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IL CAPITALE CULTURALE
Studies on the Value of Cultural Heritage
eum
Rivista fondata da Massimo Montella
Il capitale culturale
Studies on the Value of Cultural Heritage
n. 20, 2019
ISSN 2039-2362 (online)
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Dantini M., Arte, socialità, rivoluzione. «Il Rosai», Firenze, luglio 1930 / Art, sociality, revolution. «Il Rosai», Florence, July 1930
«Il capitale culturale», n. 20, 2019, pp. 187-217
ISSN 2039-2362 (online); DOI: 10.13138/2039-2362/2012
Arte, socialità, rivoluzione.
«Il Rosai», Firenze, luglio 1930
Michele Dantini*
Lavoro nella tranquillità di chi sa di essere sulla
strada
che porta a quel certo paese chiamato
l’irraggiungibile.
Ottone Rosai, Via Toscanella, 1930
L’arte nasce da impegni rimasti inappagati nella
pratica.
Si attua in un messianesimo duro e stupendo.
Dino Garrone, Il Rosai, 1930
Le rivoluzioni si affermano e si svolgono, tutte,
come riconquista della socialità e perciò come
momenti mistici della storia.
Berto Ricci, Mistica fascista e unità sociale, 1940
* Michele Dantini, Professore associato di Storia dell’Arte Contemporanea, Università per
Stranieri di Perugia, piazza Fortebraccio, 4, 60123 Perugia, e-mail: michele.dantini@unistrapgit.
onmicrosoft.com.
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MICHELE DANTINI
Quando si guarderà a questo periodo della nostra
storia dell’arte
si vedranno forse molte ambizioni decadere
e crollare tante torri d’avorio, tanti schemi
del gusto, tanti attuali, circoscritti successi.
Rimarranno [invece] i segni dell’inquietudine,
i quadri sbagliati, i poemi che i poeti non diedero
alle stampe,
per pudore; le opere virili tentate al di fuori del
rispetto umano,
per un’intensa necessità d’espressione.
Renato Guttuso, Appunti su Rosai, in: Primato,
1.8.1940
Abstract
Pubblicato nel luglio del 1930 come “numero zero” di una rivista destinata a non
vedere la luce, «Il Rosai» è un documento tra i più importanti di quello che oggi chiamiamo
fascismo-movimento. Vi collaborano tra gli altri, raccolti dall’ammirazione per il pittore
fiorentino di cui porta il nome, Ottone Rosai appunto, Berto Ricci, “superfascista” che
di lì a poco concepirà «L’Universale» come prosecuzione diretta de «Il Rosai»; Dino
Garrone, scrittore e polemista tra i più brillanti della sua generazione ed Edoardo Persico,
cattolico integrale e antifascista, vicino tuttavia agli altri redattori nel proposito di riforma
antiborghese dell’Italia di allora. «Il Rosai» è un incunabolo di quell’interventismo della
cultura di cui ha scritto a lungo Luisa Mangoni; e insieme raccoglie urgenze e inquietudini che
spingeranno in seguito al lungo viaggio. Ne «Il Rosai» riconosciamo anche, ai suoi inizi, un
tratto di lungo periodo della storia culturale italiana del Novecento, vale a dire l’investitura
insieme religiosa e civile di un artista o gruppo di artisti. Sotto questo profilo il significato
storico dell’opuscolo si estende ben oltre il tempo della sua pubblicazione. Mentre autorizza
a dubitare della legittimità della categoria storico-politica del “fascismo di sinistra”, «Il
Rosai» prefigura l’intreccio tra arte e politica che costituisce forse il più rilevante traitd’union tra le avanguardie artistiche italiane degli anni Trenta e le avanguardie postbelliche,
Arte povera inclusa, malgrado il profondo mutamento di contesti geopolitici e ideologie.
Published in July 1930 as the trial issue of a magazine to come, «Il Rosai» is a higly relevant
document of what we call fascismo-movimento. Collaborate on «Il Rosai» Berto Ricci,
“superfascist” and mystic of the national revolution; Dino Garrone, even “superfascist”,
writer and journalist, close to D’Annunzio and Malaparte; Gioacchino Contri, editor in
chief of the florentine fascist magazine «Il Bargello»; and Edoardo Persico, catholic and antifascist, grown-up with Piero Gobetti between Neaples and Turin. They were gathered by the
admiration for Ottone Rosai (1895-1957), the Florentine painter that gives the pamphlet
its name, First World War ardito, patriot and fascist. «Il Rosai» is a sort of incunabulum of
juvenile cultural dissent against Mussolini’s regime: as such, it anticipates future anxieties
and explores topics we find again associated with artistic or cultural moviments of the
late Thirties|early Fourties, as Corrente di vita giovanile, if not later (as for example Arte
povera). A closer analysis of «Il Rosai» pushes also, both on historical and ideological
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
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levels, to critically discuss the notion of «Left-Wing Fascism» and to ask if, and when, we
can make a proper use of it. Politically distant as they are, Ricci and Garrone, Persico and
Contri demand a major public role of the artist, whose duty, in their opinion, is to be a sort
of political «saint» or|and a social hero, brave, selfless, sincere. Pushed pretty beyond its
aesthetical limits in a way we can legitimately beware, art presents itself in «Il Rosai» as the
most effective surrogate of politics.
Numero zero di una rivista che non vede la luce per la subitanea disgregazione
interna del comitato editoriale, o volume unico di una collana che si arresta
al prototipo, «Il Rosai» sembra avere tutti i requisiti delle bizzarrie erudite1.
Collaborano all’opuscolo Berto Ricci, poeta e ideologo, conosciuto al tempo
per la pubblicazione di prose e versi sul «Selvaggio», la rivista di Maccari2;
Dino Garrone, scrittore, critico d’arte e di letteratura, già membro del GUF
torinese e collaboratore dell’«Assalto» bolognese, del «Tevere» e dell’«Italia
letteraria»3; Gioacchino Contri, redattore capo del «Bargello», foglio della
federazione provinciale fiorentina, il solo, tra i quattro firmatari, ad avere ruolo
ufficiale e tessera del PNF4; e infine Edoardo Persico, che si aggiunge in un
Ricci et al. 1930, in seguito semplicemente «Il Rosai».
Sostenitore su piani metastorici del primato linguistico e culturale fiorentino, Ricci giunge
al suo particolare fascismo «mistico» o «realista» al termine di una lunga militanza anarchica
(Ivi, pp. 194 e ss.). Più degli altri firmatari dell’opuscolo, Ricci, che ne è il principale promotore,
ci appare tributario di stili e retoriche “strapaesane”. La sua fedeltà a determinati modi linguistici
toscano-popolari risponde tuttavia a propositi complessi, per niente plebeistici o vernacolari.
L’ammirazione per la «civiltà» fiorentina tre-quattrocentesca spinge Ricci a orientarsi a un fascismo
retto e perequativo, «di una morale nuda, severa, tutta pietra», che, dopo il 1932, lo avvicina, sotto
profili economici e sociali, alle posizioni di Ugo Spirito sulla «corporazione proprietaria» (cfr. Ricci
1984, pp. 120, 128-129, 187).
3 Novarese di nascita e marchigiano di adozione, Garrone è oggi ricordato per il brillante
epistolario (Garrone 1994) e alcune brevi prose sul tema della giovinezza e della «frontiera» (Garrone
1934 e 1942). Alla data di pubblicazione de «Il Rosai» Garrone, già esponente del GUF torinese, è
in contatto con Augusto Turati, segretario nazionale del PNF, Bottai e Malaparte. L’epistolario di
Garrone conosce una prima e parziale pubblicazione nel 1938, a cura di Romano Bilenchi e Ricci
(Garrone 1938): nell’occasione è oggetto di censura da parte del regime per le sferzanti contestazioni
che contiene. Mussolini interviene nelle vesti di censore di ultima istanza, e conferma in larga parte
le richieste formulate in precedenza dal Prefetto di Firenze e da Gherardo Casini, allora a capo della
Divisione libri del Ministero della Cultura popolare (Bonsaver 2013, pp. 108-111).
4 Di orientamento revisionista, Contri è studioso di legislazione agraria romana (Contri
1929) e stretto collaboratore di Gherardo Casini, con cui giunge a Firenze nel 1925 per lavorare a
«Battaglie fasciste» (Cantagalli 1972, pp. 370-372). Non è nuovo all’interesse per le arti figurative.
Nel 1930, lo stesso anno in cui esce «Il Rosai», cura un’antologia di disegni politici dell’artista
(Contri 1930a). La sua è una voce di spicco, a livello non solo locale ma anche nazionale, nella
discussione sui temi del ruralismo, volto in senso antiburocratico e “reazionario” (Contri 1930b,
p. 25). Un profilo politico-ideologico di Contri nell’ambito del discorso ruralista degli anni Venti e
Trenta in Dantini 2018a, pp. 21-30; e nota 87, p. 25.
1
2
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MICHELE DANTINI
secondo momento, critico d’arte, cattolico integralista (o «clericale», come lui
stesso si definisce), antifascista5.
Accompagnato alla nascita da ristrettezze e difficoltà di ogni genere, il pamphlet
– o «pampletto», come si usa dire al tempo – desta aspre polemiche al momento
della pubblicazione, nel luglio 1930. Non tanto però nel pubblico illustre o nella
grande stampa, che lo ignora. Ma nella cerchia ristretta dei “giovani” e soprattutto
tra i firmatari, distanti per ideologie, interessi immediati, orientamenti culturali
e prospettive a venire6. Passato sotto silenzio o liquidato da chi, come Soffici, ne
costituisce il bersaglio polemico immediato; conservato in rari esemplari in poche
biblioteche pubbliche e private; destinato a prudente oblio, a partire da una data
relativamente precoce, dal pittore cui è dedicato7, «Il Rosai» cade al di fuori della
memoria storiografica del dopoguerra, eccettuate menzioni sporadiche (spesso
inesatte) e due più recenti parafrasi. Dobbiamo dispiacerci che ciò sia accaduto?
Non mancano certo, ne «Il Rosai», impeti sguaiati e affondi maldestri: tutto
quanto, in un testo, respinge per precipitazione e grossezza8. Tuttavia esistono
alcune circostanze, forse non del tutto minori, che spingono a considerare il
pamphlet con rinnovato interesse. La prima circostanza è da rubricare sotto la
voce mangoniana dell’interventismo della cultura: «Il Rosai» è in tal senso un
documento intermedio tra «Il Selvaggio», da cui alcuni firmatari provengono
ma a cui guardano senza nostalgia, e «L’Universale», fondato da Ricci e Rosai
a poca distanza di tempo dalla pubblicazione de «Il Rosai». Copre dunque una
vacanza: va in stampa quando «Il Selvaggio» fiorentino non c’è più (chiamato
nel 1929 a Torino da Malaparte, Maccari ha appena trasferito la redazione della
rivista nel capoluogo piemontese9) e «L’Universale» non c’è ancora. E assolve a
compiti di dissidenza interna – “fascista di sinistra”, superfascista, garibaldina,
5
Una più dettagliata ricostruzione dell’«ideologia» figurativa di Persico in Dantini 2018b, pp.
9-58.
Cfr. Cordié 1981, pp. 3-4; Nicoletti 1988, p. 89; Buchignani 1994, p. 135.
Ivi, note 8, 75.
8 Cfr. Santini 1957, pp. 8-9. Il giudizio di Santini su «Il Rosai», cui certo l’artista non è estraneo,
appare severo e solo in parte condivisibile: contesta ai firmatari, morti ormai da lungo tempo
alla data della Nota e mai nominati, di avere troppo concesso, a suo tempo, alla celebrazione di
Rosai in chiave «localistica». Circostanza che non corrisponde ai propositi dell’opuscolo e oscura
i contributi di Garrone e Persico.
