Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
da: "Atti e Memorie", Deputazione di Storia Patria per le antiche province modenesi, serie XI, vol. XXVIII (2006), pp. 191-223. Graziella Martinelli Braglia Giuseppe Dallamano (1679-1758), “Pittore di molto nome negli ornati”, e la quadratura a Modena tra Sei e Settecento La quadratura prospettica, ovvero la decorazione che mediante architetture dipinte finge ulteriori spazialità, dilatando con l’illusione ottica le strutture reali, ebbe in Modena il suo maggior esponente, nei decenni fra Sei e Settecento, in Giuseppe Dallamano, nato nella capitale estense il 10 luglio del 1679. 1 Il padre di lui, il pittore Pellegrino nato a Modena nella prima metà del ‘600 e documentato sino all’anno 1700, aveva lavorato alla riqualificazione del Palazzo di Gualtieri, da poco acquisito dai duchi d’Este, in una enclave di artisti nella quale spiccano Francesco Stringa (Modena 1635-1709) e Sigismondo Caula (Modena 1637-1724), nonché negli allestimenti di apparati effimeri e di scenografie teatrali, come quelli progettati dal veneziano Tommaso Bezzi (Venezia 1652 ca.-Modena 1729) per il solenne battesimo del principe Francesco d’Este, futuro Francesco III, all’anno 1700. Pertiene a Pellegrino Dallamano uno scarno elenco di dipinti devozionali, tutti perduti, per una committenza che pare di modesto profilo: nella scomparsa chiesa di San Girolamo, una Madonna con Cristo morto in grembo fra la Maddalena e San Giovanni, con l’Eterno in gloria, anteriore al 1654, e due opere raffiguranti San Antonio da Padova, una in San Girolamo, l’altra nella cappella dell’antico Ospizio dei poveri. 2 Si crede che la sua attività abbia del pari influito sulla formazione di quadraturista del figlio Giuseppe non tanto per questo capitolo pittorico, che si può immaginare di scarso rilievo, quanto per la produzione legata agli apparati celebrativi, alle macchine, agli ornati effimeri. Infatti, quanto ci rimane delle decorazioni di Giuseppe Dallamano in ambito modenese appare ispirato a un repertorio tratto dalla scenografia in senso lato, oltre che dalla tradizione prospettica bolognese ed emiliana a cui pertiene, pur con caratteri individuali. A Modena Giuseppe, bizzarro e irrequieto, scarsamente incline agli studi al punto da rimanere analfabeta - “non sapeva per leggere, riferisce Girolamo Tiraboschi, e solo godeva di udire chi gli faceva la lettura di qualche libro di Storia Sacra” -, opera nel periodo giovanile e della prima maturità; infatti, nel 1717, l’anno successivo alla morte della moglie Isabella Galli, da cui aveva avuto tre figli, si sarebbe trasferito in Piemonte, attirato dalla politica di mecenatismo di Vittorio Amedeo II di Savoia, dal 1713 insignito del titolo regio. Dopo una fecondissima carriera in terra piemontese, che lo vedrà apprezzato decoratore nelle dimore sabaude e della nobiltà, in chiese e in monasteri, talora affiancato dal primogenito Nicolò (Modena 1700 ca.- Torino 1766), 3 morirà a Si ringraziano Gianpaolo Turrini della Fondazione San Carlo di Modena per la gentile disponibilità in relazione agli studi sulla decorazione del Collegio San Carlo e per averne concesso la ripresa fotografica, Caterina Braglia per aver realizzato la documentazione fotografica stessa e Luca Silingardi per consigli e segnalazioni, in particolare relativi al Palazzo Ducale di Sassuolo. 1 Si rimanda alla voce di G. Martinelli Braglia, Giuseppe Dallamano, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXI, 1985, pp. 796-798; inoltre, è fondamentale il profilo biografico steso da Girolamo Tiraboschi in Biblioteca Modenese, VI, 1786, p.406-407. Per le problematiche relative alla quadratura prospettica, con riferimenti anche all’attività piemontese di Dallamano, si rinvia a L’architettura dell’inganno. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Convegno di studi internazionale, Rimini 28-30 nov. 2002. 2 Su Pellegrino Dallamano si veda G. Martinelli Braglia, Pellegrino Dallamano, ivi, p. 796, con bibliografia. 3 Nicolò Dallamano affiancò il padre Giuseppe nelle commissioni in Piemonte, benchè “senza uguagliare il valor del padre”, come riferisce Tiraboschi, cit., VI, 1786, p. 407, che deriva i dati biografici relativi a questa dinastia di artisti dal resoconto di don Giuseppe Dallamano (m. Modena 1807), figlio di Nicolò, che visse a Modena, rettore della chiesa di San Biagio nel Carmine e archivista bibliotecario del Collegio San Carlo dagli anni ’60 del Settecento fino al 1783. Murazzano (Cuneo), presso il convento dei Filippini ove si era ritirato dal 1756, il 1° gennaio 1758. 4 Episodi quadraturistici a Modena e nel ducato estense L’arte di Giuseppe Dallamano si sviluppò sui molteplici esempi che a Modena e in area limitrofa avevano lasciato i protagonisti della quadratura di scuola bolognese. Appena si vuole accennare all’attività del celebre binomio formato da Angelo Michele Colonna (Ravenna 1604Bologna 1687) e Agostino Mitelli (Bologna 1609-Madrid 1660) che ha in loco la sua più precoce attestazione nella sagrestia di San Biagio nel Carmine, già annessa al convento dei carmelitani: nella volta, una finta architettura, composta da un’alta trabeazione con massicci mensoloni a sostegno di una balaustrata, inquadra il Profeta Elia sul carro di fuoco che cede il manto al discepolo Eliseo. L’opera, commissionata nel 1632 da padre Angelo Monesi a Girolamo Curti detto il Dentone (Bologna 1575-1632), caposcuola della quadratura emiliana, venne alla morte dell’artista portata avanti e compiuta nel 1634 appunto dai discepoli Mitelli e Colonna, il primo, prospettico di formazione, il secondo in prevalenza pittore di figura.5 Nel catalogo di Curti, l’affresco nel Carmine si situa a ridosso di quelle “Prospettive nelle Camere in Castello” che il maestro, assieme a collaboratori, aveva eseguito dagli inizi del 1630 al ‘32 nella residenza ducale modenese per conto di Francesco I d’Este. 6 E’ in questo giro d’anni, dal 1630 al ’34, che i bolognesi fronteggiano vari incarichi nella capitale estense: Colonna l’ornato di una galleria per il duca; Curti lo sfondato prospettico della cupola nell’oratorio di San Carlo Rotondo, poi compiuto da Colonna forse affiancato da Mitelli; Colonna e Mitelli in sodalizio la decorazione della cappella di San Gaetano in San Vincenzo, chiesa teatina sotto la peculiare protezione degli Este, opere tutte perdute.7 Ma la fama di Colonna e Mitelli, artefici di una versione più sontuosamente aulica e celebrativa della quadratura rispetto al severo geometrismo di Curti, è principalmente legata al Palazzo Ducale di Sassuolo, autentica “reggia degli incanti” anche per l’illusionismo di spazi, volumi e immagini; qui i due maestri lavorano dal 1645, succedendo a Ottavio Viviani (Brescia 1579-1645), fino al ’49, anno della loro partenza per la corte di Spagna. Un altro binomio si sostituisce al loro, quello di Baldassarre Bianchi (Bologna 1614-Modena 1678) e Gian Giacomo Monti (Bologna 1620-1692), allievo di Mitelli, a proseguire la creazione di artifici prospettici entro 4 Fecondissima fu l’attività di Giuseppe Dallamano in area piemontese. Dal 1717 a Torino, l’artista s’impegnò in una fitta sequenza di imprese decorative, all’interno di un ambizioso progetto culturale e artistico di Vittorio Amedeo II di Savoia volto a consolidare il prestigio dinastico. Nel 1730 attende all’ornamentazione del Castello reale di Rivoli e della Villa della Regina a Torino, ove lascia nel salone centrale il suo capolavoro. Serrata anche l’attività per famiglie aristocratiche, a Torino - uno sfondato prospettico nel cortile di casa Villanis - a Caramagna, a Carrù, a Virle. Il copioso catalogo delle decorazioni in edifici religiosi annovera interventi nel presbiterio di San Tommaso a Torino, nella parrocchiale di Carrù con Antonio Milocco, nell’oratorio della confraternita dell’Annunziata a Busca attorno al 1730, nella chiesa della Trinità a Fossano, con Milocco e i fratelli Giovanni e Antonio Pozzi fra il 1728 e il 1735, in San Martino e in San Ilfredo a Cherasco, nel Duomo e in San Domenico a Racconigi, nel tempio della Pietà a Savigliano. Sono sfondati dalla prospettiva fortemente scorciata, con effetti scenografici che si acutizzano sotto l’influsso della sintassi barocca di architetti quali Benedetto Alfieri e Bernardo Antonio Vittone, del quale è nota la stima per l’artista e per il figlio Nicolò. Fu interpellato attorno al 1735 per la decorazione della grande cupola nel santuario mariano di Vicoforte. Nell’estremo periodo lavorò nella chiesa e nel monastero dei Filippini a Murazzano, presso cui si era ritirato. Si veda la bibliografia in Martinelli Braglia, cit., p. 748; inoltre, l’intervento di Rita Binaghi, I sistemi voltati di B.A. Vittone ed alcune realizzazioni del quadraturismo, presso il convegno di studi L’architettura dell’inganno, cit. 5 Cfr. G. Martinelli Braglia, Modena capitale, in D. Colli, A. Garuti, G. Martinelli Braglia, I secoli della meraviglia. Il Seicento e il Settecento, Modena 1998, pp. 122 e 125. Per le altre opere modenesi di Girolamo Curti, scomparse, si veda G. Campori Gli Artisti italiani e stranieri negli Stati Estensi, Modena 1855, pp. 175-176. 6 Così Giambattista Spaccini, nella sua Cronaca alle date del 17 aprile e del 25 agosto 1632, trascr. in Campori, cit., p. 176. 7 Si rinvia a Campori, cit., pp. 160-165; inoltre si veda C. Cremonini, M. Dugoni, “Pitture, lavori di marmo et altri ornamenti”: vicende storiche e artistiche degli altari nei secoli XVII e XVIII, in E. Corradini, E. Garzillo, G. Polidori (a cura di), La chiesa di San Vincenzo a Modena, Cinisello Balsamo 2001, pp. 113-135, e in particolare p. 125. cui Jean Boulanger (Troyes, Francia 1606-Modena 1660), discepolo di Guido Reni, dispiega il suo racconto pittorico. 