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Volti virali A cura di Massimo Leone Curatore: Massimo Leone Copertina e impaginazione: Andrés Manuel Cáceres Barbosa Illustrazioni: Elia Sampò 1a edizione, aprile 2020 ISBN 979-12-200-6423-1 CDD 401.41 Testi di Massimo Leone, Antonio Allegra, Antonio Santangelo, Gabriele Marino, Silvia Barbotto, Remo Gramigna, Cristina Voto, Elsa Soro, Bruno Surace e Marco Viola. This publication is part of a project that has received funding from the European Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme (grant agreement No 819649 - FACETS). FACETS Digital Press, Open Access Direttore: Massimo Leone Comitato scientifico: Francesco Barone-Adesi, Anne Beyaert-Geslin, Maria Giulia Dondero, Harald Klinke, Angela Mengoni, Everardo Reyes García, Henri de Riedmatten, Nathalie Roelens. Facebook: https://www.facebook.com/facetsunito Instagram: https://www.instagram.com/facetsunito/ Twitter: https://twitter.com/FacetsU Youtube: http://www.youtube.com/c/FacetsERC Website: http://facets-erc.eu/ Email: massimo.leone@unito.it Volti virali Indice Volti virali ......................................................................... 7 Massimo Leone La maschera e la distanza.................................................17 Antonio Allegra I narcisi mascherati, gli eroi e noi ..................................... 39 Antonio Santangelo Facepalm .........................................................................67 Gabriele Marino Forme di vita ..................................................................101 Silvia Barbotto Semiotica, prossemica e contagio ....................................131 Remo Gramigna e Cristina Voto Spazi (turistici) contagiati ................................................151 Elsa Soro Volti senza corpi ............................................................181 Bruno Surace L’altra faccia de/con la mascherina sanitaria .................. 207 Marco Viola Volti virali Massimo Leone Università di Torino e Shanghai “Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto.” (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958, Il gattopardo). Il volto “fisico” della pandemia La pandemia cambia il volto delle città, ma cambia anche i volti delle città, e non solo quelli delle città di mattoni bensì pure quelli delle città digitali che l’umanità ha costruito negli ultimi decenni. Per quanto riguarda i volti fisici, il grado zero della trasformazione è l’assenza. Chi vive da solo si è imbattuto sempre meno involti, evitando gli incontri potenzialmente pericolosi all’inizio, poi quelli con sconosciuti in luoghi affollati, quindi i volti degli amici, fino ad arrivare all’impossibilità d’incontrare il volto di una madre, di un figlio, di un fratello, e finanche al confinamento totale, con le buste della spesa lasciate fuori dall’uscio da qualcuno di cui non si vede il volto. Chi non vive da solo ha sperimentato l’assenza per un eccesso di presenza, ha visto per settimane sempre gli stessi volti fisici, i quali però nella reclusione forzata hanno assunto tratti diversi, psichici ma anche somatici, sono stati sondati fino all’ultima piega, amati più di prima nei casi più fortunati, riscoperti nel loro sorriso, mentre in altri sono stati odiati, perché trovati nella loro forma peggiore, o semplicemente perché inevitabili, senza alternative. Ma è cambiato anche il proprio volto allo specchio, nelle sue fattezze in molte circostanze: volti ingrassati per la mancanza di movimento, irsuti per l’assenza di barbieri ed estetiste, o semplicemente perché si è troppo angosciati per prendersene cura, o perché non si esce più, volti senza più accesso a prodotti cosmetici; e poi soprattutto volti tesi, angosciati, esterrefatti, con un sorriso forzato che li illumina solo a metà quando si affacciano sulla scena sociale anche per un attimo, anche soltanto sul palcoscenico digitale. 9 Massimo Leone La mascherina Poi cambia il volto fisico perché, nel mondo esterno, al di fuori della bolla asettica del confinamento, è stato sempre meno possibile, e meno raccomandabile, mostrarlo per intero. È comparso, dapprima nelle notizie dalla Cina, poi tra i Cinesi in Europa, quindi sul volto di alcuni individui particolarmente apprensivi o semplicemente lungimiranti, infine su ogni viso, l’oggetto dell’anno, che dio non voglia che diventi quello del decennio o del secolo: la mascherina. Da tempo, forse addirittura dall’invenzione degli occhiali, il volto non era stato così sistematicamente e diffusamente modificato da un oggetto “altro” nelle società occidentali. Chi avesse viaggiato in Asia, e soprattutto in Giappone, negli anni precedenti ne avrebbe fatto l’esperienza: mascherine ovunque nei luoghi pubblici e affollati, specialmente negli autobus e massimamente nella metropolitana. “Perché portate la mascherina?”, domandava l’occidentale, e come sembra dannatamente ingenua quella domanda adesso! La portavano per proteggersi, però anche, ed era naturale ma sorprendeva l’occidentale, per proteggere, per evitare il contagio altrui. Perché l’estremo Oriente pensa l’individuo in modo diverso, anche nel Giappone capitalista e non solo nella Cina maoista, e l’individuo ammalato ha nel cuore la speranza di guarire, come in Occidente, ma anche quella di non fare ammalare gli altri; l’immunità non esclude la comunità. Poi in Giappone come altrove vi era anche la timidezza, che spingeva alcuni, e soprattutto le donne, a usare la mascherina come una specie di velo, e c’erano pure i ricordi di pericoli passati, trascorsi e 10 Volti Virali passati per le vie respiratorie, gli attentati con gas sarin del 1995, le epidemie più recenti, e la tragedia nucleare sempre sullo sfondo lontano. Nell’Europa occidentale la mascherina entrava in uno script esclusivamente medico-sanitario: la si vedeva essenzialmente dal dentista, i più sfortunati in sala operatoria, perché neppure una visita medica di routine esponeva a questa protesi del volto: il medico ci parlava faccia a faccia. In Italia, le mascherine sono diventate protagoniste della “scena facciale” quotidiana quando non se ne trovavano più, quando già scarseggiavano nelle farmacie, quando parenti e amici lontani le spedivano da luoghi più fortunati, quando già circolavano informazioni e fake news sulla loro tipologia, utilità, inutilità, quando se ne fabbricavano di rudimentali, quando già se ne faceva oggetto d’ironia e sarcasmo. S’innescava immediatamente una tensione semiotica destinata a durare, concernente l’esposizione del volto proprio e l’interazione con quello altrui, e l’opportunità non soltanto medica ma anche sociale di mettere la mascherina sul proprio volto, che gli altri la mettessero sul proprio. Un senso di vergogna all’inizio, il timore di essere giudicati troppo apprensivi, oppure quello di essere evitati in quanto possibili malati, l’impedimento fisico alla comunicazione, il senso di calore oppressivo sul volto, la sensazione di respirare il proprio respiro, e a ogni respiro l’impossibilità di pensare la normalità, l’idea fissa di trovarsi nell’emergenza, nell’inaudito, nell’impensabile, nel surreale, come in una fiction, e poi la scoperta di come sia scomodo fare la spesa con mascherina e occhiali, le lenti appannate dal proprio stesso fiato. Pian piano, tragi11 Massimo Leone camente, le mascherine hanno cominciato a dilagare, hanno trasferito su tutta la “scena facciale” italiana, poi europea, un quotidiano tratto di apprensione, una medicalizzazione dello spazio pubblico non vista da tempo. Il volto rappresentato E così, con un intreccio complesso ma sistematico con il panorama dei volti fisici, da quelli domestici a quelli della città, sono cambiati anche quelli della rappresentazione sociale. I media ufficiali ci hanno mostrato volti preoccupati, tesi, affranti, e anche su di essi è comparsa la fatidica mascherina, a partire dal politico di spicco che scopriva di essere positivo al tampone e si mostrava con il volto coperto, rimanendo così per settimane, trasformandosi in una nuova icona di sé stesso, nella variante epidemica del volto del potere; ma sono comparse anche mascherine tragiche ed eroiche, quelle dei medici e degli infermieri in trincea, che una metafora bellica sempre più diffusa, anche internazionalmente, e lo spaventoso numero di decessi ha spinto a vedere effettivamente come soldati in guerra contro il virus, acquartierati negli ospedali, ma soprattutto bardati per evitare il contatto letale con il volto, giacché si è compreso ben presto che le comuni mascherine non erano sufficienti, e nemmeno quelle a tenuta stagna, perché bisognava coprire anche gli occhi, e tutte le mucose, fino a nascondere completamente il volto del medico, o dell’infermiere, sotto l’iconografia del nuovo soldato, del nuovo eroe, del nuovo martire: immagini e video di volti così coperti, dei loro complicati scafandri, hanno cominciato a circolare spa12 Volti Virali ventosi, e con essi anche le immagini più tragiche: quelle dei volti intubati, privati della loro identità, attaccati all’ossigeno di una macchina, spiranti anonimi e soli, congedati dopo una lunga vita da un bacio di plastica. Uno degli aspetti più tragici di questa pandemia è che non vediamo i volti di chi soffre e muore, una lontananza e invisibilità del volto del caro defunto che nemmeno nei conflitti, ormai mediatizzati e persino trasformati in spettacolo, era dato di sperimentare. E come in tutti i conflitti, anche in questo vi sono carni da macello, volti da macello, visi che sarebbe troppo dispendioso cercare di proteggere, facce per le quali non esistono mascherine e nessuno se ne preoccupa, tutta una schiera di volti che una condizione di classe socio-economica condanna a esporsi come se nulla fosse: migranti, rifugiati, profughi, senzatetto, lavoratori in nero, detenuti, ma anche cassieri, fattorini, riders: soldati anch’essi in questa “guerra” ma senza mascherina e senza gloria. Il volto digitale Poi insieme a questa scena facciale fisica e mediatizzata è cambiata anche quella digitale, da tempo intrecciata alle nostre esperienze quotidiane. L’eccezione è divenuta la regola. Nella scuola, nell’università, nella ricerca, chi ha potuto continuare a lavorare lo ha fatto a distanza, accorgendosi che il mondo digitale era imperfetto e impreparato a una scomparsa così rapida di quello faccia a faccia, impratichendosi in tutta fretta di nuovi mezzi e nuove piattaforme per poter incontrare perlomeno online i volti degli altri. Come in una tragica iperbole delle reti 13 Massimo Leone sociali che tanto accanitamente si erano costruite, frequentate e alimentate, l’altro è diventato un quadratino di pixel spesso sfocati, spesso “congelati” quale monito sull’inadeguatezza dei simulacri digitali; il lusso e il vezzo di non incontrare gli altri faccia a faccia (perché si era troppo impegnati, troppo in viaggio, troppo snob, o semplicemente per un desiderio inconscio di “controllare” la comunicazione di sé e degli altri attraverso lo schermo) hanno ceduto il passo all’obbligo atroce di non poter più incontrare nessuno, nemmeno i propri cari. Nella solitudine, o nella cerchia ristretta dei propri affetti, è poi mutata la rappresentazione di sé. Chi lavorava online o semplicemente incontrava i propri affetti attraverso piattaforme digitali ha “postato” queste nuove foto di gruppo, contribuendo al consolidarsi di un nuovo modello iconografico del ritratto collettivo, una sorta di Mondrian triste ove ognuno appariva inevitabilmente mesto, separato dagli altri nel quadratino della sua gabbia digitale; ma pure è mutato il genere-chiave del mondo digitale pre-pandemico: il selfie. All’inizio si è scherzato con le mascherine, poi la voglia di scherzare è passata, la glorificazione del presente attraverso questo formato non è stata più possibile, perché non c’era più niente di nuovo da mostrare alle spalle, né viaggi né feste né vip, i selfie dei politici e coi politici sono divenuti fucina di contagio, e anche il volto si è imbruttito, non sbarbato, non depilato, non truccato, non acconciato, un volto che pare ormai il backstage dei selfie di altri tempi e che non si ha più il coraggio di mettere in scena. E infatti che cosa non si darebbe per fare una foto di gruppo, adesso, che cosa non si darebbe per incontrare un passante, anche solo uno, e chiedergli quello che non gli chiedevamo più: 14 Volti Virali “mi può scattare una foto per favore?” Riscoprire il volto La semiotica osserva questo mutamento radicale della scena facciale fisica, mediatica, digitale1, ma, si spera, dovrà osservarne anche la convalescenza. Quando il virus avrà finito d’imperversare, e il confinamento si allenterà, lo spazio pubblico comincerà a riempirsi di nuovo. Tutti avranno voglia di rivederlo, di esservi di nuovo con il proprio corpo, con il proprio volto, e tutti sperimenteranno al contempo, come è naturale, desiderio e paura: il timore di un nuovo contagio, o anche di una nuova epidemia venuta dal nulla. Per qualche tempo non ci staccheremo dalle nostre mascherine, e in certi ambienti, come forse è giusto, si continuerà a utilizzarle; come pure è giusto, gli Stati ne faranno provvista, memori dell’accaduto. E forse per qualche tempo, non si sa per quanto, assaporeremo con occhi nuovi i volti degli altri, dei parenti, degli amici, ma anche degli sconosciuti, come degusta il cibo chi lo assapora per la prima volta dopo una malattia intestinale, con il timido e quasi infantile desiderio del convalescente. Almeno per qualche tempo, non saremo dis-in-volti ma ri-volti al viso dell’altro, questo mistero, questo paesaggio straordinario, questo viaggio infinito. Torneremo a volto scoperto e, si spera, torneremo anche a scoprire il volto. 1 Si vedano le “pillole” video realizzate a questo proposito dal gruppo di ricerca FACETS: https://www.youtube.com/c/FacetsERC 15 La maschera e la distanza Su confini e volti in tempo di pandemia Antonio Allegra Università per Stranieri di Perugia There were buffoons, there were improvisatori, there were ballet dancers, there were musicians, there was Beauty, there was wine. All these, and security, were within. Without was the Red Death E.A. Poe, The Masque of the Red Death 1. Come tutti sappiamo, l’occasione dei racconti del Decameron è la peste del 1348, che colpisce Firenze oltre che la maggior parte d’Europa. La fuga dei dieci giovani (e di alcuni loro servi) dalla città è motivata da un’istanza di protezione che è reiterata più volte nella celebre introduzione di Boccaccio. Anzitutto, e sia pure con scarso successo, viene vietato l’ingresso nella città “a ciascuno infermo”, poi man mano diventa comune “schifare e fuggire gl’infermi e le lor cose”; infine molti, “fatta lor brigata, da ogni altro separati vivevano”, raccogliendosi e rinchiudendosi nelle loro case. Coloro che si isolano così, invero, quando si ammalano subiscono un inevitabile contrappasso dato che nessuno li cura e vengono abbandonati dagli altri, a loro volta spaventati. In effetti la solitudine dei morenti e l’abbandono di ogni forma di pietà umana, dato dall’assenza di funerali adeguati, è il passo successivo della descrizione di Boccaccio: che non manca di notare che alcuni di coloro che si trovarono senza il sostegno altrui sarebbero forse potuti sopravvivere, se l’avessero avuto. In realtà anche il contado fiorentino non è immune dalla pestilenza, ma il discorso di Pampinea che suggerisce la fuga lascia trasparire quanto sia comune il tentativo di allontanarsi dalla città. Il fatto è che nel contado è più facile evitare le immagini di morte che occupano Firenze: lì case e popolazione sono più rade, insomma emerge la scena della natura anziché la presenza dell’uomo. Il luogo prescelto in effetti è una sorta di giardino isolato per quanto tutt’altro che lontano dalla città, e un po’ più alto rispetto ad essa, un palazzo tendenzialmente autosufficiente, piacevole, fresco1. La socialità 1 G. Boccaccio, Decameron, Einaudi, Torino 1980, p. 15 e ss. 19 Antonio Allegra umana prende forme diverse e si rifugia in un immaginario di separatezza e protezione. Il sito per così dire invertito è strutturalmente e funzionalmente un lazzaretto, ossia protettivo nei confronti di ciò che si trova al suo interno nonché accogliente e ameno. In effetti un lazzaretto ideale, sia perché incantevole che per la sua efficacia, dato che in esso non entra la morte (salvo che in numerosi dei racconti che vi vengono pronunciati). 2. L’altra illustre descrizione di epidemia nella letteratura italiana ha intenzioni assai differenti da quelle di Boccaccio. Per Manzoni la peste è strategicamente cruciale, pausa narrativa ma opportunità ideale per l’espressione della sua visione storica – tanto da avvertire l’esigenza di dedicare al tema, come sappiamo, anche un’opera autonoma2. Come l’assalto ai forni, ma su scala assai più vasta, la peste esibisce il difetto antropologico della mimesi irrazionale, che ha bisogno di capri espiatori piuttosto che riconoscere la presenza travolgente e minacciosa della malattia. Nel cuore della descrizione vi è la paura: paura sorda, poi crescente della malattia, del contagio, del ruolo degli untori. La pietà religiosa non viene abbandonata: al centro della narrazione manzoniana vi è in effetti la scena celebre della processione delle reliquie di san Carlo Borromeo. Ma il lato illuminista e razionalista dello scrittore non manca di osservare, nei giorni immediatamente successivi alla processione, il netto aumento dei decessi dovuto all’occasione che la contiguità offre alla peste. 2 Un’edizione della Storia della colonna infame (1840) è Feltrinelli, Milano 2015. 20 Volti Virali Insomma: solo una razionalità consapevole e l’isolamento che ne deriva rappresentano una strategia adeguata. Le indicazioni dei medici seicenteschi, anche se Manzoni osserva come vengano spesso ignorate o disprezzate per timore che si riveli reale la peste che esse cercano di combattere, attingono al repertorio costante della profilassi, che si muove entro un giro ristretto di pratiche ed immagini corrispondenti: “Trovarono paesi chiusi da cancelli all’entrature […] prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città […] fece star chiuse le porte”3. Infine nel cuore di Milano viene organizzato un lazzaretto: tutt’altro che ideale questo, dunque un lazzaretto che protegge l’esterno da se stesso anziché il contrario, e che è il luogo della massima mortalità. 3. Tutta una batteria di descrizioni singolarmente analoghe accompagnano l’intera storia delle epidemie, da Tucidide a Covid, in modo tale da fare pensare che siamo, ancora oggi, ai metodi di sempre. Il distanziamento sociale contemporaneo, del quale siamo diventati involontariamente esperti, aggiorna, con un lessico appena più velato, le varie strategie di isolamento, certificate dalla chiusura in casa propria, dalla costruzione di percorsi puliti negli ospedali, dall’adozione di dispositivi di protezione individuale, o dall’allontanamento più o meno precipitoso dai luoghi che vengono percepiti infetti, oggi come sempre malamente ostacolato dalle autorità. Su scala più ampia: sostanziale soppressione del traffico aereo internazionale, tendenziali autarchie, evidenti diffidenze, quando non peggio, tra nazioni. Ma già gli ateniesi all’epoca 3 Sono passi tratti da luoghi diversi del XXXI e XXXII capitolo dei Promessi Sposi. 21 Antonio Allegra della loro peste avevano sospettato che fossero stati i nemici spartani a infettare la città; così come tra i presunti untori manzoniani spiccano i forestieri. L’altra costante narrativa sono le ricadute sulle forme della convivenza, dall’abbandono dei vincoli familiari e delle cerimonie del culto allo stravolgimento delle gerarchie sociali. Anche questo pattern contribuisce a precipitare in direzione dell’isolamento, appena più indirettamente dell’altro, ma non meno decisivamente, a causa della rottura del vincolo sociale. La socialità umana viene stravolta o revocata anche dal punto di vista simbolico oltre che sensibile. La diffidenza supera il tasso di guardia che la mantiene in sottile bilanciamento col suo opposto. L’equilibrio del corpo sociale tra distanza e relazione viene, almeno per un periodo, infranto. 4. La maniera più sintetica di descrivere questo processo, che viene accelerato, potenziato e legittimato dall’epidemia macroscopica in corso ma che si svolge sottotraccia da molto tempo, è stata individuata da Peter Sloterdijk. Ritengo infatti che la simbolica delle bolle, da lui proposta, sia la più adeguata. Flessibili, perché ovviamente variabili nella permeabilità che permettono e nello spazio che abbracciano, le bolle non sono perciò meno palesi e perentorie. All’epoca dell’angoscia da HIV il corpo veniva, necessariamente, immunizzato dal contagio rinchiudendo le parti esposte al contatto con i fluidi altrui in appositi involucri. Oggi, date le caratteristiche del virus, l’opportuno spazio di sicurezza deve essere più ampio, e ciò comporta che questo involucro profilattico venga espanso ad almeno un metro dai confini dell’individuo. Non solo non possiamo toccare, ma neanche sfiorare. 22 Volti Virali Ma le bolle, ha osservato crucialmente Sloterdijk, sono in realtà indispensabili. Lo sono state filogeneticamente, permettendo all’umanità una sopravvivenza che poteva sembrare improbabile; lo sono biograficamente, plasmate come sono dall’incalcolabile apparato di esonero che abbiamo costruito con straordinaria efficacia, anzitutto attorno ai nostri piccoli, che restano immaturi e bisognosi di cure per un tempo più lungo di ogni altra specie vivente, e poi man mano attorno a noi stessi, nelle forme della cultura, della tecnologia, della medicina. Fortezze, ponti levatoi, città murate, porte tagliafuoco, zone riservate, ambienti sterili, gated communities, safe spaces, confini, dogane, passaporti: le forme della separazione tra dentro e fuori della bolla sono numerose, a ben vedere onnipresenti, pur se spesso inavvertite a causa della consuetudine. Non c’è nulla di più comodo, in un certo senso, della bolla prediletta. Certo, il movimento della globalizzazione ha pensato di abolire le innumerevoli membrane di separazione, o per meglio dire ha cercato di ricostruirne una che abbracciasse l’intera umanità, anzi la Terra. La Terra, dunque, come ecumene; e l’unica patria o cittadinanza degna di tal nome, il cosmopolitismo. Ma di fronte a un rischio inedito la bolla si rinserra, letteralmente collassa, con rapidità inaudita, attorno a ciascuno di noi, possibilmente al sicuro solo se riuscisse ad evitare qualunque fessura nella forma compatta entro la quale è barricato4. 4 La trilogia di Sfere è stata tradotta presso Raffaello Cortina, Milano 20142015. 23 Antonio Allegra 5. E tuttavia la bolla che si è stretta oggi attorno a ciascuno è espandibile in modo tale da permetterci di contattare gli altri come se fossimo in presenza. Ciò accade per mezzo di protesi tecnologiche che abilitano la comunicazione via avatar in vece dei soggetti in carne e ossa. Nello spazio letteralmente di pochi giorni la vita di miliardi di persone si è spostata online. Da un lato il corpo fragile e contagiabile, presuntamente tenuto al sicuro dentro una stanza della propria casa: esso idealmente si sposterebbe il minimo indispensabile, minimo che è definito da apposite ordinanze in maniera assai ristretta anche se spesso contraddittoria nonché variabile nei differenti paesi. (Chi è in quarantena esprime in purezza radicale questa nuova forma di esistenza confinata, dato che il minimo indispensabile nei suoi riguardi coincide quasi perfettamente con la mera sussistenza vegetativa del corpo). Dall’altro lato le esperienze di lavoro, di socialità, addirittura di attività sportiva, condivise con altri soggetti tutti fisicamente in luoghi distanti. Come i cervelli nella vasca, ciò che conta è la visione (condivisa). Il fatto è che questa nuova topografia virtuale adempie istanze di protezione diffusissime, dovute a un dato ancora resistente alla trasfigurazione tecnologica o all’illusione ideologica. Si tratta, per usare in maniera fin troppo abbreviata un lessico classico, della corruttibilità del corpo. Nonostante le promesse di potenziamento dei transumanisti, a tutt’oggi resta ancora il dato imbarazzante e sgradevole della sua fragilità. La promessa di durata immunizzata, di quiete omeostatica garantita da un welfare state interio24 Volti Virali rizzato, ci definisce in profondità; proprio per questo ogni turbamento della quiete, anche al di là del destino del corpo in senso stretto, è percepito come una minaccia intollerabile. Xenofobie, salutismi, apocalissi climatiche, sviluppi della globalizzazione: sono solo alcuni dei modi in cui la paura si è installata come sentimento dominante. Ma di fronte a un vero e proprio cigno nero, improvviso dunque inquietante, ogni altro timore sembra recedere, almeno momentaneamente; e l’impulso verso l’immunità da isolamento riprende in maniera più diretta, senza ipocrisie, l’antico repertorio delle chiusure, dei confinamenti, del controllo. Detto altrimenti, le bolle tornano di moda non solo nel senso ovvio ma soft delle echo chamber sui social o delle safe zone ideologiche, o delle crescenti diffidenze o vere e proprie ostilità tra popoli; ma in quello più pressante e tangibile (se vogliamo, paradossali bolle “rigide”, prescritte da normative e fatte rispettare da forze di pubblica sicurezza), poiché legato alla vera e propria sopravvivenza individuale, che stiamo con tutta evidenza attraversando. 6. In questo quadro generale il ruolo del volto ha una centralità forse meno evidente, ma decisiva. Dato che nel volto si concentra la carica semantica della relazione, la sua copertura o scopertura gioca un ruolo cruciale. Generalmente la visibilità del volto è pressoché indispensabile in termini comunicativi e prossemici. Esistono ovvie eccezioni: l’uso del velo in molte culture, soprattutto tra le donne, è solo l’esempio più evidente, che indica la possibilità di altre strategie comunicative. 25 Antonio Allegra Ad ogni modo, ciò che ci interessa in questa sede è che il volto scoperto e visibile è singolarmente vulnerabile, in più di un senso. Esso è facilmente decifrabile e con ciò trasmette informazioni non sempre opportune su ciò che pensiamo5. E da un altro punto di vista i suoi orifizi, necessari alla vita, consentono un ingresso agevole al rischio che proviene dall’esterno – rappresentano, per così dire, delle crepe nella bolla protettiva. Pertanto, di fronte ad un pericolo epidemico quasi inedito, almeno nell’esperienza comune degli europei del XXI secolo, il volto viene oggi ricoperto da apposite stratificazioni protettive ovvero schermi di vario genere, più o meno estesi ed efficienti. Si assiste insomma a un ritorno di fiamma della maschera. Anche qui in realtà non c’è nulla di nuovo. La storia delle epidemie conosce una raffigurazione incisiva, entrata più o meno confusamente in un immaginario diffuso, quale l’abito del medico della peste, il cui dettaglio più rilevante e il primo a venire codificato è la vistosa maschera con becco, fatta per allontanare i miasmi e dunque il pericolo. In seguito viene progettata la veste da testa a piedi, ispirata alle armature come falsariga di protezione, completa di stivali e guanti e di un bastone che ha lo scopo principale di esaminare i malati in sicurezza. (Il bastone diventa uno strumento per saggiare e esaminare a distanza, una sorta di protesi tattile dotata di un’insospettabile sensibilità nelle mani esperte del medico). Come è evidente non si tratta di nulla di diverso dai DPI contemporanei (Fig. 1). 5 È un tema classico della letteratura seicentesca su simulazione e dissimulazione. Menziono qui T. Accetto, Della dissimulazione onesta, XXI, XXIII; B. Gracián, L’eroe, I, II. 26 Volti Virali Fig. 1 7. Dunque la maschera, almeno in prima battuta, separa e tiene a distanza – è questo il suo compito. Non permette, anzi cerca proprio di rendere impossibile, la comunicazione diretta di pensieri ed emozioni, tanto più quanto più è avvolgente e completa. Da questo punto di vista la maschera è la negazione del volto; più precisamente, la negazione della conoscenza di ciò che si trova dietro di essa6. Certo, come accennato la tradizione del velo, che in qualche misura per noi italiani non è così remota cronologicamente come appare invece da un punto di vista simbolico-assiolo6 Come ricorda un celebre racconto di Poe, ciò può significare, a dire il vero, che anche il contagio può nascondersi dietro la maschera: ossia, la malattia può entrare in uno spazio protetto se riesce a passare inavvertita perché coperta dalla maschera (La maschera della morte rossa, 1842). 27 Antonio Allegra gico, ci mostra molti sottili mezzi di espressione: la forma del velo, la maniera e lo spazio esatto entro cui è utilizzato, i suoi colori, sono solo alcuni dei modi più ovvi attraverso i quali esso viene addestrato a risignificare, esattamente come ogni altro accessorio di abbigliamento e dunque in maniera, tra l’altro, tutt’altro che esente dai precetti della moda7. In questo senso anche la maschera chirurgica o FFP3 potrebbe forse avere un destino semantico simile, specie se dovesse accompagnarci per un tempo piuttosto lungo e diventasse un accessorio normalmente contemplato nelle nostre opzioni vestimentarie, magari anche solo in certi periodi o contesti. Non va sottovalutato però quanto la maschera/velo cozzi in profondità con molte opzioni assiologiche e percorsi storici della cultura occidentale contemporanea. Anzitutto essa contiene un quantum essenziale di nascosto ed opaco che, se pure come ho osservato può avere un ruolo semantico assolutamente significativo, appare in assoluto contrasto con le nostre retoriche più tipiche, che valorizzano al contrario l’apertura, la trasparenza, la naturalezza, l’espressività, etc. Viene proposto, detto altrimenti, un costante investimento ideologico in favore dell’aprirsi, dell’essere sempre a disposizione senza residui, del non avere nulla da nascondere, e così via. Come è stato notato da più parti sembra diffondersi una certa diffidenza o almeno un’indifferenza nei riguardi 7 Sulla complessità nascosta del velo, cfr., sotto vari profili, i saggi contenuti in M. Leone – H. de Riedmatten – V.I. Stoichita (a cura di), Il sistema del velo. Systeme de voile, Aracne, Roma 2016, spec. M. Leone, Microanalisi del velo. Verso una semiotica del drappeggio, pp. 131-151; H. de Riedmatten, Le lever du voile. Voir, être vue, se montrer : le costume féminin à Venise et Padoue (1575–1600), pp. 155-194. 28 Volti Virali del valore della privacy, questo spazio assolutamente personale dove, per così dire, ciascuno parla con se stesso. In effetti è stato osservato che pure le tecnologie di tracciamento e riconoscimento facciale, le quali aderiscono anch’esse per la propria legittimazione all’ideologia della trasparenza, possono trovare un ostacolo in un eventuale ritorno in forze della maschera. Ed esiste infine, ovviamente, un’enfasi forte sull’emancipazione femminile, connessa con un volto mostrato alla vista anziché oscurato da veli e affini. In questo quadro l’avvento della maschera non può non trovare molte resistenze. Ebbene, l’alternativa che è a disposizione quale strategia di immunizzazione non ha questi limiti, anzi rappresenta un campo potenzialmente dirompente in favore dell’ideologia della trasparenza. Come notavo prima la vita di miliardi di persone si è spostata online con sconcertante rapidità, grazie anche a una tecnologia che era del tutto matura ma finora solo relativamente adoperata. In questo spazio virtuale della comunicazione tra esseri umani (didattica, lavoro, relazioni in genere) il volto può liberarsi della maschera senza rischiare; può tornare ad essere nudo, del tutto esposto, e anzi collocato in un primo piano spesso poco proporzionato. Pertanto esso gioca un ruolo per forza di cose dominante: tutta l’attenzione e si potrebbe dire il peso della comunicazione ricade ora su di esso. La prossemica, diluita altrimenti nella corporeità complessiva e in indizi assai più diffusi e sottili, passa adesso, talvolta anche malgrado o all’insaputa del soggetto, nel volto. Certo, non manca un campo prossimale che trasmette altre indicazioni. Ciò che 29 Antonio Allegra negli streaming viene visto della stanza alle spalle del volto, per esempio, è rapidamente diventato un ambito inestimabile di indicazioni, sia pure solo relativamente precise e attendibili. Ma non c’è dubbio che la forza del primo piano abbia cambiato le carte in tavola. Due osservazioni sono indispensabili. Anzitutto, anche se la retorica del volto nudo come ho accennato è fatta per valorizzare presunte forze di sincerità e immediatezza, queste sono appunto presunte. Non solamente i volumi delle librerie sullo sfondo in realtà vengono selezionati per descrivere nel modo più lusinghiero gli interessi dell’interlocutore, o viene accuratamente scelta l’inquadratura o la luce migliore, tecnica diventata d’altronde piuttosto familiare dopo che molti di noi hanno attraversato l’epoca del selfie. Il fatto è che lo spazio privato, pur messo in crisi anzi quasi messo sotto accusa dalla cultura della trasparenza, resiste indomabile dietro il volto. La pelle è la membrana irriducibile dell’autocoscienza: nessuno di noi ha realmente idea di ciò che accade alle sue spalle. Essa, per così dire, è il primo velo o maschera, una maschera così consustanziale che non siamo abituati a considerarla tale. Il volto gode di un pregiudizio a suo favore in nome della nuda verità; ma è il caso di chiedersi se possa davvero essere così; o per meglio dire, quali siano i limiti della possibile verità del volto. Esso indubbiamente comunica efficacemente, ma come diceva Eco in una citazione notissima, per una simmetria necessaria ciò che serve a dire il vero serve anche a mentire8. 8 U. Eco, Trattato di semiotica generale (1975), Bompiani, Milano 2002, p. 17 e passim. 30 Volti Virali Ciò non toglie però, lo ribadisco, che la possibilità per il volto di mostrarsi, di contro alla sua mascheratura divenuta necessaria nel contesto della presenza in vivo, faccia dell’online un’opzione improvvisamente molto attraente, anzi preferenziale. Recarsi “altrove” ma nella massima comodità e senza correre alcun rischio: si può immaginare un trade off più vantaggioso? 8. In effetti la seconda osservazione attiene proprio all’ideologia transumanista di invulnerabilità. In prima battuta messa in scacco dalla conferma, lampante in queste settimane, che siamo ancora molto lontani da tale traguardo, essa trova in realtà proprio nelle puntuali smentite dell’epidemiologia altro carburante per rinnovate ambizioni. Il volto transumanista permette di percorrere una traiettoria estremamente istruttiva, ai nostri fini. Esso può essere riassunto in alcune tappe esemplari all’interno del nostro immaginario, tappe scandite da volti emblematicamente differenti, che intendo rapidamente descrivere secondo un percorso di progressivo avvicinamento a ciò che più ci interessa. Esiste, anzitutto, una visione postumanista9 dove domina la fusione o ibridazione “orizzontale” e di stampo immanentista dell’uomo, spodestato dalla sua centralità, con la vita che lo circonda. Una potente ispirazione filosofica desunta soprattutto da Deleuze e dalla filosofia femminista contemporanea contribuisce a promuovere il sogno di una vita ca9 La distinzione tra post- e transumanesimo, per quanto non sempre perfettamente delineata, è cruciale. Rimando al mio Visioni transumane. Tecnica salvezza ideologia, Orthotes, Napoli 2017, per cenni a questo riguardo oltre che sugli altri aspetti del movimento. 31 Antonio Allegra pace di ricombinarsi in forme fluide, sempre diverse e non gerarchiche. James Cameron in Avatar (2009. Fig. 2) ha fornito un immaginario molto preciso a questa ideologia, a partire da un’empatia panteista innestata, per così dire, nella stessa biologia degli alieni di Pandora. Ebbene, anche il loro volto cerca di esprimere questa fusione con la vita che li circonda, questa apertura come cifra di una forma di vita immensamente più accogliente di quella umana, che esprime identità e chiusura. Non a caso nell’ultima scena del film il protagonista, che già ha abbondonato simbolicamente l’umanità attraverso le sue scelte, lascia il suo corpo ed entra in una nuova fase di esistenza – precisamente postumanista. Fig. 2 32 Volti Virali Totalmente diverso, almeno sotto questo profilo, e ben più vicino al tema di questo saggio, come vedremo subito, il caso del transumanesimo come potenziamento ispirato all’ideale della macchina. In questo caso il volto (e il corpo) di Terminator esprime una solidità, per così dire, impressionante. Sotto un sottile strato di pelle, la macchina garantisce una durata estremamente più stabile e progettabile rispetto al tessuto organico. Cyborg o replicanti devono la loro fascinazione ad una esteriorità umana – ad un volto umano, che però lascia intravedere, in speciali momenti di agnizione, la motivazione delle loro prestazioni superiori: vale a dire che si tratta in realtà di macchine, o almeno di macchine finemente intrecciate con pezzi organici. La celebre locandina del primo Terminator10 espone in purezza questo tema grazie al primo piano del volto di Schwarzenegger, che svela ciò che si trova sotto la sua pelle. Sostituire l’organico è già oggi in atto, con cheetas per atleti paraolimpici, esoscheletri per paraplegici, impianti cocleari per sordi profondi. Ma tali protesi sono ancora facilmente individuabili. Collocata sotto la pelle o sotto un tessuto sintetico indistinguibile da essa, la protesizzazione artificiale ovvero potenziamento potrebbe procedere in maniera più inquietante. Però, come appena osservato in momenti speciali la pelle di Terminator lascia vedere cosa c’è sotto. Detto altrimenti, la pelle per un attimo smette di fare da ultimo velo e rivela una verità perturbante. 