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Agorà, XLI – 2012 www.editorialeagora.it Per una storia delle clarisse a Catania: da Povere Dame a Viscuttara nel manoscritto inedito di una badessa dell’Ottocento Donatella Pezzino Grazioso e raccolto, il complesso monastico di S. Chiara è ancor oggi un piccolo gioiello di architettura nel cuore del barocco catanese. Un barocco discreto, pacato, che si offre sulla bella via Garibaldi attraverso la sua immagine più rappresentativa, quella del prospetto di una chiesa che è insieme biglietto da visita dell’Ordine religioso e simbolo di un’epoca. La chiesa ed il monastero di Santa Chiara segnano, come tutti gli altri edifici ricostruiti dopo il 1693, una cesura, un taglio netto nei confronti del passato. Il sisma aveva raso al suolo l’intera città: per questo motivo, l’esigenza che si presentò non fu tanto quella di ricostruire, quanto quella di reimpiantare una nuova città sul sito della precedente. Ciò favorì l’introduzione di nuovi criteri per l’ubicazione dei nuovi fabbricati monastici: non più comunità femminili isolate in prossimità di mura e bastioni, come volevano i canoni dell’eremitaggio medievale, ma grandi e comodi edifici nel centro cittadino e, in particolare, nel quartieri “alti” come imponeva la dignità delle religiose. Le disposizioni del Concilio di Trento ( 1545-1563 ) dettano a tal proposito norme precise e tassative. Da evitare sono soprattutto i luoghi remoti, quelli prossimi a comunità maschili, le abitazioni private, le mura e le torri; a proteggere le recluse da qualsiasi contatto con il mondo esterno saranno ora chiostri cinti da alte muraglie, la cui accessibilità è riservata ai soli parlatori 1. Sulla via pubblica è possibile accedervi direttamente tramite un apposito ingresso: al loro interno, il contatto fra la religiosa ed i parenti è schermato da spesse grate velate di nero. Il parlatorio, lungi dall’essere un’anticamera spoglia ed austera, era sovente ornato da pregevoli pitture eseguite da artisti di gran fama. Fu Francesco Sozzi a dipingere sulla volta del parlatorio di Santa Chiara il mirabile affresco con San Francesco d’Assisi, Santa Chiara ed il Padre Eterno; dello stesso artista si può ancor oggi ammirare il Trionfo di Santa Chiara sulla volta della chiesa. Questa tendenza ad avvalersi dell’opera di insigni pittori, scultori ed architetti è un tratto tipico della settecentesca rinascita catanese: sono comunque gli Ordini religiosi, in particolare quelli femminili, a gareggiare fra loro in questo senso. Le monache di Santa Chiara non avevano certo il prestigio dei conventi benedettini più dotati, come quello di San Giuliano; anzi, pare che le clarisse fossero trattate con sprezzo e sufficienza dalle comunità catanesi “altolocate”. Guglielmo Policastro riferisce di una polemica sorta proprio all’indomani della ricostruzione fra le clarisse e le benedettine di San Giuliano: queste ultime esigevano senza mezzi termini che le monache di Santa Chiara togliessero dalle loro finestre le grate panciute, ritenute unico appannaggio dei conventi più ricchi. Le benedettine rivendicavano solo per sé un diritto che, a loro avviso, non spettava alle clarisse, chiamate dal popolo con l’appellativo di viscuttara per il loro commercio ( infamante e scandaloso, secondo l’ottica delle religiose di estrazione sociale più elevata) di biscotti, vino e uova2. 1 Si veda in proposito Gabriella Zarri, Recinti Sacri. Sito e forma dei monasteri femminili a Bologna tra ‘500 e ‘600, in S.Boesch Gajano e L.Scaraffia, Luoghi sacri e spazi della santità, Torino, Rosemberg & Sellier, 1990, pp. 381-396. 