Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
Un condottiero alla conquista dello Stato. Ottobuono Terzi, conte di Reggio e signore di Parma e Piacenza di Andrea Gamberini 1. Oltre la «leggenda nera» Tra i condottieri viscontei che alla morte di Gian Galeazzo raccolsero e si spartirono le spoglie del ducato un posto di rilievo spetta senz’altro a Ottobuono Terzi, l’intraprendente leader di una famiglia di piccoli signori rurali capace di trasformare il governatorato di Parma e di Reggio in un dominio solido, protagonista della competizione militare che all’alba del Quattrocento ridisegnò, sia pure per una breve stagione, la geografia politica dell’Italia settentrionale. Piuttosto trascurato dalla recente storiografia – che agli anni tormentati del primo Quattrocento non ha ancora dedicato una rilettura complessiva1 – il Terzi fu accompagnato per secoli da una fama sinistra, che individuava nella nequizia e nella tirannia i tratti distintivi del suo dominio. Una nomea, questa, alimentata per primo dall’umanista Antonio Loschi – che all’indomani dell’eliminazione di Ottobuono preconizzò addirittura meriti eterni per il suo uccisore, il marchese Niccolò III2 – e poi costantemente perpetuata da letterati e storiografi vicini alla casa d’Este. Fin dagli anni immediatamente successivi alla scomparsa del Terzi, infatti, preoccupazione di annalisti e cortigiani fu quella di dissipare le nubi che il mortale tranello di Rubiera (dove nel 1409 si era consumata la fine di Ottobuono) aveva addensato sulla reputazione di Niccolò III: di qui 1. Base di partenza per le ricerche su Ottobuono è ancora il vecchio saggio di A. Manni, Terzi ed Estensi (1402-1421), in «Atti e memorie della Deputazione ferrarese di storia patria», vol. XXV, fasc. II (1925), pp. 73-240. Più recentemente si vedano le note di M. Gentile, Terra e poteri. Parma e il Parmense nel ducato visconteo all’inizio del Quattrocento, Milano 2001, pp. 99-103. 2. «Apud Deum non mediocre meritum, apud homines et laudem et singularem gratiam». Così nella lettera del Loschi a Niccolò III d’Este erano definiti i meriti di quest’ultimo. Trascrizione in J. De Delayto, Annales Estenses, XVIII, Mediolani 1731, coll. 1065-66. 282 l’esigenza di una ricostruzione dell’episodio che mettesse in luce in primo luogo la doppiezza del Terzi e che gli attribuisse la paternità di un disegno proditorio neutralizzato appena prima del suo compimento3. Ma di qui anche la necessità di una rilettura più generale del dominio di Ottobuono, volta a rimarcarne le basi traballanti, il deficit di legittimità: non per nulla il cronista Delayto – che già si era preoccupato di inserire nei suoi Annales la citata invettiva del Loschi – rappresentò l’eliminazione del Terzi come un atto di giustizia, volto a rimuovere un «uomo diabolico» e un «tiranno crudelissimo»4. E all’«aspro tiranno» di Reggio e di Parma alludeva solo pochi decenni dopo anche l’Ariosto5, secondo un cliché ripreso nel Cinquecento dal Panciroli – per il quale Ottobuono «sitiva del sangue umano»6 – e destinato a trovare la sua più vigorosa espressione nel Muratori, i cui toni in nulla dissimulano l’impegno militante a favore dell’Estense: «Ottobuono era di coloro che non hanno occhi per conoscere ragione, né animo per abbracciare il giusto, pascendosi solamente dell’iniquità». E ancora, quasi a rincarare: «Il tiranno di Parma e di Reggio […] era uomo crudelissimo, nato solo a far male»7. Per trovare una diversa valutazione del Terzi, incline a riconoscerne innanzitutto le qualità militari, è però sufficiente spostarsi dall’area culturale estense e dalla sua duratura cappa propagandistica. Già Pio II, ad esempio, ricordando di avere udito da fanciullo un «cantare» in morte di Ottobuono8, esprimeva apertamente la sua ammirazione per il Terzi e, pur non gratificandolo di un medaglione in quella galleria di condottieri che è il De Viris illustribus, ugualmente ne rammentava la magnificentia, la potentia e la prudentia9. Fu invece un altro umanista, Bartolomeo Facio, anch’egli autore nello stesso torno d’anni di un De Viris illustribus, a riservare un intero capitolo della propria opera ad Ottobuono, «rei militaris peritissimus», le cui 3. Sulla diversa ricostruzione dell’episodio di Rubiera nelle fonti cronachistiche si sofferma il Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 164 ss. 4. Delayto, Annales Estenses, cit., col. 1064. 5. L. Ariosto, Orlando furioso, Canto 3, 43. Ricordato anche da Gentile, Terra e poteri, cit., p. 99. 6. G. Panciroli, Storia della città di Reggio, Reggio 1846-48 (Ristampa anastatica: Bologna 1972), p. 30. 7. L.A. Muratori, Delle antichità estensi e italiane, II, Bologna 1740 (Ristampa anastatica: Bologna 1984), pp. 170, 173-174, 180. 8. Cfr. E.S. Piccolomini, I commentarii, a cura di L. Totaro, I, Milano 1984, p. 491. Il cantare popolare cui si riferisce Pio II potrebbe essere quello trascritto da T. Casini, Studi di poesia antica, Città di Castello 1914, pp. 272-273. Secondo il Casini, questo cantare sarebbe il frutto della propaganda estense. 9. Ottobuono è ricordato in due luoghi del testo: rispettivamente nel capitolo dedicato a Sforza Attendolo e in quello riservato a Niccolò III d’Este. Cfr. E.S. Piccolominei, De viris illustribus, a cura di A. Van Heck, Città del Vaticano 1991, pp. 12, 21. 283 insegne – egli affermava testualmente – mai nessuno vide battere in ritirata10. Al di là, però, dei giudizi degli estimatori (pochi) e dei detrattori (molti), la vicenda di Ottobuono presenta spunti d’interesse che vanno oltre il mero dato biografico. La formazione del lignaggio, la mortale inimicitia con alcune parentele antagoniste, la costruzione di un dominio ampio, dai tratti marcatamente statuali e connotato ideologicamente, sono tutti aspetti che fanno dell’avventura del Terzi un osservatorio particolare e per certi versi privilegiato per lo studio delle dinamiche parentali (par. 2), della guerra e della sua incerta definizione tra pubblico e privato alla fine del medioevo (par. 3), dell’ampio ventaglio di sperimentazioni costituzionali ancora possibili ai primi del Quattrocento (par. 4) ed, infine, del rapporto complesso e non scontato tra un soggetto, la tradizione politica del casato di appartenenza e la sua identità faziosa (par. 5). È dunque su questi elementi che si appunteranno le note che seguono. 2. Nascita di un lignaggio: dai Cornazzano ai Terzi Nel 1387 le ambizioni politiche dei Terzi avevano trovato coronamento nella concessione di un articolato diploma imperiale che erigeva in contea le giurisdizioni che il casato vantava nel Piacentino (Castelnuovo e Casale Albino), nel Parmense (attorno ai centri di Tizzano, Belvedere e Sissa) e nel Reggiano (sulle piccole ville di Gombio, Gottano e Cola)11. L’interesse per questo diploma non riposa però solo sulla possibilità di ricostruire il potere dei Terzi, la distribuzione dei loro castelli, la geografia del loro radicamento: un contributo non minore è infatti quello che si può trarre circa un tema mal conosciuto e poco studiato, quale l’origine del lignaggio dei Terzi. Come già aveva osservato l’Affò, è infatti sufficiente focalizzare l’inscriptio della patente, indirizzata al nobile «Nicholao filio quondam nobilis Guidonis capitanei de Terciis de Cornazzano», per cogliere il nesso tra i Terzi ed una delle principali schiatte capitaneali di Parma, i Cornazzano12. Una precisazione alla luce della quale sembra acqui10. Lo ricorda G. Albanese, Lo spazio della gloria. Il condottiero nel «De viris illustribus» di Facio e nella trattatistica dell’Umanesimo, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Del Treppo, Napoli 2001, pp. 93-123, in particolare 110-111. 11. Ampio regesto del diploma di Venceslao di Boemia, datato da Norimberga il 19 agosto 1387, in G. Tiraboschi, Memorie storiche modenesi col codice diplomatico, V, Modena 1795, p. 147. Una copia semplice di una copia autentica del privilegio è in ASPr, Famiglie, Terzi, b. 1. 12. L’importanza del diploma di Venceslao per ricostruire l’origine dei Terzi era stata già rilevata da I. Affò, Storia della città di Parma, IV, Parma 1795, p. 267. Citazione dalla 284 stare chiarezza anche un altro luogo del testo, là dove Venceslao di Boemia indulge nel rievocare le benemerenze dei progenitori di Niccolò, la loro militanza nella Pars Imperii, l’impegno come «capitanei, gubernatores et potestates»: tutti campi nei quali proprio alcuni esponenti dei Cornazzano si erano particolarmente distinti13. Complice, insomma, l’opportunità di rievocare il pedigree ghibellino del lignaggio, i Terzi erano stati indotti a palesare davanti alla cesarea maestà l’antico legame coi Cornazzano. A ben vedere, tracce, sia pure labili, dei Terzi sono già nelle fonti cronachistiche del primo Duecento: ad esempio gli Annales Cremonenses serbano il ricordo di un Bernardo da Cornazzano (1218), altrove chiamato Bernardo Tercius. O, ancora, essi menzionano un Gerardo Tercius de Cornazzano (1223)14. Vale tuttavia la pena di osservare come questi stessi personaggi siano per lo più menzionati nelle fonti coeve – sia in quelle narrative, sia in quelle documentarie – semplicemente come Cornazzano e solo eccezionalmente come Terzi. Tanto che né l’informatissimo Salimbene, né l’anonimo autore del Chronicon Parmense ricordano nelle rispettive opere alcun Terzi, Tercius o, più semplicemente, Terzi Cornazzano. L’impressione, insomma, è che i vari rami dell’agnazione, già riconoscibili nel Duecento nella loro individualità e nelle loro autonome strategie, continuassero a partecipare del capitale simbolico assicurato dal prestigioso cognome, e così almeno fino ai primi decenni del secolo successivo. È solo a partire dal Trecento che il nome dei Terzi comincia a comparire con regolarità in forma autonoma, segnalando una svolta nella vicenda del raggruppamento parentale dei Cornazzano. Già nel 1311, ad esempio, un Guido Tercius fa mostra di sé in un elenco di principali parmigiani15. E che non si trattasse di un’apparizione isolata o episodica lo rivela il diploma imperiale concesso nel copia in ASPr, Famiglie, Terzi, b. 1. Il richiamo ai Cornazzano ricorre non solo nella inscriptio del diploma, ma anche in altri luoghi testuali del diploma. Circa i Cornazzano, si veda la nota seguente. 