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L’Oro ed il Ferro di Sassalbo al Passo Dell’Ospedalaccio
by Rino Barbieri
Ho ritrovato pochi giorni fa, fra i miei sparpagliati fogli, la fotocopia di
un articolo rinvenuto fra le carte dello scomparso Prof. Ezio Pandiani
(giornalista e latinista di Fivizzano) il quale annotava di proprio pugno: “
Il Telegrafo 18 agosto 1936”.
L’articolo del quotidiano “Il Telegrafo” ha il titolo: “TESORI
SOTTERRANEI DELLA LUNIGIANA – L’oro e il ferro di Sassalbo-Fivizzano”
è a firma de’ IL VIANDANTE che, come ogni studioso di Lunigiana sa, è lo
pseudonimo del giornalista e scrittore spezzino Carlo Caselli, famoso per
il suo libro LUNIGIANA IGNOTA stampato nell’anno 1933.
Questo è il testo che riesco malamente a leggere e che penso sia degno
di nota.
“ E’ inutile lambiccarsi il cervello per cercare di mettere assieme un
desiderata, un finale, un traguardo esoterico, che muova e spinga
l’umanità a salire con meno affanno il calvario della vita. Una delle più
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potenti molle che fa muovere l’homo sapiens per ogni dove, certamente
è l’oro di zecchino.
Se è vero che non fosse il terrore dell’ignoto, d’oltretomba, nessun
mortale sopporterebbe il gravoso carico della vita, ma è pur vero che
questo peso ognuno si studia di alleggerirlo percorrendo un sentiero il
più piacevole che sia possibile, tenendo in mano un pesante lingotto
d’oro. Non vi è dubbio alcuno che la nostra vita fin dal nascere gravita
sempre verso un centro aurato ed è come voler pestar l’acqua nel
mortaio insistere tanto a volerci far cambiar d’opinione con una morale
tiratina d’orecchi
Così andò che questa molla spinse alcuni a salire affannosamente al
PASSO DEL CERRETO , a più di mille metri dal livello del mare. Là dove
guardando dalla casa cantoniera, che segna l’ultima tappa al Passo, il
monte lontano verso CAMPORAGHENA par mostrar una larga ferita
sanguigna – la Lama dell’ Ospedalaccio – e da dove nasce il rio Acqua
Torbida, che muore nel Rosaro, vi è un piccolo lembo di terreno antico
più di ogni altro del nostro Appennino, un’isola di terreno arcaico,
composto di elementi minerali che primi servirono a formare i primitivi
strati della crosta terrestre.
Fin dal 1832 il Prof. Paolo Savi dell’Ateneo di Pisa, che aveva visitato
con occhio d’esperto mineralogista quel lembo di terreno, v’aveva
scoperto un filone di ferro oligisto, il minerale che si estrae con profitto
nell’Isola d’Elba. Il filone ferrifero al tempo del Salvi era sepolto sotto la
frana o lama dello Spedalaccio, ma in tempi antichi aveva fornito
materiale utile trattato in parte, fino alla metà del XVI secolo in una
ferriera presso il paese di Comano ed in un’altra ferriera presso il paese
di Sassalbo. Questa forniva il ferro usato dai sassalbini a costruire fucili
a pietra, ricordati ancora per tutta l’Alta Lunigiana ed un modello dei
quali , che non dispero di trovare, sarà prezioso documento per
l’aggiunta d’una pagina alla storia della fabbricazione italiana delle
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armi da fuoco. Il Savi, inoltre, ed in seguito il carrarese geologo
Emanuele Repetti ed il pisano Antonio D’Achiardi, raccolsero minerale di
rame, malachite, azzurrite e covellina. Poi nel 1877, Gustavo Uzzielli,
altro insigne mineralogista, dava comunicazione alla Reale Accademia
dei Lincei (pubblicata nel 1877 del vol. 1mo delle memorie della classe
delle scienze fisiche, matematiche e naturali) d’aver scoperto in alcune
rocce di quel terreno arcaico dello Spedalaccio titanite ed albite in
bellissimi cristalli. Un bel giorno del mese di gennaio ultimo scorso, un
esperto, per pratica ricercatore di minerali, dopo aver esaminato la
collezione messa assieme dai professori Savi, Repetti, D’Achiardi, Uzielli,
e, con la scorta della carta geologica di quel lembo di terreno, tracciata
da Domenico Zaccagna e pubblicata dall’Accademia <G. Capellini> della
Spezia, intraprendeva una metodica esplorazione in tutta la zona della
lama dello Spedalaccio. Egli ritornò a Sassalbo con diversi campioni di
quarzite, minerale nei quali si annida spesso l’oro. L’esperto fiducioso,
tornò il giorno dopo all’assalto dei misteri della grande Lama e
finalmente scoperse una venuzza di quarzite con ……(riga illeggibile). Due
borgotaresi appresa la lieta novella salirono fiduciosi a Sassalbo, e
chiesta ed ottenuta la concessione di ricerca per minerali di rame ed altri
minerali metalliferi, si posero silenziosi al lavoro con lena affannata,
mossi dall’aurea molla che manda avanti il mondo. Si apersero nel seno
del monte due gallerie che misero in luce un giacimento di quarzite che
all’analisi chimica eseguita in un laboratorio di Milano, diede oro.
Per tutta la regione s’ accese la speranza d’un prossimo aureo avvenire
e qualcuno persino pensava già a formulare la proposta da presentarsi
al Podestà di Fivizzano per cambiare il nome di SASSALBO (sasso-bianco,
sasso-gesso) con quello di SASSORO, quando salì allo Spedalaccio il prof.
Alberto Pelloux, mineralogista insigne chiamato a dare il suo giudizio
sulla cosa. Si vuole che egli abbia stesa una relazione, confermando la
presenza dell’oro in quel lembo di terreno, ma in quantità non
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sufficiente per incoraggiare l’estrazione del minerale da chi non può
avere i grandi mezzi dell’industriale specializzato in materia.
I lavori sono stati sospesi da un par di settimane, ma ieri è salita allo
Spedalaccio una commissione tecnica governativa e Sassalbo attende
fiducioso di veder brillar da dove nasce il rio Acqua torbida, un’aurora
promettente d’una giornata feconda d’aureo lavoro.
IL VIANDANTE”
Questo l’articolo.
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Su un altro foglio il prof. Ezio Pandiani ha poi annotato: “ Un tale Furletti
Davide aveva lavorato parecchi anni in America per l’estrazione
dell’oro. Ritornato in patria verso il 1920 (?), già vecchio, in base ad
antiche tradizioni effettuò sondaggi nelle vicinanze dell’Ospedalaccio,
più propriamente nel torrente dell’Acqua (Canale Torbido) (circa dieci
anni fa) rivenendo materiale unito a quarzo e al ferro (a Milano si sono
fatti esperimenti di Gabinetto) Venne in seguito società a scandire il
terreno . In seguito la ditta Motori ha ripreso le indagini e venne nella
convinzione che l’affare si poteva sfruttare. Sospesi i lavori vennero
ripresi e si è venuti nella determinazione di impiantare una linea
elettrica per le prime operazioni. (interrogare a questo proposito
l’elettricista Ercolini)”
Devo, a proposito del toponimo sopra citato “Canalo Torbido”, fare una
precisazione. Il canale è “torbido” perché formato da acqua mischiata a
terra e quindi torbida a motivo che c’è sopra questo ruscello una paleo
frana enorme che continuamente, in specie quando piove, porta acqua
terrosa e quindi colore “rosa” vulgo “rosada” al fiume ROSARO che,
proprio per tale motivo sostengo io, prende questo nome.
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Una vecchia letteratura locale ottocentesca attribuisce invece questo
nome al fatto che il fiume nasce vicino a un roseto. Ritengo più
probabile la mia ipotesi considerato che a Soliera Apuana (dove vivono
gli umani e nasce il linguaggio) si incontra il fiume ROSARO con un altro
fiume che si chiama LUCIDO per dare vita al fiume Aulella, cioè al fiume
che va verso Aulla. Orbene il Lucido era così chiamato per le sue chiare
e limpidi acque, mentre il nostro che portava acque terrose di colore
ROSA veniva chiamato Rosado o Rosaro che è poi il nome attuale.
Lasciamo ai letterati fivizzanesi dell’ottocento la loro idea romantica
che il fiume ha preso nome da un roseto selvatico sotto il quale
scaturiscono le sue prime acque. Restiamo con i piedi per terra,
appunto!
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Ristorante Giardinetto a Fivizzano: il fucile appeso pare che venga dalla fabbrica di
Sassalbo.
