stesso, del colore
ante litteram, aveva anche «inventato» un procedi-
del fuoco, l’elemento più puro e più nobile identifi-
mento «in cognito» e «secreto» per produrre «tele co-
cato con l’oro del processo alchemico. Il miracolo è al-
lorate all’uso persiano e di Soria [Siria]», e ottenuto
lora accaduto, si è voluto provare che dalla materia
dal Senato il privilegio ventennale per l’esclusiva
più bruta si può trarre il metallo più fino, dal vile
(ASVE, P.C., b. 7). Il pittore era noto ai contemporanei
piombo il prezioso oro, dalla condizione ‘plebea’ la
per la sua ricchezza: veniva definito «un toco d’oro»
nobiltà (Rugolo 1997).
e paragonato a una speciale calamita, che invece di
La predilezione di Liberi per l’alchimia è peraltro
attestata dalla presenza nella sua biblioteca di nume-
158
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DRAMMA,
attirare «el fero» attraeva i «cecchini [zecchini]»
(Boschini 1640).
SENSUALITÀ E BIZZARRIE
DAL TRIONFO DI VENEZIA DI NICOLÒ BAMBINI AL
TRIONFO DELL’ELOQUENZA DI GIAMBATTISTA TIEPOLO
NICOLÒ BAMBINI A CA’ PESARO
destino di una delle più importanti famiglie veneziane
con quello ancor più grande e mitico della Repubblica: e per i contenuti e per la forma, proponendo
Nel 1676 il procuratore di San Marco Leonardo
Pesaro, nipote del defunto doge Giovanni, dava mo-
una tipologia decorativa che nella sua ricchezza
stra di «ingegno superiore» e «grandezza dell’animo»
echeggia i soffitti cinquecenteschi, ma già classici, di
(Ivanovich 1688), allestendo nell’incompiuto palazzo
Veronese a Palazzo Ducale.
di famiglia sul Canal Grande a San Stae una superba
festa in occasione di un duplice evento: la visita del
LOUIS DORIGNY A CA’ TRON
nunzio apostolico e il matrimonio della figlia Elena
con Pietro Contarini. Il «sontuoso lavoro» di Bal-
Tra il 1680 e il 1681 Baldassare Longhena, veniva
dassare Longhena per questo monumentale edificio
coinvolto nel cantiere per l’ampliamento della cin-
si protrasse per lungo tempo, e a quella data era
quecentesca dimora dei Tron a San Stae sul Canal
«avanzato solamente» per la facciata verso il canale
Grande. A questa campagna seguì, intorno al 1685,
dove si potevano già ammirare «le fondamenta
l’incarico per i dipinti del portego del piano nobile
adornate di teste chimeriche di diversi animali» (cit.
in Frank 2004).
A FIANCO, Louis Dorigny, Caino
uccide Abele, Ca’ Tron, portego del
piano nobile.
Nicolò Bambini allievo di Sebastiano Mazzoni e, a
Roma, di Carlo Maratta, dal quale apprese l’accuratezza nel disegno e l’eleganza delle forme, dipinse nel
1682 sul soffitto di una sala d’angolo del palazzo alcune tele innestate in un’articolata struttura impreziosita da rigogliosi intagli lignei. Nell’ovale al centro
della composizione con il Trionfo di Venezia si staglia
la figura dell’inclita Dominante, di una bellezza classica ispirata ai modelli tizianeschi e veronesiani filtrati
dall’esempio di Pietro Liberi. Nel legno della cornice,
sul lato corto del soffitto, sono scolpiti turchi soggiogati e incatenati, mentre la Fama che regge il corno
dogale s’accampa sullo stemma gentilizio della casata
che è replicato due volte e congiunge le tele che raffigurano la Prudenza e la Fortezza con lo scomparto
centrale. Nel complesso, il felice connubio tra scultura
e pittura, forse con la sapiente regia di Longhena, riesce a legare indissolubilmente, per l’ennesima volta, il
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
159
PAGINA A FIANCO, Nicolò Bambini, Trionfo di Venezia, Ca’ Pesaro,
sala d’angolo sul Canal Grande, soffitto.
A FIANCO, Louis Dorigny, Abramo
e i tre angeli, Ca’ Tron, portego del
piano nobile.
che venne affidato al francese, naturalizzato veneziano, Louis Dorigny, un artista noto per il suo virtuosismo (Favilla-Rugolo 2003b). L’abilità nello
scorciare le figure e nel dosare le luci e le ombre, la
padronanza della scienza prospettica, la perfezione
nel disegno, lo «style héroïque & sublime», il potersi
fregiare del titolo di Peintre du Roi (di Luigi XIV),
l’aver soggiornato a Roma frequentando l’Accademia
di San Luca e, non ultimo, l’essere nipote di Simon
Vouet e allievo di Charles Le Brun resero Dorigny ricercato, nell’ultimo quarto del Seicento, dai patrizi
veneziani e della terraferma (Dal Pozzo 1718; Dézallier D’Argenville 1762).
È necessario sottolinerae che la commissione a un
unico artista per un intero ciclo su tela è cosa assai
rara all’epoca nel panorama veneziano. I quindici dipinti disposti lungo le pareti del portego di Ca’ Tron e
raffiguranti episodi del Vecchio Testamento sono legati a un importante evento per la famiglia, ovvero la
nascita, il 21 settembre 1685, dopo ben sei anni di infecondo matrimonio tra Andrea Tron e Gracimana
Priuli, del primogenito maschio Nicolò. I soggetti,
tratti dalla Genesi, si possono infatti ricondurre alla
continuità di una dinastia nel segno della generazione e della figliolanza. Nelle tele, ora bisognose di
restauro, risaltano la materia pittorica grassa, le tona-
sarà tesaurizzato dalle successive generazioni artisti-
lità calde dei colori, la definizione dei contorni nei
che dei Ricci, dei Pellegrini e dei Tiepolo.
contrasti luministici. Una luce radente costruisce le
masse dei corpi, temperata dalle morbidezze di una
I LUNETTONI DI SAN ZACCARIA
pennellata di tocco. Numerosi sono gli apporti della
cultura figurativa contemporanea, romana e non
D’intento nettamente celebrativo legato all’«historia
meno veneziana. Impressionano le citazioni dal Cin-
della fondatione» del vetusto monastero benedettino,
quecento. Ritroviamo il Raffaello (e gli allievi) delle
femminile, di San Zaccaria sono i lunettoni che ornano
Logge Vaticane nella Separazione del Caos, il Tiziano
del San Pietro Martire, già ai Santi Giovanni e Paolo,
le pareti delle navate laterali dell’omonima chiesa; teleri
nel Caino che uccide Abele, visto con gli occhi di Carl
monumentali affollati di personaggi che si accalcano in
Loth e Antonio Zanchi. Negli Angeli che appaiono ad
primo piano. L’esecuzione di questo ciclo era già avviata
Abramo e nel Sacrifico di Isacco, per la grazia e la le-
alla fine del 1683 (Martinelli 1684), quando compari-
vità dei personaggi, Dorigny sembra anticipare il Ba-
vano in situ le due tele di Andrea Celesti con Il doge Giu-
rocchetto, configurandosi quale prezioso esempio che
stiniano Partecipazio e l’imperatore Leone V l’Armeno
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
161
Andrea Celesti, Il doge Giustiniano
Partecipazio e l’imperatore Leone V
l’Armeno ricevono dall’oriente il
corpo di san Zaccaria, Chiesa di San
Zaccaria, navata sinistra.
che ricevono dall’oriente il corpo di san Zaccaria e con
tura veneziana, evocando negli scorci più arditi delle
La visita di papa Benedetto III al monastero nell’855, in-
figure, in particolare nel corpo ignudo del santo, il
sieme a quella di Antonio Zanchi con Il trasferimento
fantasma di Jacopo Tintoretto, stabilendo una linea
dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dalla vecchia alla
di continuità che ha la sua origine nel Cristo morto di
nuova chiesa. Più tardi, ma completati entro i primis-
Mantegna, ora a Brera.
Ricordiamo che nel potente e ricco monastero di
simi anni del Settecento sono invece i dipinti di Daniel
Heintz, Il doge Pietro Lando assiste alla consacrazione
San Zaccaria erano accolte le figlie delle più impor-
della chiesa nel 1543, di Giovanni Antonio Fumiani, La
tanti casate veneziane. L’artista con tutta probabilità
visita dell’imperatore Ottone III alla chiesa nell’anno
venne ispirato dalla committenza a celebrare, attra-
1001, e di Giovanni Antonio Zonca, La visita pasquale
verso le glorie del monastero, anche le glorie dello
del doge alla chiesa (Bertoli-Perissa 1994).
Stato: nel primo telero a sinistra campeggia, solenne
e bardata dei più sontuosi broccati, ermellino e
Andrea Celesti si distingue per una pittura mate-
162
rica e al contempo smaltata, accesa di riflessi dorati
corno dogale compresi, la stessa personificazione
dalla consistenza filante, ove emerge il migliore inse-
della Repubblica. Attorniata dalle virtù, reca in
gnamento di Sebastiano Mazzoni, con un risultato
grembo il modellino della chiesa. Le fa da contral-
finale di «incredibile felicità e bell’effetto di tene-
tare sulla destra il doge, anch’esso onusto delle inse-
rezza» (Zanetti 1771). «Una fiumana spumosa e iri-
gne proprie del rango e affiancato dai senatori tutti
descente: fragola, lampone, arancio, azzurro
vestiti di porpora. Questi accoglie con condiscen-
cangiante in rosa, il tutto temperato dal nivore dei
denza, dall’alto del suo trono e a capo coperto, l’im-
bianchi» (Ivanoff 1967). Celesti nel primo lunettone
peratore romano d’Oriente privo di corona e
paga altresì il debito verso il secolo d’oro della pit-
accompagnato da un giovane dalla bionda e fluente
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
IN ALTO, Andrea Celesti, La visita
di papa Benedetto III al monastero
nell’855, Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra.
IN BASSO, Antonio Zanchi, Il trasferimento dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dalla vecchia alla
nuova chiesa, chiesa di San Zaccaria, navata sinistra.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
163
Andrea Celesti, Il doge Giustiniano
Partecipazio e l’imperatore Leone V
l’Armeno che ricevono dall’oriente il
corpo di san Zaccaria, particolare,
Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra.
chioma, avvolto in principeschi mantelli, forse il fu-
polano, mentre più di un personaggio non resiste alla
turo doge Giovanni Partecipazio.
tentazione di rivolgere il viso verso lo spettatore e
Dal lato opposto Giovanni Antonio Zonca ci ri-
‘guardare in macchina’. Un brano di vita veneziana
porta sulla terra, lasciando una galleria di vivide effigi.
che comprende la badessa con le monache inquadrate
I protagonisti sono immortalati, come in una ordinata
dietro la grata del parlatorio. Quasi un Pietro Longhi
foto di gruppo, in occasione dell’annuale visita del
ante litteram, ma senza la sua ironia.
doge al monastero. Dal dipinto si può apprezzare la
164
Antonio Zanchi invece replica l’interno della
specializzazione di Zonca nel genere del ritratto (De-
chiesa con una magistrale precisione prospettica nel
lorenzi 2009). La lunetta diventa quindi l’occasione
delineare l’architettura quattrocentesca dell’abside ove
per squadernare uno dei più interessanti repertori fi-
si svolge la scena della traslazione, avvenuta nel 1628,
siognomici del tempo, che va dall’aristocratico al po-
dei corpi dei santi Pancrazio e Sabina dall’antica alla
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
nuova chiesa. Abilissimo nell’articolare composizioni
damaschi; in primo piano un delicato giovinetto dalla
affastellate di personaggi, Zanchi dipana l’ordinato
gorgiera inamidata pizzica con soavità le corde di un
corteo processionale facendo emergere i due baldac-
arciliuto. In basso compunti senatori, una devota
chini, ma ponendo quello di san Pancrazio al centro e
dama e diaconi indaffarati sembrano strisciare come
in tralice nel momento in cui viene sollevato in modo
lumaconi sul bordo della cornice. La scena è chiusa
scomposto per salire i gradini. Si tratta dell’unica, stu-
sulla sinistra da un’inquieta figura muliebre dal man-
diata, nota dissonante nell’armonia musicale dell’in-
tello scarlatto e, sulla destra, da due gravi e pensierosi
sieme. Armonia che si coglie nella scansione perfetta
patrizi dalle vesti sovrabbondanti, ‘scolpite’ dal pen-
dello spazio e delle figure che lo abitano e che viene
nello di Zanchi che qui sembra voler emulare la
ribadita dai coristi e dai musici che si assiepano in alto
grande maniera di Tiziano.
a sinistra in una provvisoria cantoria rivestita di rossi
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
Antonio Zanchi, Il trasferimento dei
corpi dei santi Pancrazio e Sabina
dalla vecchia alla nuova chiesa, particolare, Chiesa di San Zaccaria, navata sinistra.
Infine, Giovanni Antonio Fumiani, con la conseuta
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
165
Daniel Heintz, Il doge Pietro Lando
assiste alla consacrazione della
chiesa nel 1543, Chiesa di San Zaccaria, navata destra.
capacità di impalcare scene di marcato sapore verone-
di San Giovanni Decollato, insieme a Orfeo punito
siano sottolineate da scenografici e misuratissimi arti-
dalle baccanti di Gregorio Lazzarini e Ercole e Onfale
fici prospettici, indugia in accattivanti dettagli
di Antonio Bellucci; tutte opere oggi conservate a Ca’
naturalistici disposti in primo piano; valga per tutti la
Rezzonico (Craievich 2005).
Tuttavia, il prestigio raggiunto dal trentenne Moli-
vecchia venditrice neotizianesca, vestita di colori trasparenti e acidi, che sta offrendo un bussolà a una
nari si misura anche da una nuova scoperta archivi-
bambina.
stica che permette di assegnare al pittore una parte
delle Storie della Vergine, situate sulla parete e sulla
ANTONIO MOLINARI NEI MOSAICI
DI SAN MARCO
volta del transetto sud di San Marco, sopra la porta
del Tesoro e del battistero; queste erano finora attribuite a Giovanni Antonio Fumiani (San Marco 1991).
Ai primi anni ottanta del Seicento, Antonio Moli-
166
I procuratori di San Marco de supra, cui spettava
nari faceva il suo ingresso, preceduto dal maestro An-
l’amministrazione della basilica, l’11 febbraio 1683
tonio Zanchi, nel sacro scrigno bizantino della basilica
(1682 more veneto) compensavano «Antonio Molinari
di San Marco. Artista dal genio «vigoroso e originale»
pittor per haver fatto un quadro, serve per modello di
(Zanetti 1771), questi si era emancipato dalla pittura
mosaico sopra la porta del battistero» (ASVE, P.S.M.,
tenebrosa di Zanchi elaborando un’efficace sintesi tra
reg. 16). Successivamente, il 3 aprile dello stesso anno,
tensione barocca e misura classicista. Il suo stile ben si
veniva saldato per «san Gioacchino e sant’Anna al
apprezza nel dipinto di felicissima ispirazione giorda-
tempio» e il 9 settembre 1685 per «un quadro fatto
nesca raffigurante la Lotta dei centauri con i Lapiti rea-
per li mosaici della Natività della Beata Vergine con fi-
lizzato, verso la fine degli anni novanta, per i Correr
gure 19 1/2, tra intere, meze, teste et architettura, a
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
IN ALTO, Giovanni Antonio Fumiani,
La visita dell’imperatore Ottone III
alla chiesa nell’anno 1001, Chiesa di
San Zaccaria, navata destra.
IN BASSO, Giovanni Antonio
Zonca, La visita pasquale del doge
alla chiesa, Chiesa di San Zaccaria,
navata destra.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
167
A FIANCO E PAG. 170, Giovanni
Antonio Zonca, La visita pasquale del
doge alla chiesa, particolari, chiesa di
San Zaccaria, navata destra.
PAG. 171, Giovanni Antonio Fumiani,
La visita dell’imperatore Ottone III
alla chiesa nell’anno 1001, particolare, Chiesa di San Zaccaria, navata
destra.
169
Domenico Cigola su modello di Antonio Molinari, Presentazione di
Maria al tempio, Basilica di San
Marco, transetto ovest.
ducati cinque per figura» (ASVE, P.S.M., reg. 17). Sei
in orizzontale tutta la scena: un’impostazione neove-
anni più tardi, il 9 aprile 1691, Antonio riceveva no-
ronesiana nella quale prevale, ovviamente, il fondo
vantadue ducati «per haver fatto il dissegno della sto-
oro, senza che ciò pregiudichi la resa plastica delle fi-
ria di Maria sempre Vergine quando si presenta al
gure, con un risultato di semplicità e di chiarezza
Tempio, opera che rimane nella maestà del vòlto»
compositiva. L’archetipo iconografico degli antichi
sopra la porta «che si va in tesoro». Le ultime due
mosaici marciani, e in particolare quello del portale di
composizioni furono tradotte dal mosaicista Dome-
Sant’Alipio, sarebbe riaffiorato a fine secolo, come no-
nico Cigola che appose la sua firma e la data su en-
tava Adriano Mariuz, nel telero con La traslazione del
trambe (San Marco 1691). Il primo mosaico fu
corpo di san Marco della parrocchiale di Crespano del
completato nel 1690 e il secondo l’anno successivo. È
Grappa nel trevigiano. Un’eredità raccolta nel 1728
in particolar modo nella Presentazione al tempio, sulla
anche da Sebastiano Ricci che, proprio per l’arcata del
cui superficie si aprono ben tre finestre, che si può ap-
secondo portale da sinistra contiguo a quello di
prezzare l’abilità di Molinari. Grazie alla sua «sorgiva
Sant’Alipio, approntava una smagliante Venerazione
vivacità d’invenzione» (Mariuz 1982a) egli risolve e al
del corpo di san Marco (Daniels 1976).
contempo sfrutta il limite posto dalle tre aperture,
Molinari moriva il 3 febbraio 1704 e la Pallade Ve-
unificando lo spazio con una scalinata che attraversa
172
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
neta gli dedicava un necrologio: «Il signor Antonio
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
Molinari d’anni 51 celebre competitore della natura
a seguito della canonizzazione di Giustiniani, comple-
nel delineamento delle tele ha cessato alla necessità de’
tano l’allestimento della cappella maggiore dedicata al
fati che vogliono mortali gl’huomini, benchè immor-
nuovo santo protettore dei destini della Repubblica.
Leopoldo dal Pozzo su modello di
Sebastiano Ricci, La Signoria veneziana venera il corpo di san Marco,
Basilica di San Marco, facciata, secondo arcone.
