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FASCISMO E ROMANITÀ Paola S. Salvatori 1. Storiografia marxista e classicismo. Per celebrare il trentesimo anniversario della Liberazione, nel 1975 la Regione Puglia propose alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Bari di promuovere una discussione sulle matrici culturali del fascismo. Il raggruppamento degli istituti antichistici dell’ateneo barese (filologia classica, storia antica e archeologia classica) organizzò quindi un ciclo di lezioni sul tema «Studi di storia romana e ideologia fascista». Contemporaneamente, la rivista «Quaderni di storia», fondata da Luciano Canfora nello stesso 1975, inaugurò – a partire dal suo secondo numero – una riflessione sul classicismo nell’età dell’imperialismo1. Il terzo numero, uscito nel 1976, fu quasi interamente dedicato al tema, con saggi di studiosi che ne indagarono vari aspetti (alcuni erano il risultato delle lezioni promosse dalla Regione Puglia); altri studi apparvero poi nel numero quattro (1976)2 e sporadicamente in quelli successivi. Nell’intervento intitolato Classicismo e fascismo, Canfora illustrò le motivazioni che avevano ispirato quella riflessione collettiva: Noi ci proponiamo, nel ciclo di queste lezioni, di riconoscere le «matrici culturali» del fascismo. Ciò significa, evidentemente, che esse ci furono; e furono infatti molteplici, e valsero a convogliare intorno al fascismo diversi strati sociali e intellettuali. Ciò significa anche, evidentemente, che ci fu una «cultura» fascista, e, insieme, una capillare organizzazione e irreggimentazione di essa. Ma è sui caratteri di questa cultura che si stanno accumulando equivoci. Giacché, per progressive «riconsiderazioni», si Cfr. L. Canfora, Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo. Storia romana e «teoria delle élites», in «Quaderni di storia», 1975, n. 2, pp. 159-164. 2 Tra i vari saggi, si vedano per esempio: nel numero 3 della rivista, A. La Penna, Le vie dell’anticlassicismo, pp. 1-14; L. Canfora, Classicismo e fascismo, pp. 15-48; M. Cagnetta, Il mito di Augusto e la «rivoluzione fascista», pp. 139-182; D.P. Orsi, «Storia romana in scuola fascista» di Palmiro Togliatti, pp. 183-195; nel numero 4, L. Canfora, Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo. Nota, pp. 1-6; D. Marchesini, Romanità e scuola di mistica fascista, pp. 55-76. Alcuni di questi saggi apparsi sui «Quaderni di storia» confluirono poi nella piú ampia pubblicazione Matrici culturali del Fascismo. Seminari promossi dal Consiglio regionale pugliese e dall’ateneo barese nel trentennale della liberazione, Bari, Tipolitografia Mare, 1977. 1 228 Paola S. Salvatori determinano singolari scivolamenti. Accade che, passo dopo passo, la felice formula togliattiana che definisce il fascismo come «regime reazionario di massa» si muti in quella di Renzo De Felice che definisce il fascismo una «democrazia di massa». È evidente l’insuccesso storiografico, e anche politico, che si determinerebbe se un tale graduale stravolgimento prendesse corpo3. Il contributo di Canfora s’inseriva dunque nella già vivace polemica suscitata dagli scritti di De Felice, denunciando i rischi di natura anche politica a cui essi avrebbero condotto. Nel ricordare l’espressione «democrazia di massa», Canfora fece esplicito riferimento all’introduzione che Renzo De Felice aveva scritto per l’edizione italiana della Nazionalizzazione delle masse di George L. Mosse4. Eppure De Felice, in quel contesto, aveva usato l’espressione virgolettandola, citandola da un passaggio che lo storico tedesco aveva inserito nelle primissime pagine del suo libro5: si trattava dunque di un concetto mossiano, accettato e ripreso da De Felice, ma non ascrivibile in prima istanza a quest’ultimo. Il saggio di Canfora proseguiva ricordando il «quadro di complessiva arretratezza, improvvisazione, isterilimento della cultura italiana durante il fascismo», all’interno del quale si poteva comprendere e spiegare «la posizione centrale ed egemonica» che aveva assunto il classicismo, considerato il «filo conduttore della cultura conservatrice». Egli affermò che quello messo in atto dal fascismo era stato «l’ultimo tentativo di collocare ancora una volta il classicismo (nella sua variante romanolatrica) al centro di una politica culturale e di farne addirittura una ideologia di massa»6. Canfora poi, con un certo anticipo rispetto agli sviluppi ulteriori, sottolineò alcuni aspetti significativi per l’inquadramento dei rapporti tra fascismo e classicismo: tra i tanti, il ricorso a motivi antichistici come forma di giustificazione culturale delle epurazioni e delle violenze inflitte agli oppositori politici. In particolare, egli si riferiva al caso dell’opera Ottaviano capoparte di Mario Attilio Levi, pubblicata nel 1933: lo studioso rammentava come, durante il periodo fascista, il «concetto della “rivoluzione” augustea creatrice di un nuovo stato e rinnovatrice della classe dirigente» avesse implicato nuove prospettive «anche su temi specifici»: per esempio, «la rilettura delle proscrizioni triumvirali come fatto “legittimo e comprensibile […] Canfora, Classicismo e fascismo, cit., p. 15. Cfr. R. De Felice, Introduzione all’edizione italiana, in G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, il Mulino, 2001 (ed. or. 1975), p. 10. 