8 Sono sempre Monti e Bianchi, attorno al 1650, a esibire il loro virtuosismo nella chiesa della reggia sassolese, San Francesco in Rocca, inscenando iperboliche stratificazioni di architetture dipinte. E Monti in particolare, nel 1647, aveva offerto prova della sua perizia di quadraturista nel castello dei conti Malvasia a Panzano di Castelfranco, allora in territorio bolognese ma contermine alle terre del ducato.9 Si può ipotizzare che vasta parte della fortuna incontrata nello Stato estense dalle architetture dipinte risalga proprio alla spiccata predilezione di cui ne fece oggetto Francesco I, il quale “doveva coltivare l’idea di caratterizzare la decorazione del nuovo palazzo (di Sassuolo) con fughe prospettiche e inganni di quadratura”.10 Altri ancora saranno i cantieri estensi che vedranno Bianchi e Monti all’opera, su incarico dello stesso Francesco I e del figlio Alfonso IV, e quindi della vedova di quest’ultimo, la reggente Laura Martinozzi: cantieri come il Palazzo Ducale di Modena, ove nel 1650 affrescano una “libreria” e cinque stanze, perdute;11 la distrutta villa suburbana delle Pentetorri; la chiesa di Sant'Agostino - nel presbiterio e nell’abside -, che dal 1663 diviene Pantheon Atestinum, esibendo l’aulica magnificenza barocca dovuta ai rifacimenti, architettonici e decorativi, diretti dallo stesso Monti. 12 Di lì a poco, nel 1674, il Palazzo Ducale modenese avrebbe accolto l’ultima impresa di Baldassarre Bianchi: gli sfondati a cornice delle Glorie dei Santi estensi di Francesco Stringa nella Galleria “sacra” che portava all’antica Cappella. 13 Oltre a questi più celebri episodi, altri ancora furono i saggi della cultura quadraturistica elaborata nelle alacri fabbriche estensi. Così, si data verso la metà del Seicento un’opera scarsamente nota, anche per la sua ubicazione appartata: la decorazione dell’antica sala capitolare nel convento delle Clarisse di Santa Chiara in Carpi. Accostata da Giuseppe Campori al nome di Mitelli, e attribuita da Alfonso Garuti, oltre che a Mitelli e Colonna, anche a Monti e Bianchi con il concorso di aiuti, l’amplissima volta a calotta unghiata, tesa su peducci, dispiega un’illusionistica architettura, la quale, benchè degradata e in vari settori scomparsa, in un ambiente dimezzato in altezza, ostenta parimenti una nobile sontuosità: orchestrata sul motivo di un loggiato a colonne, con tratti balaustrati, si arricchisce di festoni, drappi, animali e, nelle zone angolari, di araldiche aquile estensi, a documentare gli stretti legami tra la famiglia ducale e il convento carpigiano. 14 Rimane poi un’eccezionale testimonianza quadraturistica in un ciclo modenese, nel palazzo già dei conti Boschetti (via Sant'Agostino, ora sede degli Istituti Ospedalieri), che la critica ha accostato all’équipe di artisti formatisi attorno a Boulanger, che ne proseguirono i modi dopo la sua morte, avvenuta nel 1660. 15 In particolare, nella sala più vasta, la fastosa decorazione del fregio e del 8 Un contributo fra i più recenti sulla quadratura prospettica nel Palazzo Ducale di Sassuolo è costituito dal saggio di Angelo Mazza, “In questa bella compagnia d’Amore e di Fortuna…”. La decorazione pittorica, in F. Trevisani (a cura di), Il Palazzo di Sassuolo. Delizia dei Duchi d’Este, Parma 2004, pp. 57-76, con bibliografia. 9 Un contributo fra i più recenti sulla quadratura prospettica nel Palazzo Ducale di Sassuolo è costituito dal saggio di Angelo Mazza, “In questa bella compagnia d’Amore e di Fortuna…”. La decorazione pittorica, in F. Trevisani (a cura di), Il Palazzo di Sassuolo. Delizia dei Duchi d’Este, Parma 2004, pp. 57-76, con bibliografia. 10 Mazza, in Il Palazzo di Sassuolo, cit., p. 59. 11 Si veda J. Bentini, La grande decorazione nel Palazzo Ducale, in Il Palazzo Ducale di Modena, a cura di A. Biondi, Modena 1987, pp. 123-147, e in particolare p. 123. 12 Si rimanda, per l’intervento in Sant'Agostino, a S. Cavicchioli, L’”Occidente degli Eroi” in Sant’Agostino. L’iconografia degli stucchi e dei dipinti, in E. Corradini, E. Garzillo, G. Polidori (a cura di), La chiesa di Sant’Agostino a Modena. Pantheon Atestinum, Cinisello Balsamo 2002, pp. 65-77, e in particolare p. 69. 13 Cfr. G. Martinelli Braglia, La Galleria di Francesco Stringa nel Palazzo Ducale, in J. Bentini (a cura di), Sovrane passioni. Studi sul collezionismo estense, Milano 1998, pp. 293-299. 14 Si vedano Campori, cit., p. 318, A. Garuti, in A. Garuti, D. Colli, Il monastero di Santa Chiara in Carpi, Carpi 1993, pp. 55-56; A. Garuti, in D. Colli, A. Garuti, R. Pelloni, Le mura del silenzio. Monasteri femminili tra Po e Crinale, Modena 2001, p. 156. 15 Il ciclo comprende anche i soffitti affrescati di due stanze, una delle quali già adibita a cappella, con Allegorie delle Stagioni, l’Allegoria del Tempo, amorini, e un repertorio ornamentale di festoni, uccelli, fiori. Si vedano i contributi di M. Pirondini, Giovanni Boulanger, Modena 1969, p. 90, che opportunamente sottrae il ciclo alla tradizionale ascrizione a Boulanger; A. Lugli, Erudizione e pittura alla corte estense: il caso di Sigismondo Caula (1637-1724), in plafond ripropone soluzioni e stilemi sperimentati nell’impresa sassolese. Il fregio narra episodi del Mito di Giasone e degli Argonauti, su finti arazzi fra i quali si insinuano putti – memoria della Galleria di Bacco, dipinta da Boulanger con Monti e Bianchi nel 1640 -, mentre nei settori angolari cariatidi e telamoni sostengono la trabeazione. Il soffitto è ripartito da un’architettura di elaborata articolazione, dove ignudi seduti, assieme a coppie di amorini in volo, dispiegano altri arazzi con Storie di centauri; altre Scene di centauri ricorrono nei cartigli dorati, posti agli angoli. Il soprastante cornicione, percorso da un aureo festone, sigilla al centro della volta una Scena di banchetto. Grande è la profusione di elementi ornativi, come ghirlande, vasi di frutta, mascheroni, edicole… tipici dell’imagerie quadraturistica di scuola bolognese. Diverse le mani che dovettero cimentarsi in questo spettacolare saggio: di livello qualitativo discontinuo nelle varie parti, e talora corsivo, l’affresco palesa tuttavia un apparato architettonico-prospettico di notevole virtuosismo per organicità di struttura, nonostante l’intrinseca complessità sintattica. Sono evidenti le memorie di soluzioni boulangeriane, benchè trasposte in più semplice contesto di stile, al punto da suggerire l’ipotesi di una partecipazione di Olivier Dauphin (Troyes 1634 c.-Sassuolo, Modena 1683), nipote di Boulanger e suo collaboratore; così come “soprattutto nella fascia sottostante la volta” Adalgisa Lugli osservava come le figure assumano le pose caratteristiche della “studiata finzione” di Sigismondo Caula (16),16 altro maestro assiduo nei cantieri estensi dell’epoca. Nella cerchia degli artisti coinvolti nell’impresa del Palazzo di Sassuolo emerge lo scandianese Sebastiano Sansoni (doc. 1641-1676), petit maitre nella quadratura prospettica. 17 In tale veste è documentato, con il reggiano Francesco Mattei, al lavoro nell’Appartamento dei Giganti della reggia sassolese, risultando nell’estate del 1646 aver “dipinto e accomodato” quelle camere; 18 più specificamente, nella seconda camera sembrano a lui riferibili le illusionistiche architetture di un loggiato a colonne aperto su un paesaggio, con due statue dorate su basamenti, che si crede raffigurino l’Errore e l’Arroganza, forse spettanti ad altra mano. Il nome del maestro di Scandiano è legato soprattutto, nella capitale estense, alla decorazione della chiesa teatina di San Vincenzo. E’ infatti l’autore delle prospettive nella volta, in un fraseggio di chiara ascendenza bolognese, in collaborazione con Sigismondo Caula che dipinge le glorie di San Gaetano Thiene e di Sant' Andrea Avellino nei riquadri di cielo e le scene figurate con l’Apostolato dei Teatini e le Anime del Purgatorio entro cartelle. Un intervento che non dovette collocarsi lontano dalla data del 1671, anno del contratto steso da Caula con i Teatini per l’affrescatura della cupola, in un’impresa a cui presero parte altri artisti di formazione boulangeriana come Olivier Dauphin e Tommaso Costa (Sassuolo, Modena 1635-Reggio Emilia 1690). 19 Sempre in Modena, Sansoni aveva dipinto un soffitto nella distrutta chiesa di Santa Margherita. Dunque, un’esperienza primaria di decoratore, benchè ancora da delineare, in cui probabilmente rientra anche l’attività nel Palazzo di Gualtieri, accanto a Pellegrino Dallamano, negli anni sessanta del ‘600, e nel convento delle Salesiane di Modena con l’annessa chiesa della Visitazione, cantieri aperti dalla committenza della duchessa Laura. 20 “Prospettiva”, n. 21, aprile 1980, pp. 64 e 72 n. 18 e 19; Eadem, in J. Bentini (a cura di), Disegni della Galleria Estense di Modena, Modena 1989, p. 248; G. Martinelli Braglia, Due allievi di Jean Boulanger: Olivier Dauphin e Tommaso Costa, in “QB – Quaderni della Biblioteca”, 2, (Sassuolo) dicembre 1996, pp. 116-121, e in particolare p. 117; Eadem, Modena capitale, in Colli, Garuti, Martinelli Braglia, cit., p. 146-147. 16 Lugli 1980, cit., p. 14. 17 Su Sebastiano Sansoni si veda Campori, cit., p. 95, che lo dice “ammaestrato” da Boulanger, assieme a Olivier Dauphin, Sigismondo Caula, Tommaso Costa; inoltre Soli, II, p. 380. 18 Per il contributo di Sansoni nella decorazione del Palazzo di Sassuolo si rimanda allo studio di G. Mancini Le decorazioni quattro e cinquecentesche del castello sassolese: prime indagini e riflessioni, in “QB – Quaderni della Biblioteca”, 4, (Sassuolo) dicembre 2000, pp. 89-100, e in particolare pp. 97-98 e 100 n. 27, e riproduzione a p. 16. Inoltre, già Massimo Pirondini ipotizzava che fosse da riferirsi al Sansoni il fregio superiore della prima camera dei Giganti. M. Pirondini, Ducale Palazzo di Sassuolo, Genova 1982, pp. 77 e 133. 19 Per questa realizzazione di Sansoni si rinvia a S. Cavicchioli, “Ben intese figure, bassi rilievi ed altri stucchi”: l’apparato plastico e gli affreschi della chiesa, in E. Corradini, E. Garzillo, G. Polidori (a cura di), La chiesa di San Vincenzo a Modena. Ecclesia Divi Vincentii, Cinisello Balsamo 2001, pp. 185-201, e in particolare p. 181. 