Gregorio Lazzarini, guadagnandosi il plauso dal
tale l’habbino reso le tante di lui opere esposte in
molte basiliche» (BNMVE, Mss. It., VII, 1834).
principe dell’Accademia romana di San Luca Carlo
Maratta, si inserì in quel movimento vocato alla ‘nor-
GREGORIO LAZZARINI E ANTONIO
BELLUCCI PER SAN LORENZO GIUSTINIANI
malizzazione’ dell’iperbole barocca che vuole la perfezione del disegno contrapposta o quanto meno
superiore al «colore» della scuola veneziana (Lucco
Legate alla celebrazione pubblica del primo pa-
2001). La sua produzione da cavalletto fu ricercata in
triarca di Venezia sono l’Elemosina di san Lorenzo
Italia e all’estero per l’originale invenzione composi-
Giustiniani, di Gregorio Lazzarini, e il Voto del doge
tiva, come nell’Elemosina dove l’artista volle inserire il
Nicolò Contarini al beato Lorenzo Giustiniani per la
proprio ritratto tra la folla che osserva il santo mentre
cessazione della peste, di Antonio Bellucci, collocate nel
con gesto magnanimo gratifica i bisognosi (da Canal
presbiterio dell’allora cattedrale di San Pietro di Ca-
1809). Possiamo oggi riconoscere la sua effigie stabi-
stello. Teleri di grande respiro, posti in opera nel 1691
lendo un confronto con l’Autoritratto giovanile, con-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
173
servato presso l’Accademia Carrara di Bergamo, che
1676, aveva «dimorato a Sebenico» insieme al nobi-
pare quasi ritagliato dal telero. È l’Elemosina un’opera
luomo Angelo Emo (ASPVE, E.M. reg. 91), ove coltivò il
intessuta in una trama prospettica che rammenta
suo talento sotto la direzione dello sconosciuto pittore
Paolo Veronese, ma temperata da una compostezza at-
dalmata Domenico Difnico (da Canal 1809; Magani
tinta da Padovanino (Pallucchini 1981). Il santo si
1995). Rientrato a Venezia all’età di 22 anni, riuscì ben
erge imperturbabile, luminoso, sulla scalea che con-
presto ad affermarsi, per passare poi a Vienna, presso
duce verso un palazzo di sobria, classica architettura,
diverse corti tedesche e a Londra. Infine, dopo lungo
attorniato da questuanti. Lazzarini nel dipingere i mi-
peregrinare per l’Europa, ritornò in patria e si ritirò a
serabili che s’affollano attorno a Giustiniani manifesta
Soligo, nel trevigiano, dove morì nel 1726. Il pittore
un naturalismo privo di enfasi, smorzando gli accenti
anima il Voto del doge Nicolò Contarini di accordi cro-
in senso accademico. L’intera composizione è trattata
matici accesi e brillanti, definendo i volumi con un di-
con una maniera «naturale e non furiosa, soda e ben
segno nitido e disponendo armoniosamente le masse
intesa nell’ombre» (da Canal 1809).
tra le architetture monumentali. Un’ariosa loggia in
Il Voto del doge Nicolò Contarini al beato Lorenzo
ombra separa lo spazio in primo piano, abitato dalle
Giustiniani, di Antonio Bellucci, è invece il frutto della
comparse, rispetto a un’immaginaria navata pervasa
maturità di un artista che in gioventù, tra il 1668 e il
di luce, nella quale si scorge un sontuoso altare lon-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
PAGINA A FIANCO IN ALTO, Antonio Molinari, Lotta dei centauri con i
Lapiti, Ca’ Rezzonico.
PAGINA A FIANCO IN BASSO,
Gregorio Lazzarini, Orfeo punito
dalle baccanti, Ca’ Rezzonico.
IN ALTO A SINISTRA, Gregorio
Lazzarini, Elemosina di san Lorenzo
Giustiniani, particolare con l’autoritratto dell’artista, Chiesa, già cattedrale, di San Pietro di Castello.
IN ALTO A DESTRA, Gregorio Lazzarini, Autoritratto, Bergamo, Accademia Carrara.
175
PAGINA A FIANCO E IN ALTO,
Gregorio Lazzarini, Elemosina di san
Lorenzo Giustiniani, intero e particolari, Chiesa, già cattedrale, di San
Pietro di Castello.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
177
IN ALTO E PAGINA A FIANCO,
Antonio Bellucci, Voto del doge Nicolò Contarini al beato Lorenzo Giustiniani per la cessazione della peste,
intero e particolare, Chiesa, già cattedrale, di San Pietro di Castello.
gheniano ospitante una pala con la personificazione
tratta di un culto di Stato inscritto in un processo che
della Repubblica inginocchiata di fronte al Padre
esalta la valenza ‘nazionale’ della religione (cfr. Roca
Eterno, quasi un richiamo della tela con Venezia che fa
De Amicis 2008a). Anche se queste erano le intenzioni
il voto a sant’Antonio da Padova per la cessazione della
della committenza, Bellucci restituisce l’evento con
guerra di Candia, che Pietro Liberi aveva dipinto nel
una percezione distaccata e storicizzata; oramai la
1652 per la basilica della Salute. «Il lume che sbatte e
peste è un ricordo lontano; sullo sfondo di una Vene-
rischiara in controluce» giunge come un’eco del gusto
zia assolata si materializza su un ponte il passaggio di
tenebroso di Antonio Zanchi (Pallucchini 1981): in
un mesto funerale; lontane sono anche le dolorose
particolare nel gruppo che sulla destra circonda la ca-
sconfitte di Candia, poiché i primi successi di France-
daverica Peste, colpita dall’asta del vessillo di san
sco Morosini in Morea gettano una nuova positiva
Marco e al contempo sferzata per impedirle di mietere
luce sulle illusioni di un futuro ancora glorioso per la
nuove vittime.
Repubblica.
Mentre il primo telero descrive un episodio della
vita del santo avvenuto nel XV secolo, questo, che è
l’ultimo del ciclo della cattedrale, illustra l’ennesima
tappa, la più clamorosa, la più alta e ridondante nella
costruzione del mito di Giustiniani, quando interviene nel 1630 per salvare la città e l’intera patria. Si
178
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
AMPLIFICARE LO SPAZIO: FRESCANTI E
QUADRATURISTI A VENEZIA
conda metà del secolo, almeno per i vani chiesastici:
prima il lucchese Pietro Ricchi nel chiostro dei Santi
Giovanni e Paolo e a San Giuseppe di Castello in compagnia del quadraturista bolognese Pietro Antonio
Venezia, pur rimanendo ancora nel Seicento una
città variopinta per le sue facciate affrescate, durante
Torri, poi il romano (allievo di Pietro da Cortona) Gi-
buona parte del secolo continuerà a preferire per gli
rolamo Pellegrini nella volta del presbiterio e nel ca-
ambienti interni le tele o i «cuori d’oro» (cuoi incisi e
tino absidale di San Pietro di Castello, nell’abside di
dorati). Volendo prestar fede alle parole pronunciate
San Zaccaria, nella cappella Sagredo a San Francesco
nel 1692 dal mercante napoletano Simon Giogalli, re-
della Vigna e nella cupola dei Santi Cosma e Damiano
ferente sulla piazza veneziana di Luca Giordano, nella
alla Giudecca (Magani 2001). A San Lazzaro dei Men-
città lagunare i pittori, «che ad oglio possino passar
dicanti il soffitto era lavorato «a fresco con vaghissima
per buoni virtuosi», a fresco «sono rediculosi, infatti
architettura opera di Faustin Moretti bresciano con le
poco si usa qui un tal dipingere, perché per il salso
figure del cavalier Liberi» (Doglioni 1675); a San Mar-
non tengono le calcine» (cit. in Ravelli 1988). Tale te-
tino di Castello si poteva ammirare «la volta della sa-
stimonianza – condizionata invero dall’interesse di
grestia» decorata «a fresco con bellissima architettura
promuovere l’abilità dei frescanti della scuola parte-
di Simone Guglielmi da Piove [di Sacco] e le figure di
nopea – non va ad ogni buon conto sopravvalutata, se
Antonio Zanchi», mentre Domenico Bruni e Giacomo
teniamo in considerazione la rinnovata fortuna che
Pedrali, ancora due bresciani, avevano operato sul
questa tipologia riscontrava giusto a Venezia nella se-
cielo della navata. Pitture murarie si stendevano agli
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
IN ALTO E PAGINA A FIANCO,
Girolamo Pellegrini, Apoteosi di san
Lorenzo Giustiniani, intero e particolare, Chiesa, già cattedrale, di San
Pietro di Castello, catino absidale.
PAGG. 182-183, Pietro Ricchi e
Pietro Antonio Torri, Soffitto della
chiesa di San Giuseppe di Castello,
intero e particolare.
PAGG. 183-184, Nicolò Bambini, Antonio Felice Ferrari e Girolamo
Mengozzi Colonna, Apoteosi di Venezia, Ca’ Dolfin, volta del salone.
181
Ognissanti da parte di Agostino Litterini e a San Luca
per mano di Domenico Bruni (Flores d’Arcais 2001);
così come nel 1675 la chiesa di San Silvestro da poco
rifabbricata attendeva di vedere il vasto soffitto «dipinto a fresco con altri ornamenti» (Doglioni 1675).
Per questo incarico si sarebbe scelto, nel 1682, il giovane Louis Dorigny da poco giunto nelle lagune dopo
un proficuo soggiorno nell’Italia centrale.
I soffitti di chiese e palazzi erano in molti casi caratterizzati dalla compresenza di figure e architetture
effimere, quest’ultime dipinte da artisti specializzati.
Tale stratagemma, di chiara derivazione teatrale, veniva utilizzato per amplificare virtualmente lo spazio
architettonico. A partire dagli anni sessanta del Seicento farà la sua comparsa nei domini della Repubblica la quadratura bolognese, più articolata e ricca di
commistioni con elementi vegetali e floreali di quella
già in uso di matrice bresciana, che si distingueva per
una scansione serrata e regolare delle membrature. La
scuola bolognese si affermò con successo avendo
come protagonisti principali Pietro Antonio Cerva,
Pietro Antonio Torri, Antonio Felice Ferrari e Ferdinando Fochi, giungendo infine, nei primi decenni del
nuovo secolo, agli esiti del ferrarese Girolamo Mengozzi Colonna, che diverrà il geniale collaboratore di
Giambattista Tiepolo.
A Pietro Antonio Torri spetta la «maestrevole architettura» illusoria del soffitto della chiesa di San
Giuseppe di Castello, mentre le gigantesche figure
sono opera di Pietro Ricchi (Martinelli 1684). L’affresco, della fine degli anni sessanta del Seicento, presenta
una divisone della volta in tre scomparti, sostenuti da
effimere colonne, che segnano gli episodi con l’Apoteosi di San Giuseppe nel riquadro centrale e Santa Monica e Sant’Agostino negli ottagoni laterali. Torri
intende raddoppiare in altezza il vano della navata e lo
fa proponendo un finto soffitto a cassettoni neocinquecenteschi. Ciò è sottolineato dalla presenza delle
mensoline dipinte che contornano le cornici degli ottagoni, simili anche nella parte figurativa al lacunare
Giovanni Antonio Fumiani, Martirio
e glorificazione di san Pantaleone,
Chiesa di San Pantalon, soffitto.
186
dell’antisala della Libreria Marciana che ospita la Sa-
più miracoli che quadri» (Fabri 1690). Il soffitto di
pienza di Tiziano.
tela più vasto del mondo non era ancora iniziato nel
1697 (Pacifico 1697) e appariva a buon punto nell’ot-
Il frutto più maturo e spettacolare della quadratura
di gusto bolognese lo troveremo oltre trent’anni più
tobre del 1706, quando era stato scoperto, «benchè
tardi a Ca’ Zenobio, a opera di Louis Dorigny, e, in
non sia finito», su richiesta di Teresa Cunegonda So-
una versione inconsueta per Venezia, nel salone di Ca’
bieska, elettrice di Baviera di passaggio a Venezia (cit.
Dolfin a San Pantalon fra il 1711 e il 1715. In quel
in Zava Boccazzi 1990). La principessa «assai inten-
contesto Nicolò Bambini, ma in particolar modo il
dente di pittura» era rimasta colpita e «molto con-
quadraturista Antonio Felice Ferrari, coadiuvato dal
tenta» dello spettacolo, e «tutta la nobiltà» aveva
giovane allievo Girolamo Mengozzi Colonna, ridus-
manifestato soddisfazione tanto da richiedere che
sero «il finto ad una grande emulazione del vero» (Ba-
l’opera rimanesse in vista per otto giorni.
ruffaldi 1846; Favilla-Rugolo 2008g). Si tratta di un
La lunga vicenda esecutiva, conclusasi entro il
eloquente manifesto che esalta le virtù della famiglia
1710, anno di morte del pittore, ricalca la travagliata
Dolfin distintasi sullo scorcio del Seicento in campo
rifabbrica dell’edificio alla quale partecipò anche Bal-
politico, militare e letterario. L’Apoteosi di Venezia
dassare Longhena. Il cantiere si era aperto nel 1667
squadernata sulla volta del salone con un multiforme
con la posa della prima pietra e veniva bloccato nel
repertorio figurativo è inscritta in un’illusoria, son-
1671 «per il veleno interamente vomitato dal demo-
tuosa loggia di marmo rosa, movimentata da balcon-
nio», a causa dei dissidi accorsi fra il pievano e la
cini flessuosi aperti su gonfie balaustre, dietro le quali
Scuola del Santissimo Sacramento cui spettava l’am-
si scorgono candide statue annicchiate e ritratti di
ministrazione dell’omonima cappella (Frank 2004).
personaggi della casata, tratteggiati a monocromo e
Nel 1684 era stata edificata soltanto «la capella mag-
incastonati entro dorate cornici ovali. Mentre nel deli-
giore con una sol ala di chiesa» (cit. in Favilla-Rugolo
neare le figure Bambini rivolge lo sguardo alle recenti
2004-05). Ancora nel 1697 si era da poco conclusa la
felicissime tele di Sebastiano Ricci sullo scalone di Pa-
navata, mentre si andavano «fabbricando gli altari», e
lazzo Mocenigo a San Samuele (ora a Berlino, Staatli-
solamente la cappella di San Pantaleone era ornata
che Museen), nell’impaginare la vastità del cielo
«con pitture molto ben compartite dipinte da Antonio
aperto rammenta invece la grande maniera di Pietro
Fumiani» (Pacifico 1697). Possiamo dunque immagi-
da Cortona. Nell’Apoteosi di Venezia pubblico e pri-
nare che intorno a questa data l’artista si mettesse
vato coincidono ancora una volta nei contenuti: le
all’opera nella vasta impresa, finché «al presente anno
sorti e la gloria della famiglia sono indissolubilmente
1704» la chiesa appariva «quasi ridotta a perfetione in
legate a quelle dello Stato.
buona struttura e dissegno con 7 altari tra quali alcuni» adornati «con finissimi marmi»; al contempo
LA TELA PIÙ GRANDE DEL MONDO:
GIOVANNI ANTONIO FUMIANI
A SAN PANTALON
«il soffitto tutto si rinnova dal suddetto Fumiani»
(Martinelli 1705).
La partecipazione all’allestimento di scenografie
per drammi in musica, in particolare nel teatro ducale
Uno straordinario effetto teatrale si sprigiona dal
di Piacenza nel 1669 (Mancini-Muraro-Povoledo
Martirio e glorificazione di san Pantalon, che riveste
1995), e l’insegnamento del suo maestro Domenico
l’intera volta dell’omonima chiesa, dipinto da Gio-
degli Ambrogi, frequentato a Bologna in giovanissima
vanni Antonio Fumiani, «mano felice nata a disegnar
età, consentono a Fumiani di approntare una ‘mac-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
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TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
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VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
LE MOLTE MANIERE DI DIPINGERE
china’ che sarà definita persino «inutile» (Longhi 1946).
Si tratta in realtà di un magnifico apparato da fruire
come una perpetua sacra rappresentazione, che vede
Arduo sarebbe voler fissare rigide barriere tra le di-
come protagonista Pantaleone, medico nicomediese,
verse correnti che convivevano a Venezia nell’ultimo
martire sotto l’imperatore Diocleziano. Sull’enorme sof-
quarto del Seicento, utilizzando categorie mentali date
fitto, fra la moltitudine di figure, in corrispondenza
a posteriori. Non c’è ragione infatti di immaginare una
dell’altar maggiore si staglia il santo in piedi al vertice di
spiccata preferenza dei committenti, a cavallo dei due
un’erta scalinata sospesa sul precipizio, esibendosi ai
secoli, verso il nascente Barocchetto a scapito del clas-
suoi carnefici in attesa del martirio mentre contempla
sicismo di stampo marattesco. E se è impossibile ri-
imperturbabile innanzi a sé la gloria celeste che lo at-
scontrare un’omogeneità tra gli artisti operanti in
tende. Si tratta di uno spettacolo allestito dipingendo a
questo torno di tempo, poiché vi erano in città «tante
terra con lavoro certosino pezzo per pezzo, come se si
maniere quanti erano quelli che dipingevano» (Zanetti
trattasse di quinte teatrali successivamente poste in
1771; Magani 2001; Craievich 2005), tale varietà era
opera; un insieme di tele cucite fra loro come una mae-
vista allora come tutt’altro che inconciliabile, e soprat-
stosa vela gonfiata da un soffio spirituale più che fisico.
tutto era percepita come una ricchezza, un vero e pro-
Grazie al trompe-l’oeil delle possenti architetture la volta
prio valore aggiunto (Aikema 2006). Ciò è verificabile,
del soffitto si spalanca e si trasforma così in una sorta di
per esempio, in un contesto pubblico come quello
prosecuzione verso l’alto dell’aula sacra che illusionisti-
della Scuola Grande della Carità. Nel 1700 il capitolo
camente si moltiplica in altezza per perdersi nella lonta-
della Scuola decideva di provvedere al rinnovamento
nanza infinita dell’empireo inondato di luce. Come in
degli apparati decorativi interni (Moretti 1978). Per
teatro la sapiente orchestrazione della vera luce, che qui
l’occasione, furono indirizzate le richieste ad artisti di-
proviene dai finestroni termali, è essenziale per garan-
versi per età e stile: Gregorio Lazzarini, Antonio Bale-
tire l’effetto d’insieme. Si riconosce nell’immediato il
stra, Giovanni Segala, Angelo Trevisani, Giovanni
debito verso Paolo Veronese, per i colori a volte diafani,
Antonio Fumiani, Sebastiano Ricci e Simone Brentana.
a volte luminosi, spesso cangianti, e non mancano poi
Conclusa la campagna decorativa, il 3 aprile 1704 il
riminiscenze michelangiolesche della Cappella Sistina
doge Alvise II Mocenigo si recò in visita alla Scuola e
qui reinterpretate con enfasi tutta barocca (Ivanoff
«vidde coperto ogni nicchio d’ammirabili pitture de’
1962). Oltre agli insegnamenti prospettici di Domenico
più famosi pennelli del secolo presente» (cit. in Favilla-
degli Ambrogi (Rossetti 1996), l’ascendente di Andrea
Rugolo 2009). Se una committenza pubblica non ma-
Pozzo, che tra il 1691 e il 1694 affrescava la volta di
nifestava particolari predilezioni per l’una o per l’altra
Sant’Ignazio a Roma, parrebbe palese, considerando
tendenza, non v’è ragione di immaginare, d’altro
anche che la sua Perspectiva pictorum et architectorum
canto, una preferenza dei privati verso le ‘avanguardie’.
veniva edita nella stessa città a partire dal 1693.
Un esempio a questo proposito è rappresentato dalla
Alla fine, per Fumiani San Pantalon diverrà la ‘sua’
giusta miscela di classicismo e Barocchetto profusa agli
chiesa, alla quale è consegnata per sempre la fama del
inizi del Settecento nei quattro ovali concepiti per una
proprio nome. È suo non solo il soffitto della navata, ma
sala di palazzo Pisani a Santo Stefano (Marinelli 2003;
anche quello della cappella maggiore. Inoltre lascerà
Marinelli 2004; Favilla-Rugolo 2005a), ove Dorigny e
opere su tela in ben cinque altari laterali su sette, e dopo
Balestra, da una parte, e Ricci e Pellegrini, dall’altra, si
tante fatiche troverà degno riposo in un sepolcro inca-
sfidano in una tenzone nella quale il rigore del disegno
stonato nel pavimento della navata.
prevale felicemente, senza per questo tarpare le ali ai
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
Giovanni Antonio Fumiani, Martirio
e glorificazione di san Pantaleone,
particolare, Chiesa di San Pantalon,
soffitto.