9 In seguito alla decisione di accettare l’impiego di redattore alla «Stampa» di Torino, diretta
da Malaparte, nel marzo 1930 Maccari ha trasferito la redazione nella città della Fiat e – dal
punto di vista di Rosai – disatteso l’impegno di intransigenza e libertà che ha caratterizzato sino
ad allora la rivista da lui diretta. La corrispondenza tra Rosai e Maccari mostra l’asprezza del
contrasto e ci permette di datare al 1929 la rottura del sodalizio (cfr. le lettere di Maccari a Rosai
del 2.7.1929 e del 24.3.1931 in Corti 1994, pp. 67-69). Per comprendere l’impasse in cui Rosai
viene a trovarsi a seguito del trasferimento di Maccari occorre anche ricordare che «Il Selvaggio»
aveva destato diffuse ostilità nelle gerarchie fasciste locali (cfr. Palla 1978, pp. 188-189 e 218-219);
e in influenti cerchie politico-ideologiche nazionali (Maccari 1927, p. 90). Maccari replica qui
ad Arnaldo Mussolini: sul «Popolo d’Italia» (19.11.1927) questi aveva infatti polemizzato contro
«quei piccoli sinedri partigiani che», a Firenze, «tradiscono più l’origine faziosa che la concezione
originale e creativa».
6
7
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
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dannunziana, mazziniana, mistica, realista o integrale: la si chiami come si vuole,
purché si avverta l’inadeguatezza di ciascuna definizione, e soprattutto della
prima10 – e di “organizzazione” (manifesta, quest’ultima, dalla scelta severa di
ricorrere all’anonimato e, come vedremo meglio più avanti, pubblicare i testi,
salvo un’eccezione, senza la firma dell’autore, a mo’ di documenti collettivi).
La seconda circostanza è solo in apparenza prioritariamente storico-artistica,
in realtà investe i rapporti tra arte, cultura e politica e segnala un tratto di lungo
periodo della storia culturale italiana del Novecento, valido non solo per gli anni
Trenta e primi Quaranta, sino alla generazione di «Corrente»; ma ancora più
avanti nel tempo, tanto da estendere le proprie propaggini alle neoavanguardie
dei secondi anni Sessanta, Arte povera inclusa: vale a dire lo scambio tra
“leaderismo” artistico (o avanguardismo) e leaderismo politico, dove i confini tra
i due ambiti, ben delineati altrove, in Francia anziché in Germania ad esempio,
tendono invece a sovrapporsi e sfumare l’uno nell’altro in Italia11. Attorno alla
felice formula garroniana del «messianesimo duro e stupendo»12 si condensa, ne
«Il Rosai», il proposito, già futurista, in seguito di «Corrente», di candidare artisti
e «poeti», quantomeno determinati artisti e poeti, alla guida della Nazione13.
Proposito cui i principali firmatari si terranno sempre fedeli in seguito, quali che
divengano le loro convinzioni stricto sensu politico-ideologiche o i punti di vista
10 Sarebbe prematuro avvicinare l’“espressionismo” di Rosai alla data dell’opuscolo come
antifascismo, anche se il dissenso del pittore riguardo al regime è senza dubbio radicale. Così si
sarebbe invece tentati di fare accogliendo il punto di vista di Messina 2012, p. 65: torna qui la tesi
storiografica del fascismo inteso genericamente (e in modo sin troppo compatto) come “guardia
bianca” e “reazione”.
11 Cfr. quanto affermato da Franco Fortini in Grandi 2001, p. 289 (l’intervista data alla
prima metà degli anni Ottanta): «leggevo, tra i diciotto e i vent’anni, un foglio politico, culturale
e letterario che veniva pubblicato a Firenze e che si chiamava «L’Universale». Su questo foglio
scrivevano degli sconosciuti, tra i quali mi pare di ricordare soltanto Romano Bilenchi, Berto Ricci
ed Eugenio Galvano. Erano autori di avanguardia… Una pubblicazione come quella, non solo per
la grafica, ma per il timbro, il piglio, somigliava – ora me ne rendo conto – molto di più a certe
pubblicazioni sovietiche degli anni Venti o quello che sarebbe stato «Il Politecnico» di Vittorini – che
non alla cultura ufficiale fascista. Quei fascisti, cosiddetti di sinistra, avevano un atteggiamento nei
confronti dell’avanguardia culturale – per esempio francese – molto diverso da quello dell’opinione
conservatrice quale si esprimeva nell’architettura cosiddetta “degli archi e delle colonne” oppure in
quella parte della pittura novecentesca che si ispirava a modelli dei nostri frescanti del Quattrocento.
In questo senso, sebbene in modo oscuro, noi avvertivamo l’esigenza di un’area dell’avanguardia
letteraria e artistica indigeribile per tutta una parte dell’opinione fascista, ma che, d’altra parte,
era anche indigeribile per i letterati e per gli uomini di cultura liberal-democratica rappresentati
dalla rivista «Solaria» prima, e poi da «Letteratura» di Alessandro Bonsanti». Rilievo particolare
assume, in questa prospettiva sociale, la leggenda di Masaccio artista popolare e plebeo, interprete
di un Quattrocento dispiegatosi in chiave per così dire anti-berensoniana (Franchi 1942, p. 7);
leggenda di cui, fatti salvi illustri incunaboli longhiani, rimane da ricostruire lo sviluppo entredeux-guerres e postbellico; e che troviamo ancora, candida e potente, in Volponi 1968, pp. 5-9.
12 «Il Rosai», p. 12.
13 Ricci 1984, pp. 147-149.
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MICHELE DANTINI
riguardo allo Stato, il governo, il Partito, la «nazione»14; e che gode, al tempo, di
ampio consenso persino al di là della cerchia degli intransigenti e dei revisionisti
attorno a Bottai15.
Un pittore, Rosai appunto, figura nell’opuscolo come alter ego virtuoso di
Mussolini, duce e “capo” degli italiani, qui mai nominato; e riceve un’investitura
spirituale che è (vuol essere) lato sensu politica (o meglio: teologico-politica)16.
La riceve non per attitudini all’intrigo o alla moderazione, al contrario: ma in
virtù di un’ebbrezza o “divinità” o immediatezza che intende contrapporsi alla
superbia; e di una pietas sconosciuta alla classe politica. Questo si dice di lui,
nell’opuscolo: che Rosai «cred[e] e [dunque] vive[re] nell’eterno». Elevato a
fede, il fascismo-diciannovista del pittore, patriottico e popolare, sussiste ormai,
nell’Italia del tempo, solo come eresia e mito politico-religioso che trova scarsa o
nessuna interlocuzione nel fascismo-regime, anzi ne è avversato. Appare perciò
tanto più urgente da rilanciare17. «Rosai non è anarchico», obietta Ricci ai
detrattori dell’artista, in primis Mussolini stesso18. Al contrario: «rappresenta
l’ordine sostanziale e non formale, inteso dai fanciulli e dai santi»19. Garrone,
che qui si firma Allobrogo, cioè Gallo, “barbaro”, non fiorentino, conferma20;
e la sua voce è tanto più probante e autorevole perché giunge da fuori città.
«A Firenze» – divina – «gli artisti si sollevano ad altezze sovrane perché, molto
prima, essi si sono immaginati in posizioni da poter riformare praticamente
il mondo»21. Ecco perché Rosai, dal punto di vista di Ricci e Garrone22: del
tutto al di là della riduzione strapaesana della figura di Rosai e “contro” quella
dispettosa diminuzione macchiettistico-plebea cui Soffici, nella prefazione di Via
Toscanella, aveva sacrificato ancora una volta23.
14 A distanza di pochi mesi da «Il Rosai», nel 1931, Ricci dedica Lo scrittore italiano
all’evocazione di un nuovo ideal-tipo d’artista, integrato nella rivoluzione e sua pugnace risorsa
“testimoniale”. Garrone evoca invece, in un racconto come Frontiera 1931, l’alleanza tra l’artista
della rivoluzione, «pirata» e «contrabbandiere», e gli operai, l’uno e gli altri impegnati nella
costruzione di un nuovo ordine a venire, più schietto e severo (Garrone 1942, p. 76).
15 Pavolini 1929, p. 16.
16 Dantini 2016, pp. 170-171.
17 «Il Rosai», p. 7.
18 Bilenchi 1976, pp. 73-75.
19 «Il Rosai», p. 6.
20 Ivi, pp. 12.
21 Ibidem.
22 Nelle lettere del periodo Rosai preferisce ritrarsi in termini religiosi e non politici, mostrando
un distacco che i suoi più giovani sostenitori ancora non conoscono in lui (Rosai 1974, p. 301).
23 Soffici 1930. Per l’origine “colta” e vociano-lacerbiana del “becerismo” di Rosai cfr. Corti
1975, pp. 12-15; Verdone 1975, pp. 129-139; e Nicoletti 1988, pp. 35-44. Già nel dicembre ‘20
Giorgio De Chirico aveva obiettato, in implicita polemica con Soffici: «Rosai non è plebeo come
alcuni credono e dicono credendo di cogliere nel segno… Non è neanche un teppista… Poche
pitture, [e] dunque senso della misura, prima virtù d’un pittore in cui ci sia principio d’arte. I colori
opachi ma non volgari; le banalità bandite e bandita pure la falsa ricchezza» («La Toscana della
sera», 14.12.1920, oggi in Santini 1960, p. 64). Rosai stesso aveva rigettato i più diffusi luoghi
comuni attorno alla sua attività in un ampio testo apparso nel marzo 1936 sulla rivista fiorentina
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
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«L’incontro [con Stuparich]», ammetterà Rosai in Dentro la guerra, libro di
memorie dedicato alla prima guerra mondiale e pubblicato a puntate a partire
dal febbraio 1932 sulla rivista accademica «Vita nova», «confermò la mia
ragione nel sostenere, come sempre avevo sostenuto, che la Patria è prima degli
artisti che degli esseri privi della luce dello Spirito»24. Rinnova così, con scarne
parole di omaggio allo scrittore e patriota triestino, la propria opposizione
al «fascismo-regime», che infatti intralcia in ogni modo la pubblicazione in
libro del testo. Il termine della contesa è appunto la Patria: o se si preferisce il
rapporto tra Stato fascista e patria. Cos’è patria e a quali condizioni per tutti
coloro che sono provvisti «della luce dello Spirito»?25 Questa la domanda,
che ripropone, in via provvisoria e semplificata, la distinzione tra “nazione
culturale” e “nazione politica” (o se si preferisce tra fascismo-regime, appunto,
e fascismo-movimento, per richiamare la dicotomia defeliciana): a una data in
cui si presuppone, o quantomeno l’ortodossia politico-istituzionale presuppone,
che questa distinzione non abbia più senso né debba averlo.
È semplice verificare una prima linea di trasmissione del “dissidentismo”
rosaiano riportando qui alcune affermazione di Ricci, successive di alcuni anni.
«Il problema religioso», osserva Ricci nello Scrittore italiano, 1931, con parole
che sembrano tratte in parte da Papini, «non si risolverà con filosofie e meno che
mai con idoli idealistici, ma solo sul terreno religioso e cioè o per un rinnovamento
profondo delle religioni esistenti o per l’avvento di nuove energie spirituali sulla
terra»26. Ancora, in un avviso apparso sull’«Universale» nel gennaio 1935:
la grandezza del Fascismo non potrà realizzarsi nei soli istituti (tecnicismo, burocrazia,
retorica della rivoluzione automatica), ma anche e anzitutto negli uomini, in quell’inimitabile
ineguagliabile unicissimo elemento dello Stato che è l’uomo singolo, col suo volto e la sua
responsabilità perenne27.