20 Si veda, per le committenze di Laura Martinozzi, Lugli 1980, cit., pp. 59, 60, 61, 71 n. 6, 72 nn. 9 e 17, 73 n. 28. Non sono noti gli artefici di un’impresa ornamentale superstite, databile sulla metà del Seicento, nella chiesa interna delle monache agostiniane di San Paolo, ora sede espositiva della Provincia di Modena. Nell’ampia sala, realizzata nei primi anni del secolo, i pennacchi su cui s’imposta la volta recano dipinte figure d’angeli dalle ali spiegate, ricavate da due spolveri usati alternatamente e rovesciati, con varianti nella cromia; sulle pareti maggiori, interviene un pittore prospettico riquadrando su ciascuna tre finestre – solo due sono reali, sul lato sud – e due specchiature, che dovevano contenere dipinti, delineate da cornici spezzate con cartigli, mascheroni, vasi di fiori, festoni, a cui s’addossano angeli di profilo a guisa di cariatidi. 21 Ancora nel complesso conventuale di San Paolo, ben più elevata qualità presenta una piccola cappella già della Madonna della Scala, che s’apre sullo scalone. D’impianto elissoidale, nella tipologia architettonica di Cristoforo Malagola detto il Galaverna, architetto della ristrutturazione barocca della chiesa esterna nel 1653, 22 mostra nel portale e sulle superfici un’elegante trama fitomorfa di stucchi, anche dorati; e nella volta a cupola elissoidale ribassata, gli stucchi compongono un serto d’alloro e una cornice entro cui si sviluppa lo sfondato dipinto: su un alto cornicione si impostano, tra plastiche volute, cartelle alternate a medaglioni, il tutto concluso da un festone di frutta che delimita l’ovale di cielo ove fluttuano due angioletti con un cartiglio. 23 L’opera, assai deperita, si palesa di cospicua resa esecutiva: nell’impaginazione, nel repertorio ornamentale, nel lumeggiare risentito che restituisce l’aggetto delle volute si rilevano analogie rispetto alle quadrature di Baldassarre Bianchi nella citata Galleria sacra del Palazzo Ducale. D’altra parte, il convento di San Paolo, con gli interventi di Cristoforo Malagola e di Antonio Loraghi, il capomastro “erede” dell’architetto ducale Bartolomeo Avanzini, autore della monumentale ancona nella chiesa esterna, 24 si pone come cantiere toccato dalla feconda stagione del grande Seicento estense. Accanto a questi precedenti, è noto che influirono sul linguaggio di Giuseppe Dallamano gli esempi di Ferdinando (Bologna 1657-1743) e Francesco Galli Bibiena (Bologna 1659-1739). In Modena i due fratelli bolognesi dipinsero nel 1690 i soffitti e i fregi a quadrature di due sale, distrutte, nel palazzo Campori, su committenza del marchese Onofrio. Perdute del pari le decorazioni di Francesco in una sala della residenza del conte Gonzaga a Novellara e le altre, condotte assieme a Ferdinando, nel Casino della Motta a Cividale di Mirandola, committente il duca Alessandro II Pico, al quale erano stati raccomandati da Gian Giacomo Monti; rammentava lo stesso Ferdinando: “dell’anno 1676 fui mandato alla Mirandola per quel Serenissimo…” . 25 Inoltre, per il duca Alessandro nel 1690 i due maestri avrebbero dipinto nella chiesa del Gesù di Mirandola un illusionistico padiglione retrostante l’altar maggiore, attorno alla pala della Circoncisione di Innocenzo Monti: a Ferdinando sarebbe spettato “il panneggiamento”, a Francesco “i puttini e le due grandi figure”; 26 un episodio perduto indubbiamente espressivo della cultura prospetticoscenografica di cui i due fratelli erano all’epoca i più ragguardevoli esponenti, che doveva contribuire a fare di quel tempio un autentico “teatro sacro”. 27 21 Per la chiesa interna delle monache di San Paolo in Modena si veda G. Martinelli Braglia, (a cura di), La chiesa di San Paolo a Modena. Otto secoli di storia, Modena 1998, pp. 60-66. 22 Ivi, pp. 75-76. 23 Si veda A. Garuti, in La chiesa di San Paolo, cit., p. 114. 24 Si rimanda a Martinelli Braglia, ivi, pp. 73-74. 25 Trascrizione in M. Pigozzi, I Pico e il Gesù di Mirandola, in V. Erlindo (a cura di), Arte a Mirandola al tempo dei Pico, catalogo della mostra, (Mirandola) Modena 1994, p. 56, a cui si rimanda per la puntualizzazione dell’attività mirandolese dei Bibiena. 26 Campori, cit., pp. 224-225; inoltre, sull’opera dei Bibiena nello Stato estense e nei vicini Stati si veda G. Martinelli Braglia, I Bibiena: Ferdinando e Francesco, in I Pico e i Gonzaga. Arte e cultura, Modena 2000, pp. 159-160, con ulteriore bibliografia; D. Lenzi, Ferdinando Galli Bibiena, Francesco Galli Bibiena, in D. Lenzi e J. Bentini (a cura di), I Bibiena: una famiglia europea, Venezia 2000, pp. 20-25; D. Gallingani (a cura di), I Bibiena: una famiglia in scena da Bologna all’Europa, Firenze 2002. 27 L’affresco andò distrutto nel 1854 durante un aggiornamento di gusto della parete di fondo; ne esiste un rapido disegno tratto dallo storico locale Giacinto Paltrinieri per tramandarne memoria, intitolato Idea dell’antico ornato del quadro di Innocenzo Monti, nella Biblioteca Comunale di Mirandola, Fondo bibliografico antico; pubblicato da Risulta poi che in Modena, per conto di Francesco II d’Este, nei mesi di gennaio e febbraio del 1686 Francesco Bibiena attendesse alla decorazione del Nuovo Teatro di Corte, ricavato allora sul lato orientale del Palazzo Ducale, su progetto del veneziano Tommaso Bezzi. 28 Tra i bolognesi ivi all’opera, spicca il nome di Marcantonio Chiarini (Bologna 1652-1730), allievo di Francesco Bibiena e per suo tramite erede dei modi di Mitelli, che un decennio più tardi, nel 1695, eseguirà pitture, perdute, in una stanza nell’appartamento di Carlotta Felicita di Brausweig-Hannover, consorte di Rinaldo d’Este. 29 Proprio per celebrare queste nozze ducali, sulla metà degli anni Novanta nel Palazzo modenese va prendendo forma uno straordinario saggio della grande quadratura bolognese: nel 1694 le fittizie architetture di Enrico Haffner (Bologna 1640-1702), di formazione mitelliana, con gli ornati di Luigi Quaini (Ravenna 1643-1717), “spalancano” la volta del Salone d’Onore sull’Olimpo dell’Incoronazione di Bradamante affrescata da Marcantonio Franceschini (Bologna 1648-1729), sapiente sintesi tra una spettacolarità da “dramma in musica” e la classicità più distillata e preziosa. 30 E in quest’arco d’anni di fine Seicento, che per inciso vede l’esordio di Giuseppe Dallamano, si assiste, nella decorazione di San Barnaba, chiesa dei Minimi di San Francesco di Paola, all’applicazione della veduta “ad angolo”, l’“invenzione” prospettica dei Bibiena dalle straordinarie implicazioni dinamico-spaziali, anche se limitata a singoli elementi piuttosto che nei termini di un’organica struttura. In San Barnaba, dal 1699 al 1708, accanto a Sigismondo Caula nel ruolo di “figurista”, Jacopo Antonio Mannini (Bologna 1646-1732), già attivo con Marcantonio Chiarini in apparati festivi per la corte estense, 31 riveste la volta a botte di una tessitura quadraturistica policentrica – cioè con autonoma lettura prospettica di ogni campo - nella tradizione felsinea, assecondando la scansione del soffitto in tre comparti mediante arconi. Al centro di ciascun comparto, verso cui convergono le unghiature dei finestroni, si accampa un medaglione che illustra, per il pennello di un Caula particolarmente debitore alle invenzioni sassolesi di Boulanger, il trionfo sui Vizi delle Virtù, che sono poi i tre voti della regola francescana dei Minimi: la Povertà con l’Economia (?), l’Obbedienza con la Mansuetudine che atterra la Superbia al centro, la Castità che abbatte la Libidine. 32 Ai lati di ogni medaglione, una coppia di cartigli con Scene della vita di San Francesco di Paola, sempre spettanti a Caula, come gli inserti figuristici. La quadratura evoca spazialità ulteriori, in continuità con la dimensione reale, sia nell’arco trionfale che in quello della cantoria verso la controfacciata, entrambi risolti specularmente come un enorme timpano, che si erge da una balaustrata con mensoloni su cui siedono Virtù – Fede e Speranza, Fortezza e Prudenza – e soprastante fastigio, sorta di “macchina” scenica che diaframma spazi retrostanti illusionisticamente suggeriti. Oltre la volta del presbiterio, con la Gloria della Trinità, nella parete di fondo una coppia d’angeli, reggente un ovale con San Francesco di Paola, è assisa su mensole con basamenti impostati “ad angolo”; e sempre in una veduta “ad angolo” sono riprese mensole e basi sormontate da vasi con fiori nel comparto centrale. L’espediente bibienesco, pur circoscritto a presenze complementari, imprime dinamicità alla trama architettonica e alla percezione prospettica. Marinella Pigozzi, cit., p. 56. Sempre in Mirandola, nella chiesa del Gesù la tradizione locale assegnava ai Bibiena le decorazioni nelle cappelle di San Liborio e di San Francesco Borgia, cancellate in “restauri” ottocenteschi. 28 Si veda G. Martinelli Braglia, Contributi per una storia dell’effimero nel ducato modenese tra Sei e Settecento: Tommaso Bezzi, in G. Bertuzzi (a cura di), Aspetti e problemi del Settecento Estense, Modena 1982, pp. 136-137. Inoltre Ferdinando Galli Bibiena è autore delle scene de L’inganno scoperto per vendetta, di Silvani e Perti, rappresentato nel 1691 nel Teatro Fontanelli, all’epoca il più brillante della capitale estense; cfr. G. Martinelli Braglia, Il Teatro Fontanelli. Note su impresari e artisti nella Modena di Francesco II e di Rinaldo, in C. Gianturco (a cura di), Alessandro Stradella e Modena, Atti del convegno, Modena 1985, pp. 147 e 153. 29 Per l’attività modenese di Marcantonio Chiarini si veda Campori, cit., p. 151. 30 Si rimanda a Bentini, in Palazzo Ducale di Modena, cit., p. 136 e Eadem, in J. Bentini, A. Mazza (a cura di), Disegni emiliani del Sei-Settecento. I grandi cicli di affreschi, Cinisello Balsamo 1990, pp. 190-191; a questo volume si rinvia per vari altri saggi di quadraturistica bolognese ed emiliana. 31 Sull’opera modenese di Jacopo Antonio Mannini si rimanda a Campori, cit., pp. 151 e 304. 