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Fino a qui il racconto del giornalista spezzino Carlo Caselli che trovo
interessante per la particolarità di notizie minute e curiose.
Ed è sempre lo stesso avventuroso giornalista ( “pedibus calcantibus”
ha visitato tanti paesi della Lunigiana immortalandoli nel tempo!) che ci
lascia una bella memoria del paese di Sassalbo e cioè del primitivo
Saxo-Albo e ne fa descrizione nel suo libro già citato che è Lunigiana
Ignota dove lui si firmò con lo pseudonimo “Il Viadante”:
“Per un sentiero, che passa sotto la lama dello Spedalaccio
(Ospedalaccio) dove si vuol vi siano tracce d’oro, da Camporaghena si
può passare a Sassalbo. Ma per poter efficacemente rappresentare
questo paese, bisogna vederlo dalla strada nazionale del Cerreto, presso
il piccolo casale di Panigagliola. Di qui basta un quadro con una
pennellata di biacca, toccata da una macchia rossa in mezzo ad una
tavolozza di verde cupo, terminata da una fascia nera.
La biacca mostra la roccia, il sasso-albo, il giacimento gessoso che
affiora alla destra del torrente Rosaro, la macchia rossa è l’insieme dei
tetti del paese alla sinistra dello stesso torrente; il vede cupo diffuso, la
selva di castagni che s’arrampica a guadagnare la strada; la fascia nera
indica il principale prodotto dell’abitato, il carbone di legna.”…..Cinque
o sei pagine dopo questa il Caselli continua così “ Gli abitanti di questo
paese sono di una razza o sottorazza diversa dalle altre popolazioni di
Lunigiana. Sono diversi per l’aspetto fisico, per l’indole e le costumanze.
Sono fatti sopr’altro stampo. ….”
Per seguire il racconto de’ Il Viandante dove parla di Sassalbo meglio è se
posto la pagina tratta sempre da Lunigiana Ignota, libro ristampato da
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Arnaldo Forni Editore Spa di Bologna, ove si parla dei “fucili a pietra”
fabbricati in loco e delle costumanze dei Sassalbini (interessante il rito del
fidanzamento), eccola:
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E dopo queste belle descrizioni del giornalista Caselli ci vuole un’immagine che,
come sappiamo. Vale più di mille parole. Ecco il paese di Sassalbo:
Il paese di Sassalbo (frazione del comune di Fivizzano) con ben visibile, in alto sulla destra
accanto alla frana, il Passo dell’Ospedalaccio.
Siamo a parlare di Passo dell’Ospedalaccio (m. 1287 sul l.m.), ricordo
che questo passo è limitrofo e fa parte della sella che si apre nel crinale
Appenninico Tosco Emiliano che comprende anche il Passo del Cerreto.
Questo valico unisce attraverso la SS 63 (progettata in epoca
napoleonica ma realizzata negli anni 1828-1843) l’Emilia alla Lunigiana
orientale e quindi ai porti Tirrenici oltre che alla Garfagnana
riprendendo la SS 445 passante per il Passo di Carpinelli. Un passo di
antica viabilità medievale perché univa il Reggiano al mare. Di qui
passavano per salire in Emilia, oltre che il sale, spezie e merci varie
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provenienti dai porti e scendevano grani, formaggi, legna e carbone. In
specie quello dei carbonai di Sassalbo.
Foto dalla pagina: https://aroundfamilyblog.it/2018/07/18/la-costa-degli-dei-mare-calabria-tropeabambini/serra-san-bruno-centro-storico-turiscalabria/
Non ho al momento un’immagine dei carbonai di Sassalbo, posto la
presente per capire l’immensa fatica che c’era dietro quel lavoro.
Fatica che non finiva quando il carbone era pronto…bisognava
insaccarlo, caricarlo a dorso di mulo e portarlo alle città vicine. Ecco che
allora mi ritornano alla mente i versi di un nostro poeta lunigianese,
quel Corrado Martinetti che vedendo passare per Fosdinovo i muli
carichi di carbone scriveva la poesia “Vercalda” (nome della Villa sui
tornati di Fosdinovo che guardano il mare):
“Bella, color di luna e di ginestre,
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ai sogni miei, dalla montana falda,
sprazzando riso dalle sue finestre,
torna Vercalda!
Canzone della strada vagabonda
Che s’arrampica a svolte e mi richiama
Con flauti di merli nella fronda
Che l’aria trama;
canzone della strada che riaffiora,
dopo essersi sommersa!...Nello sfondo
par Fosdinovo evadere dal mondo
con la sua prora.
Oh, case rannidate in solitari
grembi rocciosi, dove i campanili
accennan con aerei profili
grigi di fari;
oh rifugi su balze a precipizio
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al mendicante noti, che in preghiere
sosta, la cui miseria non è vizio;
e l carrettiere
di Sassalbo che viene col carbone
e l’odore dei funghi, tutto sguardi,
come il castagno quando sul ciglione
apre i suoi cardi!
Odor di terra, amor di madre! In giro
S’adagian le colline, esuberanti
nutrici, cui si staccan, con sospiro
fresco, i poppanti
rigagnoli, ove scende – appena nata
l’alba – a tuffar teli e fasce la sposa
del taglialegna, e a ber va la pezzata
mucca scontrosa.
…..(omissis -salto il testo troppo lungo che finisce con queste parole)…
IL viandante sa che Vercalda è l’oasi che dona
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La pura gioia, come al cuor di Dante
Alagia Buona
(CORRADO MARTINETTI n.a Sarzana nel 1872 e ivi deceduto nel 1953)
Il Passo del Cerreto e Ospedalaccio assieme, con a sinistra l’Alpe di Camporaghena e a
destra la cima del Gendarme della Nuda. Il tutto visto dal paese di Corsano poco
distante da Luni.
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Con riferimento alla foto sopra, una curiosità: il termine Nuda non ha a che
vedere con una montagna spogliata di piante come è normalmente creduto,
ma con un’antica e arcaica Dea delle acque e della fertilità già adorata in
Sardegna. Forse il nome prende origine dal fatto che era uso, in tempi
protostorici, modellare statuette di Veneri e immagini femminili
rappresentandole nude con seni, glutei e cosce ben evidenti; da cui il nome.
E come mai la montagna ha questo nome? Intanto partiamo dal dire che in
tempi lontanissimi, quando l’uomo diventa agricoltore, le montagne e la
natura tutta erano umanizzate. La terra era vista come una Dea Madre che dà
la vita a piante e animali e permette il perpetuarsi della vita. A quel tempo le
cime dei monti più evidenti diventavano sacre. Proprio di questa arcaica
sacralità pagana ne abbiamo una testimonianza nella famoso Masso di Santa
Caterina che è posto sul monte Grosso proprio davanti a Gendarme della
Nuda. Luogo preistorico questo dedicato alla fertilità e maternità con tanto di
coppelle a carattere sessuale, una delle quali ha lo stesso profilo del monte,
questo a significare il motivo della scelta di quel luogo come luogo di
cerimonie alla fertilità. Un luogo di antichi riti pagani che in un fenomeno di
sincretismo diventa cristiano, appunto Masso (o Grotta) di Santa Caterina.
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Masso n. 1 di Santa Caterina: è un viso scolpito nella roccia con scavate ai lati coppelle
rappresentanti il sesso femminile. (Il masso n. 2 rappresenta invece simboli maschili)
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Profilo del monte La Nuda
Foto della coppella che
rappresenta l’organo sessuale femminile. Se si gira la foto si ricava lo stesso profilo del
Monte sacro chiamato Nuda. Credo da questo motivo la scelta del luogo cerimoniale
alla fertilità.
Per capire meglio il mio pensiero consiglio di leggere la pagina web:
http://www.luoghimisteriosi.it/toscana_fivizzanodeamadre.html
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Il Passo del Cerreto, dello Spedalaccio, Sassalbo e Vallone della Nuda
sono stati frequentati dall’uomo fin dalla preistoria e ne abbiamo
tracce visibili.
Petroglifo antropomorfo presente sulla sommità di un masso roccioso sito al centro del
Vallone della Nuda.
Dallo stesso masso roccioso c’è una testa che s’affaccia…..
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Guarda caso, ma non è un caso, la faccia è uguale alla statua stele di Nibbiara trovata a
Casola Lunigiana: è il prodotto della solita cultura, delle stesso periodo eneolitico.
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L’amico Ennio Angeli nella foto mi ha segnalato la presenza di queste coppelle che
come si vede, quella grossa, ha ancora i segni dell’incisione. Siamo poco sopra il Lago
del Cerreto, ai margini della pista da sci. .