A pochi mesi dalla guerra d’Etiopia, che vede Ricci partire volontario, e
dalla soppressione del suo giornale, la convinzione relativa al primato anche
morale e politico dell’arte o degli artisti si è ormai incrinata, in lui, se non
«Frontespizio», dal titolo Difesa (Santini 1960, pp. 232-235). Una breve postilla a Difesa di Rosai
in Cordié 1966, pp. 65-70. Infine: sul tema del becerismo di Rosai (e a sua smentita) cfr. Ragghianti
1956, pp. 7, 11 e ss; Luzi 1975, pp. 103-110; e Pinto 1975, pp. 201-209.
24 Cordié 1967a.
25 Si tratta di una questione ricorrente nel dissidentismo fiorentino: la Patria è contrapposta
qui polemicamente al fascismo mussoliniano. Cfr. Banchelli 1924, p. 7: «le parole che Voi [cioè
Mussolini] rivolgeste recentemente agli studenti, che [cioè] la classe dirigente fascista non esiste,
è giusta [sic] ma anche ingiusta…; ingiusta verso la Patria e quella classe di artisti e intellettuali
che onorano dentro e fuori il Paese e che risponderebbero all’appello se invitati a collaborare da
galantuomini par loro». Nel 1924 Banchelli è schierato sulle posizioni fascio-nazionali di Giacomo
Lumbroso, che non sono al tempo quelle di Rosai (per un’autotestimonianza dell’artista in proposito
cfr. Pellegrini 2018, p. 146).
26 Per l’apologetica papiniana, anti-idealistica e anti-attualistica, cfr. Bassi 2013, pp. 106-107.
27 Ricci 1935, p. 1.
194
MICHELE DANTINI
dissolta: non tuttavia il rapporto di profonda amicizia con Rosai né, più in
generale, l’atteggiamento di coraggiosa contestazione delle “retoriche” di
regime, che nel frattempo lo ha avvicinato a Bottai28. E infine, in un intervento
tenuto a Milano nel febbraio 1940, nell’occasione del convegno Perché siamo
dei mistici organizzato dalla Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini:
«le rivoluzioni», spiega, «si affermano e si svolgono, tutte, come riconquista
della socialità e perciò come momenti mistici della storia»29. Come non pensare,
anche in questo caso, al senso eroico della piccola comunità provvista della luce
dello Spirito, del manipolo di individui “unicissimi” e disinteressati che si era
formato, per un solo attimo tuttavia indubitabile, attorno all’iniziativa de «Il
Rosai»; e aveva conosciuto qui una prima, temporanea, parziale, sanguinosa
manifestazione?
Alla luce di quanto affermato parrebbe riduttivo intendere «Il Rosai»
come documento di una storia solo locale. Lo sarebbe in considerazione non
solo delle intenzioni dei firmatari, del coinvolgimento di interlocutori non
toscani o dell’incandescenza del dibattito accesosi attorno alle sue tesi, certo
non solo a Firenze, al momento della pubblicazione, pressoché contestuale,
quest’ultima, all’importante mostra di Rosai al Milione di Milano, curata
da Persico30; ma anche (e soprattutto) di un inquadramento insieme storicoartistico e politico-ideologico dell’opuscolo, che si inserisce in una discussione
tutt’altro che cittadina e dà voce alle inquietudini di un’intera generazione. La
figura dell’artista, vale ripeterlo, viene qui tratteggiata alla luce di dimensioni
che sono etico-politiche e insieme religiose: in termini che oscillano, in un
modo che a Ricci non riuscirà mai del tutto di chiarire e che ancora oggi può
essere difficile per noi comprendere, tra cristianesimo anticlericale da un lato,
spiritualismo [super]fascista, mistico e realista dall’altro31. Agli occhi degli
autori dell’opuscolo, l’artista-Rosai è un santo politico32.
Incunabolo delle derive mistiche del fascismo anni Trenta e dell’ampio
dissenso culturale a venire; documento di un sincero sforzo di trasformazione
del fascismo rivoluzionario in religione civile33, «Il Rosai», in anticipo (sia pure
Per Ricci e Bottai cfr. Buchignani 1994, pp. 66-67.
Ricci 1940, p. 613. Sul convegno milanese cfr. Grandi 2004, pp. 90-93.
30 Cordié 1981, pp. 4-5: «[alla mostra di Rosai al Milione] accorsero vari giovani di tutta Italia
la sera del 5 novembre di quell’anno [1930]. Le discussioni… furono di una violenza senza limiti…
Casini, da bottaiano intraprendente, tenne agli intervenuti un discorso inaugurale, coraggioso per
quel tempo, sull’arte di Rosai». Cfr. anche Santi 1968, p. 43: «probabilmente fu anche l’aria che
circolava allora [1930] in Italia a proporgli certe istanze e a far tentare al pittore certe soluzioni:
era un’aria che portava con sé il vento di una virilità non sempre sostanziale, era l’aria fascista».
31 Ricci 1984, p. 127.
32 Non troppo diversamente, di lì a poco, Savinio 1933 snp: qui la contrapposizione è tra
l’«Italia etrusca… terriera e non aulica. Religiosa, fidente, drammatica [che] non esclude… le zone
d’ombra, il ricordo della sofferenza, il peso della fatica, il pensiero della morte», cui anche Rosai
apparterrebbe; e l’«Italia romana…, troppo perfetta per non incoraggiare il plagio».
33 Sul tratto “credente” di Rosai insiste Casini nel discorso di inaugurazione della mostra
dell’artista alla Galleria Il Milione, apparso in seguito sulle pagine dell’«Universale» (Casini 1931).
28
29
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
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di poco) su un testo così importante per la sceneggiatura dell’artista italiano di
più giovane generazione come Via Solferino di Persico34, chiama all’impegno e
alla partecipazione l’Italia «[che] vorremmo più rigida, più attenta, più macra:
vicina alla perfezione dei santi»35. Nel farlo rigetta reputazioni pietrificate; avvia
una polemica contro la stampa borghese; chiede «ideologie precise» (per dirla
con Persico, che qui cita Gobetti) e contesta il modo in cui il PNF, “catturato”
da monarchici, clericali e conservatori, va modellando il processo di selezione
delle classi dirigenti. Rivendica infine il primato dell’arte e della cultura sulla
tattica politica. Niente di meno, niente di più; con uno scrupolo di crestomazia
nazionale e allargamento (anche geografico) della discussione che troverà forma
più compiuta sulle pagine dell’«Universale» (e, fuori da Firenze, su altre riviste
anni giovanili Trenta, come «Il Saggiatore», «Il Cantiere», «Corrente di vita
giovanile», etc.).
1. Un mentore controverso. Ardengo Soffici e il PNF 1926-1929
La corrispondenza di Rosai rivela le drammatiche difficoltà quotidiane in
cui l’artista si dibatte tra Venti e Trenta: l’urgenza di dividere il proprio tempo
tra l’attività di pittore, che non rende, e quella di mobiliere, che trova invece
estimatori fiorentini (Vallecchi, Papini, il direttore d’orchestra e compositore
Vittorio Gui36) e romani (Bottai, Mussolini); l’istanza di integrità; il vivo
senso religioso della vita nella sua fondamentale bellezza e bontà; l’etica del
lavoro – circostanza, quest’ultima, che se non spiace al corporativista Bottai
sembra corrispondere in pieno all’immagine tomista e maritainiana che Persico
ha dell’artista37. I rapporti più importanti sono quelli con Soffici e Morandi
tra gli artisti, Bottai e Vallecchi tra i mecenati, senza dimenticare Domenico
Giuliotti, scrittore e apologeta cattolico, che proprio nel 1930 accenna a salire
ai primi posti nella considerazione e nell’affetto dell’artista38. Il rapporto con
Soffici si guasta tra 1929 e 1930, quando, da parte di Rosai, sembra affiorare
un crescente disappunto per il fraintendimento cui la sua attività di artista
incorre presso gli «amici… I miei quadri, i miei scritti diventano per loro cose
di seconda importanza. La mia sensibilità, il mio ingegno è come una specie di
Persico 2016, II, pp. 421-424.
Garrone 1969, p. 195.
36 Testimonianze sull’attività fiorentina di Rosai «mobiliere» e sulla sua cerchia dei clienti in
Cordié 1990.
37 Per l’ideologia figurativa di Bottai cfr. Dantini 2018b, pp. 59-98. A sostegno della conoscenza,
anche indiretta, delle tesi estetiche di Maritain da parte di Rosai può essere chiamato un testo come
L’essenziale, datato 1937: vi troviamo il più convinto elogio della «maladresse» (oggi in Ragghianti
1956, pp. 14-15).
38 Per l’importanza del rapporto tra Rosai e Giuliotti cfr. Nicoletti 1988, pp. 113-114.
34
35
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MICHELE DANTINI
fenomeno di razza popolaresca e perciò di poco interesse… O han capito anche
troppo», aggiunge chiamando in causa qualcosa come l’invidia, «o non hanno
capito nulla»39. Difficile qui non pensare a Soffici, che dell’elemento plebeo
di Rosai ha fatto la chiave interpretativa maggiore sin dal 1922, quando ha
accompagnato il debutto romano dell’artista, alla Casa d’arte Bragaglia, con
un breve testo in catalogo; e che più di recente ha presentato il “dondolone”, in
modo vagamente oltraggioso, nella già ricordata prefazione di Via Toscanella,
ricordandone la dispersione di artista «senza lettere» diviso tra «tre mestieri»40.
Evidente che in Rosai l’amarezza destinata a prorompere nel pamphlet Alla
ditta Soffici-Papini & Compagni, datato 193141, va innescandosi già in
precedenza, per motivi che sono insieme ideologici e personali42; e si annuncia,
ancora in Via Toscanella, nella formula di un “irraggiungibile” invocato sì su
piani molteplici, ma pur sempre in contrapposizione al “maestro” Soffici43.
«Il Rosai» è la prima manifestazione pubblica, pressoché nominativa, del
dissenso del pittore dal suo mentore. Soffici reagisce duramente. A pochi mesi
di distanza dalla pubblicazione dell’opuscolo, nominato membro del Comitato
organizzatore della I Quadriennale romana, rivolge l’invito a partecipare a una
folta rappresentanza di artisti toscani. Tra questi, tuttavia, non è Rosai44.
«Il Rosai» non è un volume monografico né un catalogo di mostra dedicato
a un artista. Dobbiamo aver ben presente questa semplice circostanza. Tuttavia,
ed è in parte inevitabile, riflette vicissitudini immediate e rimanda, per questo
o quel suo aspetto, alla biografia di Rosai: soprattutto nei contributi di chi,
Rosai 1974, p. 323.
Soffici 1930. Conferme indirette della delusione destata in Rosai dalla riduzione folklorica
della sua persona a opera di Soffici in Casini 1931, p. 7; e Ricci 1931a, p. 2. È vero d’altra parte
che nel dopoguerra, per Soffici, qualsiasi elemento «popolano» o plebeo costituisce un grave limite
dell’attività artistica (Soffici 1920, p. 20).
41 Rosai 1931b.
42 Nell’aprile 1926 Soffici è chiamato a guidare il Sindacato delle arti plastiche con Oppo e
Carrà. Nel 1929 è nominato presidente della Commissione selezionatrice gli artisti partecipanti
alla III Mostra regionale del Sindacato fascista degli artisti toscani, segretario Antonio Maraini. A
cavallo tra terzo e quarto decennio del Novecento, è evidente, l’azione politico-culturale di Soffici
appare in linea con le istanze centralizzatrici e verticistiche promosse, in ambito nazionale, dalla
segreteria Turati; e in ambito locale da Alessandro Pavolini, dal 1929 responsabile della Federazione
provinciale del PNF. È appunto questa sua crescente istituzionalizzazione a destare inquietudine in
coloro che pure si professano suoi discepoli e allievi. Occorre ricordare una circostanza ulteriore, e
cioè la pubblicazione da parte di Soffici, su «Critica fascista», di quell’editoriale Ufficio e fini della
Corporazione delle arti che è accolto assai male dalla comunità degli artisti (Soffici 1927. Cfr. in
proposito Conti 1983, p. 281; e per converso Pavolini 1929, p. 48). L’editoriale di Soffici conclude
autorevolmente l’Inchiesta su arte e fascismo promossa dalla rivista di Bottai e costituisce una sorta
di incunabolo del progetto bottaiano di fascistizzazione e normalizzazione dell’arte italiana per via
istituzionale e giuridica. Sulla proposta corporativa di Soffici, ribadita ancora sul «Selvaggio» nel
1928 come parte «di [un] indiretto colloquio pubblico con l’amico Mussolini», in realtà distratto o
indifferente, cfr. Bartolini 2009, pp. 424-425.