10 Ancora di James Cameron, 1989 (Fig. 3). Anche in Avatar la locandina ha in primo piano il volto (o i volti, a seconda del paese). Non so se qualcuno ha già notato le simmetrie a chiasmo dei due film. 33 Antonio Allegra Fig.3 Tale commistione di carne e macchina sarebbe dunque la chiave d’accesso ad un’invulnerabilità finalmente raggiunta. E tuttavia occorre fare un passo ulteriore, più esigente, nel ragionamento. In realtà anche la macchina, anche l’inorganico sembrano destinati alla corrosione, pur se su tempi e con modalità differenti dal corpo organico. Tutto ciò che è materiale sembra da un certo punto di vista strutturalmente fragile, almeno se ci collochiamo nell’ordine di idee della massima invulnerabilità. Pertanto i transumanisti più radicali e consapevoli propongono una strategia completamente differente e più radicale, in direzione della smaterializzazione. Forse paradossale nella misura in cui appartiene ad auto34 Volti Virali ri programmaticamente alieni da una tematizzazione diretta e tradizionale della nozione di spirito od anima, essa tuttavia ne riprende il senso fondamentale. Si tratta infatti di porre al posto dello spirito l’informazione, al posto dell’anima la coscienza traducibile in byte – in modo tale da rendere accettabile alla sensibilità ideologica del XXI secolo occidentale progetti antichissimi di immortalità via incorporeità. In effetti l’informazione è incorporea: se tutto ciò che mi definisce come identità è una stringa assai complessa, ma pur sempre stringa calcolabile, di informazioni, non vi è ostacolo di principio all’upload e download delle menti, sempre in nuovi contenitori, in modo tale da conquistare una sorta di immortalità immateriale volta a volta riversata in supporti materiali variabili e sostituibili, revocabili in quanto strutturalmente precari. Difficile dire cosa ne sarebbe del volto in questo quadro. Per definizione provvisorio dato che inerisce ad una dimensione corporea divenuta inessenziale, esso forse potrebbe essere analogo agli avatar online o, ancora una volta, alle maschere che vengono indossate nei giochi di ruolo. La quarantena in cui siamo impegnati nei giochi online per molte più ore che in passato, forse inconsapevolmente prefigura un futuro che agli occhi di alcuni è perfino auspicabile. Non è solo il rifugio della stanza rispetto alla minacciosa apertura al mondo esterno: in generale, il fatto stesso di potere cambiare alias, impersonando nuove possibilità, può sembrare una liberazione dalla cornice ripetitiva del nostro sé. Il nostro corpo insomma si avvierebbe verso una provvisorietà gestita dai nostri desideri, dalla noia o dal capriccio, oltre 35 Antonio Allegra che dai fenomeni di obsolescenza; come abiti o “guanti”11 rispetto alla mente, che intanto sopravvive ed accumula esperienze sempre diverse. Ma per l’intanto la situazione attuale rappresenta un punto di passaggio davvero emblematico. In essa abbiamo demandato ai volti in primo piano, come accennavo, il ruolo di rappresentanza per soggetti che restano prudentemente a distanza. Un passaggio analogo è stato quello dell’epidemia da HIV. Essa non ha significato solo l’utilizzo medicalmente raccomandato di strutture di contenimento dello scambio sessuale-corporeo, membrane di separazione per quanto sottili; ma ha anche predisposto il terreno per un fenomeno davvero interessante quale il sesso virtuale. Esso ha rappresentato il momento di una curiosa epifania: anche ciò che per definizione sembrerebbe avere bisogno, più di quasi ogni altra cosa, del corpo, ha scoperto di poterne prescindere. Le emergenze sanitarie possono costituire un momento di accelerazione di dinamiche già in corso. In questo caso le sfuggenti complessità della comunicazione umana andrebbero a riversarsi in un territorio incognito, dove la dimensione corporea non è più in gioco. 11 La definizione di sleeves è in Altered Carbon. L’immaginario pop fantascientifico, come la mia scelta di esempi ha cercato di suggerire, ha un grande peso nel rendere progressivamente accettabili queste nozioni. Forse non è irrilevante che Netflix (o Spotify, etc.) in quanto tali costituiscano analoghi delle posizioni che teorizzano up- e download della mente. Il film presente su Netflix non appartiene propriamente ad un supporto, esso è lì e in nessun luogo (nel cloud), è effettivamente una stringa digitale di byte, può venire istanziato ovunque e iniziato su un device e ripreso su un altro, etc. In generale lo spostamento alla shared economy contribuisce a rendere man mano più mainstream il congedo alla nozione tradizionale di proprietà, identità, etc. Resta alquanto invisibile il dato di fatto che qualunque cloud, naturalmente, ha ancora bisogno di server ben concreti. 36 Volti Virali 9. Dal mio punto di vista non si tratta né di condannare istanze di protezione e presa di distanza che fanno parte in profondità, come ho cercato di sostenere, della stessa storia filogenetica di successo della specie umana, né di accogliere supinamente la dislocazione ed esautorazione del corpo che è in corso, se non altro perché presenta innumerevoli incognite, anzitutto in relazione al nostro stesso assetto psicofisico. Manzoni suggeriva, nelle celebri pagine dei Promessi sposi che ho utilizzato, un atteggiamento che si potrebbe definire, in maniera fin troppo sintetica, di consapevole autodifesa. Nessuna simpatia, da parte sua, nei confronti dello scatenamento delle paure o, simmetricamente, delle speranze irrazionali: anzitutto perché tale scatenamento in realtà è controproducente nei confronti dello stesso mantenimento in vita. Da un certo punto di vista la paura degli untori o la speranza dei credenti che chiedono e infine ottengono dal cardinal Federigo l’infausta processione12, rappresentano un analogo cedimento della razionalità (anche se Manzoni intende benissimo le istanze spirituali alla radice della richiesta popolare). Viceversa, le azioni di alcuni (pochi) illuminati nel corso dell’epidemia prendono atto dell’esigenza, anzitutto, di proteggere e isolare. Come dire che dal punto di vista dello scrittore cattolico l’uomo ha il ruolo di cooperare con la propria intelligenza all’opera della Provvidenza. Anche Boccaccio, da premesse assai diverse, mostrava la presa di 12 Per motivi evidenti Manzoni ha cura di evidenziare soprattutto i dubbi del suo personaggio preferito. Il punto è storicamente dibattuto, ma per noi non rilevante. 37 Antonio Allegra coscienza dell’efficacia di un’azione razionale di evitamento del rischio, senza ossessioni deleterie e anzi con una certa letizia. Epoche che avevano ben maggiore consuetudine della nostra con l’epidemia sembrano indicarci opzioni ancora valide. La distanza, dunque, è necessaria profilassi, ma sarebbe opportuno evitare che divenga una forma della malattia – una sorta di destino che ci portiamo dietro per incapacità di pensare alternative più esigenti. E lo spostamento online della vita rappresenta potenzialmente un punto di svolta dell’esperienza umana, il cui significato andrà monitorato senza pregiudizi ma con grande attenzione critica. 38 I narcisi mascherati, gli eroi e noi La parabola del selfie con la mascherina Antonio Santangelo Università di Torino We don’t know how to exist anymore without imagining ourselves as a picture Amelia Jones, Self/Image: Technology, Representation and the Contemporary Subject, Routledge, Taylor and Francis, London, 2006, P. XVII Il selfie al tempo del coronavirus Da quando la malattia respiratoria acuta da Sars-Cov-2, altrimenti detta Covid-19, è assurta all’onore della cronaca, prima per la sua diffusione in Cina e poi per il suo arrivo in Italia, è stata in grado di modificare la nostra vita a ogni livello, sociale e culturale. Tra i tanti cambiamenti che ha indotto, ha influito anche sul modo in cui rappresentiamo i nostri volti nei selfie, gli autoscatti fotografici che condividiamo sulle piattaforme digitali. Sono comparse, infatti, le mascherine, che un tempo vedevamo solo sul viso dei medici, di alcuni lavoratori specializzati o di qualche cittadino che intendeva proteggersi dall’inquinamento. All’inizio, si trattava delle fotografie – da molti considerate eccentriche1 – di vip costretti a viaggiare in aeroplano. Qualcuno, come Gwineth Paltrow, una nota star del cinema, si mostrava con la mascherina2 perché sosteneva di avere paura, dal momento che aveva già vissuto una situazione simile in un film3 sul tema della pandemia! Nel giro di poche settimane, però, la finzione si è tramutata in realtà. Anzi, per certi versi, la realtà si è rivelata peggiore. I media hanno cominciato a parlare della lotta in ospedale contro il virus come se fosse una guerra, mostrando i medici in prima linea come soldati al fronte. I loro camici e le loro tute sono diventati 1 https://www.agi.it/spettacolo/news/2020-02-28/coronavirus-belen-mascherine-vip-7253967/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 2 https://www.instagram.com/p/B9BxGPqFfpw/?utm_source=ig_embed&utm_campaign=loading (ultima consultazione 11 aprile 2020). 3 https://movieplayer.it/news/coronavirus-gwyneth-paltrow-selfie-mascherina-vissuto-film_77036/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 41 Antonio Santangelo divise, con tanto di caschi e di dispositivi per la protezione del volto. Così le mascherine, simbolo della resistenza eroica contro la malattia, della cura dei malati e dell’attenzione per la salute dei cittadini, sono finite nei selfie di governatori, presidenti e rappresentanti delle istituzioni, sempre pronti ad associare la propria immagine a tutto ciò che genera consenso4. Infine, trattandosi di barriere più o meno efficaci alla penetrazione del “nemico invisibile” nei nostri corpi, o alla fuoriuscita di quest’ultimo dalle nostre vie respiratorie, esse hanno cominciato a diffondersi nelle case di tutti. Per questa ragione, è diventato sempre più frequente vederle sul viso delle persone più vicine, nei loro autoscatti sui cosiddetti social network. Già da questa breve ricognizione, è evidente come l’andamento della storia del selfie con la mascherina assomigli a quello di una parabola, che si è sviluppata in parallelo con il cambiamento del significato di questo oggetto. In funzione, naturalmente, della penetrazione del virus nella nostra società e delle pratiche del suo utilizzo da parte delle persone, ma anche del condizionamento derivante dai discorsi che circolano e che hanno circolato sui media. Ciò che qui ci si prefigge, dunque, è rendere conto della repentina trasformazione del senso che ha assunto, nel giro di poche settimane, indossare questo strumento. Ma, soprattutto, si intende riflettere sul valore che la mascherina ha assunto nell’autorappresentazione delle persone, partendo dal presupposto 4 https://www.tgcom24.mediaset.it/politica/coronavirus-il-governatore-fontana-a-tgcom24-mascherina-e-quarantena-protocollo-non-una-scelta-personale_15592583-202002a.shtml (ultima consultazione 11 aprile 2020). 42 Volti Virali che, come suggeriscono molti studiosi5, quella del selfie è una vera e propria cultura, indice di modelli di pensiero e di comportamento di natura collettiva. Questo genere di immagini serve come una sorta di biglietto da visita con cui ci presentiamo nei consessi sociali, con il nostro volto, come sempre accade, a fare da metonimia, una parte di noi per il tutto. Capirne il significato vuol dire, in quest’ottica, comprendere meglio chi siamo e a quali meccanismi interpretativi facciamo ricorso, per trovare un senso a ciò che stiamo vivendo e, soprattutto, a ciò che stiamo diventando. La maschera del volto e lo sguardo di Eco6 Prima di addentrarsi nell’analisi di alcuni casi di studio significativi, può essere utile inquadrare il problema dei selfie da un punto di vista teorico. Molte discipline vi si sono dedicate, dalla psicologia alla sociologia, dall’antropologia alla semiotica, dall’estetica alla filosofia. Si può affermare che le posizioni nei confronti di questo doppio gesto – l’autoscatto e la sua condivisione – ondeggino tra due convinzioni antitetiche: da un lato ci sarebbe l’idea che mostrare il proprio volto per ottenere apprezzamenti – i famosi “like” su Facebook o i cuoricini su Instagram – sia un comportamento narcisi5 Si veda, a questo proposito, l’elenco degli autori citati nel libro di Ana Peraica, Culture of the selfie: self-representation in contemporary visual culture, Institute of Network Culture, Amsterdam, 2017. 6 Data la natura teorica di questo paragrafo, lo si può saltare, senza che ciò comprometta la comprensione del senso del resto di questo capitolo. La sua funzione consiste nel sostenere le conclusioni delle analisi che verranno esposte nei paragrafi successivi. 43 Antonio Santangelo stico7, dunque negativo, dall’altro ci sarebbe la convinzione che autoprodurre un’immagine che rinvii a noi, senza che quello che vi si scorge sia effettivamente il nostro viso – un po’ come la famosa pipa di Magritte8, pur assomigliando a una pipa, non è altro che la rappresentazione della nostra idea di che cos’è una pipa – sia un gesto di sperimentazione e di libertà, che può innescare diverse conseguenze positive, dal punto di vista psicologico, culturale e politico9. Come spesso avviene, quando nuove modalità di rappresentazione dell’umano si manifestano nel contesto mediatico, quasi sempre scalzando il predominio di chi prima era deputato a produrle, ci si trova di fronte a quella che Umberto Eco ha opportunamente inquadrato come la disputa tra “apocalittici e integrati”10: tra chi ritiene, cioè, che la novità debba essere guardata con serio interesse e analizzata allo stesso modo in cui si studiava ciò che l’aveva preceduta, e chi valuta invece di trovarsi di fronte a qualcosa di triviale e di massificato, dunque da stigmatizzare. Lo testimonia chiaramente Peraica, nel suo libro Culture of the selfie11. Questa autrice ricorda di essere stata fotografa, figlia e nipote di fotografi: professionisti un tempo riconosciuti come i più idonei a produrre le istantanee che le persone utilizzavano a 7 Si veda, per esempio, L. Buffardi e K. Campbell, Narcissism and social networking web sites, in “Personality and social psychology bullettin”, 34.10, 2008, pp. 1303-1314. 8 R. Magritte, Ceci n’est pas une pipe, 1928-29. 9 G. Lovink, Nichilismo digitale. L’altra faccia delle piattaforme, Bocconi Editore, Milano, 2019. 10 U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie della comunicazione di massa, Bompiani, Milano, 1964. 11 Op. Cit. 44 Volti Virali scopi sociali, per ricordare momenti significativi e condividere la propria immagine con qualcuno di importante. Ma la stessa studiosa sottolinea come, oggi, ognuno, a prescindere dalla propria competenza tecnica, estetica e comunicativa, possa realizzare da solo tutto questo, servendosi di un telefono cellulare e delle piattaforme cosiddette social. “Così è, se vi pare”, avrebbe forse affermato Pirandello, un autore che del resto si è rivelato molto attento ai cambiamenti di paradigma nella rappresentazione del mondo con l’avvento dei “nuovi media” del suo tempo12. Ma non a tutti piace ciò che sta accadendo. Il punto di partenza che accomuna le riflessioni di apocalittici e integrati su ciò che facciamo con i selfie sembra essere, comunque, il mito di Narciso13 che, come si sa, si strugge d’amore per la propria immagine riflessa in uno specchio d’acqua, fino a morirne, punito dalla dea Nemesi, sotto lo sguardo attonito della ninfa Eco, che lo ama a sua volta, senza essere ricambiata. Le interpretazioni che di questa storia sono state fornite nei più svariati ambiti sembrano cambiare in funzione del valore riconosciuto agli elementi che la costituiscono e, soprattutto, alla domanda se Narciso sia consapevole, come lo è chi lo osserva, di provare affezione non per sé stesso, ma per un’immagine, vale a dire per qualcosa che è altro da lui. La lettura psicoanalitica14, per esempio, sembre12 L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Feltrinelli, Milano, 2017. 13 Ovidio, Le metamorfosi, Cura e traduzione di Mario Scaffidi Abbate, Newton Compton, Milano, 2013. 14 S. Freud, Introductory lectures on psycho-analysis, pt. III, Hogarth Press and the Institute of Psycho-Analysis, 1963; E. Fromm, The heart of Man, Lantern Books, New York, 1964; C. Lasch, The Culture of Narcissism: American 45 Antonio Santangelo rebbe propendere per l’ipotesi dell’inconsapevolezza del protagonista di questa vicenda. Egli riterrebbe, infatti, di essere il proprio simulacro riflesso, tanto è vero che, in quest’ottica, il narcisismo sarebbe uno stato patologico in cui «si verifica un ritiro dagli investimenti libidici oggettuali e la libido viene reinvestita sull’Io»15. Da qui scaturirebbe la definizione del disturbo psichiatrico conseguente, quello delle persone che «tendono a esagerare le proprie capacità e i propri talenti, sono costantemente assorbite da fantasie di successo illimitato, manifestano un bisogno quasi esibizionistico di attenzione e di ammirazione. Incapaci di riconoscere e percepire i sentimenti degli altri, tendono a sfruttare il prossimo per raggiungere i propri scopi o per poter ingrandire sé stesse»16. Come anticipato, gli studiosi di media “apocalittici” collegano tutto questo a ciò che si fa coi selfie, poiché la condizione in cui si troverebbe chi comunica così sarebbe quella di chi ama solo la propria immagine, scambiandola per il proprio ego, e cerca conferme a livello sociale: relazionarsi col prossimo in questo modo attraverso i social network consisterebbe, dunque, nel trovarsi “insieme ma soli”17. Eppure, gli psicologi che studiano le nostre interazioni sul web hanno prodotto teorie che non consentirebbero di bollare così facilmente come narcisistica la cultura dei selfie. Turkle18, per esempio, sottolinea come, in fondo, le immagiLife in an Age of Diminishing Expectations, W. W. Norton & Company, New York and London, 1979. 15 http://www.treccani.it/enciclopedia/narcisismo/ (ultima consultazione 8 aprile 2020). 16 Ivi. 17 S. Turkle, Insieme ma soli, Codice Edizioni, Torino, 2012. 18 S. Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano, 2005. 46 Volti Virali ni che ci rappresentano e che condividiamo sulle piattaforme social non siano altro che maschere, strumenti attorno ai quali “giochiamo” a costruire una nostra identità sperimentale e, approfittando della distanza posta dallo schermo, valutiamo con benefico distacco l’effetto che tutto ciò produce sugli altri. Del resto, lo stretto rapporto tra il volto e la maschera, finalizzato a esprimere il ruolo che ognuno di noi intende impersonare nel mondo, viene preso in considerazione da tanta sociologia contemporanea, come nei famosi giochi di faccia di Goffman19, secondo cui la nostra vita sarebbe come una recita a soggetto su un palcoscenico, sulla scorta di canovacci codificati collettivamente e collegati, per l’appunto, alle maschere che intendiamo indossare. A questo proposito, le riflessioni più penetranti appaiono quelle di Belting20, il quale scrive che «il volto naturale è sempre pronto a farsi maschera: un volto di ruolo (Rollengesicht) garantisce identità sociale al riparo di una maschera. Questa maschera però deve apparire come il volto “autentico” e si genera, quindi, il paradosso per cui i volti dissimulano la loro simulazione»21. Del resto, l’etimologia del termine tedesco Gesicht (volto) chiarisce che «un Ge-sicht è tale se viene visto (gesehen) da qualcuno, cosa che vale anche per il greco pros-opon, che peraltro indica tanto il volto quanto la maschera»22. Prosopon significa infatti “volto visto”, oggetto dello sguardo, che sta “davanti agli occhi” e, allo stesso tem19 20 21 22 E. Goffman, Il rituale dell’interazione, Il Mulino, Bologna, 1988. H. Belting, Facce. Una storia del volto, Carocci, Roma, 2014. Ibid., pp. 36-37. Ibid., p. 30. 47 Antonio Santangelo po, “maschera teatrale”23, mentre in latino “maschera teatrale” si dice addirittura persona (contrapposto a facies, che indica il volto naturale), sollecitando riflessioni come quelle di Cicerone, che utilizzava questo termine per riferirsi alle persone in senso giuridico, come coloro che scelgono un ruolo nella vita e agiscono di conseguenza24. I teologi tardo-antichi, pur consapevoli della sua derivazione dal teatro, svincolarono il concetto di persona da questo ambito, collegandolo alla figura di Cristo, poiché per loro Gesù era una “maschera” che incarnava i due ruoli di uomo e di figlio di Dio25. Da quel momento, la maschera cominciò a essere interiorizzata dal volto26, che nella civiltà europea «assunse su di sé il carattere segnico che altre civiltà attribuivano alle maschere artefatte»27. Negli spettacoli, gli attori – proprio come si fa tutt’oggi – dovevano utilizzare la mimica del proprio viso, per riprodurre i “caratteri” che un tempo venivano rappresentati dalle maschere, mentre a partire dal rinascimento si cominciò a utilizzare il concetto romano di maschera, «giocando con l’idea di un sé autonomo che nella società non si era ancora potuto vivere e che non poteva essere vissuto in linea di principio»28. Gli umanisti «chiamarono in causa la maschera antica come ruolo vissuto che serviva alla stilizzazione del sé»29, poiché per loro era significativa l’opposizione tra «essere sé stessi e mostrare sé stessi, adeguandosi a un 23 24 25 26 27 28 29 Ibid., p. 68. Ibid., p. 70. Ibid., p. 71. Ibid., p. 72. Ivi. Ibid., p. 73. Ivi. 48 Volti Virali certo ruolo. Il vero sé poteva essere solo celato, e il volto divenne maschera a protezione del sé»30, come fu poi evidente nella società di corte dal Seicento in avanti, dove tutti, nella vita vera, recitavano una parte. L’illuminismo reagì a tutto questo, facendo appello all’importanza del volto naturale31, ma ormai le intersezioni semantiche tra il viso e la maschera si erano sedimentate, giungendo ai giorni nostri. Come si vede, Belting propende per un’inscindibile legame tra il concetto di sé, di cui il volto sarebbe espressione, e la maschera. Egli afferma che col volto si dà sempre nuova forma all’espressione di sé, tanto da domandarsi se esista un sé che non sia già immagine nel momento stesso in cui si esprime32. A questo proposito, egli cita Butler33, studiosa femminista, che parla di identità mutevole e multipla e sostiene, ancora una volta, che non c’è alcuna reale contraddizione tra il sé e la maschera, un fatto che può anche essere visto come liberatorio per tutte le donne e gli uomini che non intendono lasciarsi ingabbiare in definizioni stabilite a priori del proprio modo di essere. A questo proposito Lovink34, riprendendo un ragionamento di Dean35, arriva a sostenere che i selfie potrebbero appunto rappresentare, come anticipato, uno strumento di liberazione. In pratica, essi servirebbero a resistere alla spersonalizzazione della 30 Ivi. 31 Ibid., p. 83. 32 Ibid., p. 41. 33 J. Butler, Subjection, Resistance, Resignification. Between Freud and Foucault, in J. Rajchman (ed.), The Identity in Question, Routledge, New York, 1955, pp. 229-49. 34 Op. cit. 35 J. Dean, The communist horizon, Verso, London, 2012. 49 Antonio Santangelo società capitalista, che ci vorrebbe definire semplicemente come lavoratori o consumatori, incasellandoci in tipologie e classificazioni preconfezionate, buone per incanalare le nostre esistenze dentro un sistema politico-economico alienante. Le foto dei nostri volti sui social network, invece, ci consentirebbero di portare avanti la pratica del self design, costruendo la nostra identità insieme agli altri: consapevoli del loro sguardo, lo prenderemmo in carico in maniera dialogica, dando origine all’immagine di noi che ci scegliamo. Un’immagine, questa, dal grande valore sociale e culturale, che dovrebbe essere considerata un bene comune, da non lasciare nella disponibilità esclusiva di aziende private come Facebook o Google. Questo genere di argomentazioni richiama alla mente un altro tipo di interpretazione del mito di Narciso, vale a dire quella secondo cui quest’ultimo sarebbe consapevole di amare un’immagine. Questa lettura è molto rilevante, nell’ambito degli studi sui media, nel quale il tema della costruzione del sé o della ricerca di sé attraverso il rapporto con i propri simulacri è stato ampiamente approfondito36. Peraica imposta buona parte della sua analisi mediologica sul significato dei selfie proprio a partire da questa idea, facendo riferimento alle posizioni di Michel Foucault37 e 36 Per una posizione favorevole alla costruzione del sé attraverso i propri simulacri sui media, nello specifico sul web, si veda per esempio tutta la bibliografia contenuta in G. Di Fraia, a cura di, Blog-grafie. Identità narrative in rete, Guerini, Milano, 2007; per una posizione critica, J. Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Cappelli, Bologna, 1980. 37 M. Foucault, Culture of the self, Lectures at UC Berkeley, https://www. artandeducation.net/classroom/video/65885/michel-foucault-the-culture- 50 Volti Virali Marshall McLuhan38. Secondo il suo ragionamento, il problema che questi due autori si pongono è, ancora una volta, se Narciso sappia che quello riflesso nell’acqua è lui. Tutti e due sottolineerebbero che egli non si riconosce e si perde, mentre la ninfa Eco cerca di fargli ricordare chi è attraverso l’eco delle sue parole. Narciso, però, ama un’immagine che è altro da sé, quindi si aliena. Per Foucault, questo sarebbe un disordine mentale di cui il personaggio del mito è colpevole, perché fallisce nel conoscere sé stesso, dato che invece di guardarsi dentro o di lasciarsi guardare da fuori, egli si guarda fuori ma soggettivamente, solo dal suo punto di vista. Per McLuhan, invece, Narciso sarebbe incolpevole, perché è normale guardare sé stessi e il mondo attraverso i media: egli sarebbe vittima della “estrospezione” (“extraspection”, il contrario della introspezione), tipica della nostra società. Dietro le riflessioni di Belting, Turkle, Lovink e Dean da una parte, e quelle di Foucault e McLuhan dall’altra, c’è naturalmente la differenza tra chi ritiene che sappiamo che le nostre immagini “speculari” generate dai mezzi di comunicazione non rappresentano noi, ma una certa idea di noi che può diventare anche più vera del nostro volto naturale, in quanto letta e condivisa socialmente, e chi invece ritiene che l’immagine menta sempre, consentendoci al massimo di avvicinarci a una visione imperfetta di ciò che siamo. Alla of-the-self-part-1-of-5 (ultima consultazione 11 aprile 2020); M. Foucault, Technologies of the self, in Martin Luther H, H. Gutman and P. H. Hutton, eds, Technologies of the self: a seminar with Michel Foucault, Tavistock Publications (London) and the University of Massachussetts Press, Cambridge, 1988. 38 M. McLuhan, Understanding media. The extentions of man, Mc Graw Hill, New York, 1967. 51 Antonio Santangelo base di tutti questi ragionamenti, comunque, si manifesta un comune impianto logico: una sorta di triangolo, con ai vertici un soggetto (Narciso), la sua immagine osservata in uno specchio dal suo punto di vista fallace, e un terzo soggetto che lo guarda da fuori, il quale invece sa come stanno davvero le cose (la ninfa Eco). Tutto questo viene sanzionato da una quarta figura, la dea Nemesi. Schematizzare il mito di Narciso in questo modo, consente di portarlo nell’alveo della semiotica che Guido Ferraro definisce neoclassica39, con l’obiettivo di riflettere sul rapporto tra le cose o i fatti, che si trovano all’esterno, e le interpretazioni che ne forniamo, che sono invece dentro di noi, nei nostri sguardi. Questi sguardi, però, lungi dall’essere idiosincratici, sarebbero guidati da codici di lettura della realtà di natura condivisa, che ci consentirebbero di confezionare i segni e i discorsi con cui, per l’appunto, condividiamo la nostra visione del mondo. In questo senso, ciò che ci appare oggettivo sarebbe il frutto di un accordo soggettivo ma collettivo. Le varie letture delle vicende di Narciso, Eco e Nemesi potrebbero dunque essere inquadrate come ragionamenti sulla natura semiotica del nostro stare insieme, interagendo per costruire le nostre reciproche identità. L’immagine del protagonista di questa storia, riflessa nell’acqua, sarebbe dunque un segno iconico40 nel quale egli si specchia e di cui si innamora, perché si vede in una forma che trova bella. Ma 39 G. Ferraro, Fondamenti di Teoria Sociosemiotica. La prospettiva neoclassica, Aracne, Roma, 2012. 40 I segni iconici sono quelli che somigliano per analogia a ciò a cui si riferiscono. 52 Volti Virali il significato corretto di ciò che osserva non sarebbe quello che gli assegna lui, bensì quello che gli riconoscono gli altri, coi quali egli si rifiuta di confrontarsi. Questo mito, dunque, servirebbe per ricordare il funzionamento di alcuni meccanismi semiotici basilari del nostro stare insieme, ammonendoci sul fatto che noi siamo i segni che scegliamo per definire la nostra identità, ma questi segni devono prendere in carico la prospettiva di Eco, pena la nemesi. Secondo quest’ultima interpretazione, dunque, le immagini come i selfie non sarebbero altro che segni iconici che utilizziamo per costruire con gli altri un discorso su di noi e su ciò che riteniamo di essere. In questo senso, il fatto che, nella storia di Narciso, il nome che viene dato allo sguardo altrui sia “Eco” è davvero significativo, visto che, in fondo, ciò che speriamo, quando condividiamo i nostri autoscatti sui social network, è proprio che quanto stiamo affermando circa la nostra identità venga riconosciuto, apprezzato e diffuso sul web, per l’appunto come un’eco. La cultura dei “selfiesh”? Come si evince dalle riflessioni del paragrafo precedente, l’interpretazione del selfie come espressione di un narcisismo patologico coglie sicuramente un aspetto della cultura contemporanea, così incentrata sull’utilizzo massivo di questa modalità di comunicazione. Ma appare altrettanto, se non più interessante, l’idea per cui, coi selfie, costruiremmo e mostreremmo le maschere di quel grande spettacolo che recitiamo sul palcoscenico dei social network e nella vita di 53 Antonio Santangelo tutti i giorni, cercando l’approvazione del nostro “pubblico”. Insomma, secondo questo orientamento, i selfie saremmo noi, tutti noi, intenti a elaborare collettivamente non solo la nostra immagine individuale, ma anche quella – per così dire – dell’uomo del nostro tempo. Una rappresentazione davvero esemplare della contrapposizione di queste due teorie è stata fornita nei giorni iniziali della crisi legata alla Covid-19. In seguito alla fuga di notizie provocata dall’imminente pubblicazione del primo decreto restrittivo del governo italiano, volto a limitare la circolazione delle persone sul suolo nazionale, molti cittadini delle regioni del nord e del centro si sono affrettati a trasferirsi al sud, dove la diffusione del coronavirus, responsabile dell’insorgere della malattia, era decisamente inferiore e dove, con tutta probabilità, si trovavano i loro parenti più stretti. Il 9 marzo 2020, alcune testate giornalistiche41 hanno riportato la notizia del video postato su Instagram da due ragazze provenienti da Milano e Roma, metropoli molto colpite dalla Covid-19, che riprendevano i propri volti tirati a lucido per una serata di “movida” tra i locali affollati della città di Agrigento, dove si vantavano di essersi spostate, per fuggire la minaccia alla propria salute. A dire il vero, in quei giorni l’Organizzazione Mondiale della Sanità non aveva ancora dichiarato lo stato di pandemia globale. I media e le istituzioni, però, comunicavano da tempo che sarebbe stato consigliabi41 https://www.corriereagrigentino.it/2020/03/09/coronavirus-siamo-rientrate-dalla-zona-rossa-denunciate-due-ragazze-agrigentine/ oppure https:// www.tpi.it/cronaca/coronavirus-agrigento-video-virale-violazione-zone-rosse-20200309562339/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 54 Volti Virali le rimanere a casa, per evitare gli assembramenti e il contatto con altre persone, che avrebbero aumentato il rischio di contagio. Ma si appellavano alla responsabilità dei cittadini, sperando che ognuno, liberamente, avrebbe dimostrato senso civico. L’obiettivo era di aiutare i medici nella lotta per frenare i decessi e guarire i malati, che si affastellavano in maniera preoccupante nelle corsie degli ospedali. Purtroppo, il video-selfie delle due ragazze di Agrigento dimostrava simbolicamente che, nella società, era ancora decisamente presente quel modello culturale edonistico, tipico della quotidianità di molti prima dell’avvento della crisi, che di lì a poco si sarebbe rivelato tristemente superato. Ma loro, come del resto tanti uomini, continuavano a utilizzarlo, abituate ad autorappresentarsi così: come donne avvenenti, giovani, libere, felici, circondate dal calore e dall’ammirazione di persone come loro, in un mondo progettato per favorire un’esistenza improntata a questi valori. Fino a qualche tempo prima, un’immagine simile avrebbe prodotto apprezzamenti e si sarebbe connotata come una delle tante presenti sui social network. Purtroppo, però, in questa occasione, il biasimo si è rivelato unanime. Per comprenderne le ragioni, è sufficiente procurarsi, sul web, gli articoli di tante testate giornalistiche che in quel periodo diffondevano discorsi derivanti da un nuovo modello culturale: quello che, di lì a poco, avrebbe stabilito il senso di ogni nostra attività, nell’epoca della convivenza coatta con il coronavirus. I giornalisti42, ma anche i ministri dello Sta42 Si veda, per esempio: https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/coronavirus_a_napoli_e_in_italia-5099282.html (ultima consultazione 11 aprile 2020). 55 Antonio Santangelo to43, stigmatizzavano i comportamenti di chi continuava ad assembrarsi nei locali notturni, festeggiando come se nulla fosse. Poiché la Covid-19 colpiva di più gli anziani, le accuse – a dire il vero indirizzate a tutti gli italiani, che sembravano incapaci di rispettare le regole imposte dalle autorità44 – cadevano soprattutto sui giovani, tacciati di egoismo e individuati come il simbolo del fallimento di un intero sistema culturale ed educativo45. Naturalmente, veniva utilizzata anche l’interpretazione dei selfie come indice di un atteggiamento narcisistico, dunque chiuso ed egocentrico46, tracciando il solco tra generazioni di adulti comunque colpevoli e ragazzi che, con un gioco di parole non particolarmente originale47, si sarebbero potuti definire “selfiesh”48. Eppure, il 10 marzo 2020, il giorno dopo la pubblicazione del video-selfie delle due ragazze di Agrigento, un altro selfie ha cominciato a circolare insistentemente sui giornali, quello di una giovane infermiera residente nel nord Italia, da poco assunta in un ospedale, nel quale combatteva la sua battaglia contro il coronavirus49. Il suo volto, bello come quello di tan43 https://www.ilmessaggero.it/italia/coronavirus_lamorgese_movida-5101119.html (ultima consultazione 11 aprile 2020). 44 https://time.com/5800605/coronavirus-lockdown-covid-19-italy/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 45 https://www.orizzontescuola.it/coronavirus-per-i-ragazzi-e-il-momento-di-diventare-responsabili-lettera/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 46 https://www.leurispes.it/giovani-individualisti-e-onnipotenti-ecco-perche-tra-generazioni-si-e-aperta-una-faglia-parte-ii/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 47 Lo aveva già utilizzato Kim Kardashian, nota star televisiva americana e idolo delle giovani generazioni, per il suo libro intitolato Selfish, per l’appunto una raccolta dei suoi selfie. 48 Una crasi tra le parole selfie e selfish, che in inglese vuol dire “egoista”. 