5 Scriveva George L. Mosse: «Il fascismo, in quanto concreto movimento storico, è stato il prodotto della prima guerra mondiale e questo dato di fatto è stato usato o per negare o per sottovalutare i suoi legami con il passato prebellico: […] tutti questi storici ignorano il fascismo in quanto movimento di massa, e anche in quanto democrazia di massa, fenomeni, tutti e due, che avevano una lunga storia dietro di sé prima che i nazisti e gli altri fascisti ne facessero buon uso» (Mosse, La nazionalizzazione delle masse, cit., p. 28). 6 Canfora, Classicismo e fascismo, cit., p. 16. 3 4 229 Fascismo e romanità anche se non era umanamente giustificabile”»7. Canfora considerava dunque manifesta «la suggestione contingente di giustificare la violenza fascista» che rigenerava il vecchio Stato; simile gli appariva anche l’intendimento alla base del saggio di Giuseppe Bottai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, pubblicato sul primo numero dei «Quaderni augustei» dell’Istituto di studi romani8. Nell’articolo canforiano si affrontava quindi un nodo cruciale della storiografia sul Ventennio, quello riguardante la continuità tra Italia fascista e Italia repubblicana. Veniva infatti ricordato come, «assai piú di altre discipline storiche», il classicismo avesse dato prova di una straordinaria continuità nel passaggio dal fascismo al post-fascismo: «una cortina di silenzio è calata […] sugli scritti piú espliciti e scandalosi delle persone particolarmente “scoperte”, ed una fitta serie di Rettungen ha rimesso in circolazione gente che per piú d’un motivo poteva temere la commissione di epurazione»9. Ciò che permise al classicismo di marca fascista la sopravvivenza oltre la caduta del regime fu il rifugiarsi nel «tecnicismo, e, al tempo stesso, la rilettura riduttivamente tecnica del lavoro della generazione fascista». Secondo Canfora, la continuità col post-fascismo si era potuta verificare grazie a un fenomeno corrispondente a quanto precedentemente era avvenuto nel passaggio dall’Italia liberale all’Italia fascista: Tutto questo è stato possibile non tanto, o non soltanto, per il clima di restaurazione che ha caratterizzato il post-fascismo in Occidente, ma soprattutto perché si è ripetuto, alla fine dei fascismi, un fenomeno già verificatosi all’indomani della prima guerra imperialistica: il ripiegamento dei classicisti sulla pura tecnica, tranquillizzante e neutrale dopo l’orgia di compromissioni politiche conclusesi – la prima e la seconda volta – con una catastrofica delusione. […] Ma, come l’astinenza politica del primo dopoguerra sfocia prima o poi […] nell’adesione ai miti, alla politica culturale ecc. del nazifascismo, cosí nel secondo dopoguerra – piú insidiosamente forse, ma non meno chiaramente – il classicismo occidentale si è intriso (perlomeno per quel che riguarda i suoi cervelli piú rappresentativi) di ideologia americana, per il tramite del veicolo tipico della «guerra fredda»: l’antisovietismo, l’anticomunismo10. Il testo di Canfora, insomma, si apriva con una critica a De Felice e si chiudeva con la riprovazione dell’«ideologia americana» che, a suo dire, nel secondo dopoguerra era stata abbracciata da gran parte dei classicisti. Il dibattito aperto La citazione era tratta dalle pp. 231-232 del primo libro dell’Ottaviano capoparte. Canfora, Classicismo e fascismo, cit., p. 33. 9 Ivi, p. 37. Canfora citava il caso di De Sanctis che, «con Croce ed altri», avrebbe dovuto «epurare l’Accademia dei Lincei» ma che si dimise proprio perché «Croce si “ostinava” a voler espellere i “repubblichini”» (ivi, pp. 47-48, nota 46). 10 Ivi, pp. 38-39. Canfora concluse il suo articolo ricordando l’impossibilità di espungere l’ideologia (intesa come antidemocrazia) dal «“classicismo”, che in Occidente sopravvive come nozione della esemplarità del mondo greco-romano». Tale antidemocrazia, infatti, farebbe «organicamente parte» delle ideologie reazionarie (quali, appunto, il nazifascismo prima e l’americanismo poi) (p. 39). 7 8 230 Paola S. Salvatori dai «Quaderni di storia» sul rapporto classicismo-fascismo era dunque evidentemente inserito in una piú ampia riflessione sul presente e sui rapporti tra politica, Stato e cultura. In questo senso risulta di notevole rilievo l’interpretazione che, in un articolo pubblicato su «Studi Storici», Aldo Schiavone diede dell’indagine inaugurata da Canfora. Secondo Schiavone, la prospettiva culturale alla base di quell’indagine era ancora piú importante dei singoli risultati storiografici ottenuti. Si era infatti di fronte alla consapevolezza, «netta e forte», che non era piú possibile «staccare la storia degli studi classici dalla trama fitta e complessa (e oggi finalmente al centro di una nuova attenzione storiografica) che ha legato intellettuali e politica negli Stati nazionali dell’Europa borghese». Schiavone sottolineava inoltre come gli studi avviati dalla scuola barese avessero portato alla luce «la convinzione profonda della fine del mito dell’antichistica come forma di un’intelligenza separata, che