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Arcaico ricovero pastorale sopra Sassalbo
Rifugio umano preistorico o protostorico sul monte Marinella, appena sotto il passo
dell’Ospedalaccio.
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Ora guardando queste immagini dei lavori di questa gente di montagna
che sono poi i componenti la STIRPE LIGURE di cui le fonti classiche
latine ci hanno lasciato descrizione, come non riconoscersi in queste
parole di Diodoro Siculo quando così descrive i Liguri: "…Tenaci e rudi,
piccoli di statura, asciutti, nervosi... Costoro abitano una terra sassosa e del
tutto sterile e trascorrono un'esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le
vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta di alberi,
alcuni di costoro per l'intera giornata, abbattono gli alberi, forniti di scuri
affilati e pesanti, altri, avendo avuto l'incarico di lavorare la terra, non fanno
altro che estrarre pietre... A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza
di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le
donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini.
Vivendo di conseguenza sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti
affrontare dislivelli incredibili sono forti e muscolosi nei corpi... Trascorrono
la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più
spesso in cavità della roccia o in caverne naturali... Generalmente le donne di
questi luoghi sono forti come gli uomini e questi come le belve... essi sono
coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle condizioni della vita
non scevre di pericolo" [Diod. IV,20,1,2]
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Contadina lunigianese al lavoro – Foto di Cesare Salvadeo
Vogliamo conoscere meglio questa stirpe Ligure? Leggiamo allora
questo articolo senza firma apparso sul quotidiano La Nazione il 25
novembre 2004
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Antica via che da Sassalbo conduce al Passo del Cerreto e/o Ospedalaccio. Detta anche
via dei Lombardi.
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Una strada questa dell’Ospedalaccio che ha visto passare eserciti, gente
comune, ma anche chi ha fatto la storia. Uno di questi è stato quasi
sicuramente il Divino poeta Dante Alighieri, il quale ha lasciato
testimonianza di questo passaggio nella Divina Commedia quando
descrive la Pietra di Bismantova, monte che domina il tragitto da Reggio
Emila al Cerreto. Pietra che è ben visibile ad occhio nudo anche dal Passo
Dell’Ospedalaccio.
La Pietra di Bismantova è una montagna sacra per gli Etruschi e per i Liguri
che qui vivevano, sembra che il suo nome derivi dall’etrusco “man” cioè
pietra scolpita e “tae” altare per sacrifici.
Una montagna che impressiona ancora oggi, figurarsi gli antichi quando per
loro le montagne erano sede del sacro. Sulle sue pendici in località Pianelli
è stato trovato un insediamento preistorico con resti di villaggio e necropoli
risalenti all’età del rame – bronzo.
Posto una mia foto di un vaso fotografato alla mostra dedicata al sito
archeologico di Castelnuovo Monti. E’ un vaso funerario non compreso nella
sua interezza dagli addetti ai lavori: quelle quattro protuberanze non sono
altro che rappresentazioni di seni femminili dal quale spunta il latte. Ecco il
motivo per cui il capezzolo centrale è circondato da circoli concentrici che
rappresentano appunto l’acqua. Circoli come acqua! E il latte è l’acqua della
Vita: da cui i circoli. Rappresentare quindi un segno d’acqua in una tomba è
come sperare nella rinascita …. Tutto viene dalla constatazione che il seme
sepolto nella terra senza acqua (e sole) non rinasce.
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Per capire questo mio pensiero leggete il mio studio pubblicato nel sito di
Academia.edu e dal titolo “ I Segni d’acqua dalla preistoria al medioevo”.
Poco distante, in vista della Pietra di Bismantova, in località Ceriola
(Comune di Carpineti) è stata individuata un’area rocciosa con numerose
coppelle che lo scrivente, invitato da Roberto Ronchetti ricercatore del
luogo, ha visitato fra i primi. Vi ho riconosciuto segni, nicchie e coppelle che
riconducono il sito a un’area sacrale protostorica o preistorica dedicata a
culti solari cerimoniali alla fertilità della terra. Mi sono accorto come
quell’area avesse, oltre alle coppelle, delle nicchie di forma quadrata ove
erano inseriti pali che formavano a mo’ di piramide dei puntatori solari,
confermati poi da solchi sulla roccia. Immediatamente ho appurato che quei
fori rimandavano a un mirino calendariale e cioè a un allineamento
equinoziale. Spostandoci poi -seguendo sul crinale roccioso a est un
sentiero con scalini scavati nella roccia atta a favorire il percorso anche dei
più anziani- siamo arrivati sulla sommità, dove sopra un balzo roccioso c’è
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un masso appuntito con due fori ai lati: posta la bussola al centro questa
indica esattamente il Nord. Insomma i nostri progenitori usavano il sito in
forma calendariale-cerimoniale e conoscevano bene l’orientamento.
Dalla sommità si vede la Pietra di Bismantova. Nell’equinozio il sole tramonta a sinistra
della pietra, nel solstizio a destra.
Nelle ricorrenze in cui il sole al tramonto si allineava con i puntatori, il
popolo partecipava a riti ove si festeggiava, aspettando il tramonto ci si
sedeva al sole ritemprando le membra (Vedasi gradino seduta nella roccia
della sommità), si percorreva a circolo il crinale roccioso ove numerose
coppelle lo delimitano e forse la notte si accendevano in quelle nicchie
scavate nella roccia sul crinale anche dei fuochi. Il fuoco è luce-calore, come
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il sole.
Seduta, nicchie e coppelle dalla sommità del sito preistorico di Ceriola. Nella foto il
ricercatore Roberto Ronchetti.
Accendere un fuoco significava per gli antichi fare una preghiera al sole
affinché continuasse a portare la sua opera vivificatrice assieme all’acqua
magari contenuta in quelle coppelle. Riti di fertilità. Quello stesso rito che
compivano i nostri vecchi di Lunigiana quando a Natale (solstizio d’inverno)
mettevano sul fuoco il ceppo più grosso e il primo cibo lo gettavano sul
fuoco a ringraziamento di quel sole che aveva fatto crescere bene le messi
che permettevano il sostentamento. Rito propiziatorio di un futuro buon
raccolto che aveva radici antichissime.
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Il masso appuntito posto nel punto più in alto con due coppelle laterali e la cui punta
indica esattamente il Nord geografico.
Ecco che il nome Ceriola, forse per questo, deriva etimologicamente dai “
CERI” di “OLA”. E chi era quest’Ola? Era una dea primordiale così chiamata
e venerata in tutta Europa ai tempi della dea madre. La dea HOLA era la
protettrice delle acque e quindi della fertilità. Per tale motivo che in
Lunigiana, come in questa terra emiliana, troviamo tanti paesi che hanno la
desinenza in Ola (Vignola, Olivola, Colla, Passeruola, Scanderuola e mi
fermo qui perché sono troppi!). E’ per questo che il piatto tipico lunigianese
dalle origini arcaiche che è poi il TESTARUOLO e cioè il testo di OLA, era il
piatto che era offerto alla Dea Hola o Ola, a ringraziamento dell’avvenuto
raccolto che permetteva di mangiare. E forse il periodo in cui questo
avveniva a Ceriola, che ha in faccia la Pietra di Bismantova, era proprio il 21
settembre e cioè quando il grano e le messi erano già in casa. Ecco allora
che così si spiegherebbe il fatto come, la cittadina di Castenuovo Monti,
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adagiata attorno alla Pietra di Bismantova, si sia scelto come san protettore
San Michele, il santo della luce (guarda caso), il santo che è festeggiato il 29
settembre.
Torniamo alla nostra Pietra di Bismantova che è ricordata nel canto IV del
Purgatorio (come il Monte del Purgatorio) con queste parole:
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e ’n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
dico con l’ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro ’l sasso rotto,
e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi fummo in su l’orlo suppremo
de l’alta ripa, a la scoperta piaggia,
"Maestro mio", diss’io, "che via faremo?"
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Foto dalla pag. https://it.wikipedia.org/wiki/Pietra_di_Bismantova
A tale uopo unisco l’email che ho ricevuto in data 19 novembre 2006 dallo
scomparso poeta, scrittore, letterato e storico che era Loris Jacopo Bononi
in cui mi dice:
Caro Rino:
ho letto attentamente il tuo ms. “Agnino. Il paese dai 18 campanili…”, e ho
molto apprezzato il passo che riguarda Dante e la sua venuta in Lunigiana
(come si crede) nel 1306.
Il tuo brano lo troverai inserito in queste pagine che ti invio e che fanno
parte della mia (lunga) conferenza tenuta recentemente a Sarzana.