2 Guglielmo Policastro, Catania nel ‘700, Torino, SEI, 1950. L’appellativo “Viscuttara”delle clarisse restò nella memoria del popolo ancor più perché, come si vedrà più avanti, dopo la soppressione post-unitaria del monastero(1866) una delle converse, Mara Messina, tornata in famiglia, consegnò il segreto dei famosi biscotti a Eppure, anche se la popolazione di Santa Chiara proveniva da ceti borghesi e della piccola nobiltà dotati di risorse economiche tutt’altro che esorbitanti – ricordiamo che erano per lo più le badesse a finanziare a proprie spese l’esecuzione dei lavori - non si può fare a meno di notare che per la costruzione e l’abbellimento della loro chiesa non si badò a spese 3( mentre il convento, oggi sede degli uffici dell’anagrafe, appare certamente più spartano). Costruita fra il 1760 ed il 1764 sui resti della chiesetta di san Lorenzo, della quale ci restano comunque alcuni arredi ( il dipinto di P.Paolo Vasta sul secondo altare di destra, dedicato proprio a San Lorenzo; L’Immacolata di Olivio Sozzi; due grandi candelabri in ottone) la chiesa ha pianta ellittica ed è ripartita in cinque altari. Il pavimento, felice intarsio di marmi policromi, e gli angeli delle acquasantiere nel vestibolo portano la firma del grande scultore G.B. Marino4; altrettanto insigne l’architetto cui fu affidato il progetto di chiesa e monastero, il messinese Giuseppe Palazzotto5. Sotto l’altare del Sacro Cuore è ubicata la cripta delle clarisse, oggi assolutamente inaccessibile. Le clarisse furono, fino alla metà del secolo XIX, sepolte sotto la chiesa, entro locali angusti e mal tenuti come ci testimonia uno degli ultimi visitatori, lo storico Francesco Granata: lo stesso che ha formulato l’interessante ipotesi che quei locali fossero in realtà i resti dell’antica chiesetta di San Lorenzo, fortemente danneggiata dal sisma del 1693 e poi demolita per far posto al nuovo complesso monastico6. In realtà, prima del terremoto, le clarisse di Santa Chiara non avevano mai avuto un monastero costruito ad hoc: nel 1543 il suo fondatore, Antonio Paternò di Oxina, mise a disposizione del nuovo istituto un tenimento di case, un grande caseggiato che arrivava fino a ridosso della Porta della Decima, vicino al Castello Ursino; la chiesetta di San Lorenzo apparteneva già a quel complesso, e le clarisse poterono avvalersene per le necessità del culto. In realtà, quella del barone di Oxina non fu la prima e l’unica fondazione di S. Chiara a Catania: esisteva già dal 1220 un convento di clarisse sulla collina di Montevergine, vicino all’abbazia dei Padri benedettini. Oggi, di quel vecchio convento ci resta solo l’indicazione del sito, una traversa di via Santa Maddalena chiamata appunto via Montevergine. Fu il primo monastero di clarisse di tutta la Sicilia di cui oggi si abbia notizia, e sorse mentre era ancora viva Santa Chiara. Una prima ricostruzione storica delle vicende di queste antiche fondazioni e del loro stato patrimoniale fu intrapresa nel 1854 dalla badessa Suor Maria di Gesù Lo Giudice: un manoscritto rimasto inedito che non aveva in verità alcun intento letterario, come dichiara la stessa autrice, ma ottemperava ad un alto incarico del Real Governo7. Tuttavia, nonostante l’iniziativa non sia stata in questo caso dettata dagli interessi personali della superiora di S.Chiara, si rivela preziosa per comprendere il livello culturale di una particolare categoria di donne dell’epoca, a cui veniva richiesto sempre un grado di istruzione adeguato a responsabilità e incarichi particolarmente gravosi e delicati 8. E la badessa Lo Giudice non solo si rivela abile nella stesura del testo, ma mostra disinvoltura anche nel destreggiarsi fra le antiche pergamene ( allora ancora in possesso del monastero, oggi in gran parte perdute) e, cosa ancor più importante, nell’organizzare la struttura dell’opera realizzando con coerenza i collegamenti e cercando di sopperire in taluni casi con la logica all’incompletezza del esse( ancor oggi apprezzatissimi dai catanesi)alla nipote, la quale ne fece l’attrazione principale del biscottificio del marito Giovanni Arena. 3 Molto particolareggiate le cifre riportate a riguardo dalla badessa Suor Maria di Gesù nel 1854, in Archivio Storico Diocesano di Catania ( d’ora in poi ASDC), Fondo Religiose, C.F.33, fasc.2. 4 Fu grazie al contributo economico della ricca badessa Corvaja che le monache di S.Chiara poterono commissionare al Marino lavori tanto costosi. In G.Policastro, Catania nel 700…cit. 5 Per maggiori dettagli sull’aspetto architettonico della chiesa di S.Chiara si veda Giuseppe Dato, La città di Catania. Forma e struttura 1693-1833, Roma, Officina Edizioni, 1983, p.73. 