49 https://www.instagram.com/p/B9gmYPLJFt_/ 56 Volti Virali te sue coetanee, portava i segni della stanchezza, ma soprattutto i lividi e le abrasioni prodotti dall’utilizzo di mascherine e occhiali speciali, necessari per proteggersi e compiere il proprio lavoro in sicurezza. Era come se questa donna portasse impresse le ferite riportate sul campo e la sua immagine non avrebbe potuto stridere di più, rispetto a quella di chi continuava a divertirsi, come se nulla di così drammatico stesse accadendo. Sbirciando tra le fotografie del suo profilo Instagram, però, si sarebbe facilmente potuto notare che la vita precedente di questa persona appariva altrettanto piacevole quanto quella di chiunque. Anche lei si era truccata, si era fatta bella, era andata alle feste con gli amici. Ma, in quel momento storico, faceva la sua parte e pregava tutti di rimanere a casa, seguendo le indicazioni fornite dal governo. Evidentemente, le emozioni suscitate da questo selfie sono state ispirate dal riconoscimento della modalità del dovere, inteso come l’unica logica funzionale per affrontare la crisi. L’altruismo, l’abnegazione, la cura, il rispetto delle regole, si basano sull’osservanza di un certo dovere morale. Ma i modelli culturali più diffusi, prima dell’avvento del coronavirus, privilegiavano il volere, declinato nelle varie forme di libertà individuale che le persone stentavano a comprendere di non poter più perseguire. Presto, le riflessioni suscitate dal confronto tra i due selfie di cui si sta discutendo si sarebbero spostate su livelli molto più generali, perché con le misure restrittive prese dal governo italiano e poi da tutti gli Stati colpiti dall’emergenza Covid-19, ci si sarebbe cominciati a chiedere se le democrazie liberali siano in grado di affrontare efficacemente le pandemie. Ma questo discorso esula dal 57 Antonio Santangelo significato che è stato attribuito, lì per lì, alle immagini dei volti di queste tre ragazze. È evidente, però, che le reazioni che hanno suscitato si sono concentrate sul tema dell’identità, non solo di coloro che si rappresentavano così, tacciate di essere stupide egoiste o riconosciute come eroine, ma anche del loro pubblico, che si è diviso tra chi ha difeso un certo modo di fare società che veniva messo in discussione, e chi ha capito che il mondo stava davvero cambiando. Il simbolo di tutto questo è diventata una mascherina, che in quel momento non si vedeva ancora sul volto della giovane infermiera, si intuiva solamente, ma ben presto avrebbe cominciato a comparire sul viso di tutti. Naturalmente, anche nei selfie. La mascherina del potere Tra i più rapidi a rendersi conto del profondo significato che, con la comparsa della Covid-19, stava assumendo la decisione di mostrarsi pubblicamente con una mascherina sul volto, sono stati i politici. Il primo, in Italia, a sperimentarne l’effetto, è stato il leghista Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia, che ne ha indossata una il 26 febbraio 2020, al termine di un video caricato sulla sua pagina Facebook50. Il messaggio era costruito per dire ai cittadini che nonostante una sua stretta collaboratrice fosse stata trovata positiva al coronavirus e lui si fosse chiuso in quarantena nel proprio ufficio, per non mettere a repentaglio la famiglia, ma soprattutto per non abbandonare il lavoro in quei giorni 50 https://www.facebook.com/fontanaufficiale/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 58 Volti Virali così drammatici, stava bene e continuava a fare il suo dovere. Così, al termine della comunicazione, con un coup de theatre, Fontana prendeva una mascherina dal fuori campo e se la metteva un po’ goffamente sul viso, rassicurando il suo pubblico sul fatto che sarebbe andato tutto bene51. Questa immagine, esteticamente simile a un selfie, ha subito fatto il giro del mondo52. In quel periodo, i media avevano appena cominciato a parlare della comparsa della Covid-19 in Italia e la reazione della maggior parte dei commentatori, dai giornalisti ai politici – addirittura alcuni dello stesso partito di Fontana –, ma anche quella dei normali utenti dei social network, si è dimostrata subito negativa53. Il problema, secondo i critici, era che mostrare un alto rappresentante delle istituzioni con la mascherina modificava la percezione della gravità della situazione, in un momento in cui nessuno, se non i medici e qualche cittadino apprensivo la vestiva, mentre tutte le autorità – comprese quelle sanitarie, che non la ritenevano un presidio efficace quanto il distanziamento fisico – cercavano di non diffondere il panico nella popolazione. Il Sole 24 Ore, per esempio, titolava così: «Dal “basta panico” di Conte alla mascherina di Fontana, la politica va in tilt sul coronavirus. 51 Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=hLzsyzjb1gA 52 https://www.nextquotidiano.it/mascherina-di-fontana-allestero/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 53 https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2020/02/28/la-polemica-sul-governatore-pd-e-5stelle-gesto-dannoso-zaia-foto10.html?ref=search (ultima consultazione 11 aprile 2020). Ma si veda anche un articolo di un giornale più vicino alla fazione politica di Fontana: https://www.ilgiornale.it/news/politica/fontana-mascherina-ora-diventa-caso-politico-1833059.html (ultima consultazione 11 aprile 2020). 59 Antonio Santangelo In pochi giorni siamo passati dagli appelli anti-psicosi del governo al video allarmistico del presidente della Regione Lombardia»54. In pratica, chi doveva proteggere tutti non poteva mostrarsi indifeso. I rappresentanti del potere non potevano apparire impotenti di fronte al contagio, tant’è che né il presidente del consiglio dei ministri, né tantomeno il presidente della repubblica, che qualche giorno dopo si sarebbe rivolto in televisione agli italiani per la prima volta dall’inizio della crisi, avrebbero pensato di coprire il proprio viso. A conferma del fatto che, come si è scritto nei paragrafi precedenti, tra volto e maschera c’è da sempre continuità, molti commenti al video di Fontana si sono soffermati proprio sulla sua natura di “mascherata”55. C’è da considerare, del resto, che già Hobbes evidenziava come persona in latino significhi travestimento o l’apparenza esterna di un uomo, truccato sul palcoscenico. Dunque, anche chi tiene un discorso o si mostra in pubblico può essere reputato un attore, benché non calchi la scena del teatro. Hobbes distingueva, al proposito, tra “persone naturali”, che rappresentano sé stesse, e “persone artificiali”, che possono essere sia attori, sia qualcuno che rappresenta pubblicamente, con il proprio corpo e con la propria voce, la collettività56. Per questo può accadere, come ricorda Belting, proprio riprendendo il pen54 https://www.ilsole24ore.com/art/dal-basta-panico-conte-mascherina-fontana-politica-va-tilt-coronavirus-ACvKWaMB (ultima consultazione 11 aprile 2020). 55 Per esempio: https://twitter.com/hashtag/Fontana?src=hashtag_click (ultima consultazione 11 aprile 2020) 56 T. Hobbes, Leviatano (1651), trad. it. di G. Micheli, introduzione di C. Galli, Rizzoli, Milano, 2011, p. 168. 60 Volti Virali siero del filosofo inglese, che «un gruppo (multitude) di uomini diventi una persona singola, quando è rappresentato da un singolo uomo»57. Una persona singola che, naturalmente, può essere un rappresentante dello Stato. Affinché tutto ciò si verifichi, secondo Hobbes, è necessario che venga stipulato un contratto, il famoso contratto sociale. Concetti molto simili vengono espressi, in ambito semiotico, in diversi studi sulla comunicazione politica58, dove si evidenzia come i rappresentanti del popolo contemporanei tentino, appunto, di stipulare delle sorte di contratti comunicativi coi propri elettori, cercando di diventare una “unità integrale”, un “corpo unico” con loro, sulla base della condivisione di un sistema di valori comune. Sono questi valori, che si esprimono metaforicamente nelle immagini e nei volti dei politici, a determinare l’identità di questi ultimi e di chi li vota. Ma quali erano, allora, i valori racchiusi nel viso con la mascherina di Attilio Fontana? Il primo collegamento da operare, per rispondere a questa domanda, è sicuramente al ruolo giocato dai medici nelle narrazioni della crisi che già nei primi giorni dell’avvento della Covid-19 circolavano sui media. Essi, infatti, venivano rappresentati come i veri eroi delle istituzioni, soldati al fronte pronti a immolarsi – anche a costo di contrarre la malattia – per salvare i cittadini. Anche il presidente della Re57 Belting, op. cit., p. 43. 58 E. Landowski, La società riflessa. Saggi di sociosemiotica, Meltemi, Roma, 1999; G. Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Einaudi, Torino, 2001; A. Santangelo, L’agentività dell’immagine dei politici. Riflessioni semiotiche sulla campagna di Matteo Renzi per le elezioni primarie del candidato premier del Partito Democratico alle politiche del 2013, in Lexia 17/18, Aracne, Roma, 2014. 61 Antonio Santangelo gione Lombardia, dunque, che era in quarantena e rischiava di ammalarsi, voleva assimilare la propria immagine alla loro figura, mostrando lo stesso coraggio e lo stesso spirito di abnegazione nell’affrontare la battaglia contro il virus. Il coronavirus, inoltre, veniva descritto da molti come il frutto avvelenato della globalizzazione59. Esso, infatti, proveniva dalla Cina, dunque da un “altrove” lontano, spesso rappresentato nelle narrazioni cosiddette “sovraniste”, a cui il partito di Fontana, la Lega Nord, faceva da tempo ricorso per costruire il proprio consenso, come il luogo in cui vivevano i nemici del popolo italiano, quelli che gli sottraevano ricchezza e lavoro. Ecco, dunque, che combattere la battaglia contro il “virus cinese”, come di lì a poco lo avrebbe soprannominato un leader populista come il presidente americano Trump, non poteva che accrescere il prestigio dello stesso Fontana agli occhi dei propri elettori60. Infine, era evidente come il presidente della Regione Lombardia volesse differenziare la propria immagine da quella dell’altro personaggio politico che, in quei giorni, monopolizzava l’attenzione dei media, vale a dire Giuseppe Conte, il presidente del consiglio italiano, leader di una coalizione avversa. Conte, infatti, come anticipato, non si presentava mai davanti alle telecamere con la mascherina. Dunque, vestire questo indumento così tipico di chi si prendeva cura per davvero delle persone, avrebbe 59 Si veda, per esempio: https://www.laragnatelanews.it/attualita/il-coronavirus-e-colpa-della-globalizzazione/61492.html (ultima consultazione 11 aprile 2020). 60 Questa assimilazione della figura di Fontana a Trump era stata operata da molti. Si veda, per esempio: https://www.fanpage.it/cultura/coronavirus-sul-new-yorker-trump-con-la-mascherina-come-attilio-fontana/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 62 Volti Virali significato mostrarsi più vicino di lui alla gente. Insomma: da sempre, filosofi e artisti si sono cimentati nel descrivere o rappresentare le caratteristiche della “maschera del potere”. Con l’avvento del coronavirus nelle nostre società, si è aggiunta una nuova figura di cui tenere conto: la mascherina del potere. La mascherina siamo noi Nel giro di poche settimane dall’inizio del contagio, comunque, una polemica come quella suscitata dal video di Attilio Fontana non si sarebbe più potuta sollevare, visto il repentino cambiamento del significato della mascherina nel discorso mediatico61. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cominciato a sostenere che alcuni autorevoli studi scientifici ne riconoscevano la necessità, per fermare la diffusione del coronavirus anche nei luoghi pubblici, dove prima sembrava fosse sufficiente il distanziamento fisico tra le persone. Tutti, quindi, anche i più reticenti, sono corsi ai ripari e mille rimostranze si sono sollevate, per via dell’irreperibilità di questo genere di prodotti. Le persone hanno cominciato a riconoscere le differenze tra le mascherine chirurgiche, le Montrasio, le ffp2 e le ffp3, alcune definite “altruiste”, perché pensate per impedire al virus di uscire dalle vie respiratorie, ma incapaci di sbarrargli l’entrata, e altre definite “egoiste”, perché progettate esattamente al contrario62. Come è facile immaginare, 61 Si veda, per esempio: https://www.ilsole24ore.com/art/perche-stiamo-andando-l-obbligo-mascherine-ADpExyH (ultima consultazione 11 aprile 2020). 62 https://www.ilcentro.it/attualit%C3%A0/mascherine-egoiste-ed-altruiste-i-consigli-del-chirurgo-video-1.2398905 (Ultima consultazione 11 aprile 2020). 63 Antonio Santangelo questi oggetti hanno fatto irruzione nella vita quotidiana di chiunque e, di conseguenza, anche nella sfera dei selfie, modificando ancora una volta il senso di queste immagini. Una vignetta di Bucchi sul numero del 27 marzo 2020 del quotidiano La Repubblica, intitolata “L’identità generale”, con due immagini di un uomo con la mascherina, raffigurato frontalmente e di profilo, come nelle foto di una carta d’identità, ha rappresentato molto bene la nuova situazione: ormai era giunto il momento di cominciare a concepire la mascherina come parte integrante del proprio volto. Come spesso accade, gli artisti sono tra i primi a comprendere le nuove tendenze e il disegnatore appena citato arrivava dopo gli street artist che avevano rivisitato dipinti famosi come Il bacio di Hayez o la Gioconda di Leonardo Da Vinci, coprendo il viso dei rispettivi soggetti con delle mascherine63. Oppure, ancora, Bucchi giungeva dopo l’esperimento di due fotografe italiane, che avevano raccolto sui propri profili social i selfie spontaneamente inviati da persone comuni, che si rappresentavano con le loro mascherine più o meno improvvisate, sul luogo di lavoro, a casa, in mezzo alla natura, da sole, insieme, mentre abbracciavano i figli, sedute sul divano a distanza di sicurezza dai propri cari, eccetera64. Qualcuno personalizzava la propria mascherina disegnandovi qualcosa. Qualcun altro, scherzosamente, utilizzava la sua lunga barba da hipster, rivoltandola e coprendosi così la bocca e il naso. Proprio quest’ultimo esempio dimostra che le persone ormai capivano che la mascherina, purtroppo, 63 https://www.open.online/2020/03/07/coronavirus-la-gioconda-con-la-maschera-arriva-a-milano/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 64 https://www.instagram.com/stories/highlights/17847559636994990/?hl=it (ultima consultazione 11 aprile 2020). 64 Volti Virali stava diventando parte integrante del loro volto e che, siccome il loro viso, come sempre, rappresentava la loro identità, allora anche quell’oggetto, come avviene con qualunque altro capo di vestiario, giocava un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine di sé che desideravano comunicare agli altri. Volendo un po’ semplificare, si sarebbe potuto affermare qualcosa come: dimmi che mascherina hai e ti dirò chi sei. Un modo di ragionare molto comune nel mondo della moda. Non è un caso, infatti, che tra i primi a capire il cambiamento del significato della mascherina e la necessità di personalizzarne l’utilizzo per parlare di sé siano stati proprio gli influencer65, quei personaggi che generano o contribuiscono a consolidare le tendenze sui social network, guadagnando attraverso il passaparola e la diffusione dei propri selfie. Alcuni, in maniera sprezzante, hanno cominciato a vantarsi di essere pagati profumatamente per vestire mascherine griffate66, andando incontro alle critiche feroci di chi ha fatto loro notare come ci fossero medici e malati che morivano, negli ospedali, anche per colpa della mancanza di questi presidi sanitari67. Altri, semplicemente, si sono industriati per inventare le mascherine più fantasiose ed eccentriche, allo scopo di trovare quella che più li rappresentasse e li differenziasse dalla gente comune. 65 https://www.ilprimatonazionale.it/spettacolo-2/coronavirus-influencer-selfie-mascherine-145952/ (ultima consultazione 11 aprile 2020). 66 https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/chiara-biasi-selfie-mascherina-scatena-hater-pensi-solo-1839584.html (ultima consultazione 11 aprile 2020). 67 https://messaggeroveneto.gelocal.it/tempo-libero/2020/03/10/news/ vi-fate-i-selfie-in-mascherina-e-noi-malati-non-le-troviamo-1.38577625 (ultima consultazione 11 aprile 2020). 65 Antonio Santangelo Al di là del lato frivolo della questione, questi individui hanno messo in evidenza un problema che pare delinearsi all’orizzonte per il futuro prossimo: il fatto che ormai, per dirla con uno slogan, almeno fino a quando non si troverà un vaccino contro il coronavirus, la mascherina saremo noi e quella che sceglieremo di indossare contribuirà decisamente a costruire non solo la nostra immagine e la nostra identità, ma anche quella collettiva, di tutti coloro che, come i fan adoranti degli influencer, rivestiranno il ruolo della ninfa Eco nel mito di Narciso. Sceglieremo di rilanciare l’immagine di chi veste la mascherina “egoista” o quella “altruista”? Criticheremo o stigmatizzeremo qualcuno perché la sua mascherina denota le sue capacità di spesa? Emargineremo qualcuno in funzione della sua mascherina, oppure perché non la porta? Alcune di queste sono anche questioni politiche, tanto è vero che proprio un politico italiano, all’inizio della crisi pandemica in Italia, si è presentato con una maschera a forma di cervello sul volto, invitando tutti a riflettere bene su ciò che sta accadendo. Sicuramente è un buon consiglio. 66 Facepalm Semiotica epifacciale della frustrazione Gabriele Marino Università di Torino . Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. È come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole. Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, 1977 Introduzione: la mano sulla faccia Il tredicesimo episodio della terza stagione di Star Trek: The Next Generation, intitolato Déjà Q, viene trasmesso per la prima volta negli Stati Uniti il 5 febbraio 1990. La trama è la solita: l’equipaggio dell’Enterprise deve affrontare un problema (una luna rischia di fuoriuscire dalla sua orbita), la cui soluzione è complicata da un imprevisto: la ricomparsa improvvisa (la situazione “rivissuta” cui il titolo della puntata allude) di un vecchio nemico, chiamato Q. Déjà Q non è passato alla storia, anche se alla storia ha consegnato, per gli strani meccanismi di Internet, un momento, un fotogramma cult. Persuasosi a malincuore che non gli resta che aiutare la sua nemesi (“In tutto l’universo, sei la cosa più vicina a un amico che mi resta, Jean–Luc”, gli dice a sorpresa Q), il capitano Picard (interpretato da Patrick Stewart), seduto alla sua poltrona, gambe accavallate, gomiti sui braccioli, reclina leggermente il capo in avanti e, pollice sulla tempia, si copre con le altre dita della mano gli occhi, chiusi, il naso e parte della bocca, anch’essa chiusa in un broncio (Fig. 1). Questo gesto — la mano sulla faccia a coprire gli occhi — esiste ed è oggetto di rappresentazione chiaramente da prima di Star Trek (si pensi, per esempio, alla scultura di Vidal Caino, ospitata alle Tuileries dal 1896) e pare non essere neppure esclusivo della specie umana (è attestato presso i mandrilli)1, ma ha ricevuto un nome tutto suo, secondo l’Oxford 1 Si veda Laidre (2011). 69 Gabriele Marino English Dictionary2, solamente attorno al 1996, su Usenet (lo stesso precursore dei più moderni forum su cui, nel 1982, erano nate le emoticon)3: facepalm, neologismo intraducibile in italiano. Di tutti i facepalm che circolano su Internet (e sono molti), il più celebre è proprio quello del capitano Picard, che anzi ne rappresenta quasi certamente il prototipo: è diventato un meme, ma uno di quei meme che restano, che si cristallizzano, che finiscono per rientrare a tutti gli effetti nei nostri abiti linguistici4. Il facepalm di Picard è diventato un classico di Internet, come è accaduto a molti volti più o meno stilizzati (quelli di Nicolas Cage, Jackie Chan, Barney Stinson, Obama, D’Alema, Willy Wonka, le rage faces di 4chan ecc.), in virtù della sua sintesi espressiva, della sua capacità di catturare in una configurazione essenziale, economica un intero stato patemico, inserendosi in quel processo di “scritturizzazione del volto” già pionierizzato dalle emoticon (e dalle emoji): ormai del tutto inglobate nell’alfabeto della comunicazione, quantomeno di quella informale (laddove la comunicazione tutta partecipa di un processo di progressiva informalizzazione). Il facepalm ci interessa per almeno tre motivi: è un meme; la nostra cultura lo categorizza come gesto indice di frustrazione; ci mostra un volto, ma non soltanto quello. 2 oed.com/view/Entry/77145242 (accesso riservato agli iscritti al sistema bibliotecario britannico). 3 Per un’introduzione alla semiotica delle emoticon si vedano Marino (2015) e Danesi (2016). 4 Un primo video con la scena è stato caricato su YouTube nel 2007 (youtu. be/x012BnKWi3g?t=61). Si veda anche la scheda del sito Know Your Meme (knowyourmeme.com) dedicata al “Facepalm” (bit.ly/knowyourmeme-facepalm). 70 Volti Virali Man mano che la frustrazione cresce Ogni ondata discorsiva, e specialmente quelle di particolare invasività e pervasività (si parla di viralità), genera meme — ne è accompagnata a mo’ di chiosa ludica, ironica e parodica — e si inserisce, ridisegnandolo a propria immagine, in un bacino architestuale. In altri termini, i meme che scaturiscono, che parlano di un dato fenomeno possono creare occorrenze (token) di tipi (type) nuovi, ancora da stabilire, ma riprendono e adattano anche formati pre–esistenti, piegandoli al nuovo contenuto di cui devono essere il veicolo. È accaduto lo stesso, in maniera macroscopica (perché stavolta non si parlava e parla d’altro non solo in Italia o in Europa, ma in tutto il mondo), con i meme sul Coronavirus: testi, immagini o video “buffi” che usiamo per parlare di noi stessi con la scusa di parlare di quello che succedde nella sfera pubblica, che continuiamo a produrre nonostante il momento che stiamo attraversando e, anzi, proprio per attraversarlo, per fronteggiarlo, sforzandoci di sorridere “nonostante tutto”5. Non tanto il virus in sé, quanto più precisamente il discorso del virus e quindi la nostra ossessione per esso sono stati a uno stesso tempo oggetto e veicolo di una tematizzazione sistematica: vecchi meme sono stati rifunzionalizzati e risemantizzati, certamente per parlare del virus, ma anche per parlare degli stessi meme6. 5 Ne parlo in Marino (2020b; una versione leggermente differente del testo è in corso di pubblicazione — con il medesimo titolo, Il sorriso di Kanye West — anche sul sito “Doppiozero”, doppiozero.com). Il mio più recente contributo di taglio scientifico sui meme è Marino (2020a). 6 Sulla nozione di discorso: per la semiotica (e più precisamente per la sociosemiotica che si è imposta a partire dagli anni Ottanta del Novecento), un dato oggetto, un dato fenomeno non si dà mai “in sé e per sé”, ma sempre in rela- 71 Gabriele Marino La quarantena ha riconfigurato, bricolato con violenza corpi, spazi, tempi, regimi di senso. Non è insensato immaginare che il prossimo congresso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, tema — involontariamente profetico — il turismo, sarà una rassegna di studi non sul “viaggio di piacere” ma sul suo contrario, la reclusione domestica, microstanzialità coatta. Sarà, se si farà. Siamo tutti chiusi a casa e cerchiamo tutti, ciascuno con i propri mezzi, di capirci qualcosa. Non avendo mai vissuto una situazione del genere, ricorriamo all’unico quadro interpretativo che abbiamo a portata di mano, quello offerto dall’immaginario: musicale, letterario, fumettistico, cinematografico, bignamizzato nel gioco delle playlist social con particolare predilezione per il cinema fantascientifico catastrofico, post–apocalittico e distopico7. Siamo assillati e assediati: dai numeri, dai dati, dai bollettini, dalle mappe, dai grafici (e dalle loro curve mai abbastanza piatte), dai decreti (e dalle loro idiosincratiche interpretazioni). Di informazioni, strillate (nonostante gli appelli antiallarmismo e antipanico), ne abbiamo decisamente troppe e allora proliferano soprattutto i commenti, i corsivi, le opinioni, più o meno “degli esperti”, che su queste informazioni si innestano, si appolipano, cercando zione alle parole che, accompagnandolo, di fatto lo determinano, definendone e ridefinendone i confini, negoziandone e rinegoziandone i significati. Un virus non è soltanto “un’entità biologica con caratteristiche di parassita obbligato”, ma anche il modo in cui un dato contesto socioculturale lo concepisce, connota e valorizza. Il Coronavirus non è soltanto un virus, ma una pandemia, la quarantena, il lockdown, il distanziamento sociale, le mascherine ecc. 7 A tale proposito si veda la videopillola realizzata da Bruno Surace — che ringrazio per avere letto e commentato una prima versione di questo testo — nell’ambito del progetto FACETS: youtu.be/C9Ivb_ehMhI. 72 Volti Virali di sintetizzarle, inquadrarle, chiosarle, interpretarle, spesso forzandole, facendo dire loro più di quanto non possano dire. Più passa il tempo, più proliferano i pronostici, le previsioni, le profezie (genere testuale particolarmente fortunato in tempi difficili). Dobbiamo aspettare, avere pazienza. Sembrava solo un momento, è già diventato un periodo: una nuova età dell’ansia, una guerra fredda (nonostante i tepori primaverili), fatta di stasi, silenzio (dopo la breve fase dei flash mob musicali sui balconi) e logoramento8. In giornate tutte uguali in cui ogni microvariazione diventa evento, il tempo si distorce: i giorni sono infinite e velocissime domeniche lavorative, semplici pause tra un’insonnia e l’altra. Abbiamo bisogno in tutti i modi di uscire — sicuramente di casa e più in generale — dal presente (“#iorestoacasa”, “approfittiamo della situazione per fare introspezione” o “per ripensare il nostro sistema di vita”) e siamo protesi tra il vagheggiamento di un passato recentissimo che sembra remoto (“ti ricordi com’era bello, tutti pigiati nella metro”) e quello di un futuro che aneliamo come prossimo ma non sappiamo esattamente quando comincerà (“torneremo alla normalità”, “cambierà tutto”, “dobbiamo abituarci alle mascherine come in Giappone e Cina”). 8 Il ricorso alla metafora della guerra, abusata dai media ma utilizzata anche nel discorso comune e dagli stessi contagiati, è stato aspramente criticato da molti giornalisti (Daniele Cassandro, “Internazionale”, 22 marzo 2020), esperti della comunicazione (Annamaria Testa, sempre “Internazionale”, 26 marzo) e commentatori (il filosofo Umberto Galimberti, “RaiNews”, 7 aprile), ricorrendo a Lakoff e Johnson (Metaphors we live by, 1980) e Susan Sontag (Illness as metaphor, 1978 e AIDS and its metaphors, 1989). Su questo accanimento anti–metaforico, meccanicistico e riduzionista, la semiotica avrebbe, a mio avviso, almeno qualcosa da (ri)dire. 73 Gabriele Marino In una parola: siamo colmi di frustrazione. E così il meme del facepalm, categorizzato nella nostra cultura come figura di questo stato passionale9, è diventato un potente metameme: un meme che, parlando del Coronavirus, ci parla anche dei meme stessi. Il facepalm ci ha mostrato come — per dirla con Flaiano — la situazione sia certamente grave, ma forse poi non così seria (Fig. 2): è stato usato per minimizzare, ridicolizzando la reazione italiana ai primi casi di contagio (Fig. 3); si è equipaggiato anche lui della sua bella mascherina (Fig. 4); modificandosi radicalmente, ci ha ricordato che non dobbiamo contaminare il volto con le mani (Fig. 5; costringendo Slavoj Žižek a trattenere almeno in parte i suoi iconici tic, Fig. 6)10. Addirittura raddoppiato (double facepalm), ci ha fatto venire il sospetto che di meme sul Coronavirus se ne stavano facendo pure troppi (Fig. 7). Dalla faccia alle mani (passando per il volto) Il facepalm ci mostra anche come alla passione della frustrazione partecipi, in un gesto così profondamente codificato da essere diventato la parodia di una codifica, ossia un cliché (non solo somatico, ma anche di Internet), il corpo intero: il volto è un potente catalizzatore, ma deve questa sua capaci9 Si veda Wikipedia: en.wikipedia.org/wiki/Facepalm#Popular_culture. 10 Non è un facepalm, ma semmai un contenuto che il facepalm elicita, il brevissimo video, diventato virale, in cui Sara Cody, capo dell’Ufficio Salute di Santa Clara, California, lecca il dito per voltare pagina, proprio mentre sta leggendo un comunicato sulle buone pratiche anti–Coronavirus: “Today, start working on not touching your face because one main way viruses spread is when you touch your own mouth, nose or eyes” (Reuters, 6 marzo 2020, youtu. be/AL9ru777zBI). 74 Volti Virali tà di comunicazione e più in generale significazione (anche quando è parzialmente negato o del tutto assente), al macrotesto di cui fa parte e a cui, metonimicamente, rinvia11. Se la semiotica sa che il senso è sempre relazionale, sa anche che il suo oggetto di studio è sempre mobile, come le prospettive emiche entro le quali deve calarsi senza sposarle mai. È celebre l’aneddoto, riportato da Roman Jakobson12, in cui un missionario che rimproverava alcuni indigeni per la loro nudità si era sentito rispondere che anche lui era nudo, perché aveva il volto scoperto, e che loro nudi non erano, perché per loro tutto il corpo era volto. In altri termini, studiare il volto, costrutto socioculturale, non significa studiare la faccia, supposto dato percettivo–biologico, perimetro e superficie di pelle delimitato dalla parte anteriore del capo, né tantomeno vuole dire studiarlo soltanto sub specie visiva13. Il volto, punta di quell’iceberg che è il corpo (che gli sta attaccato e che, grazie alle braccia, può starvi attorno, base così in vista da passare inosservata, se non quando ci viene negata), è anche una questione di tatto, leggibile quindi sub specie aptica. 11 Due esempi banali ma eloquenti, provenienti da un ambito — il porno online — che del ritaglio significante, e particolarmente di quello del volto, ha fatto uno dei suoi specifici: Beautiful Agony (beautifulagony.com) e Cumming or Drumming (cummingordrumming.com). Sui “volti senza corpo”, che riecheggiano gli “organi senza corpo” di Žižek (a loro volta rovesciamento del deluezeano “corpo senza organi”), si veda il contributo di Bruno Surace contenuto in questo stesso volume. 12 “A missionary blamed his African flock for walking around with no clothes on. ‘And what about yourself?’ they pointed to his visage, ‘are not you, too, somewhere naked?’. ‘Well but that is my face’. ‘Yet in us’ retorted the natives, ‘everywhere it is face’” (Jakobson 1960, p. 377). 13 L’opposizione classica tra faccia (lat. facies) e volto (lat. visus) è stata approfondita in ambito semiotico particolarmente da Patrizia Magli (1995, 2013, 2016). 75 Gabriele Marino La semiotica è ancora oggi guardata da molti come una strana tuttologia che ambirebbe a essere scienza, di non si capisce bene cosa, e che non riesce neppure a essere bella letteratura. I semiologi si occupano sì di tante cose, ma non si occupano davvero di tutto (a parte il fatto che del tutto di cui si occupano, si occupano sempre e solo in quanto discorso, ma questo lo sappiamo). Esiste una semiotica per molte cose, di molte cose, da cose molto grandi come la cultura (Jurj Lotman), a cose molto piccole: marginali come i miei pizzini14 o i magneti da frigo di Bruno Surace15, minime come i batteri di Sorin Sonea e Massimo Leone16. Tra le tante cose di cui non sembra esserci una vera e propria semiotica (ossia, a cui la semiotica non sembra essersi particolarmente dedicata), ce n’è una importantissima: le mani. La cosa non deve stupirci. La semiotica ha sempre avuto problemi a maneggiare tutto ciò che fuoriuscisse dal dominio verbale e visivo: ha problemi con i suoni non linguistici e, quindi, con la musica, li ha con l’olfatto17, li ha con il tatto (ma c’è una semiotica della pelle, quella tatuata)18, meno con il gusto (ma solo perché tanto si è esercitata sul discorso gastronomico e gastromaniaco)19. 14 Marino (2016). 15 Surace (2020). 16 Sonea (1988) e Leone (2015). Anche Thomas Sebeok (tra le tante cose, uno dei fondatori della zoo e biosemiotica) si è occupato della “semiosi batterica” (come ricordato da Umberto Eco in una “Bustina di Minerva” del 2002; cicap. org/n/articolo.php?id=100951). 17 Ma si veda Cavalieri (2009). Voglio ricordare anche il bellissimo corso magistrale di “Semiotica delle arti” dedicato, di fatto, alla “semiotica degli odori” tenuto da Maria Laura Agnello presso l’Università di Palermo nell’anno accademico 2008/2009. 18 Mangiapane e Marrone (2018), Marrone e Migliore (2018). 19 Si vedano, in particolare, gli studi del gruppo semiotico palermitano raccolto attorno a Gianfranco Marrone e quelli di Simona Stano, collega dell’Università di Torino. 76 Volti Virali Senza mani, siamo come senza faccia e senza voce, abbiamo difficoltà a fare, a dire, a relazionarci e quindi a essere. Ci si dà la mano e ci si tiene per mano, individuando due regimi distintissimi di relazionalità: semplice conoscenza, superficiale, e conoscenza profonda, intima. Dio tende la propria mando ad Adamo per dargli la vita negli affreschi della Cappella Sistina. La mano ci definisce come soggetti e soggetti attivi: ce lo dicono le metafore e più in generale la lingua (manufatto, maneggiare, manipolare, mantenere, manutenzione ecc.)20, le quali ci consegnano quella che è la semantica di una metonimia della nostra stessa agency, una metonimia del fare, del modificare, dell’appropriarsi, del gestire, del prendersi cura21. Nell’incipit dell’Elogio della mano di Henri Focillon (1934) ritroviamo potente tutto il senso di questa che lo storico dell’arte chiama “poesia dell’azione” e che vede le mani, amiche di lungo corso, rivestire un ruolo–guida assai lontano dalla semplice vicarietà di aiutanti cui, in una concezione an20 Per una rassegna dei modi di dire incentrati sulla “mano”, si veda la pagina dedicata sul Dizionario online del “Corriere della Sera”: bit.ly/corriere-idiomatiche-mano. 21 Virus, pandemia e quarantena hanno saturato i discorsi e ridefinito prepotentemente notiziabilità e agenda setting di tutti i circuiti mediali. Nella seconda settimana di aprile — sto chiudendo questo testo il 10 aprile 2020 — sono comparsi sui canali televisivi italiani due spot (Poltronesofà e Auricchio) che hanno preferito declinare il tema della reclusione domestica e della rarefazione dell’attività produttiva del Paese ricorrendo non alla figura del volto equipaggiato di mascherina, ma a quella delle mani produttrici e prive di guanti: gli artigiani della ditta di divani tagliano stoffe e confezionano mobili che potremo goderci ancora di più quando finalmente non saremo più costretti ad abitarli con il nostro corpo tutto il giorno; gli artigiani caseari maneggiano e massaggiano le forme di provolone che continuano a produrre e fare arrivare sulle nostre tavole “anche in questo momento”. 77 Gabriele Marino cora cartesianamente dicotomica (mente vs. corpo), sono state storicamente ridotte. Un ruolo guida che le trasforma, non a caso, in volti: Mi preparo a stendere questo elogio della mano come si adempie a un impegno di amicizia. Nell’istante in cui inizio a scrivere vedo le mie mani che sollecitano la mente, che la guidano. Sono qui, compagne infaticabili che per tanti anni hanno assolto al loro compito: una tiene fermo il foglio, l’altra propaga sulla pagina bianca i piccoli segni fitti, scuri, potenti. Attraverso le mani l’uomo entra in contatto con la durezza del pensiero; esse lo smuovono dal suo blocco, dandogli una forma, un contorno e uno stile nella scrittura. Sono quasi degli esseri animati. Delle serventi? Forse. Ma dotate di un genio energico e libero, di una fisionomia — volti senza occhi e senza voce, ma che vedono, e parlano. Sappiamo poi che uno dei tratti che ci rendono biologicamente, filogeneticamente peculiari è il pollice opponibile, che alcune teorie scientifiche situano nella gestualità delle mani l’origine del linguaggio (David Armstrong parla dei gesti come dei “segni originali”)22 e che tra le primissime forme di espressione visiva, ossia tra le primissime pitture rupestri, troviamo i negativi — gli stencil — delle mani: segni indicali e iconici a un tempo, tematizzazione della loro stessa manifattura. 22 Armstrong (1999). 