Stati Estensi

Studio sullo stemma civico di Finale Emilia, sulla sua origine e sui suoi caratteri estetici nonchè  sulla sua percezione nella storia della città.


Study on the civic coat of arms of Finale Emilia , about its origin and its aesthetic qualities as well as its perception in the history of the city .

Episodio fra i più completi e rappresentativi della cultura del Ducato estense fra Sei e Settecento, fra barocco e barocchetto - che del primo è l'evoluzione più raffinata e sottile - la chiesa di San Barnaba a Modena è un complesso in cui armoniosamente convivono dipinti, affreschi, presenze statuarie accanto ai saggi delle arti "minori", prezioso tessuto connettivo di arredi lignei, stucchi, scagliole, argenterie, parati. Vi spicca la cappella di san Francesco di Paola - il fondatore dei Minimi che ricostruirono e officiarono il tempio - che si può definire "estense" per la predilezione e i vari donativi dei principi di Casa d'Este.

Da quel 30 gennaio del 1598 in cui Cesare aveva fatto ingresso in Modena, sua nuova capitale dopo la perdita di Ferrara, esponenti di case nobiliari, funzionari e maggiorenti che partecipano alla vita della corte si trasferiscono in questa città. Tanto si riflette nel suo volto edilizio e urbanistico; anche se sarà dalla metà del secolo successivo che l'edilizia privata si rivestirà di più sontuose forme, con il concludersi delle Guerre di Successione e con l'avviarsi di un periodo di pace e di prosperità. Rare, nel versante privato, le preesistenze seicentesche, o quanto meno identificabili con difficoltà, spesso celate sotto gli interventi di successive ristrutturazioni e di adattamenti di gusto, dettati dall'esigenza di una fisionomia urbanistica e architettonica aggiornata e à la page particolarmente avvertita in una capitale. Fra i primi interventi urbanistici, la copertura dei "molti canali" che attraversavno la città. Tra le testimonianze superstiti, presenze monumentali e architettoniche nel Palazzo Bassoli Vicini e un ciclo affrescato nel Palazzo Boschetti di via Sant'Agostino mostrano l'influenza dei cantieri ducali e in particolare di quello della Reggia di Sassuolo. Mentre le incisioni de L'idea di un prencipe et eroe christiano, celebrative di Francesco I d'Este (1659), restituiscono scorci della Modena di pieno Seicento.

La produzione superstite di Dallamano negli Stati estensi si mostra di cospicuo interesse non solo perché documenta un vertice qualitativo, se non addirittura il vertice stesso, della quadraturistica modenese tra Sei e Settecento, ma anche perché esprime con evidenza un particolare frangente della decorazione prospettica nel ducato estense e nell'area piemontese; è quell’assoluta ridondanza di elementi ornamentali, come cartelle, mensole, festoni, volute arboree, rosoni…, che mortifica e ottunde il dettato architettonico della quadratura stessa, che va perdendo la “sodezza” peculiare e la chiarezza sintattica propria della scuola bolognese. E’ un differente orientamento del gusto estetico ben testimoniato, ad esempio, dai soffitti di Palazzo Galliani Coccapani a Modena, che si allontanano dalla verosimiglianza architettonica quanto più concedono alle divagazioni degli elementi ornativi, dettati da un capriccioso decorativismo. Nel mentre, le forme architettoniche si vanno sempre più ibridando rispetto al canone cinquecentesco codificato dalla trattatistica, sino ai più recenti Paradossi di Giulio Troili, le cui pagine danno conto del percorso quadraturistico attuato dai maestri bolognesi, da Girolamo Curti, Colonna e Mitelli, agli stessi Bibiena. E’ quel “progressivo abbandono di un coerente discorso architettonico” che fu, secondo Anna Maria Matteucci, una delle probabili cause dell’allontanamento dalla quadratura di uno dei suoi maggiori protagonisti, Gian Giacomo Monti, che nell’ultima fase della sua operosità si sarebbe riservato il prevalente ruolo di architetto. E’ in questa evoluzione che si collocano le trame architettoniche di Giuseppe Dallamano di improbabile “materializzazione”, inverosimili, stranianti: ai sorprendenti effetti di sfondamento prospettico, corrispondono complicati congegni dalla morfologia bizzarra, che si apparentano, piuttosto, all’universo visionario delle effimere “macchine” barocche. Proprio in tale estro, dai tratti “saturnini”, risiede la peculiarità e il fascino delle creazioni dell’artista, anche rispetto alla scuola bolognese, alla cui matrice pure appartengono.

Fra il 1741 e il 1743 l'antico palazzo del marchese Ippolito Levizzani, sul corso Canalchiaro a Modena, era oggetto di un profondo rifacimento su progetto del noto architetto Alfonso Torreggiani. Mentre la facciata, di sobria eleganza sul nobile portico a colonne marmoree, si è conservata sino ai giorni odierni, il cortile subì in passato notevoli alterazioni, tuttavia mantenendo importanti testimonianze del gusto rococò. Lo scalone monumentale venne invece distrutto nel 1925; una pianta dell'edificio di quell'anno documenta l'originalità della sua soluzione architettonica, che ne faceva una suggestiva "macchina" scenografica.

IT: Aspetti araldici, oltre che storici e figurativi, fanno di un inedito stemma estense ora identificato come del duca Cesare, dipinto ad olio su tela ovale (presso l’Istituto G. Ronchi di Monteombraro di Zocca), una testimonianza fra le più interessanti espresse dalla corte estense nei suoi primi anni modenesi. Dalla lettura degli elementi araldici, infatti, lo stemma avrebbe come termini ante quem il 1615 e post quem il 1605, se non il 1604, data in relazione al conferimento a Cesare del Toson d’oro da parte di Filippo III di Spagna. Tale è la sua qualità che se ne ipotizza una committenza ducale, come ovale da collocarsi a soffitto, magari entro cornice a stucco. Non si esclude un legame con i lavori di riqualificazione del Castello estense di quegli stessi anni, che vedevano tra i protagonisti Ercole dell’Abate, noto maestro della tarda Maniera locale. Pur senza addentrarsi in un’attribuzione ad personam, lo stemma appare saggio eloquente del clima del tardo manierismo modenese, come indicano anche i dati di stile della “cornice” di putti che lo racchiude.
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EN: Heraldic elements, as well as historical and figurative ones, helped to identify a previously unknown blazon as belonging to the Duke Ce-sare. An oil painting on an oval canvas (held at the G. Ronchi institute of Monteombraro, Zocca), it constitutes one of the most interesting testimonies expressed by the d'Este court in its early years in Modena. In fact, from a reading of the heraldic elements, the ante quem term of the blazon appears to be 1615 and the post quem 1605, if not indeed 1604, date which refers to the conferral to Cesare of the Golden Fleece by Philip III of Spain. Its quality is such that a ducal commissioning may be hypothesised, as an oval to be set into the ceiling , perhaps in a stucco cornice. Links cannot be excluded with the renovation works of the d'Este Castle in those same years, in which works were carried out by figures such as Ercole dell'Abate, a well-known maestro of the local late Mannerist style. But even without attempting to attribute the work to a specific figure, the blazon appears to be an eloquent representation of late Modenese Mannerism, as also shown by the style of the 'cornice' of putti which surrounds it.