32 Sulla chiesa di San Barnaba si veda Soli, cit., I, pp. 85-122; per una prima lettura iconografica degli affreschi nella volta si veda G. Martinelli Braglia, La chiesa di San Barnaba gioiello del barocco, in “Il Ducato”, n. 10, marzo 2004, pp. 41-46, con bibliografia ulteriore sulla chiesa. E’ coeva all’affermazione in Modena di Giuseppe Dallamano l’opera di un misterioso prospettico, Raffaele Rinaldi detto il Menia (Modena 1648-1722), di cui è conosciuta la produzione “da cavalletto”, documentata da una coppia di tele di soggetto rovinistico nella Galleria Estense; 33 la sua fisionomia di decoratore era affidata alle perdute quadrature eseguite nel 1713 nella cappella del SS. Sacramento nel Duomo di Modena, ove Caula aveva dipinto la Gloria della Trinità. 34 La vicenda modenese di Giuseppe Dallamano E’ questo il clima culturale in cui si situano le opere modenesi di Dallamano. Al periodo giovanile – l’artista era poco più che ventenne - risale l’affrescatura della facciata della scomparsa Sant'Erasmo, in sodalizio con il già affermato Sigismondo Caula come “figurista”. L’intervento integrava la risistemazione della piccola chiesa, appartenente alla confraternita di Sant'Erasmo e del Nome di Gesù, tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700: nel settembre del 1702 i confratelli chiedevano alla Comunità di poter piantare a fronte della facciata quattro fittoni in legno per impedire che le carrozze, nell’eseguire la svolta nell’area antistante, potessero danneggiare le pitture da poco eseguite.35 L’edificio sorgeva infatti a chiusura della contrada Sant'Agostino, definendo il lato sud del “piazzale delle Grazie”, così denominato dalla vicina chiesa della Madonna delle Grazie; pertanto, le illusionistiche architetture di Dallamano, nella diffusa tradizione delle facciate dipinte, conferivano al prospetto di Sant'Erasmo un valore di vero fondale urbano, con palesi connotazioni scenografiche. Interessante è il giudizio che di quest’opera, e del suo autore, lascia un contemporaneo, lo storiografo benedettino Mauro Alessandro Lazarelli, nel suo manoscritto Pitture delle chiese di Modana, stilato nel 1714: “La facciata (di Sant'Erasmo) è stata modernamente dippinta da Gioseffo dalla Mano modanese, che dippinge con una tinta sì forte che se fosse ne’ principi dell’architettura ben fondato, potrebbe prettendere posto distinto fra li pittori a fresco; ma non sa egli leggere”. 36 V’è da credere che l’artista fosse privo di quel sostrato di cultura che era invece patrimonio di molti autori, e realizzasse le sue creazioni basandosi sull’intuito, sull’esperienza del mestiere, magari ispirandosi alle tavole di un trattato quale Paradossi per pratticare la prospettiva senza saperla, il fortunatissimo manuale di Giulio Troili detto il Paradosso (Spilamberto, Modena 1613 ca.-Bologna 1685), maestro di prospettiva e architettura di Ferdinando Bibiena, stampato a Bologna nel 1672. 37 All’interno della chiesa di Sant'Erasmo, Dallamano dipinse nel coro semicircolare una coppia di putti sostenenti il Nome di Gesù attorno alla Circoncisione di Domenico Carnevali - ora nella Galleria Estense – e, presso l’altare di sinistra, una quadratura a chiaroscuro a cornice della tela di Bernardino Cervi con i Santi Erasmo, Bernardino da Siena, Pietro Martire e Liberata, ora in Sant'Eufemia; 38 ben emerge come il suo apporto fosse volto a conferire enfasi a contesti architettonici e d’arredo altrimenti dimessi. Analoghi gli altri interventi documentati di Dallamano, tutti perduti, presso chiese modenesi: nella sagrestia di Santa Margherita, il grandioso tempio dei Francescani sul corso Canalgrande sconsacrato dal 1808, gli ornati attorno a un Crocefisso scolpito da Gregorio Rossi (Modena, sec. XVII), arricchiti dagli angioletti dipinti dal giovanissimo Francesco Vellani (Modena 1689-1768), futuro protagonista della pittura d’impronta rocaille nel ducato;39 nel coro di Santa Maria delle 33 Per l’attività “da cavalletto” di Raffaele Rinaldi si rimanda a F. Frisoni, in L’arte degli Estensi. La pittura del Sei e del Settecento a Modena e Reggio, catalogo, Modena 1986, pp. 275-276, con riferimenti biografici e con bibliografia. 34 Si veda Tiraboschi, cit., pp. 263-264; inoltre, O. Baracchi Giovanardi, Il Duomo di Modena nel Settecento, in Aspetti e problemi del Settecento estense, cit., p. 43. 35 Cfr. Soli, cit., I, p. 417. 36 M.A. Lazarelli, Pitture delle chiese di Modana (1714), ed. a cura di O. Baracchi Giovanardi, Modena 1982, p. 36. 37 G. Martinelli Braglia, Giulio Troili detto il Paradosso, quadraturista, scenotecnico, trattatista, in “Memorie scientifiche, giuridiche, letterarie”, Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena, s. VIII, v. VII, f. I, 2004, pp. 59-81. 38 Cfr. Soli, cit., pp. 418-419. 39 Si vedano Soli, cit., II, p. 384; M. Dugoni, Francesco Vellani pictor elegantissimus, Modena 2001, p. 106. Assi, annessa al monastero della Trinità dei Rocchettini, il contorno a un Sant'Ubaldo di Paolo Manni, che consisteva in un padiglione con colonnati, squisitamente scenografico, descritto da Lazarelli già nel 1711, cancellato probabilmente nel corso dei restauri ottocenteschi. 40 Andarono del pari perdute le pitture di Dallamano nell’abside della chiesa di San Pietro presso il Castello di Montegibbio, nella montagna sassolese, probabile committenza dei marchesi Spolverini, nobili veronesi dal 1696 feudatari di Montegibbio: un padiglione dipinto attorno alla pala del presbiterio e un angelo con serti di fiori nella volta.41 E’ una tipologia ornamentale, questa, ampiamente diffusa in area locale, che avrà in seguito felicissima applicazione – per citare un esempio soltanto - nei baldacchini e nei drappi festonati dipinti nel 1749 da Giovan Battista Fassetti (Reggio Emilia 1686 – post 1772) nelle cappelle di Santa Maria delle Grazie, ora San Rocco, la chiesa dei Serviti di Carpi. 42 E Fassetti, intrinseco di Francesco Bibiena, che a detta di Tiraboschi “il condusse a Bologna, gli donò la sua amicizia, se ne servì moltissimo ne’ teatri”, 43 scenografo nonché artefice di decorazioni in Reggio come quelle nell’oratorio della SS. Trinità in San Filippo Neri, è ricordato dalle fonti come discepolo di Dallamano, in occasione di un impegnativo ciclo ad affresco, perduto, ultimato nel 1711 nella città di Reggio, che interessava l’atrio e la biblioteca del convento di Santo Spirito, soppresso nel 1783. E’ Tiraboschi a narrare dell’incontro fra i due artisti: Fassetti “era giunto all’età di 27 in 28 anni, quanto Giuseppe Dallamano venne a Reggio a dipingere le belle cose, che erano nell’Atrio e nella Libreria del soppresso Convento di Santo Spirito. Il Fassetti si adoprò ed ottenne di divenire macinatore di colori, e qualche cosa disegnò sotto questo Maestro, che quanto era eccellente, altrettanto era riservato a non lasciarsi vedere a dipingere; sicchè il Fassetti non potè pure da lui apparare i principj necessari alla professione. Ciò che non potè ottenere dal Dallamano, l’ottenne dal Bezzi Architetto veneziano…”. 44 Altra eccezione nell’attività prevalentemente modenese svolta da Dallamano prima del trasferimento in Piemonte sono le pitture nella chiesa di Sant'Agnese degli Eremitani, a Mantova, dove “dipinse le Colonne all’altare di S. Niccola”, come riporta Tiraboschi; una commissione che si colloca fra gli incarichi, all’epoca numerosi nella città lombarda, ad architetti, decoratori e scenografi di scuola bolognese. 45 Per la pur frequente committenza religiosa, soltanto una è l’impresa che rimane dell’artista in Modena: “nel Camerone contiguo alla Sagrestia nella Soffitta di questo luogo vedesi un bellissimo dipinto a fresco di Giuseppe Dallamanni”, annotava Antonio Zerbini, dal 1768 conservatore della Galleria dei Disegni e delle Medaglie estensi, 46 segnalando la decorazione del 40 Cfr. Soli, II, p. 434. Le pitture in San Pietro di Montegibbio, già degradate, furono cancellate nei restauri del 1864 a opera del modenese Antonio Forghieri, che le sostituì con finte architetture, a loro volta eliminate. Forghieri lasciò una relazione che descriveva come il fondo del presbiterio recasse dipinto attorno alla pala un padiglione illusionistico, e la volta un angelo con corone di fiori, già allora appena visibile. Si vedano L. Lorenzini, La chiesa di S. Pietro a Montegibbio, in “QB” 1996, cit., p. 250, e D. Baroni, La chiesa di San Pietro Apostolo, in C.A. Giovanardi, F. Genitori, E. Baroni, Terra di Montegibbio, Sassuolo 1997, p. 104. 42 Se ne veda la riproduzione in Colli, Garuti, Martinelli Braglia, cit., p. 87; sull’opera di Fassetti si veda G. Martinelli Braglia, voce Giovan Battista Fassetti, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 1995. 43 Tiraboschi, cit., VI, p. 200; inoltre M. Pigozzi (a cura di), In forma di festa. Apparatori, decoratori, scenografi, impresari in Reggio Emilia dal 1600 al 1857, catalogo della mostra, Reggio Emilia 1985, p. 59 scheda 49. 44 Così Tiraboschi, cit., VI, pp. 411-412. L’ex convento di Santo Spirito fu trasformato in edificio civile – Palazzo Carmi – da Pietro Marchelli e ora è sede dell’Archivio di Stato. 45 Si veda Tiraboschi, ivi. All’opera di Dallamano accenna anche Giovanni Cadioli nella Descrizione delle pitture, sculture ed architetture che si osservano nella città di Mantova e ne’ suoi contorni, Mantova 1763, p. 39. Inoltre, per l’attività dei maestri bolognesi si veda D. Lenzi, Dal Seghizzi al Monti ai Bibiena. Architetti e scenografi bolognesi a Mantova sotto gli ultimi Gonzaga, in Il Seicento nell’arte e nella cultura con riferimento a Mantova, Milano 1985, pp. 164-173. 46 A. Zerbini, Biblioteca Estense di Modena, Camp. App. 2652 – Malmusi (famiglia), Documenti B 91 (1), trascr. in E. Corradini, Ricordando il duomo: l’immagine della cattedrale nelle descrizioni dei viaggiatori e nelle guide artistiche, in E. Corradini, E. Garzillo, G. Polidori (a cura di), Domus Clari Geminiani. Il Duomo di Modena, Milano 1998, pp. 251252. 41 soffitto nella Sala dei Canonici annessa alle sagrestie del Duomo, già ascrittagli da Tiraboschi. 