è possibile storicizzare solo entro se stessa, e la cui misura è solo interna alla propria tradizione»11. Attraverso questa nuova consapevolezza, si sarebbe potuta «costruire finalmente una storia attendibile» della storiografia antichistica, «libera da tentazioni apologetiche». Schiavone si poneva poi una questione la cui analisi non sembrava piú rinviabile: il senso stesso della funzione culturale degli studi di storia antica, soprattutto alla luce dell’esperienza drammatica e incancellabile del regime fascista, verso il quale il mondo accademico (e piú in generale quello della cultura) aveva dimostrato una pericolosa accondiscendenza. Era dunque ormai necessario che gli antichisti riformulassero un proprio statuto esistenziale, in un contesto storico e politico – quello successivo al ’68 – che pretendeva una presa di posizione netta all’interno della vita del Paese. Cosí, il dibattito sui nessi esistenti tra classicismo e fascismo aiutava, secondo Schiavone, a «porsi in modo corretto» un interrogativo a cui gli storici non potevano piú sottrarsi: quello «sul compito e sul destino degli “studi classici” (se dobbiamo ancora accettare questa espressione), nel nostro presente, e in quel futuro che già si comincia a intravedere»: E si tratta invece di una questione fondamentale, per stabilire il senso e la qualità della nostra stessa sopravvivenza, i termini oggettivi del nostro «che fare», per orientare le nostre ricerche, e costruire le nuove linee di trasmissione del nostro sapere. Sciogliere in modo corretto questi nodi significa anche riproporsi in maniera nuova tutto il problema della nostra tradizione, ristabilendo i nessi occultati fra un certo modo di «pensare l’antico», una certa filologia, un certo insieme di domande storiche che sono state ancora il pane quotidiano della nostra formazione, e gli specifici meccanismi ideali, politici, materiali, mediante i quali, attraverso l’ideologia, si riproducevano i rapporti di forza e le forme di coscienza nel tempo storico della società borghese12. A. Schiavone, Riforma intellettuale e studi classici, in «Studi Storici», XVII, 1976, n. 1, p. 112. 12 Ibidem. 11 231 Fascismo e romanità La questione principale era come ricostruire il rapporto con l’antico all’interno di una nuova organizzazione della cultura, tenendo conto di quel «progetto di cambiamento complessivo della società» che stabiliva su un terreno nuovo il legame «fra intellettuali, Stato e sviluppo democratico dell’intera collettività e di tutte le sue risorse ideali». Era indispensabile riconoscere le correlazioni che tradizionalmente avevano legato il mondo degli studi classici con quello delle élites borghesi e fasciste, per individuarne di nuove, «nella prospettiva di una riforma intellettuale profonda della cultura del nostro paese, che reinserisca tutta l’eredità del passato entro una trama nuova di bisogni intellettuali, di domande, di esigenze, di creatività sviluppate all’interno di nuove potenze materiali e ideali, di nuovi centri organizzati di vita morale»13. L’analisi del rapporto tra classicismo e fascismo, insomma, era lo specchio di quanto stava accadendo già da qualche anno tra gli antichisti di sinistra: come è stato messo in rilievo da Andrea Giardina, «marxist researchers studying such remote periods were confronted with the problem of conciliating this interest with their involvement in current politics»14. Una ventina d’anni dopo quel dibattito, sarebbe stato proprio Canfora, in occasione del discorso pronunciato il 26 maggio del 1998 nell’Aula magna dell’Università di Bari per ricordare la sua allieva Mariella Cagnetta, scomparsa prematuramente, a rievocare la spinta di quella generazione di giovani studiosi a «ricongiungere ricerca e politica dopo anni di ostinata separatezza»15. Una spinta che nell’iniziativa sulle matrici culturali del fascismo, definita una «rinfrancante occasione, in cui passione politica e ricerca si intrecciavano in modo non esteriore»16, aveva trovato un fertile campo d’azione. Se, in precedenza, il dialogo tra storia antica e problemi della società contemporanea aveva riguardato soprattutto il rapporto tra studio dell’antichità e questione meridionale17, alla metà degli anni Settanta gli antichisti marxisti o influenzati dal marxismo cercavano di conciliare mestiere e impegno politico principalmente attraverso l’analisi di due aspetti: lo studio del modo di produzione schiavistico, o, appunto, quello del rapporto tra ideologia classicista, fascismo e nazismo18. Questi stessi due aspetti erano stati già affrontati da Ivi, p. 113. A. Giardina, Marxism and Historiography: Perspectives on Roman History, in C. Wickham, ed., Marxist History-writing for the Twenty-first Century, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 18. 15 L. Canfora, Ricordo di Mariella Cagnetta, in «Quaderni di storia», 1998, n. 48, p. 33. 16 Ivi, p. 34. 17 Cfr., in proposito, le riflessioni di Giardina nei saggi dedicati rispettivamente alle figure di Giuseppe Salvioli e di Emilio Sereni: Analogia, continuità e l’economia dell’Italia antica, e Le comunità rurali tra natura e storia, in A. Giardina, L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta, Roma-Bari, Laterza, 2004 (I ed. 1997), pp. 323-369 e 371-415. 