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DELL’ELOQUENZA
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cosiddetti coloristi, anzi conferendo loro particolare e
Raffaello, Correggio, Annibale Carracci e Andrea Sac-
insolito smalto. Nella medesima congiuntura, i Manin
chi. Durante il soggiorno romano del 1691-95, «dise-
chiedevano dipinti a Nicolò Bambini, Gregorio Lazza-
gnò da Raffaele, Carracci, e dall’antico continuamente,
rini, Giovanni Segala, Angelo Trevisani, Giannantonio
nella loggia de’ Chigi, Stanze Vaticane, Galleria Far-
Pellegrini, Sebastiano Ricci e allo stesso Balestra per il
nese» (cit. in Ghio-Baccheschi 1989).
loro palazzo a Rialto (Frank 1996). Nel 1709 quest’ul-
Balestra fu un artista dal genio «allegro prudente-
timo veniva chiamato da Gregorio Barbarigo di Santa
mente» e dall’«operare amoroso» (Zanetti 1771), ca-
Maria del Giglio, insieme a Ricci e Bambini, per realiz-
ratteristiche che ritroviamo nella Madonna con il
zare un telero «d’un historia di sua eccellentissima
Bambino e i santi Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga e
casa» da collocarsi nel portego del palazzo dominicale
Francesco Borgia, per la chiesa di Santa Maria Assunta
affacciato sul Canal Grande. I quadri celebrativi dei
dei Gesuiti. L’opera, firmata e datata 1704, riscosse im-
fasti della stirpe barbariga andavano ad aggiungersi
mediatamente un vasto successo per l’inarrivabile
agli altri già in situ, definiti «quadri moderni» e raffi-
equilibrio dell’invenzione, il disegno, la «grazia» e la
guranti «istorie» della famiglia, opera di Zanchi, Da-
«nobiltà». Una grazia suadente e mite contraddistin-
niel Heintz, Lazzarini, Molinari, Bellucci, Fumiani e
gue infatti le attitudini dei personaggi, definiti da un
Celesti, dipinti sullo scorcio del secolo appena passato
contorno lindo e preciso rafforzato da una stesura pit-
(Favilla-Rugolo c.s.). Artisti vecchi e nuovi, per l’ana-
torica soffice tutta giocata su tonalità sobrie ma smal-
grafe e per lo stile, si affiancavano dunque, non po-
tate. Dall’insieme, perfetto in ogni sua parte, traspare
tendo sottrarsi al confronto e, forse, al dialogo. Tant’è
una placida, ma intensa vena pietista. In basso a destra
che già nel 1690 Dorigny, Zanchi, Loth, Fumiani, CerPAGINA A FIANCO, Antonio Balestra, Madonna con il Bambino e i santi
Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga e
Francesco Borgia, Chiesa dei Gesuiti.
PAGG. 192-193, Antonio Balestra,
Adorazione dei pastori, Chiesa di
San Zaccaria.
è una ‘natura morta’ che evoca appena – nella vanitas
velli, Bellucci, Lazzarini e Bambini si erano fatti pro-
del teschio e delle insegne regali abbandonate sotto il
motori della formazione di una stabile «Accademia dei
disco ‘infuocato’ del cappello cardinalizio – un lontano
corpi humani» in Venezia e per l’emancipazione defi-
e sfumato ricordo: l’angosciosa scoperta della caducità
nitiva, quindi, della pittura che fino al 1682 era rimasta
delle cose da parte del giovane Francesco Borgia cru-
legata all’arte dei «dipintori» (Favaro 1975).
damente narrata, quarant’anni prima in pieno tenebri-
ANTONIO BALESTRA E IL CLASSICISMO
smo, dal pennello di Pietro Vecchia.
In tale variegato contesto si inserisce il veronese
Zaccaria, la prima di una serie di Natività disseminate
Di poco più tarda è l’Adorazione dei pastori per San
Antonio Balestra che fin dai suoi esordi sullo scorcio
per Venezia. Chiaro appare il debito verso Correggio,
del Seicento diverrà, nel solco tracciato da Lazzarini,
fulgido esempio filtrato dall’insegnamento di Maratta.
l’esponente più rappresentativo della corrente classici-
Infatti il disegno è come sempre inarrivabile, il lumini-
sta in terra veneta. Discepolo a Venezia di Antonio Bel-
smo e la sensibilità coloristica magistrali, la struttura
lucci, ebbe come principale modello Carlo Maratta,
compositiva equilibrata, le ombre ben dosate, le forme
negli ultimi trent’anni del secolo protagonista incon-
permeate di una soda, felpata morbidezza. Si percepi-
trastato dell’Accademia di San Luca a Roma. Perfe-
sce la volontà dell’artista di conseguire una perfezione
zione nel disegno, equilibrio nella disposizione delle
ideale che non adombra però la dolcezza soave e lieta,
masse, eleganza delle forme, grandiosità nel panneg-
mai stucchevole, che promana dalla scena.
giamento, colorito «grazioso» sono le caratteristiche
del suo operare, avendo come principali numi tutelari
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VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
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A FIANCO, Sebastiano Ricci, Soffitto
della chiesa di San Marziale.
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SEBASTIANO RICCI E IL BAROCCHETTO
Un artista che sembra agli antipodi di Balestra –
ma che in realtà è da riconoscere come l’altra faccia
della stessa medaglia – è invece Sebastiano Ricci. Pittore di fama internazionale, «ricco di doni di benigna
natura» (Zanetti, 1771), fu insieme a Giovanni Antonio Pellegrini il promotore dell’orientamento ‘chiarista’ che introdusse nelle lagune, sullo scorcio del
Seicento, il gusto rococò secondo l’accezione più propriamente veneziana di Barocchetto.
Realizzate a cavallo del secolo, le tele sul soffitto
della chiesa di San Marziale (Moretti 1978) raffigurano la Gloria del santo eponimo e due episodi narranti la leggendaria vicenda della statua miracolosa
della Vergine, «partita da’ lidi di Rimini» e approdata
a Venezia proprio lì, in prossimità della parrocchiale,
dove anticamente la città confinava con la laguna
nord (Corner 1758). Alla sommità del presbiterio
campeggia invece il Padre Eterno con lo Spirito Santo.
Le quattro scene sono collocate all’interno di tonde
cornici lignee riccamente intagliate che spiccano sulla
più chiara superficie dell’intonaco. Qui il «tanto rinomato» Sebastiano Ricci, «singolare per l’idea, diligentissimo nell’attitudine e tanto espressivo nel colorito»
(cit. in Selfridge Field 1980) aveva approntato dei
quadri «bellissimi» (Martinelli 1705), memore degli
scorci arditi e spericolati di Veronese a San Sebastiano.
Il cielo virtuale che s’apre negli oculi ritagliati sulla
volta si accende di una tersa luminosità. Ciò si coglie
in particolare nell’episodio con gli angeli che scolpiscono l’effigie della Madonna. La leggenda descrive di
un umile e devoto pastore riminese che nel 1286
avrebbe deciso di modellare in un tronco il simulacro
della Vergine, subendo però il boicottaggio del dispettoso demonio che nottetempo ne distruggeva il la-
IN ALTO, Sebastiano Ricci, L’arrivo
a Venezia della statua miracolosa
della Vergine, particolare, Chiesa di
San Marziale, soffitto.
IN BASSO, La statua miracolosa della
Vergine condotta in barca dagli angeli,
particolare, Chiesa di San Marziale,
altare della Beata Vergine, paliotto.
voro. Per aiutarlo a finire l’opera intervennero
miracolosamente due angeli in sembianze di «vaghi e
ben vestiti fanciulli» (Corner 1758). Nel tondo Ricci li
raffigura intenti a maneggiare con estrema grazia
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
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TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
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martello e scalpello, svolazzando come api intorno a
un fiore gravido di nettare, mentre un terzo si occupa
di tenere a bada con ‘innocente’ violenza un diavolo
nero come la pece spinto sull’orlo del precipizio; assiste al soprannaturale evento l’allibito pastore all’ombra di un albero sghembo. Nell’altra tela la navicella
con l’effigie della Madonna è giunta al bordo di una
chiusa immaginaria, mentre dal ponte di San Marziale
i passanti osservano incuriositi la scena e un uomo
tenta di avvicinare l’imbarcazione alla riva aiutato con
il remo da un atletico angelo traghettatore. L’artista
ingentilisce con il pennello la foggia di quella che in
realtà è una rozza scultura lignea tardogotica che a
tutt’oggi è venerata nel suo altare eretto nel 1697 sulla
parete sinistra della navata. Le composizioni sono intrise di effetti madreperlacei e di «argentine luci riflesse» (Moretti 1978); le forme appaiono sode e ben
tornite in uno sfumato carezzevole. Lo stesso Ricci nel
settembre del 1711 aveva completato gli affreschi, ora
perduti, nella cappella maggiore di San Sebastiano. La
Pallade Veneta in quell’occasione, facendo il paragone
con Veronese, ammetteva con iperbole tutta barocca:
«bisogna confessarlo, [Ricci] se non superiore [è] al
men uguale a quell’insigne emulante della natura»
(cit. in Selfridge Field 1980).
Fra il 1708 e il 1709 nella chiesa di Santa Maria del
Carmine, sopra l’altare dell’Abito della Madonna,
Ricci spalanca un altro ritaglio di firmamento celeste
(Moretti 1978). Gli angeli volteggiano nell’empireo
dorato, quale omaggio alla tradizione bizantina mai
totalmente morta nelle lagune. Alcuni stanno comodamente adagiati su soffici nuvole, mentre un paffuto
specchio, oggi oramai deteriorato, che in origine do-
angiolotto esibisce lo scapolare della Vergine. La mate-
veva moltiplicare i raggi del sole. Nascoste all’occhio
ria instabile e cangiante, fragrante e imbevuta di luce,
del visitatore, perché incassate in alto sopra l’arco che
è caratterizzata da una stesura a tocco d’estrema viva-
divide la cappella dalla navata della chiesa, sono le tele
cità. Una pittura felice e spiritosa, di raro virtuosismo
a monocromo con due gigantesche figure angeliche
nel violento accostamento delle diverse tonalità. La
distese e separate da un vaso, tratteggiate con una
luce naturale che illumina la volta proviene da tre
pennellata larga, furiosa, compendiaria, a sfregazzo,
grandi finestroni termali e, con stratagemma berni-
omaggio al magistero di Jacopo Tintoretto.
PAGINA A FIANCO, Sebastiano
Ricci, Gli angeli scolpiscono la statua
della Vergine e atterrano il demonio,
Chiesa di San Marziale, soffitto.
IN ALTO, Sebastiano Ricci, Angeli,
Chiesa di Santa Maria del Carmine,
cappella della Scuola dei Carmini,
parete verso la navata.
PAGG. 198-199, Sebastiano Ricci,
Gloria d’angeli, Chiesa di Santa
Maria del Carmine, cappella della
Scuola dei Carmini, volta.
niano, dal lanternino alla cui sommità e inserito uno
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
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TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
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IL CICLO DI SAN STAE
Gli esempi summenzionati relativi a cicli pittorici
che vedevano coinvolti artisti di formazione più disparata, non dovevano rimanere casi isolati, anzi sembrano proprio dettare una regola. Un insieme di tele,
eseguite a partire dal 1722 grazie al lascito testamentario del nobiluomo Andrea Stazio, raduna nella chiesa
di San Stae nomi già affermati insieme a quelli di giovani esordienti: Nicolò Bambini, Gregorio Lazzarini,
Sebastiano Ricci, Antonio Balestra, Silvestro Manaigo,
Angelo Trevisani, Giovanni Antonio Pellegrini, Pietro
Uberti, Giambattista Piazzetta, Giambattista Pittoni,
Giambattista Mariotti e Giambattista Tiepolo (Moretti 1973). Artisti i più diversi per formazione e per
età: Bambini aveva settantun anni, Tiepolo il più giovane ne aveva ventisei. I dodici dipinti, collocati in
origine alla sommità dei pilastri della navata, soltanto
dopo il 1733 verranno trasportati nel presbiterio e incastonati all’interno di cornici a stucco. Le scene sono
disposte per coppie narrative, hanno per soggetti martiri di santi e costituiscono una galleria ‘parlante’ della
pittura veneziana degli anni venti del Settecento: dal
composto e levigato classicismo di Lazzarini e Balestra, alle forme drammatiche e chiaroscurate di Piaz-
IN ALTO, Giovanni Antonio Pellegrini, Martirio di sant’Andrea,
Chiesa di San Stae, presbiterio.
IN BASSO, Gregorio Lazzarini, San
Paolo, Chiesa di San Stae, presbiterio.
PAGINA A FIANCO, Giambattista
Piazzetta, Cattura di san Giacomo,
Chiesa di San Stae, presbiterio.
zetta e Tiepolo, al protervo fulgore coloristico di Ricci,
Pellegrini e Pittoni.
I CIELI DI PIAZZETTA E TIEPOLO
Nel 1723 il capitolo dei padri domenicani dei Santi
Giovanni e Paolo incaricava i confratelli responsabili
della fabbrica della cappella di San Domenico, finalmente compiuta dopo trent’anni di lavori, di scegliere
fra i diversi pittori che si erano proposti di dipingere
su tela il soffitto del sacello (Mariuz 1982b). Giambattista Piazzetta risultò alla fine vincitore, ma sappiamo
per l’esistenza dei modelletti che al concorso parteciparono almeno Giambattista Tiepolo e Mattia Bortoloni. Il 14 gennaio 1726 la volta venne inagurata con
200
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AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
grande partecipazione di pubblico, tra cui numerosi
pittori, che incuriositi «si portaron a vedere sì insigne
opera» con la Gloria di san Domenico (cit. in Moretti
1984-85). Piazzetta, figlio dell’intagliatore Giacomo,
affonda le sue radici nel Seicento, nella pittura tenebrosa appena mitigata dal «dipingere di macchia» di
Domenico Fetti, dallo «spumeggiare frenetico del colore» di Johann Liss e dalle «iridescenze» di Bernardo
Strozzi (Pallucchini 1995). Pittore lento e da cavalletto, Giambattista affronta qui per la prima e unica
volta un’impresa di carattere decorativo. Superando il
limite di una matrice fortemente chiaroscurale e pur
utilizzando una tavolozza sobria composta di colori
rugginosi, impalca una composizione vorticosa con
effetti di controluce. Un rigore ottico viene applicato
nello scorciare le figure dei frati che si affacciano da
immaginari gradini, con il santo proiettato come una
freccia verso il cielo sostenuto da angeli che pedalano
nell’aria, mentre altri eseguono un concertino con i
più attuali strumenti dell’epoca. Una lezione che «può
essere stata importante anche per il Tiepolo, che pure
si spingerà ben oltre» (Mariuz 1982b).
Il 16 maggio 1722 i Giudici del Piovego concede-
PAGINA A FIANCO, Giambattista
Tiepolo, Martirio di san Bartolomeo,
Chiesa di San Stae, presbiterio.
IN ALTO, Sebastiano Ricci, San Pietro liberato dal carcere, Chiesa di
San Stae, presbiterio.
IN BASSO, Antonio Balestra, Martirio di san Giovanni, Chiesa di San
Stae, presbiterio.
PAG. 204, Andrea Tirali, Cappella di
San Domenico, Basilica dei Santi
Giovanni e Paolo.
PAGG. 205-207, Giambattista Piazzetta, Gloria di san Domenico, intero
e particolari, Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, cappella di San Domenico, soffitto.
vano licenza a «mastro Valentin Sardi murer» di ricostruire dalle fondamenta la facciata di un casa posta a
Sant’Angelo in corte dell’Albero in prossimità del
Canal Grande di proprietà del «nobil huomo eccellenza Sandi» (ASVE, G.P., b. 23). Si andava edificando
su progetto dell’architetto Domenico Rossi (Selvatico
1847) la nuova dimora dei Sandi, famiglia di origine
feltrina nobilitata nel 1685 e dedita all’avvocatura.
Conclusi i lavori, Tommaso Sandi intorno al 1724-25
chiamò un giovane pittore, Giambattista Tiepolo, e
uno anziano Nicolò Bambini, per decorare – curiosamente – non la sala principale della casa, la più luminosa che si affaccia sulla calle, ma quella sul retro del
palazzo che guarda verso il rio. Il ciclo decorativo
venne intrapreso con ogni probabilità per sancire il
passaggio di Tommaso alla prestigiosa avvocatura
della Signoria e l’ingresso alla professione forense del
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
203
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
207
figlio Vettor (Ton 2004). Il soggetto dell’affresco sul
d’aria con i personaggi disposti sui lati, violentemente
soffitto è stato riconosciuto come Il trionfo dell’Elo-
scorciati, in bilico sul vuoto. Il moto centrifugo è asse-
quenza e si articola in quattro episodi mitologici a
condato da eccitati accordi cromatici che si stempe-
questa connessi che si dispiegano per mano di Tie-
rano nel fondo azzurro del cielo percorso da nembi
polo: Anfione costruisce le mura di Tebe con il suono
multicolori. Le figure attorte e sode denunciano
della lira, Orfeo trae Euridice fuori dall’Ade, Ercole li-
un’intonazione drammatica, ancora barocca, l’ultimo
bera i Cercopi perché indotto al riso dai loro discorsi e
temporale prima che il vento della critica corrosiva
Bellerofonte uccide la chimera, mentre al centro si sta-
dell’Illuminismo schiarisca il limpido cielo della ra-
gliano Minerva e Mercurio (Ivanoff 1951; Knox 1993).
gione. Quella di palazzo Sandi è una ragione consape-
Un fregio a monocromo su tela corre tutto intorno al
vole che in ogni momento potrebbe precipitare nella
di sotto dell’affresco, ove si dipana un’intrecciata con-
condizione ferina e preumana. Tutti i protagonisti, da
gerie di terree, mostruose figure attribuita a Nicolò
Anfione a Orfeo, compresi anche quelli delle tele un
Bambini. Completavano l’arredo pittorico della sala i
tempo sulle pareti, dimostrano che solo l’eloquenza e
dipinti delle pareti, oggi non più in loco, con Apollo
la legge, come facce della stessa medaglia della civiltà,
che scortica Marsia, Ercole e Anteo, Ulisse che scopre
consentono agli uomini di sollevarsi dall’orrido caos
Achille tra le figlie di Nicomede di Tiepolo, e le Tre Gra-
della barbarie. Il programma iconografico intende
zie e Coriolano davanti alle porte di Roma di Bambini
sottolineare il valore dell’eloquenza sulla falsariga del
(Aikema 1986).
pensiero del filosofo napoletano Giambattista Vico –
Il soffitto sembra scoperchiato da una tromba
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
PAGG. 208-209, Giambattista Tiepolo, Il trionfo dell’Eloquenza, Palazzo Sandi, soffitto della sala.
PAGINA A FIANCO E IN ALTO,
Giambattista Tiepolo, Il trionfo dell’Eloquenza, particolari con Anfione
che costruisce le mura di Tebe con
il suono della lira e con Bellerofonte
che uccide la Chimera, Palazzo
Sandi, soffitto della sala.
PAGG. 212-213, Giambattista Tiepolo, Il trionfo dell’Eloquenza, particolare con Cerbero e le Furie,
Palazzo Sandi, soffitto della sala.
formulato in particolare nel Diritto universale edito
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
211
IN ALTO E PAGINA A FIANCO, Nicolò Bambini, Le oscure radici della
civiltà, particolari, Palazzo Sandi, fregio della sala.
tra il 1720 e il 1722 – che aveva un grande seguito nella
letta 1995). Un ‘errore’ cui dovrà porre rimedio Vettor
Venezia contemporanea (Ton 2004). La composizione
Sandi, provvedendo per anni al mantenimento del fra-
è animata da una vis pedagogica che crede nel pro-
tellastro e della sua famiglia.
gresso dell’umanità attraverso i corsi e i ricorsi della
214
L’insieme del fregio sottostante, nel quale si snoda un
storia – che non sono lineari, ma spiraliformi come il
groviglio informe e osceno, senza soluzione di conti-
cielo di Tiepolo – in cui è necessario tenere soggiogati i
nuità, di corpi parte umani e parte bestiali, è tratteggiato
mostri dell’irrazionalità, anche quelli interiori. Persino
con una forza inaudita che lascia sorpresi, assuefatti
Orfeo, inventore della civiltà, ne è rimasto preda nel
come siamo alla grazia cortonesca di Nicolò Bambini.
momento in cui ha ceduto alla passione dei sensi, per-
L’artista dà prova di una fantasia feconda, quella «desta
dendo così per sempre l’amata Euridice. Spettatrici di
arguzia dell’intelletto» (Tesauro 1656) che evoca le teste
questa esemplare ‘caduta’ sono le raccapriccianti figure
mostruose innestate da Baldassare Longhena sulla base
infernali, «cupe furie degl’orridi abissi», che si affac-
della facciata di Ca’ Pesaro, a significare che la ragione e
ciano dalla bocca dell’Ade in un brano che preannun-
quindi la civiltà hanno le loro oscure radici nel disordine
cia Goya. Forse Tommaso Sandi pensava a se stesso.