Lezione tenuta da Graziella Martinelli Braglia presso l’Istituto Statale d’Arte “Adolfo Venturi” di Modena, 15 gennaio 2020, nell'ambito di un progetto dell'Università di Modena e Reggio Emilia coordinato da Milena Bertacchini, Responsabile Museo Universitario Gemma e Coordinatrice UNIJUNIOR UNIMORE.
La dispensa intende proporre all’attenzione il ricco e sedimentato patrimonio cromatico del centro storico modenese, tratteggiandone per sommi capi gli aspetti salienti e alcune tipologie caratteristiche, attraverso esempi edilizi scelti tra i più significativi.

dal Convegno di studi L'ULTIMO DUCA. FRANCESCO V D'AUSTRIA ESTE, Modena 1 giugno 2019. La celebrazione dinastica fu la motivazione primaria delle committenze di Francesco V d'Austria Este (1819-1875), salito al trono agli inizi del 1846, a seguito della morte del padre Francesco IV. Tale celebrazione rinviene in pittura un capitolo assai cospicuo nella ritrattistica di Adeodato Malatesta (Modena 1806-1891), il rinomato caposcuola emiliano, sia per numero di esemplari, sia per altezza qualitativa, con saggi fra i più nobili del suo foltissimo catalogo. Si vogliono qui ricordare altre committenze austro-estensi dettate da questo spirito di propaganda politica. Così un noto dipinto che Malatesta realizza nel 1841 per Francesco IV, poi entrato in possesso di Francesco V e da questi ceduto allo Stato italiano: la Vestizione di Alfonso III d’Este in abito da cappuccino, di cui si sottolinea la ricerca filologica che sarà tipica della pittura storica di Malatesta. Seguiranno commissioni a vari esponenti dell'Accademia Atestina, diretta dall'artista, sostenuta della politica di promozione artistica del governo e dell'entourage di corte, anche mediante la Società d'Incoraggiamento per gli Artisti degli Stati Estensi. Il nome di Francesco V è legato a quella che è ritenuta "vera opera di culto nel panorama della pittura storica italiana":  l'enorme tela di Malatesta con La disfatta di Ezzelino da Romano a Cassano d'Adda. Si ricostruiscono poi episodi di committenza dei familiari del duca, sia per interessi collezionistici, sia per la devozione privata.

Fra le residenze aristocratiche modenesi, il Palazzo Solmi (via Emilia Centro n. 269), già dimora della illustre casata dei marchesi Rangoni, di antica nobiltà feudale, costituisce sia per dimensioni che per ricchezza e qualità delle testimonianze artistiche uno degli episodi edilizi più cospicui e interessanti. Sulla direttrice viaria di più alto prestigio nel tessuto cittadino, la via Emilia, la vasta fabbrica è improntata da quel "restauramento" che sulla metà del Settecento il marchese Bonifacio Rangoni divisò d'intraprendere. Ma al di là della predominante connotazione settecentesca, l'edificio si presenta come un palinsesto sul quale sono andati stratificandosi fatti artistici risalenti fino all'epoca medievale, da alcune monofore gotiche alle testimonianze rinascimentali che meritarono al palazzo la citazione nel Der Cicerone di Jacob Burckhardt, come lo scalone e il balcone interno con la data 1544 e l’intitolazione a Lucrezia dei conti Pico della Mirandola, consorte del condottiero Claudio Rangoni, ascritto a Giulio Romano. Nell’attuale fisionomia del palazzo è dominante il carattere settecentesco; oscuro il nome dell’artefice, probabilmente Pietro Termanini, l’architetto di Francesco III d'Este, che vi avrebbe lavorato in data di poco anteriore al 1760. All'interno, la Sala degli Specchi, squisito episodio di un gusto rocaille assai vicino al "Salottino d'oro" del Palazzo Ducale di Modena.

Interprete fra i più raffinati e colti della tarda Maniera veneziana, Sante Peranda si stabilirà nel 1608 a Mirandola, la piccola ma fiorente capitale dei Pico, su invito del suo principe, Alessandro I. Per un ventennio il pittore presterà la sua opera presso la corte mirandolese, spesso attivo anche per quella estense nella vicina Modena. Tra le pale d'altare che Peranda lascia in territorio emiliano, accanto a quelle già saldamente acquisite dalla storiografia nella città di Mirandola, ci si vuole ora soffermare su alcune rimaste marginali forse anche per la loro collocazione più appartata.

Il palazzo già dei marchesi Carandini, cresciuto sulle vetuste case nel reticolo viario più antico della città, risalente all'insediamento romano, è raffinato esempio di dimora nobiliare dalla facies neoclassica, ma che racchiude testimonianze d'arte e di architettura rinascimentali e barocchette, in un plurisecolare stratificarsi di interventi. Già oggetto di riqualificazione e abbellimenti sul finire del Settecento, con i cicli pittorici del neoclassico Geminiano Vincenzi, il palazzo fu completato fra il 1824 e il 1825 da una nuova facciata sulla via dei Servi su progetto del celebre Giuseppe Maria Soli, sotto la direzione del figlio Gusmano; il committente fu il marchese Giuseppe Carandini, in occasione delle sue nozze con la figlia di Gian Giacomo Trivulzio, Maria Vittoria. Venne allora rinnovato lo splendido appartamento nobile, arricchito da arredi e suppellettili acquistate dalle migliori botteghe e manifatture italiane, mentre le "drapperie" furono ordinate a Lione. In queste sale i Carandini daranno vita a un salotto che accoglierà personalità della cultura e dell'arte come Gioachino Rossini, Giuseppe Verdi e i grandi cantanti del Teatro Comunale, di cui il marchese Giuseppe fu impresario. Il riscontro con i documenti dell'Archivio Carandini ha consentito di ricostruire la vicenda di questa superba residenza, ora sede della Banca Popolare di Verona - Banco S. Geminiano e S. Prospero, e dei suoi protagonisti.