18 Giardina, Marxism and Historiography, cit., pp. 18-20. 13 14 232 Paola S. Salvatori Palmiro Togliatti in una precoce riflessione elaborata nel dicembre del 1942: in alcuni appunti, egli intravide nei temi della questione agraria e del mito fascista della romanità due polarità non districabili. Nel suo testo, pubblicato postumo da Ranuccio Bianchi Bandinelli nel 1965, Togliatti aveva criticato le principali falsificazioni operate dalla scuola fascista nei confronti della storia romana, segnalando tra l’altro la necessità attuale di «far comprendere la storia di Roma come storia delle lotte di classe che si svilupparono intorno al problema fondamentale della terra»19. Le riflessioni di Togliatti furono ripubblicate nel terzo numero dei «Quaderni di storia», con un’approfondita analisi di Domenica Paola Orsi, che mise in luce alcune ascendenze gramsciane presenti nell’interpretazione togliattiana del tema in questione. Secondo la studiosa, per esempio, sia Gramsci sia Togliatti avevano insistito sull’importanza della figura di Giulio Cesare nella storia di Roma in contrapposizione polemica con la preminenza della figura augustea mitizzata dal regime fascista20. L’operazione culturale inaugurata da Canfora ebbe, nell’immediato, una certa eco non solo tra gli antichisti. Nel 1979, Mario Isnenghi dedicò alcune pagine del suo libro Intellettuali militanti e intellettuali funzionari proprio a quel «gruppo di studiosi dell’antichità» e alla loro riflessione, inserendola «nel quadro di una revisione politica della storia degli intellettuali e del loro contributo all’elaborazione ideologica delle forme novecentesche del potere capitalistico»21. Isnenghi, tra l’altro, colse il punto di novità forse piú importante del dibattito: probabilmente per la prima volta in modo tanto esplicito, un gruppo di studiosi di sinistra aveva «preso sul serio» il problema della cultura fascista: A noi, oggi, può apparire risibile retorica di straccioni nella struttura, che si autoesaltano e si gratificano nei cieli della sovrastruttura. Ma ogni regime ha la sua retorica e non è certo solo con l’ironia postuma che si può capirne le ragioni di successo e di funzionamento. Non ultimo dei meriti del lavoro del gruppo di «Quaderni di storia» è proprio questo: di avere dimostrato – andando contro corrente rispetto a buona parte dell’attuale editoria di sinistra sul fascismo – che è possibile far coesistere un antifascismo fermissimo con una presa in considerazione seria, non parodistica, del fascismo, delle sue profonde radici storiche, delle sue diffuse basi sociali e culturali22. Storia romana in scuola fascista. Appunto inedito di Togliatti presentato da Ranuccio Bianchi Bandinelli, in «Il Contemporaneo. Supplemento mensile di Rinascita», agosto 1965, p. 17. Cfr. anche la recensione di L. Labruna, Togliatti e la storia di Roma, in «Labeo», 1965, n. 11, pp. 412-414. 20 Orsi, «Storia romana in scuola fascista» di Palmiro Togliatti, cit., p. 190. 21 M. Isnenghi, Classicisti e imperialismo, in Id. Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, p. 234. 22 Ivi, p. 236. 19 233 Fascismo e romanità In quegli stessi anni, Isnenghi era molto attento anche a un altro importante cambiamento che stava investendo il modo di studiare il fascismo e che vedeva protagonista la linguistica23. Dopo la celebre definizione di Franco Venturi secondo la quale il fascismo era stato fondamentalmente «il regno della parola. O, meglio, della parola piú l’altoparlante»24 – e la retorica celebrativa fascista, quindi, sarebbe stata un ornamento vuoto ma fatale –, furono proprio i linguisti a studiare quella sovrastruttura nei suoi meccanismi, nelle sue ascendenze, nei suoi rapporti con la retorica politica e con l’oratoria ottocentesche e socialiste. I risultati della nuova attenzione rivolta alla lingua del regime, che vide il suo esito in convegni, pubblicazioni di libri e di singoli saggi, considerazioni sparse e sistematiche25, contribuirono fortemente al rinnovamento della storiografia italiana nei confronti della cultura fascista. Tuttavia, le considerazioni inaugurate nel 1975 con i «Quaderni di storia» erano destinate a esaurirsi nell’arco di pochi anni. Canfora avrebbe teorizzato piú compiutamente il rapporto tra classicisti e totalitarismi nel fortunato volume Ideologie del classicismo, pubblicato nel 1980; negli anni seguenti sarebbe poi tornato sul tema con un volume dedicato alle Vie del classicismo26. Ma dopo il libro del 1980, l’apporto di novità rappresentato dal quel dibattito si esaurí. A eccezione di Mariella Cagnetta, che nel 1979 pubblicò un breve libro ancora oggi molto utile per chi voglia occuparsi dei rapporti tra mito di Roma, classicisti, imperialismo fascista e colonialismo ottocentesco27, non altro apparve di parimenti significativo. 