78 Volti Virali Esistono studi sistematici della mano, delle mani, quando il loro uso è codificato, esplicitamente linguisticizzato: pensiamo alla lingua dei segni (ma pensiamo anche al Supplemento al dizionario italiano di Bruno Munari)23. C’è chi, in un ambito protosemiotico, studia i segni della mano (chiromanzia) e chi, in un ambito parasemiotico, studia i segni lasciati dal passaggio della mano: la scrittura e quindi calligrafia e grafologia. Esistono studi sulla mano come figura, in senso semiotico, in pittura (ne vedremo più avanti un piccolo esempio), e delle mani si occupa, en passant, chi sia interessato a leggerle come “figure del corpo”24. Ma, in generale, proprio perché così importanti, proprio perché così evidenti, semiologi o non semiologi delle mani tendiamo a dimenticarci. Capita di rendercene conto, di pensare alle mani, di pensare le mani, come accade per tanto altro di importante, solo quando dobbiamo ripensarle: quando diventano un problema, quando non possiamo usarle, quando dobbiamo prestarvi attenzione, quando ci vengono negate nella loro supposta naturalità. Proprio come in questo periodo. Le mani come dispositivo epifacciale La pandemia ci ha riconfigurato, lo abbiamo visto. Ci ha sfigurati: costringendoci a indossare quella vera e propria divisa o tuta mimetica facciale — probabilmente utile per 23 Per un’introduzione alla lingua dei segni in prospettiva semiotica si veda Russo Cardona e Volterra (2007). Per una semiotica della mano intesa come studio della sua gestualità codificata si vedano Bunn (1979), Winship (1987), Marcus (2006). Il testo di Munari, ristampato dall’editore Corraini di Mantova nel 1999, è stato edito nel 1963 dall’editore Muggiani di Milano, dopo una prima edizione privata stampata a Torino, per conto della società Carpano, nel 1958. 24 Si veda Fontanille (2004). 79 Gabriele Marino calmierare il rischio di contagio ma certamente necessaria per passare inosservati al biasimo di chi sta con noi in coda fuori dal supermercato — che sono le mascherine. Ci ha, letteralmente, scapigliati (per la chiusura coatta di barbieri e parrucchieri; Fig. 8) e, allo stesso tempo, ci ha costretti a tenerci bene in ordine (tagliandoci la barba corta o rasandola via del tutto, in quanto agente che facilita la contaminazione)25. Ci ha isolati: facendo collassare la dimensione prossemica su una cinesica zoppa e dalle catene corte, per cui ci è negato ogni contatto con l’altro e ogni spostamento extravestibolare è contingentato. Ma ci ha anche — se non tagliato — inabilitato le mani, nello stesso modo in cui ce le può inabilitare una ferita: non possiamo toccare gli altri, ma non possiamo toccare neppure noi stessi (non dobbiamo toccarci naso, bocca e occhi), dobbiamo nasconderle per le proteggerle (con i guanti). Dobbiamo lavare o disinfettare le mani (con quella amuchina gel già status symbol in Italia dal 2009, a causa dell’Influenza A, e adesso vero e proprio oggetto del desiderio; Fig. 9) e dobbiamo farlo, semplicemente, “spesso” (Fig. 10): dove questo avverbio nega ogni rapporto logico–causale–funzionale con una qualche azione pregressa e crea una nuova ritualità — come tutte le ritualità fine a se stessa — che solo germofobi, ipocondriaci e OCD (o assassini; Fig. 11) finora conoscevano bene. 25 L’incipit di I Am Legend (1954) di Richard Matheson mostra come il protagonista, Robert Neville, “l’ultimo uomo sulla terra”, si imponga di non lasciarsi andare, consapevole di essere l’unico a potersi prendere cura della propria salute: “He brushed his teeth carefully and used dental-floss. He tried to take good care of his teeth because he was his own dentist now. Some things could go to pot, but not his health, he thought”. 80 Volti Virali Dobbiamo lavarle e disinfettarle spesso, le mani, con il risultato che finiamo per ferirle sul serio (Figg. 12, 13): effetto collaterale peculiare se generato da un virus che di base aggredisce l’apparato respiratorio e che in questo modo ci ricorda, come per ogni fenomeno anche semiotico, la sua portata sistemica. Roland Barthes è stato tra i primi a comprendere, nel momento in cui si allontanava sempre di più dallo strutturalismo che pure aveva contribuito a fondare con la sua semiologia, l’importanza del corpo. Con la celebre “grana della voce” (1972) e la distinzione, ispirata da Julia Kristeva, tra fenocanto dei significati linguistici e genocanto come vocalizzazione del dato somatico, ha aperto alla riflessione su quello che sarebbe stato chiamato sound. Con i somatemi (1975), rintracciati nella fantasie pianistiche di Schumann (in particolare, nella Kreisleriana), “figure musicali” che sono soprattutto “figure del corpo” (unità gestuali che si traducono in suono, potremmo dire), difficili da nominare perché necessitano di una potenza metaforica di cui spesso il linguaggio verbale viene a mancare, ha aperto esplicitamente alla dimensione estesica, somatica e all’embodiment in musica. Sono celebri alcuni passaggi de La camera chiara (1980) dedicati al volto immortalato dalla fotografia e sono celebri alcuni dei Frammenti di un discorso amoroso (1977) dedicati alle mani e specialmente alle dita (“Come le dita d’un barbiere”)26. Sono forse 26 Frammento ripreso, per esempio, da Giovanni Lindo Ferretti nel testo di Mi ami? dei CCCP (brano contenuto nei dischi Ortodossia II, Punk Attack Records, 1985 e 1964–1985: Affinità–divergenze fra il compagno Togliatti e noi — Del conseguimento della maggiore età, Attack Punk Records, 1986). 81 Gabriele Marino meno noti alcuni passaggi delle Variazioni sulla scrittura, commissionate dall’Istituto Accademico di Roma nel 1971, scritte nel 1973, pubblicate postume soltanto nel 1994, in cui Barthes parla, assieme, di mano e faccia. Quando il segno grafico ha fatto la sua apparizione, si è prodotto un nuovo equilibrio tra la mano e la faccia (esse si erano liberate nel medesimo tempo, l’una con l’ausilio dell’altra): la faccia ha avuto il suo linguaggio (quello dell’udito e della loquela), la mano ha avuto il proprio (quello della cattura della visione in tracciato gestuale). [p. 20] Liberatesi l’una con l’altra, da una parte la mano (il gesto) e le sue funzioni di fabbricazione, dall’altra il viso (la parola) e le sue funzioni di fonazione. E la scrittura? Essa è, senza dubbio, ritorno alla mano. […] Il linguaggio risale a quel membro del corpo, il cui liberarsi gli aveva permesso di nascere: un gran corso dialettico si chiude. La scrittura è sempre dalla parte del gesto, mai dalla parte del viso: essa è tattile, non orale. [p. 63]27 La sensibilità speciale di Barthes, che qui propone quella che è stata definita una “fisica della scrittura”28, ci assiste nel tracciare una possibile micromappatura della complessa dialettica che intercorre tra volto e mani; una com27 Le pagine si riferiscono all’edizione Einaudi del 1999 (le enfasi sono del testo originale); cfr. Bibliografia. 28 Lo Feudo (2017). 82 Volti Virali plementarietà che vive di una comportimentazione forse funzionale e sicuramente sostanziale (di traduzione della materia in sostanza): il linguaggio si fa parola attraverso il volto, il linguaggio si fa gesto attraverso le mani nella scrittura. Massimo Leone (1999) dedica l’ultima parte della sua disamina delle rappresentazioni dell’estasi religiosa29 alla figura delle mani e, quindi, al senso del tatto: “oggetto scomodo”, difficile da sondare senza prima avere accumulato una adeguata “memoria delle immagini”, ma che pure rappresenta “il punto culminante di molti percorsi dell’estasi” (p. 252), particolarmente nella figurazione della “mano sul petto”30. Le mani, luogo del senso della contiguità fisica tra soggetto e oggetto, sono il luogo della relazionalità: rivestendo il ruolo enunciazionale di attante informatore per eccellenza (ossia, di colui che indica, sottopone alla visione), magnificano la propria “versatilità semiotica” in “congiunzione con elementi altrettanto duttili, come il volto” (p. 257), divenendo così un potente “strumento di ostensione” (p. 255). Anche quando indicano, le mani vorrebbero toccare, anche quando toccano, le mani stanno indicando. 29 Si tratta della tesi magistrale di Leone, non pubblicata ma disponibile online sulla sua pagina Academia; cfr. Bibliografia. 30 Aggiungo: il dispositivo figurale — non, semplicemente, figurativo — è capace di condensare, come nota altrove anche Stefano Jacoviello (2012, p. 240; con riferimento al “sistema a ventaglio” rintracciabile nel quadro Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, 1435–1440 c.ca), il senso della storia affidata, in questo caso, alla data raffigurazione pittorica. Il figurale, sorta di collettore delle semantiche delle diverse semiotiche–oggetto in gioco, è il dispositivo che permette la conversione dalle strutture plastiche a quelle enunciative, aprendo alla dimensione del discorso e, quindi, alla diversa sostanzializzazione della materia formata. 83 Gabriele Marino In altri termini, le mani possono “dire” per conto proprio, ma spesso dicono assieme al volto, a suo supporto, amplificandolo o silenziandolo, esplicitandone e rafforzandone il valore comunicativo. Senza di esse il volto comunica ugualmente, ma senza di esse, molto spesso, comunica più debolmente. Per non entrare in un gioco di neologismi creati ricorrendo alle particelle avverbiali del greco antico, possiamo limitarci a dire che il volto può essere diversamente paratestualizzato ricorrendo a una serie di strumenti come la cosmesi, la gioielleria, i tatuaggi, i copricapo, chiaramente le maschere, ma può anche essere epitestualizzato, ossia fornito di complementi (ἐπί, “in più, di più”) che vanno a modificarne il senso ma che non presentano con esso, di base, una dipendenza, una contiguità, una sovrapposizione31. Come le mani. La maschera o il trucco sono pensati in relazione al volto, le mani sono date e date come autonome. Ma non facciamo che mettercele in faccia. Le mani la manipolano, la modificano, la remixano, contribuendo a farla volto: è con le mani che ci chiudiamo la bocca, che tappiamo le orecchie e il naso, che schermiamo gli occhi o la totalità della faccia, anche quando il significato della nostra mimica — magari con occhi e bocca già chiusi per i conti loro — è perfettamente leggibile32. Ma non ci basta. Possiamo essere disperati, e questo può trasparire dalla nostra smorfia, ma stiamo dicendo a 31 Riprendo le nozioni di paratesto ed epitesto da Gérard Genette (1982, 1987). 32 Si veda il classico trittico di emoji — metasegni esplicativi–rafforzativi, per definizione (Marino 2015) — con le scimmiette “non vedo, non sento, non . Nel Supplemento di Munari ritroviamo alcune espressioni parlo”: della mimica facciale corroborate, amplificate dal ricorso alle mani, ma non il facepalm. 84 Volti Virali chi ci guarda di esserlo davvero solo quando “ci mettiamo le mani nei capelli” (Fig. 3), che ciò accada intenzionalmente o meno, che si abbiano i capelli o meno. Come nel caso del capitano Picard. Conclusioni: un provvisorio “ciao ciao” a distanza di sicurezza L’epifaccialità amplificatoria delle mani è ben visualizzata dal meme del facepalm modificato “al tempo del Coronavirus”: quello prototipico di Picard (Fig. 1), censurato di ogni possibile ricorso alla mano sinistra (Fig. 5), ne risulta profondamente depotenziato. Frustrato nella sua stessa frustrazione. Senza mano, Picard appare frustrato dal non poterlo essere abbastanza. Insomma, per adesso, non possiamo neppure frustrarci come vorremmo. Per adesso (non mi lancio anche io nel genere profetico), la pandemia sta riscrivendo il modo in cui ci relazioniamo non solo al corpo dell’altro e degli altri, ma anche al nostro, a ulteriore testimonianza di come questa cosa, il corpo, sia sempre e subito sociale, anche nella sua dimensione neppure individuale, ma sottoindividuale (la mano, le mani, parte del corpo di un individuo). Dobbiamo, per adesso, ribaltare la prospettiva dell’Elogio di Focillon, quella della mano amica fedele, e considerarci come equipaggiati di una sorta di nemico incorporato, autoimmune, a rischio di rigetto, un nemico di cui non possiamo fare a meno, ma che dobbiamo trattare in un certo modo perché possa ancora essere accolto nella nostra quotidianità senza che ci arrechi danno (si noti come quello della “mano nemica” o 85 Gabriele Marino “mostruosa”, organo senza corpo, sia uno degli archetipi dell’immaginario horror). Noi, tra le altre cose, dobbiamo fare attenzione a noi stessi, a come ci maneggiamo. Quanto agli altri, se va bene, possiamo ancora salutarli da lontano, agitando con discrezione il nostro nemico pentaforcuto. E in un saluto come questo, ancora, il gesto della mano in sé non significa nulla: perché sarà accompagnato, nel migliore dei casi, da un sorriso a mezz’asta, di imbarazzo e frustrazione. Un facepalm impossibile (Fig. 14). [Bologna, 3–10 aprile 2020] 86 Volti Virali Bibliografia Nota: Alcuni URL sono stati accorciati ricorrendo a Bitly. Si consideri come data di ultimo accesso a tutte le risorse online il 10 aprile 2020. Armstrong D. F. (1999), Original signs: Gesture, sign, and the sources of language, Gallaudet University Press, Washington DC. Barthes R. (1972), Le grain de la voix, in “Musique en jeu” 9, pp. 57–63. Barthes R. (1973), ‘Variazioni sulla scrittura’ seguite da ‘Il piacere del testo’, cur. di C. Ossola, tr. di L. Lonzi e C. Ossola, Einaudi, Torino, 1999. Barthes R. (1975), “Rasch”, in J. Kristeva, J.–A. Miller e N. 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Fonte: Imgflip (i.imgflip.com/3s0fwo.jpg). Fig. 4. Risultati di Shutterstock, principale sito mondiale per l’acquisto di immagini di repertorio, alla query “facepalm coronavirus”. Fonte: Shutterstock (shutterstock. com/it/search/face+facepalm+coronavirus). 93 Gabriele Marino Fig. 5. Il meme del facepalm del capitano Picard “al tempo del Coronavirus”: senza mano. Fonte: Imgflip (i.imgflip.com/3v2pvx.jpg; layout modificato ai fini dell’impaginazione editoriale). Fig. 6. Il filosofo Slavoj Žižek, notoriamente affetto da tic che lo portano a toccarsi continuamente la faccia quando parla, atterrito di fronte alle indicazioni anti– contagio. Fonte: Twitter (pbs.twimg.com/media/ ETV2c5uWoAMCg3B. jpg). 94 Volti Virali Fig. 7. Double facepalm dell’utente internettiano causato dai — troppi — meme sul Coronavirus. Fonte: Imgflip (i.imgflip.com/3sobtl.jpg). Fig. 8. Il Presidente Mattarella si aggiusta un ciuffo fuoriposto, spiegando a un non meglio specificato “Giovanni” (Giovanni Grasso, suo portavoce ufficiale) che “anche io non vado dal barbiere”. Il momento, un fuorionda, è stato erroneamente trasmesso sui canali ufficiali del Quirinale il 26 marzo 2020, diventando virale. Fonte: Giornalettismo (bit.ly/ciuffo-mattarella). 95 Gabriele Marino Fig. 9. Il tocco divino “al tempo del Coronavirus”. Fonte: Shusaku Takaoka, Instagram, 16 marzo 2020 (instagram. com/p/B9yd-WnpeI9). Fig. 10. Andamento delle ricerche su Google per le query “amuchina” e “washing hands”, a livello mondiale, dal gennaio 2008 al gennaio 2020. Fonte: Google Trends (bit.ly/trends-amuchina-washinghands). 96 Volti Virali Fig. 11. Le istruzioni per lavarsi le mani “al tempo del Coronavirus” trasformate in meme grazie all’inserimento, in didascalia, di un frammento dalla celebre scena del “lavaggio delle mani” di Lady MacBeth, ossessionata dagli omicidi che ha ordito (dal MacBeth di Shakespeare, 1606). Fonte: penguin.co.uk (penguin. co.uk/articles/2020/mar/the-history-behind-the-lady-macbeth-coronavirus-meme/). 97 Gabriele Marino Fig. 12. Sopra: l’immagine ritrae la mano sinistra di un’infermiera ed è corredata dalla seguente didascalia: “Non ho preso a pugni nessuno. In Ospedale porto sempre i guanti Med Vinyl free, non ho mai avuto dermatiti da contatto. Ultimamente tocca spesso lavorare 13h a fila. 13h con i guanti, ogni cambio di guanti un lavaggio di mani, ogni lavaggio una disinfettata e di nuovo un altro paio di guanti. In una settimana mi sono spaccata le mani. Si fa a pugni col Corona, con la speranza che non sia lui a prenderci a pugni. Se vi e ci volete bene #stateacasa #covid19”. Fonte: Silvia Cini (infermiera in servizio presso il pronto soccorso dell’ospedale Careggi di Firenze), Facebook, 12 marzo 2020 (bit.ly/ fbid2860553570725899; il post è stato ripreso da alcune testate nazionali). Sotto: la mia mano destra al 26 marzo 2020. 98 Volti Virali Fig. 13. Attorno al 24 marzo 2020 è diventata virale, su gruppi WhatsApp e siti sensazionalistici di ogni localizzazione geografica, la notizia secondo cui sarebbe possibile procurarsi gravi ustioni utilizzando i gel disinfettanti a base alcolica mentre si svolgono le faccende domestiche o si cucina. I siti specializzati in debunking e fact–checking hanno bollato la notizia come fake news. Fonte: StopBlaBlaCam (bit.ly/sanitizer-fire-fake). 99 Gabriele Marino Fig. 14. Fonte: Imgflip (i.imgflip.com/1kphke.jpg). 100 Forme di vita Silvia Barbotto Università di Torino “In lak’ech ala kin” [“Io sono te e tu sei me”] (Antico detto Maya). L’essere umano nel suo insieme si è visto tragicamente scosso da una repentina variazione del suo assetto abitudinario. Ma a cambiare, in questa dinamica non sono solamente i modi quotidiani di agire, bensì i trasfondi culturali di azione. Anche le grandi categorie, pur mai così solide e uniformi quali il lavoro, la sanità, la famiglia, la proprietà pubblica e privata…vengono scosse. Cambia il modo di rappresentarci perché cambia la necessità del dire. Oltre che la riflessione sullo stare. L’impeto dei primi giorni in cui ci trovavamo direttamente coinvolti da quella che ancora non era Pandemia e che vedeva l’Italia come il primo paese epicentro dopo la Cina, subì un progresso molto rapido: era necessario pianificare ma anche saper improvvisare, si attivavano dinamiche talvolta obsolete e talvolta radicate fino a diventar normalizzanti. Ci resta da chiedere quali di queste perseverino e ancora quali nuove scaturiscano, forse da una gemma tutt’ora in forma latente, affinché si instaurino contundenti alla stregua della rivisitazione di vecchi paradigmi distruttivi. La semiotica, che studia i processi di significazione, il suo originarsi, il divenire e le sue eventuali conseguenze che sono a loro volta nuovo materiale significativo, contribuisce con molteplici punti di vista ad approfondire la situazione descrivendone i patroni comportamentali e delineandone le tendenze. La prassi enunciativa, la cui momentanea delimitazione può essere circoscritta ai testi, è caratterizzata da per lo meno due dimensioni, quella spaziale e quella temporale, ed è necessariamente intertestuale, dinamica e fertile. Ri103 Silvia Barbotto sulta dunque fondamentale rimarcare non solamente l’immediatezza degli accadimenti testuali e la loro specificità cronotopologica, bensì l’appartenenza, di per sé, ad un regime di un altro piano d’immanenza: “La prassi enunciativa fa esplodere i limiti dell’immanenza temporale del testo propriamente detto”.1 (Fontanille 2008, p.80). L’immanenza, come una delle caratteristiche dell’esistente, è una specie di stato nel quale l’essere umano risiede e che comprende in sé principio e fine, essendo forse congiuntamente soggetto e oggetto. È inevitabile dunque pensare all’eco esplosivo di un’immanenza attuale e futura. Per astrazione, se considerassimo quest’epoca virale come un enorme testo, compiremmo un’operazione analitica ed epistemica che ci porterebbe a concepire gli accadimenti odierni in termini di esplosione significativa che include contemporaneamente un amplio raggio in tutte le direzioni, tracciando possibili chiavi di lettura nonché sfondi attanziali. In questo percorso disegnato da bozze e da testi visivi e letterari, cerchiamo di capire come il volto, la sua rappresentazione ma anche la sua presentificazione ed abitabilità, sia sostanza corporale e memoria futura, materia digitale e carnale, spazio agente di un alternarsi concavo-convesso isotopico, specchio e riflesso di un’estensione concomitante, penetrante e permeabile. Le considerazioni presenti provengono dunque da un sincretismo metodologico risultato di immersione etnografica evenemenziale, osservazione intimista, ricerca bibliografica ed autobiografica e correlazioni 1 Traduzione propria dal testo originale : « La praxis énunciative fait exploser les limites de l’immanence temporelle du texte proprement dit. » 104 Volti Virali analitiche che si prefiggono di costituire un ensamble riflessivo in grembo alla psico-semiotica generativa insieme alla semiotica del corpo e dello spazio. Percorriamo così un processo di semiotizzazione intricato nelle dinamiche socio-storiche, mancanti nel descriversi ed eccedenti in quantità: idiosincrasia globale dell’informazione digitale che è tanta, bulimica a detta di alcuni. Infatti non è semplice il dire, eppure silenziare implicherebbe, forse, smettere di resistere nell’età puerile di un mezzo che son tanti mezzi, canali infiltrati del proferire remoto, predisposizione all’adolescenza con il seme germogliante di una maturità prossima che la viralitá accelera. Ci addentreremo poi in alcune delle modalità con cui il volto si è coniugato nel divenire pandemico, assumendo un ruolo preponderante e cambiante: i volti intimi e imbricati nella propriocettiva assunzione di nuove forme di vita e finalmente anche i volti (s)mascherati ed i nuovi schermi protettivi negli spazi pubblici, le presunte vicinanze virtuali, ma anche le recenti distanze in presenza. Effectiveness- fakeness Vorrei inizialmente ricorrere a ció che una prassi semio-logica è solita fare e riportare una brevissima analisi etimologica di alcuni termini di base: Pandemia, Virus, Corona. Per fare riferimento alla prima parola, ricorriamo all’effigie sottostante. 105 Silvia Barbotto Claude Gillot. The Four Festivals: Festival of the God Pan. Stampa di incisione a punta secca. Collezione The Cleveland Museum of Art. © Artists Rights Society (Open Artstor) Pandemia vede nella sua radice, dal greco, il prefisso Pan, derivante dall’antica divinità di natura silvestre, anche legata ai pastori e ai greggi. Nell’immagine suggerita, proveniente da un’incisione ad acquaforte del XVIII secolo, prodotta dall’artista francese Claude Gillot (1673-1722, Francia), appare la trascrizione sottostante che corrisponde anche alla sua breve descrizione “Il dio Pan, celebrato dai silvestri (gli elfi della foresta) e le ninfe”; nonostante se ne espliciti solamene il suo volto, è raccontato che la parte superiore del corpo corrispondesse a sembianze umane e la parte inferiore ad una capra. Probabilmente figlio di Hermes, sembra che per le sue fattezze, fosse particolarmente amato da tutte le divinità greche cosicché la connotazione del suo nome significa proprio ‘tutto’ in greco e 106 Volti Virali ancor oggi l’attributo totalitario è assegnato a gran parte delle parole delle quali è prefisso, come per esempio Pandemia. Proprio per questa capacità di essere e dialogare con la natura, sembra che un giorno, nell’intento o nell’illusione di avvicinare la sua amata Syrinx, la quale cercava piuttosto di evaderlo, si accorse sorprendendosi che nell’abbraccio vi era invece un arbusto. Sospirò infastidito e “il sospiro scosse le piante simili all’erba che stringeva e che, a loro volta, emisero una bella melodia. Ipnotizzato da ciò, Pan tagliò le canne di palude in diverse lunghezze e le unì fianco a fianco in ordine decrescente.”2 Procediamo con gli altri due termini di riferimento: corona e virus. Se volessimo fermarci un attimo all’aspetto denotativo del termine corona, la maggior parte di noi fino a poche settimane fa, avrebbe fatto riferimento a connotazioni diverse rispetto a quella attuale. Avremmo pensato, per esempio, alla corona araldica e alla simbologia tipicamente veicolante che distingue l’articolazione del potere alla base della sua significazione. Io avrei immaginato la corona dei Re di carte napoletane, o quella rappresentata innumerevoli volte suoi quaderni, schizzi, quadri di Jean Micheal Basquiat. 2 https://www.greekmythology.com/Other_Gods/Pan/pan.html. Ultima consulta: 3 aprile 2020 107 Silvia Barbotto Jean-Michel Basquiat Untitled (Bust). Acrilico e adesivo su carta. 1984 Dimensioni 76.2 x 57.1 cm © 2007 Artists Rights Society, New York / ADAGP, Paris. Virus, invece, viene tradotto dal latino come veleno: si tratta di organismi di natura non cellulare e di dimensioni microscopiche costituiti da un acido nucleico rivestito da un involucro proteico (capside) e caratterizzati dalla vita parassitaria endocellulare. Ne abbiamo migliaia nel nostro corpo. Ce lo ricorda dell’Arti G. (La Stampa, 30 marzo 2020, p. 31): “Siamo noi all’uno per cento. L’altro 99 siamo batteri.” accompagnando la definizione di virus del Nobel britannico Peter Medawar “Un virus è una brutta notizia avvolta da una proteina”. L’associazione denotativa dei due termini è ora a noi tutti ben nota e assume le connotazioni piú distinte a seconda dell’attenzione analitica e patemica assunta, del tipo di informazione percepita, della cultura, dello stadio virale in cui si trova lo spazio abitato, del delicato vissuto di ognuno. 108 Volti Virali La drammatica e portentosa irruzione su qualsiasi latitudine ne rimarca la sua affiliazione alla categoria potere, ma sappiamo anche che la denominazione Corona è dovuta in questo caso alla sua forma elicoidale, la quale assume, per concordia aggettivante, il genere maschile. La Pandemia del Corona Virus è tutt’ora in corso e ci tocca funesta e profondamente. Gia’ nel 2003 ne apparse una versione distruttiva denominata Sars. Tante epidemie hanno attraversato l’umanità e dagli studi emersi nel libro Contagious, fondamentale riferimento nel dirigere la stesura di questo articolo, sembra che tutte costruiscano una specie di trama comune, denominata Outbreack narratives. (Waldes, 2008) Intrinseche al parassita, le informazioni viaggiano insieme alle accezioni sensoriali, che predispongono spazi, attecchiscono potenziali, creano significati, muovono energie e condensano materie. “Il contagio è più che un fatto epidemiologico. È anche un fondamento concettuale negli studi delle religioni e delle società. (…) E lo scoppio che avviene in queste dinamiche, chiamate narrative dell’epidemia, nella loro incarnazione scientifica, giornalistica e finzionale, seguono una trama formulata (formulaic plot) che inizia con l’identificazione di un’infezione emergente, include discussioni della rete globale attraverso la quale viaggia, e cronizza il lavoro epidemiologico che termina con il suo contenimento”. (Waldes 2008, p. 2)3 3 Traduzione propria dal testo originale: “Contagious is more than an epidemiological fact. It is also a foundational concept in the study of religion and of society.(…) And the outbreak narrative – in its scientific, journalistic, and 109 Silvia Barbotto Nel portento enunciativo e transcontinentale, è difficile discernere i messaggi tra ‘veri e non veri’, ma uno degli aspetti d’interesse riguarda anche e soprattutto come questi messaggi contribuiscano all’effettività pragmatica di interi gruppi. A tale riguardo, su riflessione alle Outbreack Narrative e su quello che Ugo Volli riferisce essere tra i punti importanti dell’abbondante flusso comunicativo di questo periodo, cioè “la costruzione dell’enunciatore enunciato”4 (Volli, 2020) e dunque la costruzione e diffusione di meccanismi di consenso e dissenso dei discorsi autoritari ed alternativi, rimandiamo al seguente testo. Il 31 marzo, alle 18.30 in India, si diffondeva tale messaggio su tantissime chat e gruppi social: Mandate to everyone, Tonight at midnight onwards Disaster Management Act has been implemented across country. According to this update, apart from the Govt department no other citizen is allowed to post any update or chare any forward related to Coronavirus and it being punishable offence. Group Administrators are request to post the above update and inform the groups. fictional incarnations – follows a formulaic plot that begins with the identification of an emerging infection, includes discussion of the global networks throughout which it travels, and chronicles the epidemiological work that ends with it containment.” 4 Volli, U. Costruire la credibilità dell’informatore. Diario semiotico sul Coronavirus. http://www.ec-aiss.it/ Consulta 4 aprile 2020 110 Volti Virali La crisi dei regimi di verità e la discutibile scientificità non esulò l’effettività imperativa nel compimento della sua funzione conativa, raggiungendo a macchia d’olio milioni di persone e dirigendo il discorso all’altrove. Indirettamente veniva suggerito, di “parlare d’altro”, andare avanti, evitare il proliferare di racconti fuorvianti (ma anche inerenti): il linguaggio fatico autoritario ed invasivo mi lasciarono, però, allibita. Al riceverlo, chiesi spiegazione ad uno dei gruppi coinvolti: elogiando il libero arbitrio e l’importanza della parola, ricevetti dai miei compagni pochissime e confuse risposte. Poi si chiuse il tema e pensai che dal giorno seguente i nostri volti si sarebbero guardati sullo schermo senza potersi dire nulla. Il 4 aprile viene chiarita la notizia (www.livelaw.in) la quale, secondo la spiegazione della Suprema Corte5, era stata estrapolata dal report originale, dunque dal proprio contesto e rielaborata in formato minatorio. “Non vogliamo interferire con la libera discussione riguardante la pandemia, ma dirigere i media a pubblicare le versioni ufficiali riguardo allo sviluppo”6. Anche sulla cronaca italiana emerge l’importanza di verificare le fonti, soprattutto in una situazione così delicata e prolifera di testi: il giornalista Giordano P., per esempio, invoca: 5 www.livelaw.in ultima consulta: 7 aprile 2020 6 Testo originale: “The Court did not pass any order that no person other than the Government is allowed to share news about COVID-19. The Court expressed concerns about the spread of fake news in relation to the pandemic, and urged media to be careful in reporting. The Court expressly stated that it was not intending to curb free discussion on the pandemic; but asked the media to publish the official version”. 111 Silvia Barbotto “un vaccino fatto di amore per le fonti, di comparazione critica e molta prudenza. Nell’azione faticosa di confutare le notizie sbagliate, debunking. Nella nuova folla, sciame digitale, ogni infezione virale porta con sé delle complicazioni batteriche: la proliferazione di cattive notizie è tra le patologie opportunistiche della Covid 2019” (Corriere della Sera, 3 aprile 2020) Da un lato emerge dunque la necessaria verificazione delle notizie che girano sull’omnicanalitá, e al tempo stesso il ritorno alla valorizzazione della parola, alla sua effettivitá, e quindi anche la limitazione se necessaria o addirittura l’arresto affinché la bulimia non diventi cronica e corrompente. Facing COVID. Archivio personale da “Vitácora in quarantena”. Encaustica e pittura al olio. 2020. Dimensioni 30 x 30 cm. © sbf Il racconto indiano ha riportato l’attenzione sulla parola sanscrita Vāc, il corrispondente del semema italiano “parola”: वाच् è la Dea della Parola, è voce e suono. È vita e crea vita. “Immagino così le reazioni narrative del popolo indiano che 112 Volti Virali resiste con il suono, e il virus che sbalordito e impotente non sa più né come né dove radicarsi: le nostre voci cantano e i volti sorridono.”7 Tralasciando all’altrove l’ontologia della veridicità e la notoria influenza condizionante della parola nell’agire, ci rivolgiamo invece al volto come elemento portante di un mondo fenomenico e conoscitivo, in relazione al suo farsi portavoce di pratiche consolidanti, basamento per la memoria e l’oblio, presenza e rappresentanza, corpo dalla figura filtrante. Gli enunciati di questi giorni, occupanti invasivi del potpourri pubblico-privato, supplicano indirettamente le direttive edificanti di una faccia più amplia, quella del mondo da ricostruire, consolidata desincarnazione tra significante e significato espanso, contagio di senso comune (buon senso?). Il volto, nell’ottica di una logica del sensibile che rivisita i limiti della sintassi razionale in seno ad una sintassi patemica, vede nella propriocettivitá una possibilità di ricerca psicosemiotica ed il confluire di tale funzionamento in chiave prevedibilmente condivisibile. Al tempo stesso, nella visione del volto come istanza politico-sociale economica, scorgiamo tendenze comportamentali e forme di vita in costruzione. Giorno per giorno, assorbiamo e costruiamo significati che “appaiono come operazioni che implicano un soggetto epistemologico dotato di un corpo, il quale percepisce i contenuti significanti per poi elaborarne e svilupparne i valori”. (Fontanille, 2004. p. 21) 7 Vitàcora in Quarantena (forthcoming) 113 Silvia Barbotto Il volto virale dunque, è un volto imbricato e propriocettivo, è l’operatore cambiante verso modalità che si formulano nella loro evoluzione, che mimetizzano con le possibilità più plausibili, scoprendosi nella loro aspettualitá necessariamente pertinente e significando il valore prima di assumerlo. Ma è anche un volto vulnerabile, chicco infinitesimale dalla virtù posizionale pullulante, inserto di un macrosistema che assume cariche proprie in una riprogrammazione doverosa. Sempre maggiore il ruolo di una consapevolezza alimentare ecosistemica e l’ovvia associazione al degustare con responsabilità (“Siamo ciò che mangiamo” Monda A. in dialogo con Fassio F. su Corriere della Sera, 5 aprile 2020, p.9): quali sono le sostanze dolci e quelle amare, a cosa servono, come possono essere preparate ed ingerite e perché no, raccolte o coltivate. Che altro assorbiamo, ingeriamo, respiriamo? La comparazione informazione-cibo, nonché la loro ammissione temporanea sullo stesso piano sincretico, rimarca fortemente una presa di posizione percettiva e sensoriale non solamente rispetto all’emergenza in corso, ma anche alle profonde ripercussioni parzialmente prevedibili e tatticamente malleabili. In una specie di enazione: nell’integralità di un’esperienza enattiva in cui l’informazione sensoriale è anche significazione del mondo sensibile. (Fontanille, 2004, p. 139) Concentriamoci ora sui volti in epoca virale: il volto intimo, propriocettivo e il volto relazionale (virtuale e presenziale remoto). 114 Volti Virali Volto intimo La condizione dettata dal decreto italiano del 9 marzo 2020, e dalla maggior parte dei paesi coinvolti, incrementa la propria rigorosità sino al confinamento: si sta in casa. Le reazioni decisionali degli apparati politici globali sono diversificate e vanno dalla più restrittiva presa di posizione in cui si dettano limiti ferrei, al suggerimento più blando del mantenere appena accortezze e distanze di sicurezza. L’invito a rispettare le regole è spesso accompagnato da sanzioni di vario tipo nel caso in cui ciò non venga fatto: dalle multe (‘Adesso anche i vigili multano chi esce di casa’, Ziniti A., La Repubblica, 30 marzo 2020, p.2) al carcere. I modi operativi variano chiaramente a seconda del prospetto economico-politico-sociale in vigore, ma dipendono anche dal punto in cui si trova ogni singola regione e nazione in relazione al livello epidemico. Nella quarantena, attualmente vigente, il volto si trova solo, isolato, oppure a contatto con lo strettissimo nucleo familiare di cui è parte. “L’ordine degli psicologi che ha varato “Il progetto emergenza Covid19” intenti a coniugare l’emergenza insieme al dopo, si chiedono: cosa sarà di donne e uomini segnati nel corpo e nell’anima, come ricostruire la psiche oltre l’economia? E si prefiggono il lavoro su tre versanti: in direzione di una riumanizzazione, di una consapevolezza all’essere sopravvissuti, della valutazione del tempo psicologico e ritrovato rispetto al tempo cronologico”8 (La Repubblica, 5 aprile 2020, p. 34) 8 Garzonio, M. in La Repubblica, 5 aprile 2020, p. 34 115 Silvia Barbotto L’invito a stare a casa, doveroso per chi può, diventa elemento indiziale di un senso comunitario in cui il contatto fisico e dunque spaziale9 con l’alterità diventa limitato. Siamo quindi portati a ripensare lo spazio interpersonale, che intercorre tra le persone, ma siamo anche invitati a ridurre drasticamente lo spazio tra noi e noi stessi aumentandone il tempo d’esposizione. In altri termini: spazio e tempo sono inversamente proporzionali e questo porterebbe ad una rivisitazione dell’assetto topologico, sintattico e paradigmatico fino a ridurre la dimensione sensomotoria soggettiva come portante. Cambia lo spazio del volto e si riduce prediligendo uno scorrere paradigmatico piuttosto che sintagmatico, in una specie di isotopia. Dal punto di vista dell’enunciatario l’isotopia costituisce una griglia di lettura che rende omogenea la profondità del testo, la quale presuppone a sua volta la stessa condizione in superficie, dato che essa permette di risolverne le ambiguità. Dal dizionario di Greimas e Cortes, (p.172) vediamo che “di carattere operativo, il concetto di isotopia anzitutto ha designato l’iterativitá, lungo una catena sintagmatica, di classemi che assicurano al discorso-enunciato la sua omogeneità”. L’isolamento può essere, così, un esercizio generativo all’insegna della ricerca del proprio volto isotopico fondata sulla coincidenza afferente alle categorie superficiali e profonde in una condensazione compositiva del piano fi9 Spaziale. A quanto pare il virus è nell’aria, l’aria condivisa potrebbe essere veicolo infettivo. 116 Volti Virali gurale e semantico. D’altro canto, inaspriti nel timore del riconoscersi, o immersi nella psicosi dello stare eccessivo, è ammissibile che l’isolamento porti anche a sbilanciamenti che rischiano di mettere a repentaglio l’integralità psichica, in una specie di schizofrenia temporanea dove eccitamento e impedimento, oltre che la doppia modalizzazione volere e potere, non riescono a trovare uno stato intermedio di sana quiete. Christian Fogarolli. Frenotico Pigment print on cotton paper Hahnemühle. 