IT: Dovendo tracciare un percorso in grado di toccare le tappe salienti dell'ope­rare artistico dal Medioevo al Novecento all'interno del territorio sassolese, in questo saggio del 2002 non si è volu­to proporre un elenco di paragrafi destinati ciascuno a sviluppare un singolo episodio architettonico o artistico sciolto dal contesto urbano, come in una guida per turisti; si è preferito piuttosto tentare di fornire al lettore, attraverso una scansione per periodi storici, una visione d'insieme di quei frammenti che, traendo spesso origine, nelle idee come negli autori, dalle iniziative del signore o del duca reggente, si diffondevano poi alla committenza dei diversi ordini reli­giosi e quella privata, secondo una volontà di emulazione che non può essere trascurata e di cui si cercheranno di mettere in luce le diverse interconnessioni. Non si approfondiranno, quindi, solo questioni riguardanti il complesso castel­lo-palazzo, su cui ormai da anni si concentra l'attenzione di numerosi studiosi, ma anche gli episodi "minori" che hanno contribuito in modo essenziale alla costituzione di quel "... fascinoso racconto pietrificato da percorrere e da vive­re quotidianamente... " che è la città. Ci si augura che questo intervento possa aiutare a comprendere l'importanza, la fragilità e la necessità di tutela di patrimonio costituito da testimonianze che, durante i frenetici anni della tumul­tuosa e disordinata quanto ben accetta crescita economica, spesso sono state alterate, mortificate, ridotte a frammento e, a volte, completamente cancellate; affinché si possa proseguire nel recupero e nella conservazione di quanto rima­sto, come da alcuni anni, rimpiangendone contraddittoriamente la perdita, si sta facendo. "... Il nostro paese, pur nel suo 'disastro' può ancora 'sorprendere' e forse, conoscendone le vicende, anche farsi apprezzare...".

Il confronto fra le due realtà artistiche di Mirandola e Carpi nel secolo diciassettesimo non può non partire dal presupposto della profonda diversità della situazione politico-sociale nei due centri: mentre Mirandola gode di una stagione aurea sotto il ducato dei Pico, coincidente con i governi di Alessandro I, dal 1602 al 1637, e del nipote di lui Alessandro II, dal 1637 al 1691, Carpi ha perduto la dignità di capitale ormai dal 1525, e cioè da quando Alberto III Pio - il principe umanista artefice dello splendido volto rinascimentale della città - aveva dovuto allontarsene; di lì a poco, nel 1530, la Casa d’Este acquisiva il completo dominio del piccolo Stato. Dalla comparazione fra il “caso” mirandolese e quello carpigiano traspaiono due differenti modelli: Carpi offre un panorama certamente più mobile e attivo rispetto a quello della capitale dei Pico, pressoché egemonizzato dalla corte, anche al livello di opzioni artistiche. Si direbbe, infatti, che la committenza a Carpi sia svincolata dalle scelte politiche ed estetiche dei principi. Essa dunque riflette i più vari e articolati orientamenti, dalla vicina scuola bolognese, con apporti da Modena e Reggio, alla cultura ferrarese e veneziana, sino all’ambiente toscano e alla scuola romana, con apici di qualità rappresentati dalle opere di Ludovico Carracci, del Guercino e di Guido Reni.

L’antico monastero delle Clarisse di San Lodovico e Santa Chiara a Mirandola, accogliendo nei suoi trecento anni di vita le principesse di Casa Pico e le esponenti della nobiltà dello Stato, costituì un centro di vita non solo religiosa ma anche sociale e culturale strettamente vincolato alla corte mirandolese. Fondato nel 1460 per volontà dei signori di Mirandola, il conte Giovan Francesco I e la consorte Giulia Boiardo, e soppresso in epoca napoleonica, visse la stagione più prospera nel secolo aureo del ducato dei Pico, il Seicento. Le modalità di amministrazione del monastero, le doti monacali, il ricco patrimonio, le splendide committenze delle varie principesse monache che qui vissero tra costrizioni e privilegi, le devozioni che vi si svilupparono talora con risvolti politici, le ripercussioni dei dettami del Concilio tridentino - dalla clausura alla "vita comune" - le reti familiari, l'attività letteraria e la pratica musicale ambientata nel "sacro teatro" della sontuosissima chiesa esterna, anch'essa purtroppo scomparsa: tanti sono gli spunti che, su base cronachistica e documentaria, offre la storia plurisecolare di questa comunità di religiose. Soprattutto nei decenni del secondo Seicento, sotto il fastoso ducato di Alessandro II, si realizzò quel rapporto tra corte principesca e monastero femminile, assurto a "centro importante della socialità barocca". Nonostante le severe prescrizioni tridentine, il monastero di San Lodovico grazie alla sua prosperità economica, ai legami con influenti famiglie, al prestigio delle monache e delle principesse in particolare, divenne un polo, seppure appartato, della vita culturale e artistica mirandolese. Se, di tanto, poco è rimasto, questo è purtroppo dovuto all’infausto destino, a tutti noto, che travolse la piccola ma fiorente capitale dei Pico.

La pittura a Sassuolo dal Quattrocento all'Ottocento attraverso le opere della chiesa palatina di San Francesco, annessa al Palazzo Ducale: da un raro affresco del gotico "internazionale" alle committenze di Francesco I d'Este a Michele Desubleo e a Jean Boulanger; dalla seicentesca "macchina" scenografica voluta dalla duchessa Laura Martinozzi, vedova di Alfonso IV, per celebrare la venerata reliquia del Santo Tronco alla pala settecentesca di Antonio Consetti, accanto a una serie di ritratti preziosi per l'iconografia dei Pio di Savoia e degli Estensi.