2. Tra «sacralizzazione della politica», antichistica e urbanistica: presenze e assenze del tema nella storiografia italiana. Negli anni Ottanta il mito fascista della romanità non fu analizzato con quell’attenzione che, dopo le premesse illustrate, sarebbe stata auspicabile. Erano passati diversi anni dagli studi pionieristici di Cfr. M. Isnenghi, Per la storia delle istituzioni culturali fasciste, e Lingua e musica nel discorso fascista, in Id., Intellettuali militanti e intellettuali funzionari, cit., pp. 29 sgg. e 264 sgg.; Id., Per una mappa linguistica di un «regime di parole». A proposito del Convegno «Parlare fascista», in «Movimento operaio e socialista», VII, 1984, n. 2, pp. 263-275. 24 F. Venturi, Il regime fascista, in Trent’anni di storia italiana (1915-1945). Lezioni con testimonianze presentate da Franco Antonicelli, Torino, Einaudi, 1961, pp. 186 sgg. 25 Tra i lavori piú importanti, si ricordano E. Leso, Aspetti della lingua del fascismo. Prime linee di una ricerca, in Storia linguistica dell’Italia del Novecento. Atti del V Convegno internazionale di studi della Società di linguistica italiana, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 139-158; E. Leso, M.A. Cortelazzo, I. Paccagnella, F. Foresti, La lingua italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio provinciale di pubblica lettura, 1977; gli atti del Convegno Parlare fascista. Lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, tenuto a Genova il 22-24 marzo del 1984, pubblicati in «Movimento operaio e socialista», VII, 1984, n. 1. 26 L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980; Id., Le vie del classicismo, Roma-Bari, Laterza, 1989. 27 M. Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Bari, Dedalo, 1979. 23 234 Paola S. Salvatori Canfora e della sua scuola, ma il tema non aveva ancora trovato una sua effettiva fortuna tra i contemporaneisti. Tale disinteresse è confermato dalla quasi totale assenza dell’argomento nel volume della biografia mussoliniana che, nel 1981, Renzo De Felice dedicò agli anni 1936-40, proprio quelli in cui il culto della Roma augustea aveva raggiunto il suo maggior successo28. Il mito fascista della romanità, insomma, ancora alla metà degli anni Ottanta veniva considerato dai contemporaneisti come «effimero e, in sostanza, inanimato»29. Che una prospettiva cosí riduttiva non fosse accettabile, sarebbe stato dimostrato da vari studi apparsi alcuni anni dopo: soltanto negli anni Novanta, infatti, quel tema avrebbe suscitato un interesse piú largo ponendosi come un aspetto non trascurabile per l’interpretazione dei rapporti tra cultura, propaganda e politica in epoca fascista. Una prima accelerazione verso la comprensione dell’importanza del mito di Roma è avvenuta nel 1993 con la pubblicazione del Culto del littorio di Emilio Gentile. Influenzato dalla categoria mossiana di «nuova politica»30, l’autore – com’è noto – ha interpretato il fascismo «come una manifestazione della sacralizzazione della politica»31 sorretta da rituali, liturgie, simboli, miti fortemente evocativi e pervasivi. Nel Culto del littorio, viene esplicitamente riconosciuta la funzione determinante del mito di Roma nelle politiche propagandistiche del Ventennio, e sono presentate le numerose modalità attraverso cui quel culto si era imposto nell’Italia del tempo. Eppure, su questo specifico punto, ancora per alcuni anni lo studio di Gentile è sostanzialmente rimasto un’eccezione nel panorama storiografico italiano. Il culto del littorio avrebbe potuto (e dovuto) aprire nuovi fronti di ricerca, ma tra gli studiosi del fascismo si è invece imposta una particolare forma di accettazione paradigmatica dell’interpretazione di Gentile: ancora per diversi anni dopo il 1993, quasi nessun contemporaneista ha piú approfondito la vicenda, che è stata invece spesso presentata come già definitivamente chiarita. Dopo l’apparizione del Culto del littorio, insomma, il tema è diventato usuale, quasi scontato: chi si è occupato di cultura o di propaganda fascista ha quasi sempre R. De Felice, Mussolini il duce, vol. II, Lo Stato totalitario. 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981: cfr. le pp. 222-224, nelle quali De Felice accenna brevemente alla centralità del mito di Roma come strumento propagandistico finalizzato a sostenere il mito dell’universalismo della civiltà romana e quello di Mussolini. 29 Secondo la definizione di P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, il Mulino, 1995 (I ed. 1985), p. 71. 30 Cfr. soprattutto Mosse, La nazionalizzazione delle masse, cit. 31 E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, RomaBari, Laterza, 1998 (I ed. 1993), p. VII. 28 235 Fascismo e romanità dedicato alcune pagine dei propri lavori a quell’aspetto, ma sostanzialmente all’interno dell’interpretazione gentiliana32. La riflessione è stata invece riaperta all’inizio del nuovo millennio da un importante studio scritto, nuovamente, da un antichista. Nel 2000, infatti, Andrea Giardina33 ha individuato alcuni punti cruciali del mito fascista della romanità, ridando vigore agli studi sul tema e raggiungendo esiti storiografici non ancora superati. Negli ultimi due capitoli del libro Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini 34, Giardina ha affrontato il culto fascista di Roma nell’ambito di una piú ampia indagine che ha coinvolto il tema della fortuna dell’antico in età contemporanea a partire dalla Rivoluzione francese35. Il problema del mito di Roma durante il