43 Rosai 1930, pp. 115-126.
44 Rosai 1931a.
39
40
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come Ricci, appare il regista dell’operazione e ne condivide (anzi: ne esacerba)
l’occasione polemica. Rivelative, dal punto di vista dei rapporti tra Rosai e
Soffici, due lettere che Rosai invia a Soffici nella primavera-estate 1930,
contemporanee dunque al progetto e alla pubblicazione de «Il Rosai». In
esse, se mancano riferimenti narrativi alle circostanze immediate del distacco,
troviamo comunque traccia di un contrasto che va acuendosi e affermazioni
singolarmente esplicite in termini di fascismo.
«Vi sono dei giovani, più o meno seri», stabilisce qui Rosai,
ai quali va indicata la strada da percorrere altrimenti la babele diverrà sempre più e in
ultimo non ci sarà più nulla da salvare. Sono anch’io del parere che l’artista abbia a vivere
nel suo tempo, e per il suo tempo ma ha anche l’obbligo di profetizzare per un domani più
o meno futuro e lontano… La nostra politica», conclude, «prepara un domani che potrà
essere anche bello, ma di una bellezza contingente e egoistica che a noi non interessa, non
può interessare. E non perché un misticismo idiota e un disfattismo cattivo c’ispirino, ma
soltanto perché sappiamo quanto più in alto [di tutto ciò] si trovi l’artista veramente tale45.
Rosai non rimprovera moralisticamente all’amico, come invece fa Ricci ne «Il
Rosai», compiti o responsabilità ufficiali passate o presenti – in altra occasione
è anzi pronto a sollecitare Bottai perché nomini Soffici, con Carrà e Oppo,
responsabile del Sindacato fascista delle Belle Arti46. Ma lo incalza sul tema
del rapporto tra artisti e “rivoluzione”, invitandolo a non concedere troppo
alla «politica, [che] è soltanto un ordine pratico… non un ordine ma ancor più
disordine del disordine»47. È facile riconoscere in queste frasi l’inquietudine
del futurista, o dell’ardito, o del “radical-nazionale”, che non si riconosce nel
regime in divenire.
La guerra passata non ci appartenne», prosegue Rosai. «La rivoluzione non fu né sentita né
fatta, perciò è chiaro come questa gente si senta mancata ai suoi compiti e cerchi perciò di
portarsi alla pari dei tempi. Ora però è ben chiaro in te, in me e anche in altri più giovani
che tutto ciò dipenda proprio da noi e cioè proprio da quel prevedere e profetizzare che fin
dal “Leonardo” iniziammo48.
Infine è un accento autenticamente religioso che si impone: non una
contrapposizione tra due diverse fedi ideologiche, popolare e in parte persino
populista la prima, di Rosai; monarchico-conservatrice e maurrassiana la
seconda, di Soffici49; ma proprio la distinzione tra due ordini e due dimensioni.
Rosai 1974, p. 289.
Per le cariche pubbliche che Soffici ricopre nella seconda metà degli anni Venti vd. supra,
nota 42.
47 Rosai 1974, p. 289.
48 Ibidem.
49 Per Soffici in rapporto al nazionalismo francese cfr. Sternhell 1978, p. 398.
45
46
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MICHELE DANTINI
Il cerchio della miseria mi stringerebbe sempre di più spingendomi alla tragedia se non
avessi trovata in me un’altra forza, quella di una grande fede, che superato il cerchio si
allarga come una spirale nello spazio convincendo il mio corpo e il mio cervello a ubbidirla
e seguirla fino alla completa liberazione. Quel che noi si ama», conclude Rosai, «è poca
e povera cosa e io sento di amare ben più. La Patria, l’Arte, la Famiglia non sono oggetti
d’amore ma rendono schiava ed egoistica un’anima. L’amore così concepito è un grande
peccato. Dio non ha famiglia, non ha arte e la sua Patria è infinita50.
Come non scorgere, nell’insistenza di Rosai sul tema dell’amore, inteso
da lui spesso, ma non sempre, in termini mistico-religiosi, una scelta di
contrapposizione al Soffici dei secondi anni Venti, banditore della Corporazione
delle arti – e dunque di un maggiore controllo politico sull’attività artistica,
che ne incoraggi l’integrazione nel processo (per così dire) di nation-building
e ne censuri la vocazione alla bohéme – e della dimensione, per Rosai «arida e
gretta», del «buon mestiere»?51
Una lettera di Rosai ad Attilio Vallecchi del maggio 1932 porta ulteriori
chiarimenti sul venir meno di un’amicizia decennale. Rosai lamenta qui
l’ingenerosità di Soffici, che, tra 1923 e 1924, al tempo in cui questi era
responsabile della pagina culturale prima del «Nuovo paese», poi del «Corriere
italiano», non lo aveva invitato a collaborare ai due quotidiani. «Vederlo…
a Roma», rievoca Rosai melodrammaticamente, «aiutar Cardarelli, Barilli,
Ungaretti e infino Bartoli e non pensar quasi più a chi più di tutti questi gli
voleva bene… fu per me tale pugnalata nella carne viva da soffrirne acutamente
e da più tempo»52. Quello di Soffici a Roma era stato il momento revisionista
dell’artista e scrittore, interprete di un «fascismo moderno, critico, “revisionista”,
veramente “nazionale”» richiamato da De Felice in antitesi al successivo Soffici
strapaesano53; pronto, nel contesto di una congiuntura politica resa precocemente
impraticabile dal rapimento e dall’assassinio di Matteotti, a tentare l’(im)
possibile mediazione tra Mussolini e Amendola54. Rosai rimpiange ancora, nel
1932, di non essere stato coinvolto nell’ambizioso progetto sofficiano. Ecco che
la contrapposizione tra Firenze e Roma, veemente ne «Il Rosai» e facilmente
equivocabile in senso strapaesano, acquista allora più ampie implicazioni
politiche, «critic[he], “revisionist[e]” e veramente “nazional[i]”»55, alla luce di
una stagione politica, nel 1930, definitivamente tramontata.
Per comprendere appieno la delusione di Rosai dobbiamo ricordare una terza
testata, che Soffici stavolta aveva diretto in prima persona: e cioè «Galleria»,
Rosai 1974, p. 245.
Ibidem; Soffici 1927. Cfr. anche, di Rosai, la lettera in data 8.7.1934 a Cordié (Rosai 1974,
p. 350).
52 Ivi, p. 323.
53 De Felice 1996, pp. 253-254.
54 Il tentativo ha luogo nel 1923, volta ad assicurare al primo (Mussolini) la partecipazione
del secondo (Amendola) al governo. Cfr. De Felice 1990, pp. xv-xvi; Perfetti 2000, p. ix¸ Salvemini
2001, pp. 147-148.
55 De Felice 1996, pp. 253-254.
50
51
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
199
supplemento mensile del «Corriere italiano», aperta ad ambiziose collaborazioni
artistiche e letterarie. Con le rubriche dedicate all’arte, alla letteratura e
all’archeologia extraeuropea, e nondimeno all’agricoltura, alla cucina, al
cinema e alla moda, «Galleria» si era proposta come vivace appuntamento
mensile pronto a ribadire, sul piano della curiosità e dell’intrattenimento
colti, l’avvio per l’Italia di una nuova stagione politica, avviatasi, con fiducia
e orgoglio nazionalitari, all’insegna della “redenzione”. Vi avevano scritto
Cecchi, Marangoni, Savinio (cinema), Saba, Ungaretti, Baldini. È soprattutto
l’apparato illustrativo della rivista che può interessarci adesso: perché Soffici
aveva concesso particolare attenzione al disegno sia nelle copertine, affidate,
nei cinque numeri della rivista, a Spadini, Rosso, Soffici, Mancini e Gemito;
che all’interno, dove erano stati invitati a contribuire non solo Arturo Martini
e De Chirico, ma anche Bartoli, Achille Lega e (con xilografie) Galante e Viani
– quest’ultimo presente anche come autore di brevi prose56. Lo stesso Soffici
aveva qui accompagnato il lettore, oltreché con una nutrita serie di disegni
dedicati al lavoro contadino, con l’ampio testo (in più puntate) Roma-NapoliPompei: sorta di viaggio in Italia compiutosi all’insegna dell’«amore per il
Sud» e della riscoperta di continuità di lungo periodo nella storia artistica e
culturale del paese57. È proprio sul piano illustrativo che Rosai, già conosciuto
a Roma per la personale tenuta da Bragaglia nel 1922, con presentazione in
catalogo dello stesso Soffici, avrebbe ben potuto attendersi preziose offerte di
collaborazione. Che invece, con suo rammarico, non erano giunte – forse per la
breve durata di vita di «Galleria», forse per le riserve più o meno sottaciute, più
o meno legittime che Soffici, a dire di Rosai, nutriva sul conto di quest’ultimo,
considerato artista (e nondimeno ideologo) di «razza popolaresca»58.
2. Nuove aristocrazie
Elementi di storia politica e istituzionale portano qualche chiarezza in
vicende singolarmente intricate. Il tema della nuova aristocrazia, così urgente
ne «Il Rosai», diviene ad esempio più comprensibile, nella sua impellenza,
se consideriamo come proprio in Toscana, a Firenze, abbia luogo nella
seconda metà degli anni Venti, e cioè in seguito alla “normalizzazione”
seguita alla ripresa squadristica del 1924-1925 e giunta a conclusione, sotto
profili giuridico-legislativi, nel 1929, una compenetrazione senza precedenti,
e di significato restaurativo, tra aristocrazia terriera, borghesia industriale e
gerarchie provinciali del Partito; tale da espellere dai ranghi del Partito stesso,
56
57
58
Sull’importanza del disegno nella rivista «Galleria» cfr. Paoletti 1992, p. 24.
Soffici 1924, pp. 217 e ss.
Rosai 1974, pp. 291.
200
MICHELE DANTINI
e soprattutto dagli incarichi intermedi e superiori, quanti in precedenza, di
estrazione minuta, avevano trovato accesso a ruoli dirigenziali proprio in
virtù della “rivoluzione fascista”. Non è pensabile che processi tanto vistosi,
che si accompagnano a un deciso proposito di revanche nobiliare, ripristinano
aristocrazie di classe e non di ingegno e trovano in nazionalisti alla Rocco o
in monarchico-clericali alla Federzoni sponde influenti ai più alti vertici dello
Stato, e in Giuseppe Della Gherardesca, secondo podestà fiorentino dal 1928
al 1933, l’interprete amministrativo locale, sfuggano ai firmatari fiorentini de
«Il Rosai», in particolare a Ricci, o a Rosai stesso; e più in generale a quanti,
proprio allora nella cerchia di entrambi, si ostinano (non contro il Partito, ma
a favore di un determinato indirizzo “rivoluzionario” del Partito caldeggiato
– e in parte disatteso – da Turati e Pavolini) a proclamarsi mazziniani o
garibaldini59.