IT: A partire dalla fine del Settecento, il centro propulsore della cultura artistica del Ducato di Modena è l’Accademia Atestina, cioè Estense, nata dalla Scuola di Disegno istituita da Ercole III d’Este nel 1786. Dopo gli esiti assai modesti prodotti agli inizi dalla cattedra di scultura, affidata a Sebastiano Pantanelli, poi a Michelangelo Borghi, la qualità dell’insegnamento si risolleva con Giuseppe Pisani, docente da 1815 e Direttore dell’Accademia dal 1821, che aderisce a una poetica neoclassica di matrice archeologica aggiornata sui modelli di Canova, di cui è saggio il "Monumento funerario a Ercole III d’Este" del 1820, in San Vincenzo a Modena. Silvestro Reggianini, collaboratore di Pisani, si ispira invece alla tradizione locale della statuaria cinquecentesca di Antonio Begarellì. Oltre a Obici, emigrato a Roma, fra i discepoli di Pisani emerge Luigi Mainoni, docente di scultura dal 1843. Gli studi a Carrara e a Roma, presso Tenerani, lo portano a un classicismo coniugato a un informato purismo, che si esprime nel "Monumento funerario a Giovanni Torlonia", del 1833, in San Giovanni in Laterano a Roma, e nel "Monumento a Maria Beatrice di Savoia d’Austria Este" in San Vincenzo, terminato nel 1850. Collaboratore di Mainoni è Luigi Righi, famoso per i rilievi e le statue con cui orna gli edifici dell’architetto Francesco Vandelli, come il Foro Boario del 1834 e il Teatro Comunale del 1841. Giovanni Cappelli, allievo di Pisani perfezionatosi all’Accademia di Carrara e dal 1846 nello studio di Bartolini a Firenze, insegna scultura a Modena dal 1851. Un’intonazione sentimentale informa opere come la "Gratitudine" e il busto neorinascimentale di "Emilia Muratori", del 1851, nel Museo Civico modenese; mentre un linguaggio celebrativo si esplica nel "Monumento a Ferdinando d’Austria Este", del 1855, in San Vincenzo. Dal 1859 insegna in Accademia anche Alessandro Cavazza, che a Firenze rinsalda il suo purismo, culminante nella "Santa Cecilia" del 1857, in collezione privata, e ne "L'Anima e l’angelo" nella Cappella Bonacini del Cimitero di San Cataldo, del 1864-1866.
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EN: After the end of the 18th century, the power house of artistic culture of the Ducat of Modena was the "Accademia Atestina", i.e. "Estense", which grew out of the School of Drawing founded by Ercole III d’Este in 1786. After the initially humble results given by the sculture fellowship (first granted to Sebastiano Pantanelli, and then to Michelangelo Borghi), the quality of teaching took a tum for the better with Giuseppe Pisani, who became professor in 1815 and Head of the Accademia in 1821, proposing neo-classical poetics of an archaeological nature updated in keeping with the Canova model, an example of which is the "Monumento funerario a Ercole III d’Este", 1820, to be found in San Vincenzo, Modena. On the other hand, one of Pisani’s collaborators, Silvestro Reggianini, was inspired by the local traditions of 16th-century statues as proposed by Antonio Begarelli. As well as Obici, who emigrated to Rome, Pisani’s disciples included
Luigi Mainoni, who became professor of sculpture in 1843. His studies completed in Carrara and Rome, under Tenerani, led him towards a form of classicism mingled with a learned purism, as expressed in the "Monumento funerario a Giovanni Torlonia", 1833, in San Giovanni in Laterano, Rome, and in the "Monumento a Maria Beatrice di Savoia d’Austria Este" in San Vincenzo, completed in 1850. One of Mainoni’s collaborators was Luigi Righi, famous for his reliefs and statues with which he decorated the buildings created by the architect Francesco Vandelli, such as the Foro Boario, 1834, and the Teatro Comunale, 1841. Giovanni Cappelli, a student of Pisani who perfected his art at the Carrara Academy as well as in Bartolini’s studio in Florence in 1846, came to teach sculpture in Modena in 1851. His sentimental touch distinguished his works such as his "Gratitudine" as well as the neo-renaissance bust of "Emilia Muratori", 1851, in the Museo Civico of Modena; while a more celebratory language comes to the fore in his "Monumento a Ferdinando d'Austria Este", 1855, in San Vincenzo. After 1859 Alessandro Cavazza also taught at the Accademia, his purism having come to a head in Florence with his "Santa Cecilia", 1857, held in a private collection, as well as in "L'Anima e l'angelo" found in the Cappella Bonacini of San Cataldo Cemetcry, 1864-1866.

Artefice di una collezione d'arte fra le più importanti a livello emiliano, ma forse anche nazionale, il cavalier Pietro Foresti di Carpi fra Otto e Novecento, grazie a una grande elezione di gusto e alla consulenza di personalità come Corrado Ricci e Adolfo Venturi, acquisì scelti pezzi dalle più cospicue case carpigiane e modenesi oltre che dai più ampi circuiti del mercato antiquariale. Attorno al 1913 "sciolse" poi le sue rinomatissime raccolte, di dipinti, arredi, suppellettili, in vendite e in una donazione al Museo Civico della natia Carpi; opere che hanno così raggiunto altre importanti collezioni, pubbliche e private.
Circondato dalla sua collezione, Pietro Foresti si ritrae in una fotografia allo scrittoio del suo studio avvolto nella penombra, “luogo” d’elezione per il connaisseur, scenario di quadri, di antichi battenti in bronzo, con un busto all'antica in marmo, una targa con una Madonna col Bambino, la lampada con la statua di Mercurio in argento fuso e cesellato. E Foresti, con una lettera fra le mani, vi appare una sorta di moderno principe nel suo “studiolo”. Da qui egli intrattenne contatti con un’élite di intellettuali, aristocratici, intenditori, amici che condividevano la passione per la trouvaille, l’indagine storica, la squisitezza del gusto. E a questo scrittoio, si presume, il 15 febbraio del 1913 avrebbe steso la lettera rivolta al Sindaco della sua città: “Destino al Museo della mia città quella parte delle mie raccolte che può riferirsi alla storia e all’arte di Carpi…”.

IT: A partire dalla splendida pala dipinta attorno al 1652 dal pittore della corte estense Jean Boulanger (1608-1660) a Pergola, in provincia di Pesaro-Urbino, per la famiglia di Girolamo Graziani (1604-1675), segretario del duca Francesco I d'Este a Modena,  il saggio delinea la diffusione del culto e dell'iconografia della venerata immagine della "Madonna della Ghiara", o "di Reggio", nel territorio marchigiano, grazie a prelati estensi come il vescovo Girolamo Codebò (1594-1661), particolarmente attivo in questo senso ad Ascoli Piceno e a Montalto, toccando anche altre testimonianze sparse tra Marche e Abruzzo.

L’utilizzo dell’effigie dinastica in funzione politica e celebrativa trova
perfetto riscontro nelle committenze ritrattistiche della corte estense
all’epoca di Cesare d’Este, primo duca del ramo di Modena. E il
veneziano Sante Peranda, al servizio di Alessandro I Pico nella vicina corte di Mirandola, ma consueto anche a quella modenese, ne diviene
il primario interprete, ancor più dei pur ragguardevoli maestri locali,
creando con elezione stilistica e acume interpretativo una cospicua
“galleria” di ritratti; da questi furono poi derivate repliche autografe e
di bottega, copie pittoriche e incisioni, che contribuirono alla
diffusione più ampia non solo dei volti ma anche dell’immagine
stessa della corte di Modena. Un importante Ritratto di Cesare d’Este,
di recente acquisito dall’Accademia, costituisce una fondamentale
“pietra di paragone” per consolidare e vagliare l’iconografia del
personaggio, e constatare, ad esempio, che il ritenuto Ritratto del
duca nella Galleria Estense non ha corrispondenza con la reale
fisionomia di Cesare; dato, questo, che induce a porne in dubbio
anche la consolidata attribuzione a Cesare Aretusi.