Ventennio è stato analizzato attraverso fonti eterogenee che hanno permesso di evidenziare soprattutto tre aspetti sui quali non si era ancora riflettuto adeguatamente. Almeno fino alla conquista dell’Etiopia, quando fu la storia imperiale di Roma a offrire un perfetto modello di riferimento, il fascismo fece convivere elementi tratti dalla storia della Roma repubblicana con altri attinti alle vicende dell’Impero: La Roma attualizzata da Mussolini aveva finito per amalgamare gli aspetti preferiti dell’una e dell’altra immagine, ricomponendo in sincronia alcuni caratteri, cronologicamente sfasati, della storia romana: il rigore morale del cittadino repubblicano e il potere del principe, l’austera sintesi della nazione e il fascino del sistema imperiale nella sua fase matura36. Lo stesso duce amava rappresentarsi e farsi rappresentare come un antico romano: grazie a questa capacità onnivora di ricezione dell’antichità, la sua fisionomia, le sue scelte politiche, il suo carattere venivano esibiti attraverso continui rimandi a grandi uomini del passato piú lontano. E non importava se l’esistenza di somiglianze fosse reale o inventata: si diceva comunque che egli avesse marciato su Roma come Silla e che come Silla avesse dato vita a Lo stesso Emilio Gentile è tornato varie volte sul tema, ma senza aggiungere elementi di novità rispetto a quanto scritto nel Culto del littorio o rispetto a quanto nel frattempo è stato studiato da specialisti di altre discipline: cfr. per esempio Id., Fascismo di pietra, Roma-Bari, Laterza, 2007. 33 A. Giardina, Ritorno al futuro: la romanità fascista, in A. Giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 212-296. Il libro è stato pubblicato contemporaneamente anche in Francia, dall’editore Fayard, con il titolo Rome, l’idée et le mythe: du Moyen-Âge à nos jours. 34 I primi due capitoli, affidati al medievista francese André Vauchez, sono dedicati al periodo compreso tra Carlo Magno e l’età barocca: A. Vauchez, Il Medioevo: tra continuità e sogni di rinnovamento, ivi, pp. 3-57, e Dal Rinascimento all’età barocca: Roma capitale del mondo cattolico, ivi, pp. 58-116. 35 A. Giardina, Dalla Rivoluzione francese alla prima guerra mondiale: miti repubblicani e miti nazionali, ivi, pp. 117-211. 36 Giardina, Ritorno al futuro: la romanità fascista, cit., pp. 248-249. 32 236 Paola S. Salvatori una dittatura; con Cesare, che ammirava piú di ogni altro, aveva in comune la supposta clemenza e lo spirito di azione e di conquista; di Augusto voleva invece eguagliare il genio politico e ne riuscí a riproporre l’impero37; al pari di Costantino, infine, fu l’artefice della conciliazione con la Chiesa38. Ma l’elemento piú importante sul quale Giardina ha posto l’accento è il ruolo di assoluta preminenza che l’archeologia ebbe nella costruzione fascista sia della Roma ideale sia di quella materiale. Se Canfora, venticinque anni prima, aveva dedicato le sue ricerche all’individuazione dei nessi esistenti in particolare tra il regime e i professori di storia antica e di letterature classiche, Giardina ha valorizzato soprattutto il ruolo degli storici dell’arte antica e principalmente degli archeologi, ai quali ha attribuito una funzione determinante nell’«invenzione» fascista della romanità. Come poi ha avuto modo di ribadire nel 2002, fu soprattutto quella categoria di studiosi a donare «il supporto della credibilità scientifica e dell’autorità accademica» a un sistema culturale che, proprio per la sua pretesa di pervasività, aveva bisogno di far convivere la sua dimensione mistica con elementi concreti immediatamente riconoscibili: Gli archeologi ebbero un ruolo piú importante dei loro colleghi antichisti perché furono insostituibili nella delicata operazione di incastonare visivamente e materialmente l’antico nell’attuale, e contribuirono in modo determinante all’elaborazione di quell’estetica della romanità che era una componente essenziale della rivoluzione antropologica fascista39. Ivi, pp. 246-247. Giardina ha poi riflettuto altre volte e in diverse sedi sulla figura di Augusto e sul poliedrico uso che il fascismo ne fece: in particolare in una conferenza svolta l’11 gennaio del 2009 a Roma, presso l’Auditorium Parco della Musica, nell’ambito delle Lezioni di storia organizzate dall’editore Laterza: cfr. A. Giardina, L’impero di Augusto, in L. Canfora, A. Giardina et alii, I volti del potere, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 23-70. Ora, cfr. anche A. Giardina, Augusto tra due bimillenari, in E. La Rocca, C. Parisi Presicce, A. Lo Monaco, C. Giroire, D. Roger, a cura di, Augusto, progetto di E. La Rocca, Milano, Electa, 2013, pp. 57-72. 38 Giardina, Ritorno al futuro: la romanità fascista, cit., p. 255. Sulla vitalità del mito costantiniano ai tempi dei Patti Lateranensi aveva già riflettuto L. Braccesi, Costantino e i Patti Lateranensi, in «Studi Storici», XXXII, 1991, n. 1, pp. 161-167. 