(Romanelli 2006). La bellezza della cultura e l’equilibrio
Infatti alla sua morte, nel 1743, si scoprirà l’esistenza di
del comportamento etico scaturiscono e sono legati a
un figlio venticinquenne, nato da una relazione extra-
doppio filo con il ‘brutto’ e con quanto di più profondo e
coniugale con una nobildonna sposata (cfr. Dalla Col-
indicibile proviene dall’irrazionalità dell’inconscio.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – DAL TRIONFO
DI
VENEZIA
AL
TRIONFO
DELL’ELOQUENZA
BEL COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI E TIEPOLO
Il concetto del bel composto di origine berniniana,
DA
Il secondo, Louis Dorigny, si cimentò nell’impresa di
ovvero la sintesi delle arti visive in un tutto armonico, si
conciliare l’inconciliabile, ovvero la vocazione ba-
manifesta attraverso un’articolata, coinvolgente, all’ap-
rocca con le radici del classicismo francese, che egli
parenza infinita, successione spaziale e prende forma da
aveva progressivamente nutrito con gli esempi ro-
un’organica continuità di architettura, pittura, scultura
mani e bolognesi e suggellato nel culto di Paolo Ca-
(soprattutto a stucco) e, bisogna aggiungere, di musica
liari. Per tali motivi Dorigny può essere definito
grazie a una particolare attenzione per l’acustica: uno
l’esponente per eccellenza, nelle Venezie, del classici-
spettacolo dove la luce, reale e illusoria, sostanzia il
smo barocco ovvero di una tendenza che vorrebbe
tutto. Venezia, per tramite del cardinale Federico Cor-
fondere Vouet con Bernini, Poussin con Baciccia, di-
naro, fu protagonista involontaria nell’affermarsi della
stillandoli attraverso il vitalismo aulico del maestro
nuova estetica, materializzatasi alla metà del Seicento
Charles Le Brun, mentre elementi del naturalismo
nella sfolgorante struttura concepita da Gianlorenzo
caravaggesco emergono inaspettati, qua e là, negli an-
Bernini per la cappella della potente famiglia veneziana
goli più riposti della sua opera.
in Santa Maria della Vittoria a Roma, il cui pseudomo-
Gaspari sperimenta negli anni novanta, a Ca’ Ze-
dello su tela nel 1654 entrava a far parte delle collezioni
nobio e nel casino Zane, la tipologia del salone a dop-
ospitate nel palazzo dominicale dei Corner a San Polo
pia altezza che, nel primo caso, sostituisce il
(Barcham 2001).
tradizionale portego passante. Egli inoltre erige nello
PAGINA A FIANCO, Antonio Gaspari, Louis Dorigny e Abondio Stazio, Salone da ballo di Ca’ Zenobio.
IN ALTO, Louis Dorigny, L’Onore
con la Fortezza e L’Ignoranza, Ca’
Zenobio, soffitto dell’andito, particolari dei riquadri.
stesso torno di tempo, a palazzo Gozzi ai Gesuiti (FaDA CA’ ZENOBIO A PALAZZETTO ZANE
villa-Rugolo 2008-09), un monumentale scalone a
doppia rampa come quello impiantato da Baldassare
Il prezioso seme del bel composto germoglierà più
Longhena nel chiostro palladiano di San Giorgio, ri-
avanti, nel 1689, all’interno della chiesetta del nobi-
levante prototipo, quest’ultimo, che meriterà di essere
luomo Bernardo Nave a Cittadella nel padovano, «uno
replicato a Versailles (Favetta 2006).
dei più integri, omogenei e qualitativamente eletti
Anche per Venezia non possiamo prescindere, fin
esempi di decorazione pittorica e plastica del tardo Sei-
dalle più precoci attestazioni del bel composto, dal ruolo
cento» (Mariuz-Pavanello 1997a), e attecchirà dopo il
dell’architetto – ovvero del pittore – nell’ideazione di
1695 anche nel salone di Ca’ Zenobio a Venezia.
insiemi compiuti, né è immaginabile lasciare a scelte
In entrambi i casi vi operano in simbiosi un archi-
estemporanee o a momenti troppo divaricati la succes-
tetto e un pittore. Il primo, Antonio Gaspari, è un con-
sione delle campagne decorative. Nell’oratorio Nave
vinto assertore, tra le lagune, del gusto barocco
poco importa che le sculture siano probabilmente di
nell’accezione più squisitamente romana, benché fil-
recupero, poiché si inseriscono nell’ingranaggio della
trata e contaminata dalla tradizione, avendo tentato di
‘macchina’ decorativa in perfetta sintonia col tutto, en-
innestare nella Dominante una poetica finalizzata a co-
trando in risonanza con le eleganti grisailles del finto
niugare Bernini e Borromini (Favilla-Rugolo 2006-07).
cornicione che circonda il soffitto. Le stesse peculiarità
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
217
si riscontrano a Ca’ Zenobio, ove l’allegoria dell’Aurora
che precede il carro di Apollo rappresentata da Dorigny
nell’ovale del soffitto si configura come la sintesi ultima
di un programma che coinvolge anche l’andito che accompagna alla sala, ove campeggiano sulla volta all’interno di cornici a stucco: L’Onore accompagnato dalla
Fortezza e dalla Prudenza viene esaltato dalla Fama;
L’Affabilità e la Ricchezza unitamente alla Nobiltà e alla
Giustizia conducono alla Fama e alla Virtù, e in ultimo,
La Superbia, l’Ignoranza e l’Avarizia sono sconfitte e
scacciate (Favilla-Rugolo 2003 e 2005b). L’elegante figura neomanierista dell’Onore disinvoltamente assisa
su una nuvola con la gamba accavallata si rivela come
consapevole omaggio di Dorigny alla madrepatria e, al
contempo, alla lezione italiana del Cinquecento, conformandosi all’Apollo dipinto da Primaticcio nel
quarto compartimento della galleria d’Ulisse nel castello di Fontainebleau.
In tale contesto lo stucco instaura un proficuo
dialogo con la pittura. Ricordiamo almeno i due cartigli dipinti che racchiudono monocromi dalle intonazioni dorate con la Caduta di Fetonte e Apollo e
Diana che saettano i Niobidi, scene concitate definite
da un segno essenziale, guizzante, in continuità e in
gara con le quattro sovrapporte di vero stucco dorato,
opera di Abondio Stazio (Aikema 1997) che contengono tondi narranti due storie di Apollo articolate in
quattro episodi complessivi: La sfida tra Apollo e
Marsia, con la tenzone presieduta da Re Mida nel
primo tondo, e La punizione di Marsia nel secondo;
Apollo si innamora di Dafne e Dafne trasformata in alloro, negli altri. L’ideologia che sottende l’intero apparato non prescinde da una consapevole
interdipendenza tra pittura e scultura, trattandosi di
un invito all’esaltazione nella moderazione, accompagnato dal monito incrociato a non cedere all’hibris,
da pochi decenni ascritta nel Libro d’oro dei patrizi
veneti (Favilla-Rugolo 2008c).
Per aggiungere un ulteriore elemento di riflessione,
ove persino il nume tutelare del ciclo, Apollo, è sog-
ricordiamo che nel 1696 si colloca la campagna decora-
getto e al contempo vittima egli stesso di superbia
tiva per il casino di Angelo Correr a Murano, in cui la
punita: un monito a non insuperbirsi quanto mai op-
modellazione delle superfici a stucco attribuite a Pietro
portuno per una famiglia ‘nuova’ come gli Zenobio,
Roncaioli (De Grassi 1999) – che fingono cornici ovali
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
PAGINA A FIANCO DALL’ALTO,
Louis Dorigny, La caduta di Fetonte
tra due Muse; Apollo e Diana che
saettano i Niobidi tra due Muse, Ca’
Zenobio, salone da ballo.
DALL’ALTO, Abondio Stazio, Apollo
si innamora di Dafne e Dafne trasformata in alloro, Ca’ Zenobio, salone da ballo, sovraporte.
219
IN ALTO, Sebastiano Ricci, Ercole
tra la Gloria e la Virtù, Casino Zane,
soffitto della sala.
IN BASSO, Giovanni Antonio Pellegrini, Alessandro e Clito, Murano,
Casino Correr.
PAGINA A FIANCO, Sebastiano
Ricci, Il Tempo rapisce la Verità, Casino Zane, soffitto della scala.
e arazzi appesi alle pareti – è contestuale alla stesura della
sco raffigurante il Tempo che rapisce la Verità raccolto in
materia pittorica da parte di un esordiente Giannantonio
una rotonda cornice e accompagnato da quadrature ar-
Pellegrini (Favilla-Rugolo 2008d) in «uno stile concitato
chitettoniche. Precisi riscontri documentari hanno
e muscoloso», ancora prossimo alla maniera del maestro
consentito di assegnare con certezza tali pitture a Seba-
Paolo Pagani (Mariuz 1998b). Una prova non scevra di
stiano Ricci (Favilla-Rugolo 2008e). L’esecuzione di
acerbità, ma che già rivela l’inconfondibile caratura del
questo ciclo si colloca a ridosso del 1698, quand’egli era
giovane artista che diverrà uno «spirito di pennello riso-
appena rientrato a Venezia dalle sue peregrinazioni tra
luto» ricercato in tutta Europa (da Canal 1810).
Parma, Roma e Milano, e si configura come la più
Ritroviamo armoniosamente dosata la compresenza
220
acerba testimonianza, in patria, del suo talento per l’af-
di stucco e pittura anche nel casino di Marino Zane a
fresco e l’unica sopravvissuta a Venezia insieme a quella
San Stin, completato nel 1697 su progetto di Antonio
per la cappella della Scuola dei Carmini. La decora-
Gaspari (Bassi 1961; Favilla-Rugolo 2008e). Nel riqua-
zione a stucco degli ambienti risulta, inoltre, la prima
dro centrale sul soffitto del salone a doppia altezza si
opera documentata di «Abondio Statio stucadore», in
staglia Ercole tra la Gloria e la Virtù e, negli angoli della
collaborazione con Andrea Pelli, mentre le quadrature
volta, medaglioni a monocromo accoppiati raffigurano
della scala e di alcune stanze adiacenti, ora in parte
Mercurio e Diana, Anfitrite e Nettuno, Giunone e Pan,
emerse dal restauro, appartengono al bolognese Ferdi-
Ercole e Giove, simboli forse dei quattro elementi: terra,
nando Fochi (Favilla-Rugolo 2008e), che agli inizi del
acqua, aria, fuoco. Questi sono inseriti in cornici di
Settecento collaborerà con Giannantonio Pellegrini
stucco sostenute da leggiadri putti e intrecciate con
nella decorazione della Biblioteca del Santo a Padova
serti, ora di quercia ora d’alloro, e si configurano – tali
(Mariuz 1998b). Le ingiurie del tempo compromisero
monocromi – quale momento paradigmatico del rac-
purtroppo la leggibilità di alcuni brani. Il Tempo che ra-
cordo tra forme plastiche e pittoriche. Singolari nel pa-
pisce la Verità risulta invece l’episodio che ha meno sof-
norama veneziano sono le quattro grandi conchiglie
ferto e si rivela particolarmente felice per l’incastro dei
modellate in stucco, all’interno delle quali dimorano
corpi sodi e sapientemente plasmati da una luce ra-
infanti dipinti a colori vivaci che giocano con un leone
dente di sottoinsù, con un muscoloso Saturno, intento
e una tigre. Il vano della scala reca sulla volta un affre-
nello sforzo deciso di afferrare la giovane ignuda.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
Nel lungo riquadro che s’apre sul soffitto del portego
la figura di un giovane Ercole intende esaltare le nobili
virtù del committente, mentre i monocromi posti ai
quattro angoli della sala, autentici punti cardinali di
questo microcosmo, restituiscono un Olimpo già rivisitato, con Ercole barbato accolto a pieno titolo nell’aureo
consesso. I putti che si accampano nelle grandi conchiglie di stucco, impegnati in trastulli innocenti, alludono
alla gioia dell’evento che, calato nella quotidianità e
nella cronaca famigliare, potrebbe essere accostato alla
celebrazione di una non minore promessa di fecondità e
quindi di immortalità per la stirpe, dovuta al matrimonio di Vettor Zane, figlio di Marino, con Elena Michiel,
celebrato l’8 febbraio 1697 (cfr. Aikema 1997). Buoni
auspici che non troveranno seguito dal momento che
nel corso di pochi anni la famiglia si estinguerà nel
ramo maschile.
STUCCHI E PITTURE:
DA PALAZZO BARBARO A CA’ SAGREDO
Nello stesso torno di tempo Alvise Barbaro, esponente di una famiglia di antico e prestigioso lignaggio,
affiderà ad Antonio Gaspari l’ampliamento del proprio
palazzo sul Canal Grande a San Vidal. L’architetto darà
vita a un corpo di fabbrica stilisticamente autonomo rispetto alla parte principale dell’edificio, che si presentava ancora in forme tardogotiche. All’interno della
nuova ala Barbaro farà allestire un’ampia sala quadrata
a doppia altezza, un salone da ballo esemplato sul modello coevo di Ca’ Zenobio ideato dallo stesso Gaspari. Il
cameron era già compiuto alla fine del 1695 (Aikema
1987) e intorno a quegl’anni si colloca l’esecuzione della
fitta trama di candidi stucchi a motivi vegetali con inserti dorati del soffitto, attribuiti a Pietro Roncaioli, il
geniale stuccatore della Cappella delle reliquie del Santo
decano dei pittori veneziani, fra tutti il più longevo poiché morirà ultranovantenne nel 1722.
Per le pareti volle invece un artista emergente come
a Padova (De Grassi 1999). Sulla volta a ombrello sono
Sebastiano Ricci, che impalcherà un Ratto delle Sabine
incassate cinque tele ovali raffiguranti alcune celebri
vicino allo stile di Luca Giordano e già in situ nel feb-
donne della storia antica dalle fisionomie icastiche. Per
braio del 1699 (Aikema 1987; De Grassi 1999). La morte
tale compito il proprietario chiamò Antonio Zanchi, il
di Alvise Barbaro, avvenuta il 2 dicembre del 1698, se-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
PAGINA A FIANCO, Sebastiano
Ricci, Mercurio e Diana, entro stucchi di Abondio Stazio e Andrea
Pelli, Casino Zane, soffitto della sala.
DALL’ALTO, Sebastiano Ricci, Giochi di putti, entro conchiglie a
stucco di Abondio Stazio e Andrea
Pelli, Casino Zane, soffitto della sala.
223
IN ALTO E PAGINA A FIANCO,
Antonio Gaspari, Salone di palazzo
Barbaro, insieme e particolari delle
decorazioni a stucco attribuite a Pietro Roncaioli.
PAG. 226 IN ALTO E PAG. 227, Sebastiano Ricci, Ratto delle Sabine,
intero e particolare, Palazzo Barbaro, salone.
PAG. 226 IN BASSO A SINISTRA E
A DESTRA, Antonio Zanchi, Donne
illustri del mondo antico, Palazzo
Barbaro, soffitto del salone.
gnerà un momentaneo arresto della campagna decora-
Scevola all’ara di Giambattista Piazzetta (Mariuz
tiva che verrà ripresa nei primi anni del Settecento
1982b) e con le tele delle sovrapporte di Giambattista
dallo stesso Roncaioli con gli stucchi che ornano le pa-
Tiepolo raffiguranti donne virtuose dell’antichità, oggi
reti, ove ricorre lo stemma della famiglia in un turbinio
in vari musei del mondo (Pedrocco 2002). Rispetto a
di puttini svolazzanti e scherzosi che s’accompagnano
Ca’ Zenobio, qui l’immacolato stucco percorso da fili
con conchiglie, serti di quercia e d’alloro, festoni ridon-
d’oro costituisce una sorta di prezioso guscio dalla su-
danti frutta e fiori.
perficie porosa e variegata nei cui anfratti si incasto-
Nel 1709 Antonio Balestra consegnerà per il medesimo contesto Coriolano supplicato dalle donne romane,
una prova da «pittore finito, studiato in ogni parte» (da
calde e variamente contrastate.
I temi sviluppati in questi dipinti sono relativi alla sto-
Canal 1810), arricchita da una turgidezza di forme che
ria dell’antica Roma repubblicana. Per l’ennesima volta,
lievitano come i marmi berniniani, soprattutto nei
anche nel chiuso dei saloni, Venezia appare quale vera e
panneggi, con misurata enfasi teatrale.
autentica erede del glorioso passato della città eterna, ma
Ma soltanto negli anni quaranta del Settecento si
completerà l’allestimento del vasto ambiente con Muzio
224
nano, come rari gioielli, i quadri e gli ovali dalle cromie
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
avendo sempre come esempio da imitare il periodo che
precede l’involuzione dispotica dell’età imperiale.
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
228
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
PAG. 228, Antonio Zanchi, Scena di
storia antica, Palazzo Barbaro, soffitto del salone.
PAG. 229, Antonio Balestra, Coriolano supplicato dalle donne romane,
Palazzo Barbaro, salone.
IN ALTO, Giovanni Antonio Pellegrini, Le Virtù scacciano i Vizi, con
gli stucchi di Abondio Stazio, Palazzo Albrizzi, soffitto del portego.
PAGINA A FIANCO, Palazzo Albrizzi,
portego.
Gli Albrizzi, una famiglia ascritta al patriziato nel
1667, agli inizi del nuovo secolo vollero anch’essi rin-
riflessi accesi dalle pitture. La malleabilità del materiale
novare gli interni del loro palazzo a San Cassiano.
e l’abilità di Stazio si possono apprezzare in un’altra
Nell’occasione chiamarono Abondio Stazio, artista
sala dove lo stucco «latteo, duttile, appena luminescente
noto per il suo straordinario virtuosismo nel modellare
per la presenza di polvere di marmo nell’impasto» di-
lo stucco (Aikema 1997). La campagna decorativa inve-
viene l’unico e incontrastato protagonista (Mariuz-Pa-
stì alcuni vani del piano nobile, a iniziare dal portego
vanello 1997b). L’artista con un escamotage
passante, l’ambiente più rappresentativo nella struttura
illusionistico sguinzaglia una frotta di puttini che s’im-
della casa dominicale veneziana. In questo caso si recu-
pegnano a sostenere un’immaginaria tenda in sostitu-
perarono le tele di illustri maestri seicenteschi già in
zione della volta: uno spunto berniniano di grande
loco sulle pareti: Pietro Liberi, Sebastiano Mazzoni, Carl
effetto, «una visione gioiosa ed effimera fissata per sem-
Loth, Antonio Zanchi, Ludovico David; mentre per i tre
pre». Il tutto poteva essere inaugurato in occasione del
scomparti del soffitto fu incaricato il giovane Giannan-
solenne ingresso di Giambattista Albrizzi alla carica di
tonio Pellegrini.
procuratore di San Marco il 30 gennaio 1702. A questo
Stazio riveste interamente di stucchi la superfice del
230
‘stalattiti’ dai candidi baluginii, che contrastano con i
proposito la Pallade Veneta ricordava che più di tutto
lungo salone: l’effetto è di uno sbalorditivo horror
fece impressione «il sfoggio magnifico del di lui palazzo
vacui, un’incredibile congerie di concrezioni trasfigu-
con stucchi dorati, suppellettili d’oro e quadri preciosi»
rano il portego in una meravigliosa grotta, un antro di
(BNMVE, Mss. It. VII, 1834).