Dato di cultura saliente del governo di Francesco I (1610-1658), terzo duca estense del ramo di Modena, è che con lui la recentissima capitale dei suoi Stati divenga un polo d'attrazione per artisti delle più varie aree geografiche. Notevolissimo l'impulso culturale impresso dalla forte personalità del duca, che fece di Modena un centro propulsivo della civiltà barocca. Artisti fra i maggiori furono coinvolti nei numerosi cantieri chiesastici e civili, o impegnati in commissioni dalla corte e dallo stesso principe. Tale politica di magnificenza in campo artistico è espressa anche nell'altissima qualità del collezionismo ducale. Inoltre, si è voluto tratteggiare un breve profilo di Francesco I d'Este accennando ai temi emergenti dalla sua biografia: i luoghi della sua corte, le grandi imprese edilizie, le scelte politiche, le campagne militari, la diplomazia matrimoniale.

La splendida Villa Vigarani, poi Malmusi e quindi Guastalla, ora di Emilceramica, sorge a mezza costa sulle colline di Fiorano Modenese, attorniata dalle ville dell'antica aristocrazia estense, con la suggestiva veduta del Santuario della Beata Vergine di Fiorano, immersa in un incantevole giardino storico, in parte all'italiana, in parte "parco" all'inglese. Come uno scrigno prezioso, racchiude la raccolta di antiche ceramiche sassolesi composta per Emilceramica da Francesco Liverani, riconosciuto esperto in tale materia. Ma soprattutto, è luogo denso di storia: innalzata poco dopo la metà del Seicento da Gaspare Vigarani, il celebre architetto dei duchi d'Este, ebbe una serie di proprietari, come i Malmusi e i Guastalla, che ne fecero la sede del loro collezionismo d'arte, con raccolte e in particolare quadrerie divise tra le sue sale e i palazzi di Modena. Una tradizione che tuttora prosegue nelle collezioni di Emilceramica.

I mille volti di Matilde è il titolo di un recente volume curato da Paolo Golinelli che raccoglie e illustra, con saggi e schede del curatore e di vari studiosi, un numero straordinario di immagini della Contessa di Canossa, rintracciate nei territori in cui s'estese il suo potere, da Mantova a Lucca, a Pisa, ai luoghi matildici: Bondeno di Gonzaga, ove morì nel 1015; l'Abbazia benedettina di San Benedetto Po, una delle più note fondazioni della Contessa, presso cui volle essere inumata; i complessi Vaticani, nella cui Basilica di San Pietro sarebbe stata tumulata nel 1644, unica donna ivi sepolta, assieme alla regina Cristina di Svezia. Questo intervento vuole essere un itinerario nell'iconografia matildica attraverso i secoli, circoscritto ai territori un tempo governati dagli Este: volumi delle genealogie mitiche fra storia e leggenda, spettacolari cicli barocchi ad affresco o plasmati nello stucco, dipinti ispirati dal romanticismo ottocentesco e altro ancora, restituendo le tante interpretazioni dell'affascinante e complessa figura della Gran Contessa.

Nel luglio del 1721 il conte padovano Girolamo Frigimelica Roberti, letterato, librettista e "Dilettante di architettura" come si definiva, si stabilì a Modena presso la corte estense su invito del duca Rinaldo. Si apriva così l'ultimo ma fecondo capitolo della vita di una singolare e affascinante personalità, che a Modena legherà il suo nome alla progettazione della chiesa di San Giovanni decollato.

Dalla conferenza tenuta da Graziella Martinelli Braglia nella manifestazione "Il Ducato Estense nella cartografia antica e nella ritrattistica di corte". Spilamberto (Modena), Rocca Rangoni, 23 giugno 2013. E' una campionatura, pur limitata, di ritratti estensi nell'arco del Seicento. Effigi celebrative sulle formule iconografiche che si diffusero presso le corti e i ceti aristocratici d'Europa fin dal Cinquecento, in una lingua internazionale. Sono formule che spesso soverchiano l'individualità del personaggio raffigurato, la sua realtà esistenziale e l'aspetto transeunte per elaborarne la facies da divulgare presso i sudditi e le altre corti e da tramandare ai posteri mediante un processo di distillazione formale che le renda "emblematiche".

IT: Ritrovato in una collezione privata francese, il Ritratto del duca Cesare d’Este, datato agli inizi del Seicento ma privo di una convincente attribuzione, fu acquistato, attraverso un antiquario emiliano, dall’accademico modenese Alfredo Margreth, che decise di farne dono all’Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti di Modena nell’autunno del 2010. Recenti studi, compiuti in una collezione privata milanese, presso cui è conservato un Ritratto di cavaliere dell’Ordine di San Michele del fiammingo Frans Pourbus il Giovane (1569-1622), hanno indirizzato chi scrive ad attribuire su basi stilistiche al medesimo autore, apprezzato ritrattista in tutta Europa, dal 1600 al 1608 gravitante presso la corte dei Gonzaga di Mantova, anche il Ritratto del duca Cesare d’Este oggetto di questo studio.
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EN: Found in a private French collection, the Portrait of Duke Cesare d’Este, dated to the beginning of the 17th century yet bereft of any convincing authorship, was purchased through an Emilian antiques dealer by the Modenese academic Alfredo Margreth, who decided to donate it to the Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti of Modena in the autumn of 2010. Recent studies, carried out in a private Milanese collection, where a portrait of a knight of the Order of St. Michael by the Flemish Frans Pourbus the Younger (1569-1622) is kept, have led the writer to attribute on a stylistic basis to the same artist, portraitist much-loved throughout Europe, from 1601 to 1608 gravitating around the Court of the Gonzaga family of Mantua, also the Portrait of Duke Cesare d’Este, the focus of this study.