6 Francesco Granata, La sepoltura “sepolta” delle clarisse, in F.Pergolizzi ( a cura di ), Monasteri e chiesa di S.Chiara in Catania, 1998, pp.44-46. 7 In ASDC, Fondo Religiose, C.F.33, fasc.2. 8 Sugli incarichi, le responsabilità e il peso politico delle badesse nel contesto urbano si veda G.Zarri, Monasteri femminili e città ( secoli XV-XVIII) in G.Chittolini e G.Miccoli( a cura di ),Storia d’Italia. Annali IX.La Chiesa e il potere politico, Torino, Einaudi, 1986, pp.359-429. materiale( ricordiamo che molti documenti erano andati distrutti con il terremoto del 1693).“Il monastero di Montevergini” scrive in apertura” fu eretto in Catania l’anno 1220 dal Vescovo Monsignor Gualtiero da Polena vicino le mura, e la porta del Re sotto la Regola di Santa Chiara , e vi soggiornavano a quel tempo 40 monache che vivevano di pie elemosine.” Di pie elemosine dunque, come voleva la Santa di Assisi: il sostentamento derivava da piccoli lavori casalinghi e dal cibo e quant’altro di necessario ricevuti in dono, o richiesti senza imbarazzi. Nel 1300 Bonifacio VIII concesse alle clarisse di Montevergine la libertà di scegliere se osservare o meno la Regola Damianita, ossia la versione rigida della Regola di Santa Chiara che prescriveva l’assoluta povertà e vietava di ricevere lasciti e donazioni. “ Indi per diploma del 1536” scrive ancora la Lo Giudice” dal Pontefice Paolo Terzo, fu accordato il privileggio a quelle claustrali di acquistare delle proprietà, onde in prosieguo il monastero sudetto fu colmato di molte dotazioni.” Così le monache di Montevergine poterono cominciare a ricevere ufficialmente lasciti e a disporre di proprietà: nonostante ciò, ad un attento esame delle fonti d’archivio, il suddetto convento risulta sempre in condizioni economiche precarie. Nel Seicento la sua popolazione monastica risulta spesso scarsa ( alla vigilia del sisma contava all’incirca 15 monache9) e le sue risorse limitate. Più volte nel corso del secolo le clarisse di Montevergine chiesero ed ottennero dal vescovo licenza di poter alienare le proprietà del monastero: in un documento del 1637 la badessa Suor Aurelia Moncata definisce “povero” il suo convento10. La situazione migliora decisamente un secolo dopo: non tanto perché le povere dame siano ora maggiormente dotate di beni stabili – dai quali ricavano somme piuttosto esigue rispetto alle consorelle benedettine – quanto per le rendite derivanti dalla mescita del vino, dalla vendita dei dolci e di altri prodotti alimentari. Molto cospicui, nel loro caso, anche gli introiti derivanti da bolle e censi: nel 1723 ne è registrata una lista interminabile per un totale di ben 432 onze, segno che, dopo il terremoto, la rinascita dell’Ordine di Santa Chiara a Catania è un tutt’uno con la costruzione di un’economia solida e ben organizzata. A Montevergine e Santa Chiara, nel corso del XVII secolo si era aggiunto un nuovo cenobio di clarisse. Nel 1575 infatti,il regio cavaliere Don Pietro Seminara aveva istituto suo erede universale un nuova fondazione da erigersi nelle sue case di contrada Spirito Santello, sulle sponde dell’ Amenano ( il fiume che oggi scorre sotto la città e sbocca nella fontana all’ingresso della pescheria). Il monastero fu poi trasferito a causa dell’aria malsana nel 1602 poco distante dalle fabbriche di S.Chiara. Catania contava a quei tempi ben 14 monasteri di donne solo nel centro urbano: oltre ai già citati chiostri di regola francescana c’era infatti un nutrito gruppo di case religiose benedettine e alcuni reclusori. Nella fase ricostruttiva che seguì il sisma del 1693 venne decretato, anche considerando l’esiguo numero di monache superstiti, un deciso ridimensionamento di queste comunità: solo 6 conventi femminili, 5 di benedettine e 1 di clarisse. Di conseguenza, il nuovo monastero di Santa Chiara accorpò in sé i resti di tre istituzioni e venne denominato monastero di Santa Chiara, Montevergine e San Girolamo . La sua prima badessa, suor Gesualda Lelli, era