Difficile comprendere il ruolo di Pavolini in tutto questo, abile ad agitare
i vessilli dell’intransigentismo “prima ora”, nel nome spesso di Mussolini, e
insieme a farsi interprete della “normalizzazione” portata avanti da Augusto
Turati, giungendo a minacciare, a seguito delle polemiche anticlericali del
1931, «chi fascista non è e non è mai stato, e vorrebbe forse rifarsi una
verginità attraverso il demagogico pretesto di un sedicente “estremismo”
irresponsabile e troppo facile»60. Meno difficile, oggi, determinare la posizione
di Rosai riguardo al fascismo, malgrado mimetismi o oscillazioni che certo
non mancano negli anni del regime, come attestano le vignette politiche
pubblicate sul «Bargello»61; e autostilizzazioni retrospettive62, in senso di
volta in volta “squadristico” o antifascista, che riflettono ciascuna il diverso
momento storico cui rimandano e sono sempre da considerare con cautela63.
Se un’autotestimonianza resa dall’artista nel 1944 al CLN ci informa della sua
vicinanza a Italia libera dal 1924 e l’avversione al “rassismo tamburiniano”64
– autotestimonianza confermata in toto, in seguito, da una memoria di Ernesto
Rossi, tra i fondatori dell’associazione antifascista fiorentina65 – Romano
Bilenchi, scrittore e amico dell’artista, fissa a una data precoce, coincidente
con il delitto Matteotti, l’opposizione di Rosai al regime e la sua incredulità
riguardo alla “rivoluzione” di Mussolini, con cui (lo si è già ricordato) non è
in buoni rapporti66. In realtà, come rivela la lettera inviata da Rosai a Dumini
Per una formulazione tarda della polemica anticlassista cfr. Ricci 1939.
Pavolini 1931.
61 Vd. supra, nota 4.
62 Nicoletti 1988, p. 126.
63 Rosai 1970, pp. 248-249; a pp. 252-253 le smentite totali o parziali di Aldo Gonnelli. Sulle
relazioni tra Rosai e il fascismo antemarcia cfr. Nicoletti 1988, pp. 57-62, 128-133.
64 Rosai 1974, pp. 512-516.
65 Rossi 1973, pp. 386, 393.
66 Bilenchi 1976, pp. 74-75.
59
60
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201
e pubblicata sulla «Sassaiola fiorentina» nel marzo 192167, con il titolo Amare
non odiare, il distacco dal fascismo antemarcia avviene prima, già nel 1921,
a seguito dei gravi fatti di sangue di quell’inverno fiorentino: l’assassinio di
Spartaco Lavagnini, sindacalista comunista, e la repressione seguita alla morte
di Giovanni Berta poi costituiscono prova, agli occhi di un candido ma non
stordito Rosai, del tratto poliziesco e antipopolare dello squadrismo fascista,
al netto delle dichiarazioni demagogiche che si rilasciano ai vertici68. In anni
successivi la corrispondenza dell’artista documenta poi il grave contrasto
occorso con Pavolini a seguito dell’ “infortunio” di Svaticanamento, libello
anticlericale scritto in buona parte da Emilio Settimelli ma rivisto e integrato
da Rosai stesso, che minaccia di procurare il carcere a Rosai69. Mallevadori del
pittore, nell’occasione, sono Bottai e lo stesso ambivalente Pavolini; che però, a
cavallo tra Venti e Trenta, rimane sordo alle richieste di aiuto di Rosai, esaudite
invece da Bottai e Mussolini70.
3. Storia editoriale, fonti politico-letterarie, ideologia del «Rosai»
L’intricata vicenda che porta alla pubblicazione de «Il Rosai» merita di essere
riepilogata. Ne seguiamo le varie fasi attraverso la corrispondenza tra Ricci e
Garrone: questa è adesso la nostra fonte privilegiata, ancorché non esclusiva.
In un primo momento si pensa di stampare l’opuscolo a Milano. Dovrebbe
esserne editore Pietro Maria Bardi, ambizioso e sfuggente, pronto a cercarsi
le più confortevoli protezioni politiche, di lì a poco autore di uno spiacevole
libro-inchiesta sul fuoriuscitismo parigino giocato al limite della delazione71. Già
67 Rosai 1921. Per Rosai e Dumini, l’uomo che avrebbe in seguito ucciso Matteotti, cfr. Mayda
2004, pp. 69-84. Testimonianza in parte discordante quella di Sucker-Malaparte quale ci è riferita
da Tamburi 2012, pp. 72-73.
68 Nicoletti 1988, pp. 57-62.
69 Settimelli et al. 1931. Cfr. anche Rosai 1974, pp. 311-313. Rosai, che ha ottenuto la tessera
del PNF nel 1930, se la vede ritirare l’anno successivo (per iniziativa di Pavolini). Per Cordié
«predomina in [Svaticanamento] la parte dovuta a Settimelli, ma le note di Rosai – quelle iniziali,
se non erriamo, nell’esame del testo – sono pure evidenti» (Cordié 1975, p. 56).
70 Più univoco in senso aspramente conflittuale il rapporto tra Ricci e Pavolini (Buchignani
1994, pp. 320-321; e l’articolo Pavolini documenta l’alta fede che animava Berto Ricci, apparso
anonimo in mortem di Ricci in «Corriere della sera», 17.5.1941, p. 3). Nel gennaio 1931 Pavolini
polemizza sul «Bargello» contro Ricci e «Il Rosai» riprovando la propensione alle “beghe”.
Nell’occasione censura la polemica anticlericale del 1931, rigettando il tono basso cui essa è giunta
(Pavolini 1931). Si riferisce in primo luogo all’opuscolo Svaticanamento (per cui vd. supra, nota
65), ma non ignora il Duello con il Papa. Contestazioni all’ultima Enciclica di Ricci (Ricci 1931b).
La replica di Ricci è in «L’Universale», I, 2, febbraio 1931, p. 5. In seguito, nel 1932, Pavolini
rifiuta di concedere la tessera a Ricci quando questi la chiede (Buchignani 1994, p. 171). Ai difficili
rapporti tra Ricci e le gerarchie provinciali del PNF accenna Cordié in Cordié 1980, p. 171.
71 Bardi 1931.
202
MICHELE DANTINI
proprietario della Galleria milanese di cui al momento è responsabile Persico,
editore de «Il Belvedere», bollettino artistico cui anche Garrone, con Persico,
collabora, nella primavera del 1930 Bardi ha ormai lasciato Milano per Roma e
assunto, nella capitale, la direzione di una nuova galleria d’arte. Garrone ha però
una pronunciata avversione per Bardi, né questi è interessato alle polemiche, per
quanto vivacissime: la sua candidatura come editore declina quindi rapidamente.
Malgrado Bardi si sfili presto dall’impresa, Ricci e Garrone vogliono
stampare comunque il pamphlet a Milano, nella stessa tipografia che stampa
«Il Belvedere», in regime di stretto autofinanziamento (in realtà stamperanno a
Firenze). Si tratterà di un giornale “di battaglia”, convengono. «Si intende che
anche argomenti astratti possono venire trattati, ma sempre con uno sfondo
realistico»72. Garrone suggerisce un primo titolo: Sette proposte di vita italiana.
Persico un secondo: Binario, che però, obietta subito Garrone,
è un titolo da film tedesco. Ci vorrebbe qualcosa di diverso. Se il risultato non fosse orribile
io sarei stato per “Sumesest”, commentato dalla diciturina; “io sono, tu sei, egli è”. Questo
per indicare che i principi dai quali noi partiamo sono gli eterni e gli elementari: cioè i più
difficili73.
Derubricata l’ipotesi dell’ “orribile” titolo latino, dal vago proposito antiidealistico e tomista, Garrone propone il parodistico Il Falqui: l’allora editore
dell’«Italia letteraria», Enrico Falqui appunto, è suo amico e corrispondente.
L’eclettismo dell’«Italia letteraria» è tuttavia una “bestia nera” di Ricci, che
cassa la proposta di Garrone. Infine, in data 16 maggio, il titolo (ma non la
città di pubblicazione né l’editore o tipografia) appare finalmente stabilito:
sarà «Il Rosai». Si sceglie anche di lasciare anonimi i singoli articoli, eccettuato
Firenze capitale, che Garrone (lo si è già accennato) firma con lo pseudonimo
di Allobrogo. Le incertezze attorno al titolo rivelano una circostanza specifica:
in questione, per Ricci o Garrone, non è mai un pittore né la pittura come tale,
e neppure (o non solo) il rapporto tra arte, cultura e regime in un contesto
potentemente regolamentato da selettori pubblici, cioè politico-partitici; al cui
interno gallerie private e collezionisti svolgono un ruolo nullo o marginale. Il
vero tema de «Il Rosai», quintessenzialmente politico, è la selezione della classe
dirigente, e cioè –Ricci lo chiarirà in modo sempre più preciso dalle pagine
dell’«Universale» – la nascita delle nuove aristocrazie74. «Giovane più di noi
giovani, e nostro capo»75, l’artista e cittadino Rosai costituisce eccezione per
l’audacia con cui ha costruito la propria carriera: in assenza di compromessi, in
Lettera di Garrone a Ricci del 6 maggio 1930, in Garrone 1994, p. 767.
Lettera di Garrone a Ricci del 6.5.1930 ivi p. 767.
74 Rosai 1930, pp. 13, 27, 55: il tema è cruciale. L’elogio delle minoranze si compie qui in
esplicita polemica contro l’umanitarismo progressista e l’egalitarismo socialista, in continuità con
quello che Marinetti aveva chiamato a suo tempo l’«inegualismo futurista» (Dantini 2018b, pp.
63-73).
75 «Il Rosai», p. 7.
72
73
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
203
nome di quel “fascismo poesia” evocato da Garrone. Merita dunque di essere
segnalato: a lui, non a Soffici, la palma nella generazione dei “precursori”.
La collaborazione a «Il Rosai» prelude, nelle intenzioni di Ricci e Garrone,
alla pubblicazione di almeno due altri pamphlets che tuttavia non vedono la
luce. Del primo pamphlet si conoscono il titolo (Corrispondenza con Soffici)
e la forma, che dovrebbe essere quella della lettera aperta. Da una lettera di
Garrone a Ricci del 21 luglio apprendiamo invece che «Il Rosai» è uscito,
«accompagnato da polemiche veramente aspre»76. In un primo momento,
scrivendone all’amica Vera Benassi, Garrone aveva trovato che «il carattere
contrabbandiero si conf[acesse]» all’opuscolo. A distanza di appena un giorno
ha però cambiato idea. Sfoglia sconsolato «Il Rosai», stampato in povertà, e
muove acerbi rimproveri a Ricci per le tante ingenuità o trascuratezze. «Davanti
a questo libretto che mi mandi», confida a Ricci, «io sono inebetito. Non ò
nemmeno voglia, dirò meglio, coraggio di arrabbiarmi. Sono avvilitissimo, come
se mi avessero bastonato»77. Segue un lungo elenco di riprovazioni concernenti
la carta, l’impaginato, le illustrazioni. E ovviamente i testi, che troppo spesso,
lamenta Garrone, si tengono su piani di angusta polemica personale e (chiosa)
sembrano concepiti come «ad bestias». Persico appare «inebetito» persino più
di Garrone dalle fruste apparenze de «Il Rosai», e ammette che non sa «dar[si]
pace di questo aborto»78. A supremo scorno, aggiunge, lo trova esposto nella
galleria presso cui lavora.
4. Breve indice ragionato
Rari i passaggi di critica figurativa vera e propria: disciplina di cui si ha
assai scarsa opinione per i tratti estetizzanti ed evasivi che la connotano79.
Cordié 1981, pp. 3-4.
Garrone 1994, p. 836.
78 Ibidem.
79 Ricci 1933a. Occorre tuttavia circoscrivere e delimitare. Nell’Impressione di Rosai, apparsa
sul «Corriere adriatico» del 9.5.1930 e ripubblicata ne «Il Rosai», Garrone prova in effetti, se
non l’ecfrasi, il saggio storico-artistico o il fondo di terza pagina sul tema della “visita in studio”.