L'edificio noto come Palazzo Rangoni Tacoli Carlotti, in piazzale San Domenico a Modena, è autentico palinsesto dell’architettura e della decorazione dall’epoca rinascimentale al barocchetto, fino al gusto neoclassico e al revival degli stili. Innalzato a partire dal 1468 dal conte Cristoforo Rangoni, conserva nell'atrio una serie di colonne lapidee risalenti a quell'epoca; a quel primo intervento si deve anche il torrione angolare - poi ingentilito da modifiche successive - suggerito, probabilmente, dalla volontà di rievocare l’origine cavalleresca e feudale della famiglia. Nel Cinquecento e ai primi del Seicento un vasto salone del palazzo era adibito a sala da spettacolo per rappresentazioni e commedie, alla presenza di illustri ospiti e, dal 1598, dei duchi d'Este e della loro corte, dopo che questi si erano trasferiti a Modena a seguito della devoluzione di Ferrara alla Chiesa. Nel 1716 il palazzo fu ceduto ai conti Marsciano, che lo detennero sino al 1786. E’ ora possibile rettificare quanto finora ritenuto sulla committenza dei grandi interventi al palazzo nella stagione del barocchetto, che spettano ai Testa di Marsciano, e in particolare al conte Lodovico: l’atrio fu riformulato come nodo distributivo  e di collegamento tra il settore cortilivo, destinato a giardino, e lo scalone; quest'ultimo, solenne "macchina" entro un grandioso vano d’impianto rettangolare, segue la fortunata tipologia della scala a forbice, ovvero con le due rampe parallele al muro di spina, che in loco vantava gli alti modelli di Bartolomeo Avanzini, l’architetto di Francesco I d’Este, presso il Palazzo Ducale di Sassuolo e il Collegio di San Carlo o dei Nobili. La decorazione a stucco si svolge in un rocaille delicato e brillante, di levità “francese”, inedito quasi, in Modena. Già chi scrive ipotizzò che l’idea progettuale dello scalone spetti al reggiano Andrea Tarabusi, peraltro debitore ai modi rococò di Torreggiani. Nell’ultimo Settecento il palazzo giunse ad Achille Tacoli, marchese di San Possidonio. Alla sua committenza, attorno al 1790, si devono la cancellata in ferro battuto e il lampione centrale, da assegnare a Giambattista Malagoli, il noto fabbro attivo per i duchi d’Este, e le pitture che decorano tre stanze dell'appartamento nobile, dovute ai neoclassici Geminiano Vincenzi, figurista, e Vincenzo Galli, ornatista. Nel 1818 il marchese Antonio Tacoli realizzò un "adattamento di gusto" nelle facciate e nel torrione; attorno al 1890 il marchese Pio commissionò al pittore Andrea Becchi, esponente della scuola carpigiana di decorazione, l'ornato di varie stanze, in una sorta di revival classicistico. Anche l'iconografia cittadina sette-ottocentesca tramanda la caratteristica mole del palazzo, connotata dal torrione sovrastato da merli ghibellini.

Assieme a Gabriella Guandalini, chi scrive rese noto un allora inedito ciclo pittorico e di stucchi a decorazione della Torre di Baggiovara, presso Modena, risalente al Cinquecento. Articolato su tre piani, il ciclo presenta nel primo una volta tesa su peducci in cotto d'ambito begarelliano, mentre il motivo dipinto a tralci di rose selvatiche mostra affinità con la decorazione della sagrestia di San Pietro in Modena, spettante a Girolamo da Vignola. Al piano superiore, la decorazione pittorica ha per protagonista un ignoto personaggio in cammino. Il terzo piano accoglie un fregio con grottesche, divinità mitologiche fra erme ed episodi tratti dall'Orlando Furioso , che spesso coincidono, anche nelle soluzioni compositive, con quelli illustrati da Nicolò dell'Abate attorno al 1550 in una sala di Palazzo Torfanini a Bologna, dagli anni sessanta del Novecento trasferiti nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Si è formulata l'ipotesi che gli autori del ciclo pittorico siano seguaci di Nicolò dell'Abate, operosi negli anni attorno al 1570.
L'articolo fu scritto quando la Torre era disabitata; negli anni novanta del Novecento è stata sottoposta a completo restauro.

Ha contribuito alla fama del Palazzo Lorenzotti Rango d’Aragona, poi Coccapani, di Modena la circostanza che sulla metà dell’Ottocento, per quasi un cinquantennio, sia stato sia stato dimora dei conti Guicciardi feudatari di Cervarolo, zii di quella celebre Giulietta amata da Beethoven, che le dedicò la Sonata n. 14, op. 27 n. 2 “Al chiaro di luna”. Il conte Carlo Luigi Guicciardi (1756-1835), fratello minore di Francesco Giuseppe (Vienna 1752-1830), padre di Giulietta Guicciardi, si insediava nel 1831 in quel sontuoso palazzo della capitale austro-estense che vantava quasi cento vani. L'Appartamento nobile, di facies tardo settecentesca ma con interventi che risalgono ai Guicciardi, è ora sede dell'Accademia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Modena.

Presenza edilizia fra le più complesse e interessanti in ambito cittadino, ora sede universitaria e di altri istituti di istruzione, l’antico monastero delle Agostiniane di San Paolo - ora sede della Biblioteca della Facoltà di Giurisprudenza e di altre istituzioni scolastiche e culturali - copre un vasto quadrilatero di circa 9.000 metri quadrati nell’area sud-ovest di Modena. Sono noti i valori storici e artistici del complesso di San Paolo. Era invece rimasto nell'ombra un episodio, al suo interno, di innegabile pregio nel barocco estense: la Cappella della Madonna della Scala di cui si sono ora ricostruite su base documentaria le vicende della sua costruzione, all'anno 1700, su un canale in seguito tombato. Del tutto privo di storiografia perché celato dalla clausura era anche lo scalone tramite il quale vi si accede. In contrasto con la sobrietà dello scalone, la cui suggestione è affidata alla monumentalità dell'architettura, la piccola cappella a pianta centrale spicca per fastosa eleganza, introdotta da un sontuoso portale barocco a cui il restauro ha restituito l’aulica bicromia degli stucchi; all'interno, il rigoglioso apparato a stucco, la quadratura prospettica della cupola dall'impianto a ellisse e la pavimentazione in scagliola costituivano la fastosa cornice di una Madonna col Bambino, dipinto ora nella chiesa di Santa Maria Pomposa che si attribuisce a Pellegrino Ascani, pittore che fu anche al servizio ducale. Ricostruendo il contesto storico del monastero tramite i documenti, la Cappella della Scala, assieme ad altre presenze artistiche nello stesso complesso come un inedito affresco di metà Seicento, può rientrare fra gli episodi di riqualificazione di monasteri femminili posteriori al Concilio di Trento, sorta di “risarcimento” dell’inasprirsi della disciplina religiosa nel clima moralizzatore della Controriforma.