47 Con ogni probabilità, il committente fu il conte reggiano Ludovico Masdoni, Vescovo di Modena dal 1691 al 1716. Dallamano dilata verso l’alto l’ambiente d’impianto rettangolare, di non amplissime dimensioni, avventurandosi nella resa di una spettacolare prospettiva: in una vertiginosa visione di sott’in su, un profondo cornicione, retto da mensoloni alternati a nicchie a ogiva come finte unghiature, ritaglia un rettangolo superiore, che a sua volta inquadra una cupola con lacunari di gusto archeologico, sorta di citazione dal Pantheon; questa si apre su un cielo ove nubi e cherubini fanno corona attorno alla colomba dello Spirito Santo. E’ una morfologia architettonica massiccia, organizzata entro un sistema centralizzato, e soprattutto bizzarra al punto da parere visionaria, dato distintivo delle creazioni di Dallamano: se pure è verosimile per correttezza prospettica, è talmente inusitata per estrosità della compilazione e fantasiosità degli elementi da non poter proporsi come “prosecuzione” di una struttura reale. L’espediente della prospettiva dipinta per amplificare la spazialità di una sagrestia trova in Modena un illustre precedente nella citata sagrestia di San Biagio nel Carmine, con la volta dipinta da Girolamo Curti, coadiuvato da Mitelli e Colonna. E anzi si crede che proprio gli esempi di questi ultimi maestri abbiano profondamente influito sull’elaborazione del personale linguaggio di Dallamano. Mentre un episodio successivo si rinviene nella sagrestia di San Domenico, dove il plafond verrà affrescato da Giuseppe Pellacani (Carpi 1728 – 1773 post) nel 1771, a colonnati che si slanciano verso l’alto. 48 Ma certamente l’episodio di maggior rilievo nel catalogo modenese di Giuseppe Dallamano è il ciclo affrescato nei tre soffitti di Palazzo Galliani Coccapani poi Boschetti, sull’antico stradone del Naviglio, odierno corso Vittorio Emanuele II (n.c. 41), reso noto da chi scrive e appunto ricondotto all’artista in quanto alle illusionistiche architetture, e a Francesco Vellani per le parti figurate, ossia le coppie di Allegorie di Virtù sedute su nubi, i cartigli con scene dall’Antico Testamento e dalla storia romana e i numerosi putti che animano le quadrature: 49 un sodalizio, questo di Dallamano e Vellani, che, come s’è visto, si rinviene anche nella sagrestia di Santa Margherita. La committenza del ciclo, che interessa tre sale al piano rialzato sulla facciata e sul lato prospiciente vicolo Bondesano, va con ogni probabilità riconosciuta, come argomenta Marco Dugoni, al marchese Alessandro Galliani - erede dello zio Giovanni Galliani (m. 1711) consigliere e segretario di Stato del duca Rinaldo d’Este – che portò avanti il cantiere di riqualificazione del palazzo; 50 pertanto, l’intervento pittorico si collocherebbe fra il 1711 e il 1717, anno della partenza di Dallamano per il Piemonte; a meno di non pensare a un successivo e non documentato rientro in Modena dell’artista, ipotesi che si ritiene assai improbabile. La prima sala inscena una grandiosa quadratura, che all’attacco del plafond finge un robusto cornicione su cui si erge una struttura architettonica traforata, composta da un raccordo a grandi mensoloni nelle zone angolari – occupate da putti stanti, del “figurista” Vellani, che sollevano canestri di variopinti fiori – e da una sorta di balaustrata elissoidale, interrotta in lunghezza da due arcate laterali a volute affrontate; ciascuno dei due segmenti concavi della balaustrata reca al centro una larga conchiglia germinante di foglie, ai lati della quale si stagliano due medaglioni con teste “all’antica”, o meglio profili laureati di imperatori, spettanti sempre al pennello di Vellani. L’ampia apertura, di sagoma pressoché ovale, è orlata da un fregio vegetale con frutti, nella stilizzazione 47 A tale proposito si veda A. Garuti, Dalla scena al privato: testimonianze della decorazione prospettica a Modena nel XVIII secolo, in C. Gianturco (a cura di), Alessandro Stradella e Modena, Atti del convegno internazionale di studio (Modena 1983), Modena 1985, p. 208. 48 L’attribuzione è stata realizzata, su base documentaria, da G. Martinelli Braglia, Valori storici e architettonici della chiesa di S. Domenico in Modena, in Aspetti e problemi del Settecento, cit., p. 88; inoltre si veda A. Garuti, Un infinito spettacolo tra natura e artificio, in Colli, Garuti, Martinelli Braglia, cit., pp. 85, 86 e 89. 49 Si veda G. Martinelli Braglia, Dal barocco al rococò. Note su alcuni palazzi modenesi, in G. Bertuzzi (a cura di), Il rinnovamento edilizio a Modena nella seconda metà del Settecento, Modena 1983, III, pp. 181-186. 50 Cfr. Dugoni, cit., pp. 68- 69. corposa propria di Dallamano. Al sapore prettamente barocco del testo quadraturistico fa suggestivo contrasto il tratto, di fragranza rocaille, di Vellani, che evoca, con levità formale e brillantezza cromatica alla veneta, le allegorie della Giustizia, bendata, con la bilancia, e della Fortezza, munita di elmo e lancia, con accanto un rocco di colonna, ai piedi il leone accucciato, in atto di prendere un fascio – altro simbolo di forza – da un amorino: dunque, una Fortezza armata, ma temperata dalla presenza della Giustizia. Tali raffigurazioni, come quelle delle successive allegorie, sono fedelmente desunte dall’Iconologia di Cesare Ripa, che dal 1603, anno della sua pubblicazione illustrata, era divenuta imprescindibile testo di riferimento per le arti figurative. Il programma iconografico della volta è completato dai quattro cartouches che si scorgono in un illusorio sfondo sotteso oltre la struttura traforata: cartouches a monocromo “sorretti” da plastici mensoloni, che mostrano, ai lati, episodi dell’Antico Testamento correlati alle Virtù rappresentate nell’occhio di cielo; così, sui lati maggiori, l’Uccisione di Assalonne, figlio di re David, e Giuditta che consegna alla serva la testa recisa di Oloferne, exempla di giustizia divina e di fortezza. E vi si ammira il tratto lievissimo, frizzante, neomanieristico nell’affinata sigla formale, di Francesco Vellani, che in questi e nei successivi cartigli tocca un apice di grazia barocchetta. L’idea dell’architettura traforata, filtrante, oltre la quale si scorge un altro ambiente, in un serrato gioco illusionistico, sembra rimandare agli esiti sperimentati da Ferdinando Galli Bibiena nella decorazione di Santa Maria del Serraglio a San Secondo Parmense, del 1685-’87, dove una calotta si frappone a un vano ulteriore, in uno scenografico moltiplicarsi dell’illusione spaziale. Nella successiva sala, Dallamano orchestra, sopra al finto cornicione, un raccordo architettonico a sguscio, che asseconda l’andamento bombato del soffitto. Anche in questo caso la soluzione decorativa è analoga per contrapposte pareti; rispetto alla scena al centro della volta, nelle pareti laterali grandi cartigli figurati compongono una specie di frontone, fra due mensole su cui di adagiano puttini che a cui il figurista Vellani assegna uno strumento musicale: il tamburello, lo zufolo, il triangolo, la siringa. Sotto al cartiglio è teso un festone con frutta – mele, melagrane, uva, uva “galletta” - , eseguita con una freschezza cromatica e una lucentezza di tocco da lasciar ipotizzare, come per tutti i fragranti inserti floreali che ravvivano il ciclo pittorico, il coinvolgimento di un artista specializzato in nature morte. Verrebbe anzi da pensare a Felice Rubbiani (Modena 1677 – Villa San Pancrazio, Modena 1752), allievo del pittore “fiorista” Domenico Bettini, fecondissimo autore di simili soggetti assai ambiti anche fuori dai confini del ducato, che collabora con Vellani in vari dipinti “da cavalletto”, come nei due ovali in collezione privata con l’Allegoria della Musica e l’Allegoria della Pittura. 51 Nei lati opposti, Dallamano risolve il raccordo architettonico con un timpano curvilineo fra turgide volute – quelle sottostanti ornate ancora da frutti – a sostegno di un cartiglio figurato; lateralmente, entro due finte unghiature con lo sfondo cocleato, si innalzano vasi traboccanti di fiori. Sui quattro lati, accanto ai timpani si stagliano panoplie – otto in tutto – che assemblano scudi, spade, elmi, corazze, cannoncini, scimitarre, faretre…, dando ennesimo saggio del talento estroso del quadraturista. Sopra l’ornatissimo raccordo a sguscio s’innalza, come sorretta da mensoloni, una trabeazione dal perimetro quadrato, conclusa da una ringhiera in ferro, che costituisce l’affaccio di un ambiente d’impianto circolare, aperto sul cielo, ove si stagliano le due Allegorie. Affascinante l’invenzione dei drappi stesi al vento sulle quattro parti centrali della ringhiera, di un verde smagliante con frangia d’oro, su cui, sempre in oro, è ricamato un arabesco che elegantemente si svolge attorno alle lettere C al centro e G ai lati, iniziali di Coccapani e Galliani; mentre dietro ai drappi si alterna un putto o una coppia di putti, che Vellani rappresenta intenti in un ideale dialogo di sguardi con lo spettatore. Un espediente figurativo di garbato coinvolgimento, che non può non rimandare ai molteplici esempi sulle pareti e nelle volte del Palazzo Ducale di Sassuolo, straordinaria fucina di creazioni iconografiche: dal Salone delle Guardie di Colonna e Mitelli, con 51 Su Rubbiani si veda G. Martinelli Braglia, Felice Rubbiani, in G. Martinelli Braglia, M. Rossi (a cura di), Artisti modenesi nella collezione Assicoop Modena – Unipol, catalogo della mostra, Carpi 2004, pp. 7 e 19, con bibl. e, per gli episodi condotti con Francesco Vellani, come i due citati ovali, si rimanda a Dugoni, cit., pp. 184-185. musici, paggi e cortigiani che si affacciano dalle balaustrate fra lo sventolare di parati con lo stemma estense, alla Galleria boulangeriana con le Storie di Bacco su finti arazzi, fra i quali scherzano e giocano putti. Sulle nubi di questa seconda volta sono assise, leggiadre e arcadiche figure, la Prudenza e la Temperanza, accompagnate dai consueti attributi: la prima lo specchio, il serpente e, accanto, il cervo; la seconda il morso e l’elefante, animale che si riteneva assumesse sempre la stessa quantità di cibo. Completano il discorso didascalico delle due Virtù le scene delle quattro cartelle: la Continenza di Scipione e Caio Mario rifiuta i doni dei nemici, esempi di incorruttibilità che risuonano programmatici nella dimora di un personaggio pubblico quale il committente; Il sogno di Giacobbe e Due personaggi dell’Antico Testamento (Mosè e Aronne?). Le scene dei