2012. 44 x 60 cm Ed. 3 + AP. © Artist Courtesy In un paesaggio ambiguo e arduo nella propria decifrazione idiosincratica del momento, stabiliamo minuti fili analitici con l’obiettivo di evidenziare alcuni punti funzionalmente utili al districarsi odierno, nonché atti all’esplorazione 117 Silvia Barbotto di nuovi paradigmi possibili che contemplino il volto come configurazione connettiva e non solamente come ostaggio limitante dal quale scappare e proteggersi. Nella sua carnalità, il volto è intimità materica e conformazione porosa vulnerabile alle transizioni. In entrata e in uscita: basti pensare, non banalmente, all’aria che respiriamo e che, trasformata, trasudiamo. Il volto sembra condensare anch’esso i principi Vettoriali significanti e riflessivi in cui si condensano le dinamiche cambianti in una specie di pentagramma a setticlavio: come si presenta e mostra il nostro volto? Quali segnali sta producendo a sé stesso? Negli effetti più immediati di una semiotica sincronica, che potrebbe dirsi engagé, facciamo capo ad un decalage imminente, scostamento ed accomodamento di variazione prossemica in cui il dialogo si riduce agli atti intimi e transitori degli organi di senso. Gli orifizi dai quali potenzialmente passa il virus corrispondono ai principali organi: narici, occhi, bocca, forse orecchie e sicuramente pori della pelle. Sembra che le mani, prensili su ogni cosa, siano il maggior ricettacolo del virus che facilmente viene poi trasportato alle interfacce sensoriali dove inizia il suo viaggio introspettivo. Ed è come se anche noi, in qualche modo, fossimo invitati a seguirne le deambulazioni verosimili in un percorso ancora ignoto, transitando tra le viscere e forse disgustati dall’interior design della nostra casa più preziosa. Ne scaturisce dunque l’evidente intersezialitá del virus e vediamo che la transizione materica possibile, pur basata su supposizioni non ancora certificate in dettaglio, è però già ca118 Volti Virali pace di dettar legge considerevole di ciò che si può e che non si può fare. Stare a casa e distanziare. Nonostante ciò, risultano assai carenti le direttive comportamentali sul come farlo nell’ottica rilevante di ripercussioni non solamente future, ma anche immediate: come respirare nella vita piena di un’aria temuta? Come affrontare i flussi del canalicolo lacrimale che è condotto di lacrime di sofferenza oltre che tana viva per il virus? Come raccontare ai ricettori cutanei delle guance che l’assenza dei cari in pelle è solo momentanea? Come risanare i segni profondi di una mascherina indossata 12 ore al giorno nella perseveranza dell’aiuto? Come affrontare la perdita di una persona cara il cui viso non si è più potuto vedere? Come articolare lingua e bocca nell’invito al permanere? Come sentire e dunque identificare per poi interpretare e chissà sciogliere quelle tensioni sulla fronte che non sono ancora segno evidente, ma che sono invece indice sottile di un recondito male-stare? Quali flussi transitori, di andata e di ritorno, viaggiano tra gli organi di senso della mia faccia e quella del mondo? Che forma, forza, densità hanno? Sembra che se Covid19 entra in un corpo si può finalmente identificare e in molti casi anche curare. Sono numerosissime le storie di vita accudite, grazie all’incredibile sforzo di medici, infermieri e tecnici. Ma se il contagio si fa lato e il veleno si estrapola dalla sua manifestazione di microorganismo e diventa parassita diffuso, allora prolifera in ogni dove in ogni medio in ogni lato, allora non si tratta solamente di un passaggio unilaterale da un primo corpo a un secondo corpo, ma è l’intera situazione a diventar velenosa. 119 Silvia Barbotto Il contagiarsi di un veleno da origine ad una situazione velenosa. E tra corpo e corpo l’interstizio è ancora grande e la frontiera potenzialmente infinita: se il veleno entra in una situazione allora origina testi, narrazioni, emozioni, sentimenti velenosi e bisognerà andarne ad identificare ogni singolo aspetto affinché si possa sanare. Se poi la situazione velenosa si espande e perpetua, allora è possibile che dia origine ad una forma di vita: il virus, infatti, ci sta facendo riflettere sulla forma di vita, non di una singola persona, ma dell’intera umanità. Il flusso, ancora in processo, risulta parzialmente indicibile e lontanamente ravvisabile. Nessuna ricetta predefinita può suggerirci a priori l’operare, e non abbiamo risposte certe alle domande suddette, ma è chiaro che siamo tutti invitati ad una pratica di costruzione dell’oggetto di valore vitale. L’invito a Stare (a casa), nella prospettiva di una semiotica del corpo, può assumersi anche come un invito alla considerazione di un profondo stare, dove la casa è, nella più intima delle opzioni, il nostro stesso corpo. Questa quarantena, seppur inizialmente forzata, può essere accolta come un momento propizio a ripensare, valorizzare ed incorporare la propriocettivitá del bene-stare. Il volto incarnato ritrova nell’aria non più un nemico da evadere e la frustrante impossibilità nel farlo, ma un alleato tutto da conoscere, come un linguaggio in cui si riparte dalle vocali per scrivere il più bel poema o forse, dallo stesso silenzio per riscoprire il gusto del suono, e poi della parola e del dire. 120 Volti Virali Il volto attanziale rivede lo schema narrativo della propria conformazione come una piattaforma produttiva e percettiva in cui i segni, non sono solamente configurazioni evidenti perché presenti, ma anche possibili effetti insiti in cause appena accennate. Immaginare il volto virale come un volto che respira, assioma di fondo assai risaputo, ci immerge nell’assunto flessuoso dello studiare come i movimenti, seppur minimi o impercettibili producono significati solo talvolta palpabili. Ma immergersi nella semiotica di uno spazio amplio ed intimo, naturale e artificiale, ci rammenta la necessità di pensare a come le forme e le forze dei volti disegnano continuamente e congiuntamente le sintassi figurative e i paradigmi aurei dello stare. L’affacciarsi, il contatto, l’alteritá “Ogni enunciazione - ci dice Fontanille - produce una semiosi nella misura in cui essa dipende da una presa di posizione del corpo nel mondo, la quale determina ipso facto un dominio interno e un dominio esterno: il proprio e il non-proprio.”(2004, p.31) In una cosmovisione eco-sistemica il corpo strictu sensu considerato come proprio, fatto di organi e sensi e connessioni sinaptiche, vede diffondere i propri confini all’insegna di una condivisione diffusa e adattata ad una semiotica dello spazio e della cultura, per affondare nello studio di un corpo che esula dalla materia propriamente incorporata ed intravede sottese le vene umanizzanti dei volti planetari. Una Pande121 Silvia Barbotto mia, caratterizzante il tutto, seppur manifestante in forme e contenuti così diversi tanto da sembrare parte di mondi assai distanti, porta necessariamente a un’idea trasversale in cui, al di là dei numeri e delle decisioni politiche, ci sono storie di vita vulnerabili che risiedono sull’unità dondolante e comune dell’asse isotopico vita-morte, e che ci ricordano, forse come mai fatto prima, l’affacciarci sul, con e nel mondo. Il senso di proprietà si confonde e proprio/non-proprio assumono accezioni emergenziali, in una semantica dell’intermezzo. La fotografia sottostante ne traduce figurativamente la toccante contingenza: volto, corpo, spazio. Stefano Stranges. Dal progetto “LIFE, from the eye of the quarantine, the time of the virus.” 2020. Fotografia. © Artist Courtesy. “L’ultima volta che qualcuno mi ha fotografata stavo facendo uno spettacolo di bourlesque” mi confida Elisa, volontaria della Croce Rossa. 122 Volti Virali Avendo esaminato dunque una prima parte legata alla ricerca del proprio volto isotopico, passiamo ora all’urgente e necessaria analisi rispetto ai nuovi approcci interpersonali, iniziando da alcune parole di Juri Lotman (1977, p. 10): “La cultura, in quanto organismo unitario, è costituita dall’unione di formazioni strutturali-semiotiche costruite secondo il modello delle singole individualitá e del sistema di relazioni (comunicazioni) che le unisce l’una all’altra.” Relazioni appartenenti ai macro sistemi sociali, ma anche agli avvenimenti storici passati; trasduzioni transcontinentali ma anche intersoggettive; comunicazioni analogiche e digitali, di linguaggi verbali e non verbali, gestuali, sonori, telepatici. Portando l’attenzione a come questi diversi livelli si proliferino in questo periodo, e come si relazionino con lo studio del volto, ricorriamo ad alcune notizie di cronica estratte dai quotidiani: il rafforzamento dei servizi di prevenzione, come per esempio l’obbligo della mascherina per quasi tutti (Guerzoni, M., Il corriere della Sera, 5 aprile 220, p. 3), il prete in provincia di Milano che celebra via radio la messa davanti alle foto stampate, mandate dai fedeli in risposta al suo appello per riempire la chiesa (Cremonesi, M., Il Corriere della Sera, 5 aprile 2020, p.10), il neonato con la visiera (Aspesi, N., La Repubblica, 4 aprile 2020, p.19), le prove dell’esame di terza media, (ma anche superiori e universitari) che prevedono l’obbligo di fissare la videocamera per evitare di leggere appunti non concessi, (Zunino C., La Repubblica, 4 aprile 2020, p.21), la mascherina identificata nel quadro di Luca Giorda123 Silvia Barbotto no dove San Gennaro intercede presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno per la peste, (analizzata da Sgarbi V., Rivista Focus, 3 aprile 2020, p.14), e ancora i segni della mascherina di Claudia, anestesista di Bergamo, in prima pagina su La Repubblica (4 aprile 2020). Nonostante l’infinita gamma comportamentale numerabile nella quantità di corpi presenti, ci soffermiamo solamente su alcune tendenze possibili. Se da un lato la presa di posizione individuale si trova coinvolta in un cambio sul piano dell’espressione in una sorta di messa in relazione isomorfica complessa e complessiva, dall’altro il relazionarsi (digitale e corporeo) si fa più incerto, distante e ha bisogno di consolidarsi nonché ripensarsi e probabilmente empatizzarsi. La frontiera assume caratteristiche polifoniche e può adottare segni di varia origine per evidenziare, evocare, e in qualche modo spostare i propri limiti: sociali, politici, geografici, fisici ed immaginari. Schermate plastificate prendono piede nei piccoli e grandi negozi, e le mascherine risultano obbligatorie in gran parte della penisola italiana. Alcune frontiere si fanno più ermetiche proprio per annullare, o almeno dosificare, il passaggio dentro-fuori, riducendo al massimo lo spazio di transizione virale, creando un accerchiamento protettivo bilaterale. Ma anche le frontiere tra i paesi si accentuano fino allo sbarramento (Rizzo S., Le nuove regole d’ingaggio sulle merci in entrata e uscita. Farmaci e mascherine, ora la dogana sequestra tutto. La Stampa, 30 marzo 2020, p. 8) Siamo alla ricerca di una nuova omeostasi collettiva, siamo invitati ancor più di prima a fare rete, ad immaginare 124 Volti Virali opzioni innovative riscoprendo le saggezze del passato, a dialogare con la natura ed i suoi micro-macrorganismi millenari. Volersi riconoscere nell’alteritá con le stesse disposizioni orientative di prima non è possibile. Il disorientamento iniziale è acuto. L’estensione si massimizza ed intensifica nell’uso dei dispositivi digitali ed il contatto si annichilisce fino ad annullarsi in un una prossemica distanziale. Vediamo entrambe le opzioni. I nostri volti, ravvisati a distanza l’un l’altro ed interfacciati dallo stare in linea virtuale, sono portati a compiere uno sforzo che riverte la distanza spaziale e specchiante ad un possibile riconoscimento intra locutorio, oltre che interpersonale. Quando instauriamo una comunicazione virtuale il contatto oculare non è mai simultaneamente reciproco, schermo e videocamera non coincidono. Da subito irrompono le iniziative sui social, i gruppi spontanei che si organizzano, i cinema ed i teatri che aprono l’accesso a spettacoli e archivi digitali e la personificazione dei selfies ne evidenzia l’immediata condivisione, in una specie di co-selfies, in cui si sta insieme, separatamente. Conferenze, seminari, riunioni, ma anche cene e aperitivi condivisi, concerti e registrazioni: dalla memoria ‘fermo schermo’ del G20 in videoconferenza con i Capi di Stato e di Governo collegati via computer (La Stampa, 28 marzo, p.10) all’arte di vendere in lockdown ed i brand a caccia di nuove relazioni (Le case dei musicisti italiani come set per il nuovo spot Vodafone, Il sole 24 ore, 28 marzo 2020, p.15). Momenti in cui ci cerchiamo nell’illusione del mezzo virtuale, palliativo contentevole e tecnologia assai utile. 125 Silvia Barbotto In questo incremento esponenziale dei mezzi digitali, usati per comunicare ma anche per sorvegliare (menzioniamo per esempio “il drone megafono che, nella città di Heerlen, identifica i cittadini fuori posto e li invita al rispetto delle regole, Guerzoni, M., Il corriere della Sera, 5 aprile 220, p. 3), sorgono debite domande sui loro funzionamenti sempre più sofisticati: il volto trasformato ed identificato nel linguaggio binario dei big data è elemento di discussione in fermento. Le discipline artistiche si pongono questi quesiti da tempo: l’artista Leon Harmon, per esempio, giá nel 1973 ne evidenziava l’indole ambigua su Scientific American con la sua opera intitolata “The recognition of faces” in cui mostrava mosaici facciali alla base degli studi condotti all’interno del gruppo Bell Labs e che molti anni dopo avremmo chiamato Pixelizzazione. (Helfand J., 2019, p.181). Anche l’immagine sottostante mostra una scultura a scala umana, costruita in tridimensione con ritagli di ritratti per esplicitare la forma dei pixels, come in una sorta di compenetrazione simulata tra il bit e l’epidermide. L’iniziale tendenza a crear rete connettendosi su internet, si è però immediatamente integrata con la necessità di mantenere presenzialità carnale, la quale riporta nell’affacciarsi, sui balconi per esempio, il tentativo di esprimersi e condividere suoni e saluti. Tali intenti comunicativi hanno trovato diversi seguiti e sono tutt’ora in evoluzione: i volti inizialmente destabilizzati iniziano a riassettarsi, comunicando, ma anche forse stanchi si rinchiudono incomunicando, nell’attesa della desiderata immunità generale. I volti incarnati iniziano ad integrare le direttive ricevute con iniziative e richieste; ci sono anche vari casi di corpi organizzati: pensiamo ai volti con maschera 126 Volti Virali di precauzione e distanza di sicurezza che scendono in strada non per fare la coda al supermercato ma per manifestare insieme (‘Qualche migliaio di israeliani ha manifestato a Tel Aviv per denunciare i rischi per la democrazia”. La Repubblica on line, 20 aprile 2020) o ai simulacri di cartone dei volti degli operatori del mercato di PortaPalazzo a Torino che sollecitano l’urgente riapertura del luogo. Le scienze umane, le arti e certamente la semiotica hanno il ruolo fondamentale che volge sì al fine di studiare a posteriori i nuovi abiti emersi, ma anche quello nucleare di propiziare nuove strategie nella semiosfera pandemica: l’agentivitá dell’ambiente coinvolto insieme alle modalità di comportamento, creano un sistema polisensoriale, lontanamente tensivo e unidirezionale, e capace di metterne in luce alcuni aspetti, agilizzando chissá un’omeostasi collettiva. Javier Barrera. Pixels with mask. Originale 2002, nuova versione 2020 20 x 25 x 30 cm. Scultura e collage fotografico. © Artist courtesy 127 Silvia Barbotto Il volto attanziale, come parte di un corpo che è ‘sede degli impulsi e delle resistenze che sottendono l’azione trasformatrice degli stati delle cose’ (Fontanille, 2004) si fa intersezione dell’istanza formale e corporale, integrazione di stasi e movimento, alla stregua dell’individuazione delle nuove forze direttrici. I volti virali, attanziali e contemplativi, intimità isotopica e ricostruzione relazionale, si fanno terreno sinuoso e resiliente e, assorti nel paradigma dell’improvvisazione razionalizzata, cercano di stabilire - congiuntamente - nuovi percorsi transitabili. “n lak’ech ala kin” 128 Volti Virali Bibliografia Banks M. and Morphy H., (2020). Visual Anthropology. New Haven and London. Yale University Press. Barbotto S., (2020). Vitácora di Quarantena. Installazione pittorica e audiovisiva “Vāc: l’esodo”. (forthcoming) Fontanille, J., (2008). Pratiques Sémiotiques. Paris, Press Universitaire de France. Fontanille, J., (2004). Semiotica del corpo. Roma, Meltemi. Helfand J., (2019). FACE. A visual Odyssey. Massachussets Institute of Technology. Cambridge MA Lederman, S.J. e Klatzky R.L., (2009). Haptic perception: a tutorial. Doi: 10.3758/APP.71.7.1439 Wald P., Contagious: Cultures, Carries, and the Outbreak Narrative, Duke University Press, 2008. Doi: https://doi. org/10.1215/9780822390572 Ultima consulta 3 aprile 2020 Volli, U. Costruire la credibilità dell’informatore. Diario semiotico sul Coronavirus. http://www.ec-aiss.it/ Consulta 4 aprile 2020 129 Semiotica, prossemica e contagio il senso delle distanze ai tempi del Covid-19 Remo Gramigna, Cristina Voto Università di Torino “Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito.” Elias Canetti, Massa e potere (1960) Language! It’s a virus! Language! It’s a virus! Paradise Is exactly like Where you are right now Only much much better. Laurie Anderson, Language is a virus (1986) Tempi e asimmetrie d’osservazione Mentre scriviamo queste pagine ci rendiamo conto che non è il momento per fare previsioni e che per un’analisi approfondita del fenomeno virale che stiamo soffrendo sarà necessaria una buona dose di distanza d’analisi: tempo. Tutto quello che si sa ora è che il virus Covid-19 è estremamente contagioso, che non esiste ancora una cura efficace, che non esiste un sistema sanitario che riesca a curare la totalità delle persone contagiate e che l’unico modo per limitare la circolazione del virus, oggi come in passato, quando non si sapeva cosa fosse un virus, è limitare la circolazione degli esseri umani. I progressi odierni a cui stiamo assistendo consisterebbero nell’assumere che un controllo dello spazio potrebbe generare il tempo necessario per successivi progressi sotto forma di trattamenti: ancora tempo! Quello che certamente sappiamo, e su cui non abbiamo dubbio alcuno, è che ci ritroviamo immersi in una colossale infrastruttura tecnologica di comunicazione che è totalmente asimmetrica rispetto alla traballante infrastruttura tecnologica dei sistemi sanitari. Questa asimmetria è un potente motore per la trasmissione del virus. Introduzione Questo intervento si prefigge una riflessione sul concetto di prossemica nell’attuale contesto pandemico causato dal diffondersi a livello globale del virus Covid-19. Mentre scriviamo queste pagine siamo in isolamento da più di un mese, un lungo periodo di blocco di quasi tutte le attività e di quarantena 133 Gramigna e Voto totale della cittadinanza che sta avendo e, sicuramente continuerà ad avere, numerose conseguenze sulla nostra maniera di concepire la soggettività e la spazialità. Pensare l’attuale pandemia in termini prossemici ci permette di far emergere una serie di geografie sensibili, una mappa del cambiamento spaziale nei nostri comportamenti privati e sociali, una diversa valorizzazione delle distanze che frapponiamo tra noi e gli oggetti, tra noi e il nostro universo domestico, tra noi e l’universo collettivo. Come stiamo sperimentando durante queste settimane, l’epidemia ha un impatto senza precedenti sull’uso, l’organizzazione e la percezione dello spazio. Come prova della forza di questo impatto basti con ricordare gli attuali dibattiti sulla “distanza di sicurezza” che potrebbe evitare il contagio e permetterci così di salvaguardare la nostra salute e quella di chi ci circonda. Il problema del distanziamento sociale, un problema prossemico, diventa, allora, la nostra lente di ingrandimento con la quale osservare come i nostri corpi, e soprattutto i nostri volti, cambiano nei giorni della pandemia, come si risemantizzano e si trasformano di pari passo con il diffondersi dell’emergenza virale. L’intervento è organizzato in quattro parti: nella prima parte presenteremo una riflessione sui sensi culturali della viralità; nella seconda ci occuperemo di una breve analisi sulla relazione tra comportamenti sociali e spazialità; nella terza parte, poi, rifletteremo sui significati della distanza mentre, nell’ultima e quarta parte di questo intervento, cercheremo di porre in tensione una serie di problemi relativi al distanziamento sociale e alla relativa vicinanza tecnologica del volto del contagio. 134 Volti Virali I sensi del contagio Il contagio batteriologico nelle società contemporanee è un problema molto complesso e sfaccettato. Non si tratta soltanto di un fenomeno scientifico, di competenza della epidemiologia e della virologia medica, o un fatto esclusivamente umano, culturale, politico o economico, ma il contagio ha anche una dimensione semiotica, una dimensione cioè che ci permette di costruire mondi di senso. Minacce invisibili, insidiose e imprevedibili, i virus spesso arrivano da lontano, identificandosi con l’alterità, la barbarie, lo straniero, l’alieno. Incertezza, impredicibilità, paura e contagio vanno di pari passo. Un incubo descritto nelle storie di epidemie millenarie narrate da Albert Camus e Alessandro Manzoni e prefigurate nei racconti postmoderni, da Michael Crichton a Don De Lillo, da David Cronenberg a Terry Gilliam. La lista di testi della cultura, dove i virus appaiono come minacciosi protagonisti, sembra allungarsi negli ultimi venti anni di pari passo con l’aumentare delle infrastrutture di comunicazione, l’intensificarsi del tessuto economico della globalizzazione e il densificarsi dell’interdipendenza tra modelli biologici e modelli tecnologici. Forse questa epidemia sarà peggiore delle precedenti perché sono coinvolte e coinvolti miliardi di persone con molti mezzi di circolazione e con altrettanti mezzi di comunicazione attraverso i quali è possibile conoscere l’andamento della pandemia minuto per minuto e diffondere ogni tipo di messaggio al riguardo. Sembra, infatti, esistere una stretta connessione tra viralità e globalizzazione, tra virus biologico e virus tecnologico. Forse, 135 Gramigna e Voto avvalendoci dell’unica e attuale forma di viaggio possibile, possiamo immaginare una prima intersezione tra bio-virus e tecno-virus spostandoci in una lontana sera del 1938 a New York, vent’anni dopo la fine della prima Grande Guerra e l’epidemia tristemente conosciuta come “spagnola”. Stiamo ascoltando Mercury Theater on Air, un programma di adattamenti dal vivo di classici letterari della CBS Radio. Nell’episodio un giovanissimo Orson Welles, assieme allo sceneggiatore Howard Koch, decide di adattare il romanzo del quasi omonimo Herbert G. Wells dal titolo La guerra dei Mondi (1897). Il programma radio si trasforma in questa notte del 30 di settembre del 1938 nella diretta di un atterraggio alieno nei pressi dello stato del New Jersey dove, dopo un’ora di avvincenti scontri, gli invasori muoiono grazie alla presenza di certi batteri nell’atmosfera terrestre che annichiliscono l’attacco marziano. Fine della trasmissione e inizio del contagio. Il bio-virus narrato1 da Welles, sebbene sul piano narrativo sconfigga l’alieno e lasci l’umanità in salvo, diventa on air, una frenetica cronaca d’assalto con tanto di bollettini, sonorizzazioni, effetti speciali e interviste alle presunte autorità. La messa in scena e in diretta dell’attacco alieno riduce al minimo le distanze del patto comunicativo di chi ascolta da remoto. Come risposta a questa rottura dell’incredulità e all’accorciarsi della distanza interpretativa il tecno-virus inizia il contagio e si propaga, sulle strade si riversa la cit1 Nel saggio La rivoluzione elettronica (1971) William Burroughs definisce ‘virus’ un’unità di parola e immagine che ha la tendenza ad autoreplicarsi e infettare un organismo ospite, ovvero la mente umana: la mente è l’organismo scelto dal virus del linguaggio per autopropagarsi. 136 Volti Virali tadinanza terrorizzata da quanto ascoltato alla radio e nei giorni successivi la stampa è piena di titoli dove si leggono le parole guerra, alieni, virus e isteria di massa.2 Concludiamo il nostro viaggio nel tempo e ritorniamo all’emergenza virale Covid-19 del 2020. Immaginare una serie di continuità con l’episodio del 1938 potrebbe venirci incontro per iniziare a figurare alcuni effetti di senso del contagio nello spazio sociale, inteso come quello spazio che trasforma le relazioni interpersonali e interspecifiche: è nello spazio sociale, infatti, che avviene la trasmissione del virus. Dal punto di vista della semiotica, il fenomeno del contagio può venire inquadrato da diverse prospettive utili a mettere in luce quali siano le traiettorie del senso nel contesto di un’emergenza virale. Esiste sicuramente una comunicazione del contagio che ha a che vedere con un problema informativo, il problema dell’informazione e della disinformazione, lo stesso problema messo in luce da Welles e Koch all’inizio del secolo scorso. Durante le ultime quattro settimane i diversi testi in circolazione aventi per oggetto l’attuale pandemia creano una pluralità di discorsi – scientifico, giornalistico e divulgativo, fantastico, complottista, satirico, ecc. Esiste una dimensione psicologica del problema che ha a che vedere con il contagio come forma di isteria di massa e concerne i meccanismi di creazione della paura che si manifestano a livello collettivo, così come riportano le testate dei giornali all’indo2 Facciamo riferimento all’archivio digitale che raccoglie le prime pagine dei giornali statunitensi all’indomani della trasmissione di Welles e Koch consultabile in:http://www.digitaldeliftp.com/DigitalDeliToo/Images/War-of-The-WorldsGalley.pdf (ultimo accesso il 9 aprile 2020). 137 Gramigna e Voto mani della Guerra dei Mondi. Esiste anche una dimensione comportamentale che investe le modificazioni delle pratiche e dei comportamenti individuali e collettivi che emergono come conseguenza della pandemia. Queste pratiche di comportamento possono avere una forma ludico-teatrale, come le flash mob per la quarantena inscenate in molte città italiane che hanno visto performance estemporanee sui balconi delle abitazioni di molti italiani e italiane, oppure si concretizzano in forme irrazionali di massa, come la corsa ai supermercati, esattamente come nel 1938, o economica (si pensi alle varie forme di speculazione economica come conseguenza della massiccia richiesta di mascherine). Anche molti comportamenti trasgressivi, come le feste improvvisate e gli assembramenti in luoghi pubblici e privati che contravvengono ad uno dei nuovi motti ai tempi del Covid-19 – “Io resto a casa” – rientrano in questa logica. Esiste poi anche una dimensione estetica del corpo e del volto che cambia (si pensi all’uso quasi obbligatorio della mascherina) e alle pratiche che innesca l’utilizzo di questo antichissimo e al contempo nuovo dispositivo di protezione, ai selfies degli operatori sanitari in prima linea con i contrassegni sul volto dei turni lunghissimi e faticosissimi che hanno fatto il giro del mondo e hanno fatto commuovere il web. Questo breve intervento si prefigge una riflessione sul concetto di prossemica in quanto, come vedremo, l’epidemia ha un impatto non secondario sull’uso e la percezione dello spazio pubblico e privato. 138 Volti Virali La “distanza di sicurezza” e i nuovi codici comportamentali L’attuale emergenza epidemiologica innescata dal propagarsi del virus Covid-19 in Italia così come in altre nazioni europee e nel mondo, ha un impatto evidente sull’uso dello spazio pubblico e privato. Le varie misure straordinarie di contenimento del virus varate dal governo italiano nelle ultime otto settimane istituiscono un nuovo codice di comportamento e di regole che riconfigura la geografia dei luoghi pubblici e privati, istituisce un nuovo linguaggio dello spazio, e stabilisce confini e frontiere finora inediti. La distanza di sicurezza, cioè lo spazio che separa una persona dall’altra e che dovrebbe servire come misura preventiva per limitare il contagio, è una delle parole chiave che è ormai entrata a far parte del vocabolario di tutti i giorni. Gli esperti discutono sulla distanza ottimale da mantenere per limitare il contagio, che secondo alcuni non dovrebbe essere inferiore ad un metro, mentre per altri è di 182 centimetri o forse più. Tuttavia, vi è consenso unanime sul fatto che il distanziamento sociale sia un obbligo da osservare. I nuovi codici di comportamento istituiti dalle misure straordinarie del governo italiano si sovrappongono e modificano i codici culturali già esistenti. Cambia il modo di comportarsi, di interagire con gli altri e di condursi in società e in privato. Le nuove regole anti-virus cambiano i riti sociali e culturali delle cittadine e dei cittadini, dai gesti di saluto – che dovrebbero evitare baci, abbracci, strette di mano, ed ogni altro contatto fisico – al divieto di assembramento nelle piazze, nei bar e in altri luoghi pubblici. Sembra, dunque, 139 Gramigna e Voto evidente che in un momento di emergenza epidemiologica in cui il bisogno di limitare il contatto fisico è essenziale, riemerge con grande attualità il tema dell’uso e della percezione dello spazio sociale e personale dell’uomo. Questi cambiamenti si traducono nell’adozione di uno nuovo stile di vita e in nuove pratiche semiotiche che trasformano la relazione tra uomo e ambiente e le relazioni interpersonali. Queste regolamentazioni hanno come obiettivo la costruzione di una nuova grammatica d’uso dello spazio con cui abilitare nuove significazioni rispetto ai modi di stare in contatto nei giorni della pandemia. Per poter comprendere i termini di questa risemantizzazione è anzitutto necessario ricordare che il corpo nello spazio significa sempre qualcosa perché il corpo è sempre, e allo stesso tempo, sia oggetto sia soggetto della spazialità. Ma come cambia la percezione e l’uso dello spazio durante un’emergenza virale? Lo spazio, il senso dello spazio e i processi di significazione che possono sorgere intorno alla spazialità iniziano e finiscono nel corpo e nelle dimensioni cognitive, pragmatiche e affettive relative al corpo. Ogni corpo nello spazio significa qualcosa e l’indice di permeabilità, l’indice di profondità di questo significato è esattamente quel senso di disorientamento – inteso come modifica, cambiamento, trasformazione dei significati d’uso, organizzativi e percettivi dello spazio privato e sociale – che stiamo sperimentando in questi giorni, e che sicuramente continueremo a sperimentare nei mesi avvenire. Perché nelle rare occasioni in cui calpestiamo il suolo pubblico tendiamo ad allontanarci dalle altre persone che incrociamo per strada? E an140 Volti Virali cora, come cambia il rapporto con il nostro proprio spazio corporeo? Siamo già diventate/i capaci di non toccarci più la faccia? O di salutarci con il gomito? Dove finisce, insomma, lo spazio del contagio e dove inizia quello del virus? Per cercare di comprendere come i sensi spaziali si trasformano, come assumono nuovi valori durante l’emergenza epidemica possiamo avvalerci del concetto di corposfera introdotto dal semiologo venezuelano José Enrique Finol (2011). La corposfera è un modello olistico, analitico e descrittivo che, in dialogo con la teoria semiotica di Juri Lotman (1984), permette di diagrammare i mondi del senso della corporeità. È uno strumento cartografico con il quale diventa possibile immaginare una mappa morfologica e articolata del corpo segnata da punti di contatto disciplinari tra semiotica, antropologia e scienze naturali. Come ogni mappa anche la corposfera è marcata dai certi limiti e da certe frontiere che stabiliscono i confini biologici e culturali del corpo. Nel corso della storia occidentale, per esempio, religione filosofia e scienza hanno segnato diversi, e spesso controversi, limiti nel/del/sul corpo dando vita a una serie di intrecci semantici, pragmatici e sintattici e che hanno fatto dei nostri corpi un paesaggio significante spesso teatro di scontri del senso. Proviamo allora a tracciare i limiti della corposfera nell’attuale contesto virale: col diffondersi dell’epidemia i nostri corpi in generale e le nostre facce in particolare diventano indici di un sistema spaziale emergente, una geografia che è fatta di nuovi distanziamenti per i quali le zone di transito della faccia diventano oggetto di ripetute attenzioni regolative e normative. Sappiamo che la bocca, le narici e gli occhi, le 141 Gramigna e Voto cavità presenti sulla nostra superficie facciale, sono gli orifizi che possono far entrare e uscire i fluidi che favoriscono il contagio. Questi elementi sintattici del volto, protagonisti di perseveranti attenzioni nella nostra quotidianità pandemica, diventano allora le forme di una nuova morfologia del contagio sulle quali bisogna intervenire come società: indossiamo mascherine che evitano la trasmissione del virus, ci laviamo frequentemente le mani ed evitiamo il contatto delle mani con gli occhi e la bocca. Questa nuova morfologia epidemica ci presenta, quindi, almeno tre nuovi quesiti relativi al senso delle distanze dei volti: come tracciare le relazioni di interiorità e esteriorità della faccia rispetto al contagio? Dove situare i limiti dei gesti e dei comportamenti facciali che favoriscono o debilitano il contagio? Come interpretare i codici di distanza e di interazione del volto del contagio? La prossemica: l’uso dello spazio nelle relazioni umane La distanza che separa gli esseri umani gli uni dagli altri è oggetto della prossemica, una branca del sapere che si occupa delle osservazioni e delle teorie sull’uso dello spazio da parte degli esseri umani. Il termine “prossemica” deriva dall’inglese “proxemics’ e fu coniato dall’antropologo americano Edward T. Hall, il quale, in uno studio intitolato The Hidden Dimension e pubblicato nel 1966, descriveva la semiotica dello spazio come una “dimensione nascosta”, come appunto suggeriva il titolo.3 Riprendendo le ricerche 3 Il termine proxemics fu coniato da Hall nel 1963 con un articolo intitolato “A system for the notation of proxemic behavior”. 142 Volti Virali etologiche di Heini Hediger sul comportamento animale, Hall estende i principi delle distanze nel mondo animale allo studio dell’uso nello spazio nell’uomo. Per Hediger ogni animale è circondato da uno spazio che serve a mantenere la distanza appropriata tra gli individui. Questo spazio si potrebbe immaginare come una sfera o una bolla che incorpora un organismo e lo separa dagli altri. Hediger identifica quattro tipi di distanze tra gli animali, a seconda che si tratti di incontri tra animali della stessa specie o di specie diverse. Esiste uno “spazio di combattimento” e uno “spazio critico” negli incontri intra-specifici e uno “spazio personale” e “sociale” in quelli inter-specifici. Con il termine “distanza personale” Hediger designa la distanza che separa i membri di due specie che non sono in contatto. Hall, dunque, rielabora le intuizioni fornite da Hediger in campo etologico ed estende il concetto di spazio alle relazioni tra gli uomini. Hall si chiede quanti tipi di distanze si possano individuare nell’uomo e come si possano distinguere. A questo proposito propone una vera e propria tipologia delle distanze umane. In The Silent Language, egli ne individua prima otto, che successivamente riduce a quattro: la distanza intima, personale, sociale e pubblica, che vanno dalla distanza più ravvicinata a quella più lontana. Potremmo rappresentare la differenza tra questi tipi di distanze personali come una serie di cerchi o sfere concentriche che vanno da una distanza molto ravvicinata, la distanza intima, a quella meno ravvicinata, la distanza pubblica. 