Al pittore fiammingo Jan van Gelder (o Giovanni Vangheldri) vanno con ogni probabilità attribuiti molti esemplari ritrattistici di personaggi estensi ora in raccolte pubbliche e private. Giunse a Modena, capitale del ducato estense, probabilmente chiamato dallo zio materno Justus Sustermans, che nel giugno del 1649 eseguiva i ritratti dei principi d’Este. Per la corte estense lavorò spesso come copista, soprattutto di ritratti, come emerge da un suo elenco dove enumera i dipinti realizzati dal 1653 al 1655, per ordine del duca Francesco I. Nel 1656 è assunto come “aiutante di camera” del principe Alfonso, dal 1658 duca; fu quindi operoso per la duchessa reggente Laura Martinozzi, vedova di Alfonso IV, e per loro figlio Francesco II. Nel 1662 eseguì la copia del dipinto di Ludovico Carracci San Bernardino da Siena salva Carpi da un’invasione nemica (1619) per la chiesa di San Bernardino di Carpi, in sostituzione dell’originale prelevato da Alfonso IV per la Galleria Estense, ora nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Fa attivo anche nel marchesato degli Este di San Martino e per il conte Alfonso Gonzaga di Novellara. Il figlio di Jan, Giusto o Justus van Gelder, proseguì l’attività paterna, anche se con minore fama. Fu pittore presso la corte estense sul finire del Seicento.

IT: Il saggio, pubblicato nel 2007, ripercorre le principali vicende storico-artistiche del territorio sassolese, dall'epoca romana alla fine del Novecento.
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EN: The essay, published in 2007, traces the main historical and artistic events of the Sassuolo area, from the Roman period to the end of the twentieth century. Written in Italian, it is completely translated into English at the end of the italian text.

IT: La rilettura di alcune testimonianze archivistiche e l’attribuzione in questa sede di un importante disegno della seconda metà del XVII secolo, raffigurante una suggestiva soluzione progettuale per il prospetto meridionale del Palazzo Ducale di Sassuolo, gettano nuova luce sul ruolo che l’architetto romano Mattia De Rossi (1637-1695), allievo prediletto e fidato collaboratore di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), potrebbe avere avuto – a livello ideativo – anche all’interno del cantiere sassolese, grazie alla mediazione del cardinale Rinaldo d’Este, presso cui De Rossi era impegnato a Tivoli e non solo. Si giustificherebbe così quella originalissima “artificiosa naturalità” di matrice berniniana, estranea alla locale cultura architettonica, che accomuna il disegno per Sassuolo alla scenografica soluzione di Bernini per il Castello degli Altieri a Monterano, nel cui cantiere era presente De Rossi. La riflessione offre poi lo spunto per restituire al pittore modenese Francesco Stringa (1635-1709), dal 1685 sovrintendente alle fabbriche ducali, un disegno per l’adattamento del paliotto argenteo del Duomo di Reggio Emilia, recentemente riferito dalla critica a Mattia De Rossi.
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EN: The rereading of a number of archive testimonies and the attribution in this article of an important design from the second half of the 17th century, showing the original plan for the southern side of the Ducal Palace of Sassuolo, cast new light on the role that the Roman architect Mattia De Rossi (1637-1695) – favourite student and trusted collaborator of Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) – might have had (on an ideational level) also on the Sassuolo building site, thanks to the mediation of Cardinal Rinaldo d’Este, for whom De Rossi was working in Tivoli and elsewhere. This would justify that highly original ‘artificial naturalness’ of Berninian leanings, far-removed from the local architectural culture, shared by the design for Sassuolo with Bernini’s scenographic solution for the Castello degli Altieri in Monterano, a building site where De Rossi had also been present. The reflection then offers the starting point to reattribute to the Modenese painter Francesco Stringa (1635-1709) – from 1685 superintendent of the ducal buildings – a design for the adaptation of the silver altarpiece of the Cathedral of Reggio Emilia, recently attributed by critics to Mattia De Rossi.

IT: Il saggio, pubblicato nel 2005, illustra una serie di dipinti inediti del pittore carpigiano Bernardino Rossi (1803-1865), soffermandosi in particolare sulla sua ritrattistica.
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EN: The essay, published in 2005, illustrates a series of unpublished paintings by the  painter Bernardino Rossi (1803-1865) from Carpi, focusing in particular on his portraiture.

Scalco generale della corte estense, Cristoforo Messi detto Sbugo fu in realtà ben più di un semplice cuoco. Fu infatti l’ideatore del banchetto rinascimentale inteso come un’opera d’arte totale, in grado di deliziare tutti i sensi della committenza. Un sontuoso spettacolo di cui resta memoria in un celebre trattato e nel registro compilato poco prima della morte

EDITORIALE di Gianfranco Malafarina ad "Alumina. Pagine miniate" anno 12 n. 45
C’è stato un tempo, prima dell’avvento dei social network, in cui la gente comune non sbandierava ai quattro venti le proprie faccende personali e la vita privata di uomini e donne non veniva invasa quotidianamente dallo strapotere debordante della burocrazia, né studiata a fini commerciali dalle indagini di mercato o sottoposta all’incessante terzo grado dei sondaggi d’opinione. La parola privacy, di cui oggi si fa un uso tanto altisonante sul piano formale quanto nei fatti spesso del tutto disatteso, era un dato concreto dell’esistenza quotidiana, più che altro perché dei fatti degli altri, con l’eccezione di sovrani, aristocratici e notabili locali, al nostro prossimo importava ben poco, e le vicende del singolo raramente filtravano all’esterno di una ristretta cerchia di relazioni familiari o cittadine. C’è un luogo, tuttavia, in cui le microstorie degli uomini, delle famiglie, delle piccole comunità, si sono intrecciate quasi giorno per giorno con la grande storia, depositandosi per secoli, per così dire “dalla culla alla tomba”, in un’immensa, smisurata memoria collettiva fatta di carte e faldoni, di teorie interminabili di scaffali, di specialisti volenterosi quanto oscuri e malpagati. Il luogo di questa memoria sono gli Archivi, forse la realtà più trascurata, per non dire dimenticata, del nostro patrimonio culturale, ma una realtà che nonostante tutto resta ancora aperta allo studio, all’analisi, alla ricerca e, perché no? alla curiosità di quanti non vedono nella documentazione del passato un polveroso e ingombrante fardello, ma un prezioso elemento di identità comune e un bene collettivo di inestimabile valore, da preservare e trasmettere nella sua integrità alle generazioni future. Considerazioni, queste, forse un poco banali e scontate, in tempi in cui la scarsità delle risorse impone – nell’ambito della tutela dei beni culturali – pesanti sacrifici, scelte dolorose e altre, più cogenti priorità. Ma anche riflessioni ineludibili, che noi di Alumina abbiamo fatto nostre da tempo e che riaffiorano ogni volta che ci imbattiamo in un documento come il Registro di Cristoforo Messi detto Sbugo, presentato in questo numero da Patrizia Cremonini. Come dire, il toccante testamento spirituale di uno dei più grandi chef di tutti i tempi, custodito presso l’Archivio di Stato di Modena. Un personaggio straordinario, di fronte al quale l’odierna fama di tanti cuochi più o meno stellati, esaltati dalla stampa e dalla tv, impallidisce e svapora nell’inconsistenza della chiacchiera quotidiana.