E – cosa a mio avviso più importante – introduce il lettore al carattere mediato dell’arte di Rosai;
ponendo per primo quel problema di modelli e «codici» figurativi che di lì a poco, nell’occasione
della mostra milanese al Milione, Palazzeschi rilancerà in un testo singolarmente gradito a Rosai
stesso, dal titolo Se mi permettete… (Palazzeschi 1930, snp.); e che invece la letteratura artistica
postbellica tenderà ad omettere in modo a tratti clamoroso (cfr. ad esempio Cavallo 1973, p. 73:
«non c’è esibizione di bravura, non c’è preoccupazione di mostrare per simboli; niente esibizione e
niente codice: il disegno per Rosai è la somma di alcune qualità fondamentali di osservazione e di
sensibilità»). Nell’Impressione di Rosai Garrone paragona Rosai ai freschisti toscani del Trecento
e lo spoglio atelier di via Toscanella alla navata dipinta di una chiesa “primitiva”. Prova anche a
disincagliare l’artista dall’equivoco strapaesano, che tanto lo disturba. «Nei quadri di maggior
potenza», osserva, «si intuisce un’arte che si libra sul filo del rasoio. Un niente di più o di meno, ed
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77
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MICHELE DANTINI
Privo di titolo, l’attacco di Ricci sorprende per temerarietà e candore
polemico: un’invettiva al modo due-trecentesco umbro-toscano. Tra le righe
scorgiamo, mai nominati, i bersagli immediati dell’opuscolo: si è già detto di
Soffici, aggiungiamo adesso Papini, Carrà, Maccari, Ojetti, nume tutelare del
Novecento fiorentino capeggiato da Raffaello Franchi80; e dunque Franchi
stesso, Carena, Maraini, Sarfatti, Oppo, forse Primo Conti, senz’altro i fratelli
Pavolini81. «O puliti e interi, o servi delle vili finzioni», fustiga Ricci. «Non c’è
pace di campagna, né sole, per chi si chiude la via della sincerità»: il riferimento
al «prelato di Poggio a Caiano» (così Persico su Soffici) non potrebbe essere più
esplicito. E peraltro: «il nome d’amico oggi deturpato dagli uomini nani, che si
puntellano insieme mescolando cuore e affari, vale ancora perché c’è Rosai».
Anche Maccari è servito. È chiaro però che la polemica artistica e di costume qui
sta per altro; e che il senso ultimo dell’argomentazione è politico82. Neppure la
retorica dei “giovani” ammansisce Ricci, malgrado sia stata rilanciata di recente
(o forse proprio perché) da Alessandro Pavolini su «Critica fascista»83. Ecco
che, in sfida alle gerarchie di partito, Rosai è adesso acclamato come «giovane
più di noi giovani, e nostro capo»84. Sottotraccia corre il rifiuto dell’equivoco
strapaesano e l’elogio della tradizione artistico-letteraria radicata in Toscana
ecco compiuto il passo tra il sublime e la caricatura». È significativo notare che l’apprezzamento
del pittore fiorentino riproduce qui temi già presenti nella tesi di laurea di Garrone, discussa
all’Università degli Studi di Bologna in data 29.11.1928 e dedicata a Verga (Garrone 1941; Cordié
1970, pp. 189-245). Ne «Il Rosai» Garrone esalta la sostanza classico-arcaica dell’immaginazione
dell’artista, quel suo risolvere il mondo, paesaggi, città, figure, in una sorta di cosmogonia definitiva,
per categorie; e rinnova il paragone tra l’artista occidentale moderno e la poesia delle origini.
80 Manca ad oggi un esauriente profilo di Franchi condotto da punti di vista specificamente
figurativi. Utile la lettura di Ricorda 1988 e Senna 2009. Per le “spedizioni punitive” del gruppo
del «Selvagio» contro «Solaria» e i solariani, Franchi in particolare, cfr. Corti 1994, p. 15; Senna
2009, p. 154 e nota 16.
81 Per Ricci e Alessandro Pavolini cfr. supra, nota 66. Per Ricci e Corrado Pavolini cfr. Ricci
2014, p. 45.
82 L’eccessiva politicizzazione de «Il Rosai» è appunto la critica rivolta all’opuscolo in generale,
e a Ricci in particolare, da un (ormai) ex-solariano come Raffaello Franchi nel 1942, in tutt’altro
frangente storico-politico, quasi a tutelare il pittore dal reclutamento superfascista tentato, più di
un decennio prima, dalla maggioranza dei firmatari (cfr. Franchi 1942, p. 9). Analogo tentativo
di depoliticizzazione in chiave formalistica (e più o meno accortamente idealistica) di Rosai si
compie, certo non senza l’assenso dell’artista, in Parronchi 1947, p. 8; Ragghianti 1956, pp. 7-9
e ss. («Il Rosai» e «L’Universale» sono qui definiti «ruvidissime insorgenze»); Santini 1957 pp.
8-9, 23, 33 (nell’occasione si riabilita Soffici come primo e più autorevole mentore); e Santini
1960, pp. 65, 91, 103: tentativo che va ancora una volta a svantaggio della memoria postuma «Il
Rosai» (e dunque di Ricci). Vale la pena osservare che una prima svalutazione de «Il Rosai» e dei
propositi di investitura politica sfoggiati nel pamphlet si ha tuttavia, nella letteratura sull’artista, a
una data assai precoce; e riflette verosimilmente la delusione di Rosai stesso per l’insuccesso della
mostra di Milano, disertata dai vertici del PNF (che anzi sembrano aver diffidato dal recarvisi e
dall’acquistare opere: Volta 1931, pp. 6-7). Sul problema storiografico della “depoliticizzazione”
postbellica di Rosai brevemente Cavallo 1973, p. 96.
83 Pavolini 1929.
84 «Il Rosai», p. 7.
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
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tra Tre e Quattrocento; civile e insieme religiosa, perciò «universale»85. «L’arte
grande», così Ricci, «è perenne nell’anima e senza paese, e come un segnale
valido per tutte le nazioni»86. E altrove, nella conclusione dell’opuscolo,
dedicata Ai giovani: «il nostro [compito] è quello di ricomporre l’unità classica,
modernamente, sul terreno dei grandi antichi»87.
Gli interventi di Contri (Il nostro uomo) e Garrone (Firenze capitale,
Impressione di Rosai, Paradosso della tradizione) ribadiscono il taglio
virtuistico del preambolo di Ricci, con maggiore o minore finezza di dettaglio,
magnificando l’«animosità» di Rosai e le sue «misure piuttosto empiriche e
brutali di giudizio». Erede dell’aspro «realismo» dei “primitivi” italiani (si
legga a questo proposito il singolare Paradosso della Tradizione di Garrone),
«garibaldino» e ardito, lare88: Rosai è tutto questo, artista «raccolto e solitario»
da contrapporre antinovecentisticamente all’«animale da sera» romano o
milanese89. Può sembrare che il contributo di Persico stacchi decisamente, e
sia fuori luogo rispetto al contesto. Di fatto Supremazia dell’arte italiana non
concede niente alle istanze superfasciste sottese agli altri saggi, e sembra invece
inscriversi nella più generale campagna cattolica postconcordataria, volta a
convertire e rievangelizzare la società italiana90. Il punto di vista del critico
napoletano, vicino a Gobetti fino alla morte di quest’ultimo, collaboratore di
«Rivoluzione liberale» e del «Baretti», altresì amico e corrispondente di lunga
data Carlo Curcio, teorico politico (sarà lui a introdurre per primo Carl Schmitt
in Italia) e sostenitore del corporativismo fascista, coincide da tempo con quello
dell’Azione cattolica, e niente, al tempo, potrebbe dividerlo più decisamente da
Ricci o Contri, dallo stesso Rosai e in parte da Garrone91. Ma l’intesa destatasi
attorno a «Il Rosai» non è stricto sensu ideologica né riguarda il problema dei
rapporti tra la società civile e le fedi tradizionali. Supremazia dell’arte italiana è
un testo spiccatamente anti-internazionalistico, tale da confutare da solo, se mai
ve ne fosse bisogno, la riduzione postbellica di Persico in chiave progressista o
85 Nella sua seconda raccolta di versi, Corona ferrea, Ricci dedica una duplice ecfrasi a Rosai,
dal titolo Su due quadri di Ottone Rosai (Ricci 1933b, pp. 93-94). Non vi è traccia, in essa, di
elementi macchiettistico-folklorici. Nella prima parte della poesia Ricci stabilisce anzi un’analogia
tra la “luce” del pittore, che «incombe a terra», e lo spleen baudelairiano, qui richiamato
(indirettamente) attraverso la metafora del pipistrello che batte le ali contro le pareti della gabbia
(«la luce con urtar di pazze / ali / rimbalza da muro a muro»).
86 «Il Rosai», p. 5.
87 Ivi, p. 29.
88 «Nei quadri di maggior potenza», osserva Garrone nell’Impressione di Rosai, «si intuisce
un’arte che si libra sul filo del rasoio. Un niente di più o di meno, ed ecco compiuto il passo tra il
sublime e la caricatura» («Il Rosai», p. 15).
89 «Il Rosai» si apre non a caso con un’invettiva contro l’adulazione (pp. 5, 6). Ricci torna a
denunciare il conformismo delle «società [artistico-letterarie] milanese e romana», Ricci 1984, pp.
27 e 33.
90 Dantini 2018b, pp. 14-19 e ss.
91 Ivi, pp. 19-24.
206
MICHELE DANTINI
«laico-liberale»92. In questo senso dialoga con i contributi di Ricci e Garrone su
piani più intimi di quanto solitamente si ritiene, mobilitandosi (in termini non
chauvinistici) sul tema (e problema) della “nazione”93.
5. Antigentiliani, antifuturisti, antirondisti. Il realismo «mistico» del «Rosai»
Per Luisa Mangoni, che ne scrive nel seminale L’Interventismo della cultura,
il solo collante che tiene assieme Ricci, Garrone e Persico ne «Il Rosai» è
l’antigentilianesimo: agli occhi dei tre, Gentile sarebbe infatti l’apologeta del
meramente sussistente, la mosca cocchiera del regime94. L’affermazione non è
tout court sbagliata, ma si presta a obiezioni. Si dovrebbe spiegare, ad esempio,
cosa tenga insieme l’antigentilianesimo cattolico di Persico, irriducibilmente
contrario alla “statolatria” fascista; l’antigentilianesimo “mistico” o
“medievalista” o “realista” di Ricci, che pure, in opposizione al diritto liberale,
attribuisce allo Stato etico corporativo una sua precisa trascendenza sugli
individui95; e, ancora, l’antigentilianesimo di Garrone, che ha sì tratti estetizzanti
e tout court irrazionalistici, come spesso si rileva (D’Annunzio, D’Annunzio!),
ma è anche nutrito da spunti liberal-libertari di matrice gobettiana. In realtà
non sono solo avversioni generiche, anti-idealistiche o anti-attualistiche, ad
avvicinare i tre. Sono precise intese politico-culturali. Esemplifichiamo: il culto
eroicizzante della solitudine ad esempio; o la convinzione che la storia italiana
sia indissolubilmente legata, in positivo, all’azione di minoranze disinteressate,
«aristocrazie non necessariamente ereditate né elettive ma naturalmente sorte
dall’ingegno e dal lavoro»96; il problema del cattolicesimo, o se si preferisce
il problema dei rapporti tra cattolicesimo e «nazione», posto, come osserva
Garrone, che questa «filosofia (l’idealismo) [e cioè il fascismo]… non riesce
a diventar religione»97; la polemica antiborghese; e infine, aspetto forse più
rilevante, una convinta disciplina di aderenza e sincerità argomentativa, perfino
di eloquenza, da opporre alla «compatta mediocrità», ai «cori uniformi» che
debilitano la discussione pubblica98. Alle convinzioni più ampie e generali
si aggiungono, da punti di vista specificamente artistico-letterari, l’urgenza
di sgombrare il campo dalle retoriche strapaesane, che hanno favorito
fraintendimenti regressivi e localistici e hanno disinnescato una proposta in
origine politica, per niente localistica, ma nazionale o addirittura «imperiale»,
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96
97
98
De Seta 1985, pp. 15, 16, 55, 61 e ss.