143 Gramigna e Voto Fig. 1 Le distanze nelle relazioni umane L’antropologo statunitense aveva inoltre intuito come l’uso dello spazio nelle relazioni umane sia un fatto culturale che varia, dunque, da cultura a cultura. Ad esempio, l’uso dello spazio nella cultura italiana è diverso dall’uso dello spazio nella cultura francese, giapponese o statunitense. La prossemica virale tra distanziamento sociale e avvicinamento tecnologico Il distanziamento sociale sembra coincidere con il riconoscimento della nostra interdipendenza su scala globale. Mentre ci ritiriamo nei nostri spazi abitativi oramai sfere di relativo isolamento – per chi ha il privilegio di averne uno – il virus, invece, attraversa rapidamente i confini di qualsiasi territorio nazionale e porta alla chiusura di quasi tutte le frontiere. Cosa fare, allora, di fronte alle regolamentazioni introdotte dall’attuale codice di distanziamento sociale? Quali possono essere 144 Volti Virali le conseguenze di questa pandemia quando pensiamo ai nostri obblighi negli spazi, sia privati sia pubblici, e alla profonda reciprocità che organizza la nostra trama sociale? L’epidemia cambia drasticamente i significati dello spazio, non c’è dubbio: durante l’emergenza sanitaria stiamo sperimentando come il mantenimento di una distanza da e con chi ci circonda trasmuti il suo valore affettivo originario – “lontano dagli occhi lontano dal cuore”, diceva il proverbio – fino a diventare una maniera, differente e forse virale, di prendersi cura dell’altra/o. La distanza in epoca virale può diventare affetto, come uno spazio di decompressione del contagio i cui limiti oscillano tra il curare – come curing –e il prendere in cura – come caring. In questo nuovo spazio, poi, sembra essere necessario perdere il privilegio della faccia come strumento di interazione e di segnalazione dal vivo, come progetto comunicativo abilitato dal vantaggio che ci sottrae ai doveri prossemici del contagio. Il volto del contagio, allora, trasforma le relazioni di interiorità e esteriorità della faccia – assolutamente vietato il contatto delle dita con gli occhi e con la bocca; trasforma i gesti e comportamenti facciali – si consiglia di starnutire tra braccio e avambraccio all’altezza del gomito e non nelle mani, di lavarsi le mani diverse volte al giorno e di non baciarsi, non stringersi la mano, non abbracciarsi –; e trasforma i codici di interazione – mentre scriviamo queste pagine in alcune regioni italiane inizia ad essere obbligatorio l’uso di una mascherina sanitaria, in altre le istituzioni hanno già organizzato giornate di distribuzione gratuita di mascherine. Il volto del contagio, però, costruisce anche nuove alleanze spaziali: nuovi confini, nuove frontiere e nuove zone di transito. In questo senso il vol145 Gramigna e Voto to del contagio guadagna anche nuove distanze, come il diffuso e la periferia, nuove spazialità virali degli ordini sociali e privati. Questi sono i giorni, del resto, nei quali stiamo diventando complici di una diffusione sempre più esponenziale dei nostri volti nella rete, oggi più che mai volti virali: l’educazione a tutti i livelli diventa ‘a distanza’, il lavoro ‘agile’, gli incontri con le persone ‘videochiamate’, l’attività fisica esercitata via ‘app’. Sono giorni dove sperimentiamo sulla nostra pelle e sui nostri schermi cosa vuol dire stare al centro di una rete di connessioni e quali possono essere le dolorose conseguenze di un divario sull’accesso ai servizi telematici, di comunicazione e di informazione. A ben vedere sembra esistere una relazione significativa tra distanziamento sociale e avvicinamento tecnologico, come se all’aumentare della distanza nello spazio sociale e privato corrispondesse un inversamente proporzionale avvicinarsi della tecnologia. Per esempio se, da una parte, durante l’emergenza epidemica la faccia sembra perdere sempre di più il suo indice di connessione sociale – siamo parte di una società perché ci mettiamo la nostra propria faccia – dall’altra, durante la pandemia, la tecnologia si avvicina e si avvale sempre di più di immagini digitali del volto che si traducono in dati – visto che non possiamo più metterci la faccia, o piuttosto, visto che metterci la faccia può favorire il contagio ci appoggiamo a tecnologie, dispositivi e piattaforme capaci di far circolare i nostri volti virali. In una epoca di eccezionalità come quella che stiamo vivendo, il termine biopolitica (Foucault 1976) può ritornarci utile per circoscrivere il campo di tensione politico segnato dalle reti di potere che gestiscono e regolano il disci146 Volti Virali plinamento della corporeità durante l’emergenza sanitaria. L’effetto del senso della biopolitica è oggi completamente visibile ai nostri occhi, oltre ad essere sperimentabile nel nostro vissuto, e implica la regolamentazione di tutta una serie di decisioni riguardo la salute, l’immunità collettiva e l’identità di chi ha il diritto di accedere a quel ‘noi’ da difendere dal virus. Il fenomeno del distanziamento sociale diventa, allora, una sorveglianza biopolitica tra il confinamento e l’ordinamento sanitario per ridurre al minimo il contatto nella società e aprire il passo all’irrompere di strumenti di sorveglianza digitale perfezionati per lo stato emergenziale. Abbiamo letto che in Cina, in più di duecento città, sia sta già usando un’applicazione conosciuta come Alipay Health Code, un software che regola le quarantene, valuta il rischio di contagio del virus e invia i dati alla polizia per poter controllare i movimenti della popolazione.4 Esiste, poi, il caso della Corea del Sud: nel paese non c’è stato un blocco totale delle attività, ma, sin dall’inizio dell’emergenza epidemica, le agenzie governative hanno fatto ricorso alla tecnologia utilizzando i filmati delle telecamere di sorveglianza, i dati di localizzazione e i registri di acquisto delle carte di credito per rintracciare i movimenti delle persone contagiate e stabilire le catene di trasmissione dei virus5. Se 4 Si veda l’articolo del 1 marzo 2020 apparso sul New York Times dal titolo: “In Coronavirus Fight, China Gives Citizens a Color Code, With Red Flags” scritto da Paul Mozur, Raymond Zhong e Aaron Krolik:https://www.nytimes. com/2020/03/01/business/china-coronavirus-surveillance.html 5 Si legga quanto riportato dal filosofo Byun-chun Hal, originario di Seul e attualmente docente presso l’Universität der Künste di Berlino: https://elpais. com/ideas/2020-03-21/la-emergencia-viral-y-el-mundo-de-manana-byungchul-han-el-filosofo-surcoreano-que-piensa-desde-berlin.html (ultimo accesso il 9 aprile 2020). 147 Gramigna e Voto guardiamo al contesto locale, anche nella regione Lombardia le autorità stanno già analizzando i dati di localizzazione trasmessi dagli smartphone della cittadinanza per monitorare il rispetto delle regolamentazioni sull’isolamento.6 Ed è proprio di questi giorni la notizia della scelta, da parte del governo italiano, dell’applicazione mobile che monitorerà l’evoluzione della pandemia nella cosiddetta fase 2: Immuni. Una volta scaricata sui nostri dispositivi mobili, Immuni rilascerà i dati geolocali tramite la tecnologia Bluetooth Low Energy permettendo il tracciamento - tracking - dei nostri contatti e la relativa mappatura dei movimenti sul territorio. L’applicazione mobile sarà lo strumento per la visualizzazione di una geografia virale organizzata sulle tracce mediali e locative che ridisegnano continue mappe del contagio. Da un punto di vista semiotico, Immuni può essere l’occasione per riflettere sulla natura dei fenomeni che si manifestano sugli schermi dei nostri dispositivi mobili, sulla superficie che ci protegge, ci mette in contatto e ci separa dal nostro intorno; la faccia significativa, materiale e comunicativa dei nostri smartphone. 6 Ricordiamo le affermazioni di Fabrizio Sala, vice presidente della Regione Lombardia e assessore per la Ricerca, Innovazione, Università, Export e Internazionalizzazione, dell’8 aprile 2020: “Questa settimana siamo partiti male, è un dato che ci allarma, andremo ad approfondirlo ancora di più e abbiamo intenzione di rilevare gli spostamenti a livello provinciale per vedere dove ci si muove di più e metteremo i dati a disposizione dei prefetti per aiutare le forze ordine a capire dove servono più controlli.” Consultabile in https://www.ansa. it/lombardia/notizie/2020/04/08/f.sala-ieri-mobilita-40-dato-che-allarma_ ae0da987-08a0-432c-9b34-3b79248c15b4.html (ultimo accesso il 9 aprile 2020). 148 Volti Virali Resta, quindi, un’ultima riflessione da fare, un’ultima proposta prossemica ai tempi della pandemia: se all’introduzione di un distanziamento obbligatorio nel nostro tessuto quotidiano è inevitabile l’avanzare tecnologico, come fare per coabitare e condividere le nostre inquietudini? Le nostre zone grigie, quelle nere, quelle dense; quelle che sfuggono al riconoscimento – recognition – trasparente della tecnologia? E allora se la tecnologia ha un effetto specifico sulla cultura e se quell’effetto può rappresentare una tipologia specifica di intervento sulla nostra esperienza, non ci resta che compiere un ultimo movimento verso l’interno, un ultimo distanziamento con il quale sentire l’intensità di questa nuova prossemica. E perché no, allucinare altre esperienze dell’esistenza: cambiare l’attuale in desiderio o, meglio, introdurre il desiderio nell’attuale, cedere a quella strana forza che prevale e che è capace di trasformare la realtà. Abbiamo persino il tempo di concederci il lusso di essere confuse/i, che non sarà mai come vivere nella confusione. 149 Gramigna e Voto Bibliografia Finol, J. E. (2011) On the Corposphere: towards a cartography of the body. “Revista Epistémè”. Center for Applied Cultural Studies University of Korea, South Korea, 6: 1 – 22. Foucault, M. (1976) La volonté de savoir. Gallimard: Paris (trad. it La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 Milano, Feltrinelli, 1978). Hadley Cantril, A. (1940) The Invasion From Mars: a Study in the Psychology of Panic. Princeton, Princeton University Press. Hall, S (1963) A system for the notation of proxemic behavior, “American Anthropologist, New Series” Vol. 65, 5: 1003–1026. Hall, S (1966). The Hidden Dimension, New York. Anchor Books (trad. It. La dimensione nascosta, Milano, Bompiani, 1968). Lotman, J. M. (1992) La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti. Marsilio: Venezia. 150 Spazi (turistici) contagiati guardare oltre Elsa Soro Università di Torino Ostelea School of Tourism Management Sunrise finds him walking alone on a cement road between piles of smoking rubbish. The sun shines red through the mist. At the crossroad where a red warning light winks and winks, there’s a gasoline station and opposite a lunch wagon. Carefully he spends his last quarter on breakfast. That leaves him three cents for good luck, or bad for that matter. A huge furniture truck, shiny and yellow, has drawn up outside. “Say, will you give a lift?” he asks the red haired man at the wheel. “How fur ye goin?” “I dunno...Pretty far” > John Dos Passos, Manhattan Transfer 152 Spazi del contagio/ spazi contagiati Uno degli effetti del contagio, qualunque sia l’origine e le specificità della sua manifestazione, è una trasformazione della messa in discorso dello spazio. Questo breve testo ha come obiettivo problematizzare come la mutata modulazione dello spazio, durante la pandemia da COVID-19, instauri nuove relazioni tra luoghi, corpi e sguardi, e come il volto sia portatore delle tracce di questi slittamenti semantici. Il percorso che il testo traccia inizia in un passato recente, quello relativo allo sfociare dei primi focolai di COVID-19 in Italia a fine febbraio 2020, un tempo che nel momento della scrittura, a circa due mesi di distanza, appare quasi remoto: costretti dall’inizio del confinamento a una sorta di temporalità durativa, sembra che la pandemia e le nuove forme di vita da esse generate, durino ormai da sempre. In senso diacronico, sul filo del tempo, si potrebbe percorrere una semiotica degli spazi contagiati, rilevandone le trasformazioni. Prendendo in considerazione alcune opposizioni semantiche di base che soggiacciono a tali trasformazioni (interno vs esterno, pieno vs vuoto, denso vs rarefatto), si potrebbero identificare le rispettive evoluzioni. Al progressivo svuotarsi delle strade e degli spazi esterni, si avvicenda l’affollarsi degli spazi interni, provocato dalla coesistenza simultanea di tutti i membri della famiglia in un unico domicilio e dal tragico strabordare di pazienti, personale e apparecchiature negli ospedali. Al rarefarsi dei gesti e dei contatti negli spazi del consumo, della cultura e del leisure, all’addensarsi delle interazioni in rete, sempre più insistenti, fitte, invadenti. 153 Elsa Soro Questo testo si sofferma sulla soglia di queste trasformazioni e le osserva dal punto di vista di un ruolo attoriale specifico, quello del turista. L’analisi della prospettiva del turista, colui che è semioticamente deputato (o condannato) alla continua valorizzazione degli spazi che attraversa, permette di cogliere alcune sfaccettature del cambio delle geografie dei nostri spazi, interni e esterni, e come, queste ultime si leggano sul volto. Il testo traccia, così, una breve esplorazione degli spazi urbani nel tempo del loro progressivo svuotamento, seguendo gli spostamenti del turista, con una vettorialità che va dall’esterno all’interno, e si sofferma in chiusura, nel tempo in cui la pratica turistica è temporaneamente sospesa. Tuttavia, anche in questo tempo, quello della chiusura, della clausura e dell’impossibilità del movimento, la discorsività turistica sembra resistere e rigenerarsi in forme nuove, immobili ma non meno dinamiche, attraverso nuove testualità, nuovi dispositivi e così impegnarsi in nuove forme di valorizzazione degli spazi, dei corpi e dei volti. Ed è proprio dal volto che lo sguardo, privato di un orizzonte spazio-temporale, continua a guardare, vedere, operare pertinentizzazioni, insomma, ad attribuire senso. E sullo sfondo, qualche turista Nei giorni immediatamente precedenti al lockdown di tutta l’Italia deciso dal Governo Italiano, che sanciva la chiusura totale dei comuni con focolai attivi e la sospensione di manifestazioni ed eventi negli stessi comuni, le testate dei media 154 Volti Virali proponevano, più o meno in forma corale, alcune immagini: le piazze, le strade, i ristoranti del nostro Paese si stavano svuotando. All’interno, poi, dei servizi informativi dedicati all’apparizione e alla progressiva diffusione del contagio in Italia, gli albergatori e in generale gli operatori del turismi, esprimevano il timore di una possibile calo del fatturato dovuto alle numerose cancellazioni che stavano ricevendo. Tuttavia in quegli spazi semi-vuoti ormai, una presenza sembrava resistere: quella di alcuni sparuti gruppi di turisti. Nel momento in cui il nuovo regime topologico del vuoto e del chiuso si stava inesorabilmente imponendo sul nostro territorio, ecco che nel bel mezzo del silenzio, sullo sfondo o in primo piano, seduti ad un unico tavolino, qualche ultimo turista restava, significando, con questa presenza, un fuori luogo e fuori tempo massimo Fig. 1: Due turiste a Pompei 155 Elsa Soro Fig. 2: Gli unici turisti Simili rappresentazioni sono apparse poi in altri Paesi, nella misura in cui il contagio si andava diffondndo e questi si arrendevano all’evidenza della necessità di chiudere. Quando il COVID-19 ha iniziato a manifestarsi significativamente in Spagna e il Governo ha proclamato lo Stato di Emergenza, i giornali delle città spagnole notoriamente più turistiche, nel giorno di entrata in vigore del Decreto, registravano le infrazioni all’Ordinanza. Le forze dell’ordine, almeno in quelle prime giornate di lockdown, erano state dispiegate perlopiù con l’obiettivo di rimuovere gli ultimi turisti “distratti”, come mostra l’incipit di questo articolo apparso su La Vanguardia, quotidiano di Barcellona, il giorno 14 marzo 2020: El llamamiento a la ciudadanía a quedarse en casa y los cierres generalizados de comercios, bares y otros locales han dejado prácticamente desiertas las calles 156 Volti Virali de Barcelona, a excepción de las playas, donde se han dejado ver grupos de gente y turistas tomando el sol, haciendo ejercicio físico y contemplando el mar1. L’articolo poi prosegue con una carrelata d’immagini ad illustrare i fatti: Fig. 3: Gli unici turisti sulle Rambles Fig. 4: Un negozio di souvenir nel Barrio Gotico di Barcellona aperto nonostante il lockdown 1 L’appello ai cittadini di rimanere a casa e le chiusure generali di negozi, bar e altri luoghi hanno lasciato le strade di Barcellona praticamente deserte, ad eccezione delle spiagge, dove gruppi di persone e turisti sono stati visti prendere il sole, fare attività motoria e contemplare il mare (trad.mia) 157 Elsa Soro Fig. 5: Una turista davanti alla Sagrada Familia Fig. 6: L’ultimo scatto alla Sagrada Familia 158 Volti Virali In queste immagini la pratica turistica in dismissione viene rappresentata come resistente, “solo i turisti passeggiano sulle Rambles”, “solo i negozi di souvenir restano aperti”, fino alla terminatività dell’ultimo atto, quello di scattare l”ultima foto”, con le mani imbrigliate nei guanti. Turismo e mascherina Dal punto di vista semiotico, la figura del turista si interdefinisce in relazione a una dimensione temporale — il tempo libero rispetto al tempo del lavoro — e una dimensione spaziale, che è altra rispetto al luogo di residenza (Bruccoleri, 2009). In questo senso il turista rappresenta uno scarto spazio-temporale di partenza. Anche dal punto di vista attoriale il turista è una figura altra rispetto allo spazio che visita, nello sforzo di instaurare con esso gradi maggiori di appartenenza, in base alla costruzione, narrativamente precedente, di sua competenza sui luoghi. Nel nostro immaginario occidentale, l’iconografia del turista si è negli ultimi anni cristallizzata intorno ad una figuratività piuttosto specifica, caratterizzata dai tratti somatici asiatici: tale figura imbraccia poi una macchina fotografica o un cellulare con cui scatta un selfie e, spesso, indossa sul viso, una mascherina. Il significato della mascherina, attore non umano che nell’attualità enuclea il tema del contagio in corso, almeno fino a quando il COVID-19 non era una preoccupazione occidentale, era legato alla semiosfera culturale di un generico “oriente”. Originariamente legata ai precetti della medicina 159 Elsa Soro cinese tradizionale, per cui il respiro e la respirazione sono alla base di un buono stato di salute, la mascherina anti-smog si notava, principalmente, sul volto di cittadini asiatici che transitavano per turismo nelle nostre città europee. Fig. 7: Un turista Questo uso generava allora un effetto straniante che, se non altro, ci costringeva forse a riflettere sul tasso di inquinamento delle nostre città oltre che sulle diverse forme di esprimere il rispetto nelle interazioni sociali. In entrambi casi, generalizzando, la mascherina non era “affar nostro”. Del resto, bisogna precisare che l’iconografia del turista come turista asiatico (spesso dotato di mascherina) tematizzava un dato socio-economico rilevante: la Cina era diventa- 160 Volti Virali ta, secondo la UNWTO2, il più grande mercato emissore di turismo e dal 2016 anche il paese Top Spender, sostanziando quindi tale rappresentazione. Le passioni del turista La figura di un turista asiatico colto nell’atto di performare un fuori tempo e un fuori luogo, ignaro o indifferente di fronte alla catastrofe imminente, era del resto quella restituitaci dai media in occasione dell’acqua alta a Venezia, nello scorso novembre del 2019. Fig. 8: Due turiste a Venezia durante l’acqua alta dell’autunno 2019 Nei giorni in cui un’inedita marea sommergeva la città, i media mostravano due turiste asiatiche che ne erano colte, in Piazza San Marco, assieme ai loro onerosi acquisti. 2 Organizzazione Mondiale del Turismo (https://www.unwto.org/) 161 Elsa Soro Immagini come queste mettono in discorso una temporalità e una spazialità “parallela” rispetto al vivere quotidiano del luogo, dimensione su cui “viaggia” il turista, e figurativizzano una contraddizione insita nella forma di vita turistica. La domanda turistica è definita, dalla letteratura specializzata, come “volatile”, in quanto fortemente sensibile alle contingenze delle sue destinazioni. I flussi turistici si muovono infatti sulle cosiddette percezioni dei luoghi, che sono il prodotto di una serie ampia di testualità non emesse esclusivamente dall’industria turistica, come guide e prodotti promozionali, ma prodotte da altre industrie, come quella cinematografica e dell’intrattenimento e poi soprattutto dall’Informazione. La troppo “buona reputazione” di determinate destinazioni può generare fenomeni di overturismo, definito dal rapporto Eurac, come l’eccessivo affollamento di quelle destinazioni globali dotate di un’infrastruttura turistica efficiente e spesso facilmente raggiungibili dalle compagnie low cost, fattori questi che danno vita a fenomeni di congestionamento e spesso conflitto con le comunità di residenti. Così come le destinazioni turistiche possono soffrire di overturismo, fattori socio-economici e geo-politici a livello globale possono facilmente invertire le sorti delle destinazione. Ad ogni tragico accadimento avvenuto in località in cui il turismo rappresenta una voce importante dell’economia – pensiamo ai recenti attentati terroristici che hanno colpito alcune città europee e del Mediterraneao – la do162 Volti Virali manda turistica cala bruscamente e gli operatori del settore si impegnano in campagne di comunicazione turistica mirate a rassicurare i turisti circa la sicurezza dei luoghi in questione. A questo proposito, il Rapporto sulla Percezione dell’Italia Turistica elaborato dall’agenzia di consulenza Sociometrica, con l’aiuto della tecnologia semantica, ha analizzato il cosiddetto “sentiment” dei turisti, estraendo “decine di migliaia di opinioni, giudizi, esaltazioni, arrabbiature, complicità, paure, allarmi e seduzioni”(p.4). L’edizione del 2020 del Rapporto segnala che nel visitare l’Italia, i turisti cercano quello che il testo definisce come un “bisogno di certezza”: certezza di non avere problemi, certezza di trovare un’atmosfera come quella ideale che si ha in mente di trovare, certezza che tutti i “pezzi” dell’offerta della destinazione funzionino come ci si aspetta che sia (trasporti, informazioni, prezzi) (2020, p.7 ) Il discorso sul turismo sembra così destinato a un’oscillazione continua tra passioni del viaggio di natura opposta. Le passioni euforiche che conducono all’affollamento — complici anche policies specifiche mirate alla monocoltura turistica — e quelle disforiche legate alla paura e al rischio della propria incolumità nell’incontro con l’altro, In queste oscillazioni timiche, il turista è talora rappresentato (anche parodisticamente) come un ignaro o un impavido: si vedano le due giovani turiste “a bagno” in una Piazza San Marco sommersa dall’acqua alta. A questo proposito, la 163 Elsa Soro globalizzazione dell’industria turistica porta all’emergere di nuovi segmenti e nicchie che discorsivizzano queste diverse tonalità timiche: il dark tourism o turismo oscuro, almeno nelle sue versioni più commerciali, fa leva sulla commodification (mercantilizzazione) della sofferenza e della paura, che diventano così motivazioni turistiche. Il turista oscuro, generalizzando, conduce all’estremo l’esperienza turistica percorrendo il confine dello spazio (e del tempo) turistico con quello della morte, della sofferenza o della miseria (si pensi ad esempio al turismo di favelas o allo slum tourism, nelle grandi metropoli sudamericane o africane). Nel versante opposto si situano quei servizi e prodotti in seno all’industria turistica improntati sulla ricerca dell’equilibro e del benessere psico-fisico, e che vengono rubricati nella categoria di turismo wellness. Se il turista oscuro si situa discorsivamente ai margini della semiosfera turistica, il turista del benessere è alla ricerca di esperienze “olistiche”, che coinvolgono tutti i sensi in un ovattato isolamento rispetto ai “pericoli” del mondo. Le contraddizioni del turismo: tra paura e audacia La condizione contraddittoria della pratica turistica è interpretata almeno da John Urry in poi come un paradosso della visione. In The Tourist Gaze (1990), il sociologo britannico descrive come lo sguardo turistico da una parte trasforma, pertinentizza il mondo, e dall’altra ne è a sua volta trasformato. 164 Volti Virali Tutta la riflessione semiotica sul turismo si era già mossa in questa direzione, ragionando su come il discorso turistico fosse innanzitutto un taglio (o uno sguardo) del/sul mondo. Nei termini adottati da Dean MacCannel (1976) il turista non si dedicherebbe semplicemente a visitare, ma piuttosto a sightseeing (visitare con la vista), pertinentizzando la “realtà” che visita con uno sguardo, gesto che convertirebbe un determinato luogo in un attrattiva turistica, in un marker turistico, un deittico della turisticità. Questo primato dello sguardo pertinentizza, dal canto suo, il volto da cui si emana e su cui si iscrivono, come analizzeremo in seguito, le trasformazioni del luogo. La semiotica del turismo di stampo greimasiano riprende e sistematizza questi approcci all’interno di una teoria della narratività che permette di visualizzare le relazioni tra il turista e i luoghi visitati in termini di congiunzione e disgiunzione. A questo proposito nella tipologia messa a punto da Eric Landowski (1996), la figura del “turista” esprime una disgiunzione del Soggetto-visitatore con il suo Oggetto di valore, rappresentato dal luogo visitato, luogo rispetto al quale egli rimane estraneo e impermeabile. Nella tipologia messa a punto dal semiotico francese, la figura dell’ “esteta” sarebbe invece in grado di “impregnarsi” del luogo visitato, entrando con esso in un rapporto di congiunzione. Naturalmente quelle figure di turisti che resistono di fronte all’accadimento tragico di cui abbiamo accennato in precedenza problematizzano questa opposizione, occupando diverse posizioni nello spettro semantico che la tipologia permette di visualizzare. 165 Elsa Soro Ad un primo livello di discorso, le turiste asiatiche colte nel gesto di “solcare” l’acqua alta a Venezia potrebbero mettere in scena un’assenza rispetto al luogo. Allo stesso tempo però questo gesto ci dice anche di un’immersione e di una permeabilità, segnata anche dall’elemento dell’acqua che impregna e bagna il turista, operando una trasformazione. Le “ultime” foto scattate al sito turistico e le tracce della loro produzione (si ricordi la mano col guanto nell’atto di scattare una foto alla basilica della Sagrada Familia, a Barcellona), se da una parte denotano un’azione automatica che rientrava in un programma narrativo turistico convenuto in partenza e che non subisce cambiamenti in base al luogo, dall’altra parte cristallizzano un moto di disperata congiunzione con l’oggetto estetico. Cambiando la prospettiva da cui si osserva, anche la stessa figura del turista è creata da uno sguardo stereotipizzante, quella dell’autoctono, che applicherebbe una griglia interpretativa limitante e che esprimerebbe anch’essa una disgiunzione dal proprio stesso luogo di residenza, attraversato da varie tipologie di attori che non necessariamente si possono rubricare unicamente come turisti. Quando chiude il sipario Le riflessioni che sono sorte a proposito delle tipologie turistiche illustrate nel precedente paragrafo, al di là di descrivere e imbrigliare specifici comportamenti in una o in un’altra posizione, vorrebbero riproporre e rileggere, alla luce del tu166 Volti Virali rismo contemporaneo, il carattere eminentemente semiotico di questa pratica. Questo aspetto era già stato sottolineato in gran parte degli approcci semiotici al turismo nel contesto di un’analisi del fenomeno turistico nei rispettivi tempi della scrittura. Quando Roland Barthes (1957) analizzava il dispositivo della Guida Blu, faceva notare che per il testo turistico: gli uomini esistono esclusivamente come «tipi». In Spagna, per esempio, il basco è un marinaio avventuroso, il levantino un gaio giardiniere, il catalano un abile commerciante e il cantabro un montanaro sentimentale (p.208) Al di là della problematicità di ridurre l’umanità e altri attori non umani come il paesaggio, a quelle che Barthes denominava le mitologie borghesi, il fenomeno turistico, attraverso la sua operazione di messa in discorso, rivela il dispositivo di costruzione degli stessi tipi e lo inscrive in un orizzonte storico e culturale. L’operazione di riduzione a tipi rivela così i limiti dell’operazione stessa e così facendo svela i meccanismi semiotici attivi in una determinata semiosfera culturale. Il caso stesso della descrizione della Spagna, presa ad esempio da Roland Barthes, permette di mostrare l’ingranaggio del discorso franchista. Se, come sottolinea Jonathan Culler (1981), “i turisti sono continuamente coinvolti in processi semiotici, chiamati a leggere e interpretare paesaggi, culture, sistemi di relazioni (ivi, p. 128)” così la pratica turistica permette di 167 Elsa Soro rivelare il backstage di goffmaniana memoria di quello che è definito, nei termini del precedentemente citato MacCannell, il palcoscenico dell’autenticità. Il discorso turistico non solo sarebbe capace di rivelare i propri limiti e quelli della propria semiosfera culturale in cui si è generato, ma avrebbe la capacità di farsi, nei termini dei geografi Minca e Oakes un “analytic, rather than a particular kind of behavior, experience, or practice”3 (p. 294). La cosiddetta rivoluzione digitale con l’emergere di nuovi attori turistici a cui è affidata l’intermediazione tra la domanda e l’offerta, come le piattaforme digitali per l’ hospitality, non fa che risaltare questa funzione “analitica” del discorso turistico. Le denominate piattaforme “peer to peer” o di turismo collaborativo, che tanto avrebbero contribuito ad alimentare fenomeni di gentrificazione nelle nostre città, si fanno archivi di immagini di nuove (o vecchie) forme di vita turistiche, digitalizzandone e immortalandone i gesti, i corpi, gli ambienti e i volti. Nel momento in cui le città si svuotano, per paura o per decreto, il fenomeno turistico con la propria sensomotricità resistente, ne percorre gli spazi ancora per un’ultima volta, prima della chiusura del sipario dello stage turistico. Questo movimento irriverente segna quindi diacronicamente le soglie di un tempo nuovo, in cui sembra, almeno temporalmente che il turismo si congeli o si sospenda. 3 Uno strumento analitico piuttosto che un tipo di comportanto, un’esperienza o una pratica (trad. mia) 168 Volti Virali Svuotate anche dei turisti, gli spazi delle nostre città sembrano quindi entrare in un fase topologica nuova, di cui proviamo ad abbozzarne almeno alcuni caratteri. Il nuovo turismo domestico Immagini connotate da un forte patetismo hanno segnato questo processo di svuotamento degli spazi esterni: l’omelia Urbi et orbi pronunciata dal Pontefice il 27 marzo 2020 in una piazza San Pietro deserta, il triste contrappunto dell’affollamento dei reparti di reanimazione e infine la tragica marcia dei mezzi militari con i feretri dei morti da Corona Virus del bergamasco che i cimiteri locali non riuscivano più a contenere. Immagini destinate a restare e che segnano un processo di risemantizzazione dello spazio, operazione sempre sottesa alle dinamiche culturali che attraversano le nostre società e ora accelerato dal contagio. Non solo lo spazio urbano, ma tutti i luoghi propri dell’industria turistica sono anch’essi interessati da questo processo di risemantizzazione: le strutture alberghiere per esempio, come già era avvenuto in altri situazioni di emergenza, come terremoti o alluvioni, ospitano i degenti “sfrattati” dagli spazi tradizionali della cura perché troppo affollati. Gli spazi fieristici e del turismo da congresso diventano ospedali da campo. Quest’immagine dello spazio fieristico IFEMA nella città di Madrid, una delle cinque istituzioni fieristiche più importanti d’Europa che ospita ogni anno, oltre a molti altri eventi, anche FITUR, la seconda fiera di turismo interna169 Elsa Soro zionale più importante al mondo, forse rende ragione della metafora bellica riferita alla situazione generata dalla pandemia. Fig. 9: IFEMA trasformata in ospedale da campo Ma in questo sovvertimento delle funzioni degli spazi messa in atto dall’emergenza, dove va a finire il turismo, una volta sfrattato dai suoi tradizionali spazi di consumo, sosta e percorrenza? Durante il contagio, l’unico spazio dove, secondo le prescrizioni dei Decreti ministeriali - destinanti che istruiscono il nostro dover fare –, è possibile la circolazione, è quello domestico. Quando il tempo della pratica turistica è sospeso, essa tuttavia resiste, e semplicemente, come è proprio di una pratica che esprime una mobilità, opera un ulteriore spostamento. Se lo spazio che resta è quello domestico, ecco che le testualità turistiche si riconvertono e spingono alla sua esplorazione. 170 Volti Virali Le guide turistiche, classificate da Greimas (1983) come testi programmatori, testi cioè che forniscono istruzioni per l’uso destinate ad essere messe in pratica e che modalizzano il lettore secondo un dover fare, istruiscono quindi su come visitare la propria casa. Il sito web della celebre guida Lonely Planet dispensa consigli e istruzioni su come gestire e vivere il proprio spazio domestico nel tempo dell’attesa. Fig. 10: Consigli per restare in forma in attesa della prossima avventura all’aria aperta Se l’unico viaggio possibile è quello dell’immaginazione, allora la guida accompagna il lettore in testi ancillari alla pratica turistica vera e propria, come romanzi, dischi, film. Fig. 11: 500 modi di viaggiare dal proprio sofà 171 Elsa Soro Se l’esperienza turistica, durante il viaggio, veicola i cinque sensi, nella stasi, nei tempi del contagio si riduce ad un’esperienza del gusto. Fig. 12: Viaggiare con il gusto Le guide invitano quindi al viaggio virtuale. Fig. 13: Vacanze virtuali 172 Volti Virali La copertina di una fatidica guida Lonely Planet dedicata alla “Casa”, esalta poi le attrattive di questo luogo. Fig. 14: La Guida di Casa Quando, come suggerisce Massimo Leone in una recente intervista per la pagina web dell’Università degli Studi di Torino, “la domanda chiave non è dunque più “dove sei?” ma “come stai?”, le mappe geografiche o diventano irrilevanti o si dedicano all’esplorazione dello spazio di casa e sui social media. I selfies diventano anacronistici e mostrano, in vari contest fotografici promossi sulle reti sociali, le vacanze dell’anno scorso. 173 Elsa Soro Lo sguardo sotto la maschera Ecco che quando la scenografia turistica viene ricreata tra le mura di casa, anche il nostro volto — da superficie denudata dai rituali di cura che destinati alla socialità, come il trucco o la rasatura —diventa uno spazio in bianco su cui iscrivere nuovi significati. Fig. 15: travestimenti turistici Quest’immagine, proveniente da un magazine satirico digitale e relativa a un post che ironizza sulla condizione del forzato confinamento tra le mura domestiche in linea con i precedenti testi che invitano a ricreare la pratica turistica in casa, al di là dell’indiscussa trivialità, ci permette di introdurre riflessioni conclusive. 174 Volti Virali La maschera da snorkeling, che si indossa per “giocare” al turista quando ci si trova immobilizzati a casa, è simile a quella che si è adottata negli ospedali come dispositivo per facilitare la respirazione dei malati affetti da COVID-19. Le maschere da snorkeling modificate infatti, secondo quando dichiarato dai medici e dagli specialisti, permettono di mantenere il paziente prono e farlo respirare in modo più efficace, tanto che alcune case produttrici di maschere hanno bloccato la loro vendita per donarle agli ospedali. In questo post diffuso dall’account Twitter della Polizia Municipale della città di Madrid, si ringrazia per le donazioni e si mostra come un paziente ne possa beneficiare, attraverso una piccola manipolazione dell’oggetto. Fig. 16: L’uso della maschera da snorkeling in terapia intensiva a Madrid 175 Elsa Soro Un dispositivo che permetteva di respirare sott’acqua, permette ora “semplicemente” di respirare: il volto (del paziente) che, sotto la maschera, esultante, respira si fa superficie di scrittura di questo nuovo uso. La mascherina è uno degli oggetti ultimamente più trattati non solo dalla cronaca e dall’informazione, ma da analisi di carattere più scientifico che cercano di analizzarla come un dispositivo innanzitutto estetico, come dimostra questo stesso volume. A differenza della mascherina che cela, proteggendo, solo gli orifizi del volto, ovvero il naso e la bocca, la maschera da sub copre il volto intero, presupponendo una sovrapposizione plastica, quella che conferisce a chi la indossa il ruolo dell’attore all’interno di una drammaturgia della rappresentazione (Volli, 2008). A differenza poi della mascherina il cui uso è stato “solo” esteso durante la pandemia — dall’uso esclusivamente ospedaliero, o limitato ad alcune comunità specifiche come i cittadini asiatici —, la maschera da snorkeling opera un triplo salto mortale. Dall’ “elemento” acqua, passa ad essere usata all’interno della cornice dell’ “elemento” terra, dalla forma di vita turistica, passa ad estendere il suo uso nel tempo della malattia e della cura; cambia infine la sua funzione: dall’osservazione della vita marina, passa ad essere mero veicolo di vita, attraverso il respiro. Nell’evoluzione del contagio, si osserva una vera epidemiologia del senso in atto: esso opera una progressiva infiltrazione in ogni ambito dell’esistenza e prende a prestito anche gli oggetti propri di una figuratività turistica, come una maschera da sub. 176 Volti Virali In questo nuovo e tragico scenario, diventare come i turisti e indossarne sul volto la figuratività, ad un primo livello indicherebbe riproporre quella disgiunzione dagli oggetti di valore (la socialità, la salute, in altre parole, la vita), a cui la figura stereotipata del turista è soggetta. Tuttavia, anche in questa condizione disgiunta, dissociata, silente, il soggetto continua ad operare il regime scopico dello sguardo, instaurando quindi un rapporto “con le immagini su cui si posa” (Pinotti, Somaini, 2016, p.109). Uno sguardo curioso, persistente, indagatore, semiotico. Non importa che non ci sia più nulla da guardare, la figura del turista guarda e ostinatamente vede. La persistenza dello sguardo “turistico” viene operata malgrado tutto, malgrado l’anacronismo dell’allestimento turistico. Lo sguardo persiste, dietro la maschera, in casa o nel letto di un ospedale. Lo sguardo del turista, è resiliente e quando è dislocato fuori dal proprio paesaggio di riferimento, esso opera comunque un taglio semiotico, continua cioè a pertinentizzare, e così facendo istituire valore. Lo sguardo affacciato alle finestre, o a balconi delle nostre città vuote, guarda in su, guarda in giù, guarda oltre. 