Tanti cordiali saluti
Loris Jacopo Bononi
Ed ecco le pagine che l’amico illustre m’inviò ove porta testimonianze di
tanti studiosi che hanno convalidato il passaggio di Dante.
Dove, e per quanto tempo, l’esule Dante abbia trovato asilo in uno o più
“…paesi…” malaspiniani di Lunigiana - lo si è già detto - non si conosce su base
documentaria, e accenna al solo ‘dove’ la tradizione orale che a Mulazzo
identifica in un antico edificio la casa che sarebbe stata abitata dal Poeta
durante il suo soggiorno ospite di Franceschino Malaspina di Mulazzo.
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E neppure si conosce il tragitto lungo il quale Dante sia giunto in Lunigiana.
L’ipotesi della via Romea o Francigena risultando consunta e, nel caso di Dante,
assolutamente priva di riscontri.
Risulterebbe, invece, circostanziata da certi riscontri, ancorché non
espliciti, la venuta di Dante in Lunigiana attraverso la strada che da
Reggio Emilia conduce a Fivizzano, e oltre.
La roccia di Bismantova ricordata da Dante (Purgatorio, IV),
potrebbe, intanto, suggerire questa ipotesi.
Un sostenitore autorevole del tragitto di Dante sul passo del Cerreto è il
Bassermann:
“…strada maestra che da Reggio, Mantova e Verona conduce in Lunigiana …
Qui può anche ricordarsi che sulla medesima via sorge Bismantova, dinnanzi a
cui Dante è certamente passato…”
(Bassermann, A.: Orme di Dante in Italia. Opera tradotta sulla 2° edizione
tedesca da E. Gorra. Bologna, Nicola Zanichelli, 1902 p. 641)
Bassermann evidentemente non conosceva l’esistenza, altrimenti ne avrebbe
fatta menzione, di una tradizione che ancora oggi afferma decisamente il
soggiorno di Dante nella casa torre dei signori Muzzini a Burano nei pressi di
Castelnuovo ne’ Monti.
“…Natalizia Brigida Montruccoli, coniugata con Daniele Muzzini di Battista dal
1884, raccontava alla nipote Luciana che un tempo una lapide nella torre
ricordava il soggiorno di Dante Alighieri, ospite del luogo. E’ inevitabile
collegare la notizia con il verso su Bismantova del quarto canto del Purgatorio
[“…montasi su in Bismantova e in Caccume…”]. Il grande poeta si sarebbe,
dunque, fermato a Burano. Ma la lapide non c’è più. Il prezioso cimelio sarebbe
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stato venduto a un antiquario di passaggio. Con esso sarebbero andati perduti i
due endecasillabi ‘danteschi’ che vi erano incisi. Luciana Muzzini li ricorda bene
a memoria, appresi dalla nonna. Ciò farebbe supporre che la scomparsa
dell’iscrizione non fosse remota rispetto al tempo in cui visse Natalizia, che con il
marito abitò in un primo tempo a Burano. I versi erano i seguenti:
“Fermati o passeger: contempla e mira, / ché stella di fortuna il mondo gira”
Pare che ci fosse proprio ‘stella’, non ‘ruota’. Il senso dei versi, comunque sia,
risulta un po’ ambiguo: allude all’ascesa, o alla decadenza della famiglia?
Oppure la contemplazione dovrebbe essere rivolta a uno splendore presente, che
il potere della sorte potrebbe distruggere?
(Maria Teresa Cagni Di Stefano: Frascaro e Virola. Una comunità contadina.
Comune di Castelnuovo ne’ Monti. Assessorato alla Cultura, s. n. a., pp. 306,
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“…Le fonti (Benvenuto da Imola) e gli studi (Leone Tondelli) dicono che proprio
nei mesi di settembre e ottobre 1306, Dante fu a Reggio [Emilia] ospite di Guido
da Castello (il semplice lombardo), della nobile famiglia dei Roberti; i
documenti, d’altra parte, attestano la presenza di Dante in Lunigiana … il 6
ottobre 1306…”
(Clementina Santi: Il viaggio di Dante da Reggio a Luni. Pieghevole. Settembre Ottobre 2006. Comunità Montana dell’Appennino Reggiano. Settembre 2006)
Ecco il testo di Benvenuto da Imola che si riferisce a Guido da Castello, e
all’ospitalità da lui offerta in casa propria a Dante:
“…Guido da Castel, iste fuit de Regio Lombardiae, de Robertis, quorum tria
erant membra, scilicet illi de Tripoli, illi de Castello, et illi de Furno. Ideo
denominat ipsum a vocabulo speciali, per quod erat notus; et ita publice
vocabatur. Iste florebat in Regio tempore nostri poetae, cum civitas illa esset in
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magno flore et regeretur libere. Fuit autem vir prudens et rectus, sani consilii,
amatus et honoratus, quia zelator erat reipublicae, et protector patriae, licet
tunc alii essent potentiores in terra illa: fuit liberalis; cuius liberalitatem poeta
noster expertus est semel, receptus et honoratus ab eo in domo sua. Fuit etiam
Guido pulcer inventor in rhythmo vulgari, ut pulcre apparet in quibusdam
dictis eius; ideo in commendationem eius dicit: che me' si noma, idest, qui Guido
melius nominatur, francescamente il semplice lombardo. Hoc exponunt aliqui,
quia de curialitate sua tanta fama crevit per Franciam, quod vocabatur simplex
lombardus; sed istud est vanum dicere, immo debes scire, quod gallici vocant
omnes italicos lombardos, et reputant eos valde astutos; ideo bene dicit, quod
proprie vocaretur gallice simplex lombardus…”
“…cuius liberalitatem poeta noster expertus est semel, receptus et honoratus ab
eo in domo sua…”
“…ebbe modo di apprezzare la di lui liberalità il nostro poeta, una volta accolto
e onorato in casa propria [da Guido da Castello]…”
Jacopo della Lana, nel suo commento alla Commedia, stampata a Venezia da
Vindelino da Spira nel 1471, commento erroneamente attribuito a Benvenuto da
Imola scrive: “…messer Guido da Castello da Regio il quale fu padre e
conseruatore dogni nobilitade et sempre vedeua ogni buona persona che
passasse perquel paese. Et per prerogativa desso parlando francescamente che
dice no ad ogni citramontano lombardo il simplice lombardo quasi unico in tale
probitade…”
(Venezia, Vindelino da Spira, 1477, c. 170)
Su Benvenuto da Imola, v.
Quartieri, F.: Benvenuto da Imola. Un moderno antico commentatore di Dante.
Ravenna, Longo Editore, 2001
“…Guido da Castello, di quei Roberti di Reggio Emilia che erano stati già
fautori della contessa Matelda, visse dal 1235 al 1315 mescolato alle gare di
partito che gli costarono l’esilio, essendo stato cacciato da Reggio con la parte
Ghibellina. Riparò a Verona, dove forse Dante che lo loda anche nel Convivio
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(IV, XVI), lo conobbe alla corte di Cangrande. Fu liberalissimo, affermano i
commentatori, e l’Ottimo aggiunge: specialmente verso i Francesi, che ‘
consumate le loro facultadi, tornavano meno ad arnesi che a loro non si
convenisse’; donde il nome di semplice Lombardo, alla francese, ossia in senso di
italiano…”
(Trucchi, E.: Esposizione della Divina Commedia di Dante Alighieri. Purgatorio.
Milano, Stab. Tip. L. Toffaloni, 1936, Vol. II, p. 287. In copertina il ritratto di
Dante, xilografia di F. Gamba della Spezia)
La lode che Dante rivolge a Guido da Castello di Reggio gli dà occasione per
asserire “…è falsissimo che questo vocabolo ‘nobile’ s’intenda ‘essere da molti
nominato e conosciuto’, e dicono che viene da un verbo che sta per conoscere,
cioè ‘nosco’. E questo è falsissimo, ché se ciò fosse … lo calzolaio da Parma,
sarebbe più nobile che alcuno suo cittadino; e Albuino della Scala sarebbe più
nobile che Guido da Castello di Reggio … E’ però falsissimo che ‘nobile’ vegna
da ‘cognoscere’, ma viene da ‘non vile’; onde ‘nobile’ è quasi ‘non vile’…”
(Convivio, VI, XVI, 6, 7)
“…Guido da Castel [1235 - 1315] che mei si noma, / francescamente, il semplice
lombardo…” (Purgatorio, XVI, 125, 126)
Guido dei Roberti da Castello ebbe grande fama di uomo liberale e di mecenate
nei confronti di gente meritevole d’aiuto.