Giulia Felice d'Este (1588?-1646), figlia naturale del cardinale Alessandro (1568-1624) dei marchesi di Montecchio, fratello di Cesare, primo duca del ramo modenese, fu "principessa suora" che trascorse la maggior parte della sua vita nel monastero delle Agostiniane di San Geminiano a Modena, rinomato per la sua tradizione musicale; qui viveva suor Sulpizia Cesis, nota esecutrice e compositrice di mottetti. Sempre nel San Geminiano entrerà un'altra monaca musicista, suor Angela Caterina, al secolo Eleonora d'Este, figlia del duca Cesare. Poco si conosce di Giulia Felice, se non fosse per la sua corrispondenza con i congiunt e con il padre in primis, e che ha uno dei motivi conduttori nella comune passione per la musica. Sfilano davanti alla grata del Parlatorio del suo monastero alcuni dei protagonisti nell'arte del canto e dell'esecuzione. Persino due virtuose come Adriana Basile Baroni (1580-1642 post) e Ippolita Recupito Marotta (1577-1650),  la visiteranno e le faranno udire la propria voce. In deroga agli stretti vincoli post tridentini della clausura e della "vita comune", che spesso tenta di attenuare o di aggirare, la principessa possiede uno strumento di qualità eccellente, di fattura cremonese, lodato anche dal violinista Cavalcabò. Sembra poi che, tramite il padre, nel marzo del 1623 mettesse in contatto Cavalcabò con Girolamo Frescobaldi. Maestro di violino di Giulia Felice sarà un illustre "virtuoso", don Marco Uccellini da Forlimpopoli (1603 ca.-1680). La sua corrispondenza con il cardinale Alessandro mostra quanto la monaca fosse sua accurata e aggiornatissima "informatrice" sulla vita dei familiari e dei cortigiani; mentre fra le lettere al cugino duca Francesco I ne emerge una del marzo 1633 in cui gli chiede di sollecitare il noto architetto estense Gaspare Vigarani per concludere i lavori al teatro interno al monastero, di cui ella stessa è committente.

Le indagini archivistiche hanno condotto a reperire ulteriori dati che arricchiscono la biografia di suor Sulpizia dei conti Cesis, monaca agostiniana in San Geminiano a Modena, nota per la sua produzione di mottetti, dati alle stampe nel 1619; si sono così rinvenute le date di nascita e di morte, oltre a varie notizie presso l'Archivio di Stato di Modena, come il rogito relativo alla sua monacazione e altre ricavate dalla corrispondenza di un'altra illustre monaca dello stesso monastero, suor Giulia Felice d'Este, figlia del cardinale Alessandro fratello di Cesare, primo duca del ramo di Modena. Ne emerge una vicenda singolare, e nel contempo emblematica della situazione delle nobili casate tra Cinque e Seicento e della temperie immediatamente successiva al Concilio di Trento.   
Da questo testo è stata tratta l’introduzione di Graziella Martinelli Braglia al concerto “Musica nei chiostri estensi. Sulpitia Cesis & Raphaella Aleotti”, Ensemble Cappella Artemisia diretta da Candace Smith,
9 ottobre 2019, Chiesa di San Francesco in Rocca, Sassuolo, nell'ambito di “Grandezze & Meraviglie”, XXII Festival Musicale Estense 2019, direzione di Enrico Bellei.

Oratorio a sei voci in due parti, con cori e accompagnamento di concerto grosso, La Gran Matilde, con testo di Alfonso Colombo, o Colombi, dedicato a Francesco II d’Este, duca di Modena, fu posto in musica da don Antonio Maria Pacchioni, con libretto stampato a Modena “Per li Degni” nel 1682. Già la storiografia relativa a Matilde di Canossa ha rilevato il notevole interesse di un oratorio sotto l’egida ducale con un simile soggetto, nella fecondissima stagione musicale sotto il governo di Francesco II. Ora, a un esame del suo libretto sembrano riaffiorare richiami all’orizzonte politico in cui si pone la corte estense e alla biografia della principessa Maria Beatrice d’Este (1658-1718) – Mary of Modena - figlia del duca Alfonso IV e di Laura Martinozzi, sorella di Francesco II, che nel 1673 era andata sposa al duca di York, poi re d’Inghilterra come Giacomo II Stuart. Infatti, la Matilde vagheggiata dal librettista, in una trama quanto mai fantasiosa, che oppone un primo rifiuto alle nozze con Guelfo di Baviera, benché “campione” della fedeltà al papato, per scegliere un’esistenza dedicata a Dio, per poi piegarsi al volere del messo pontificio, non può non ricordare il primo diniego all’unione con il principe cattolico Giacomo Stuart della quindicenne Maria Beatrice. E’ noto come questa fosse determinata a prendere il velo nel monastero modenese della Visitazione, fondato dalla madre Laura, ma venisse persuasa alle nozze con il duca di York da molteplici pressioni, soprattutto da parte di papa Clemente X Altieri, che le indirizzò un Breve esortativo, sospingendola a tale scelta per il sostegno della causa cattolica nell’Inghilterra anglicana. D’altro canto, almeno un altro oratorio “dinastico” avrebbe alluso alla biografia di Maria Beatrice d’Este: la Santa Editta, vergine e monaca, regina d’Inghilterra, con testo del principe romano Lelio Orsini, musicato da Alessandro Stradella e rappresentato a Modena in San Carlo Rotondo nel 1684.

Si è finora guardato alla figura di Matilde, quale la restituisce l’apparato iconografico elaborato dai genealogisti di Casa d’Este, come quella di una prestigiosa “antenata”, anche se la parentela si fondava su una – volutamente? – errata interpretazione documentale. Chi scrive ha inteso approfondire l’idea di Matilde in rapporto all’ideologia del potere e ai disegni politici estensi, in special modo all’interno della cultura di pieno Seicento, che in ambito artistico si manifesta in una fervida stagione barocca. Nella rilettura strumentale del personaggio da parte della corte ducale, che ne intesse una vera “mitologia” spesso ricorrendo al supporto di quella classica, si intersecano, infatti, non solo intenti autocelebrativi, ma anche ambizioni personali, tensioni religiose e influenze dall’ambiente romano e pontificio in particolare, qui per la prima volta messi in luce, che condurranno all'affermazione di un'iconografia della Signora di Canossa come guerriera. Ne sarà esemplare la statua di Matilde nell'apparato decorativo che nel 1663 muterà la facies interna della chiesa di Sant'Agostino a Modena, spettacolare espressione del “classicismo barocco” estense. L' enfasi sulla fortitudo di Matilde si spiegherà anche alla luce del momento politico: l'Amazzone della Chiesa, che difese il papato dall'imperatore tedesco, sarà quanto mai attuale in epoca di Controriforma.