13. Come nel caso di Manfredo da Cornazzano, rettore fredericiano in molte città padane. Sui Cornazzano cenni in L. Provero, Società cittadina e linguaggio politico a Parma (secoli X-XI), in La vassallità maggiore del Regno italico. I capitanei nei secoli XI-XII, a cura di A. Castagnetti, Roma 2001, pp. 207-232, in part. p. 225. Più specificamente si vedano le voci di G. Andenna, Cornazzano Bernardo e Cornazzano Manfredo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 29, Roma 1983, rispettivamente pp. 132-134 e 134-136. Per l’inserimento della parentela nel circuito podestarile: O. Guyotjeannin, Podestats d’Emilie centrale: Parme, Reggio et Modena (fin XIIe - milieu XIVe siècle), in I podestà dell’Italia comunale, Parte I, Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec. - metà XIV sec.), I, a cura di J.-C. Maire Vigueur, Rome 2000, pp. 349-403, in particolare pp. 376-377. 14. Annales Cremonenses, in Annales et chronica Italica aevi Suevici, ed. O. HolderHegger, MGH, Scriptores, t. 23, Hannover 1903, p. 14. Secondo l’Angeli, Gerardo Tercius sarebbe stato figlio proprio del capostipite, Terzo da Cornazzano, così chiamato dal padre Pietro proprio perché terzogenito. Cfr. B. Angeli, Historia della città di Parma et descrittione del fiume Parma, Parma 1591, p. 462. 15. L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, IV, Mediolani 1741, col. 619. 285 1329 a favore dello stesso Guido e del fratello Filippo, definiti apertamente «de Tertiis», senza alcuna ulteriore specificazione, quasi si volesse prendere le distanze dai Cornazzano16. L’importanza della patente di Ludovico IV di Baviera sembrerebbe dunque trascendere i suoi più diretti risvolti economici per interessare le dinamiche stesse di costruzione della parentela, ambito in cui il diploma si prestò a conferire pubblica sanzione ad una segmentazione che era sì precedente, ma che fino ad allora non si era accompagnata ad un vero e proprio affrancamento dal toponimico de Cornazzano. A partire dalla generazione di Guido e Filippo i Terzi percorsero invece una via diversa, che passava per una rivendicazione di piena autonomia (in primo luogo nominale) rispetto al consortile e per la costruzione di nuove basi signorili nel contado. L’impressione, infatti, è che la costruzione da parte dei Terzi di una solida, ancorché parcellizzata, presenza signorile nelle campagne si collochi cronologicamente nel pieno XIV secolo, in concomitanza con la più generale tendenza alla reviviscenza del dominatus loci e con la costituzione di nuovi nuclei di potere in moltissimi territori dell’Italia centro settentrionale17. L’area di primo radicamento del lignaggio – alla foce del Taro, tra Sissa e Torricella – coincide in effetti con quella di origine dei da Cornazzano (località adiacente alle precedenti), salvo orientarsi successivamente verso zone più eccentriche, secondo un disegno di cui rimane labile traccia soprattutto nelle conferme richieste ai Visconti. Nel 1362, ad esempio, fu Gherardo Terzi a domandare al dominus di poter riedificare il castrum di Torricella, nel contado di Parma18; nel 1364, invece, toccò ai fratelli Niccolò e Giberto Terzi giurare fedeltà a Bernabò per i castelli di Tizzano e Belvedere19. Ancora qualche anno e le mire del casato cominciarono ad allargarsi anche alle terre del vicino contado piacentino, dove l’intraprendente Niccolò riuscì ad acquistare da Gherardo Visconti (di Piacenza) le giurisdizioni di Castelnuovo e Casale Albino, poi anche ricevute in feudo dal conte di Virtù20. E fu proprio la vicinanza di Niccolò ai signori di Milano – testi16. Trascrizione del diploma in Affò, Storia della città di Parma, cit., IV, pp. 370-371. 17. Come aveva ben rilevato G. Chittolini, Signorie rurali e feudi alla fine del medioevo, in Storia d’Italia, (dir. G. Galasso), IV, Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotte per l’egemonia, Torino 1981, pp. 589-676, in particolare pp. 615 ss. 18. A. Pezzana, Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 105n. 19. Cfr. G. Chittolini, Infeudazioni e politica feudale nel ducato visconteo-sforzesco, già in «Quaderni Storici», 19 (1972), ora in Idem, La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado, nuova ed., Milano 2005, p. 63. Ampie immunità su Tizzano furono poi riconosciute nel 1386 da Gian Galeazzo a Niccolò Terzi, mentre analoghe concessioni interessarono Sissa e Tre Casali: a beneficiarne furono in questo caso gli eredi di Giberto Terzi. Cfr. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., I, p. 170, n. 164. 20. C. Poggiali, Memorie storiche di Piacenza, t. VII, Piacenza 1759, p. 308. Si veda anche la conferma nel citato diploma di Venceslao, del 1387. Per l’infeudazione ad opera di Gian Galeazzo. BAMi, Cod. D 59 Suss., c. 44r, 1386 ottobre 19. 286 moniata da numerosi episodi, dall’investitura dell’ordine equestre per mano dello stesso Gian Galeazzo, ai prestigiosi incarichi di governo affidatigli, quali i capitanati di Brescia, Bergamo e di Reggio o, ancora, la reggenza del Consiglio di Verona per le Partes de ultra Mincium21 – ad aprire nuovi e più ambiziosi traguardi. Lo stesso diploma di Venceslao del 1387, con il suo ricco carico di honores, appare difficilmente immaginabile al di fuori di un accordo col conte di Virtù, perentorio nel proibire l’impetrazione di privilegi papali o imperiali senza sua speciale licenza22, e ormai capace di imporre ai potenti domini emiliani il proprio placet preventivo anche solo per l’esercizio di una podesteria o di una condotta al di fuori del dominio23. Alla morte dell’intraprendente Niccolò il titolo comitale fu attribuito a ciascuno dei figli, anche se le fonti restituiscono l’impressione di una leadership del primogenito Ottobuono rispetto a Jacopo, dottor di leggi, e a Giovanni24. L’ottimo rapporto col duca di Milano continuò anche con la nuova generazione: e se Jacopo ebbe modo di mettere a frutto la propria preparazione giuridica nel governo di alcune città viscontee e poi a corte25, il miles Ottobuono diede prova delle sue capacità militari alla guida dell’esercito che nel 1401 serrò il passo alle truppe di Roberto di Baviera26. 21. Niccolò fu insignito del cingolo militare nella cattedrale di Pavia il 15 agosto 1386. Cfr. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., I, p. 171. Circa gli offici ricoperti da Niccolò, egli fu capitano a Bergamo nel 1369, a Brescia nel 1372 e a Reggio almeno nel 1378. Si vedano, rispettivamente, I registri litterarum di Bergamo (1363-1410). Il carteggio dei signori di Bergamo, a cura di P. Mainoni e A. Sala, Milano 2003, ad indicem, e Pezzana, Storia della città di Parma, cit., I, p. 112. Circa la partecipazione al Consiglio di Verona, cfr. G. Seregni, Il Consiglio Visconteo di Verona per le «Partes de ultra Mincium», in Atti e memorie del secondo Congresso Storico Lombardo, (Bergamo 18-20 maggio 1937), Milano 1938, pp. 277-281, p. 277 e ASRe, Comune, Reggimento, 1392 aprile 15, Verona. 22. Copia del decreto in ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, reg. 13851425, 1386 settembre 22, Milano. 23. Alla fine del Trecento, ad esempio, la proposta di condotta avanzata da Giberto da Sesso alla signoria fiorentina faceva espressa menzione della necessità di un permesso preventivo del Visconti. ASRe, Comune, Convenzioni, trattati, privilegi, b. anni 1191-1418. Quanto alle podesterie, assai significativa la vicenda di Francesco Scotti, che prima di accettare il regimen della città di Bologna, si preoccupava di ottenere il permesso del Visconti. ASRe, Archivi privati, Malaspina Torello, Cartulario Scotti, c. 229 (1376 marzo 29, Pavia). 24. L’attribuzione del titolo comitale a ciascun fratello si evince da diversi documenti. Ad esempio dal diploma di Gian Galeazzo conservato in copia semplice in ASPr, Famiglie, Terzi, b. 1, 1402 luglio 29, Milano. 25. Jacopo Terzi fu podestà e capitano a Lodi nel 1400 e podestà a Vicenza nel 1401. Cfr., rispettivamente, I registri litterarum, cit., p. 179 e D. Bortolan, Podestà e giudici in Vicenza dal 1311 al 1404, Vicenza 1887, p. 34. Fra il dicembre 1402 e il gennaio 1403, morto da pochi mesi Gian Galeazzo, Jacopo figurava tra i membri del consiglio a Milano. Cfr. Il registro di Giovannolo Besozzi cancelliere di Giovanni Maria Visconti, a cura di Caterina Santoro, Milano 1937, pp. 14, 19. 26. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 2. 287 Fu dunque anche per compiacere un casato che aveva fino ad allora dato ampie prove di fedeltà e che tanto aveva contribuito all’allargamento del dominio27, che Gian Galeazzo consentì ai fratelli Terzi dapprima di acquisire i vassalli e i diritti che Giberto da Correggio possedeva nella castellania di Nigone28, quindi, dopo la scomparsa dello stesso Giberto, di subentrargli nomine feudi in tutti i suoi beni e in tutte le sue giurisdizioni, a cominciare dagli immobili posseduti a Parma, per continuare poi coi castelli di Guardasone, Montelugolo, Scalucchia, Bazzano, Cimiato e Colorno nel Parmense. E, ancora, con le rocche di Rossena, Sassatello e Gombio, site nel Reggiano, nonché con tutte le terre arative, boschive e a pascolo possedute da Giberto tra Castelnuovo di Sotto, Medesano, Gualtieri, e quelle tra Guastalla e Boretto, queste ultime in diocesi di Cremona (dove peraltro si addensavano da tempo vasti patrimoni dei Terzi)29. 