“…Della nobile famiglia ghibellina dei Roberti di Reggio Emilia, fu uomo giusto
e coraggioso, particolarmente attento ai doveri dell’ospitalità cortese, di che
Dante ebbe a lodarlo nel Convivio (IV, 16, 6) … Più tardi, Guido dei Roberti da
Castello sarebbe incorso nell’ostracismo dei concittadini guelfi, e sarebbe
riparato a Verona nel 1318, dove Dante può averlo conosciuto…”
(Bernard Delmay: I personaggi della Divina Commedia. Classificazione e
Regesto. Firenze, Olschki, 1986, p. 192)
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Non è da escludersi, tuttavia, che Dante abbia conosciuto il Roberti da Castello a
Verona, ma se la fonte di Benvenuto da Imola può essere considerata veritiera, è
a Reggio Emilia che Dante conobbe Guido, ospite in casa sua, e forse proprio o
immediatamente prima o proprio nel 1306 quando Dante si accingeva a
raggiungere la Lunigiana (forse) attraverso il passo del Cerreto.
Ecco, allora, che l’epigrafe scolpita nella lapide ora perduta, e prima posta sulla
casa torre di Burano, poteva ben testimoniare un possibile soggiorno di Dante
nella casa torre stessa.
Esiste, poi, una bellissima veduta del castello e del borgo di Verrucola di
Fivizzano, litografia “Pubb.[licata] dal Prof. H. Topin” e stampata a Livorno,
dove si legge: “Castello della Verrucola / Ove abitò Dante nella Lunigiana”,
asserzione che ovviamente va letta “Castello della Verrucola nella Lunigiana,
ove ebbe occasione di sostare Dante”
Aveva trattato l’argomento della “…strada maestra che da Reggio … conduce in
Lunigiana…” Livio Galanti, che ipotizzava la venuta di Dante, proveniente
probabilmente da Bologna, affermando che ci “…starebbe anche la conoscenza
diretta che egli dimostra di aver avuto della famosa pietra di Bismantova: una
conoscenza che gli potrebbe aver dato il viaggio da lui compiuto seguendo la
strada, anche allora molto in uso, che da Reggio, passando per Castelnuovo nei
Monti, Passo del Cerreto e Fivizzano, conduceva direttamente ad Aulla donde,
con pochi chilometri della via francigena, poteva raggiungere i feudi dei suoi
ospiti in alta Val di Magra…”
(Galanti, L.: Il soggiorno di Dante in Lunigiana. Mulazzo, Centro Dantesco della
Biblioteca Comunale, Pontremoli, Artigianelli, 1985, p. 62)
Recentemente è intervenuto (ms. presso l’A.) sull’argomento Rino Barbieri:
“…Il passo dell’Ospedalaccio (per la presenza di un antichissimo ricoveroospedale per i viandanti) … nel 1306 quando Dante passò da questo passo pr
discendere all Castello della Verrucola Bosi e per poi aggiungere … Mulazzo …
Perché affermiamo che Dante è passato dall’Ospedalaccio? … perché era la via
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più breve che univa Verona alla Lunigiana … E il primo nucleo abitato che avrà
trovato è Sassalbo … quello stesso paese a cui diresse – per pura tradizione
popolare- le presenti parole:
‘Paese che vien notte avanti sera!
Gente da bastro, da bastoni, da galera.”
(Barbieri, R.: Agnino. Il paese dai 18 campanili. Una comunità agricola e
religiosa in Lunigiana. ms presso l’A.)
“… Se certa è la data della presenza di Dante in Lunigiana, non altrettanto
precise sono le circostanze che determinarono la sua venuta tra noi … Primo
rifugio Verona, dove la famiglia degli Scaligeri lo accoglierà onorevolmente. Fra
gli Scaligeri ed i Malaspina esistevano rapporti di parentela; frequenti erano
pure i contatti di natura politica fra le due potenti famiglie ghibelline. E’ lecito
quindi supporre che sulla base di questi rapporti abbia preso consistenza l’idea
di un incarico di fiducia da affidare a Dante presso i Malaspina. Ai quali, d’altra
parte non era certo sconosciuto il nome di Dante, non soltanto come partecipe
alla vita politica di Firenze ed alla posizione che in essa egli aveva assunto, ma
anche, e forse più, per la fama cui egli era già salito come autorevole esponente
di quel gruppo di iniziatori di una nuova scuola poetica le cui voci erano ben
note presso le corti malaspiniane e segnatamente presso quella di Franceschino
di Mulazzo per la protezione da lui accordata ai poeti esuli di Provenza e di
Toscana…”
(Da Milano, V.: Dante in Lunigiana. Sarzana, Canale, 1966, p. 14)
A proposito di ‘protezione’ accordata ai poeti esuli, interessante e stimolante
risulta il lavoro di Gilda Caiti Russo:
“…Scarsi sono … gli approcci al mecenatismo malaspiniano che non si
esauriscano nel commento dantesco e nella celebrazione del suo mito … Ho
cercato quindi altrove di accorpare i materiali utili alla definizione del
mecenatismo malaspiniano nell’edizione critica dei 36 testi trobadorici che
presentano allusioni o dediche ai Malaspina…”
(Caiti Russo, G.: La corte malaspiniana e i suoi cantori: dal mito dantesco alla
storia di uno spazio ‘cortese’. In: Pier Delle Vigne in Catene. Da Borgo San
42
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Donnino alla Lunigiana Medievale. Itinerario alla ricerca dell’identità storica,
economica e culturale di un territorio. Atti del Convegno itinerante., 2006.
Sarzana, Grafiche Lunensi, 2006, p. 67. L’A. si riferisce al suo: Les trobadours
et la cour des Malaspina. Università Paul-Valéry Montpellier III, Lo gat ros,
Montpellier 2005)
Anche Nunzio Vaccalluzzo aveva espresso una valutazione simile a quella sopra
ricordata di Vincenzo Da Milano:
“…Perduta … la speranza di rientrare in patria, l’Esule bussò alla porta de’
potenti per cercarvi una onorata ospitalità; e il ‘primo rifugio’ fu Verona, alla
Corte degli Scaligeri, la cui ‘cortesia’ sarà contraccambiata dal Poeta con
generosità da Grande a Grande … [ma] dovrà parer duro a lui, ex Priore d’un
Comune repubblicano, viver la vita di Corte … e quella vita di Corte celebrerà
in versi non meno generosi anche in onore de’ marchesi Malaspina di Lunigiana,
antico ospizio di poeti e secondo rifugio dell’Esule, che per legittimo patrocinio si
fa tra’ Malspina e il vescovo di Luni miglior paciaro che non fossero i messi
papali a Firenze…”
(Vaccaluzzo, N.: Dante Esule. Catania, Studio Editoriale Moderno, 1922, pp. 37,
38)
La questione, in fine, dell’incarico dato a Dante dai Malaspina resta ancora oggi
irrisolta.
Dante si trovava in Lunigiana, e la Lunigiana aveva già ospitato altri esuli
fiorentini.
Dante era ospite dei Malaspina, e la ‘cortesia’ delle Corti Malaspiniane era ben
nota fin dai tempi di Alberto, poeta provenzale di non trascurabile rilievo.
Dante stesso dà una sua straordinaria testimonianza della “…fama che la vostra
casa onora…”
In Val di Magra, “…li vostri paesi…” (‘palesi’ in tutta Europa) erano i tanti
feudi Malaspiniani, e in particolare, per Dante, Villafranca, Mulazzo,
Giovagallo.
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44
Livio Galanti avrebbe tanto desiderato che gli studiosi delle incognite di Dante
in Lunigiana convenissero con lui che esisteva un terzo documento il quale a
pieno titolo sarebbe potuto essere aggiunto ai due di Sarzana, benché non
costituisse una diretta testimonianza come quelli.