cartigli appaiono pertanto un complemento dimostrativo al discorso d’alta retorica affidato alle immagini, in modo analogo che in varie sale del ciclo sassolese, nella Camera delle Virtù estensi, per richiamare un caso soltanto. E anche in questa seconda sala Galliani si manifesta un horror vacui a cui fa riscontro un’eccezionale fecondità inventiva. Se pure vi si allude a una continuità fra spazio fisico e spazio dipinto, quest’ultimo si configura in una morfologia assolutamente improbabile, tanto da parere inverosimile la prosecuzione dell’architettura reale nell’architettura dipinta, a differenza, ad esempio, degli impalcati quadraturistici della scuola emiliana di Mitelli e dei Bibiena, che tende a correlarsi alla dimensione reale con una persuasiva continuità virtuale. Si assiste allora, in queste volte di Palazzo Galliani Coccapani, a una crisi dell’illusionismo, in quanto la verosimiglianza dell’imagerie viene sacrificata alla fantasia creativa, la quale, più che “ingannare”, stupisce e sconcerta lo spettatore. Nel terzo soffitto, pesantemente ridipinto in epoca successiva, il dettato quadraturistico ha subito una riduzione nei settori marginali verso le pareti; se n’è infatti conservato soltanto il riquadro centrale attorno all’apertura sul cielo, pressoché circolare, contornata da un serto d’alloro – simbolo di eternità -, ove campeggia la coppia di allegorie. L’affresco finge una serie di nicchie, fra volute coronate da un serto, o definite da frontoni ricurvi, entro le quali si alternano motivi a conchiglia e, nelle zone angolari, coppie abbracciate, i cui corpi si metamorfosano in volute vegetali, quasi Amadriadi, come assorbite dal fregio che scorre alla base; figure fantasiose, d’estro neomanieristico, spettanti a Vellani, che richiamano le arpie dalle estremità caudate nella decorazione di Marcantonio Franceschini nella Cappella del Tesoro in San Prospero a Reggio, del 1701. 52 Le superfetazioni pittoriche appiattiscono, o quanto meno falsano, il discorso architettonico di Dallamano; mancano inoltre i cartigli che sono una costante delle altre due sale, quasi certamente eliminati con la riduzione del testo quadraturistico. Al centro si stagliano due allegorie di Virtù accostate alle quattro precedenti, Cardinali: la Sincerità, recante un cuore e una colomba bianca, e la Diligenza, che tiene nella destra un ramo di timo su cui vola un’ape – “industriosa diligenza” - , nella sinistra un ramo di gelso, con accanto un gallo, simbolo di vigilanza e di sollecitudine. L’apparato architettonico, condotto da Dallamano con intelligenza ottico-geometrica per gli effetti tridimensionali, calcolando la curvatura del plafond, appare sempre enfatizzato nella consistenza plastica da un chiaroscuro marcato, che conferisce risalto a volute, cartigli, medaglioni, in una ricerca di evidenza massiva, quasi scultorea, secondo una robustezza formale tipicamente bolognese. Il gioco mimetico dei materiali finge ora lo stucco, ora il marmo, ora l’oro; vi brilla il prezioso contrappunto dei fiori nei vasi policromi e dei festoni dei frutti, eco della tipologia ornatistica che si dispiega negli ambienti della reggia sassolese. Nel ciclo di Palazzo Galliani Dallamano sembra anticipare gli esiti della sua opera più celebrata: gli affreschi del salone centrale nella Villa della Regina a Torino, databili attorno al 1730. Nel vano a doppia altezza, l’artista fingerà un’architettura a colonne libere a sostegno di una balaustrata, che è reale e praticabile sui lati di levante e ponente della sala, mentre, acme di virtuosismo illusionistico, è solamente dipinta lungo gli altri due lati. Al piano superiore, Dallamano prosegue i colonnati con trabeazioni si cui s’innestano volute a sostegno delle 52 Si rinvia a A. Mazza, E. Monducci (a cura di), Agli albori del Settecento. Un capolavoro nascosto di Marcantonio Franceschini nella Basilica di San Prospero a Reggio Emilia, Reggio Emilia 2001, pp. 67-70. vertiginose “architetture” del plafond, ed esibisce timpani, cornici, cartigli, panoplie, decorazioni floreali e zoomorfe, conferendo all’ambiente una straordinaria opulenza figurativa. E’ il trionfo dell’illusionismo barocco più immaginoso, che, accanto a commenti ammirati, susciterà riserve, ben comprensibili nell’incipiente clima rocaille, incline a scelte formali più raffinate e discrete: “Questo salone è ornato d’architettura dipinta nel cattivo gusto italiano – ne riferirà Charles Nicolas Cochin nel suo Voyage d’Italie, stampato a Parigi nel 1758 -, unisce grosse modanature e ornamenti pesanti… Questa pittura che ‘inganna l’occhio’ è realizzata in una maniera secca”, probabile allusione alla nitidezza tagliente dei contorni e al perentorio contrasto chiaroscurale. 53 Il repertorio ornamentale del salone torinese, con le finte colonne in marmo colorato come malachite, le panoplie dorate alle pareti legate con nastri azzurri, le aquile entro i frontoni curvilinei che coronano le porte, sembra recuperare soluzioni che Colonna e Mitelli e poi Bianchi e Monti avevano inscenato nel Palazzo di Sassuolo almeno ottant’anni prima. L’impegno di Giuseppe Dallamano per le committenze delle famiglie nobiliari modenesi dovette essere ben maggiore rispetto a quanto rimane. Riferisce Tiraboschi di pitture “assai pregevoli” che ornavano le sale del Palazzo dei marchesi Carandini. 54 Spettavano con ogni probabilità a Dallamano altre decorazioni che qualificavano il palazzo già dei marchesi Levizzani in corso Canalchiaro, su probabile commissione del sacerdote Paolo Camillo Levizzani, proprietario dell’edificio ai primi del ‘700. 55 Nell’edificio, in un vano sul lato prospiciente la via Levizzani, fino a qualche anno fa era visibile un plafond affrescato con ornati dalla tipologia peculiare all’artista, assai prossimi a quelli di Palazzo Galliani Coccapani; l’ambiente corrispondeva al settore occupato dal grandioso scalone, distrutto, ancora visibile in una planimetria del primo piano dell’edificio datata al 1926. 56 L’impresa decorativa del Collegio San Carlo Del catalogo modenese di Dallamano, ormai esiguo per le numerose distruzioni, non fu mai portata a compimento, e anzi è forse perduta nella parte eseguita, l’opera che più di tutte avrebbe dovuto dargli lustro: la decorazione della volta nella Galleria del Collegio dei Nobili o di San Carlo. La “Galleria d’Onore”, secondo l’idea di Bartolomeo Avanzini, l’architetto di Francesco I a cui fu affidato anche il progetto del Collegio, congiunge, con percorso da sud a nord, la “scala maggiore” alla superba Sala dei Cardinali, in cui s’innesta, perpendicolarmente rispetto alla Galleria, il Corridoio dei Rettori o anche “Corridoio del Teatro” che, da ovest a est, conduce appunto al Teatro. 57 Su committenza del padre Bartolomeo Fedeli, rettore del Collegio dal 1689 al 1721, questo percorso di rappresentanza, assieme ad altri locali, ricevette una sontuosa veste decorativa: “… gli autori delle pitture sono Giuseppe Dallamano modenese dalla metà della Galleria vecchia sino alla porta nel soffitto solamente e nel restante del detto soffitto un certo Spaggiari, che fece anche quella della Sala e della Cappella, il signor Giorgio Magnanini di Correggio in tutto il restante dell’altre pitture, ma nel teatro il signor Marco Bianchi a lui succeduto”, narra una Cronaca 53 Si rimanda, anche per la citazione da Cochin, M. Bernardi, Tre palazzi a Torino. Villa della Regina, Torino 1963, pp. 118, 125, 142, 146. 54 Tiraboschi, cit., VI, p. 406; G. Martinelli Braglia, L’idea del decoro nella Restaurazione modenese: il Palazzo Carandini, in G. Bertuzzi (a cura di), Il Palazzo Carandini, Modena 1987, p. 70. 55 Risulta di questo prelato la proprietà dell’edificio nel Libro delle stime delle case di Modena del 1716, cit. in G. Bertuzzi, Palazzo Levizzani Cugini. Palazzi a Modena, II, Modena 2000, pp. 73-84. Sulle testimonianze artistiche di questo notevole palazzo, ristrutturato nel 1743 da Alfonso Torregiani, esponente di spicco della cultura barocchetta emiliana, si veda G. Martinelli Braglia, Palazzo Levizzani, in Bertuzzi, cit., 1983, pp. 150-153. 56 Ripr. in Bertuzzi, cit., 2000, p. 83. 57 Si rimanda, per un approfondimento sulla struttura architettonica del Collegio e di queste sue parti, a V. Vandelli, Le forme del Collegio dei Nobili e della Chiesa. Il contesto urbano e l’architettura, in D. Benati, L. Peruzzi, V. Vandelli (a cura di), Il Collegio e la Chiesa di San Carlo a Modena, Modena 1991, in particolare le pp. 91-92. Si rimanda inoltre all’ipotesi ricostruttiva della destinazione originaria degli ambienti al piano nobile del Collegio in Benati, Peruzzi, Vandelli, cit., pp. 122-123. settecentesca del Collegio, che illumina anche sul complemento “figuristico” delle quadrature, assegnato ad Antonio Consetti nella perduta cappella, nella Sala dei Cardinali e nella Galleria, presumibilmente nella volta, tuttora coperta da successive tinteggiature, e a Francesco Vellani nelle Gallerie di San Contardo, di San Filippo e della Madonna. 58 La successione cronologica degli interventi nella Galleria è deducibile dai riferimenti di Mauro Alessandro Lazarelli, che nel 1714 la vedeva “tutta dipinta nel volto”, per aggiungere in seguito l’appunto che si lavorava ai “fianchi” fra il 1715 e il ’16. 59 Uno straordinario complesso decorativo, dunque, che accoglieva l’apporto di Giuseppe Dallamano accanto ai contributi dei maggiori artisti del Ducato. In questi ambienti, da un lato si celebrava un momento di particolare rigoglio per il Collegio, dall’altro si promuoveva il prestigio dell’istituto stesso, che dal 1682 poteva offrire all’aristocrazia, non solo locale ma anche italiana ed estera, uno “Studio pubblico”, con insegnamenti equiparabili a quelli universitari. 