3. «Hostis publicus» o «inimicus capitalis»? Qualche osservazione sulla guerra ai primi del Quattrocento La morte di Gian Galeazzo, scomparso ai primi di settembre del 1402, era giunta inaspettata per tutti, anche per Ottobuono Terzi, che al comando di un vasto contingente partecipava all’offensiva lanciata dalle truppe viscontee contro Firenze. Ricevuta la notizia, il Terzi levò immediatamente 27. Secondo il Corio furono proprio i meriti dei fratelli Ottobuono, Jacopo e Giovanni Terzi nella conquista di Bologna a indurre il Visconti a concedere loro le giurisdizioni già di Giberto da Correggio: «il che fu principio di la proxima disfactione de tutto il Parmegiano». B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, II, Milano 1978, pp. 967-968. 28. La richiesta dei Terzi al principe è in ASRe, Comune, Suppliche e lettere a principi, b. 1385-1400, s.d. (ma probabilmente 1400). Il Visconti chiese un parere ai suoi officiali a Reggio, da cui venne una risposta favorevole per i Terzi, anche in considerazione del modesto valore delle giurisdizioni in oggetto. Cfr. ASRe, Comune, Reggimento, 1400 novembre 6, Reggio. 29. Trascrizione del diploma, non privo di lacune, è in I. Affò, Istoria della città e ducato di Guastalla, I, Guastalla 1785, pp. 379-387. L’investitura di Gian Galeazzo è datata 1402 luglio 29, Melegnano. Vale la pena di osservare che, come già nel diploma di Venceslao del 1387, i tre fratelli sono ricordati come eredi del nobile Niccolò «de Terciis de Cornazzano». Riguardo ai beni nel Cremonese, era stato lo stesso Niccolò Terzi, unitamente ai nipoti Antonio e Guido, a ricordarne il possesso «ex longissimo tempore» in una supplica rivolta al principe. I Terzi, infatti, godevano, oltre che della cittadinanza parmigiana, anche di quella cremonese e, dai primi anni ’90 del Trecento, anche di quella reggiana, grazie a una deroga di Gian Galeazzo al dettato statutario. Si vedano ASRe, Comune, Carte di corredo alle provvigioni, b. 1392-93, s.d. (ma 1391). Ma anche A. Gamberini, La forza della comunità. Leggi e decreti a Reggio in età viscontea, in Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo, Atti del VII convegno del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative (Ferrara, 5-7 ottobre 2000), a cura di R. Dondarini, G.M. Varanini, M. Venticelli, Bologna, Patron 2003, ora in Idem, Lo Stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, pp. 137-152, in particolare p. 150n. 288 le tende e si portò «in Lombardiam», ma non abbastanza velocemente per impedire che i fratelli da Correggio sfruttassero la favorevole congiuntura per riprendere il controllo di alcuni castelli già di famiglia e poi concessi dallo scomparso duca proprio a Ottobuono30. Solo pochi giorni erano passati dalla scomparsa del conte di Virtù e già gli assetti del dominio, costruiti su equilibri delicatissimi, cominciavano a saltare, presagio di ben altri sconvolgimenti. In quei primi frangenti la posizione del Terzi appare improntata ad un interessato lealismo: mentre altri celebri capitani, come Alberico da Barbiano, cambiavano rapidamente schieramento ponendosi al servizio di Firenze, Ottobuono rimase coi signori di Milano, con cui assunse il rango di capitano generale31, contribuendo a riportare l’ordine nelle agitate terre dell’Umbria, nella Bergamasca e nel Bresciano32. A favore di questa scelta cospiravano probabilmente i tanti e diversi vincoli che legavano il Terzi alla dinastia: dalla collocazione dei suoi domini, siti proprio nel cuore del ducato – elemento, questo, di stabilizzazione, almeno nell’immediato –, ai crediti vantati per le passate condotte e non ancora riscossi. Tutti fattori, questi, alla luce dei quali anche le lunghe trattative avviate da Ottobuono con Firenze, desiderosa alla fine del 1403 di sostituire il Barbiano, appaiono soprattutto come un espediente dilatorio, volto ad alzare il prezzo della fedeltà ai Visconti33. Ma che il Terzi intorno al 1403/1404 collocasse la propria azione entro l’orizzonte visconteo sembra implicitamente confermato dall’accettazione di una condotta veneziana solo all’indomani della tregua fra Giovanni Maria Visconti e la Serenissima, quando dunque il suo 30. Il Copialettere marciano della cancelleria carrarese (gennaio 1402 - gennaio 1403), a cura di E. Pastorello, Venezia 1915, pp. 388-390, lettera di Francesco da Carrara al reggimento fiorentino datata 1402 settembre 8, Padova. Il Corio riferisce poi che nel mese di settembre Luigi della Palude, istigato dai Rossi, dai da Correggio e dai Fogliani – tutti collegati dei fiorentini –, occupò il castello di Neviano degli Arduini. Toccò proprio al Terzi recuperare la rocca «in capo a due mesi». Corio, Storia di Milano, cit., II, p. 971. 31. Copia del diploma di nomina è in BAMi, Pergamene, Perg. 8903, senza data. Il terminus post quem è probabilmente dato dal luglio 1403, quando i diplomi viscontei cominciano a riportare l’intitulatio di Giovanni Maria senza quella della madre Caterina (come ricorda F. Cognasso, Il Ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, a cura della fondazione Treccani degli Alfieri, VI, Milano 1955, p. 99). Quanto al terminus ante quem, è rappresentato dal 2 ottobre 1406, quando Ottone divenne conte di Reggio e la nuova intitulatio sostituì, almeno nei documenti ufficiali, quella di conte di Tizzano. 32. Cfr. G.C. Zimolo, Il ducato di Giovanni Maria Visconti, in Scritti storici e giuridici in memoria di Alessandro Visconti, Milano 1955, pp. 389-440, in particolare p. 391 (per l’Umbria). Anche Corio, Storia di Milano, cit., II, p. 994 (per il Bresciano) e C. Castelli, Chronicon Guelpho-gibellinum, a cura di C. Capasso, in RIS2, XVI/2, Bologna 1926-1949, p. 121 (per Bergamo). 33. Consulte e pratiche della repubblica di Firenze (1404), a cura di R. Nenci, Roma 1994, passim. 289 trasferimento sotto le insegna di san Marco non si configurava più come atto ostile per il duca di Milano34. Fin dal luglio 1403, infatti, Ottobuono era stato nominato dalla duchessa madre e dal giovane pupillo quale commissario ducale per Parma, Piacenza, Reggio, Borgo San Donnino, Fiorenzuola, Borgo Val di Taro, Pontremoli e Castell’Arquato35: una delega territorialmente ampia, che coincideva con le tre diocesi nelle quali si addensavano le giurisdizioni del Terzi, e che se da un lato appare rivelatrice delle ambizioni egemoniche di Ottobuono, dall’altro palesa tutta la debolezza della dinastia, costretta, pur di mantenere la sovranità nominale sulle terre del ducato, a concessioni che preludevano alla perdita di qualsiasi controllo effettivo. Tali, anzi, erano ormai i rapporti di forza tra il duca e i suoi condottieri, che perfino l’instaurazione di un regime signorile su alcune città da parte di Ottobuono fu sanzionata dal Visconti, costretto dapprima (maggio 1404) a riconoscere il dominio su Parma quale pegno per il pagamento delle condotte arretrate, quindi a rinnovare di anno in anno la concessione, salvo integrarla nel 1406 con l’infeudazione di Reggio, Brescello, Gualtieri e Castelnuovo di Sotto, nell’occasione erette anche in contea36. Solo a Piacenza il disegno del Terzi andò incontro ad un parziale fallimento, a motivo però non dell’opposizione del duca – in nome del quale il Terzi mostrava formalmente di agire –, ma semmai per gli umori della piazza e per la concorrenza di un altro condottiero visconteo, Facino Cane, non meno risoluto di Ottobuono nel cercare di sfruttare la debolezza dei Visconti per costruire un’ampia dominazione personale37. 34. Cfr. Cronica volgare di Anonimo Fiorentino dall’anno 1385 al 1409 già attribuita a Piero di Giovanni Minerbetti, a cura di E. Bellondi, in RIS2, XXVII/2, Bologna, s.d., pp. 318, 324. Per la condotta stipulata da Ottobuono con Venezia cfr. ASVe, Senato Secreta, Registri, reg. c. 46r ss. Ringrazio Letizia Arcangeli per la segnalazione. A Venezia si trovava anche Jacopo Terzi, testimone dell’alleanza fra il cardinale Baldassarre Cossa, la Serenissima e Azzo d’Este (28 dicembre 1404). Cfr. I Libri commemoriali della repubblica di Venezia. Regesti, III, Venezia 1883, pp. 301-302. 35. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1402-1404, 1403 luglio 23, Milano. 36. Sulla concessione di Parma, poi rinnovata nel corso degli anni, cfr. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, pp. 68, 79-80 (con l’aggiunta di Borgo San Donnino), 88-89. In precedenza (dicembre 1403) Ottobuono aveva già ricevuto in pegno la rocca e la terra di Brescello, coi dazi e coi pedaggi del Po. Cfr. Il registro di Giovannolo Besozzi, cit., p. 49. Circa l’investitura di Reggio, con diploma datato da Milano il 2 ottobre 1406, Tiraboschi, Memorie storiche modenesi, cit., III, p. 77. Il 9 ottobre seguente Ottobuono scriveva al reggimento di Reggio per darne comunicazione e per ordinare che venisse dipinto il suo stemma con inquartata la vipera viscontea. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, reg. 1392-1418, c.17r. 37. Prima fra le città emiliane a cadere nelle mani del Terzi – già nel marzo 1404 –, Piacenza fu occupata e persa più volte negli anni successivi. Cfr. D. Andreozzi, La crisi del ducato di Milano e i suoi riflessi nel Piacentino fino all’ascesa di Filippo Maria Visconti, 290 Fra il 1403 e il 1404 il disegno del Terzi si palesa dunque in tutta chiarezza, con la costruzione nell’area medio padana di un dominio ampio e coeso, ma soprattutto ancorato al controllo dei centri urbani (o semiurbani, come Borgo San Donnino, di cui si egli intitolò marchese, o come Casalmaggiore)38, i soli dai quali potessero venire le risorse e il prestigio per perseguire disegni egemonici su larga scala. In un contesto come quello italiano, dove la potenza degli stati si misurava ormai nel numero delle città governate, Ottobuono mostrò di avere le idee assai chiare su quale fosse la via da battere per dar origine ad una robusta compagine politica e anche per questo accarezzò a più riprese il progetto di un ampliamento non solo verso Piacenza, ma anche in direzione di Cremona e, soprattutto, di Modena, caposaldo estense. Non che fino ad allora fossero mancati attriti col marchese di Ferrara: era stato infatti il Terzi nei frangenti successivi alla morte di Gian Galeazzo ad impedire proprio a Niccolò III di estendere il suo dominio su Parma e su Reggio. E sempre le milizie del Terzi avevano aiutato la Serenissima ad arginare l’offensiva ferrarese nel Polesine39. Ma adesso il quadro era diverso e non si trattava più di arginare l’espansionismo ferrarese: l’offensiva condotta da Ottobuono contro Modena rappresentava per l’Estense un attacco esplicito e frontale, che minava le basi del suo stesso potere e che dunque finì col sollecitare una reazione uguale e contraria, così da definire una volta per tutte gli equilibri nell’instabile territorio emiliano. Quella che si andava profilando era dunque una partita per il primato e allo stesso tempo per la sopravvivenza, nella quale il prezzo per lo sconfitto non era la perdita di questa o quella città, ma l’eliminazione dalla scena politica. Chiarissimi in proposito i capitoli dalla Lega promossa da Niccolò III nel 1408 e alla quale avevano aderito anche Gianfrancesco Gonzaga, Cabrino Fondulo, Pandolfo Malatesta e l’ondivago Giovanni Maria Visconti: dopo avere additato il conte di Reggio a «perturbator pacis» e dopo averlo dichiarato «hostis publicus», i collegati si impegnavano solennemente «ad finale exterminium, consumptionem et depositionem domini in Storia di Piacenza, III, Dalla signoria viscontea al principato farnesiano (1313-1545), Piacenza 1997, pp. 91-194, in particolare pp. 98 ss. 38. Manni, Terzi ed Estensi, cit., p. 135. Borgo San Donnino cadde nelle mani del Terzi il 28 luglio 1407, come lo stesso Ottobuono comunicava in una lettera al reggimento di Reggio. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1404-1409, c. 25r. In una lettera a Zanotto della Tavola datata da Parma il 26 settembre (ma senza anno) Ottobuono si intitolava «comes Regii et marchio Burgi Sancti Donnini». ASRe, Comune, Carteggio del reggimento, b. 1404-1406. 39. Ricostruisce dettagliatamente questi aspetti il Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 127 ss. La pace fra l’Este e Venezia fu conchiusa il 25 marzo 1405, con l’impegno da parte di Niccolò III a restituire entro 15 giorni il Polesine di Rovigo. ASMo, Archivio Segreto Estense, Casa e Stato, Pergamene, cass. 22. 291 Ottonis de Terciis, suorumque subditorum, adherentium, recommendatorum et sequatium»40. Una petizione indubbiamente forte, nella quale colpisce soprattutto l’intreccio tra un lessico di matrice pubblicistica – bene esemplificato dalla declaratoria di hostis publicus41 – e un linguaggio diverso, proprio dei rapporti interpersonali, come l’inimicitia. È ad esempio con le stesse parole che i Rossi – e proprio in quegli stessi giorni – ricordavano all’Estense le vessazioni perpetrate da Ottobuono sui loro seguaci: «Cives amici nostri expulsi de Parma, ex eo quia propter exterminium factum de eorum personis, domibus, possessionibus et rebus, reducti sunt ad finalem consumptionem […]»42. Tra i capitoli della Lega e quelli dei Rossi si osserva insomma un’identità di lessico che riflette bene la permeabilità del confine tra la sfera dell’inimicitia personale e quello della conflittualità pubblica. Poteva così accadere che i Rossi, «nemici capitali» del Terzi43, partecipassero alla Lega con intento vendicativo, e che la Lega, animata da un principe – quale Niccolò III d’Este – ancora molto legato ad una concezione personalistica dei rapporti di potere44, introiettasse nell’atto costitutivo della Lega il linguaggio vivido del debito d’offesa: al punto da fissare come obiettivo dei collegati non solo lo sterminio e la consunzione del Terzi e dei suoi sodali (i «satellites» contemplati anche dal Digesto), ma perfino dei suoi sudditi, a dispetto di ogni teorizzazione dello ius in bello ma in accordo con le logiche dell’inimicitia45. 40. Il documento, datato 1408 maggio 13, è trascritto dal Muratori, Delle antichità estensi, cit., II, pp. 174-178. 41. Sul significato di «hostis publicus» cfr. F. Vittinghoff, Der Staatsfeind in der römischen Kaiserzeit, Untersuchungen zur damnatio memoriae, Speyer 1936, pp. 59 ss. Anche J.L. Cañizar Palacios, El uso propagandístico del hostis publicus en el Codex Theodosianus, in «Latomus. Revue d’études latines», 65 (2006), fasc. 1, pp. 130-146. 42. La descrizione, contenuta nei capitoli di accomandigia presentati al marchese d’Este e datati 1408 giugno 19, è trascritta in appendice al lavoro del Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 214 ss. 43. «Inimici capitali»: così li definisce anche il Delayto, Annales estenses, cit., col. 1057. 44. Si vedano in questo stesso volume i contributi di Marilia Ribeiro e di Federica Cengarle. 45. Malgrado la Chiesa e poi anche i pensatori politici e i giuristi avessero variamente cercato di definire una serie di soggetti da preservare in caso di guerra – chierici, donne, bambini, mercanti, i civili non belligeranti, ecc. – le violenze e le ruberie ai danni delle popolazioni rimanevano la prassi, ora tollerata, ora tacitamente incoraggiata. Ben diverso, tuttavia, il caso dei capitoli della Lega del 1408, in cui lo sterminio dei sudditi del Terzi è apertamente indicato come un obiettivo. Si potrebbe osservare l’analogia con l’area germanica, dove proprio i contadini e i loro beni erano il bersaglio principale delle faide nobiliari. G. Algazi, The Social Use of Private War: Some Late Medieval Views Reviewed, in Zur Sozial-und Begriffsgeschichte des Mittelalters, numero monografico di «Tel Aviver Jahrbuch fur deutsche Geschichte», 22 (1993), pp. 253-273. Anche C. Garnier, Amicus amicis, inimi- 292 Vista con maggiore distacco, la stessa costituzione della Lega non rappresenta che una fase di inasprimento e di allargamento del più ampio conflitto che fin dal 1404 opponeva il Terzi all’Estense e ai suoi alleati parmigiani (Rossi in primis) e che era cadenzato dalle tappe tipiche della faida, con la violenza rituale, la ricerca di mediazioni esterne (es. il tentativo di composizione affidata al cardinale Baldassarre Cossa e a Carlo da Fogliano) ed i momenti di pacificazione, magari propiziati da occasioni altamente simboliche (come nel caso del battesimo di un figlio di Ottobuono, di cui proprio Niccolò III e Jacopo Rossi divennero padrini)46. Anche la fine del Terzi, allora, sembra in qualche modo riflettere l’ambivalenza del conflitto, la sua natura ibrida e complessa. L’eliminazione con un tranello traduce, in una sorta di nemesi, lo spregio per il «pervicax violator divini juris atque mundani», come lo definisce il Delayto, penna semiufficiale dell’Estense47. E tuttavia, anche se presentata come una vendetta divina – e dunque come un supremo atto di giustizia – l’uccisione del Terzi rivela nelle sue stesse modalità i caratteri della ritorsione umana e terrena. Non è un caso che ad assestare il primo colpo sia stato – secondo la narrazione quasi unanime delle fonti – Muzio Attendolo Sforza, cui l’Estense intese offrire la possibilità di vendicare le offese subite durante la dura prigionia impostagli solo pochi mesi prima proprio dal Terzi48. Inimicitia (quella covata dallo Sforza) si sommava dunque a inimicitia (quella nutrita dall’Estense), convergendo nel compimento di un disegno che tuttavia non perse mai la sua valenza anche pubblica. Lo scempio rituale del cadavere – condotto a Modena e qui squartato, parzialmente divorato dal popolo, la testa mozzata affissa su un’asse trascinata da fancus inimicis. Politische Freundschaft und furstliche Netzwerke im 13. Jahrhundert, Stuttgart, A. Hiersemann, 2000. Il Delayto ricorda diversi episodi di violenza commessi dalle truppe del Terzi a danno dei sudditi modenesi dell’Estense. Cfr. Delayto, Annales estenses, cit., coll. 1004, 1042. Più in generale, sullo ius in bello si veda Ph. Contamine, Une contrôle étatique croissant. Les usage de la guerre du XIVe au XVe siècles rançons et butins, in Guerre et concurrence entre les états européens du XIVe au XVIIIe siècle, a cura di Ph. Contamine, Paris 1998, pp. 199-236. Anche Idem, L’idée de guerre à la fin du Moyen âge: aspects juridiques et éthiques, in La France au XIVe et XVe siècles. Hommes, mentalités, guerre et paix, London 1981, cap. XIII. 46. Nel dicembre 1406 il marchese Niccolò III e il vescovo Jacopo Rossi figuravano come padrini per il battesimo di un figlio di Ottobuono Terzi. Ancora un mese e l’Estense, con atto notarile, si impegnava ad accettare la mediazione del cardinale Baldassrre Cossa e di Carlo da Fogliano così da risolvere i dissidi con il Terzi. Entrambi gli episodi sono ricordati dal Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 132, 149. 47. Delayto, Annales Estenses, cit., col. 1064. 