“…Intendo riferirmi alla nota, che nel suo commento all’opera paterna, il figlio
Pietro ha lasciato circa la predizione che l’anima espiante di Corrado Malaspina
fa al Poeta nella memorabile chiusa del canto VIII del Purgatorio. …
L’importanza storica di questo commento è sempre stata riconosciuta da tutti gli
esegeti della Commedia, tanto che il Filelfo dichiarava che non si può rettamente
commentarla senza aver consultato quanto ne ha scritto il figlio Pietro, il quale
era sempre col padre e ne era meglio informato…”
Pietro Alighieri “A proposito della predizione fatta da Corrado al padre aveva
scritto:
‘…Inde pronosticatur Dantem exulare, et divenire ad standum cum certis de
domo sua praedicta, et habere magnum honorem ab eis. Et sic quod auditum
judicabat auctor, erat expertus de facto in sua persona: et ita fuit…’
… Il fatto che [il figlio di Dante] non ci fornisca dettagli in merito dipende dal
carattere stesso di Pietro che, come autorevolmente dice il Vallone … ‘I momenti
che possono riguardare la biografia del padre sono sempre lineari, asciutti,
appuntati senza nessun segno esterno di partecipazione o d’imbarazzo…’ ..,
(Vallone, A.: Storia della critica dantesca dal XIV al XX secolo. Milano,
Vallardi, 1981, pp. 95, 98)
Pietro, come si vede, non si dilunga in particolari, ma tiene a farci sapere che
quanto asserisce corrisponde pienamente a verità … Con che viene pienamente a
confermarci che le lodi, che il padre fa del pregio della borsa e della spada della
famiglia Malaspina di Val di Magra, sono il frutto di una sua personale
esperienza: che è quanto dire che egli era stato realmente in questa regione …
Ed è pertanto pienamente giustificata la sua [della frase di Pietro Alighieri]
inclusione fra i documenti ufficiali che comprovano la presenza del Poeta in Val
diMagra.”
44
45
(Galanti, L.: Il soggiorno di Dante in Lunigiana. Pontremoli, Artigianelli, 1985,
pp. 48, 50)
Dante concentra la propria considerazione nei confronti della Casa Malaspina e
della Lunigiana, come territorio, e come ‘popoli’, nel Canto VIII del Purgatorio.
Scriveva Pompeo Giannantonio che “…L’incontro di Dante con Corrado
Malaspina, riprendendo i motivi principali del trittico dei canti di Sordello, ossia
le discordie e l’esilio, la presente decadenza dei prìncipi e della tradizione
cavalleresca, ne accentua i valori dando enorme risalto alla figura del marchese
e grande prestigio ai Malaspina …
Le lodi che Dante tesse per i Malaspina sono non solo testimonianza di
gratitudine per l’ospitalità, ma anche nostalgia per le tramontate virtù
cavalleresche, di cui i Malaspina furono degni depositari, come i trovatori
provenzali a lungo attestarono con la loro continua presenza a corte e con i loro
elogi, che il fiorentino riprende e formula senza parsimonia …
I Malaspina privilegiano per tradizione e per naturale inclinazione una
superiore morale, che il mondo disprezza e che solo essi seguono in armonia
colla fedeltà al buon tempo antico …
Ai Malaspina e alla Lunigiana il poeta si volge con particolare tenerezza …
Nelle corti malaspiniane, dopo le prime delusioni dell’esilio e le cocenti amarezze
dell’indigenza, si riscoprì uomo e artista, non inutile alla società, né deluso delle
sue passioni politiche e dei suoi disegni poetici … Le ambizioni territoriali delle
città limitrofe avevano impedito alla Lunigiana la crescita e l’affermazione di un
ceto urbano e nel contempo avevano soffocato l’unificazione amministrativa e
politica del complesso feudale dei Malaspina. Non si inseguivano, come in altre
regioni, perciò, sogni di grandezza o si tessevano intricate orditure politiche …
L’incarico di concludere con il vescovo di Luni la pace attesta la considerazione
in cui veniva tenuto il poeta, che doveva ripagare la generosa ospitalità e la
ritrovata tranquillità con mansioni che non mortificavano la sua persona né gli
ricordavano la sua precaria condizione di esule.
In Corrado Dante ha sommato tutte queste virtù …
La Lunigiana per Dante significò, dunque, una lieta parentesi nel doloroso esilio
… una regione propizia alla meditazione … Lo stesso poeta ci offre tale chiave di
45
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lettura, quando nell’epistola Morello rammenta le meditationes assiduas, quibus
tam celestia terrestria intuebar (Ep. IV, 4) e che accompagnarono la sua
permanenza lunigianese …
… alla Lunigiana vanno riconosciuti non solo il merito della generosa ospitalità
… ma anche di aver contribuito notevolmente alla crescita e al consolidamento
del poema, che nella serenità,nella storia,nei personaggi e negli uomini delle sue
contrade rinvenne incentivazione e disponibilità.”
(Giannantonio, P.: Dante e la Lunigiana. In: Dante e le Città dell’esilio. Atti del
Convegno Internazionale di Studi. Ravenna (11-13 settembre 1987). Ravenna,
Longo Editore, 1989, pp. 42, 46)
Non si possono scrivere espressioni più edificanti di queste nei confronti della
Lunigiana e della Casa Malaspina in Val di Magra al tempo di Dante.
Ma una riflessione è opportuna: la grave conflittualità che tra il Duecento e il
Trecento deprime e insanguina la Lunigiana, sembra, stando alle parole di
Giannantonio, che d’un tratto non esista più in grazia del presunto protratto
soggiorno di Dante, e che tale soggiorno faccia svanire ogni evidenza di lotte e di
prevaricazioni come fa il sole quando evapora il ‘vapor di Val di Magra’.
Il dettato poetico trae molto spesso la propria forza rappresentativa più che
dall’osservazione della nudità dei fatti, dall’interpretazione subliminale o
sottocorticale degli stessi.
Giannantonio ci lascia intravvedere una Lunigiana dove ‘i cortili’ dei castelli
malaspiniani sembrano notte e giorno risuonare di melodie trobadoriche, di
giostre e tornei, i campi circostanti.
Non sappiamo né dove, né quando, e neppure per quanto tempo Dante ebbe
modo di soggiornare in Val di Magra.
E’ vero: “…Non si inseguivano [in Lunigiana], come in altre regioni … sogni di
grandezza o si tessevano intricate orditure politiche…”, ma la storia della
Lunigiana malaspiniana è tessuta di continui e violenti soprusi fra consorti, e di
altre miserabili occorrenze. La legge prescelta dai Malaspina impediva il diritto
di primogenitura, per cui, Dante vivente, già si corrodeva la dimensione
territoriale della grande Casa, che ridotta a frammenti si sminuzzava in
minuscoli, impotenti, e litigiosi marchesati.
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Solo Spinetta ‘il Grande’ fu in grado di concepire un disegno ‘grande’, che fu
cancellato in sul nascere dalla mancata adesione dei Malaspina ‘i piccoli’
Leggo, rileggo, e credo alla sincerità dell’elogio dantesco nel Canto VIII del
Purgatorio. Nell’elogio ravviso (opportuni) accenti pleonastici, ma condivido
umilmente le affermazioni di Pompeo Giannantonio:
“…Altre località, altre genti, altri signori conoscerà il poeta nelle sue
peregrinazioni, ma nessuno eguaglierà nel ricordo e nell’esaltazione la
Lunigiana e i Malaspina, perché Verona e gli Scaligeri avranno per lui ‘benigno
riguardo’ (Par. XVII, 74) e i Polenta furono dalla morte precoce privati di giusti
elogi…”
Dante aveva conosciuto di peggio delle lotte tra i Malaspina e il vescovo di Luni.
Ustioni indelebili sulla sua stessa pelle, i decreti dei fiorentini nei suoi confronti.
A fronte dell’infame violenza usatagli dai suoi concittadini, già una semplice, e
forse rude, stretta di mano di Franceschino di Mulazzo, valeva per il Poeta più
di ogni altro valore.
“…L’Esule fiorentino [riassume, e chiarifica Vasco Bianchi] fu a Sarzana e a
Castelnuovo; in altri luoghi di Lunigiana la sua presenza è affermata solo dalle
varie tradizioni popolari, che non sempre, tuttavia, si rivelano basate sui quei
‘pubblici motivi di vero’, ad esse attribuiti dal Vico. In alcuni luoghi - Mulazzo,
Giovagallo, Villafranca - le tradizioni sono verosimili; in altri - Fosdinovo,
Monastero di Capo Corvo - leggendarie”
(Bianchi, V.: Presenze Dantesche in Lunigiana. In: Cronaca e Storia di Val di
Magra. Pontremoli, Artigianelli, 1976, p. 35)
Drastica, certamente, ma serena, e soprattutto opportuna, l’affermazione di
Bianchi, che mi riporta alla mente l’indirizzo rivolto al ‘Lettore’ da Filippo
Trombetti di Aulla, ‘Dottore di Filosofia, e Medicina, Collegiato Genovese’, nel
suo libro La Bilancia:
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“La verità abita in terra fra le opinioni, come il Sole in Cielo, quando è in mezzo
alle nuvole. Il verisimile, ch’è il maggior nemico del vero, pure con ipocrisia di
colori lo ritrae sì al vivo, che l’intelletto bene spesso abbaglia, apprendendo, che
sia reale ciò, ch’è solo apparente; siccome l’occhio travede, non discernendo il
parelio [alone luminoso attorno al sole] dal Sole. Quindi nasce la diversità delle
opinioni ne’ Letterati, i quali, nell’inchiesta del vero, per diverse strade, come
linee contrarie, tendono al medesimo centro…”
(Trombetti, F.: La Bilancia. Genova, Casamara, 1682, p. 11)
§§§
Dalla Pietra di Bismantova al Passo del Cerreto il tragitto è breve (specie
ora con le auto) ma che comunque questa strada di valico sia sempre
stata trafficata, anche in tempi più vicini a noi, lo dimostra
quest’originale targa, posta su un cantonale di casa nel paese di Cerreto
Alpi, dove sostavano a ritemprarsi i viaggiatori.