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
Ai primi di gennaio del 1716 sempre la Pallade Veneta informava i suoi lettori che a palazzo Sagredo a
Santa Sofia si era sviluppato un incendio in «una stanza
nuova de’ stucchi» dove, per far asciugare più celermente la decorazione, era stata accesa una «gran foghera» (ASVE, I.S., b. 713). Le fiamme si svilupparono
rapidamente a causa dell’impasto dove era stato utilizzato anche olio, e non «bastò tutta la diligenza usata»
per domarle, tanto che restò consumata buona parte
del detto palazzo incenerendo anco alcuni di quei preciosi arredi». Una notizia che testimonia come l’antichissima famiglia Sagredo, che annoverava fra le sue fila
anche un santo, in quel torno di tempo stesse facendo
rimodernare alcuni interni della casa dominicale d’impianto bizantino-gotico affacciata sul Canal Grande.
Ancora una volta l’incarico venne affidato ad Abondio
Stazio, qui in compagnia del più giovane Carpoforo
Mazzetti Tencalla: insieme completarono l’opera nel
1718, l’anno stesso in cui fu firmata la pace di Passarowitz, ponendo la data e la firma sugli stucchi di un camerino (Mazza 2004). Gli spazi interessati dalla
decorazione non sono più i saloni di rappresentanza
del palazzo ma le stanze più piccole e segrete, i mezzaPAGINA A FIANCO, IN ALTO E
PAGG. 234-236, Abondio Stazio e
Carpoforo Mazzetti, Camera dell’Oseliera e particolari delle decorazione a stucco, Palazzo Sagredo.
IN BASSO E PAG. 237 IN ALTO,
Camera dei Fiumi e particolare della
decorazione a stucco, Palazzo Sagredo.
PAG. 237 IN BASSO, Camera dei
Trofei, particolare della decorazione
a stucco, Palazzo Sagredo.
nini del sottotetto, i budoirs, i luoghi intimi e appartati,
dove si ricevono gli amici e si tiene conversazione: la
stanza da letto con l’alcova, smontata e trasmigrata
negli Stati Uniti, la sala dei Trofei, quella delle Arti,
quella dei Fiumi, quella del Giudizio di Paride, quella
dell’Oseliera. Alle complesse, magniloquenti allegorie
dai significati pedagogici o celebrativi, si sostituisce un
linguaggio più lieve e pacato ricco di elementi naturalistici e leggiadri decori. Anche le tinte si stemperano:
dall’abbacinante biancore intessuto d’oro si passa alle
soffici, riposanti tinte pastello. Fra tutti gli ambienti
spicca la stanza dell’Oseliera, una fantastica, ariosa voliera dove alberga una gran varietà di uccelli appollaiati
su fragili racemi, variopinti volatili ammaestrati da un
immaginario abilissimo padrone. Alla sommità delle
porte che danno accesso al vano si accampano cani e
felini che spuntano da sotto pesanti coltrine; rivolgono
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
233
il loro sguardo verso il basso, osservando con disin-
rialzi a penna e inchiostro marrone, scandita da una
cantato distacco l’incomprensibile mondo degli
quadrettatura da utilizzare per il trasferimento sulla su-
umani. Financo una dispettosa bertuccia che s’iner-
perficie muraria. Il foglio, dal segno pittorico sveltissimo
pica su un tendaggio e uno scoiattolo intento a sgra-
e imbozzolato, dal quale affiorano appena le forme, pre-
nocchiare la sua ghianda fanno parte di questo
senta alcune varianti rispetto al dipinto: nel particolare
piccolo, domestico serraglio.
dell’alato suonatore di violino sulla sinistra e nella posa
delle braccia di uno dei due cantori al centro. In quello di
DAI GESUITI AI GESUATI
destra la bocca socchiusa è resa con un tocco, quasi una
macchia, di inchiostro bruno. Se non è peregrino l’ac-
Se il bel composto aveva preso le mosse da Bernini, era
costamento con «Luca fa presto» per il modo rapidis-
stato soprattutto Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccia,
simo, di getto, furioso di fissare l’idea sulla carta, l’esito
a portare alle estreme conseguenze questa concezione
compiuto non potrebbe essere più distante, poiché a
estetica finalizzata a sprigionare una coinvolgente carica
questa data lo stile di Louis si è oramai da tempo stabi-
emotiva, lasciando nella chiesa madre della Compagnia
lizzato in un cliché di attoniti, vacui e premetafisici ‘ma-
del Gesù a Roma uno scenario «di incredibile allusività»,
nichini’, animati soltanto da una linea sinuosa,
nel quale i «grovigli di figure attorte nei modi del Ber-
arabescata, indipendente, quasi neogotica, e da lumine-
nini» smaterializzano la dimensione spaziale (Vicini
scenze astratte, a volte algide, a volte spettrali, che insi-
1999). Si tratta di un noto manifesto che farà scuola per
stono sulle superfici ampie, levigate e intatte delle
un secolo dentro e fuori la penisola italiana. Se durante il
forme oggi accostabili alla mano di un arguto fumetti-
soggiorno a Roma del 1673 l’onnivoro Dorigny si ine-
sta (Marinelli 2003), come si può notare anche nel
briò certo nel copiare gli antichi maestri, come il «divino
tondo con il Trionfo del nome di Gesù sulla volta della
Raffaello» della Battaglia di Ostia (Corubolo 1997) e –
crociera dei Gesuiti. Impegnato nel titanico sforzo di
immaginiamo – Michelangelo, i Carracci, Guido Reni,
decorare le gotiche vele della cattedrale di Trento, il set-
Giovanni Lanfranco e gli emiliani tutti, dovette con pro-
tantenne Dorigny passò il testimone al più giovane
babilità studiare i primi bozzetti e forse, affamato di sem-
Francesco Fontebasso, il quale, ai Gesuiti, realizzerà nel
pre nuove emozioni, poté sinanco inerpicarsi sui
1734 gli ariosi affreschi della navata (Magrini 1988).
ponteggi della nuova ‘macchina’ gesuitica che Baciccia
andava impalcando giusto in quegli anni.
Se dunque, negli anni venti del Settecento, nella trasposizione finale delle idee compositive, Louis ha lasciato
Molto tempo dopo, all’età di sessantasei anni, Louis
definitivamente prevalere l’anima classicista portata al-
volle rendere un esplicito omaggio a Gaulli nella chiesa
l’estremo, con esiti che non consentono alle arti del bel
veneziana dei Gesuiti. Proprio a tale contesto rimanda
composto di compenetrarsi – e che alla fine paiono con-
un disegno raffigurante un Coro di angeli musicanti, già
traddire il modello originale di Baciccia, al quale pure si
riferito alla mano di Luca Giordano, da identificare in-
vorrebbe rendere omaggio – ciò in realtà deve essere in-
vece con l’ideazione dell’ovale dipinto da Dorigny sulla
scritto all’interno di un vitale dibattito sulla necessità di
volta del presbiterio della chiesa di Santa Maria Assunta
resuscitare la lezione dell’architettura di Andrea Palladio.
dei Gesuiti a Venezia, eseguito a fresco – entro una flo-
Dorigny risponde con la sua personale proposta, per
reale cornice di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti
quanto riguarda la pittura, a questa esigenza di rigore e
Tencalla autori dell’intero apparato decorativo a stucco –
pulizia formale, nella convinzione sincera di essere riu-
per incarico della famiglia Manin nell’estate del 1720
scito a recuperare la lezione di Paolo Veronese, dopo
(Favilla-Rugolo 2008-09). Si tratta di una sanguigna con
aver operato senza timidezza alcuna nel sancta sancto-
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
A FIANCO, Navata della chiesa dei
Gesuiti.
PAG. 239, Francesco Fontebasso,
Abramo e i tre angeli e La visione
di san Giovanni Evangelista, con
stucchi di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Chiesa dei Gesuiti,
volta della navata.
PAG. 240, Francesco Bonazza, Pulpito, Chiesa dei Gesuiti.
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
239
241
PAGINA A FIANCO, Abondio Stazio
e Carpoforo Mazzetti, Decorazioni a
stucco della volta della navata,
Chiesa dei Gesuiti.
IN ALTO, Tappeto marmoreo, particolare, Chiesa dei Gesuiti, presbiterio.
PAG. 244, Soffitto della crociera e
del presbiterio, Chiesa dei Gesuiti.
PAG. 245, Louis Dorigny, Trionfo del
Nome di Gesù, con stucchi di Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti,
Chiesa dei Gesuiti, soffitto della crociera.
PAGG. 246-247, Louis Dorigny,
Trionfo del Nome di Gesù, particolari, Chiesa dei Gesuiti, soffitto della
crociera.
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
243
248
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
rum dell’architettura palladiana, ovvero nella sala rotonda
di villa Capra a Vicenza, trasfigurandone le superfici murarie per mezzo di un colonnato fittizio dal quale emergono con travolgente esuberanza berniniana le
gigantesche, tornite figure delle sue divinità olimpiche.
Dietro un’apparente riproposizione di tipologie barocche
baciccesche e di stanche, traforate quadrature bolognesizzanti, il suo linguaggio si aggiorna nel tempo distillando
forme sempre più pure, autonome, astratte e conchiuse
da un segno che non lascia scampo, come in un prezioso
intarsio, per trasformarsi gradualmente in vere e proprie
monadi, crisalidi inguainate entro gusci ben levigati.
Al contempo, a rendere ancora più fermentante un
laboratorio di idee già abbastanza nutrito, sullo scorcio
del secolo trascorso e all’attacco del nuovo, accanto al
più squisito berninismo, si era insinuato nelle lagune
un ulteriore registro, un’inflessione più rilassata rispetto al passato, dettata dal bon goût della nascente
estetica rococò. Una transizione graduale della quale si
faranno interpreti lo stesso Dorigny e Nicolò Bambini
– ci sovvengono i briosi affreschi della sala di palazzo
Orsetti a Treviso del 1711 circa e quelli coevi di Ca’
Dolfin a Venezia (Favilla-Rugolo 2008f-g) – ma soprattutto Sebastiano Ricci e Giannantonio Pellegrini. Non
solo i contenuti, ma anche la linea, il colore e la pennellata, «la molta e lussureggiante vaghezza del colorito e
dell’immaginazione» (Zanetti 1771), diverranno più
leggeri e sensuali. È il preludio a Tiepolo.
Giambattista Tiepolo raccoglierà a piene mani, per
condurle a suprema sintesi, l’eredità e le sperimentazioni
delle generazioni che lo avevano preceduto. Prendiamo a
pitture a fresco del soffitto della chiesa» e si smobilitavano i ponteggi (Favilla-Rugolo 2008-09).
Se dunque dobbiamo prendere atto che Tiepolo abbia
esempio il caso della decorazione dei Gesuati (Arslan
dipinto «tutte le pitture a fresco del soffitto della chiesa»,
1932; Niero 1979b e 2006; Pedrocco 2002). Soltanto
questo significa, in mancanza di dati più certi, che nel
quattro anni dopo l’impresa di Dorigny ai Gesuiti, l’ar-
«tutte» siano inclusi anche i monocromi. Questi raffigu-
chitetto Giorgio Massari riceveva l’incarico dai domeni-
rano i quindici misteri del rosario e attorniano, entro
cani riformati di ricostruire la loro chiesa alle Zattere,
cornici ovali e mistilinee a stucco, i tre grandi riquadri
Santa Maria del Rosario, detta dei Gesuati. Nel febbraio
policromi posti sulla sommità della volta con la Gloria di
del 1738 «il signor Gio. Battista Tiepoletto pitor» riscuo-
san Domenico, l’Istituzione del rosario e La Vergine che ap-
teva il primo anticipo e, nel settembre del 1739, all’artista
pare a san Domenico. La critica ha finora espunto i mo-
veniva liquidato il compenso «per resto e saldo di tutte le
nocromi dal catalogo del maestro o, nel migliore dei casi,
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
PAGINA A FIANCO, Louis Dorigny,
Angeli musicanti, con stucchi di
Abondio Stazio e Carpoforo Mazzetti, Chiesa dei Gesuiti, soffitto del
presbiterio.
IN ALTO, Louis Dorigny, Baccanale,
particolare, Treviso, Palazzo Orsetti
Dolfin Giacomelli.
IN BASSO, Louis Dorigny, Angeli musicanti, disegno, mercato antiquario.
249
li ha reputati frutto della collaborazione con la bottega, a
causa del ruolo all’apparenza più defilato rispetto ai
comparti centrali (Pilo 1998). In realtà devono essere
considerati come insostituibili ingranaggi dell’intero apparato, alla luce anche del significato antiquietista e antigiansenista assunto dal ciclo, il cui scopo precipuo era di
esaltare e rilanciare con forza la devozione mariana, «un
complesso unitario, che presenta un saggio di rosario figurato, interpretato secondo i canoni rococò» (Niero
2006). Originalissima l’idea «di disporlo in un soffitto,
per aiutare i fedeli a recitarlo, guardando in alto […],
quasi un atto corale di contemplazione». «Tiepolo ha
montato una grande ‘macchina’ scenografica di effetto
ancora barocco» (Pallucchini 1996), benché qui oramai il
bel composto si sia stemperato in una nuova poetica: il
colpo d’occhio diviene più sobrio, è scomparsa la sovrabbondanza degli stucchi dorati e tutto è giocato sui
toni distesi e riposanti dei bianchi e dei grigi. Dalle sculture annicchiate e dai lattei rilievi in marmo carrarese di
Giovanni Maria Morlaiter, risalendo le candide, lisce superfici murarie, si giunge – passando giusto per i preziosi, appena increspati, ‘cammei’ delle grisailles – ai tre
riquadri del soffitto che, insieme alle magnifiche pale
degli altari e al pavimento nel quale si specchiano come
in un caleidoscopio, sono le uniche, squillanti e altissime
note cromatiche dell’intero invaso, enfatizzate proprio
grazie a questa generale monocromia. Per trovare una similitudine squisitamente rococò, l’apparato decorativo
ronazione della Vergine e conferma che fu il maestro a
dei Gesuati potrebbe essere paragonato al fuoco d’artifi-
fornire, almeno, l’idea per questa e – presumiamo – per
cio di un piccolo bengala: dal fulcro dei riquadri poli-
tutte le rimanenti composizioni. L’inconfondibile ductus
cromi sembrano scaturire, come in una crepitante
scattante ed eccezionalmente libero della penna, l’adden-
pioggia discendente, tutti gli altri decori.
sarsi dell’inchiostro nelle zone d’ombra, che si diluisce
Il monocromo si conferma dunque quale momento
per diventare trasparente nelle penombre, lo affratella
del raccordo ideale tra vera forma plastica e vera forma
alle prove grafiche note relative agli scomparti centrali.
pittorica, quindi non parte secondaria da abbandonare
Tale disegno rivela altri elementi che assolvono gli aiuti
totalmente all’esecuzione o, ancor meno, all’ideazione
da ogni responsabilità che non sia eventualmente quella
della bottega. Che quest’ultima possibilità sia da scartare
delle campiture e del primo tono d’ombra. Il maggior ri-
senza indugio, lo prova un disegno inscritto all’interno
salto conferito alla Vergine nella versione definitiva è
di una irregolare ellisse, firmato «G.B Tiepolo», che si
imputabile all’inesauribile estro dell’autore (cfr. Alpers-
rivela essere preparatorio per il monocromo con l’Inco-
Baxandall 1995) e, con ogni probabilità, alla volontà di
ta
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
PAGINA A FIANCO E IN ALTO,
Volta e navata della chiesa dei Gesuati.
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
251
Giambattista Tiepolo, Istituzione del
Rosario, Chiesa dei Gesuati, scomparto centrale della volta.
252
adeguarsi ai suggerimenti degli stessi committenti, i frati
domenicani, che intendevano enfatizzare in particolar
modo il ruolo della Vergine e della sua devozione.
Anche la straordinaria Salita al Calvario, per fare solo
un ulteriore esempio, non potrebbe mai essere ascrivibile al catalogo di un emulo, per l’altissima qualità inventiva e stilistica, che trova un immediato e
paragonabile precedente nel telero dal medesimo soggetto realizzato qualche anno prima, fra il 1735 e il 1736,
dal «signor Gio. Battista Tiepoletto» per la chiesa conventuale di Sant’Alvise (cit. in Favilla-Rugolo 2008-09).
Identica, seppur condensata, è l’economia compositiva,
equivalente il segno facile e allo stesso tempo tormentato, quindi la «vibrazione emozionale», allorché «la lucidità di visione si combina con un pathos estremo,
quasi a nervi scoperti» (Mariuz 1998a). Inequivocabili i
mascheroni ‘ghignanti’ dei vecchi barbati che si affacciano dal fondale della scena.
Come già ai Gesuiti, anche ai Gesuati le ‘arti sorelle’
DALL’ALTO, Giovanni Maria Morlaiter, Battesimo di Cristo e il Profeta
Melchisedec, Chiesa dei Gesuati.
PAG. 254 IN ALTO A SINISTRA,
Giambattista Tiepolo, Incoronazione
della Vergine, disegno, ubicazione
sconosciuta.
PAG. 254 IN ALTO A DESTRA,
Giambattista Tiepolo, Incoronazione
della Vergine, Chiesa dei Gesuati,
soffitto, affresco a monocromo.
PAG. 254 IN BASSO A SINISTRA,
Giambattista Tiepolo, Salita al Calvario, particolare, Chiesa di Sant’Alvise.
PAG. 254 IN BASSO A DESTRA,
Giambattista Tiepolo, Salita al Calvario, Chiesa dei Gesuati, soffitto, affresco a monocromo.
PAG. 255 DALL’ALTO, Giambattista
Tiepolo, Adorazione dei pastori e
Gesù predica nel tempio, Chiesa dei
Gesuati, soffitto, affreschi a monocromo.
appaiono del tutto interdipendenti, pur rimanendo rigorosamente separate. La cultura barocca romana, così
come era avvenuto con il Manierismo, entra nella robusta ma permeabile tradizione veneziana sviluppando declinazioni sue proprie. Tiepolo nel crogiolo
dei Gesuati – manifesto e vetta del Rococò lagunare –
sembra voler fondere Baciccia con Andrea Pozzo: alle
sfolgoranti figure, che illusionisticamente invadono lo
spazio della chiesa, aggiunge una fuga verso l’alto di
impossibili architetture con uno scorcio e un’accelerazione studiati direttamente sui soffitti di Veronese.
L’ascendenza prettamente paolesca dell’arditissimo
sottoinsù, che si rivela fondamentale nell’economia
compositiva, ha fatto pensare a un circoscritto intervento del geniale quadraturista Girolamo Mengozzi
Colonna, se non addirittura dell’architetto Giorgio
Massari (Domenichini 2004).
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – BEL
COMPOSTO VENEZIANO: UN FLORILEGIO DA
DORIGNY, PELLEGRINI, RICCI
E
TIEPOLO
253
UN’ALTRA VENEZIA
IL MONDO IN MINIATURA
DI ROSALBA CARRIERA E PIETRO LONGHI
Nella Guida de’ Forestieri per succintamente osservare
tutto il più riguardevole nella città di Venetia, del 1697,
padre Vincenzo Coronelli non trascurava di inserire nel
novero dei «celebri pennelli» quei pittori all’epoca rinomati nell’arte delle «miniature». Egli menzionava: «M.