Dantini 2018b, pp. 9-58.
Mangoni 1974, pp. 206-218.
Petrocchi D’auria 1982, pp. 75 e ss. Per Ricci e Gentile vd. anche infra, nota 107.
Ricci 1984, p. 126.
Valsecchi 1942, p. 12.
Ricci 1984, p. 84.
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
207
di concretezza, franco dibattito e «buon governo»99; il comune rigetto del
futurismo marinettiano e la svalutazione di certa letterarietà distaccata ed
estetizzante, rondista, novecentista o solariana. Cui contrapporre, all’insegna
magari di Verga o di Tozzi (ma non meno di Alfieri o di un certo D’Annunzio
poetico-politico), un diverso modello di letteratura, non più lirico ma
enciclopedico o narrativo (nella definizione di Ricci), orientato cioè in senso
classico e realistico, stimato più originario e formativo100.
6. Il «Rosai» in vista della “sterzata a destra” dell’Universale: critica della
categoria storiografica del “fascismo di sinistra”
Molteplici le fonti politiche o letterarie taciute per ragioni di prudenza o
di semplice animosità. O più in generale – ed è pur sempre anche questa una
forma incipiente di “organizzazione” – per la necessità di segnare la distanza
tra sé e la generazione dei precursori. Apprezzato da Garrone e satireggiato
da Persico, che tuttavia ne riprende questo o quel frangente antiriformistico
nelle sue tesi sull’Europa101, il Malaparte politico, autore dell’Europa vivente
(1923), degli editoriali apparsi nel 1924 sulla rivista «La conquista dello Stato»
e del pamphlet Italia barbara (1925) è indubbiamente all’origine di talune
tra le più perentorie tesi di Ricci. Ma è inviso a quest’ultimo per più motivi:
tra questi è verosimile siano il frainteso (e sia pur breve) coinvolgimento di
Malaparte nell’avventura internazionalista di «900» – rivista, ricordiamolo,
che nel settembre 1926 ha ricevuto l’imprimatur direttamente da Mussolini; la
co-conduzione di una rivista da Ricci tanto detestata come «L’Italia letteraria»
e infine, pressoché contestuali, le vicende che portano alla fine del «Selvaggio»
fiorentino. Di fatto il nome di Malaparte non ricorre mai ne «Il Rosai»: e
certo non perché lo scrittore e ideologo pratese sia irrilevante o sconosciuto ai
firmatari. Ambivalente, in Ricci, anche l’atteggiamento riguardo alla «Ronda»
e ai rondisti, in particolare Cardarelli: del quale risuonano indubitabilmente,
ne «Il Rosai», alcuni passi di carattere “pascaliano”; ma di cui si cercherebbe
invano il nome. Dove cercare, però, se non sulla «Ronda» o in una raccolta
come Terra genitrice (1924)102, le premesse di quell’intreccio tra “paesano”
e universale che risultano, ne «Il Rosai», tanto più complesse che non sulle
pagine del «Selvaggio»? Non meno importanti i rapporti di Ricci e Garrone con
un futurista antimarinettiano come Emilio Settimelli, reazionario e monarchico.
Se ci è noto lo stretto legame che unisce Ricci a Settimelli a partire dal 1930,
Contri 1930b, p. 58.
Ricci 1984, p. 50. Cfr. anche Garrone 1941 e Cordié 1970, pp. 189-245.
101 Dantini 2018b, p. 48 e nota 147.
102 Cardarelli 1924, p. 72.
99
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MICHELE DANTINI
e che, malgrado patenti divergenze ideologiche, si approfondisce attraverso
collaborazioni giornalistiche e battaglie comuni contro la corruzione dei gerarchi
e il processo di “normalizzazione”103, si è ignorato sinora che il testo forse più
arguto e curioso de «Il Rosai», il Paradosso della tradizione di Garrone, rende
omaggio proprio a Settimelli e alla sua recente proposta, solo in parte faceta, di
costituzione dell’ “ordine del cinghiale”. Sarebbero stati ammessi a farne parte,
aveva postulato Settimelli nell’Autorità dello Stato, «solamente coloro che – a
costo di essere scortesi – si manteng[a]no, in modo netto, al di fuori di tutte
le influenze e le pressioni del vecchio mondo»104. «Uomini in pena», riprende
adesso Garrone, che tratteggia qui artisti e innovatori in genere,
amici più a cinghiali che a sé, con l’anima che fa i cappellacci nel vento; gente sparpagliata
per i quattro punti cardinali, in un paesaggio di sterpi, roccia, boscaglia, dove il Diavolo
discorre col Signore, i fulmini bucano esplodendo la terra, i torrenti in piena scuotono i
ponti105.
103 I rapporti tra Ricci e Settimelli restano in buona parte da ricostruire sotto profili che non
siano aneddotici o di semplice cronologia (la stessa cosa potrebbe dirsi dei rapporti tra Rosai e
Settimelli). Se Settimelli sembra essere all’origine del mutato atteggiamento di Ricci riguardo a
Soffici (Buchignani 1988, pp. 186-187; e Nicoletti 1988, pp. 5, 26), proprio Settimelli contribuisce
in misura decisiva a conferire orizzonti e diffusione nazionale al futurismo fiorentino negli anni tra
le due guerre; e costituisce un trait-d’union tra le cerchie politico-intellettuali di Firenze e Roma
(Buchignani 1988, pp. 193-195. Per la polemica contro Soffici, considerato mero «precursore»
del fascismo, cfr. anche Carli, Fanelli 1931, pp. v-vi). Distanze e contrapposizioni tra l’“estrema
Destra” fascista (così il gruppo de «L’Impero») e la Sinistra fascista de «L’Universale» sono a tal
punto evidenti da parere ovvie, e sono ripetutamente attestate dalla polemica antilegittimista e
antimonarchica che Ricci sviluppa regolarmente negli Avvisi pubblicati su «L’Universale» (si veda,
a questo riguardo, l’importante «avviso» datato 25.6.1933, Ricci 1943, pp. 105-107: Ricci discute
qui le Vigliaccherie del secolo xx di Fanelli). Tuttavia appaiono non meno rilevanti le convergenze: la
certezza circa la «superiorità dello Stato a base politico-religiosa su quello a carattere economico»,
ad esempio; la polemica «aclericale», da non confondere con una mera affermazione di «ateismo» o
irreligiosità; l’aristocraticismo e il rifiuto di un’«autorità [che venga] dal basso»; la difesa del diritto
di critica; il rifiuto del localismo strapaesano in nome di un «universalismo» fascista esemplato
sul modello dell’universalismo cattolico; la concezione infine del fascismo inteso come religione
politica e «misticismo guerriero», Ibidem. Si consideri, sotto questo profilo, la dedica ricciana a
Settimelli – per così dire in chiave Impero – della poesia Il cambio della guardia al Quirinale
(Ricci 1933b, p. 85): qui Ricci, satireggiando «i pallidi letterati di iersera / che ragionavan tanto»,
canta il sentimento di unanimità religiosa e guerriera che lo coglie mentre «marcia in cadenza / coi
granatieri e il popolo». Più in generale, al netto delle differenze, che pure sussistono, è comune a
Ricci e Settimelli l’orientamento a un giornalismo concepito come «d’assalto», nominativo nelle
sue polemiche, crudo e a tratti rodomontesco, implacabilmente asseverativo. Ricci collabora sia a
«L’Impero» che al «Riccio», l’ultima testata diretta da Settimelli. Pubblica inoltre, su «L’Universale»
del settembre 1933, il Progetto d’un gruppo di uomini nuovi di Edgardo Sulis: qui Settimelli e
il gruppo de «L’Impero» sono considerati il più importante punto di riferimento per il progetto
“rivoluzionario” propugnato da Ricci e dai suoi collaboratori (Buchignani 1988, pp. 214-215; e
Scarantino 1981 per uno studio monografico dedicato al quotidiano «l’Impero», fondato da Carli
e Settimelli).
104 Settimelli 1928, pp. 19 e ss.
105 «Il Rosai», p. 24. Nella primavera del 1928 Garrone, al tempo collaboratore del quotidiano
settimelliano «AeZ», aveva manifestato ammirazione e solidarietà a Settimelli. «Lei con la sua
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
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Una sorta di versione aristocraticizzante, questa di Garrone e Settimelli, in
chiave di cavalierato, del più rude elogio dell’«omo selvatico» apparso a firma
di Papini e Giuliotti nel 1923106.
Divide Ricci da Persico e Garrone da Ricci tutto il resto (per tacere del
“reazionario” Contri e della sua distanza da entrambi107): cioè quanto
possiamo stricto sensu rubricare alla voce ideologia. Collaboratore de «Il
Selvaggio», su cui pubblica poesie, editoriali politici e brevi prose firmandosi
talvolta con pseudonimi, e responsabile de facto del «Libro italiano», rivista
edita da Vallecchi tra 1928 e 1929, Ricci è giunto al fascismo (o meglio: a un
suo fascismo “eretico” e “di sinistra”) solo al termine di una stagione anarcoindividualista punteggiata dalla lettura di Stirner, Nietzsche, Carlyle: stagione
che si è conclusa attorno al 1927108 (alla data de «Il Rosai», Ricci non ha la tessera
né l’ha ancora chiesta. Lo farà una prima volta, senza successo, nel 1932109).
Spesso la sua posizione, che è intransigente e severa, “kantiana” o “pitagorica”
o “platonica” a suo stesso dire, viene spesso confusa con quella di Rosai: si
parla allora di populismo. Tuttavia occorre aver presente che questo è in larga
parte inesatto, toscanità linguistico-letterarie a parte: e che il fascismo di Ricci,
o per meglio dire il suo mussolinismo, non indulge mai alle più autoindulgenti
o sovrastoriche retoriche del popolo o della stirpe; tantomeno se dobbiamo
intendere per popolo, come parrebbe, alcunché di «antiintellettuale»110. In
merito alle virtù del popolo Ricci si mostra anzi, già ne «Il Selvaggio», poi ne «Il
Rosai» e in seguito ne «L’Universale», singolarmente scettico, pronto a ricordare
la lunga decadenza, anche civile, del paese – e di Firenze in particolare – e
determinato a correggere le istanze popolari del fascismo con i principi impopolari
del dovere, della responsabilità, dell’educazione. «Il Rosai» si situa per Ricci
in una traiettoria ideologica precisa, che lo porta in un breve giro di tempo
– in polemica con il nazionalismo retrivo e conservatore, cui riserva sempre
osservazioni sprezzanti; e tuttavia all’insegna di una “italianità naturale”
diritta figura», aveva scritto allora, «tutta condotta sulla spina dorsale… si inalza al di sopra di
tutte le apparenti vittorie dell’analfabetismo. Ed è il vero vittorioso» (lettera di Garrone a Settimelli,
3.3.1928, in Garrone 1938, p. 42). Ne «Il Rosai» ribadisce questa sua posizione. Settimelli, lo
si è detto, è interprete di posizioni filomonarchiche e reazionarie. Appare tuttavia vicino ai
“rivoluzionari” per l’avversione al fascismo moderato e clericale.