60 Se è stata finora la spettacolare Sala dei Cardinali a focalizzare l’interesse della storiografia, ci si vuole ora soffermare sulla “Galleria d’Onore” - oggetto di un recentissimo restauro eseguito da Dina Tacconi, su incarico della Fondazione San Carlo - che ha riportato alla luce ampie zone ornate da quadrature. La Galleria prospetta nel lato orientale sul vasto cortile interno, mentre sul lato opposto si aprono tre porte su vani prospicienti via San Carlo, in origine camerate; copiosamente illuminata dalle ampie finestre, con altre luci scenograficamente filtrate dalla Sala dei Cardinali, doveva costituire uno dei percorsi interni più imponenti della Modena barocca, che le prospettive dipinte avrebbero dovuto dilatare nella spazialità, accrescendone la magnificenza. Come s’è visto, a Giuseppe Dallamano venne affidata la decorazione della volta a botte; ma l’artista, a causa del carattere bizzarro, dipinse soltanto metà della sua superficie, che fu così “capricciosamente lasciata imperfetta”.61 La volta, ora tinteggiata in un tenue azzurro, ai pur approfonditi saggi di pulitura non ha rivelato le quadrature, che, secondo le fonti, sarebbero state per metà della sua lunghezza abbozzate da Dallamano, e quindi proseguite da Pellegrino Spaggiari (Reggio Emilia 1680-1746), con l’apporto di Antonio Consetti (Modena 1686-1766) per le figure. V’è da chiedersi se Dallamano abbia suddiviso una superficie di tale lunghezza in scomparti, ciascuno con una sua ripresa prospettica, con un proprio punto di fuga, in ottemperanza a quel “poliprospettivismo” tipico della quadratura bolognese. 62 Completò tale decorazione Pellegrino Spaggiari, che appartiene al novero dei discepoli reggiani dei Bibiena; e per inciso, la ricorrente origine reggiana dei decoratori è riprova della vivacissima tradizione della seconda città del ducato nel campo teatrale e scenografico. Al fianco di Francesco Bibiena, Spaggiari lavorò alla realizzazione delle scene de I Rivali generosi, su testo di Apostolo Zeno, presentato nel Teatro della Comunità di Reggio nel 1710. Eloquente è la sua qualifica di “Pittore, et Ingegnere, Allievo de’ Signori Fratelli Galli detti Bibieni”, apparsa sul libretto de Il Trionfo di Camilla di Giovanni Bononcini, allestito in Reggio nel 1713 e replicato nel 1633. 63 Come scenografo, fu attivo anche a 58 Il brano dalla Cronaca manoscritta del Collegio de’ Nobili in Modena dal X gennaio 1762 al 20 giugno 1769, ascritta al Barbieri, nell’Archivio del Collegio San Carlo, è riportato in J. Bentini, P. Curti, La decorazione pittorica del Collegio, in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo, cit., pp. 185-197, e in particolare la p. 185. Inoltre si veda di P. Curti, L. Righi Guerzoni, La Sala dei Cardinali nel Collegio San Carlo di Modena. Il completamento del restauro, dépliant, Modena 1995, che idealmente integra il citato saggio di Bentini e Curti. 59 Si rinvia a Lazarelli, cit., p. 75. 60 Di questo “Studio” si veda il documento d’istituzione, parzialmente trascritto e riassunto, in A. Biondi, I secoli del San Carlo, in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo, cit., p. 40. 61 Così Tiraboschi, cit., p. 406; inoltre C. Campori, Storia del Collegio San Carlo, Modena 1878, pp. 71 e 90. 62 Matteucci, in Pincelli, Vandelli, cit., p. 90, a cui si rimanda per la definizione di poliprospettivismo o plurifocalità, tratto pressochè costante nella quadratura bolognese. 63 Oltre a questi allestimenti, Pellegrino Spaggiari curò quello di Alessandro nelle Indie di Domenico Sarro, 63 Così Tiraboschi, cit., p. 406; inoltre C. Campori, Storia del Collegio San Carlo, Modena 1878, pp. 71 e 90. 63 Matteucci, in Pincelli, Vandelli, cit., p. 90, a cui si rimanda per la definizione di poliprospettivismo o plurifocalità, tratto pressochè costante nella quadratura bolognese. 63 Oltre a questi allestimenti, Pellegrino Spaggiari curò quello di Alessandro nelle Indie di Domenico Sarro, rappresentato nel 1733; di quest’opera e de Il Trionfo di Camilla, già citato, si conservano bozzetti scenici a lui Milano nel 1728, e nel 1733 si recò a Parigi al seguito del duca di Vendome. Nella produzione ornatistica, eseguì le decorazioni nel salone della delizia estense di Rivaltella, ritenute il suo più felice lavoro, fra il 1724 e il ’27, e affrescò la cappella a destra del presbiterio nel Duomo di Parma. Nel corpus di Pellegrino Spaggiari, l’impresa quadraturistica nella Sala dei Cardinali, “teatro” dell’esibizione di Allegorie di Virtù e Arti per il pennello di Antonio Consetti, conferma la determinante influenza bibienesca, nelle soluzioni architettoniche per stratificate sovrapposizioni e aerei trafori, nonché nell’applicazione della “veduta ad angolo” nelle balaustrate. 64 Balaustrate dipinte che riprendono testualmente sia la curvatura, sia la sagoma dei pilastrini della balaustrata lignea che percorre il salone a doppia altezza, accentuando l’illusorio effetto di continuità fra architettura reale e architettura dipinta; una mimesi che si ritroverà nel Salone della Villa della Regina di Dallamano, con il prosieguo ad affresco della ringhiera, “reale” soltanto su due lati dell’ambiente. Il complesso telaio architettonico della Sala dei Cardinali è fissato in un punto di ripresa prospettica posto all’incrocio delle diagonali; lo stesso delle quadrature eseguite da Spaggiari nelle quattro campate laterali di San Bartolomeo, il tempio modenese della Compagnia di Gesù. Qui, mensoloni ed edicole balaustrate si articolano in una visione arditamente scorciata; e ogni campata dipinta possiede un “fuoco” proprio ed è pertanto leggibile autonomamente, in ossequio alla concezione poliprospettica o plurifocale della quadratura bolognese. Nella stessa chiesa, diverso è il sistema che regola le architetture dipinte nel settore centrale e nella finta cupola, del 1693, dal gesuita Giuseppe Barbieri (Termignon, Savoia 1647-Borgo San Donnino 1733), discepolo del celebre padre Andrea Pozzo:65 sistema assolutamente unitario e monoprospettico, leggibile nella sua organicità da un punto di vista unico e predeterminato, secondo i principi esposti nel trattato di padre Pozzo Perspectiva pictorum et architectorum, il cui primo volume fu stampato nel 1693. Ma tornando alla “Galleria d’Onore” del Collegio San Carlo, sulla parete occidentale è riaffiorato un notevole testo quadraturistico a finto loggiato, opera di Giorgio Magnanini (Correggio, Reggio Emilia 1682 – Modena 1755), secondo la settecentesca Memoria del Collegio, alle date del 1715-’16, come riferisce Lazarelli. Allievo di Ferdinando Galli Bibiena e autorevole esponente della quadratura nel Ducato, Magnanini fu impegnato nei cantieri estensi del Palazzo Ducale di Sassuolo, ove nel 1751 ridipinse lo sfondato nella volta della Sala dell’Amore, e della vicina “delizia” estense della Casiglia. 66 Frequente la sua attività in chiese e conventi modenesi: fra le sue imprese, perdute, in San Francesco la cappella dei marchesi Levizzani nel 1714, in San Vincenzo le pareti della cappella di San Gaetano Thiene, in Santa Margherita quella di San Francesco, mentre nel primo chiostro del convento del Carmine lasciò due prospettive probabilmente a conclusione dei “cannocchiali” visivi determinati dai porticati. 67 Lavorò a Carpi, ove in Sant’ Ignazio, già dei Gesuiti, dipinse nell’abside, attorno alla Gloria di Sant'Ignazio di Giacinto Brandi, una finta ancona in marmi, con coppie di colonne che reggono un grandioso timpano recante il monogramma di Cristo, sormontato da un baldacchino in cartapesta che finge un apparato: straordinario l’effetto illusionistico fra architettura e pittura, materiali “autentici” e imitati; perdute invece le decorazioni nell’abside di San Francesco, sulla facciata della distrutta San Nicola attribuiti, pubblicati da Marinella Pigozzi, in In forma di festa, cit., pp. 46-47, schede nn. 24-26; della stessa, il saggio I teatri, i palazzi, le chiese, ivi, p. 19 n. 5, con bibliografia relativa a Spaggiari. Inoltre si veda anche G. Campori, cit., pp. 225 e 499. 64 Si rimanda, per un approfondimento iconografico di questo apparato pittorico, a Curti, Righi Guerzoni, cit. 65 Cfr. Bentini, Curti, cit. pp. 186-188. Per il cantiere della decorazione pittorica di San Bartolomeo si rimanda a F. Barocelli, La devozione e l’immagine. San Bartolomeo, la chiesa dei Gesuiti di Modena, in L’arte degli Estensi. La pittura del Seicento e del Settecento a Modena e Reggio, catalogo, Modena 1986, pp. 51-58 e in particolare le pp. 5457. 66 Giorgio Magnanini viene definito da Giuseppe Fabrizi “uno de’ nostri migliori quadraturisti di questo secolo”: G. Fabrizi, Sposizione delle pitture in muro del Ducale Palazzo della nobil terra di Sassuolo grandiosa villeggiatura de’ Serenissimi Principi Estensi, Modena 1784, p. 25; la citazione è tratta da Mazza in Trevisani, cit.; per le decorazioni realizzate nella Casiglia si veda il contributo sull’arredo di questa residenza estense di Luca Silingardi in “QB Quaderni della Biblioteca”, 2004, (Sassuolo) 2005; inoltre Campori, cit., pp. 224, 412. 