Jean, Pietro Menarola, Giuseppe Juster, Calamati, Gio.
Fechel, Angelo Muriani, Ridolfo Manzoni, Rosalba e
Giovanna Carriera sorelle». Un’informazione preziosa
quella fornita dall’erudito francescano, cosmografo ufficiale della Serenissima, che testimonia l’esistenza nella
Dominante di un piccolo nucleo di virtuosi nella «più
delicata» tra le pitture (Trattato di miniatura 1755).
L’agile volumetto, «indispensabile per poterlo sempre
tener in saccoccia» (Coronelli 1713), si proponeva come
efficace veicolo pubblicitario per indirizzare i più accorti
foresti, ovvero i privilegiati viaggiatori dell’epoca, desi-
PAGINA A FIANCO, Pietro Longhi,
La famiglia Sagredo, Venezia, Fondazione Querini Stampalia.
A FIANCO, Rosalba Carriera,
Coperchio di tabacchiera in avorio
con ritratto di giovinetta, esterno e
interno, Venezia, Museo Correr.
derosi di fare acquisti non avventati presso pittori di
qualità, specializzati «ne’ Ritratti, nelle Istorie, nelle Battaglie, negli Animali, ne’ Paesi, nelle Miniature, nella
Prospettiva ed Architettura» (Coronelli 1697). Non sappiamo se l’ordine in cui l’autore dispose i nomi indicasse la fama acquisita in quel momento dai singoli
artisti. In realtà, nel caso dei miniatori citati si tratta per
lo più di personaggi oggi quasi sconosciuti (Favilla-Rugolo 2007). Certo è che ultima nella lista coronelliana, in
compagnia della sorella Giovanna, appare Rosalba Carriera, una figura che, grazie a «les qualités de l’ame, &
par les talens supérieurs dont la nature l’avoit porvûe»
(Dézallier d’Argenville 1762), segnerà la storia del ritratto con un procedere personale e irripetibile. Sappiamo che ella, dopo un’iniziale pratica nel disegno per i
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA
257
di Sebastiano Ricci e del cognato Giannantonio Pellegrini. Superando il limite imposto dal tradizionale puntinismo adottato per questo genere – per cui si doveva
intervenire sul supporto esclusivamente con un’affilata
punta di pennello – ella comprese «che è per mezzo del
tocco che il pittore pone nel suo lavoro libertà e forza»
(Lacombe 1781). Coronelli, cogliendo la portata inno-
Rosalba Carriera, Ritratto del duca
di Wharton, miniatura su avorio, Venezia, Ca’ Rezzonico.
vativa e singolare della sua maniera, nell’edizione del
1700 della Guida de’ forestieri, collocava il nome della
«Cittella [zitella] Rosalba» in testa alla lista dei pennelli
celebri nelle miniature, un primato che manterrà incontrastato nelle successive edizioni, come in quella del
1713 curata dal nipote del frate, Vincenzo Maria.
Agli esordi della sua carriera, verso la fine del Seicento, appartiene un ritrattino, ora nei depositi del
Museo Correr, che orna la parte interna di un coperchio
da tabacchiera in avorio, mentre quella esterna è decorata con disegni incisi a bulino e incrostati di tartaruga,
corallo e argento (Favilla-Rugolo 2007). La delicata immagine della giovane è immersa in un’atmosfera di grazia spontanea che proviene dal gesto pudico di portare la
merletti (Turlon 2002) e un apprendistato presso Antonio Balestra, con il quale mantenne rapporti di amicizia,
«diedesi con più attenzione alla miniatura», forse su
1720, è riferibile invece l’effigie fragrante di Philip duca
di Wharton, ora esposta a Ca’ Rezzonico (Pasian 2007).
Qui Rosalba registra, con mirabile scioltezza di tocco, il
consiglio di Jean Steve artista specializzato in decora-
copricapo a turbante che in privato sostituiva la par-
zione di tabacchiere (Memorie 1843), spendendo il pro-
rucca, mentre pennellate d’oro accendono la stoffa dello
prio talento nel dipingere ritrattini su supporto di
zamberlucco. Dal volto sorridente traspare una parvenza
avorio da inserire nei coperchi e nei fondi delle scatoline
di frivolezza ma, al contempo, di spessore psicologico
per il tabacco; un’attività per la quale non veniva ade-
che ella soltanto riesce a infondere nei suoi personaggi.
guatamente ricompensata. Tuttavia verso il 1698 «inco-
258
mano al petto. A un momento della maturità, verso il
La miniatura rispondeva al principio del «tant plus
minciò a farsi nota la sua abilità, sicché da una gran
petit, tant plus beau» (Zava Boccazzi 1996), conforman-
parte dei più valenti pittori e dilettanti sì patriotti che
dosi appieno, nel momento della sua massima fioritura
forastieri veniva visitata ed ammirata, crescendo di
e diffusione, all’estetica rococò del rovesciamento dei
prezzo le cose sue». Dunque, la menzione nella Guida
termini, dove ciò che era minuscolo diveniva grandioso,
del 1697 appare come il primo esplicito segnale della
aulico ed eroico, e viceversa, opponendosi così alla ro-
notorietà conseguita dalla giovane artista, allora poco
boante magniloquenza del Barocco. Quest’arte si tra-
più che ventenne, e il mezzo per diffonderne ulterior-
sformava nel simbolo stesso del nuovo secolo, il
mente la fama. Con la tecnica a pennellate vivaci e pa-
Settecento: i pettini di tartaruga, gli orecchini di perla,
stose, Rosalba si confrontava in picciolo con gli esempi
gli orologi da tasca, le pregiate porcellane, i merletti a
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA
cascata, i flessibili ventagli e le tabacchiere di tutte le
erano venuti a definire l’immagine urbana di segni
fogge partecipavano in eguale misura al processo este-
trionfali, gli ultimi, i più pomposi e i meno ‘giustificati’.
tico, veicolo metaforico privilegiato di una realtà minia-
Al contempo si ‘ingombravano’ gli spazi interni di trame
turizzata, il quotidiano, come nel Riccio rapito di
d’orgoglio e d’ambigua eloquenza, d’inquietudini e di
Alexander Pope, quando la protagonista, Belinda, vince,
presagi ferali. La città, al chiudersi di questa stagione, si
«solo col dito e col pollice», l’«ardito Lord» gettandogli
presenta non più come il teatro della grandezza che si
sul naso una presa di tabacco al termine di una battaglia
compiace di se stessa, ma come il luogo della ‘regola’
antiepica in cui, al posto delle omeriche armi o delle co-
prestabilita, data una volta per tutte. Il ‘mito’ di Venezia
razze seicentesche, «scattano ventagli, frusciano sete, e
si svela ora nella sua presunta immutabilità, svuotata dei
forti stecche crepitano» (Pope 1714). È per questo che,
contenuti che Francesco Sansovino rivendicava nella sua
ancora nel 1793, il quasi sconosciuto Leopoldo Zuccolo,
Venetia città nobilissima et singolare del 1581, un mito ri-
maestro di pittura nel collegio dei barnabiti di Udine,
definibile d’ora innanzi unicamente nella dimensione
poteva lamentare «che le pareti delle case si empiono di
virtuale della pittura. I nuovi, misuratissimi, interventi
nienti vezzosi, e brillanti: ora che si amano per lo più mi-
architettonici, pubblici e privati, dalla fine del Seicento
niature, ritrattini, e picciole galanterie, che fanno sem-
alla caduta della Repubblica non conosceranno il ritmo
brare che ’l mondo si sia impicciolito» (Zuccolo 1793).
febbrile della stagione precedente: un intento norma-
Esemplare in questo senso risulta la vicenda di Pietro
tivo, nel nome del ‘buon gusto’, all’insegna anche di una
Longhi, un altro allievo di Antonio Balestra. Di ritorno a
rivalutazione delle teorie palladiane, non consente trau-
Venezia da un soggiorno bolognese ove attinse agli inse-
matici riassetti della compagine urbana e nemmeno in-
gnamenti di Giuseppe Maria Crespi, nel 1734 affrescò
dividualistici esibizionismi ‘profanatori’, tutt’al più lievi
una roboante Caduta dei Giganti sulle pareti e sul soffitto
operazioni di alto maquillage in splendide facciate (che
dello scalone di palazzo Sagredo progettato da Andrea
comprendono i Gesuiti di Domenico Rossi e i Gesuati
Tirali (Pedrocco 2008). Questa rimarrà una prova isolata
di Giorgio Massari) di un pacato sia pur originale classi-
e unica nel suo catalogo. La conversione ‘illuminista’ dal
cismo che perviene infine, dopo la metà del Settecento,
retorico all’antiretorico sarà immediata. Archiviata per
con Tommaso Temanza a esiti di «scientifica semplicità»
sempre la parentesi del Barocco, egli si dedicherà princi-
(Favilla-Rugolo 2008a). La riprogettazione urbana è,
palmente a ‘fotografare’ gli interni domestici di una Ve-
semmai, immaginaria e passa ai vedutisti, all’ideazione
nezia ‘umana’, dove anche una famiglia Sagredo tutta al
fantastica soprattutto di un Antonio Canal, meglio co-
femminile viene ritratta con affabile argutezza. D’ora in-
nosciuto come Canaletto. Quella del trionfo personale si
nanzi, a inventare e dominare la vastità dei cieli incom-
rinserra nelle dimore patrizie, consegnando l’esaltazione
mensurabili, rimarrà Giambattista Tiepolo.
di virtù d’intelligenza e di ragione, più spesso esibite che
praticate, al pennello dei grandi decoratori, al genio in-
L’ALTRA VENEZIA DI CANALETTO
stancabile di un Giambattista Tiepolo in primis.
Luca Carlevarijs e Canaletto iniziano lo studio ‘og-
La Venezia di inizio Settecento registra il rapido af-
gettivo’ del tessuto urbano della Serenissima. Il primo,
fievolirsi dei fervori che, pur nutriti di illusioni e velleità,
proponendosi come incisore, con gli attributi di chi mi-
avevano tuttavia reso prodiga e gloriosa la stagione
sura e rileva, nella dedica al doge Alvise II Mocenigo de
compresa tra gli anni trenta e novanta del XVII secolo,
Le Fabriche e Vedute di Venetia del 1703, intendeva sot-
quando la città si ornava, oltre e soprattutto della ma-
tolineare nella sua opera «l’azione dell’intelletto» (Con-
gnifica fabbrica della Salute, di tanti altri ‘apparati’ che
cina 1995). I legami con l’ambiente culturale del
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA
259
rinnovamento antibarocco, gravitante intorno alla fi-
signori e plebei, sono tutti posti sullo stesso piano
gura di Andrea Musalo, si esplicano nell’evidente ri-
nelle prime vedute di Canaletto, già in collezione Lie-
cerca di un teso rigore prospettico. L’approccio allo
chtenstein. Quelle conservate a Ca’ Rezzonico con Il
scorcio urbano di Carlevarijs è di ben altra tempera-
rio dei Mendicanti e Il Canal Grande da Ca’ Foscari
tura rispetto alla dirompenza di Canaletto che, già al-
verso Rialto, databili tra il 1720 e il 1726 (Puppi 1968;
l’esordio, offuscherà l’astro minore, colpevole solo di
Corboz 1985; Pedrocco 1995), si qualificano per una
aver preceduto un gigante.
valenza «concitata e scenografica», che è autentico resi-
E maggiormente un intento di ‘catalogazione’
PAGINA A FIANCO DALL’ALTO,
Antonio Canal detto Il Canaletto, Il
Canal Grande da Ca’ Foscari verso
Rialto e Il rio dei Mendicanti verso la
Scuola Grande di San Marco, Venezia, Ca’ Rezzonico.
IN ALTO, Antonio Canal detto Il Canaletto, Il Canal Grande da Ca’ Foscari verso Rialto, particolare,
Venezia, Ca’ Rezzonico.
duo del Barocco (Pallucchini 1960): i cieli sono corsi
anima, fin dalle prime opere, l’attività del Canal vedu-
da nuvole gravide di pioggia e sul Canal Grande il pit-
tista, come se l’infinito amore per la città lo condu-
tore inventa – anticipando Asimov – due ‘fantascienti-
cesse a stilare un tutt’altro che arido inventario
fici’ soli che gettano ombre opposte sull’acqua. E
sentimentale dove poter fissare il respiro dell’organi-
anche sotto l’epidermide della produzione matura
smo urbano. Il mattone sbrecciato, gli intonaci a bran-
(quella degli anni trenta e oltre), quando nell’eterno,
delli, il rivelarsi di finestre gotiche tamponate chissà
assolato, abbacinante meriggio senza tempo è il mo-
quando, le macchie sulle pareti che trasudano umidità,
mento dell’ombra più corta e l’aria è sempre tersa e
l’acqua dei canali verdi, il salso sui muri incrostati, gli
cristallina, continuano a fermentare in Canaletto i
squeri fatiscenti, le sovraccariche chiatte arenate nel-
germi del divenire inesorabile e fatale che erano ap-
l’ombra spugnosa dei primi piani, il popolo laborioso
parsi in tutta la loro ‘scandalosa’ evidenza nelle ‘dram-
oppure ozioso delle massaie che si affacciano ai bal-
matiche’ vedute giovanili.
coni, dei mendicanti mingenti sulla fondamenta davanti alla chiesa, di operai, artigiani, spazzacamini,
VENEZIA BAROCCA – CAP. II – UN’ALTRA VENEZIA
261
APPENDICE
DI
SERENA TAGLIAPIETRA
Le tecniche e i materiali del Barocco veneziano
Anche a Venezia, in ogni ambito artistico
dell’età barocca, la prassi progettuale non
risultava mai disattesa ed era anzi investita
di una valenza precipua. Tale pratica si concretizzava nell’esecuzione di schizzi, disegni
e modelletti da presentare alla committenza. Le fasi più propriamente tecniche
della realizzazione dell’opera prevedevano
spesso la collaborazione delle diverse componenti della bottega o del cantiere, con
compiti ben stabiliti, rispetto ai quali l’artista esercitava la direzione e il controllo, per
intervenire eventualmente soltanto alla
fine. Illuminanti sono a tal proposito le parole di Giustiniano Martinioni il quale, riferendosi alla costruzione della basilica
della Salute, ricordava come «sopra il qual
battudo, fatto il suolo di tavoloni di rovere
e larese bene collegati e concatenati, s’incominciò a lavorare con pietre e malta, alzandosi la gran macchina nella forma e
modello ordinato dall’architetto» (1663).
L’ARCHITETTURA
Facciate
I terreni sabbiosi sui quali è stata edificata
Venezia mal sopportavano, per loro natura, il peso degli edifici, per cui si rendevano necessarie preventive operazioni di
consolidamento dei fondali. Nel caso di
murature soggette a carichi consistenti,
come quelle delle facciate di chiese e palazzi, questo avveniva infiggendo nei terreni pali di legno sopra i quali venivano
poi inchiodate piattaforme di travi incrociate (Piana 1984). Si provvedeva quindi
all’elevazione delle fondamenta e di leggeri setti murari in mattoni, che gli stessi
muratori rivestivano con lastre ed elementi variamente conformati in pietra
d’Istria, abbozzati dagli scalpellini. Le
prime, come ricordato da Francesco Griselini nel suo Dizionario delle arti e de’ mestieri (VIII, 1770), erano ricavate ponendo
i blocchi in appositi telai, entro cui venivano tagliati, mentre i secondi subivano
un processo più propriamente scultoreo.
La prassi comune era quella di non ricavare i differenti elementi architettonici che
dovevano comporre la facciata da un
unico e dispendioso monolite di materiale
(Rockwell 1997), bensì assemblando insieme più blocchi. La loro congiunzione
avveniva sia grazie all’inserimento di barre
metalliche, saldate secondo l’antica tecnica dell’impiombatura, sia creando delle
superfici complementari di contatto, in alcuni casi di tipo maschio-femmina (Faccio-Petrelli 1997). La rifinitura conclusiva
consisteva quindi in un trattamento a
graffiatura della pietra, per vincere l’opacità di un materiale altrimenti dalla tona-
262
lità troppo sorda e monocromatica. Nel
caso del prospetto di Santa Maria del Giglio s’è notato per esempio come i segni
lasciati dai differenti strumenti siano stati
impiegati per evidenziare taluni elementi
architettonici, piuttosto che altri (Rockwell 1997). Singolare risulta invece la facciata degli Scalzi, in quanto realizzata in
pregiato marmo di Carrara.
Particolare della facciata della chiesa degli Scalzi.
Altari e monumenti
L’edificazione di altari e monumenti funebri non si discostava dai principi fin qui
enunciati, in quanto, anche in tal caso, gli
elementi architettonici venivano incassati
su una struttura in mattoni e ulteriormente
impreziositi con lastre e impiallacciature di
marmo. Quest’ultimo era considerato per
la sua rutilante cromia uno dei materiali
più nobili dell’estetica barocca, come ricordato da Griselini (VIII 1770), che registrava
come «alcuni marmi sono bianchi, o neri,
altri sono screziati o mescolati di macchie,
vene, mosche, onde, nuvole: quanto più i
colori e le macchie son vive, e variegate,
tanto più i marmi sono preziosi, e cari». Tra
i litotipi più belli dal punto di vista cromatico si ricordano la breccia di Seravezza, di
colore bianco-violaceo (es. rivestimento
parietale degli Scalzi), i diaspri teneri di Sicilia, con toni variabili dal rosso al verde (es.
altari della chiesa dei Gesuati) e il rosso
Languedoc, d’importazione francese (es.
altare maggiore della chiesa degli Scalzi)
(Lazzarini 1986).
Eccezionale risulta invece per la realtà lagunare la splendida «incrostadura di marmo
rimesso di verde antico» (Goi 1994) della
navata della chiesa dei Gesuiti, eseguita secondo l’antica tecnica dell’intarsio marmoreo. Questa prevedeva che le crustae di
materiale verde, tagliate nelle forme più
varie, fossero interconnesse le une alle altre
con resina, entro alloggiamenti scavati nelle
lastre di marmo bianco (Tosa 2003-2004).
Ancor più rare sono a Venezia le opere in
commesso fiorentino, per lo più impiegate
nei paliotti d’altare (Scarpa 1996) e caratterizzate dalla presenza di crustae di pietre
dure e madreperla, giustapposte al marmo,
come nelle ante delle porte della cappella
Venier agli Scalzi.
LA SCULTURA
Scultura lapidea
I materiali più impiegati per la scultura lapidea d’età barocca a Venezia furono il
marmo bianco di Carrara e per gli esterni
la pietra d’Istria, un calcare di colorazione
verde-carnicio che oggi ha assunto un’intonazione biancastra a causa della patinatura subita nel tempo (Lazzarini 1986).
L’estrazione nelle cave risultava in entrambi i casi alquanto ostica per la
difficoltà a ricavare blocchi di grandi dimensioni, privi di imperfezioni. Una volta
che questi materiali fossero giunti nel laboratorio dello scultore, si provvedeva al
riporto sulle loro superfici dei punti principali della composizione, tracciati con i
più vari sistemi. S’iniziava quindi il lavoro,
eliminando gradualmente porzioni di materiale su tutti e quattro i lati, mediante la
percussione, con martelli, di strumenti con
punte diverse – subbie, gradine e scalpelli
– che abradevano per vibrazione la pietra.
Lo scultore e i suoi aiutanti in questa fase
agivano gradualmente, approfondendo
dapprima le cavità principali, quindi scavando membra e panneggi e solo successivamente abbozzando le parti accessorie.