39 A. Giardina, s.v. Archeologia, in Dizionario del fascismo, vol. I, a cura di V. de Grazia, S. Luzzatto, Torino, Einaudi, 2002, p. 87. I rapporti tra propaganda e archeologia in ambito coloniale sono un capitolo della storia dell’archeologia dall’Ottocento in poi. Per l’Italia, cfr. soprattutto i lavori di Massimiliano Munzi: l’autore, analizzando l’apporto di forti motivazioni ideali e culturali che furono alla base dell’impresa imperialista fascista, ha esaminato l’intreccio di interessi disparati – archeologici, turistici, economici – che sostenne le vaste campagne di scavi e di ruralizzazione della Tripolitania negli anni Venti e Trenta: L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania italiana, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2001. In seguito, lo stesso studioso ha proseguito la sua indagine con un libro dedicato al periodo compreso tra il 1943 e il 1969: La decolonizzazione del passato. Archeologia e politica dall’amministrazione alleata al regno di Idris, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2004. 37 237 Fascismo e romanità La validità di questa prospettiva è testimoniata, per esempio, dal contributo che il grande archeologo Giacomo Boni diede alla progettazione del culto fascista della romanità. Fu proprio Boni, infatti, a individuare e ricostruire il simbolo del fascio littorio da imprimere sulle monete fasciste la cui emissione era stata decisa già nel dicembre del 192240 – questa particolare vicenda dimostra, tra l’altro, come sia necessario anticipare alla fine del 1922 il momento di costruzione e diffusione del culto littorio, solitamente individuato negli anni 1925-26. Boni, del resto, oltre ad aver profetizzato la celebre immagine del Mussolini picconatore41, fu anche l’artefice di una serie di rituali pubblici e di liturgie politiche nei quali era centrale il mito di Roma42. L’importanza dell’archeologia nella costruzione e nel mantenimento dell’impalcatura ideologica fascista può essere inoltre confermata analizzando la propaganda razzista fascista: anche attraverso il continuo ricorso a immagini di statue classiche, infatti, il regime elaborò e propagò un archetipo umano ricalcato su quello antico, al quale venivano contrapposti tipi umani «degeneri», presentati come pericolosi per la sopravvivenza della stessa bellezza classica43. Osservando la produzione storiografica che ha riguardato – direttamente o indirettamente – il mito fascista della romanità a partire dal 2000, si può dunque notare l’emergere di una nuova attenzione rivolta agli aspetti «materiali» del regime: l’archeologia e l’urbanistica sono infatti i temi su cui si sono principalmente concentrati gli studiosi. Negli anni Duemila, tra gli storici dell’età contemporanea si è aperta una nuova fase della riflessione sui rapporti tra antico e moderno (e quindi tra antichità e fascismo), che ha investito proprio l’ambito urbanistico in concomitanza con il riaprirsi di questioni rimaste in sospeso dai tempi del Ventennio. In particolare, ci si è concentrati sulla vicenda degli sventramenti a Roma e sul nuovo volto restituito dal regime alla zona di via dell’Impero (l’attuale via dei Fori imperiali); una vicenda, quest’ultima, ancora oggi oggetto di polemiche politiche e riflessioni urbanistiche. Il tema del mito della romanità è stato cosí affrontato sotto l’ottica della storia urbana e della storia dell’architettura: fu anche attraverso il ricorso al culto dell’antico, infatti, che si attuò la furia urbanistica che negli anni Trenta colpí i principali centri italiani e, in particolar modo, la capitale. Vittorio Vidotto ha dedicato diversi lavori all’appropriazione dello spazio urbano effettuata dal regime con finalità simboliche e politiche, nel tentativo di ricreare una nuova Roma che Cfr. P.S. Salvatori, L’adozione del fascio littorio nella monetazione dell’Italia fascista, in «Rivista italiana di numismatica e scienze affini», CIX, 2008, pp. 333-352. 41 P.S. Salvatori, Nascita di un’icona politica: il piccone del duce, in «Quaderni di storia», LXXVI, 2012, n. 2, pp. 277-287. 42 P.S. Salvatori, Liturgie immaginate: Giacomo Boni e la romanità fascista, in «Studi Storici», LIII, 2012, n. 2, pp. 421-438. 43 Id., Razza romana, in A. Giardina, F. Pesando, a cura di, Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, Milano, Electa, 2012, pp. 277-286. 40 238 Paola S. Salvatori riecheggiasse anche urbanisticamente quella antica44. Le riflessioni di Vidotto, inserite in ricostruzioni d’insieme sui mutamenti sociali, urbanistici, culturali della città-Roma nel ventesimo secolo, esprimono una diversa prospettiva rispetto a quanto era stato appassionatamente affermato negli anni Sessanta e Settanta da architetti e intellettuali di sinistra, all’epoca fortemente ispirati da istanze politiche e ambientaliste che potremmo considerare simmetriche a quelle che ispirarono il dibattito sorto sui «Quaderni di storia» di Canfora. Cosí Vidotto ha ridimensionato e criticato l’interpretazione che Antonio Cederna aveva dato degli sventramenti urbanistici operati soprattutto da Antonio Muñoz, considerati dal giornalista un vero e proprio «delirio che portò negli anni Trenta alla distruzione integrale, sulla carta, del centro storico di Roma e, nella realtà, alla polverizzazione di alcune sue parti»45. D’altronde, la rivalutazione dell’attività di Muñoz è sembrata quasi obbligatoria per chi negli ultimi anni si è occupato dei mutamenti urbanistici della Roma mussoliniana, come dimostra il ponderoso volume dell’architetto Calogero Bellanca, pubblicato nel 2003 e dedicato alla politica di tutela dei monumenti di Roma durante il Governatorato46: pur nell’apprezzabile vastità della ricostruzione, l’opera risulta spesso poco equilibrata, in particolare nella parte dedicata agli anni in cui Muñoz diresse la X Ripartizione Antichità e Belle arti. Di altro valore appare invece lo studio di Paolo Nicoloso Mussolini architetto47, del 2008: si tratta di un’analisi delle politiche architettoniche volute dal duce e di una riflessione sull’uso dell’architettura come mezzo di propaganda. Similmente a quanto Cfr. per esempio V. Vidotto, Roma contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 172-223. 