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L’oste della taverna, in vena poetica, ha scritto il suo motto che recita: "GONFIO
V'ASPETTO E NON PERO' SATOLLO, SATIO MI RENDO MA POI, BEN AFFAMATO"
Ricordo ancora che il Passo dell’Ospedalaccio o Centocroci attraverso i
due paesi di Camporaghena e Torsana, era in collegamento anche con
l’antico Malpasso ossia il Passo del Lagastrello, che si attraversava per
raggiungere direttamente la città di Parma. Specialmente per chi
arrivava dalla Valle del Serchio, era il percorso più breve che univa Lucca
a Parma. Un percorso, questo dell’Ospedalaccio, già utilizzato in tempi
della conquista romana di queste terre quando Roma combatteva
contro i Liguri e i Friniati. Appunto questo tragitto o strada delle
“CENTO MIGLIA” era quello che permetteva di spostare rapidamente le
truppe dalle città appena fondate dai romani nel II secolo a.C. e che
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50
erano Parma e Lucca, fra loro distanti appunto 100 miglia romane (Circa
150 km). Strada questa, citata nell’Itinerario Antonini del IV secolo d.C.,
che passava per Fivizzano che era poi l’antico FORO CLODI indicato
anche nella Tabula Peutingeriana e distante questo appena XVI miglia
romane da Luni. Insomma la città di Fivizzano, che continua anche nel
medioevo a chiamarsi FORO (Forum Fivizzani) vanta origini millenarie.
Su di essa confluivano i vari percorsi viari attraverso i passi del
Lagastrello, Ospedalaccio (Cerreto) e Tea (Carpinelli) e da qui verso la
costa del Tirreno Settentrionale e la Costa della Liguria di levante oltre
che naturalmente verso la Lunigiana tutta.
Proprio su questo tema lo scrivente ha tenuto una conferenza a
Fivizzano, dove ho puntualizzato la necessità di rispolverare la “Via
Francigena di Montagna” che passava, toccando il capoluogo, a Nord
delle Alpi Apuane e che era stata chiamata “Via del Volto Santo” per
distinguerla dalla Via Francigena vera e propria, o meglio dalla Via di
Sigerico, che passava a sud delle Apuane. Entrambe le vie, dalla
Lunigiana portavano i viandanti, pellegrini e i commerci a Lucca. Oggi
passano su queste vie i turisti e i camminatori amanti del trekking.
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Foto sopra: manifesto della mia conferenza. Notarsi la foto del fonte battesimale presente nella
Chiesa parrocchiale dei Santi Antonio e Iacopo e con il simbolo del Tau e del Bordone, il
bastone dei viandanti. La linea segnata in celeste indica la Via del Volto Santo.
Questa sotto è un’immagine più chiara del cammino detto VIA DEL VOLTO SANTO:
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Nella foto: La Via del Volto Santo che da Pontremoli, attraverso tutta la Lunigiana e la
Garfagnana, porta a Lucca dove è possibile ammirare nella cattedrale di San Martino
l’immagine del Volto Santo.
*****
La Lunigiana, è risaputo, deriva il suo nome da LUNAE cioè da LUNI città
etrusca-romana. Con l’avvento del cristianesimo e la nascita della Diocesi
di Luni tutta la vallata della Magra è finita sotto tale giurisdizione. Il
giornalista spezzino Gino Ragnetti nel suo bel libro “LUNA una misteriosa
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città romana nel golfo della Spezia” ci ricorda che Luni era un villaggio
ligure diventato etrusco (citando le fonti di Strabone, Plinio, Marziale) ma
evidenziando anche come altri studiosi abbiano fatto notare che non ci
sono testimonianze (tombe ecc.) di tale civiltà etrusca.
Luni è sicuramente fondata come cittadina romana nel 177 a.C. ma forse
esisteva un PORTUS LUNAE, nato prima della fondazione romana di LUNI,
proprio nel golfo della Spezia. E Gino Ragnetti, che ne è convinto, lo
dimostra ampiamente con il suo libro-testimonianza dove riporta la tesi di
molti studiosi che la sostengono (Non sono uno studioso ma Gino mi ha
convinto); mentre per la vulgata popolare il porto romano di Luni era
proprio a Luni.
Sul toponimo LUNI riporto questo scritto da Wikipedia:
“Il nome della città deriverebbe dalla sua consacrazione alla dea romana
"Lunae" (appellativo popolare con cui veniva identificata Diana Lucifera), anche
in considerazione della forma a falce dell'allora porto cittadino. Taluni studiosi
però farebbero risalire l'etimo a Lun che con il consimile Luk vorrebbe riferirsi
al termine "palude". Ed in effetti sia la colonia di Luni, sia quella di Lucca erano
originariamente circondate da ampie zone paludose che via via
i Romani riuscirono a bonificare nel corso di secoli”
Dal nome della colonia deriva quello di LUNIGIANA……”
Puntualizziamo ancora che Erodoto, storico greco nato ad Alicarnasso nel
484 a.C., ci ha descritto GLI ETRUSCHI come la fusione di popoli italici con
gente arrivata via mare (per motivi di carestia) dai porti della Lidia e Licia
(Anatolia o Turchia) intorno al 900 a.C. Questi popoli sono arrivati forse
anche nelle nostre terre? Non ne abbiamo dimostrazione, certo però che
anche lo stemma della città di Sarzana riporta “ La Luna e la stella a otto
punte” chiamata anche “Ruota del tempo”, entrambi segni che ritroviamo
in Mesopotamia e in Turchia. La Bandiera Turca riporta come segni LA
LUNA e una STELLA a cinque punte! Queste sono civiltà che hanno
sempre avuto nell’osservazione del cielo una forte cultura.
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Stemma di Sarzana
Bandiera della Turchia
In definitiva Lunigiana ha a che fare con la Luna, non come astro, ma
come simbolo ed anche altri comuni ad esempio Fivizzano, Casola,
Licciana Nardi, Podenzana hanno nel loro stemma il simbolo della Luna
cioè quell’emblema che identificava la cittadina di Luni romana. La
Lunigiana ha invece sicuramente (senza escludere i culti lunari) la
tradizione di culti solari di cui ho dato testimonianza nel mio libro
“Lunigiana la terra del sole”.
A questo punto devo rilanciare una mia supposizione (difficilmente
dimostrabile) che dice come il nome di “Lunigiana” possa essere derivato
dai molti luoghi delle Fate (ossia Grotte delle Fate) esistenti ancor oggi in
Lunigiana (Leggasi il mio libro: Lunigiana la terra del sole). Luoghi ove si
andavano ad adorare il sole scavandovi cavità nella roccia. Luoghi
analoghi per forma e periodo di costruzione a quelli che in Sardegna
chiamano le DOMUS DE JANAS (Si pronuncia Gianas!) cioè CASE DELLE
FATE che sono cavità scavate nella roccia e anche luoghi di antica
sepoltura. Domus (case) de janas che sono uguali alle nostre GROTTE
DELLE FATE. In definitiva: nella Valle della Magra c’erano le GIANAS di
LUNI da cui LUNI-GIANAS e quindi LUNIGIANA!
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Ecco forse spiegato perché sul monte Caprione sopra Lerici (luoghi di
provata preistoria) troviamo “ Il campo di Gia”. Ecco perché a Collegnago
c’è una famiglia che ha il cognome GIA e, guarda caso, questa famiglia era
tradizionalmente proprietaria della cava di arenaria di Costia- Turlago
sopra la quale trova LA GROTTA DELLE FATE; nel linguaggio corrente i
proprietari della GIANAS diventano “ i GIA” da cui il cognome! E’
quest’ultima solo una supposizione ma è dovere di chi fa ricerca aprirsi
alle ipotesi.
Tabula Peuntigeriana , particolare della zona nostra di Luni, Foro Clodi, Lucca e poi
Massa (Taberna Frigida) e Pisa.