48. Si veda in proposito T. Dean, Marriage and Mutilation: vendetta in Late Medieval Italy, in «Past and Present», 157 (1997), pp. 3-36, in particolare p. 23. Dean sembra tuttavia trascurare completamente l’altra inimicitia, quella tra Ottobuono e l’Estense (e i Rossi). Passano in rassegna le diverse narrazioni dell’uccisione del Terzi sia Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, pp. 112 ss. sia Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 159 ss. 293 ciulli, le braccia e le gambe esposte sulle porte della città – rispondeva infatti proprio a questa esigenza. Privare la vittima delle sue sembianze, renderla irriconoscibile, profanarne il corpo al punto da precludere la sepoltura erano tutti gesti attraverso i quali si realizzava la damnatio memoriae, ovvero quella che fin dall’età classica era la pena postuma per l’hostis publicus49. A dispetto, dunque, delle teorizzazioni dei giuristi – le cui opere continuano a essere il terreno privilegiato dagli storici per lo studio delle pratiche belliche nel Basso medioevo50 – la guerra conservava all’inizio del Quattrocento uno statuto ambiguo, solo in parte ridefinito dalle norme di comportamento codificate dallo ius belli (o da quelle dell’etica cortese, che con lo ius belli presentino significative analogie e che fin dal XII secolo avevano avuto un ruolo non trascurabile sia nel rappresentare una società politica nuovamente coordinata al vertice, sia nel teorizzare un contenimento della violenza)51. Continuare ad attribuire la responsabilità di questo scarto fra «la teoria e la prassi della guerra» alla rozzezza di mercenari e stipendiari, poco sensibili al rispetto delle consuetudini cavalleresche – questa la lettura classista proposta Contamine e ampiamente ripresa52 – significa non solo deresponsabilizzare principi e aristocrazie, ma soprattutto 49. Riguardo a questi aspetti – lo scempio del cadavere come damnatio memoriae e la damnatio memoriae come pena aggiuntiva per l’hostis publicus – si veda F. Amarelli, Trasmissione, rifiuto, usurpazione. Vicende del potere degli imperatori romani, Napoli 1989. Per qualche riscontro in età medievale cfr. anche S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, 1989, pp. 210 ss. Vale la pena di notare come ancora alcuni decenni dopo la morte del Terzi i Rossi ne custodissero il capo mozzato nel castello di Felino. V. Carrari, Dall’historia di Rossi parmigiani, Ravenna 1583, pp. 130-131. Ringrazio Francesco Somaini per la segnalazione. 50. Largamente basata sulla riflessione di teologi e giuristi è l’opera di Ph. Contamine, La guerra nel medioevo, Bologna 1980; Idem, L’idée de guerre à la fin du Moyen Âge: aspects juridiques et éthiques, in Idem, La France au XIVe et XVe siècles. Hommes, mentalités, guerre et paix, Londra 1981, cap. XIII. Sulla stessa linea F.L. Russell, The Just War in the Middle Ages, Cambridge 1975. Cfr. più in generale anche G. Soldi Rondinini, Il diritto di guerra in Italia nel secolo XV, in «Nuova Rivista Storica», XLVIII (1964), pp. 275-306; P. Gilli, Guerre, paix, alliance, duel: le disciplinement de la violence dans les traités juridiques sur la guerre en Italie, au XVe siècle, in Guerre, pouvoir et noblesse au Moyen Âge. Mélanges en l’honneur de Philippe Contamine, a cura di J. Paviot e J. Verger, Paris 2000, pp. 323-341. 51. Su questi aspetti: A. Chauou, L’idéologie Plantagenêt. Royauté arthurienne et monarchie politiques dans l’espace Plantagênet (XIIe-XIIIe siècles), Rennes 2001; D. Boutet, Carrefours idéologiques de la royauté arthurienne, in «Cahiers de civilisation médiévale», XXVIII (1985), pp. 3-17; Faide e guerre nobiliari hanno cittadinanza – e non è un caso – solo nelle cosiddette «canzoni dei vassalli ribelli», come la chanson di Raoul de Cambrai, orgogliosa rivendicazione dei diritti dell’aristocrazia rispetto alla corona. Cfr. W.C. Calin, The Old French Epic of Revolt, Genève, Paris 1962. 52. Contamine, La guerra nel medioevo, cit., pp. 384 ss. Ma sulla stessa linea anche C. Beaune, Les monarchies médiévales, in Les monarchies, dir. Y.-M. Bercé, Paris 1997 (Histoire générale des systèmes politiques), in particolare p. 141. 294 appiattirne il sistema di valori agli ideali cortesi, misconoscendo per esempio il peso di quella cultura della vendetta, del debito di offesa, su cui opportunamente si è richiamata l’attenzione e che costituiva una componente essenziale dell’ethos aristocratico53. Più che sugli eccessi delle truppe – costante di tutte le guerre – varrà allora la pena di soffermarsi su un altro elemento strutturale, ovvero sui complessi codici nobiliari, forse ad oggi ancora non pienamente decifrati. Nessuno stupore, dunque, se anche un principe come Niccolò III d’Este conducesse la sua guerra al Terzi lungo un doppio registro, che alternava e intrecciava, senza nessuna contraddizione, schemi pubblicistici e logiche dell’inimicitia privata54. 4. Lo stato del condottiero. Apparati istituzionali e pratiche di governo Benché inviato in Emilia in qualità di commissario ducale, Ottobuono non impiegò molto a ridefinire il proprio ruolo politico e la sua veste istituzionale. La presa del potere nelle città – portata a termine dal Terzi fra il marzo e il maggio 1404 – fu subito accompagnata dalla sanzione viscontea (Parma e Piacenza furono concesse quale pegno delle condotte non ancora liquidate)55 e, soprattutto, dall’acclamazione a dominus da parte del popolo o delle assemblee che ne avevano la rappresentanza: così a Parma56, così a Reggio57 e così anche a Piacenza, malgrado il carattere più effimero di quest’ultima esperienza di governo58. Certo i Visconti continuavano a riservarsi una sorta di dominio eminente, che consentiva loro di enucleare nuove circoscrizioni feudali nelle regioni controllate dal Terzi: come Montechiarugolo, concessa nomine feudi 53. E che non erano estranei nemmeno alla società cittadina: A. Zorzi, La cultura della vendetta nel conflitto politico in età comunale, in Le storie e la memoria. Studi in onore di Arnold Esch, a cura di R. Delle Donne, A. Zorzi, Firenze 2002, pp. 135-170. 54. Indicativo di questa prassi anche l’uso da parte dei principi di sfidare – secondo i più caratteristici costumi della faida – le città che opponevano resistenza. Richiama questi aspetti L. Arcangeli, «Igne et ferro». Sulle dedizioni di Reggio alla Chiesa e all’Estense (1512-1523). Note a margine di alcuni studi di Odoardo Rombaldi, in questo stesso volume. 55. Così Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 63, sulla scorta del cronista reggiano Fulvio Azzari. 56. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 54. 57. ASRe, Comune, Provvisioni del consiglio generale, b. 1402-1407, 1404 giugno 29, cc. 73v-74r. 58. In una lettera di Jacopo da Cornazzano (Jacopo Terzi?) ad Antonio Zoboli e Jacopo Cassoli – lettera volta a convincere i due cittadini reggiani a dispiegare la loro ben nota influenza sulla comunità cittadina per favorire i disegni signorili di Ottobuono – si dà conto della dedizione di Piacenza al conte di Tizzano e della sua acclamazione da parte del populus. ASRe, Comune, Registri, 1392-1418, reg. 1402-1404, 1404 marzo 16, Piacenza. 295 a Guido Torelli nel 140659. E tuttavia la capacità di controllo dei duchi non si spingeva oltre questi aspetti60. Ecco allora che già all’indomani dell’avvento di Ottobuono a Reggio, dalla graduazione delle fonti di diritto sparì il riferimento ai decreti viscontei61. Ma non solo. Proprio come un dominus dotato dell’arbitrium più ampio, il Terzi si riservava ormai di emendare, correggere e cassare gli statuti. Quelli in civilibus di Reggio furono interamente riscritti nel 1404 e senza esitazione il conte di Tizzano vi derogò nel corso degli anni: come nel 1406, quando consentì al podestà in carica – il fidato Giovanni Lalatta – di compiere transazioni patrimoniali in città nonostante l’esplicita proibizione della lex municipalis62. Anche il potere di grazia – altra manifestazione della suprema potestà giurisdizionale – era saldamente nelle mani di Ottobuono, che la esercitò, sia pure con parsimonia63. Con grande consapevolezza il Terzi diede insomma origine a una compagine politica dal forte profilo costituzionale, secondo un cliché che è certo debitore della grande tradizione viscontea, ma che trova consonanze anche in altre signorie cittadine coeve, come quella di Franchino Rusca a Como, di Giovanni Vignati a Lodi e Piacenza, di Pandolfo Malatesta a Bergamo e Brescia, rivelando dunque la pluralizzazione delle esperienze statuali ai primi del Quattrocento64. Il collasso dell’edificio 59. L’investitura di Montechiarugolo risale al 3 ottobre 1406. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., p. 85. 60. Che peraltro possiamo immaginare concordati con lo stesso Terzi, considerata anche la vicinanza tra questi e il Torelli, che per per conto di Ottobuono fu anche governatore a Reggio nel 1408. Ibidem, p. 104. 61. Lo si evince chiaramente dalla littera offici del nuovo podestà di Reggio, il parmigiano Giovanni de Lalata. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 13921418, reg. 1404-1409, 1404 giugno 24, c. 2r-v. Giovanni de Lalata fu gratificato dal Terzi con alcune donazioni. Cfr. ASRe, Comune, Memoriali, 1406, cc. 44v e 91r. 62. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1404-1409, 1406 dicembre 17, Parma. La lettera di deroga di Ottobuono Terzi in favore di Giovanni Lalatta è trascritta anche nell’ultimo foglio degli statuti del 1392. Sugli statuti in civilibus del 1404 cfr. I rubricari degli statuti comunali di Reggio Emilia (secoli XIII-XVI), a cura di A. Campanini, Bologna 1997, pp. 26-27, 173-177. Nel breve prologo il Terzi è definito «dominus generalis». 63. Nel 1406, ad esempio, il dominus ordinava che si cancellasse la condanna per omicidio inflitta a Ugo de Guazalottis. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1404-1409, 1406. Nel 1408 Ottobuono si mostrava preoccupato dell’autenticità delle lettere di grazia che recavano la sua intitulatio e per tale ragione ordinò al podestà di verificare l’esistenza del suo sigillo «quartilato» e della sottoscrizione autografa dello stesso dominus. Ivi, 1408 dicembre 3, Parma, c. 31v. 64. La necessità di studiare le signorie cittadine del primo Quattrocento è stata espressa da M. Della Misericordia, La Lombardia composita. Pluralismo politico-istituzionale e gruppi sociali nei secoli X-XVI (a proposito di una pubblicazione recente), in «Archivio Storico Lombardo», 124-125, 1998-1999, pp. 601-648, p. 637. La bibliografia non sembra in realtà così trascurabile, anche se prevalente è una prospettiva evenemenziale. Si vedano, 296 visconteo non significò insomma il collasso della forma «Stato» nelle regioni padane. Per quanto concerne Ottobuono, in particolare, traccia del suo articolato apparato istituzionale e delle sue pratiche di governo si è conservata soprattutto attraverso la documentazione reggiana. Anche una semplice scorsa ai nomi delle magistrature e ai loro meccanismi di funzionamento rivela innanzitutto il forte debito con il sistema visconteo: podestà e capitano in città (spesso convergenti nella medesima persona), castellani e vicari nel contado, perfino un maestro generale delle entrate ordinarie e straordinarie (carica che nella sua stessa denominazione tradisce la derivazione milanese)65. Ricalcava la migliore tradizione di governo viscontea anche il controllo sulla provvista beneficiaria, scrupolosamente osservato sia a Parma, sia a Reggio ed importante strumento per compiacere sostenitori e alleati (come nel caso di Carlo da Fogliano), ma anche per riservare prestigiose sinecure a qualche parente del dominus66. Non meno attenta, del resto, era la più generale vigilanza sui sudditi, che per potere attendere a qualche officio al di fuori del dominio dovevano richiedere l’autorizzazione signorile67. Perfino verso i tanti dominatus loci che allignavano nel territorio la politica di Ottobuono sembrò in qualche modo riecheggiare la pragmatica condotta dei Visconti, alieni – almeno nell’Emilia occidentale – da generalizcomunque, A. Peviani, Giovanni Vignati conte di Lodi e signore di Piacenza (1360 c.a.1416), Lodi 1986; La signoria di Pandolfo III Malatesti a Brescia, Bergamo e Lecco, a cura di G. Bonfiglio Dosio e A. Falcioni, Rimini 2000. Per Franchino Rusca si vedano le osservazioni di Della Misericordia, che coglie l’efficacia della sua politica ecclesiastica. M. della Misericordia, La disciplina contrattata. Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo, Milano 2000, pp. 136-137. 65. Cfr. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 14041409. Il 27 luglio 1407 Ottobuono nominava quale maestro generale delle entrate ordinarie e straordinarie, nonché razionatore generale Pietro de Balono. 66. Un editto che vietava la provvista beneficiaria senza la preventiva autorizzazione del dominus fu promulgato già nel maggio 1404, al tempo della cosignoria parmense dei Rossi. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 55. Nel 1406 Ottobuono ordinava al podestà di Reggio di mettere Guigiovanni di Gianfilippo Caprari nel possesso del priorato di San Bernardo. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1404-1409, 1406 settembre 8, c. 11v. Altra volta fu Carlo da Fogliano – alleato di Ottobuono – ad ottenere dal dominus il permesso di disporre del beneficio (o della chiesa) di San Antonio di Reggio, di cui sempre aveva goduto la sua domus. Ivi, 1405 febbraio 2, Parma. Naturalmente uffici e benefici ecclesiastici erano considerati una risorsa anche dalla stessa famiglia del dominus. Nel 1406, ad esempio, l’abate di Santa Maria di Fonte Viva ragguagliava il Terzi circa gli sforzi condotti per far avere ad un suo figlio naturale – non meglio precisato – l’abbazia di Santa Maria della Colomba. ASRe, Comune, Recapiti alle Provvisioni, b. 1385-1419, 1406 novembre 17. Il figlio naturale non era comunque il celebre Niccolò «Guerriero», che era stato legittimato nel 1405. ASRe, Archivio Riva, 1) Pergamene, 1405 novembre 25, Parma. 67. Molto indicativa l’autorizzazione concessa al notaio Guido Bebbi. ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1404-1409, 1407 febbraio 1, c. 20v. 297 zate prove di forza coi poteri locali. Quel quadro bipolare che fino ai primissimi del Quattrocento aveva consentito ai signori di castello di giocare di sponda tra le potenze regionali – e dunque di negoziare con esse da posizioni di forza – non era infatti venuto meno con la sostituzione dei Visconti coi Terzi, dal momento che immutata rimaneva la capacità di attrazione del polo estense68. Le lotte coi potenti signori rurali, quasi una costante durante la signoria di Ottobuono, furono più che il frutto di una politica pianificata di dominio sul contado, il corollario inevitabile degli scontri combattuti per il controllo delle città, là dove proprio le fazioni (o squatrae) dei principali lignaggi signorili erano solite spartirsi il governo urbano69. A Parma, in particolare, la brusca fine della cosignoria coi Rossi – allontanati con i loro seguiti urbani e comitatini e colpiti con taglie e confische70 – aprì una stagione di ininterrotta conflittualità, con assalti e devastazioni anche ai castelli e alle giurisdizioni del contado (e di cui resta una vivida descrizione in alcuni capitoli presentati dagli stessi Rossi all’Estense nel 1408)71. Proprio la necessità di ricercare appoggi e sostegni durante questa lotta senza quartiere indusse Ottobuono ad abbandonare quel monocolore guelfo creato in Parma durante l’effimera intesa coi Rossi – quando tutti i posti in consiglio vennero spartiti fra i seguaci dei due signori, col conseguente allontanamento delle altre fazioni – e a ricuperare l’appoggio dei Pallavicino e dei Sanvitale, cui nel 1405 furono lasciati 4 degli 8 posti in consiglio (i rimanenti 4, naturalmente, andarono alla squadra dei Terzi)72. Anche se la fonte di queste dettagliatissime informazioni, la cronaca del Da Erba, si fa più reticente per gli anni seguenti, la notizia di una migrazione degli aderenti dei Pallavicino verso i Terzi (agosto 1405) e del giuramento di fedeltà dei villani dei Pallavicino alla squadra dei Terzi (dicembre 1405), danno tuttavia il senso di un ulteriore mutamento del quadro politico, con Ottobuono in apparenza sempre più forte, ma di fatto sempre più isolato73. 68. Su questi aspetti e con riferimento all’età viscontea sia consentito rimandare a Gamberini, La città assediata, cit., in particolare pp. 282 ss. 69. Cfr. Gentile, Terra e poteri, cit. 70. Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 82-83, 91-92. 71. Nel 1408 i Rossi divennero formalmente aderenti dell’Estense, al quale presentarono una nutrita serie di capitoli. Trascrizione in Appendice al saggio di Manni, Terzi ed Estensi, cit., pp. 214 ss. 72. La rappacificazione fra Terzi, Pallavicino e Sanvitale, realizzata nel comune sostegno al duca di Milano, fu siglata a casa di Ottobuono il 6 giugno 1404. Da Erba, Cronaca, cit., p. 193. Circa la composizione del consiglio nel 1405, Ibidem, pp. 202-203. I posti erano stati ridotti da 16 a 8. Anche la composizione del consiglio generale era stata ridotta da 200 a 100 membri. Cfr. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 74. 73. Da Erba, Cronaca, cit., pp. 210, 216. 298 Quanto al Reggiano, dove sul finire del 1403 molti fra i signori del contado – e tra questi i Correggio, i Fogliano, i Canossa – avevano puntato sull’Estense, offrendogli aiuto nella temporanea occupazione della città, il Terzi cercò con più determinazione di non inimicarsi coloro che potevano rappresentare importanti punti d’appoggio lungo l’instabile frontiera con il marchese. Fino allo scoppio delle ostilità con quest’ultimo, dunque, Ottobuono non solo si astenne dal recare offesa agli aderenti estensi – i Manfredi, i da Bismantova, i Boiardo, Guido da Fogliano –, ma ricercò esplicitamente l’accordo con alcuni tra i più potenti signori del contado74, tentando di attrarli stabilmente nella propria orbita (molto indicative le avances ai da Correggio)75. Nel caso di Carlo da Fogliano l’intesa fu suggellata dal matrimonio tra la figlia di questi, Donnina, e lo stesso Ottobuono76, mentre verso Guido da Canossa – che durante gli ultimi frangenti del dominio visconteo aveva occupato col fratello Bonifacio i centri di Felina e Castelnuovo Monti, chiavi dei principali itinerari verso la Garfagnana – la politica di gratificazione passò attraverso la concessione della podesteria di Parma77. Solo verso il 1408, quando l’isolamento politico e diplomatico in cui cadde Ottobuono sembrò irrobustire la posizione estense, in molti presero le armi contro il Terzi, come mostrano i bandi decretati contro Guido e Bonifacio da Canossa – per i quali il conte di Reggio ordinò anche una pittura infamante, che li ritraesse impiccati per un piede come traditori – e quelli contro Giovanni Manfredi e Selvatico Boiardi78. 74. Nel 1404 Niccolò III inviava a Ottobuono una lettera in cui lo invitava a trattare benevolmente Giovanni Manfredi, aderente estense. Nella missiva si aggiungeva che desiderio del Manfredi era quello di essere «amicus et servitor» di Ottobuono. ASMo, Archivio Segreto Estense, Cancelleria, Lettere e Decreti, B, 1404 settembre 6, f. 159. Il trattato di aderenza di Guido di Ugolino da Fogliano con l’Estense è in ASRe, Archivio Vezzano Pratoneri, 1) Pergamene, b. 1, 1404 marzo 7, Ferrara. Il trattato di aderenza di Feltrino, Bartolomeo e Giorgio da Bismantova è in ASMo, Cancelleria, Leggi e decreti, B, 1404 settembre 27, c. 160. 75. In una missiva indirizzata da Pietro da Correggio a Uguccione Contrari sono espressamente ricordati i tentativi di Ottobuono per avere come aderenti i fratelli da Correggio. ASMo, Cancelleria, Carteggio di principi esteri, Correggio, b. 1146a, fasc. II, senza l’anno (a matita 1372, ma la data è errata). Ringrazio Alessandra Malanca della segnalazione. 