45 A. Cederna, Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, RomaBari, Laterza, 1979, p. V. Del resto, Vidotto si oppose polemicamente anche alle denunce che, agli inizi degli anni Sessanta, lo stesso Cederna e Italo Insolera avanzarono contro la drammatica speculazione urbanistica di cui era stata vittima la città di Roma sin dal 1870 e soprattutto nel secondo dopoguerra: cfr. I. Insolera, Roma moderna: un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 1963; A. Cederna, Mirabilia Urbis. Cronache romane 1957-1965, Torino, Einaudi, 1965; Vidotto, Roma contemporanea, cit., pp. 288-289, ove ha sostenuto che la sinistra, «pesantemente condizionata […] da un ricorrente moralismo populista», si limitò a deprecare e denunciare i fenomeni speculatori: «Improntata a un atteggiamento di ostentata superiorità culturale […] e alla certezza di possedere una superiore cultura urbanistica, la visione di Roma proposta e riproposta da Insolera e da Cederna si è tradotta in una sostanziale incomprensione storica della città, incapace di cogliere e di volgere in positivo la complessità dei fattori della trasformazione urbana». 46 C. Bellanca, Antonio Muñoz. La politica di tutela dei monumenti di Roma durante il Governatorato, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2003. 47 P. Nicoloso, Mussolini architetto. Propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 2008. Nell’introduzione, Nicoloso ha riflettuto sulla fortuna che il tema dell’architettura fascista ha avuto nella storiografia: analogamente a quanto avvenuto col mito di Roma, anche nei confronti di questo aspetto si è assistito a una sostanziale indifferenza da parte degli storici del fascismo, a partire da Renzo De Felice: cfr. ivi, pp. XXI sgg. 44 239 Fascismo e romanità ha fatto notare Giardina riguardo al ruolo avuto dall’archeologia, Nicoloso ha dimostrato come la costruzione (e ri-costruzione) fisica delle città coincidesse con la concretizzazione tangibile della nuova civiltà fascista; l’autore ha illustrato quindi «il passaggio da un’architettura strumento di consenso a una strumento di educazione, che comporta un cambiamento di atteggiamento nei confronti dello stile»48. Uno stile che, soprattutto negli anni Trenta, risentí profondamente proprio della centralità del mito di Roma. Questa breve ricognizione ha insistito sul carattere discontinuo di un fenomeno che, dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, ha riguardato l’analisi di alcuni rilevanti aspetti delle politiche culturali e dell’ideologia fasciste. È difficile prevedere quali saranno gli orientamenti nel prossimo futuro; sembra tuttavia che si stia ormai aprendo una nuova stagione storiografica, caratterizzata da un’approfondita valorizzazione di materiale archivistico ancora largamente inesplorato e da una piú ampia collaborazione tra antichisti e contemporaneisti49. Questa nuova fase, del resto, è anche caratterizzata da una notevole fioritura di studi internazionali sui diversi aspetti del mito fascista della romanità: ma tale elemento, anch’esso del massimo interesse, richiederebbe una riflessione a parte50. Ivi, p. XVII. Cfr. per esempio i convegni internazionali che si sono svolti a Roma (24-25 febbraio 2006) e a Toulouse (24-25 novembre 2011). Il primo, organizzato dall’Assessorato alle politiche culturali del Comune di Roma e dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, intitolato «Il fascismo in Italia, un totalitarismo in Europa», ha affrontato diversi aspetti del regime fascista, con una particolare attenzione rivolta alla questione del mito della romanità, su cui è intervenuto Andrea Giardina. Gli atti sono stati pubblicati nel volume a cura di E. Gentile, Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2008. Il secondo, organizzato dall’Université de Toulouse II-Le Mirail e specificamente dedicato al tema «L’Italie fasciste et l’Antiquité», ha visto la partecipazione di storici contemporaneisti, storici della letteratura, antichisti, archeologi. Gli atti sono in corso di pubblicazione. 50 Tra i vari lavori apparsi all’estero sul tema, cfr. per esempio F. Scriba, Augustus im Schwarzhemd? Die Mostra Augustea della Romanità in Rom 1937/38, Frankfurt am Main, Lang, 1995; B.W. Painter, Mussolini’s Rome: rebuilding the eternal city, New York, Macmillan, 2005; M.M. Winkler, The Roman salute: cinema, history, ideology, Columbus, Ohio State University Press, 2009. 48 49