106 Papini, Giuliotti 1923.
107 La società fascista a venire, agli occhi di Contri, avrà connotati ancien régime: con il
pater familias provvisto di diritti assoluti in materia politica, religiosa, morale e giuridica; criteri
di rappresentanza politica stabiliti in base all’ampiezza del nucleo familiare; vincoli enfiteutici
di fedeltà alla terra; e infine operose «contadinanze feudali» e «industrie curtensi» in grado di
soddisfare le frugali necessità dei lavoratori (Contri 1930b, p. 25).
108 Buchignani 1994, pp. 171, 265 e nota 5. Per una preistoria ideologica di Ricci torna utile
Benadusi 2016, in part. pp. 17-25: la parte centrale del saggio è qui dedicata alla fortuna del
filosofo e scrittore scozzese, considerato precursore del fascismo, nelle riviste fiorentine.
109 Buchignani 1994, p. 18.
110 Bonsaver 2013, p. 107.
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MICHELE DANTINI
che prenderà tratti anti-inglesi e antiamericani sempre più marcati – da «Il
Selvaggio» a «L’Universale»111.
«Quale popolo?»112, si chiede nel tardo Categoria spirituale e categoria
sociale.
Il popolo [non] è incondizionatamente bello, né ha incondizionatamente ragione… Vi è
un popolo come lo volle e in parte lo realizzò il socialismo più vile: vi è un popolo che
specchiandosi nella borghesia ne assume mimeticamente gli attributi, e diventa ed è
borghesia autentica; vi è anche un popolo che nelle rivolte rosse, illudendosi di far conto
pari, brucia e stupra e macella. Vi è infine il “popolo” voluto e intrapreso a formare dal
Fascismo. Né imitazione borghese né retrograda plebe, ma milizia e lavoro. Non classe, ma
totalità organizzata di produttori e soldati113.
L’opinione storiografica corrente spiega la vocazione «interventistica» di fogli
come «Il Rosai» o «L’Universale» alla luce, tutta sociologica, del populismo o
della reazione (“piccolo-borghese”) alla «massificazione della cultura»114, vale
a dire alle mutate condizioni del lavoro intellettuale nella società capitalisticoliberale. È un’opinione in parte errata: perché la scaturigine prima delle due
iniziative editoriali dev’essere cercata non in un qualche rancore sociale; ma
nel proposito, tutt’altro che retrivo o ingiustificato, di sganciamento tanto
dall’angustia municipalistica di Strapaese quanto dalla deriva conservatrice
e neotradizionalista di Soffici. Abbiamo visto infatti come, nella seconda
metà degli anni Venti, ormai conclusasi la stagione “romana” dell’impegno
politico-giornalistico con un’amara disillusione, l’ex-futurista e autore del
Lemmonio Boreo si avvicini al Novecento meno ufficiale su piani artisticoculturali; e converga con il PNF ascetico e penitenziale di Augusto Turati su
piani più schiettamente politico-ideologici o di “organizzazione”. È questo
duplice allineamento che motiva al dissenso Ricci e Rosai. Possiamo adesso
aggiungere, con riferimento al solo Ricci, un elemento ulteriore, non meno
importante; e tale da distinguere nettamente, quantomeno in prospettiva, la
sua prospettiva da quella di Rosai. La collaborazione a «Il Rosai» e la scelta di
fondare «L’Universale» coincidono, per Ricci, con quella “sterzata a destra” da
lui stessa posta all’origine del suo giornale115 e ancora oggi assai poco indagata
– sterzata che si compie, ricordiamolo, certo non all’insegna (scissionistica,
particolaristica, folklorico-sentimentale) di un qualsiasi popolo “oppidano” e
controriformistico o neorisorgimentale e mazziniano, ma, in esplicita polemica
con Strapaese, all’insegna del principio universalistico (e imperiale) della
nuova aristocrazia – vale a dire di una gerarchia fondata sull’ “ingegno”, non
111
112
113
114
115
Luti 1974, p. 214.
Ricci 1939, p. 32.
Ibidem.
Asor Rosa 1988, pp. 89 e ss.
Ricci 1984, pp. 211-233.
ARTE, SOCIALITÀ, RIVOLUZIONE. «IL ROSAI», FIRENZE, LUGLIO 1930
211
sulla nascita116. È un caso che proprio su «L’Universale», attorno al 1933, si
accendano dibattiti con Evola, intellettuale al solito così sprezzante nei confronti
di «Strapaese»; e soprattutto si predispongano tavoli di lavoro comune sul tema
della “potenza”?117 Certo che no, anche se è evidente che proprio tali intese,
portate avanti, è vero, dall’ “estrema destra” del gruppo de «L’Universale» e
tuttavia pienamente autorizzate da Ricci, rivelano, dell’intellettuale fiorentino,
tratti mistico-spiritualistici guerrieri e ultraelitari né circoscrivibili ai soli anni
che vanno dal 1931 al 1935, come suggerito dallo stesso Ricci, né riconducibili
all’instabile definizione di “fascismo di Sinistra”118; tratti su cui, accogliendo
un acuto suggerimento di Garrone e volgendolo in un senso più concretamente
politico, converrà tornare in seguito con approfondimenti maggiori119.
Le tesi su «aristocrazia» e «cultura» segnalano forse un perdurante tratto gentiliano di
Ricci, malgrado la crescente distanza del poeta e ideologo dal filosofo (Buchignani 1994, pp. 54-55
e passim).
117 Tinti 1933. Evola aveva rivolto critiche puntuali al Manifesto realista in Evola 1933.
118 Perplessità sull’interpretazione di Ricci in termini di “fascismo di sinistra” (o anche
“populismo di sinistra”) già in Cordié 1967b, pp. 169-170 e nota 30. Nello stesso saggio, a p.
166, Cordié esprime dubbi sia sulla plausibilità della categoria storiografica “fascismo di sinistra”;
sia sulla parziale riabilitazione tentata da sinistra, nei primi anni Sessanta, di questo particolare
fascismo. Detto in precedenza dei rapporti tra Ricci e i futuristi politici de «L’Impero» (vd. infra, nota
95), occorre aggiungere adesso che l’istanza metafisica o trascendente dell’intellettuale fiorentino,
il culto della grande individualità, la predilezione, se non per la Germania hitleriana, certo per il
Giappone (Ricci 1984, p. 183) e infine la distanza ideologica crescente tra Ricci e Rosai e tra Ricci e
Bilenchi nella seconda metà degli anni Trenta sono elementi controfattuali di rilievo quanto alla tesi
di un Ricci semplicemente populista e di sinistra in ogni sua stagione, a cavallo tra Venti e Trenta
così come alla fine del decennio (cfr. in proposito Bilenchi 1976, pp. 80-81; e Buchignani 1994, pp.
259-260). L’accezione ricciana di popolo è oscillante: il termine vale talvolta per demos, talvolta
per nomos. Una lirica come A Riccardo Wagner, apparsa in Ricci 1933b, p. 31, spinge a ridurre
lo “strappo” storiografico creatosi da tempo tra il Ricci poeta e il Ricci ideologo; e a estendere
all’ambito musicale, sinora del tutto trascurato, la ricerca di fonti che contribuiscano a spiegare
l’inquietudine “eroica” del fondatore de «L’Universale». Alla luce di quanto sin qui affermato, non
si vede come l’ideologia corporativa di Ricci possa essere scambiata con una «soluzione fascista
[piccolo-]borghese»; o addirittura accreditata di aver «figliato» l’umanitarismo pre-marxista del
secondo dopoguerra (cfr. Asor Rosa 1988, pp. 104-105. Qui tra l’altro, a p. 89, si dice che Garrone
è «fiorentino»). A una simile ricostruzione, resa possibile da fraintendimenti ampiamente circolanti
nella letteratura artistica rosaiana del dopoguerra, orientata da preoccupazioni apologetiche (cfr.
Santini 1960, pp. 91, 103); e in larga parte dettata da ragioni polemiche contingenti, estranee
alla figura di Ricci e successive alla sua morte, sembrano mancare i termini storico-politici del
“corporativismo fascista” quale si delinea in Ricci e altri (ma non in Bilenchi o Vittorini) da punti
di vista non meno antidemocratici e antisocialisti che antiborghesi; e appunto in contrasto con
principi umanitari. Per Rosai vd. supra, nota 69.
119 Garrone 1929, p. 135: «c’era nella Ronda un’umiltà buona, fatta di orgoglio e di interezza
tradizionali. Una chiarezza aristocratica, velata di esoterismo e di maceramento; insomma, una
lezione che sdegnava le facili comunioni col pubblico, per rivolgersi all’ingegno vivo e disposto,
con una eroica certezza di trovarlo. Lo trovava… [e] i toscani perdettero le sciocche attribuzioni
regionali». Qui – semplifichiamo – La Ronda appare la correzione in chiave classico-leopardiana di
«Lacerba»: e il Lemmonio Boreo tiene per mano le Operette morali. Per la curvatura “strapaesana”
del culto rondista (e cardarelliano) di Leopardi (Mascia Galateria 1989, pp. 35-36).
116
212
MICHELE DANTINI
Un’ultima considerazione, infine, relativa alle illustrazioni che corredano il
libretto. Dal punto di vista dell’equivoco “populista” cui «Il Rosai» soggiace
da subito non si può che lamentare la precipitazione o la sufficienza di Ricci
in tema di arti visive. Questi, verosimilmente su suggerimento di Rosai stesso,
chiede a un disegnatore giovane e acerbo come Bruno Rosai, nipote dell’artista,
in debito con la grafica de «Il Selvaggio» e l’umorismo strapaesano di Maccari,
di illustrare l’«opuscolo azzurro, assai giudicato e discusso»120: la scelta, come
osservano immediatamente Garrone e Persico, distorce il senso de «Il Rosai» e
ne tradisce le ambizioni “universalistiche”. Stradine, “omini”, piazze, paesotti,
gendarmi, osterie: osservato attraverso la lente figurativa, il pamphlet sembra
risolversi all’insegna del pittore “giustiziere” e di un Ottocento municipalistico
e minuto, decaduto ad aneddoto o a proverbio agreste e faceto, cui le più
maldestre riprese da un’illustre tradizione “internazionale” di capricci in bianco
e nero, da Callot a Ensor a Kubin121, cercano di opporsi invano.
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grafica espressionista tedesca cfr. Masciotta 1975, p. 194. Per Rosai e Tavolato, il solo quest’ultimo,
con Theodor Däubler, a parlare correntemente il tedesco nella cerchia di «Lacerba» cfr. Ragghianti
1956, p. 4. Manca ad oggi, al di là di menzioni frammentarie, una cornice storiografica d’insieme
che ricostruisca i rapporti tra futurismo lacerbiano (e quel che ne segue dopo la fine della rivista) e
cultura figurativa tedesca, rapporti che, già in base alle semplici emergenze, è sensato supporre più
intensi e scambievoli di quanto oggi ricordiamo. Se è lecito qui riprendere un filo argomentativo
appena dipanato da Luigi Baldacci (Baldacci 1974, p. 52), si può allora convenire su una circostanza
semplice e illuminante: si afferma, in seno al futurismo fiorentino e più per merito di Papini che di
Soffici, l’esigenza di difendere determinati ambiti e tradizioni figurative, in primo luogo popolari
e devozionali, che risultano estranei al futurismo milanese o addirittura suoi bersagli elettivi;
esigenza che sembra convergere in modo non banale con orientamenti e predilezioni espressioniste
tra Dresda, Monaco e Berlino – mediati gli uni e le altre da questo o quell’“ambasciatore” artisticoculturale o collezione o rivista di volta in volta da riconoscere e determinare.
120
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Valentino Nizzo, Pietro Petraroia, Roberto Piperno, Maria Luisa Polichetti,
Mauro Salis, Mauro Saracco, Ornella Scognamiglio, Cristina Simone, Federico Valacchi
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ISSN 2039-2362