Tra gli attrezzi utilizzati il grande protagonista della scultura barocca fu il violino, un
trapano manuale che permetteva di perseguire forti effetti di chiaroscuro, com’è per
esempio visibile nella resa delle chiome
imparruccate e dei pizzi traforati delle statue dei componenti della famiglia Barbaro
a Santa Maria del Giglio. Una volta definito precisamente ogni elemento, si provvedeva alla levigatura e lucidatura finale
Enrico Merengo, Ritratto marmoreo di Giovanni
Maria Barbaro, particolare, Chiesa di Santa
Maria del Giglio, facciata.
delle superfici per assottigliamento graduale delle asperità lasciate dai diversi
strumenti, mediante raspe e polveri abrasive a grana via via più fine. Dopo tali operazioni di «pulitura», che permettevano
l’occlusione dei pori del materiale, la su-
perficie veniva quindi trattata con cere o
altre sostanze organiche – grassi e oli – che
ne esaltavano ulteriormente la brillantezza. Tutti gli strumenti precedentemente
citati lasciavano sul marmo segni differenti d’abrasione, solitamente non più osservabili, se non nei casi in cui l’artista se
ne fosse servito con una certa finalità
espressiva. È questo il caso, per esempio,
dei rilievi con storie di Cristo eseguiti da
Giovanni Maria Morlaiter ai Gesuati, in
cui i segni di differenti strumenti sono
stati impiegati, in associazione con parti
invece levigate, per rendere la diversa consistenza materica di rocce, alberi, cieli, nuvole, capelli e panneggi.
Scultura lignea
Rispetto a quanto detto, l’esecuzione di
una scultura in legno, pur presentando
notevoli similitudini con la lavorazione
della pietra – poiché entrambe basate
sull’atto del «levare» – se ne discostava sostanzialmente nel processo d’assemblaggio tra le parti che, mentre per le opere
lignee costituiva la norma, nel caso di
quelle lapidee si configurava come prassi
circoscritta (Wittkower 1993). Il legno infatti, pur essendo un materiale tenero e
quindi più facilmente lavorabile, presentava l’inconveniente di poter essere scolpito solo a partire da elementi di
dimensioni limitate e presupponeva un
indispensabile montaggio di parti per
mezzo di perni, chiodi, colla e/o di superfici a incastro (Dean-Bonomi 1997). I
legni più utilizzati erano quelli di media
durezza, tra i quali si ricordano il pero e il
noce, apprezzati con il bosso anche per le
loro tonalità calde e uniformi (Le tecniche
1981). Anche un’essenza leggera come il
cirmolo trovò largo uso, come dimostrano
molte opere di Andrea Brustolon (Andrea
Brustolon 2009). La presenza di nodi e venature veniva celata grazie a trattamenti
particolari, che tendevano a perseguire effetti simili a quelli della statuaria in metallo, in marmo, in stucco e all’oreficeria,
tramite il rivestimento delle superfici con
lamine di foglia d’oro, con stesure di
biacca o di policromia, oppure impiegando essenze scure, quali il mogano,
come ad esempio nei guerrieri etiopi e in
quelli mori del Fornimento Venier di Brustolon. Possibile era, infine, l’uso di pregiate patinature pigmentate, come nel
caso dei banchi con «requadri di nogara
intagliati fatti e posti nella Sala Grande»
della Scuola di San Rocco, opera di Francesco Pianta e degli zii, Alessandro e Antonio (Rossi 1999a).
Stucco
L’esecuzione di un’opera stucchiva presupponeva, invece, un procedimento differente da quello finora riscontrato.
All’asportazione del materiale si sostituiva,
infatti, la sovrapposizione di strati diversi
di malta, stesi sopra un supporto idoneo,
per le fasi di realizzazione del quale si rimanda al paragrafo sulle pitture murali.
L’esecuzione di opere ad altorilievo si differenziava da quelle a più basso rilievo per
la presenza di scheletri al loro interno, realizzati ad esempio con chiodi raccordati
con spaghi (Fogliata 2004). Su tali strutture si procedeva creando la forma mediante stesure successive di stucco, formato
da un impasto di calce spenta e «coppi
pesti», ossia laterizi macinati e sabbia. Per
abbreviare i tempi d’indurimento di tale
impasto s’aggiungeva del «zesso da presa»
(Fogliata 2001), come risulta per esempio
dai pagamenti per «la facitura de stuchi
della capella dell’altar maggiore» della
chiesa dei Gesuiti (Goi 1994). Dopo l’ulteriore stesura di strati a base di calce e sabbia, s’eseguiva quindi la «pelle» dell’opera,
attraverso la sovrapposizione di tre stesure
di malta a base di polvere di marmo e calce
spenta, applicata ‘a giornata’ e finemente
lisciata. Molto diffusa era quindi la pratica
della doratura di alcuni particolari della
composizione, mediante la stesura di foglia
d’oro applicata a missione o sopra una
preparazione a bolo, come nel caso degli
stucchi del camerone di palazzo Barbaro.
LA PITTURA
Affresco
L’esecuzione delle pitture murali veneziane, pur manifestando significativi parallelismi con i precetti teorizzati da
Andrea Pozzo nella Breve istruzione per dipingere a fresco (1693-1702), presentava alcune varianti legate alla particolarità
dell’ambiente lagunare. L’opera prendeva
avvio con la predisposizione di un supporto idoneo, costituito da soffitti leggeri,
creati grazie all’ancoraggio alla travatura
di scheletri formati da sottili listelli di
legno (cantinelle), oppure da stuoie di
canne palustri (incannucciati). Al di sopra
di questi i pittori facevano solitamente
stendere due strati di malta, composta da
calce e sabbia: uno più grezzo e l’altro,
detto intonaco, a grana più fine. Una particolarità veneziana è che solitamente lo
strato più grezzo (detto pastellone), dal caratteristico colore rosato, prevedeva l’aggiunta tra i componenti anche di polvere
di mattoni, che lo rendeva più resistente all’umidità e conferiva un’intonazione più
calda all’intonaco applicato successiva-
mente. La modalità di stesura di quest’ultimo avveniva a ‘giornate’, cioè per piccole
porzioni corrispondenti alla quantità di
composizione che l’artista poteva dipingere in un giorno. In epoca barocca
la lavorazione dell’intonaco prevedeva
un’operazione di rifinitura dello stesso,
detta granitura, effettuata con pennelli
duri per «sollevare i minuti granelluzzi di
arena, acciocché più facilmente si attacchino i colori» (Pozzo 2001). Si procedeva
quindi alla stesura dell’intonaco, trasferendo i contorni delle figure mediante i cosiddetti cartoni, i segni del cui ricalco
sono in taluni casi ancor oggi visibili.
Nella tecnica definita ad affresco i pigmenti, stemperati in acqua, venivano applicati sull’intonaco ancora umido, in
modo da essere inglobati nella malta a
causa della reazione d’indurimento della
calce, ottenendo una pittura chiara e luminosa, che induceva però il pittore a dipingere «al primo colpo» senza possibilità di
ripensamenti e correzioni (Griselini, XIII,
1772). Qualora l’artista avesse continuato a
lavorare dopo la fase di carbonatazione –
circostanza molto comune questa visti i
tempi rapidi di tale processo – le pennellate di colore non avrebbero potuto aggrapparsi all’intonaco ormai indurito. Si
verificava così la necessità di un legante che
ne favorisse l’applicazione, ossia il latte di
calce – tecnica del mezzo fresco – che permetteva d’ottenere pennellate coprenti,
che si avvicinavano ai risultati della pittura
a olio, senza comunque rinunciare alla luminosità propria dell’affresco. Queste due
tecniche sono quelle che maggiormente si
attestarono a Venezia tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, mentre per
tutto il XVII secolo ebbe grande successo
un tipo di pittura murale definita a secco
(Muraro-Fiocco-Ivanoff 1960), in quanto i
pigmenti venivano per lo più stemperati in
Louis Dorigny, Particolare degli affreschi del salone di Ca’ Zenobio.
un legante organico e applicati a fase di
carbonatazione già avvenuta, ottenendo
stesure opache e cariche, più vicine a quelle
della coeva pittura su tela. L’impiego concomitante di queste tecniche sembrerebbe
ipotizzabile, per esempio, nel soffitto dipinto da Louis Dorigny a Ca’ Zenobio, ove
alcuni particolari, come i tappeti e le ghirlande, parrebbero essere stati eseguiti in un
secondo momento, a mezzo fresco o a
secco, al di sopra della quadratura architettonica già realizzata.
Olio
In riferimento alla pittura a olio Griselini
annotava come a differenza dell’affresco
questa «dà all’artefice la facilità di ritoccare
il suo quadro quante volte egli vuole» ed
evidenziava come tale medium «fa il colorito più morbido, e più dolce, e gli stessi
colori nel lavorar si uniscono, si mescolano
e si confondono fra loro meglio» (XIII,
1772). La stesura pittorica sfruttava come
supporto tele di lino o canapa, applicate su
intelaiature flessibili e impermeabilizzate
con colle o oli, sopra cui veniva spalmata
una mestica, composta nella maggior parte
dei casi da una preparazione d’intonazione
rosso-bruna, detta ‘bolo veneziano’, impiegata nella pittura lagunare fin dal Cinquecento. Questa era formata da olio, ocre
rosse e brune, biacca, nero carbonioso e
minio e aveva il compito di costituire un
piano levigato e atto ad accogliere gli strati
pittorici (Bensi 1998). L’intonazione della
mestica serviva inoltre per scaldare le tinte
applicate successivamente – come appare
evidente in numerosi dipinti di Piazzetta,
tra i quali, per esempio, il Muzio Scevola di
palazzo Barbaro –; questa funzione poteva
inoltre essere assolta anche dalle possibili
imprimiture. I pigmenti per essere applicati dovevano essere finemente triturati e
miscelati con il mezzo legante – solitamente olio di lino o di noce – e con oli essenziali, come quello di spigo o l’essenza di
trementina (Le tecniche 1981). Il modo di
dipingere dei pittori veneziani avveniva
dapprima applicando il colore a corpo con
pennellate piene, stese in maniera spontanea; quindi rifinendo i dettagli in maniera
più precisa con stesure successive di colore
via via più diluite. Nelle opere giovanili di
Canaletto le indagini radiografiche (Mucchi 1983b) hanno rivelato come, sopra un
disegno approssimativo, l’artista dapprima
abbozzasse con pennellate veloci la cromia
e i chiaroscuri degli edifici, definiti minuziosamente solo in un secondo momento.
Anche i cieli risultano essere costruiti grazie a pennellate sommarie e cariche di colore, mentre i particolari più minuti –
come figure o imbarcazioni – venivano
tracciati solo alla fine con «pennellate imprecise a tocco». Sulle pitture così condotte
veniva infine applicato uno strato di vernice, eventualmente pigmentata, con funzione protettiva e lucidante.
Miniatura
La tecnica della miniatura in età barocca
impiegò invece nuovi e sempre più pregiati
supporti, come metalli preziosi, materiali
esotici e particolari litotipi. A fianco della
più tradizionale pergamena notevole diffusione ebbe soprattutto l’avorio, impiegato nelle suppellettili più varie, come
pettini, orologi, ventagli, scatole, gioielli e
tabacchiere (Favilla-Rugolo 2007). Nella
resa della parte figurata a miniatura gli artisti si avvalsero in genere della tradizionale
tecnica pittorica definita «puntinismo»,
ossia dell’applicazione dei pigmenti a pennello mediante piccoli puntini più o meno
ravvicinati di colore. Si verificava così, solitamente, una commistione tra la pittura
a gouache e quella ad acquerello, per cui i
pigmenti, stemperati in acqua di gomma
arabica, erano stesi in modo da favorire la
formazione di film sottili e chiari, in grado
di lasciare intravedere l’intonazione dell’avorio sottostante e conferendo particolare morbidezza alla stesura, specie nella
resa degli incarnati (Le tecniche 1981).
Nota al testo
Le presenti schede costituiscono la sintesi di uno
studio più organico che la scrivente sta approfondendo sulle tecniche e i materiali artistici impiegati
a Venezia in età barocca.
Bibliografia consultata
Amendolagine 2001; Amendolagine 2004; Andrea
Brustolon 2009; Arrighetti-Bonomi 2006; Augusti
2001; Bacchi 2000; Bacchi 2007; Becker 2002; Bensi
1998; Boerio 1983; Bonomi 1993; Botticelli 1996;
Concina 1988; Davanzo Poli 1999; Dean 1993;
Dean-Bonomi 1997; Faccio-Pretelli 1997; Fassina
1983; Fassina 1997; Favilla-Rugolo 2004-2005; Favilla-Rugolo 2007; Fogliata 2001; Fogliata-Sartor
2004; Fuga 2008; Gheroldi 2003; Giusti 2003; Goi
1994; Griselini 1770, VIII; Griselini 1772, XIII;
L’arte 2001; La scultura 2006; Lazzarini 1983; Lazzarini 1986; Le tecniche 1981; Magani 2001; Magnani 2003; Magris 2003; Merkel 1994; Montagu
1991; Mora-Philippot 2001; Moretti 2006; Mucchi
1983a; Mucchi 1983b; Muraro-Fiocco-Ivanoff
1960; Musei Civici 2004; Nepi Scirè 1983a; Nepi
Scirè 1983b; Orsini 2008; Piana 1984; Piana 2006;
Pozzo 2001; Restituzioni 1990; Restituzioni 1992;
Restituzioni 1993; Restituzioni 1994; Restituzioni
1995; Restituzioni 1999; Restituzioni 2004; Rockwell 1996; Rockwell 1997; Rossetti-Vianello 1999;
Rossi 1990; Rossi 1999; Rossi 2000-2001; Rotondi
1970; Ruggeri 1983; Sansovino-Martinioni-Stringa
1663, VI; Scarpa 1999; Scultura Lignea 1997;
Spiazzi 2009; Spiazzi-Mazza 2009; Tagliapietra
2002a; Tagliapietra 2002b; Tempesta 1998; Tosa
2003-2004; Vasari 1885; Wild 2002; Wittkower
1993; Zanussi 2002; Zucchetta 2003.
263
BIBLIOGRAFIA GENERALE
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BMCVE, Mss. P.D.c, 1825 = Biblioteca del
Museo Correr di Venezia, Manoscritti
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Veneta».
ASPVE, E.M., reg. 91 = Archivio Storico
del Patriarcato di Venezia, Examinum
Matrimoniorum Forensium, reg. 91,
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ASPVE, S.M. Formosa = Archivio Storico
del Patriarcato di Venezia, Parrocchia
di Santa Maria Formosa, Amministrazione, b. 105, fasc. segnato «1688. Libro
de’ conti sive Resti delli creditori et debitori della fabrica della chiesa di Santa
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ASPVE, S. Margherita = Archivio Storico
del Patriarcato di Venezia, Parrocchia
di Santa Margherita, Amministrazione,
b. 2, fasc. 5, 2 dicembre 1702.
ASVE, P.C., b. 7 = Archivio di Stato di Venezia, Provveditori di Comun, b. 7,
«Scritture 1672-1687», alla data 5 ottobre 1677.
ASVE, I.S., b. 713 = Archivio di Stato di
Venezia, Inquisitori di Stato, b. 713,
«Pallade Veneta».
ASVE, N.T., b. 488 = Archivio di Stato di Venezia, Notarile Testamenti, b. 488, n. 260.
ASVE, P.S.M., reg. 16 = Archivio di Stato
di Venezia, Procuratori di San Marco de
Supra, serie Chiesa, reg. 16 (1674-1684),
alle date.
ASVE, P.S.M., reg. 17 = Archivio di Stato
di Venezia, Procuratori di San Marco de
Supra, serie Chiesa, reg. 17 (1684-1698),
alle date.
ASVE, S.F., b. 119 = Archivio di Stato di
Venezia, Sant’Uffizio, b. 119, fasc. II,
«Federico Gualdo».
ASVE, G.P., b. 23 = Archivio di Stato di
Venezia, Giudici del Piovego, b. 23, reg.
16, c. 30, n. 278.
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pp. 147-153.