A proposito del “Foro Clodi” e del “Forum Fivizzani” ripeto qui quanto
ho scritto su Wikipedia:
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“Fivizzano era dunque una tappa e una stazione di sosta, prima di
affrontare il valico, su quella strada fra Lucca e Parma (Via Nuova Clodia,
quella Strada delle cento miglia che secondo vari storici passava per
il passo del Lagastrello, l'antico "Malpasso, in un punto nodale che
incrociava la strada proveniente da Luni.”
Interpretazione questa dello storico e archeologo Ubaldo Formentini che
aggiungeva: «Il vocabolo <forum> non va inteso in senso lato, cioè nel
significato generico che si traduce anche nella parola volgare <fiera>, ma
implica il ricordo preciso dell'antica istituzione politico-amministrativa che
il vocabolo designa nel linguaggio giuridico romano. Sappiamo infatti che
i fòri erano istituti quasi municipali che i Romani fondavano lungo il
percorso delle grandi strade, per sopperire a necessità di convegno e di
scambio fra popolazioni distanti dai grandi centri urbani, a cui
attribuivano speciali funzioni amministrative riguardanti, appunto, la cura
delle strade e l'organizzazione dei servizi pubblici di trasporto: a ciò si
univa, sistematicamente l'impianto di un presidio militare. Ecco dunque
per qual ragione troviamo, nel luogo di Verrucola -Fivizzano, strettamente
uniti, in modo da formare per lungo tempo un organismo solo, un fòro ed
un castello.......Col risorgere della vita municipale e mercantile, nel secolo
XII, il fòro riprese il suo posto e salì, in breve tempo, a prestigio e
floridezza di vero e proprio centro urbano».”
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Fivizzano oggi in una foto di Matteo Rossi
Veduta delle Alpi Apuane-da sinistra: Il Pisanino, Il Pizzo D’uccello e il Sagro
C’è un particolare da menzionare: il Passo dell’Ospedalaccio, che già il
nome richiama un vecchio ospedale o ricovero per viandanti, era
anticamente chiamato Passo di Centocroci.
Il perché di questo nome l’ho scoperto leggendo la pagina di un vecchio
libro del 1737 in cui si parlava della vita di San Venerio e dell’Abazia di
san Prospero. Quando appunto prima dell’anno mille il corpo fu
traslato, per salvarlo dalle incursioni saracene, da La Spezia a Reggio
Emilia…Cento Croci o Compagnie di devoti con i loro stendardi
incontrarono sul Passo, in quel luogo, il corpo del Glorioso San Venerio.
Da lì il nome di Centocroci che rimase fino al secolo XVII per poi andare
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in disuso. Oggi se chiedete a qualcuno di questo passo di sicuro vi
rimandano ad uno omonimo che è in Liguria, nella Val di Vara.
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Pagina dell’antico libro del 1737 ove si parla della Capella di Centocroci o Ospedalaccio
e di San Venerio.
Ecco chi era San Venerio, l’eremita dell’Isola del Tino. Traggo dal sito
web Santiebeati.it:
“Nacque intorno al 560 e fu un monaco eremita nel monastero un
tempo esistente sull'isola del Tino, isola dell'arcipelago spezzino di cui
fanno parte anche l'isolotto del Tinetto e l'isola Palmaria. Morì nel 630 e
in sua memoria fu costruito sulla sua tomba un monastero ad opera dei
monaci Benedettini. San Venerio divenne il patrono di Luni, ma la città
nel periodo seguente all'anno mille fu saccheggiata a più riprese dai
Vichinghi e, soprattutto, dai Saraceni. Come conseguenza la città cadde
in un periodo molto buio nel quale la sede del Vescovado fu trasferita a
Sarzana. Le reliquie del santo furono invece trasferite a Reggio Emilia,
dove il santo fu affiancato a san Prospero e ai santi Cosma e Damiano,
nel ruolo di patrono della città. In epoca più recente le sue reliquie sono
state traslate sull'isola del Tino, nel Vescovado di La Spezia, con una
solenne cerimonia. San Venerio è il patrono del golfo spezzino e dei
fanalisti d'Italia. (Avvenire)”
Foto mia all’eremo di San Venerio sull’ Isola del Tino
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L’antico Ospedale di San Lorenzo di Centocroci, identificato anche come
“ San Lorenzo in Alpibus” è citato tra le dipendenze dell’Abazia di S.
Apollonio di Canossa nel 1116 in una bolla di papa Pasquale II, era una
dipendenza religiosa matildica che poi passò nel 1137 sotto le
dipendenze del Monastero di S. Prospero di Reggio Emilia secondo un
diploma di Rotario.
Nelle decime del 1296-97 è citato tra gli enti esenti della Diocesi di Luni.
Abbiamo parlato di quest’Ospedale di crinale o Ospedalaccio, toponimo
che dimostrava quanto vecchio e diruto fosse rimasto nel secolo XVI,
ultimi anni in cui era bene visibile e forse utilizzato quest’antico
ricovero.
Oggi questo edificio cosa rimane? Dico subito: poco di visibile.
Ho avuto però una segnalazione da un amico Alberto Thei, appassionato
di storia, che ha trovato note su questo edificio nella Biblioteca delle
Scuole Elementari di Fivizzano.
Lo scritto, bel leggibile, riporta degli appunti risalenti all’anno 1594 su
l’Ospedale di San Lorenzo al Passo di Centocroci ossia dell’Ospedalaccio:
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Il documento è ben leggibile per cui non occorre trascrizione.
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Questo documento credo sia sconosciuto dalla Soprintendenza di Pisa,
poiché non c’è menzione in nessuno scritto relativo alla campagna di
scavi per riportare alla vista il millenario Hospitale. Campagna che è
iniziata nell’anno 2010 e terminata nel 2014 presso alcuni accumuli di
pietre subito dopo il crinale dove l’acqua scende verso Sassalbo e verso
il fiume Rosaro e a poca distanza da questa enorme cippo di confine di
età napoleonica:
Un luogo questo dell’Ospedalaccio dove è passata la storia…
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Gli scavi, diretti dagli archeologi Massimo Dadà e Sascha Biggi, hanno
portato alla luce una struttura muraria con bozzette legate con malta.
Parecchi saggi hanno poi evidenziato la presenza di una coppella con
abside e con vicina un’area cimiteriale. La descrizione del documento
cinquecentesco, sopra riportato, ci dà però un’immagine più grande
(metri 39 x 17) di quello che veramente è oggi affiorato. Forse
occorreranno altri interventi di scavo per fare piena luce su questa
importante testimonianza dei cammini medievali e su questo ben
frequentato Passo Appenninico.
Foto di Mario Chiesi tratta nel web.
Crinale appenninico, versante toscano del passo del Cerreto, a sinistra affioramento dei
gessi, a destra il paese di Sassalbo.
Un passo questo che ha favorito e permesso la penetrazione del potere
matildico anche in Lunigiana su cui ha fatto luce il grande storico
Ubaldo Fiorentini in questo brano che traggo dal suo scritto “SULLE
ORIGINI E SULLA COSTITUZIONE D’ UN G R A N D E GENTILICIO
FEUDALE”
…“Presso le terre dette dei Bianchi, occupanti, come s’ è detto,
l’alta valle dell’ Aulella, sul confine dei comitati di Luni e Lucca,
risalendo verso il confine fra Luni, Lucca e Reggio, nella direzione
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del valico del Cerreto, troviamo la vasta tenuta dei Bosi della
Verrucola. Questi sono senza dubbio della stessa famiglia degli
Erberia. Lo dice espressamente l’ atto del 1106, nel quale i nipoti di
Rodolfo di Casola compaiono insieme con i figli di Boso a nome
Guicciolo, Bosone, Girardo, Guiscardo, come patroni del Monastero
di Monte de’ Bianchi fondato dai loro comuni autori in proprio
territorio. Che il Bosone padre e i suoi figli sopra nominati siano
quelli che diedero il nome al castello della Verrucola, detto appunto
de’ Bosi, è chiarito da documenti contemporanei.”...
Sono partito dal Passo e sono arrivato con la narrazione quasi a casa mia
a Fivizzano- Verrucola, il Feudo del grande Spinetta Malaspina.
Chissà quante volte il nostro feudatario e condottiero Spinetta passò da
questo passo….qualche volta da sconfitto e qualche volta da vincitore.
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Il castello di Verrucola - Fivizzano
Sono partito dall’oro di Sassalbo, l’oro non l’ho trovato io e non
lo troverà il mio lettore. Lo troverà forse la mente se si
arricchisce di nuova conoscenza.
Fivizzano 08/04/2019
Rino Barbieri
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