177 Elsa Soro Bibliografia Barthes, R. (1957) Mythologies. Paris: Seuil; trad. it. Miti d’oggi. Torino: Einaudi, 1972. Bruccoleri, M. C. (2009) Semiotica per il turismo. Roma: Carocci. Culler, J. (1981) Semiotic of Tourism, “American Journal of Semiotics” 1: 1-2. Finocchi, R. (2013), Passioni turistiche. Semiotica ed estetica del fare turístico, “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio” 7 (1) :40-57 Greimas, A. J. (1983) Du sens II, Paris: Seuil. Landowski, E. (1996) Stati dei luoghi, “Versus” 73/74. Minca, C. e Oakes, T. (2011) Real Tourism: Practice, Care and Politics in Contemporary Travel Culture. London: Routledge. MacCannel, D. (1976) The Tourist. New York: Schocken. Pinotti, A. e Somaini, A. (2016) Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi. Torino: Einaudi. Urry, J. (1990) The tourist gaze. Londra: SAGE Publications. 178 Volti Virali Volli, U. (2008) Lezioni di filosofia della comunicazione, Bari, Roma: Laterza. Siti web consultati El Pais (https://elpais.com/) La Vanguardia (www.lavanguardia.com) I volti del Coronavirus, semiotica di una pandemia, (https:// www.unitonews.it/) Rapporto sulla Percezione dell’Italia Turistica (https://www. sociometrica.it/UNWTO (www.unwto.org) Overtourism. Ovvero quando il turismo supera i limiti. Eurac Research - Center of Advanced Studies. (http://www. eurac.edu/) 179 Volti senza corpi Sul ruolo del volto digitale nell’era della crisi pandemica Bruno Surace Università di Torino “Di ferro forgiato è la veste umana, Un’ignea forgia l’umana forma, Ermetica fornace il volto umano, Sua avida gola il cuore” William Blake, L’immagine divina 1789 Premessa (doverosa) Il testo che segue potrebbe essere definito come “saggio epistolare”. Non intendo con ciò codificare una nuova forma di paraletteratura, ma porre alcune basi di metodo, che varranno per le pagine a seguire. Si tratta infatti di pagine che in un certo senso tradiscono quello che dovrebbe essere il prerequisito di ogni ricerca scientifica: il distacco. Dal momento che questo saggio riflette su cambiamenti drastici e repentini per tutti, compreso il sottoscritto, è inevitabile che l’operazione di estraniazione del sé, quella sorta di metempsicosi accademica necessaria per trattare gli oggetti di studio senza la contaminazione della propria soggettività, risulti particolarmente complessa, se non addirittura impossibile. Questo perché lo studio riguarda una situazione traumatica, inaudita e che – soprattutto – è ancora in corso. Una situazione che da un certo punto di vista, come studiosi del senso, ci convoca, ma che non può che condizionare il nostro sguardo, poiché non è finita, e poiché nessuno di noi ha avuto il tempo materiale per scendere veramente a patti con essa. Così ho optato per alcune scelte preliminari: anzitutto, sebbene ciò non sia sempre visto di buon occhio, alle volte indulgerò nella prima persona singolare. D’altronde questo contributo è pensato per convivere con le riflessioni di altri studiosi, proprio nell’ottica di far suonare un pluralismo di voci in una maniera idealmente orchestrale. Inoltre l’andamento sarà, per l’appunto, epistolare, cioè riferito a fatti personali e al loro scorrere temporale nel corso della crisi. Tuttavia vorrei dire con fermezza che ciò non deve fare pen183 Bruno Surace sare a questo lavoro come a uno scritto di tenore aneddotico, sebbene sia redatto per un pubblico misto, di studiosi e di comuni cittadini, o con una data di scadenza già segnata. La sua mira è quella di costituire un saggio durevole, con riferimenti puntuali (perlopiù in nota), una coerenza interna, e la proposizione di alcuni percorsi teoretici che poggino su delle fondamenta salde. Si tratta cioè di una proposta effettiva di ricerca (non di uno sfogo estemporaneo), che non trae conclusioni, ma che prova a definire alcune piste. Non penso sia possibile, ad oggi, trarre conclusioni. È possibile però, e a questo punto forse doveroso, iniziare a produrre dei ragionamenti su quello che sta accadendo. Ciò va fatto senza abbandonarci al puro impressionismo, consci che il lavoro che per secoli le discipline umanistiche hanno condotto possa e debba essere radunato sotto la luce di un contesto difficile come quello che stiamo vivendo, che non esita a produrre conseguenze semiotiche di rilievo. Sulla base di queste considerazioni, che sono al contempo metodologiche e deontologiche, ho teorizzato quanto segue. Nuove formes de vie Bill Murray cammina fra la folla di Tokyo, e abbraccia intensamente Scarlett Johansson. È la scena finale di Lost in Translation (Sofia Coppola 2003), quella di un addio intenso e struggente, che oggi però ci colpisce ancora di più. Già, perché se in origine, nel lontano 2003, età preistorica in cui nemmeno Facebook esisteva, era l’addio l’elemento che sanciva l’instaurarsi di una reciproca mancanza, oggi questa 184 Volti Virali scena ci pone brutalmente davanti agli occhi due nuovi tabù: l’abbraccio e la folla. Lo fa inconsapevolmente, nei nostri confronti, quelli di spettatori che si sono visti togliere di punto in bianco, senza alcuna possibilità di replica, il piacere del caos umano, della corsa in autobus pigiati gli uni accanto agli altri, dell’abbraccio ai propri cari, amanti, amici, colleghi. Il piacere del viaggio (chi di noi, compreso chi scrive, non ha mai visto Tokyo, si trova precipitato in un mondo in cui lo spostamento di comune in comune è una chimera, figurarsi quello intercontinentale). Il piacere del contatto con e della scoperta dell’altro. L’impatto subitaneo e devastante di questo evento, non unico in senso assoluto nella Storia, che di epidemie ne ha già conosciute, ma senz’altro unico nella nostra Storia, quella di abitanti del XXI secolo, della società liquida, interconnessa, globale, assume i tratti specifici del trauma. Per capirlo basta slittare dall’idea, forse un po’ eterea, di trauma psicologico, a quella immediatamente più comprensibile di trauma fisico.1 Costituisce un trauma una tegola che ti cade rovinosamente sulla testa. Essa lo fa non per sua volontà, così come il virus, e lo fa subito, senza che tu possa reagire a priori. Quello che ti rimane da fare, una volta colpito, è reagire ex post. È quello, mi pare, e da un punto di vista che non è l’usuale “osservatorio privilegiato” che si attribuisce agli accademici, ma da chi come tutti questa crisi la sta vivendo, che stiamo facendo. Come per tutti i traumi, 1 Una rassegna di contributi sul senso del trauma e le modalità di risposta all’evento traumatico in S. Ligabue, a cura di, 2008, Rispondere al trauma. Quaderni di psicologia. Analisi transazionale delle scienze umane, 49, Mimesis: Milano-Udine. 185 Bruno Surace è bene metterlo in conto, non escludo che ci saranno, sia individualmente che socialmente, disturbi post-traumatici. Per ora però siamo nella fase dell’adattamento e del tamponamento, un po’ come quando l’uomo colpito dalla tegola viene fasciato, radiografato, e trattato con farmaci antidolorifici. Per il corpo sociale, traumatizzato dal virus, questo trattamento passa però non attraverso una somministrazione esterna, ma mediante la messa in atto di comportamenti paradossalmente molto razionali e irrazionali insieme, in dipendenza delle prospettive. Il “saccheggio” dei supermercati che ha aperto in Italia la nuova fase in cui, nel momento in cui scrivo queste righe, siamo ancora immersi, è stato da molti – nella tipica ed estemporanea foga dei social media che come un’onda particolarmente alta sposta molto la sabbia per poi risolversi in un bagnasciuga presto sostituito da un’altra onda – additato come un comportamento irrazionale. Se però ci pensiamo bene forse non è propriamente così. Le notizie erano nell’aria già da un po’, e qualche giorno prima girando per i centri commerciali (esperienza capitata a chi scrive) si subodorava qualcosa di strano. Tutti erano allerta, e le conversazioni che si captavano vertevano, inevitabilmente, sul virus. Si respirava insomma un clima di preparazione, che non faceva presagire nulla di buono. Ne parlo come fosse successo trent’anni fa, invece è passato appena un mese. Anche di questa strana dilatazione del tempo ci sarebbe da discutere. Il trauma ci fa pensare al “prima” come fosse una vita fa, ed è, credo, lo spettro dell’irreversibilità che ci costringe a ragionare 186 Volti Virali con questo tipo di aspettualità (per dirla come i semiotici, cioè in termini non solo di quantità del tempo trascorso, ma anche di sua qualità).2 Dicevo: già la cosa era nell’aria, e a un certo punto la bomba è stata detonata. A quel punto non ci si poteva aspettare molto, da persone che non avevano alcun set di regole da seguire,3 che non avevano esperienze o conoscenze pregresse specifiche,4 che erano condizionate dalle news che arrivano dalla Cina.5 Il panico, e il conseguente assalto ai supermercati, sono state risposte 2 La categoria semiotica dell’aspettualità, che appunto ci induce a pensare al tempo non solo in termini quantitativi ma anche in termini qualitativi, è ampiamente indagata in M. Leone, a cura di, 2017, Aspettualità. Lexia – Rivista di semiotica, 27-28, Aracne: Roma. Da un punto di vista filosofico non può che sovvenire anzitutto la concettualizzazione del tempo proposta da Henri Bergson, che appunto scinde fra un tempo oggettivo (quello scientifico, misurabile, indipendente) e un tempo soggettivo (quello esperito dai singoli, che fa percepire il viaggio di ritorno in macchina più veloce di quello d’andata, sebbene in termini di misurazione durino esattamente alla stessa maniera). 3 Esiste una categoria apposita in semiotica, che è quella di “script” o “sceneggiatura”, che ci insegna come ogni nostra azione nel mondo sia in qualche modo costruita a partire da un set di regole condivise, che in qualche modo funzionano per noi come dei programmi d’uso. Quando diciamo ai nostri amici che stasera andiamo al cinema, ad esempio, tutti quanti sappiamo che questa attività comporterà: mettersi in macchina, arrivare in loco, recarsi al botteghino, pagare il biglietto, mettersi in fila etc. Purtroppo per la pandemia ci mancava una sceneggiatura reale, e abbiamo dovuto rivolgerci a quelle forniteci dall’immaginario. 4 Umberto Eco ha pensato di chiamare queste conoscenze e credenze diffuse e condivise da una certa cultura – per le quali ad esempio tutti sappiamo che al giorno succede la notte e che le galline fanno le uova – “enciclopedie”. 5 Si è non a caso parlato di “infodemia”, cioè di una epidemia informativa capace di “contagiare” chiunque in termini “virali”. L’intera questione va affrontata in termini di etica della comunicazione o di semioetica, poiché la responsabilità dell’informazione è, specie in situazioni emergenziali, molto alta. A epidemia già iniziata è per colpa di una cattiva informazione ad esempio se la bozza di un decreto ministeriale ancora non definitivo è stata diffusa, generando panico e spostamenti di grandi masse di persone, proprio in un momento in cui invece era necessario evitare assembramenti. Sul tema della diffusione virale dei contenuti vedere G. Marino e M. Thibault, a cura di, 2016, Viralità. Lexia – Rivista di semiotica, 25-26, Aracne: Roma. 187 Bruno Surace collettivamente razionali, altro che. Proprio perché non sono state risposte spontanee, dei raptus, ma una reazione riferita all’unico appiglio rimasto: l’immaginario di finzione. Questa crisi, la pandemia, succede a noi per la prima volta (e gli esperti ci dicono, purtroppo, non l’ultima, monito che dovrebbe spingerci a ragionare in ottica di lungo periodo), ma in realtà l’abbiamo vissuta molte volte. Il cinema post-apocalittico, la letteratura dopobomba, i giochi post-atomici, sono stati un laboratorio in cui l’assalto ai supermercati era la prima di una serie di fasi di risposta all’avanzare del virus.6 Non avendo altri fonti a cui riferirci, abbiamo saccheggiato, come nei film, essendo noi ora i protagonisti. Abbiamo risposto al diffondersi dell’epidemia con gli strumenti acquisiti da un’altra epidemia, costante e irrefrenabile, quella dell’immaginario.7 Io personalmente, a dire il vero, non ho saccheggiato nessun negozio, ma mi sento di dire che l’accusa di irrazionalità a chi lo ha fatto sa un po’ di faciloneria, specie se si osserva la reazione a catena di paese in paese, con gli stessi risultati. Tuttavia procurarci i beni di sussistenza primaria non poteva e non può bastare. Questa lotta quotidiana non è esclusivamente per poter continuare a mangiare, possibilmente del cibo che non sia una razione militare. C’è una sussistenza semiotica ed emotiva a cui abbiamo dovuto immediatamente 6 Una serie di analisi riferite alla discorsivizzazione della catastrofe sono in V. Idone Cassone, B. Surace e M. Thibault, a cura di, 2018, I discorsi della fine. Catastofi, disastri, apocalissi, Aracne: Roma. Per lo specifico degli immaginari di finzione cfr. M. Lino, 2014, L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema: catastrofi, oggetti, metropoli, corpi, Le lettere: Firenze. 7 Il riferimento è alla felice traduzione in italiano del volume The Plague of Fantasies di Slavoj Žižek (2004, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi: Roma). 188 Volti Virali far fronte,8 ed è lì che ritengo sia avvenuta una straordinaria e spontanea rimodulazione comune delle nostre formes de vie. Questa espressione in semiotica si deve a Jacques Fontanille e prima di lui ad Algirdas Julien Greimas, ma già Wittgenstein aveva parlato di Lebensform.9 Le forme di vita sono qualcosa di più complesso degli stili di vita, e si avvicinano di più all’idea di “abito interpretativo”, per dirla come Charles Sanders Peirce.10 Chi decide di smetterla di essere un sedentario e di andare a correre tutti i giorni, perché mens sana in corpore sano, cambia il suo stile di vita. Perché cambi però la sua forma di vita questa nuova buona abitudine deve fare un salto di statuto, deve diventare per lei o per lui qualcosa di totalizzante, di inscindibile dalla sua persona, di definente. In termini discorsivi potreste accorgervi che una certa persona ha una forma di vita quando, per presentarla a un amico, gli direte che si chiama Bruno, e va correre tutti i giorni (la qual cosa, per inciso, sarebbe una menzogna). Nel momento in cui uno stile diventerà un tratto così definitorio di una persona da ricorrere nella sua descrizione, quasi a 8 C’è una distinzione, a dire il vero poco nota, proposta da Alberto Maria Cirese, fra processi umani di “fabrilità”, che hanno a che fare con il nostro sopravvivere nel mondo (procurarci cibo e mezzi di sussistenza), e di “segnicità”, che riguardano la nostra vita semiotica, il nostro bisogno di interpretare e avere a che fare con i testi. Cfr. A. M. Cirese, 1984, Segnicità, fabrilità, procreazione: appunti etnoantropologici, CISU: Roma. 9 Si tratta di un’idea complessa, e più di una teoria che una semplice categoria, che qui tratteremo in maniera schematica, allo scopo di fare passare in maniera chiara il nostro messaggio. Per approfondimenti cfr. J. Fontanille, 2015, Formes de vie, Presses universitaires de Liège: Liege. 10 Una esplorazione di questo concetto, almeno parzialmente sovrapponibile anche all’idea sociologica di “habitus” di Pierre Bourdieu, in A. M. Lorusso, 2015, “L’abito in Peirce. Una teoria non sociologica per la semiotica della cultura”, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, pp. 270-281. 189 Bruno Surace mo’ di epiteto, lì allora si tratterà di una forma di vita. Ecco dunque che il virus ci ha portati, per la prima volta nella Storia umana (questa volta in senso assoluto), a condividere delle specifiche forme di vita (cambiando le nostre senza diritto d’appello), in maniera brutale e traumatica. Gradualmente, ma tutti quanti. C’è stato un livellamento delle pratiche discorsive, per cui possiamo affermare per la prima volta di parlare tutti (che si sia a Torino, Kuala Lumpur od Oslo) della stessa cosa, e un livellamento delle pratiche di vita, che ha assunto il nome, che è un protocollo, di lockdown. Se addirittura le conversioni religiose necessitano di un percorso prima di essere portate a termine (codificato, ma anche semplicemente interiore, perché io non mi sveglio la mattina e così, dal nulla, mi dico cristiano se prima ero ateo), in questo caso invece da un giorno all’altro siamo tutti diventati sedentari, abbiamo dovuto cambiare i nostri abiti interpretativi, e abbiamo iniziato a condividere spontaneamente alcune pratiche “suppletive”. Di questo si dovranno occupare con maggiore perizia i sociologi, ma la mia ipotesi è che probabilmente non lo sapevamo, ma nel nostro profondo condividevamo alcune exit strategy, intese come zone di comfort per sopravvivere ma soprattutto sopravviverci, in caso di scenari del genere. E, cosa rara nelle scienze umane, posso portarvi la prova. Sabato 14 Marzo 2020 mi sono recato nel più vicino supermercato, per fare una grossa spesa (oggi si deve fare così), e nella mia lista era previsto anche il lievito. Il lievito era finito. Fortunatamente ne avevo un po’ a casa, e così ho fatto quello che volevo fare, cioè mi sono preparato la pizza. Era, 190 Volti Virali se non mi sbaglio, il primo sabato di ufficiale “quarantena” o lockdown su tutto il suolo italiano, e mi è venuta voglia così, “spontaneamente”. Quella sera stessa i miei social media erano invasi di persone che come me avevano fatto la stessa cosa. Ecco spiegata la mancanza di lievito al supermercato! Nessuno di noi si era messo d’accordo, ma collettivamente abbiamo avuto la stessa pensata (non ho dati alla mano, ma rispetto al mio bacino di conoscenza oltre la metà lo ha fatto, ad occhio e croce). Questo significa più di qualcosa. Significa anche che, nei termini di quello che è una sorta di décalage modale, cioè – per chi non è avvezzo alla terminologia – di passaggio da un modus vivendi in cui il “potere” diviene “dovere”, c’è ancora posto per una riflessione autenticamente semiotica. Questa situazione ci ha tolto molte alternative di vita, ma c’è ancora uno spazio di manovra, che stiamo sfruttando moltissimo per non abbandonare, assieme al cibo e alla salute, il terzo elemento che ci rende vivi: il senso. Volti senza corpi Intendo soffermarmi in questo contributo sul ruolo del volto nel contesto di questa disgraziata pandemia. Ritengo infatti che i margini di analisi siano estremamente fecondi, e tenterò di ripercorrerli qui, anzitutto a partire dall’epidemia dell’immaginario di cui sopra. Se osserviamo il ruolo dei volti nell’arco di tempo che intercorre dall’inizio dell’epidemia ad oggi, anzitutto ci avvediamo di una modifica significativa e vistosa. La mascherina. Questa è oggi, nel giro di pochissime settimane, 191 Bruno Surace diventata un oggetto di uso comune, anche da parte di chi non ne aveva mai nemmeno vista una dal vivo. Nei primi giorni solo alcuni per strada la indossavano, e, complice una infosfera che costantemente ci bombardava e ci bombarda di informazioni contraddittorie, non era ben chiaro lo scopo di questo indumento. Servono per proteggerci dagli altri, o per proteggere gli altri da noi? Questo dato ancora non è chiaro, ma se prima la percentuale di mascherine in giro per le città era tutto sommato bassa, oggi è altissima, a fronte di quattro ulteriori considerazioni: 1. Se ne vedono di ogni tipo, e non è chiaro quasi a nessuno quale siano quelle effettivamente efficaci (né per cosa), e quali no. Ne deduciamo che questo dispositivo, per oggi, ha un’utilità in termini semiotico-propriocettivi (dà un senso di sicurezza) che sembra sopreccedere quella effettiva in termini sanitari (dà una effettiva sicurezza); 2. Non ce n’è per tutti. La mascherina, un po’ come i gel igienizzanti per le mani, è divenuta un bene rifugio e in qualche misura posizionale, dato che l’enorme e repentina domanda non ha trovato un equilibrio con l’offerta, assolutamente proporzionata in termini di normale vita sociale, ma impreparata a reggere la pressione di un consumo di massa. Naturalmente ciò ha aperto il varco a possibilità speculative, ma questa è un’altra storia; 3. Alcuni indossano mascherine ottenute in modi poco limpidi, e che potrebbero essere di maggiore utilità se nelle 192 Volti Virali mani, anzi nei volti dei sanitari o di chi lavora nei luoghi più a rischio (strutture ospedaliere in primis); 4. Il nostro approcciarci alla mascherina come supporto facciale ha dovuto immediatamente rimodularsi. Da una primissima reazione terrorizzata, dovuta al fatto che, appunto, questo oggetto prima d’ora e almeno in Occidente si era visto principalmente in certi film, dove ci sono pandemie letali e chirurghi pazzi, o lo si era associato a culture lontane, esotiche e un po’ spaventose, si è passati a un’amara accettazione. È Slavoj Žižek a dirci che la nostra reazione alla pandemia ha tutti i tratti, amarissimi, delle fasi di reazione in risposta a notizie orrende, come la comunicazione di avere una malattia terminale: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione.11 Molto in fretta abbiamo dovuto accettare una risemantizzazione drastica della nostra cultura del volto, fondata sulla visibilità, in una cultura della protezione e del nascondimento. Accanto a queste mascherine, che, pur se di modelli diversi, ci hanno molto livellati (un livellamento purtroppo distante da quello che alcune ideologie sognavano, in cui tutti hanno pari diritti e opportunità, fondato invece su una mutua caducità), naturalmente il web ha risposto con la solita diatriba fra raziocinanti seriosi e cinici, in fondo anche essi spaventati. Una lunga sequela memetica, in cui si staglia lo 11 Lo sostiene il filosofo all’inizio di Virus (2020, Ponte alle grazie: Milano), riferendosi al lavoro psichiatrico di Elisabeth Kübler-Ross, 1976, La morte e il morire, Cittadella: Assisi. 193 Bruno Surace spettro che va dagli strafottenti agli indignati, è già oggetto delle analisi di molti studiosi, e non intendo soffermarmici. Intendo invece rimarcare due elementi: che la mascherina opera una forma di occultamento del volto, la qual cosa è un dato inquietante nei termini di molte culture, le quali addirittura legalmente sanciscono l’obbligatorietà di tenere il viso scoperto nei luoghi pubblici (per motivi di immediata identificabilità, ma anche, più trivialmente, perché il volto è un dispositivo di agency-detection),12 e che il contraltare di questa nuova, e si spera transitoria, società di volti bendati all’esterno, è invece una società di volti scoperti all’interno, bisognosi di esporsi ai volti altrui mediante la digitalizzazione. Invero l’epidemia è stata l’occasione di un boom di video online, teleconferenze, videochiamate di gruppo, in cui tanti piccoli volti compongono alveari facciali che, un po’ tetramente, sembrano assimilare la società globale più a un termitaio, su cui vigono logiche di stigmergia digitale e di 12 Testo Unico sulle leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773), art. 85: “È vietato comparire mascherato in luogo pubblico. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa da euro 10 a euro 103”. Legge 22 maggio 1975 n. 152, aggiornata con la legge 533 dell’8 agosto 1977 e poi dall’art. 10, comma 4-bis, D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro. Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza”. Ne deduciamo di essere ufficialmente in una strana zona grigia, per la quale potrei anche decidere di denunciare chiunque veda dal balcone in giro per strada con la mascherina. 194 Volti Virali intelligenza dello sciame, che a un complesso di individui valorizzati nella loro singolarità.13 Al di là di questa considerazione, su cui pesa lo spettro dell’indefinitezza temporale di questa crisi, è positivo rilevare lo sforzo molteplice in questa lotta a non “perdere la faccia”, non più nei termini della metafora goffmaniana,14 ma come colpo di reni universale in difesa del valore del volto come definizione fondamentale di un’umanità che non vuole perdersi. Fig. 1: Un alveare facciale, in ogni cella un piccolo volto sorridente (da una videoriunione accademica tramite software Webex ai tempi del Covid-19) Questa moltiplicazione esponenziale nella digitalizzazione del volto è infatti dovuta solo parzialmente a un effettivo bisogno comunicativo. Molte delle informazioni che ci si scambia durante una videoriunione lavorativa sono in re13 Per stigmergia si intende una modalità di comunicazione ambientale, adoperata ad esempio dalle formiche nel disporsi a formare quelle che dalla nostra prospettiva appaiono come delle geometrie, senz’altro affascinanti, ma nelle quali si rischia di perdere il valore del singolo insetto. 14 Cfr. E. Goffman, 1967, Interaction Ritual, Aldine: Chicago. 195 Bruno Surace altà più efficacemente trasferibili nel corpo di una e-mail. Se poi si tratta di una videochiamata multipla con i propri famigliari, allora la quantità di informazione che passa è quasi nulla, specie nella contezza che una vecchia locuzione, che in molti credevano dismessa, va rispolverata: il digital divide. I fortunati possessori di connessioni velocissime, mediante fibra, sono ancora oggi una minoranza rispetto a chi invece è costretto a effettuare queste videoconferenze, che richiedono una velocità di trasmissione dati elevata, con mezzi meno prestanti, e ciò ricade nella qualità generale dello scambio, che risulterà “scattoso”, in ritardo, e così via. Ciò non significa che non vi sia però uno scambio semiotico rilevante. La dislocazione forzata dei corpi ha generato una rilocazione proporzionale dei volti attraverso i media digitali come reazione fàtica. È, in altri termini, la generazione di un surrogato ontologico, cioè della manifestazione di un esserci e di un esserci ancora mediante una praesentia in absentia che passa attraverso la faccia, proprio quella faccia che, nei rari momenti in cui si esce, va coperta il più possibile. Il volto digitale durante l’emergenza è dunque un volto che anzitutto si sforza di sorridere (fig. 1), ma che non sempre ci riesce, e infatti spesso queste videoriunioni, nel raggiungimento di una sorta di autocoscienza di gruppo, si tramutano nel silenzio imbarazzante di tutti e nella rivelazione di una diffusa tristezza (fig. 2), che non svilisce il loro obiettivo ma semmai lo magnifica, mettendo peraltro in crisi alcune idee semiotiche che già circolavano in precedenza, quando questi formati esistevano ma erano relegati agli YouTuber e ai live streamer. 196 Volti Virali Fig. 2: Alveare facciale in modalità distensiva. Lo sforzo di sorridere comune si tramuta in una espressione spontanea di afflizione, condivisa contemporaneamente da tutti i volti nelle celle. Nda: si tratta, come per la fig. 1, di uno screenshot autentico, senza post-produzione. Solo osservandolo ex post ci si rende conto di questa strana “affinità elettiva”. Parlo qui, appunto, dei video girati in primo piano, discorrendo direttamente di fronte alla camera, interpellando i propri followers, suturandosi ad essi. È chiaro agli studiosi che questo formato, oggi estremamente diffuso (come conseguenza della diffusione delle logiche di prosuming),15 non rende realmente più vicini i produttori di contenuti a chi li guarda, ma produce una retorica della vicinanza, resa possibile dalla differenza sostanziale che vige fra prossemica digitale e prossemica classica,16 cioè la dislocazione corporea in 15 La categoria del prosumer è quella di un consumatore che è anche produttore di contenuti. Si tratta di una categoria oggi sostanzialmente superata, ma ampiamente utilizzata qualche anno fa nel momento di espansione dei media digitali e della produzione di contenuti “dal basso”, dall’intimità della propria cameretta o del proprio soggiorno, oggi assolutamente nella norma. 16 Sulla prossemica digitale cfr. E. Fadda, 2018, Troppo lontani, troppo vicini. Elementi di prossemica virtuale, Quodlibet: Macerata. 197 Bruno Surace spazi, tempi, e spazio-tempi diversi fra chi emette e chi riceve il messaggio. Se è vero però che non c’è testo senza contesto, in questo nuovo contesto le nostre considerazioni vanno riviste. Non è più un dato retorico il mostrare il volto in primo piano, nei propri video, nelle proprie conferenze, nella teledidattica etc. Non è esclusivamente una squisita operazione enunciativa fatta per, come si dice, embrayarsi al messaggio, cioè dare l’effetto a chi lo riceve di essere vicino a chi l’ha mandato. È un nuovo modo effettivo della vicinanza, è il modo più “autentico” che abbiamo per sopperire al distanziamento coatto (si dirà forse che è un modo retorico altrettanto, ma ciò è vero solo se si considera la totalità delle relazioni umane come a fondazione retorica, così annullando il senso della parola). Il volto digitale si configura quindi come crocevia attorno a cui passa la condivisione di una precarietà sanitaria, che muta in una precarietà esistenziale esorcizzata dal vederci, pur se confinati in casa, senza mascherine o intubati, ancora proprietari del nostro principale dispositivo identitario: la faccia. In questa fase la prossemica digitale appare come totalmente suppletiva di quella fisica, lusso rimasto a chi di noi ha la fortuna di abitare con qualcuno, e comunque decisamente messa a repentaglio da una diffusa paranoia nei confronti del corpo dell’altro. Siamo passati dal corpo senza organi al volto senza corpo.17 17 La formula del “Corpo senza organi” deriva anzitutto da Antonin Artaud, ma poi si sviluppa in una riflessione complessa, anzitutto riferita a Gilles Deleuze e Felix Guattari. L’idea di fondo, le cui implicazioni filosofiche sono gigantesche e non ripercorreremo qui, è che sebbene il corpo sia fatto, fisicamente, di organi, la sua idea più pura non debba contemplarli. Scrive Artaud: “Il corpo è un corpo / è solo / e non ha bisogno di organi / il corpo non è mai un organismo / gli organismi sono nemici del corpo” (2003, Il corpo senza organi, trad. it. M. Dotti, Mimesis: 198 Volti Virali Cinesica e aptica del volto digitale La fig. 2, che pure tende a immalinconirci, è rilevante e può essere letta anche positivamente. Essa cristallizza in effetti un momento di abbandono, che in qualche modo rileva degli sforzi nel mantenere, almeno in quel che resta della sfera pubblica, una volontà comune, né ipocrita né cinica. Ci dà insomma la dimensione del valore del sorriso,18 inteso come dispositivo cinesico. La cinesica è quella disciplina a vocazione semiotica che si occupa di studiare il modo in cui comunichiamo con il nostro corpo e i suoi movimenti. Nell’ambito specifico del volto a lungo ci si è occupati ad esempio di come movimenti impercettibili e involontari della nostra faccia possano rivelare le nostre sensazioni o le nostre intenzioni. Basti pensare al lavoro di Paul Ekman, noto oggi anche ai non esperti grazie alla serie televisiva Lie to Me (2009-2011).19 Così la nostra faccia sarebbe una sorta di mappa su cui poter leggere quello che pensiamo e quello che sentiamo. Ciò è maggiormente vero se si pensa nuovamente all’attuale situazione, in cui la nostra relazione con gli altri è ridotta quasi totalmente a una trasmissione video che, nella buona parte dei casi, proietta esclusivamente il nostro volto in primo piano (dalle spalle in su). La mancanza del resto del Milano). L’idea di corpo senza organi dunque riguarda un superamento di una concezione organicistica del corpo, in favore forse di una visione gestaltica. Così il volto digitale il nuovo corpo, la sua summa, non più sezione ma “suzione” (assorbimento, inglobamento, incorporamento). 18 Cfr. anche A. Perissinotto, 2012, “Per una semiotica del ridere”, in C. Maeder, G. P. Giudicetti e A. Mélan, a cura di, Dalla tragedia al giallo, Peter Lang: Berlino. 19 Cfr., fra le altre, P. Ekman, 2003, Emotions Revealed: Understanding Faces and Feelings, Weidenfeld & Nicolson: London. 199 Bruno Surace corpo, cui noi affidiamo ad esempio tutta quella parte della comunicazione fatta di postura, gesticolazioni, abbigliamento, appropriazione dello spazio, non può che tradursi in un potenziamento della mimica facciale, che ci chiede un ulteriore sforzo di natura, se vogliamo, recitativa. Siamo quindi lontani dall’impostazione di Ekman, che invece si sofferma proprio su ciò che nel volto è non-recitato, ma automatico. Lo sforzo di sorridere di fig. 1, rotto dalla distensione di fig. 2, che però verrà subito “corretta”, è proprio una forma di supplenza, non dissimile da quelle praticate ad esempio dagli attori nel cinema delle origini, i quali in mancanza del sonoro acuivano la mimogestualità facciale affinché passassero contenuti emotivi che altrimenti avrebbero faticato ad essere trasmessi.20 La disperazione così, non potendo essere affidata a delle urla udibili, doveva essere impressa in un volto visibilmente contrito. È la mancanza di qualcosa che potenzia ciò che rimane. Così accade anche, notoriamente, per chi manca di arti e sviluppa in maniera aumentata quelli di cui è provvisto (persone senza braccia che riescono a mangiare “impugnando” le posate con i piedi), o è sprovvisto di certi sensi e ne acuisce degli altri (i non vedenti che rafforzano le proprie capacità uditive od olfattive). Oggi, a tutti, è stato virtualmente reciso il corpo – mediante la sottrazione della possibilità di muoversi e appropriarsi dello spazio esterno alla propria dimora – e così automaticamente il volto, ancora “movimentabile” mediante i mezzi digitali, è stato potenziato. Lo sforzo di sorridere fa parte di tale scenario. E in questo panorama fatto 20 Cfr. C. Jandelli, 2016, L’attore in primo piano. Nascita della recitazione cinematografica, Marsilio: Venezia. 200 Volti Virali di compensazioni, in cui la mimogestualità facciale assume un ruolo rilevantissimo, il volto digitale sembra inoltre addirittura vantare connotazioni aptiche, cioè tattili. Guardarsi online, cenare a distanza con la webcam puntata sui nostri volti masticanti, è una nuova modalità di abbraccio. Ma tornando alla mimica, ecco dunque stagliarsi due orizzonti positivi, che inquadrano la crisi come potenziale occasione feconda. In primis il nostro sforzo, che travalica le singole limitazioni fàtiche (connessioni di bassa qualità, mezzi non all’altezza etc) e ulteriormente quelle emotive (la voglia di piangere che è repressa dal bisogno di mostrarsi vicendevolmente sorridenti), rinnova attraverso il volto un’idea di umanità sinceramente interessata all’altro. La menzogna dietro il sorriso digitale, di cui tutti siamo più o meno intimamente consapevoli, è, come vuole il proverbio “a fin di bene”. Non del nostro bene, ma del bene di chi è dall’altro lato dello schermo, più che mai inteso come una eterotopia che mette in congiunzione due spazi lontani e reciprocamente irraggiungibili.21 La tensione comune è insomma quella di mostrarsi agli altri come su di morale, quando invece tendenzialmente non lo si è, ed è un dato condiviso, che non può che farci riflettere come forse, senza scadere nel buonismo d’accatto, ci sia la possibilità di rileggere l’umanità al di là del frame esclusivamente individualistico e neoliberistico che le si è conferito negli ultimi anni. 21 Questa concettualizzazione di eterotopia è dovuta anzitutto a Michel Foucault, che appunto la descrive come un luogo capace di mettere in congiunzione due spazi altrimenti impossibili da annettere, come accade per lo schermo cinematografico, che unisce lo spazio della sala a quello dei Caraibi, del Polo Nord e così via, e come accade oggi con i nostri schermi, che avvicinano i nostri volti infrangendo virtualmente l’invalicabile metro di distanza di sicurezza. 