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Stazio e la decorazione a stucco dei palazzi veneziani, circa 1685-1750, in
«Saggi e Memorie di Storia dell’Arte»,
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B. Aikema, Il secolo dei contrasti: le tenebre, in La pittura nel Veneto, Il Seicento,
II, a cura di M. Lucco, Milano 2001,
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lignee: l’esperienza della Scuola per il
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INDICE DEI NOMI
Abele, 161
Abramo, 161
Acquisti Angelo, 147
Agostino (santo), 108, 182
Agrippa Marco Vipsanio, 31, 33
Aikema B., 142, 189, 211, 219, 223, 230
Albrizzi, famiglia, 230
Albrizzi Giambattista, 230
Aleandro Girolamo, 30
Alessandro VIII (papa), 86
Allegri Antonio, detto il Correggio, 190
Alpers S., 251
Andretta S., 30
Anfione (re tebano), 211
Angelieri A., 145
Anna (santa), 166
Antonio da Padova (santo), 153, 178
Arslan W., 249
Asimov Isaac, 261
Augusto (imperatore), 33, 139
Baccheschi E., 190
Bacchi A., 61, 71, 84, 130
Baciccia, vedi Gaulli Giovanni Battista
Balestra Antonio, 189, 190, 195, 200, 224, 258, 259
Bambini Nicolò, 140, 159, 187, 190, 200, 203, 211, 214,
249
Baratti Alvise, 37
Barbaro (di San Vidal), famiglia, 263
Barbaro (di Santa Maria del Giglio), famiglia, 46
Barbaro Alvise, 223
Barbaro Antonio, 30, 34, 37, 46, 53
Barbaro Carlo, 37
Barbaro Francesco, 37
Barbaro Giovanni Maria, 37
Barbaro Marino, 37
Barbarigo Gregorio (cardinale), 46
Barbarigo Gregorio, 190
Barcham W.L., 217
Barthel Melchiorre (Barthel Melchior), 71
Baruffaldi G., 187
Bassi E., 24, 154, 220
Baxandall M., 251
Bellucci Antonio, 87, 140, 166, 173, 175, 178, 190
Beltrame Marco, 71
Benassai P., 152
Benedetto III (papa), 162
Benoni Giuseppe, 152
Bensi P., 263
Benzoni G., 30, 31, 34, 53
Bernini Gianlorenzo, 54, 60, 78, 217, 239
Berrettini Pietro, vedi Da Cortona Pietro
Bertoli B., 162
Bolzoni L., 116
Bonazza Giovanni, 61, 79
Boni Zanetta, 84
Bonomi R., 262
Borean L., 61
Borgia Francesco (santo), 144, 190
Borgomaniero A., 24
Borromini Francesco, 54, 217
Bortoloni Mattia, 200
Boschini Marco, 153, 158
Brentana Simone, 189
Broli Bernardo, 145
Bruni Domenico, 181, 182
Brustolon Andrea, 122, 128, 129, 262
Buonarrotti Michelangelo, 239
Bushnell John, 61
Cabianca Francesco, 60
Caino, 161
Calamati, vedi Calumati Bortolo, 257
Caliari Paolo, detto il Veronese, 139, 152, 153, 159, 175,
189, 195, 197, 217, 239, 253
Calumati Bortolo, 257
Calvesi M., 112
Canal Antonio, detto Canaletto , 259, 261, 263
Canaletto, vedi Canal Antonio
Canciani Giovanni, 60
Cappello Vincenzo, 31, 33, 46
Cargnoni Bartolomeo, 46, 145
Carlevarijs Luca, 259, 261
Carracci, famiglia, 239
Carracci Annibale, 190
Carriera Giovanna, 257
Carriera Rosalba, 257, 258
Casini M., 30, 46
Cavalieri Giovanni Battista, 33
Cavazza Girolamo, 37
Cavrioli Francesco, 71, 86
Celesti Andrea, 162, 190
Cerva Pietro Antonio,182
Cervelli Federico, 128, 190
Cicerone, 108, 116, 117
Cigola Domenico, 172
Colleoni Bartolomeo, 31
Comin Giovanni, 60
Concina E., 18, 55, 261
Contarini Nicolò (doge), 173, 175
Contarini Pietro, 159
Conticelli V., 52, 60, 61
Contin Francesco, 16
Corboz A., 261
Coriolano (generale romano), 211, 224
Cornaro, vedi Corner
Corner, di San Polo, famiglia, 84, 217
Corner Caterina, 84
Corner F., 195
Corner Federico, 217
Corner Piscopia Elena Lucrezia, 78, 84, 85
Corner Piscopia Francesco, 85
Corner Piscopia Giovanni Battista, 84
Corner Piscopia Girolamo, 85
Coronelli Vincenzo, 257, 258
Coronelli V.M., 257, 258
Correggio, vedi Allegri Antonio
Correr, di San Giovanni Decollato, famiglia, 166
Correr Angelo, 219
Corubolo A., 239
Cozzi G., 13
Craievich A., 166, 189
Crespi Giuseppe Maria, 259
da Canal V., 173, 175, 220, 224
Da Cortona Pietro, 181, 187
da Mosto Alvise, 55, 79
da Narni Erasmo, 31
dal Pozzo B., 161
Dalla Colletta F., 214
Damira, 145
Daniels J., 172
David Jaques Louis, 30
David Ludovico, 230
De’ Barbari Jacopo, 152
De Kunert S., 158
De Grassi M., 128, 219, 223
de’ Medici Cosimo II (granduca di Toscana), 54
de’ Rossi Maria Benedetta, 16
De Vincenti M., 79
Dean M., 262
Degli Ambrogi Domenico, 187, 189
Delmino Giulio Camillo, 116
Delorenzi P., 164
Dézallier d’Argenville J.-A., 161, 257
Difnico Domenico, 175
Diocleziano (imperatore), 189
Diplovataccio Tommaso, 30
Doglioni N., 139, 182
Dolfin, famiglia, 187
Domenichini R., 253
Domenico (santo), 203, 249
Donà Leonardo (doge), 63
Dorigny Louis, 91, 140, 159, 161, 182, 187, 189, 190, 217,
219, 239, 249, 263
Emo Angelo, 175
Ercole (eroe greco), 108, 112, 117, 154, 158, 166, 211,
220, 223
Ermete Trismegisto, 112, 117
Euridice, 214
Fabri Giovanni Battista, 142, 187
Fabris Michele, detto l’Ongaro, 61, 71
Faccio P., 262
Falconi Bernardo, 86, 130
Favaro E., 153, 190
Favetta M., 217
Favilla M., 11, 31, 34, 37, 52, 53, 54, 60, 79, 91, 129, 145,
154, 161, 187, 189, 190, 217, 219, 220, 239, 249, 253,
257, 258, 259, 263
Fechel Giovanni, 257
Ferrari Antonio Felice, 182, 187
Ferro Domenico, 146
Fetti Domenico, 203
Fini, famiglia, 34
Fini Girolamo, 33, 34
Fini Vincenzo, 33, 46, 154, 155, 158
Fini Vincenzo Girolamo, 34, 154
Fini O., 24
Fiocco G., 263
Fischer von Erlach, Johann Bernard, 53, 54
Flangini, famiglia, 154
Flores d’Arcais F., 182
Fochi Ferdinando, 182, 220
Fogliata M., 263
Fontebasso Francesco, 239
Forabosco Girolamo, 142
Fortuny Mariano, 158
Foscarini, di San Stae, famiglia, 84
Frank M., 16, 18, 24, 34, 48, 55, 61, 63, 86, 87, 91, 128,
152, 159, 187
Freschot C., 46, 63, 84
Fumiani Giovanni Antonio, 139, 162, 165, 166, 187, 189, 190
Gaier M., 31, 33, 46, 52, 54, 55, 61, 158
Galeno, 108
Gallego J., 33
Garzoni Girolamo, 61
Gaspari Antonio, 52, 53, 54, 60, 61, 79, 87, 91, 140, 217,
220, 223
269
Gattamelata, vedi Da Narni Erasmo
Gaulli Giovanni Battista, detto il Baciccia, 217, 239, 253
Gemin M., 18, 24
Gesù di Nazareth, 37, 91, 144, 146, 147, 162, 190, 239
Ghio L., 190
Giacomo (santo), 46, 48
Gianvizio Giacomo Maria, 128
Gioacchino (santo), 166
Giogalli Simon, 181
Giordano Luca, 145, 181, 223, 239
Giuseppe (santo), 91, 182
Giustiniani Lorenzo (santo), 86, 87, 140, 173, 175, 178
Goi P., 263
Goya Francisco, 214
Gonzaga Luigi (santo), 190
Grimani, famiglia, 33
Griselini Francesco, 262, 263
Gritti Triadan, 34
Groppelli Giovanni Battista, 60
Groppelli Marino, 60
Gualdi Federico, vedi Gualdo Federico
Gualdo Federico, 112, 158
Guerriero S., 87
Guidarelli G., 24
Gullino G., 52
Guglielmi Simone, 181
Heintz Daniel, 162, 190
Hopkins A., 16
Isidoro di Siviglia, 108
Ivanoff N., 152, 162, 189, 211, 263
Ivanovich Cristoforo, 63, 71, 74, 159
Isabella d’Aviz (imperatrice), 144
Jean monsieur, vedi Steve Jean
Juster Giuseppe, 257
Knox G., 211
Kostka Stanislao (santo), 190
Lacchin E., 108
Lacombe J., 258
Lancillotti Carlo, 116
Lando Pietro (doge), 162
Lanfranco Giovanni, 239
Langetti Giovanni Battista, 142, 144
Lazari V., 87
Lazzari F., 130
Lazzarini Gregorio, 86, 140, 166, 173, 175, 189, 190, 200
Lazzarini L., 262
Le Brun Charles, 161, 217
Le Court Giusto (De Corte Josse), 37, 61, 63, 71, 86, 87
Leone V l’Armeno (imperatore), 161
Leone M., 153
Leopoldo I (imperatore), 153
Liberi Pietro, 86, 139, 142, 152, 153, 158, 159, 178, 181, 230
Liss Johann, 78, 142, 203
Litterini Agostino, 182
Longhena Baldassare, 11, 13, 16, 18, 24, 46, 63, 78, 86,
87, 91, 128, 152, 159, 178, 187, 214, 217
Longhi Pietro, 116, 164, 257, 259
Longhi R., 189
Lorenzo (santo), 142
Loth Johann Carl, 153, 161, 190, 230
Lubrani Giacomo, 71
Lucco M., 139, 173
Lucini Giovanni Battista, 30
270
Luigi XIV (re), 161
Lupis A., 84
Magani F., 175, 181, 189
Magrini M., 239
Manaigo Silvestro, 200
Mancini F., 187
Manin, famiglia, 91, 190, 239
Mantegna Andrea, 162
Manzoni Ridolfo, 257
Maratta Carlo, 159, 173, 190
Marc’Aurelio (imperatore), 31
Marco (santo), 78
Marcello Lorenzo, 53, 79
Maria, madre di Gesù, 18, 24, 91, 145, 146, 147, 166,
172, 190, 195, 197, 249, 251, 253
Maria Maddalena (santa), 144
Marinelli S., 189, 239
Mariotti Giambattista, 200
Mariuz A., 153, 172, 200, 203, 217, 220, 230, 253
Martinelli D., 74, 78, 122, 182, 187, 195
Martinioni Giustiniano, 53, 79, 262
Maschietto F.L., 84
Mason S., 144
Massari Giorgio, 55, 249, 253, 259
Matteo (santo), 48
Mauro Gaspare, 145
Mazza C., 233
Mazzetti Tencalla Carpoforo, 233, 239
Mazzoni Sebastiano, 152, 153, 159, 162, 230
Menarola Pietro, 257
Mengozzi Colonna Girolamo, 182, 187, 253
Menniti Ippolito A., 63
Merengo Enrico (Meyring Heinrich), 34, 37
Merkel E., 122
Michiel Elena, 223
Mida (re), 219
Mocenigo Alvise, da Sant’Alvise, 53, 61
Mocenigo Alvise II, da San Stae (doge), 189, 259
Moli Clemente, 86
Molinari Antonio, 87, 130, 166, 172, 173, 190
Monica (santa), 182
Moretti Faustino, 181
Moretti L., 189, 195, 197, 200, 203
Moretti S., 130
Morlaiter Giovanni Maria, 251, 262
Morosini, di San Canciano, famiglia, 78
Morosini Giovanni Francesco, 71, 74, 79
Morosini Francesco (doge), 13, 24, 30, 52, 53, 54, 60, 78,
79, 178
Morosini Lorenzo, 52, 54
Moschini G., 87
Mucchi L., 263
Muraro M., 187, 263
Muriani Angelo, 257
Musalo Andrea, 55, 261
Muzio Scevola, 224
Nadin Bassani L., 85
Nave Bernardo, 217
Negri Pietro, 139, 145, 147, 152
Niero A., 16, 24, 61, 249, 251
Olivato L., 55
Onfale, 166
Onofri F., 74
Orfeo, 166, 211, 214
Ottaviano Augusto, vedi Augusto
Ottone III (imperatore), 162
Pacifico P.A., 187
Padovanino, vedi Varotari Alessandro
Pagani Paolo, 220
Palladio Andrea, 18, 53, 55, 152, 239
Pallucchini R., 175, 178, 203, 251, 261
Pancrazio (santo), 162, 164, 165
Pantaleone (santo), 187, 189
Paolo (santo), 130
Paolo V (papa), 61, 63
Parodi Filippo, 54, 60, 78
Partecipazio Giovanni (doge), 164
Partecipazio Giustiniano (doge), 161
Pasian A., 258
Patin Carla, 85
Patin Carlo, 85
Pavanello G., 217, 230
Pedrali Giacomo, 145, 181
Pedrocco F., 116, 139, 142, 145, 224, 249, 259, 261
Pellegrini Girolamo, 87, 181
Pellegrini Giannantonio, 140, 161, 190, 195, 200, 217,
220, 230, 249, 258
Pelli Andrea, 220
Penso Francesco, vedi Cabianca Francesco
Perissa A., vedi Perissa Torrini A.
Perissa Torrini A., 129, 162
Pesaro Elena, 159
Pesaro Giovanni (doge), 63, 71, 139, 159
Pesaro Leonardo, 159
Petrelli M., 262
Piana M., 262
Pianta Alessandro, 262
Pianta Antonio, 262
Pianta Francesco, junior, 108, 112, 116, 122, 262
Piazzetta Giacomo, 122, 128, 203
Piazzetta Giambattista, 200, 203, 224, 263
Pietro (santo), 130
Pietro Martire (santo), 161
Pilo G.M., 251
Pin C., 63
Pittoni Giambattista, 200
Platone, 108, 130
Pope Alexander, 259
Poussin Nicolas, 217
Povoledo E., 187
Pozzo Andrea, 87, 189, 253, 263
Pozzo Giuseppe (Jacopo Antonio), 87, 91
Praz M., 108, 112, 116, 117
Primaticcio Francesco, 219
Priuli Gracimana, 161
Procaccini Camillo, 142
Puppi L., 18, 153, 261
Querini Valier Elisabetta, 79, 84
Raffaello, vedi Sanzio Raffaello
Ravelli L., 181
Ravaioli L., 55
Read J., 112
Régnier Nicolas, 142
Reni Guido, 239
Ricchi Pietro, 181, 182
Ripa C., 34, 37, 61, 78, 86, 108, 112, 116, 117, 122, 154, 155
Ricci Sebastiano, 55, 128, 129, 140, 161, 172, 187, 189,
190, 195, 197, 200, 217, 220, 223, 249, 258
Robusti Jacopo, detto Tintoretto, 108, 112, 117, 162, 197
Roca De Amicis A., 178
Rocco (santo), 146, 147
Rockwell P., 262
Rodope (regina di Tracia) 145
Romanelli G., 117, 139, 214
Roncaioli Pietro, 219, 223, 224
Rossetti L., 189
Rossi Domenico, 55, 203, 259
Rossi M., 153
Rossi P., 37, 61, 63, 87, 108, 112, 116, 117, 128, 129
Rossi Pinelli O., 30
Rues Tommaso, 37, 87
Ruggeri U., 154
Ruschi Francesco, 145
Rugolo R., 11, 16, 31, 34, 37, 52, 53, 54, 60, 78, 79, 85, 91,
108, 129, 145, 146, 154, 158, 161, 187, 189, 190, 217,
219, 220, 239, 249, 253, 257, 258, 259, 263
Sabina (santa), 162, 164
Sacchi Andrea, 190
Sagredo, famiglia, 233, 259
Salutati C., 117
Sandi, famiglia, 203
Sandi Tommaso, 203, 214
Sandi Vettor, 211, 214
Sannazaro Jacopo, 30
Sansovino Francesco, 13, 30, 33, 259
Sansovino Jacopo, 129
Santurini Francesco, 145
Sanzio Raffaello, 161, 190, 239
Sardi Giuseppe, 34, 37, 61
Sardi Valentin, 203
Sartori A., 122
Sassi L., 11
Sebastiano (santo), 147
Segala Giovanni, 87, 189, 190
Selfridge Field E., 195, 197
Selvatico P., 55, 78, 87, 203
Sobieska Teresa Cunegonda, 187
Spiriti A., 78
Stazio Abondio, 219, 220, 230, 233, 239
Stazio Andrea, 200
Stefani Mantovanelli M., 144
Steve Jean, 257, 258
Strozzi Bernardo, 142, 203
Strozzi Giulio, 30, 33, 54
Suomela Girardi F., 87
Tron Andrea, 161
Tron Nicolò, 161
Tumidei S., 78
Turlon E.C., 257
Uberti Pietro, 200
Ulisse, 211
Valier, di San Giobbe, famiglia, 79
Valier Bertucci (doge), 79
Valier Silvestro (doge), 79, 84
Vannacci G., 60
Varotari Alessandro, detto il Padovanino, 153, 175
Vecchia Pietro, 144, 190
Vecellio Tiziano, 153, 161, 165, 187
Vendramin Francesco, 61, 63
Venier, di San Vio, famiglia, 128
Veronese, vedi Caliari Paolo
Vicini M.L., 239
Vico Giambattista, 211
Vincenti D., 140
Vio G., 86, 129
Virgilio, 108
Viviani Lorenzo, 60
Vouet Simon, 161, 217
Wittkower R., 262
Wharton Philip, duca di, 258
Zaccaria (santo), 162
Zampetti P., 145
Zanchi Antonio, 139, 142, 145, 147, 152, 153, 161, 162,
164, 165, 166, 178, 181, 190, 223, 230
Zane, di San Stin, famiglia, 129
Zane Marino, 220, 223
Zane Vettor, 223
Zanetti A.M., 153, 162, 166, 189, 190, 195, 249
Zanetto M., 30
Zava Boccazzi F., 187, 258
Zenobio, famiglia, 219
Zonca Giovanni Antonio, 162, 164
Zuccolo Leopoldo, 259
Tabacco Bernardo, 78, 84, 91
Temanza Tommaso, 259
Teresa d’Avila (santa), 144
Tesauro Emanuele, 63, 71, 116, 214
Tesseri Teodoro, 54
Tiepolo Giambattista, 11, 159, 161, 182, 200, 203, 211,
214, 217, 224, 249, 251, 253, 259
Tintoretto, vedi Robusti Jacopo
Tirali Andrea, 54, 55, 79, 259
Tirali Piero, 60
Tito (imperatore), 139
Tiziano, vedi Vecellio Tiziano
Tommaso d’Aquino (santo), 108
Ton D., 211, 214
Torretti Giuseppe, 91, 122, 129, 130
Torri Pietro Antonio, 181
Toschini Giovanni, 60
Trabucco Antonio, 60
Tremignon Alessandro, 33, 154
Trevisani Angelo, 189, 190, 200
Tron, di San Stae, famiglia, 159
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Giovanni Battista Cavalieri, Testa deforme, Campanile di Santa Maria Formosa.
CREDITI FOTOGRAFICI E RINGRAZIAMENTI
Tutte le fotografie sono di Luca Sassi e pertanto proprietà di Sassi Editore srl, eccetto le seguenti:
© Cameraphoto Arte / Venezia, pagg. 4-5, 13, 144-145, 148-149, 150-151, 152, 160 © Photoservice Electa / Anelli, pag. 145 © Per gentile concessione della Procuratoria di San Marco – Venezia, pag. 172 © Fondazione Querini Stampalia Onlus, Venezia, pag. 256 © Arsenale Editrice, pag. 231. Le seguenti immagini appartengono all’archivio di Massimo Favilla e Ruggero Rugolo: pagg. 16, 33 in alto, 52 in alto, 53, 54, 60, 79, 85 a sinistra in alto e in basso, 112 in alto, 129 in alto a destra e in basso, 140, 159, 161, 175 a destra, 217, 249 in basso, 257, 258.
Si desidera ringraziare il direttore, prof. Giandomenico Romanelli, per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione delle immagini di pertinenza della Fondazione Musei Civici di Venezia.
Si desidera inoltre ringraziare l’Ufficio per la Promozione dei Beni Culturali della Curia Patriarcale di Venezia per aver concesso le autorizzazioni a realizzare le numerose fotografie all’interno
delle chiese di Venezia, i parroci delle singole chiese per aver a loro volta reso possibili i servizi fotografici, il Vicario ing. Demetrio Sonaglioni dell’Arciconfraternita della Scuola Grande di San
Rocco per le fotografie all’interno della Scuola Grande di San Rocco, il dottor Claudio De Donatis e la dottoressa Barolini del Consiglio Regionale del Veneto per le fotografie di Palazzo FerroFini, il dottor Vespignani dell’ANCE per palazzo Sandi, il dottor Filippo Pedrocco per Ca’ Rezzonico, il signor Sandro Ravagnan della chiesa di san Zaccaria, il dottor Padoan e la dottoressa
Schiffini dell’Azienda U.L.S.S. 12 Veneziana per l’ospedale dei S.S. Giovanni e Paolo e per San Lazzaro dei Mendicanti, padre Aldo Genesio per la chiesa dei Gesuiti, padre Roberto Magni per la
chiesa degli Scalzi, la dottoressa Lain per Ca’ Sagredo, Ivano Beggio per palazzo Barbaro Curtis, Madame Nicole Bru e Madame Michèle Roche per la Fondation Bru-Zane di palazzetto Zane.
Un ringraziamento particolare va a: i direttori e il personale della Biblioteca Nazionale Marciana, della Biblioteca del Seminario Patriarcale, della Biblioteca dell’Istituto di Storia dell’Arte della
Fondazione Giorgio Cini, dell’Archivio Storico del Patriarcato e dell’Archivio di Stato di Venezia, e del Kunsthistorisches Institut di Firenze; e inoltre la nostra riconoscenza va a: Manuela Barausse, Roberta Battaglia, William Lee Barcham, Giovanna Cafiero, Elisa Castellan, Dennis Cecchin, Alberto Craievich, Cristina Crisafulli, Maria Da Villa Urbani, Adele De Gobbi, Monica De
Vincenti, Franco De Virgilijs, Barbara Del Vicario Foscari, Roberto Degano, Paolo Delorenzi, Riccardo Drusi, Helga Durigon, Antonio Foscari, Sandro Franchini, Martina Frank, Rossella Granziero, Simone Guerriero, Laura Levantino, Tommaso Magni, Leonardo Mezzaroba, Piero Pazzi, Lucia Pick, Ida Santisi, Mita Scomazzon, Anna Maria Spiazzi, Enrico Tagliapietra, Vincenzo Tagliapietra, Andrea Tomezzoli, Camillo Tonini, Debora Tosato, Davide Trivellato, Carlo Urbani, Catherine Whistler, Silvia Zanchi, Anna Pia Zanon, Marco Zordan, Emanuela Zucchetta.
Il nostro più commosso ricordo va a don Mario Dal Tin, già parroco dei Gesuati, sincero ed entusiasta estimatore dei tesori conservati nella sua chiesa.
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