76. Il matrimonio si svolse a Borgo San Donnino il 1° ottobre 1405. Così il Da Erba, Cronaca, cit., p. 211. 77. Circa l’occupazione di Felina e Castelnuovo si veda il bando decretato dal podestà di Reggio contro Guido da Canossa, Niccolò da Canossa e contro Bonifacio figlio di Niccolò. ASRe, Giudiziario, Curie della città, Libri delle denunzie e delle inquisizioni, 1403 dicembre 19, f. clvii r. Riguardo, invece, alla podesteria di Guido da Canossa a Parma cfr. ASRe, Comune, Reggimento, 1404 ottobre 27, Parma. Nell’occasione Guido da Canossa inviava una missiva a Zanotto della Tavola circa l’ospedale fondato a Reggio da Pinotto Pinotti. 78. Notizia della pittura infamante contro i Canossa in ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, b. 1392-1418, reg. 1405-1409, 1408 dicembre 6, Parma, c. 30r. Il bando contro Giovanni Manfredi e Selvatico Boiardi è in ASRe, Giudiziario, Curie della città, Libri delle denunzie e delle inquisizioni, 1408 aprile 18. 299 Alla luce di questi elementi sarebbe dunque arduo vedere nel Terzi un fautore delle città nella loro eterna contrapposizione alle signorie del contado. Più che per una improbabile lotta al particolarismo signorile, la politica di avvicinamento alle élites urbane passò allora per altre misure. Nel dicembre 1407 i consigli municipali di Parma e di Reggio furono chiamati a ratificare una serie di disposizioni volte a favorire l’integrazione fra le due principali comunità del dominio di Ottobuono. Nello specifico fu stabilito che 90 cittadini reggiani ricevessero la cittadinanza parmigiana e che 100 parmigiani ricevessero quella reggiana, in entrambi i casi con la clausola di trasmissibilità alla progenie. Non solo: fu anche deliberato che tutti i parmigiani potessero possedere liberamente beni nel Reggiano e che altrettanto potessero fare i reggiani nel Parmense, con il superamento dunque di quelle chiusure municipalistiche che solo pochi anni prima avevano impedito a Gian Galeazzo Visconti di perseguire un analogo disegno, sia pure su scala più ampia79. 5. L’equilibrismo impossibile: il guelfismo visconteo di Ottobuono Nella vicenda complessa e talora tumultuosa di Ottobuono Terzi un ruolo davvero centrale ebbero i legami di Parte, ora importante collante della rete di fedeltà costruita dal Terzi nelle città assoggettate, ora invece elemento di fragilità nei raccordi sovralocali con le potenze del tempo. Sembrerebbe risiedere, infatti, proprio in questa ambivalenza la ragione, ad un tempo, della rapida fortuna di Ottobuono, della sua capacità di radicamento nei principali centri emiliani – dove ostentata fu la sua militanza guelfa –, ma anche della difficoltà di inserimento nel più ampio contesto delle relazioni regionali, ambito in cui crescente era il sospetto, se non l’ostilità, verso un guelfo rimasto però saldamente nell’orbita viscontea. In un contesto profondamente segnato dalla reviviscenza delle identità di Parte – e tale a giudizio unanime dei cronisti era la Lombardia dopo la morte di Gian Galeazzo –, in un mondo nel quale la dicotomia guelfo/ghibellino era tornata ad orientare, sia pure mai meccanicamente, gli assi delle alleanze e delle rivalità, il guelfismo visconteo di Ottobuono rappresen79. La disposizione è ricordata con dovizia di dettagli dal Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, pp. 97-100. Sull’episodio anche F.E. Comani, Sopra una riforma di Ottobuono Terzi (1407), in «Studi Storici», vol. IX (1902), pp. 87-91. Recentemente anche R. Greci, Parma medievale. Economia e società nel Parmense dal Tre al Quattrocento, Parma 1992, p. 206. Circa il fallimento del progetto visconteo cfr. A. Gamberini, La forza della comunità. Leggi e decreti a Reggio in età viscontea, in Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo, Atti del VII convegno del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative (Ferrara, 5-7 ottobre 2000), a cura di R. Dondarini, G.M. Varanini, M. Venticelli, Bologna, Patron 2003, pp. 109-122, ora in Idem, Lo Stato visconteo, cit., in particolare pp. 148-152. 300 tava un vero e proprio ossimoro politico: una posizione difficilmente sostenibile, che alla lunga finì col chiudere al Terzi ogni spazio di manovra, gli alienò appoggi e sostegni, contribuendo a segnarne la vicenda. Ai primissimi del Quattrocento non vi era terra o borgo di Lombardia in cui le antiche partialitates non avessero ripreso vigore, favorite dalla crisi istituzionale aperta dall’improvvisa scomparsa del conte di Virtù. Come efficacemente riassumeva il Corio, in tutto il ducato divampava ormai «uno tanto fuocho de discordia che non si puoteva extinguere»80. Nel Parmense, in particolare, erano stati i fratelli Jacopo e Pietro Rossi a sventolare la bandiera del guelfismo e a tramare per acquistare il dominio sulla città, forti anche del sostegno di un compatto fronte di lotta al quale aderivano nemici vecchi e nuovi dei Visconti (l’Estense, la Chiesa, i Fogliano, i da Correggio e Firenze). La reazione viscontea fu affidata alle armi del Terzi, che con l’aiuto di alcuni alleati locali riuscì a conseguire qualche importante risultato, a cominciare dalla cattura di Pietro Rossi, «inimicus capitalissimus» della duchessa81. Quello che forse la duchessa non aveva messo in conto era la possibilità di un accordo fra i Rossi e il Terzi. Difficile dire se l’intesa maturasse già in questi frangenti: certo è che Pietro Rossi, catturato il 27 settembre 1403, fu rilasciato il 13 novembre seguente, senza che gli venisse torto un capello; ancora qualche giorno e il 17 seguente fu proclamato dal Terzi un editto che consentiva ai membri della squadra rubea di fare rientro a Parma, previo giuramento di fedeltà ai Visconti. Costruita non senza ambiguità, la pacificazione del Terzi resse fino al maggio 1404, quando gli eventi presero improvvisamente una piega diversa. Fu allora che Pietro Rossi, rotti gli indugi, diede l’assalto alla città, occupandola rapidamente al grido di «viva la parte guelfa»82. Ma è la reazione del Terzi a meritare ogni attenzione: fatto rapidamente rientro a Parma per una porta di cui conservava il controllo, Ottobuono si guardò bene dall’attaccare gli insorti, unendosi invece loro al medesimo grido di «viva la parte guelfa». Ancora qualche giorno e i due nuovi signori di Parma, Pietro Rossi e Ottobuono Terzi, si giuravano reciproca lealtà e ricevevano la promessa di fedeltà dai principali della fazione guelfa parmigiana83. Fin qui, dunque, i fatti, almeno per come sono tramandati dalle cronache, in primis dall’informatissimo Da Erba. E tuttavia sono proprio questi fatti a suggerire qualche considerazione. Rispetto, ad esempio, allo scetticismo espresso ancora di recente in ambito storiografico circa la possibilità 80. Così il Corio, Storia di Milano, cit., II, p. 988. 81. Dettagliata ricostruzione degli eventi in Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, pp. 21 ss. 82. Ancora Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, pp. 52-53. 83. A.M. da Erba, Storia di Parma, Biblioteca Palatina di Parma, Ms. Parm. 459, fine sec. XVI, p. 183. 301 per gli attori sociali di manipolare i linguaggi dell’identità e dell’appartenenza, vale senz’altro la pena di segnalare la condotta di Ottobuono Terzi, leader di una famiglia di consolidata tradizione ghibellina che nei frangenti successivi alla morte di Gian Galeazzo fece una scelta di rottura, proclamandosi apertamente guelfo84. Un’opzione, questa, non estemporanea, ma maturata nel tempo – fin dall’estate 1403, ad esempio, la squadra dei Correggio (guelfi) aveva assunto a Parma il nome dei Terzi85 – e che mirava a intercettare il favore di quella Parte che appariva prevalente nelle città dell’Emilia occidentale86. Non è dunque un caso se proprio coi guelfi piacentini Ottobuono aprì un canale di comunicazione preferenziale, così da riceverne, sia pure per breve tempo, il governo della città87. Il disegno volto ad accreditarlo come leader del guelfismo emiliano fu accuratamente coltivato anche negli anni seguenti – nel 1407, ad esempio, fu sua preoccupazione ribattezzare la Torre dei Marchesi, appena sottratta a Rolando Pallavicino, in Castelguelfo88 – ma non gli impedì di mantenersi costantemente nell’orbita viscontea e di perpetuare l’ambiguo rapporto che ne faceva, allo stesso tempo, uno dei principali elementi di disgregazione del ducato, ma anche una delle poche risorse militari potenzialmente attivabili dal giovane Giovanni Maria (o da coloro che a corte ne orientavano le decisioni). Come nel maggio 1406, quando Francesco Visconti, capo del ghibellinismo milanese e vero uomo forte a corte dopo la morte della duchessa Caterina, chiese e ottenne l’intervento di Ottobuono contro Giovan84. Dubbi circa la capacità del singolo di manipolare strumentalmente i linguaggi dell’identità sono avanzati da M. Della Misericordia, Divenire comunità. Comuni rurali, poteri locali, identità sociali e territoriali in Valtellina e nella montagna lombarda nel tardo Medioevo, Milano 2006, p. 47. Sul peso dell’eredità politica familiare nella definizione delle appartenenze di un individuo cenni anche nel De Guelphis et gebellinis di Bartolo (cfr. D. Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato. Con l’edizione critica dei trattati «de guelphis et gebellinis», «de regimine civitatum» e «de tyranno», Firenze 1985, pp. 140 ss. Più recentemente su questo punto anche M. Gentile, Discorsi sulle fazioni, discorsi delle fazioni: Parma e la Lombardia nel Quattrocento, relazione presentata al seminario: I linguaggi politici nell’Italia del Rinascimento (secoli XIV-XV), Pisa, 9-11 novembre 2006. 85. Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 35. 86. Per Reggio la prevalenza delle squadre di orientamento guelfo è rilevata da Gamberini, La città assediata. Poteri e identità politiche a Reggio in età viscontea, Roma 2003, pp. 55 ss. Per Piacenza si veda invece R. Bellosta, Le «squadre» in consiglio: assemblee cittadine ed élite di governo urbana a Piacenza nella seconda metà del Quattrocento tra divisioni di Parte e ingerenze ducali, in «Nuova Rivista Storica», LXXXVII (2003), pp. 154, in particolare p. 33. Per Parma si veda Gentile, Terra e poteri, cit. 87. Andreozzi, La crisi del ducato di Milano, cit., p. 99. 88. Il 22 giugno 1407 Ottobuono Terzi comunicava al podestà di Reggio di avere nominato Simone da Tizzano custode della torre «nunc nominata castrum guelfum». ASRe, Comune, Registri dei decreti e delle lettere, Reg. 1392-1418, c. 22r. Anche Pezzana, Storia della città di Parma, cit., II, p. 93 e Gentile, Terra e poteri, cit., p. 141. 302 ni Vignati, signore di Lodi89. O, ancora, come nel febbraio 1407, quando lo stesso duca Giovanni Maria, prima di capitolare davanti a Francesco Visconti, a suo fratello Antonio e a Facino Cane, richiese il soccorso di Jacopo Dal Verme ed Ottobuono Terzi90. Con l’aiuto prestato al duca in questi frangenti il Terzi si inseriva apertamente nelle lotte che si combattevano a Milano, assumendo il capitanato generale della fazione guelfa91, secondo una scelta di campo che appare pienamente coerente con la linea seguita fino ad allora dal Terzi (i guelfi milanesi, infatti, non esprimevano una posizione antagonista al principato visconteo, ma semmai di contrasto verso coloro che avevano eliminato dapprima i Barbavara, quindi la duchessa madre Caterina)92. Quando tuttavia anche i rapporti col duca e col Dal Verme si usurarono – e certo al deterioramento delle relazioni contribuirono il disaccordo sulla conduzione delle operazioni a Milano, ma anche l’appoggio dato da Ottobuono a Estorre Visconti, fattosi signore di Monza93 – il Terzi si ritrovò però senza sponde. Quel linguaggio di fazione su cui aveva tanto investito per costruire le basi del suo dominio non riuscì infatti mai ad attivare la solidarietà della Chiesa o di Firenze, tutti soggetti che per stabilizzare l’area emiliana avevano da tempo puntato su un più coerente sostenitore del guelfismo: il marchese Niccolò III d’Este. La Lega del 1408, creata con l’obiettivo dichiarato di spazzare via il conte di Reggio, fu allora un chiaro segnale dell’isolamento in cui era precipitato il Terzi: un isolamento per rompere il quale anche l’alleanza con un vecchio nemico, il ghibellinissimo Facino Cane, poteva rivelarsi utile94. 89. Del resto, i capitoli della tregua conchiusa solo poche settimane dopo fra i Visconti, da un lato, e Giovanni Vignati e Giorgio Benzoni dall’altro, menzionano espressamente il conte di Reggio fra i fautori del duca. Codice visconteo-sforzesco, ossia Raccolta di leggi, decreti e lettere famigliari dei Duchi di Milano, a cura di C. Morbio, Milano 1846, pp. 32-34. La tregua venne annunciata dal duca di Milano con lettera datata 1402 agosto 11. 90. Su quegli avvenimenti Zimolo, Il ducato di Giovanni Maria Visconti, cit., pp. 418 ss. 91. In occasione della richiesta di aiuto da parte di Giovanni Maria, l’anonimo cronista bergamasco definisce Jacopo Dal Verme e Ottobuono Terzi «capitani generali della Parte guelfa». Così in Chronicon Bergomense guelpho-gibellinum ab anno MCCCLVIII usque ad annum MCCCCVII, in RIS2, XVI/2, a cura di C. Capasso, Bologna 1926-1940, pp. 195-197. 92. Sulle peculiarità del guelfismo milanese rispetto a quello di altre città cfr. N. Valeri, L’eredità di Giangaleazzo Visconti, Torino 1938, pp. 54 ss. Più recentemente F. Somaini, Il binomio imperfetto: alcune osservazioni su guelfi e ghibellini a Milano in età visconteosforzesca, in Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. Gentile, Roma 2005, pp. 131-215. 93. Su questi avvenimenti si veda la puntuale ricostruzione di Zimolo, Il ducato di Giovanni Maria Visconti, cit., pp. 420 ss. Anche Corio, Storia di Milano, cit., II, pp. 1010 ss. 94. Notizia dell’alleanza in una lettera di Filippo Maria Visconti al fratello Giovanni Maria trascritta nel cartulario degli Scotti di Piacenza. ASRe, Archivio Malaspina Torello, Cartulario Scotti, f. 228, 1408 settembre 14. 303 È dunque contro Ottobuono e contro Facino – «ad dispendium et exterminium domini Facini Canis […] et etiam ad excidium domini Ottonis» – che nel gennaio 1409 si costituì un’altra alleanza di principi (Giovanni Maria Visconti, Filippo Maria Visconti, Amedeo VIII di Savoia, Ludovico di Savoia Acaia, il maresciallo Bouciacault governatore francese di Genova)95. Dietro simili coalizioni – quella del 1408, quella del 1409 – non è difficile vedere, al di là dei motivi meramente congiunturali, anche la reazione di formazioni statali grandi e meno grandi, ma comunque da tempo radicate nello scacchiere politico, di fronte all’emersione di soggetti nuovi e animati da ambizioni di dominio regionale. La vecchia ambizione dei condottieri «ad instatarsi» e fino ad allora efficacemente contrastata da Bernabò e da Gian Galeazzo – che, al più, avevano consentito la costituzione di domini anche estesi, ma comunque solo nei contadi – si era infatti tradotta in realtà, grazie soprattutto al controllo – un tempo impensabile! – dei centri urbani. Ed è probabilmente questo l’aspetto che rende davvero unica e irripetibile la stagione politica del primo Quattrocento. Se mai ci fu un’epoca nell’Italia padana in cui i condottieri ebbero la possibilità di creare non semplicemente delle potenze territoriali bensì delle vere formazioni di respiro regionale, in grado di competere alla pari con le compagini blasonate e da più tempo sulla scena, questa fu certo costituita dagli anni immediatamente successivi alla morte di Gian Galeazzo96. I crediti vantati col duca, la possibilità di convertirli nel governo di una città (dapprima come pegno, poi stabilmente), la costante instabilità politica a Milano, gli assetti territoriali ancora fluidi: sono questi gli elementi che dischiusero ai grandi capitani – Ottobuono Terzi, Facino Cane, Pandolfo Malatesta – opportunità nuove ed eccezionali. Né la reazione delle grandi potenze del tempo fu realmente in grado di arginarne l’iniziativa. Malgrado dichiarazioni bellicose come quelle contenute nei capitoli della Lega del 1407 o di quella del 1408, i fronti di lotta 95. Delayto, Annales Estenses, cit., col. 1080. 96. Sia pure per un diverso contesto territoriale, la tesi di un quadro politico mai davvero chiuso all’affermazione territoriale dei condottieri è avanzata recentemente da S. Ferente, La sfortuna di Jacopo Piccinino. Storia dei Bracceschi in Italia, 1423-1465, Firenze 2005. Considerazioni di segno opposto, per la medesima epoca, in G. Chittolini, Tra Milano e Venezia, in La figura e l’opera di Bartolomeo Colleoni, Convegno di studi (Bergamo, 16-17 aprile 1999), numero monografico di «Bergomum – Bollettino della Civica Biblioteca Angelo Mai di Bergamo», XCV (2000), 1-2, pp. 11-35, in particolare p. 26. Più in generale sul ruolo dei condottieri, soprattutto per il Quattrocento inoltrato, cfr. anche N. Covini, Guerra e relazioni diplomatiche in Italia (secoli XIV-XV): la diplomazia dei condottieri, in Guerra y diplomacia en la Europa Occidental, 1280-1480, XXXI Semana de Estudios Medievales (Estella, 18 a 22 de julio de 2004), Pamplona 2005, pp. 163-198; Eadem, Politica and Military Bonds in the Italian State System, Thirteenth to Sixteenth Centuries, in War and Competition between States, a cura di Ph. Contamine, Oxford 2000, pp. 9-36. 304 erano tutt’altro che compatti, continuamente esposti al rischio di disgregazione. Alcuni di quegli stessi protagonisti, poi – è il caso del duca di Milano – non avevano una linea unitaria, ma risentivano dei cambiamenti di rotta continuamente imposti dai gruppi e dalle fazioni che di volta in volta manovravano il timone della politica (e che spesso avevano il loro referente proprio negli ex condottieri di Gian Galeazzo). Una lettura, dunque, che interpretasse la fine degli stati dei condottieri come l’esito di una competizione politica e militare che premiò le formazioni più grandi e di più antica costituzione rischierebbe di essere fuorviante. Almeno in area padana, infatti, il tramonto di queste compagini e il loro riassorbimento entro le strutture di ducati e principati si lega, più che all’isolamento politico e diplomatico o all’impegno militare dei principi, a quei fattori di imprevedibilità e di casualità (il mortale tranello di Rubiera nel caso di Ottobuono, la malattia nella vicenda di Facino) che solo faticosamente hanno cominciato a filtrare, come variabili indipendenti, nella riflessione storiografica97. 97. Lo rileva, come fenomeno storiografico, Della Misericordia, La Lombardia composita, cit. Interprete di questo orientamento apertamente critico verso forme di iper razionalismo è Francesco Somaini, come si evince da diversi suoi lavori. Ad esempio nella recensione a B. Guenée, Un meurtre, une société. L’assassinat du duc d’Orléans, 23 novembre 1407, Paris 1992, «Società e Storia», XIX (1996), pp. 889-892 o anche in Processi costitutivi, dinamiche politiche e strutture istituzionali dello Stato visconteo-sforzesco, in Storia d’Italia (dir. G. Galasso), VI, Comuni e signorie nell’Italia settentrionale: la Lombardia, Torino 1998, pp. 681-825, in particolare pp. 682-683 (a proposito dell’elevazione di Ottone Visconti alla cattedra arcivescovile di Milano). Ma sulla stessa linea, e proprio con riferimento alla vicenda di un condottiero, si veda ora anche Ferente, La sfortuna di Jacopo Piccinino, cit. 305