67 Cfr. Soli, cit., I, pp. 200, 341; II, pp. 46, 329, 330, 380, 382, 384; III, pp. 284, 310, 362. da Tolentino e in due cappelle di San Giovanni Battista, pure demolita, risalenti al 1710. Inoltre, nella casa già dei nobili Pozzuoli sulla quinta porticata della piazza antistante il Castello, ora sede della Cassa di Risparmio di Carpi, dipinse “a fresco sul muro… i due mezzani… con una loggia ed un volto di una scala tutti dipinti a superbi ornati, maestose architetture, a verdi campagne con una quantità d’uccelli di varie specie al naturale”. Dalla descrizione dello storico Eustachio Cabassi, 68 emerge che l’intervento in casa Pozzuoli doveva presentare analogie, nel motivo del loggiato, con questo nel Collegio San Carlo; una contiguità anche di stile, rilevabile dal confronto con un frammento di sfondato al piano terreno del palazzo carpigiano, assegnato a Magnanini da Alfonso Garuti: la soffittatura si dilata in una visione dal basso di colonne, tra cui scorre una balconata, ornata da drappi, cartigli, vasi e cesti con fiori e frutta, impreziosita dalla variopinta presenza di esotici pappagalli, 69 con soluzioni molto simili a quelle di Dallamano nel Palazzo Galliani Coccapani. Le recuperate “inedite” pitture della Galleria del San Carlo consentono ora di ritrovare un importante episodio non solo del corpus di Magnanini, ma anche della quadratura in area estense. In una cromia attenuata per le successive ridipinture, sulla lunga parete occidentale le “architetture dell’inganno” s’innalzano come aereo loggiato contro uno sfondo azzurro di cielo, oltre un muretto di recinzione, congiungendo edifici in corrispondenza delle tre porte reali. Quella al centro si colloca entro un illusionistico fastoso portale, con timpano a due volute recanti coppie di stemmi. In una finta mensola sulla destra del riguardante, una sfera armillare sembra alludere alle scienze del cursus studiorum del Collegio; priva di colore, sembrerebbe allo stadio di mero abbozzo. Rispetto a questo portale mediano, i due laterali, per i quali è stato utilizzato il medesimo spolvero, presentano alcune varianti. Come i portali, anche le arcate che collegano gli edifici - una è doppia, con colonna centrale, a guisa di grande bifora - sono ornate da cartigli per stemmi spesso accostati e coronati, alcuni vuoti, altri con inclusi simboli araldici. Interesse peculiare possiede, nella prima doppia arcata, la prospettiva di un edificio porticato, con tre colonne in forte scorcio, assimilabile a un vero e proprio frammento di scenografia. La breve parete nord, con l’accesso alla Sala dei Cardinali, presenta massicce volute con stemmi pure coronati. Le finte architetture, con l’apparato dei rilievi e delle modanature, è reso con una tonalità chiarissima, di poco più bruna nell’ombreggiatura dell’illusionistico spessore, come a fingere la nobile materia del marmo bianco di Verona. Vi spiccano i nastri azzurri che annodano gli stemmi, come le corone e i cartigli giallo oro. E’ un discorso quadraturistico di relativa semplicità, che approda al barocchetto alleggerendo appena una morfologia barocca, e che tenta un aggiornamento inserendo taluni tratti di moderato gusto rocaille, senza tuttavia rinunciare al dominante criterio di simmetria. Ovviamente, sarà da immaginarsi in una ben diversa contestualizzazione coloristica, improntata dalla calda tonalità dell’antica pavimentazione in cotto.70 Sono inoltre ritornate alla luce altre pitture di Magnanini, fra le numerose documentate nel Collegio San Carlo, eseguite almeno fino al 1754, 71 come quelle nel Teatro, perdute, che si sa ultimate da Marco Bianchi (Correggio, Reggio Emilia, doc. 1740 – Modena 1790).72 E’ riemerso 68 Si veda la voce Giorgio Magnanini in E. Cabassi, Notizie degli Artisti Carpigiani, a cura di A. Garuti, Modena 1986, pp. 126-127 e pp. 220-221, nn. 276-280; inoltre, Garuti, in Alessandro Stradella e Modena, cit., p. 213. 69 Le decorazioni dell’antica casa Pozzuoli sono riprodotte in Garuti, in Colli, Garuti, Martinelli Braglia, cit., p. 61. 70 Per la pavimentazione della Galleria si veda la stampa fotografica d’inizio ‘900 ripr. in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo, cit., p. 51. 71 Cfr. Bentini, Curti, cit., p. 187. 72 Il correggese Marco Bianchi, quadraturista prediletto dalla duchessa Maria Teresa Cybo, consorte di Ercole III d’Este, fu autore di ornati nella residenza estense di Mugnano; si veda J. Bentini, P. Curti (a cura di), Inventario ristretto di Mugnano. Catalogo delli quadri di Mugnano, Modena 1994, pp. VII, XXI, 74, 76, 88. Nel 1753 affrescò con prospettive il salone centrale della villa dei nobili Meloni, poi Benassi, a Santa Croce di Carpi, pitture cancellate dall’intervento del 1876 di Fermo Forti; rimangono nella villa soltanto sovrapporta a motivi floreali in una camera; così Garuti, 1985, cit., p. 213 e A. Garuti, D. Colli, Carpi. Guida storico-artistica, Carpi 1990, p. 336. Artista dalla cospicua esperienza in campo teatrale e scenografico, realizzò decorazioni pittoriche, perdute, in chiese modenesi fra cui San Barnaba, ove dipinse con altri le cappelle minori dal 1744 al 1749, l’antica Sant'Eufemia, San Francesco, le distrutte l’ornato nella piccola volta a plafond, al termine della galleria, o “Corridoio del Teatro” che collega la Sala dei Cardinali appunto al Teatro, in cui si riconosce quella decorazione nella “galleria scura davanti la camera di Tomaso Grassetti”, che Magnanini eseguì nel 1741: 73 nel soffitto, su un fondo neutro un aggraziato telaio di mensole e volute “fiorisce” di foglie d’acanto, convergenti a un motivo circolare al centro; mentre le porte, rilevate da finte modanature, sono sormontate da cartelle, il tutto in una chiara tonalità sempre a imitazione del biancone di Verona. E ancora, nello stesso corridoio, si rileva lo stile di Magnanini nel grande stemma sulla parete sopra la porta d’accesso alla Sala dei Cardinali, con cartiglio dalla asimmetrica sagoma rocaille, sulle variazioni fitomorfe dell’acanto. Sovviene, a tal punto, delle decorazioni che Ferdinando Galli Bibiena aveva affrescato nel Collegio dei Nobili di Parma, dal 1680 all’84, su chiamata del duca Ranuccio II Farnese. Un disegno per l’ornato di una facciata dell’edificio (Roma, Gabinetto Nazionale delle Stampe), dove “l’elemento architettonico… tende all’iperbolico”, 74 e le incisioni di Carlo Antonio Buffagnotti per altri prospetti (Milano, Museo Teatrale alla Scala) rimangono ad attestare la magnificenza di questa perduta impresa bibienesca: “non solo il prospetto dell’edificio – riferisce Anna Maria Matteucci – ma l’intera piazzetta era affrescata, e così lo erano il Salone delle Accademie ed il teatro, la celebre cappella e, naturalmente, i cortili per il gioco della palla e della lizza”. Si trattava dunque di un “trompe-l’oeil generalizzato che riscattava l’inerzia di ambienti non progettati…”. 75 E si crede che a questo alto modello parmense si sia ispirata, pur nell’ovvia diversità di livello compositivo e qualitativo, l’opera dei quadraturisti d’ambito estense nel cantiere del San Carlo. Più agevolmente accostabile a questo è il ciclo decorativo che sulla metà del ‘700 interessa il convento dei Serviti di Santa Maria delle Grazie, ora San Rocco, a Carpi, sede del Centro Musicale e di Istituti culturali del Comune. Giovan Battista Fassetti, l’allievo reggiano di Dallamano, nella galleria che si snoda sopra al quadriportico del cortile centrale, dipinge portali che inquadrano gli accessi alle sale e alle celle, fingendo plastici rilievi in stucco, cartigli e frontoni, in una delicata cromia rococò che elegge i toni del rosa e del verde pallido e, ancora, prospettive al termine dei corridoi, ingannevoli tappezzerie e corami alle pareti, persino una porta socchiusa oltre cui s’intravede una gradinata. 76 “Pittore di molto nome negli ornati”, come Girolamo Tiraboschi scriverà di lui, Giuseppe Dallamano disertò, in modo singolare, l’esperienza dei teatri e delle scene, che pure sostanzialmente contribuiva, con la sua collaudata strumentazione d’artifici per ricreare spazi e architetture, alla pratica quadraturistica; e questo a differenza di tanti altri artefici che, diversamente, dividevano il loro impegno fra i ponteggi della decorazione e le assi dei palcoscenici, o i cantieri degli apparati effimeri. La produzione superstite di Dallamano negli Stati estensi si mostra di cospicuo interesse non solo perché documenta un vertice qualitativo, se non addirittura il vertice stesso, della quadraturistica modenese tra Sei e Settecento, ma anche perché esprime con evidenza un particolare frangente della decorazione prospettica nel ducato e oltre; e cioè quell’ “enfasi decorativa”, secondo la definizione di Anna Maria Matteucci, 77 quell’assoluta ridondanza di elementi ornamentali, come cartelle, mensole, festoni, volute arboree, rosoni…, che mortifica e ottunde il dettato architettonico San Lorenzo e Santa Margherita. Si veda Soli, cit., I, pp. 101, 113, 114, 115, 444; II, pp. 47, 243, 382; III, p. 310. Inoltre, A. Gandini, Cronistoria dei teatri di Modena, Modena 1873, pp. 99 e 106. 73 Trascr. in Bentini, Curti, 1991, cit., p. 197 nota 11; l’identificazione del vano è data dalla pianta di questo settore del Collegio che mostra la “Camera del Sig.e Graseti” nel vano adiacente a questa Galleria e al Teatro, riprodotta in Il Collegio e la Chiesa di San Carlo, cit., p. 240, n. 245. 74 A.M. Matteucci, Architetture dell’inganno, in A.M. Matteucci, A. Stanzani (a cura di), Architetture dell’inganno. Cortili bibieneschi e fondali dipinti nei palazzi storici bolognesi ed emiliani, Bologna 1991, p. 22. 75 Ivi. 76 Si veda A. Garuti, in A. Garuti, G. Gnoli, S. Rocco. La storia, il restauro, Carpi 1989, p. 18 e segg. 77 Matteucci, in La chiesa di San Francesco in Rocca, cit., p. 90. della quadratura stessa, che va perdendo la “sodezza” peculiare e la chiarezza sintattica propria della scuola bolognese. E’ un differente orientamento del gusto estetico ben testimoniato, ad esempio, dai soffitti di Palazzo Galliani Coccapani che si allontanano dalla verosimiglianza architettonica quanto più concedono alle divagazioni degli elementi ornativi, dettati da un capriccioso decorativismo. Nel mentre, le forme architettoniche si vanno sempre più ibridando rispetto al canone cinquecentesco codificato dalla trattatistica, sino ai più recenti Paradossi di Giulio Troili, le cui pagine danno conto del percorso quadraturistico attuato dai maestri bolognesi, da Girolamo Curti, Colonna e Mitelli, agli stessi Bibiena. E’ quel “progressivo abbandono di un coerente discorso architettonico” che fu, secondo Anna Maria Matteucci, una delle probabili cause dell’allontanamento dalla quadratura di uno dei suoi maggiori protagonisti, Gian Giacomo Monti, che nell’ultima fase della sua operosità si sarebbe riservato il prevalente ruolo di architetto.78 E’ in questa evoluzione che si collocano le trame architettoniche di Giuseppe Dallamano, di improbabile “materializzazione”, inverosimili, stranianti: ai sorprendenti effetti di sfondamento prospettico, corrispondono complicati congegni dalla morfologia bizzarra, che si apparentano, piuttosto, all’universo visionario delle effimere “macchine” barocche. Proprio in tale estro, dai tratti “saturnini”, risiede la peculiarità e il fascino delle creazioni dell’artista, anche rispetto alla scuola bolognese, alla cui matrice pure appartengono. 78 Ivi, pp. 90 e 93.