l’unica sopravvissuta al crollo del venerando monastero di Montevergine. Se difettiamo oggi di notizie architettoniche riguardanti proprio quell’antica, primissima fondazione, non ci mancano le notizie storiche riguardanti la sua vita e la sua popolazione. Al cenobio di Montevergine appartenne una famosa “santa viva” siciliana, la Venerabile Suor Agata Platamone, che, come scrivono Policastro e Consoli 11, ebbe il dono della profezia e morì in odore di santità nel 1565. La Venerabile tenne una fitta corrispondenza con Filippo II di Spagna, il quale la teneva in grandissima considerazione e si raccomandava spesso alle sue preghiere; si racconta che, fattasi dapprima benedettina a S.Lucia, fu attratta dallo spirito di povertà ed ascesi delle clarisse e decise di diventare una di loro. Pare che, in segno di penitenza,abbia fatto in ginocchio tutta la 9 ASDC, fondo religiose, C.F.27. E’un documento che elenca tutti i nomi delle professe di Montevergine in occasione di una riunione finalizzata all’alienazione di una proprietà immobiliare del convento ( 1690). 10 Ibidem. In quel frangente la badessa di Montevergine, insieme alla superiora di un’altra comunità, quella delle Convertite, chiedevano al vescovo licenza di poter vendere un magazzino che i due conventi possedevano in comune e che per mancanza di mezzi finanziari non potevano restaurare. 11 Consoli Giuseppe, Santi ed eroi di carità in Catania, Catania, 1950. strada da S.Lucia a Montevergine . Le sue reliquie furono gelosamente conservate per secoli dalle consorelle, e dopo il terremoto furono recuperate e traslate nella nuova chiesa di S.Chiara. Ai tempi della Platamone molte libertà erano concesse alle monache, e la clausura non era così rigida12. Anche i conventi non erano strutturati in modo tale da impedire completamente i contatti con l’esterno. Il concilio di Trento intervenne in questo senso a ripristinare i rigori della clausura e a Catania, complice il processo ricostruttivo, ebbe sicuramente molte più agevolazioni nell’imporre le nuove restrizioni. In più i nuovi conventi di donne furono tutti edificati in pieno centro, attorno agli edifici della Curia, e fu così più facile esercitare un controllo efficace. Abusi e scandali lamentati in provincia, dunque, non ebbero luogo fra le monache urbane: le clarisse, in tal senso, erano più esposte, essendo obbligatoriamente sottoposte alla giurisdizione dei frati minori. Nel 1708 le moniali di Santa Chiara chiesero ed ottennero di passare sotto la diretta giurisdizione del vescovo. ” Questo governo di Regolari” spiegava indignata la badessa” è di niun profitto alla nostra salute eterna, non essendo proprio loro governare moniali, né avendo quel peso che si deve per estirpar l’inconvenienti e li scandali, e forse alcuni di loro regolari li permettono avendone le loro convenienze…”13 Di che tipo di scandali si trattasse, lo si comprende studiando la parallela storia dell’omonimo monastero adranita, dove proprio in quel periodo furono scoperti rapporti licenziosi fra le monache e i frati dell’Osservanza14. La tendenza a trasgredire le severe norme sulla clausura, comunque, non scomparve mai: moltissimi furono i richiami dei vescovi settecenteschi alle monache di Catania, clarisse o benedettine che fossero. Portoni aperti e chiusi fuori dall’orario consentito; monache affacciate alle finestre; persone esterne introdotte nella clausura senza le dovute cautele; grate aperte durante i colloqui in parlatorio; regali e lettere ai confessori 15.Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento a ciò si aggiungono le sempre più frequenti uscite dal monastero per cause di infermità. E tale rilassatezza diventerà sempre più cronica fino alla definitiva soppressione post-unitaria del 1866. Sembra che le clarisse più d’ogni altra comunità di monache ( ma può anche essere un pregiudizio popolare, dovuto alla loro fama di abili affariste) tenessero con ogni mezzo a procurarsi denaro. Ancora oggi, a Catania e provincia, sono molto apprezzati i biscotti a forma di esse denominati per l’appunto biscotti della monaca : la loro diffusione si deve a Mara Messina, la conversa di S.Chiara che, tornata in famiglia dopo la soppressione dei conventi decretata dallo Stato italiano (1866) tramandò la ricetta originale a sua nipote, titolare insieme al marito del famoso biscottificio Arena. Le religiose di S.Chiara confezionavano e vendevano questi biscotti insieme ad una gran varietà di altri dolci, secondo un costume diffuso nei conventi di tutta Italia già dalla prima età moderna. Le lettere dell’alfabeto, a tal proposito, erano i soggetti preferiti per i biscotti destinati ai bambini, per aiutarli ad imparare la lettura. Ma le clarisse catanesi non si limitavano a questo: dalle loro proprietà veniva tutta una serie di prodotti destinati alla vendita, come il vino, le uova e gli ortaggi, una parte dei quali, naturalmente, serviva al fabbisogno del monastero stesso. Le clarisse, come le benedettine, mangiavano regolarmente e senza troppe rinunce: carne tre volte la settimana, formaggio, pasta,verdura cruda o cotta, frutta, minestre di legumi e pesce. Sulla tavola della domenica e dei giorni di festa era previsto anche il dolce. Il digiuno era inteso come alimentazione ai limiti della sussistenza o comunque di magro. Ma anche qui la tentazione era in agguato. Nel 1797 il vescovo Deodato deprecava aspramente il malcostume di quelle monache che “ in vece della pittanza sia di carne, sia di pesce, sia d’ovi, se ne pigliano il danaro, e non potendo poi restar senza cibo, or con strutto fanno friggere pane, ed or pasta, ed ecco doppia spesa per il 12 Prima del Concilio di Trento “…liberamente a loro ci era permesso andare per loro chiese rumitorij, essiri visitati da lor parenti…dentro li eletti monasterij con altri libertà.”In ASDC, Fondo Religiose, C.F.20, Fasc.5. 13 A.Longhitano, Le Relazioni “ad Limina”della Diocesi di Catania, in Synaxis, VII, Catania 1989, p.445. 14 Lina Scalisi, Obbedientissime ad ogni ordine.Tra disciplina e trasgressione: il monastero di S.Lucia in Adrano ( secoli XVII-XVIII) Catania, Domenico Sanfilippo Editore, 1998, p.133. 15 In ASDC, Fondo editti e circolari, Editto Vescovo Pietro Galletti carp.4, fasc.7, ff.11-12: vi si ammoniscono espressamente le monache contro la consuetudine di far regali e di scrivere al proprio confessore( magari adducendo a pretesto dubbi di coscienza). Monastero…”16 Questi, ed altri abusi, dimostrano che pochissime anime sante si rinchiudevano nel chiostro per sincera vocazione; nella maggior parte dei casi la monaca prendeva il velo forzatamente, costretta da una famiglia che ve la destinava fin dalla nascita. Per questo, nonostante la vita nel chiostri della città etnea fosse, specie nel Settecento, comoda e scevra da eroismi ascetici (guardati anzi con sospetto dalle autorità religiose) l’esistenza di queste donne si spegneva ugualmente nel tedio e nella malinconia: possedere del denaro per fare qualche acquisto era un rimedio come un altro per alleviare, almeno momentaneamente, questo disagio. Né le tante attività in cui le monache si cimentavano – cucina, canto, lavori femminili, pittura, artigianato, in qualche caso anche poesia – riuscivano a confortare gli spiriti, specie i più sensibili e irrequieti . Anzi, non sono stati infrequenti casi di aperta ribellione sconfinati nell’annullamento dei voti 17. Ed è forse pensando a quegli spiriti inquieti che le mura di Santa Chiara, come di tanti altri chiostri, hanno visto languire, che Francesco Granata ha scritto: “ Povere Clarisse, giovani ancora, e chi sa quante anche belle, ingannate deluse dalla vita, o arse dal fuoco della vocazione, correste ad abbracciare la Regola preferendo al giorno la notte, al sole la lampada, e così, ingabbiate e segregate, sentiste poi, lentamente ma inesorabilmente, sfilarsi dall’alba al tramonto, e più dal tramonto all’alba, lo stame della vostra giovinezza, e vedeste avvizzire la vostra bellezza, e spampanarsi, come anche se nei vasi di cristallo dorati e lucenti, sfioriscono le rose…” 16 17 ASDC, Fondo religiose, C.F. 37, fasc.9, f. x-15. ASDC, Fondo “Nullitatis professionis”di monache, carp.34, fasc.3.