201 Bruno Surace Da un punto di vista poi delle nuove sfide ci si parano innanzi gli orizzonti della formazione, della pedagogia, e della docimologia, chiedendoci di ripensare le modalità di insegnamento, di valutazione, di trasmissione della conoscenza. Questa situazione ci è data come obbligatoria, ma ciò non significa che non possiamo trarne dei dati a nostro vantaggio. Ed è evidente, soprattutto, che il volto assume una dimensione preminente nel contesto della teledidattica, assumendo un carico comunicativo che prima era distribuito nell’interezza del corpo, ma anche costituendo un simulacro della presenza che potenzia il suo valore identitario. È il caso degli esami universitari online, per i quali lo sguardo fisso in camera, cioè l’ocularizzazione totale della persona, inizia a essere considerato come probante di una performance condotta senza l’ausilio di appunti celati nel fuori campo.22 A questo proposito ritengo che una soluzione del genere sia al contempo inefficace, poiché esistono metodi per celare gli appunti direttamente sullo schermo, così dando l’impressione di guardare il docente quando in realtà si consultano documenti, e soprattutto retrograda. Nell’ottica di una sostanziale riconversione di antiche prassi accademiche, resa necessaria dal distanziamento sociale e che ci sta obbligando a riconfigurare la nostra identità, il tema del corretto svolgimento degli esami di profitto è senz’altro rilevante, ma fondare le nuove modalità a partire da una mancanza di fiducia negli studenti – i quali pure, va detto, alle volte ci spingono a chiederci quanto se 22 Mi si consentirà qui un’ulteriore rilevazione: siamo pienamente in un regime ontologico in cui termini usualmente relegati all’ambito dei film studies, come fuori campo, diventano descrittivi di situazioni extra-cinematografiche, come un esame universitario, e questo è un dato analiticamente di rilievo. 202 Volti Virali la meritino – non sembra essere un bel punto di partenza. Inoltre l’ipotesi di una concentrazione esclusiva sugli occhi è riduzionistica. Al contrario è bene entrare nell’ottica che la voltificazione digitale della persona non può che consistere in una forma di convocazione per certi versi inedita, per la quale alcune pratiche consolidate, come quella di interrogare gli studenti senza guardarli in faccia, vadano riviste. In questo caso i volti coinvolti invece dovranno anzitutto in maniera attiva guardarsi vicendevolmente, darsi conferma di reciproca consapevolezza dell’altro, oltre che instaurare lato docente una serie di espressioni che, come già accade, segnalino allo studente l’andamento dell’esame, così come da parte dello studente che segnalino la convinzione nella risposta. Il volto senza corpo è un volto maggiormente coinvolto, recitativo (quand’anche reciti spontaneità), performativo. È a partire da queste considerazioni che in sede pedagogica e docimologica occorrerebbe riflettere, soprattutto rendendosi conto che questo terreno di sperimentazione forzata potrà sortire i suoi frutti soprattutto dopo la fine del contesto di crisi, finanche andando a costituire una soluzione complementare (se non addirittura, ma questo è uno scenario, forse fortunatamente, improbabile, del tutto sostitutiva). 203 Bruno Surace Bibliografia Artaud, A. (2003) Il corpo senza organi, trad. it. M. Dotti, Milano, Mimesis. Cirese, A. M. (1984) Segnicità, fabrilità, procreazione: appunti etnoantropologici, Roma, CISU. Ekman, P. (2003) Emotions Revealed: Understanding Faces and Feelings, London, Weidenfeld & Nicolson. Fadda, E. (2018) Troppo lontani, troppo vicini. Elementi di prossemica virtuale, Macerata, Quodlibet. Fontanille, J. (2015) Formes de vie, Liège: Presses universitaires de Liège. Goffman, E (1967) Interaction Ritual, Chicago, Aldine. Idone Cassone, V., Surace, B. e Thibault, M. a cura di (2018) I discorsi della fine. Catastofi, disastri, apocalissi, Roma, Aracne. Jandelli C. (2016) L’attore in primo piano. Nascita della recitazione cinematografica, Venezia, Marsilio. Kübler-Ross, E. (1976) La morte e il morire, Assisi, Cittadella. 204 Volti Virali Leone, M. a cura di (2017) Aspettualità. Lexia – Rivista di semiotica, 27-28, Roma, Aracne. Ligabue S. a cura di (2008) Rispondere al trauma. Quaderni di psicologia. Analisi transazionale delle scienze umane, 49, Milano-Udine, Mimesis. Lino, M. (2014) L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema: catastrofi, oggetti, metropoli, corpi, Firenze, Le lettere. Lorusso, A. M. (2015) “L’abito in Peirce. Una teoria non sociologica per la semiotica della cultura”, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, pp. 270-281. Marino, G. e Thibault, M. a cura di (2016) Viralità. Lexia – Rivista di semiotica, 25-26, Roma, Aracne. Perissinotto, A. (2012) “Per una semiotica del ridere”, in C. Maeder, G. P. Giudicetti e A. Mélan, a cura di, Dalla tragedia al giallo, Berlino, Peter Lang. Žižek, S. (2004) L’epidemia dell’immaginario, Roma, Meltemi. Žižek, S. (2020) Virus, Milano, Ponte alle grazie. 205 L’altra faccia de/con la mascherina sanitaria Riflessioni a partire dalla filosofia delle emozioni e degli artefatti Marco Viola Università di Torino Lavoro come infermiera al reparto COVID [...]. Per noi è cambiato tutto. Guardando dei miei pazienti avevo voglia di fargli un sorriso. Ma da sotto le mascherine… le espressioni non si vedono1 è possibile che l’uso delle mascherine possa addirittura aumentare il rischio di infezione a causa di un falso senso di sicurezza...2 Affermato dalla dott.ssa Sarah Palomba, video-intervista Ciao Italia, come va? - La vita ai tempi del coronavirus, pubblicata il 18 marzo 2020 all’URL https://www.facebook.com/thejackalweb/videos/510642 939645206/?v=510642939645206 2 Ministero della Sanità, FAQ - Covid-19, domande e risposte, consultato il 20 marzo all’URL http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioFaqNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=228 1 Introduzione3 Mi accingo a scrivere queste righe mentre il virus SARSCoV-2 imperversa in tutti i continenti abitati. Tra le prime ad essere colpite, l’Italia ha reagito con particolare solerzia, promuovendo imponenti misure di distanziamento sociale tramite una serie di decreti battezzati #Iorestoacasa. Insomma, si esce da casa il minimo indispensabile, giusto per procurarsi i beni di prima necessità; e quando lo si fa, le strade sono semideserte. Quand’anche capiti di incontrare qualcuno, si fatica a scorgerne il volto, perché spesso e volentieri coperto da una mascherina (fai da te, chirurgica o con respiratore; per comodità racchiuderò tutte le categorie nell’espressione “mascherina sanitaria”). Un tempo recluse nelle corsie degli ospedali, in rari casi impiegate per proteggere soggetti con problemi respiratori, o più recentemente per contrastare gli effetti dell’inquinamento, le mascherine sono diventate uno degli artefatti protagonisti delle nostre vite con il diffondersi del SARS-CoV-2. In questo breve saggio non mi avventurerò a discutere della loro efficacia in quanto oggetti di prevenzione, tema tuttora controverso presso gli esperti. Ragionerò invece di come questo artefatto interagisca con alcuni aspetti delle sfere emotiva e comunicativa. Per imbastire la discussione, comincerò condividendo alcune riflessioni generali sulle funzioni delle emozioni e di alcuni artefatti che mimano il 3 Ringrazio Massimo Leone per l’invito a riflettere su come (la mascherina) modifica la faccia ai tempi della pandemia, nonché i colleghi Marco Fasoli, Anna Ichino, Agostino Pinna Pintor ed Ernesto Sferrazza Papa per alcune discussioni sul tema. 209 Marco Viola comportamento delle emozioni nel preparare gli individui a determinati comportamenti, e che facilitano la comunicazione tra individui. Dalle emozioni agli artefatti Lo studio scientifico delle emozioni è frammentato in numerose correnti teoriche, spesso in opposizione (anche accanita) tra loro (Scarantino 2016; Caruana e Viola 2018). Nonostante le numerose controversie, sulla scorta di Darwin (1872) diversi studiosi concordano sul fatto che le emozioni (o per lo meno qualche loro componente) abbiano giocato un qualche ruolo rilevante per garantire il successo evolutivo di una specie – e che dunque il loro meccanismo di funzionamento sia spiegabile rifacendosi al loro ruolo nella storia evolutiva (Scarantino 2016, p. 37). L’esempio più noto è quello degli psicologi evoluzionisti, che concepiscono le emozioni alla stregua di routine comportamentali selezionate dall’evoluzione per predisporre gli organismi a certi tipi di azioni, onde predisporli ad affrontare efficacemente sfide cruciali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie (Tooby e Cosmides 2008). D’altro canto, anche per una studiosa distante da questa prospettiva quale Lisa Feldman Barrett (2017) la vita emotiva si costruisce, semplificando, intorno a processi biologicamente innati che permettono di monitorare lo stato interno del nostro organismo (enterocezione); attorno a questi l’esperienza e la cultura costruiscono poi risposte emotive atte a guidare l’organismo nel cercare nell’ambiente quelle risorse che lo preservano in equilibrio (allostasi). 210 Volti Virali Tra i tentativi di spiegazione delle emozioni in base alle funzioni evolutive possiamo menzionare la proposta dello psicologo Buss (2013), che rivendica il ruolo evolutivamente saliente della gelosia come meccanismo “per proteggere [un soggetto] contro potenziali minacce a una relazione romantica” (p. 172). Per questo, propone che sia annoverata tra le emozioni di base. Quest’ipotesi è considerata piuttosto eterodossa perché sfida un assunto più o meno implicito della teoria di Ekman, probabilmente il teorico più influente nel dibattito delle emozioni negli ultimi decenni del Novecento: l’idea che ad ogni emozione di base sarebbe associata un’espressione facciale caratteristica4. Un esempio di spiegazione funzionalista ed evolutiva che si inserisce nel solco delle più ortodosse emozioni di base è l’ipotesi che il sollevamento delle palpebre associato alle espressioni facciali convenzionalmente associate alla paura o alla sorpresa sia finalizzata ad un ampliamento del campo visivo (fig. 1b). Al contrario, l’arricciamento del naso e della bocca tipico del disgusto viene spiegato come un adattamento volto a minimizzare l’input sensoriale, specialmente olfattivo e tattile (fig. 1a. Susskind et al. 2008). L’espressione prudenziale “convenzionalmente associata” è motivata dal crescente scetticismo nei confronti della teoria di Ekman (es. 1992), secondo cui vi sarebbero sei emozioni di base che correlano in modo piuttosto specifico a determinati pattern di movimenti dei muscoli facciali. In realtà, a ben vedere Ekman ammette in via teorica la possibilità che alcune emozioni presentino manifestazioni diverse da quelle facciali; tuttavia, non le prenderà mai in considerazione emozioni prive di una marcatura facciale, come invece faranno gli eredi contemporanei della sua prospettiva teorica (Keltner et al. 2019). Per una recente ed esaustiva rassegna critica del rapporto tra movimenti facciali ed emozioni, si veda Barrett et al. (2019). 4 211 Marco Viola Fig. 1. Espressioni facciali di (a)disgusto (b)paura tratte dal Complex Emotion Expression Database, messo a punto e validato da Benda e Scherf (2020). Questa configurazione facciale assolverebbe alla funzione biologica primaria del disgusto: quella di evitare sostanze contaminanti. Laddove la paura ci proteggerebbe da minacce fisiche mesoscopiche (di media taglia), il disgusto ci proteggerebbe infatti da quelle microscopiche - ragion per cui è stato talvolta concettualizzato alla stregua di un’estensione comportamentale del nostro sistema immunitario (ad es. da Schaller e Park 2011). Alcuni autorevoli esperti di questa emozione (Rozin et al. 2008) ipotizzano che il disgusto origini a partire da un sistema primordiale di rifiuto di cibo velenoso (distaste), che sarebbe stato poi evoluto e messo al servizio anche dell’evitamento di vari tipi di patogeni (core disgust), e da lì via via raffinatosi per promuovere l’evitamento di stimoli sempre più complessi (incluse situazioni eticamente dubbie). 212 Volti Virali Soffermiamoci sul core disgust, che Rozin e colleghi indicano con l’efficace espressione “guardiano del tempio del corpo” (2008, p. 764). Stando al modo di ragionare degli psicologi evoluzionisti, questo guardiano può essere concepito alla stregua di un algoritmo biologico volto a farci reagire in maniera rapida e stereotipata a una determinata classe di input. L’assunzione che guida questo tipo di ragionamenti si può compendiare come segue: quando ne va della vita dell’organismo, meglio privilegiare risposte rapide ed efficaci, eventualmente caratterizzate da un prudenziale alto tasso di falsi positivi piuttosto che di falsi negativi (in parole povere: meglio avere una reazione di disgusto in più, e vomitare un cibo buono, che una in meno, e ingerire un cibo tossico). Se però dal lato degli output vi è una certa stereotipia (automatismi comportamentali più o meno simili), il lato degli input lascia spazio a una maggiore variabilità. Infatti, è convinzione di molti teorici che il tipo di stimoli capaci di innescare reazioni emotive siano permeabili a meccanismi di apprendimento, e dunque a condizionamenti culturali e biografici (anche se stimoli diversi sembrano avere diversi gradi di ‘apprendibilità’: vedi ad es. Ohman e Mineka 2001). Per intenderci, è possibile che chi abbia abusato di vino rosso sviluppi una repulsione per questa bevanda, così come è frequente che nelle culture occidentali proviamo disgusto per gli insetti (almeno per ora). Questa repulsione continuerà a manifestarsi che ci piaccia o no: come sottolinea il filosofo Paul Griffiths (1997), una caratteristica peculiare delle emozioni è la loro recalcitranza, ovvero la loro quasi totale im213 Marco Viola permeabilità alle argomentazioni razionali - ragion per cui non basterà asserire che il vino rosso o i grilli non sono nocivi per far cessare le reazioni di disgusto. Tuttavia, nonostante la flessibilità garantita dalla possibilità di apprendimento, il disgusto o analoghi meccanismi istintuali non sono sufficienti a navigare con efficienza in un ambiente complesso come quello delle società odierne. Quando siamo alla ricerca di cibo, il nostro istinto ci porterebbe a prediligere cibi calorici: una scelta evolutivamente vincente per le società di cacciatori-raccoglitori, ma molto pericolosa nelle odierne città, piene di occasioni per abbuffarsi di junk food. Dobbiamo, e per fortuna possiamo, fare uno sforzo in più: immaginarci le conseguenze delle nostre azioni, e orientare le nostre scelte in base alle loro conseguenze a lungo termine piuttosto che a quelle a breve termine. In altre parole, e semplificando al massimo l’ipotesi del marcatore somatico presentata da Damasio (1994), per rifiutare un calorico hamburger in favore di una più modesta insalata, gioverà visualizzare l’impatto a lungo termine di quelle scelte alimentari, e focalizzare la nostra attenzione emotiva su quello piuttosto che sullo stimolo prossimale (si veda anche Paglieri 2012). Tuttavia, anche questo ricorso al ragionamento come strumento per “hackerare” le nostre risposte emotive innate potrebbe non essere sufficiente per agire sempre in modo appropriato. Innanzitutto, non sempre abbiamo tutte le conoscenze necessarie per stimare in modo affidabile le conseguenze a lungo termine delle nostre scelte (per esempio, un’insalata sembra più salutare di un hamburger, ma l’avocado contiene più grassi di molti tipi di carne). In secondo luo214 Volti Virali go, non sempre possiamo permetterci il tempo di soppesare con la dovuta attenzione le conseguenze possibili delle nostre azioni. Da questo punto di vista, gli artefatti e l’ambiente circostante, tanto materiale quanto culturale, possono influenzarci – nel bene o nel male. Anziché lasciarla interamente sulle spalle della nostra paura (intesa qui come meccanismo biologico innato di difesa da minacce mesoscopiche), deleghiamo la responsabilità di proteggerci dagli incendi ai rilevatori di fumo, quella di proteggerci dai ladri agli antifurti, quella di proteggerci dai cavi elettrici alla guaina di plastica con cui li circondiamo (Viola 2020, in revisione). Nella misura in cui svolgono dei compiti analoghi a quelli tradizionalmente attribuiti alle emozioni, possiamo chiamare questi oggetti “artefatti che mimano emozioni”. Questa categoria non va confusa con la categoria degli artefatti emotivi proposta da Piredda (2019): oggetti come le fedi nuziali o le foto di quando eravamo giovani, che hanno o acquisiscono lo scopo primario di alterare lo stato emotivo interno di chi li adopera per periodi prolungati, la cui perdita non ci lascerebbe emotivamente indifferenti, e potenzialmente capaci di contribuire al senso di sé. Le emozioni come strumento comunicativo Ma la funzione delle emozioni non si gioca soltanto a livello dei singoli individui. Per quanto importante, il loro ruolo non si esaurisce nel predisporre il corpo di un organismo ad affrontare certe sfide ambientali. Per lo meno nei mammiferi, e sicuramente negli esseri umani, le risposte emotive costitu215 Marco Viola iscono anche dei segnali che lanciamo ai nostri conspecifici per coordinare le azioni di gruppi (Dumouchel 2008): dopotutto, il successo riproduttivo di una specie dipende anche (e forse soprattutto) dalla capacità dei suoi membri di coordinarsi. Per esempio, nel mondo animale le manifestazioni di forte rabbia sono facilmente riconoscibili e portano gli altri a stare ben alla larga, evitando scontri fisici superflui che potrebbero essere nuocere ai membri di uno stesso branco, e di conseguenza al branco stesso (e a fortiori alla specie). Questa dimensione comunicativa delle emozioni si gioca in grandissima parte nel volto, per lo meno negli esseri umani5. Laddove i ricercatori concordano sul fatto che il volto sia un importantissimo vettore di comunicazione emotiva, vi sono alcuni disaccordi in merito a cosa comporti questa comunicazione. Secondo alcuni, il volto funzionerebbe come una sorta di “specchio dell’anima”, comunicando le emozioni di un soggetto in maniera naturale e non (totalmente) sopprimibile: questa l’ipotesi centrale di Ekman (1972; Da tempo è noto che le facce dei conspecifici (e in particolare dei membri della propria etnia) rappresentano uno stimolo particolarmente saliente per gli esseri umani da un punto di vista neuro-cognitivo, tanto che certe aree corticali risponderebbero in modo deciso e selettivo ai volti (Kanwisher et al. 1997). Recentemente è stato ipotizzato che questo particolare statuto dei volti umani sia dovuto anche alla loro centralità nelle interazioni col caregiver durante lo sviluppo (Powell, Kosakowski e Saxe 2018). Non è però detto che la faccia conservi la sua centralità nella comunicazione emotiva anche nelle altre specie animali, incluse quelle filogeneticamente prossime a noi: ad esempio, tracciando lo sguardo di sei esemplari di macachi rhesus (macaca mulatta) durante l’osservazione di comportamenti emotivi di loro conspecifici, Bliss-Moreau, Moadab e Machado (2018) hanno notato come questi privilegiassero l’osservazione del loro corpo anziché del loro volto. 5 216 Volti Virali ma vedi Barrett et al. 2019). Questo tipo di comunicazione, ancorché decodificabile con procedure “fredde” (come quelle insegnate nei corsi di decodifica delle espressioni facciali promossi dall’azienda fondata dallo stesso Ekman, ma anche dai software di riconoscimento facciale delle emozioni), è verosimilmente veicolata soprattutto da meccanismi di contagio emotivo, che sappiamo essere attivi anche in modo subliminale, fondato sul processamento di aree sottocorticali (Tamietto et al. 2009). Dunque: un cibo mi disgusta, sicché arriccio il naso e la bocca, suscitando una reazione analoga anche presso chi, vedendomi disgustato, sarà sollecitato (spesso in modo subconscio) ad assumere la mia stessa configurazione facciale. D’altro canto, in aperta polemica con Ekman, Alan Fridlund ha proposto che le espressioni emotive non veicolino uno stato interno, ma siano piuttosto da intendersi come strumenti di interazione sociale, il cui funzionamento non deve essere necessariamente esplicito (vedi ad es. Crivelli e Fridlund 2018). Dunque: se arriccio bocca e naso non sto lasciando trapelare un mio stato emotivo di disgusto, ma sto segnalando al mio interlocutore (anche ipotetico) che non voglio che la conversazione prosegua sulla traiettoria adottata finora. A ben vedere, nonostante Fridlund presenti la sua posizione in aperta polemica con quella di Ekman, non pochi studiosi concepiscono le due visioni in modo ecumenico e interconnesso. Recentemente, Scarantino (2019) ha proposto l’idea per cui le configurazioni facciali sarebbero effettivamente strumenti di negoziazione sociali (come in Fridlund), 217 Marco Viola paragonandoli esplicitamente agli speech acts di Austiniana memoria; ma ha sostenuto che questa funzione comunicativa fosse costruita non al posto di, bensì a partire da un certo sostrato emotivo (come in Ekman). Prima di lui, Shariff e Tracy (2011) avevano proposto che la funzione comunicativa delle emozioni sarebbe emersa a partire da una riconfigurazione a fini comunicativi di comportamenti individualmente utili. Si tratta in effetti di un’idea antica, già presente in Darwin e sviluppata in modo raffinato anche da Mead (si veda in proposito Baggio e Parravicini 2020; Caruana e Viola 2020). Come già quella individuale (di preparazione alle azioni), anche la funzione sociale (comunicativa) delle emozioni trascende i volti (e i corpi) degli esseri umani per colonizzare l’ambiente che essi progettano e abitano. Un esempio particolarmente pregnante nelle nostre vite è rappresentato dagli emoji (e prima di questi dalle emoticon), che esercitano il loro potere comunicativo sfruttando la nostra predisposizione a leggere i volti (nonché quella ancor più radicata ad entrare in risonanza con essi). Ma, adottando una concezione libertina di ciò che conta come comunicazione emotiva, si possono trovare numerosi altri esempi: opere d’arte (si pensi all’Urlo di Munch o al Guernica di Picasso); pitture di guerra ed altri ornamenti atti ad incutere timore (o, per dirla alla Fridlund, per minacciare violenza a chi non si sottomette; per altri esempi e un approfondimento, si rimanda a Viola in revisione). A ben vedere, proprio come suggerito da Shariff e Tracy (2011) nel caso delle emozioni, è possibile che alcuni artefatti acquistino un significato comunicativo come effetto collate218 Volti Virali rale, laddove il loro scopo primario era invece di giocare una funzione immediatamente utile alla sopravvivenza dell’individuo. Teniamo a mente questa eterogenesi dei fini nel passare alla prossima sezione. La mascherina Torniamo dunque al disgusto, e collochiamolo nel contesto da cui siamo partiti: quello dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia di COVID-19. Come accennato in apertura, in questi giorni di isolamento sociale vedere volti parzialmente coperti da mascherine sanitarie, un tempo una rarità, di colpo diventa normale; e anzi quasi percepiamo come stranezza quei volti su cui invece la mascherina non è presente. Proprio questa estrema diffusione ha generato una scarsità di mascherine, divenute quasi introvabili, talvolta vendute sottobando con prezzi rialzati. Taluni, per far fronte alla difficoltà di procurarsene una, si sono rivolti a tutorial su YouTube che spiegano come fabbricarsela in casa; tutorial che sono saliti in pochi giorni anche a più di un milione di visualizzazioni6. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, temendo che un abuso generalizzato lasciasse prive le categorie che ne abbisognano veramente, quali operatori sanitari e persone particolarmente esposte, ha più volte invitato a non usarle a meno che (a)non si abbia ragione di pensare di essere positivi al COVID-19, a tutela del prossimo, o (b)se si entra in Per esempio, un video pubblicato su YouTube dall’account di una farmacia in data 5 febbraio (https://www.youtube.com/watch?v=_2LqAJ6lQlU) ha superato il 20 marzo il milione di visualizzazioni. 6 219 Marco Viola contatto con persone positive, a propria tutela. Peraltro, è stato spiegato come non tutte le tipologie di mascherine proteggano efficacemente chi le indossa da un possibile contagio; e ancor meno proteggono chi le indossa dagli altri7. Tuttavia, questa inziale diffida dall’impiegare in modo massiccio le mascherine è stata oggetto di controversie tra esperti (e meno esperti) che vanno intensificandosi (per un parere autorevole pro-mascherine su una rivista medica, si veda Feng et al. 2020)8. Nel frattempo, alcune amministrazioni italiane (regioni e comuni) hanno reso obbligatorio l’uso di mascherine (o per lo meno di foulard che coprano la bocca) per chi uscisse – sia pure in un clima di caos legislativo. Ma già prima di questi obblighi, perché la gente si prendeva la briga di indossare (e magari persino costruire artigianalmente) una mascherina potenzialmente inutile? Appellarsi all’ignoranza delle linee guida del Governo ci pare una spiegazione semplicistica e parziale. Dopotutto, l’informazione sul virus è ancoIn particolare, le mascherine chirurgiche sono consigliate per proteggere gli altri dal contagio, mentre per proteggere se stessi sono raccomandate le tipologie FFP2 e FFP3. 8 A differenza delle culture orientali, dove l’impiego di mascherine è considerato piuttosto comune, le culture occidentali non sono pronte. Paradossalmente, in Italia l’uso di mascherina potrebbe persino stridere con un articolo della legge 8 agosto 1977/533: “E’ vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. E’ in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Il contravventore e’ punito con l’arresto da sei a dodici mesi e con l’ammenda da lire centocinquantamila a lire quattrocentomila. Per la contravvenzione di cui al presente articolo e’ facoltativo l’arresto in flagranza”. 7 220 Volti Virali ra incerta, e molte persone di fronte all’incertezza hanno stimato che i costi dell’indossare una mascherina fossero tutto sommato molto ridotti a fronte dei suoi potenziali benefici, o meglio dei mali che questa potrebbe scongiurare. Nell’adottare questa condotta, sembrano aver adottato la stessa logica sottesa alle emozioni: “nel dubbio, meglio un falso positivo che un falso negativo”. Ma forse c’è dell’altro: è verosimile infatti che la mascherina sia stata investita di un significato emotivo, in quanto oggetto che veicola un certo senso di protezione, riferito tanto a se stessi quanto agli altri. In un certo senso, la mascherina potrebbe dunque essere diventata un artefatto emotivo nel senso di Piredda (2019). Ma c’è dell’altro. Infatti, anche prima di venire investita di questo significato rassicurante, la mascherina è stata concepita come un artefatto che mima un’emozione: quella del disgusto. Nella prossima sezione vedremo cosa significa e cosa implica. Successivamente, vedremo come la mascherina, coprendo una parte del volto, interferisca con la comunicazione facciale, e in un certo senso si sostituisca al volto nel lanciare essa stessa dei messaggi emotivi. Un’estensione (ma non un sostituto) del disgusto Come abbiamo raccontato, le reazioni di disgusto sono tipicamente concepite come uno strumento ereditato per proteggere gli organismi da sostanze potenzialmente nocive. Circoscrivendo la trattazione alle manifestazioni più arcaiche del disgusto, che coinvolgono in particolare la regione orofacciale, proponiamo di concettualizzare la mascherina sanitaria 221 Marco Viola come un suo analogo tecnologico, che ne simula la funzione di “guardiano del tempio della bocca”, ed estende la protezione a sostanze patogene che non sarebbero rilevate e/o efficacemente contrastate dalla contrazione orofacciale tipica del disgusto. Se le emozioni contribuiscono al nostro “sistema immunitario comportamentale”, le mascherine offrono uno strato ulteriore di protezione come “sistema immunitario tecnologico”. Stabilito questo parallelismo tra la mascherina e le reazioni di disgusto rispetto alla loro funzione di evitamento dei patogeni, vorrei sviluppare una breve riflessione ispirata alla letteratura sugli artefatti cognitivi, vale a dire quegli oggetti implicati nello svolgimento di certi compiti mentali: per esempio la scrittura come estensione della memoria, l’abaco e la calcolatrice per il calcolo (Fasoli 2019). Questo tipo di artefatti sono stati oggetto di attenzione ma anche di strenue critiche da parte dei filosofi per lo meno a partire dalla nota invettiva che Platone, per bocca di Socrate, espresse nel Fedro contro l’invenzione della scrittura, che “avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi” (Platone, Fedro, 274c - 275b). Cosa c’entra tutto questo col disgusto, o con quella sua controparte tecnica che è la mascherina sanitaria? Per scoprirlo, consultiamo le raccomandazioni del Ministero della Sanità9 in merito all’uso della mascherina sanitaria: 9 Si vedano le FAQ sul Covid-19 messe a disposizione dal Ministero 222 Volti Virali L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di indossare una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo Coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti o se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo Coronavirus. E ancora: L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di indossare una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo Coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti o se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo Coronavirus, specificando inoltre: Non è consigliato l’uso di maschere fatte in casa o di stoffa (ad esempio sciarpe, bandane, maschere di garza o di cotone), queste infatti non sono dispositivi di protezione e la loro capacità protettiva non è nota. Come abbiamo scritto nell’apertura di questa sezione, pur in assenza di dati abbiamo forti ragioni di supporre che l’uso delle mascherine si sia sovente discostato da queste raccomandazioni, in direzione prudenziale; e così pure le disposizioni di alcuni comuni e regioni. Pur contemplando che la sua mascherina possa avere poca o nessuna efficacia, è ragionevole pensare che alcuni utenti la indossino anche solo per rassicurare se stessi e coloro che potrebbero incontrare. della Sanità all’URL=http://www.salute.gov.it/portale/malattieInfettive/dettaglioFaqMalattieInfettive.jsp?lingua=italiano&id=228, consultato il 22 marzo 2020. 223 Marco Viola Dopotutto, una caratteristica dei fenomeni emotivi è proprio la loro recalcitranza (Griffiths 1997): spesso e volentieri, le passioni non sentono ragioni. Tuttavia, così come il Socrate di Platone temeva che la scrittura potesse indebolire la memoria, anche il Ministero della Salute (e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra gli altri) mette in guardia rispetto al rischio di questo artefatto: Infatti, è possibile che l’uso delle mascherine possa addirittura aumentare il rischio di infezione a causa di un falso senso di sicurezza e di un maggiore contatto tra mani, bocca e occhi. Nell’abbozzare un’analisi di questo fenomeno giova richiamare la distinzione tra artefatti cognitivi complementari, che coadiuvano gli utenti umani in un determinato compito cognitivo, e artefatti sostitutivi, a cui gli utenti appaltano totalmente lo svolgimento del compito (Fasoli 2018; cfr. la distinzione tra Modo 3 e Modo 4 in Casati 2017). Ebbene, nel caso delle mascherine il rischio è che vengano intese come un artefatto sostitutivo, laddove invece la loro funzione di “sistema immunitario tecnologico” va più correttamente intesa come complementare al sistema immunitario comportamentale. Questo sistema immunitario comportamentale non può ridursi alle mere reazioni emotive di disgusto. E questo non perché i nostri meccanismi mentali emotivi subconsci non siano in grado di apprendere: è anzi ragionevole pensare che in queste settimane di contagio abbiano “appreso” una profonda diffidenza verso altri esseri umani, caratterizzata verosimilmente dal classico sbilanciamento verso i 224 Volti Virali falsi positivi piuttosto che i falsi negativi, e che gli psicologi sociali si troveranno a documentare come tale diffidenza appresa protrarrà il distanziamento sociale ben oltre la fine del contagio. Piuttosto, semplicemente, le reazioni emotive non bastano: serve adottare comportamenti che non hanno nulla a che fare con gli istinti e le disposizioni filogeneticamente radicate in noi. Vale a dire: serve quel tipo di pensiero lento, ponderato e analitico che Kahneman (2011) chiama sistema 2, contrapponendolo al sistema 1, che è rapido, intuitivo ma grossolano (come le emozioni). Sempre il Ministero della Salute precisa infatti che L’uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani. Tutto ciò non è facile poiché, oltre alle caratteristiche succitate, il sistema 2 ne ha un’altra: è pigro. Per fortuna, la tecnica potrebbe venirci incontro nel sollecitarlo: se il contagio dovesse protrarsi ancora a lungo, sarà infatti forse utile imparare le lezioni degli scienziati cognitivi che stanno studiando come incentivare (tra le altre cose) il lavaggio delle mani presso il personale medico, ed estendere questo tipo di accorgimenti a più ampie fasce della popolazione (per una panoramica recente ed accessibile si rimanda a Calzavarini et al. 2020). 225 Marco Viola Una comunicazione sovrascritta Come abbiamo accennato, il volto è un importante crocevia della comunicazione non verbale, capace di esprimere emozioni e/o qualcosa di analogo agli atti linguistici. Pertanto, si può dire che la mascherina sta alla comunicazione facciale come un bavaglio a quella linguistica, impedendola o quantomeno ostacolandola10. In effetti, per gli informatici che lavorano sui sistemi automatici di riconoscimento delle emozioni a partire dalle espressioni facciali, una delle sfide aperte è rappresentata dall’ideazione di algoritmi riuscire a decifrare le emozioni anche in volti parzialmente occlusi. Questa sfida è motivata dalla pervasività dei volti mascherati in contesti reali, non solo per via delle mascherine, ma anche per esempio di sciarpe o cappelli (per una panoramica si rimanda a Zhang et al. 2018). Ma cosa accade nella comunicazione umana? In un lavoro che mira a dribblare le critiche al modello forse troppo semplicistico di Ekman (1972), che prevedeva espressioni facciali specifiche per le sei emozioni di base, Jack e colleghi (2016) si sono avvalsi di un approccio interdisciplinare che ha permesso di identificare quattro pattern facciali latenti e pan-culturali. Questi pattern latenti sarebbero poi riconfigurati sulla base di variazioni di origine culturale. Osservando una figura tratta dal loro articolo (fig. 2), si nota come una parte rilevante dell’informazione emotiva 10 A ben vedere, la mascherina impedisce proprio come fosse un bavaglio anche uno specifico tipo di comunicazione linguistica: quella del linguaggio dei segni, in cui certi significati sono veicolati da determinati movimenti facciali e delle mani. Vedi oltre nel testo. 226 Volti Virali sia veicolata dai muscoli orofacciali. Questo vale per i pattern facciali su cui si basano espressioni connotate da un forte arousal, come la sorpresa o uno spavento subitaneo, a carico soprattutto dei muscoli della bocca (Basic Action Unit Pattern 3); ma anche per i pattern esprimenti emozioni positive, maggiormente a carico dei muscoli zigomatici (Pattern 1); e in una certa misura potrebbe riguarda la rabbia, che coinvolge il naso e il labbro superiore (Pattern 4). Figura 2. I quattro pattern latenti di espressioni facciali pan-culturali studiati da Jack e colleghi (2016). Quest’ipotesi può avere implicazioni piuttosto cogenti nella quotidianità della pandemia, così come in ogni contesto dove l’uso delle mascherine è diffuso. Emblematica a tal riguardo è l’affermazione, riportata in esergo, di un’infermiera impiegata in un reparto Covid: “Guardando dei miei pazienti avevo voglia di fargli un sorriso. Ma da sotto le mascherine… le espressioni non si vedono”. L’impatto della mascherina sulla comunicazione non verbale tra personale sanitario e pazienti costituisce un fenomeno di una certa rilevanza, nonostante ancora poco studiato in letteratura. Alcune evidenze sono però suggestive: per esempio, uno studio su 1.031 pazienti condotto a Hong Kong tra l’agosto e il settembre 227 Marco Viola 2011, dopo che l’epidemia di SARS(-01) aveva reso popolare l’uso di mascherine, ha mostrato come il loro medico di base fosse percepito come meno empatico quando indossava una mascherina (Wong et al. 2013). Inoltre, vi è una certa minoranza di persone per la quale la mascherina impedisce anche la comunicazione verbale: i sordi e in generale coloro che hanno problemi di udito, e affidano la loro comunicazione alla lettura del labiale e alla lingua dei segni, basato (anche) su specifici movimenti facciali. Per ovviare a questo inconveniente, l’americana Ashley Lawrence (studentessa di Education for the Deaf and Hard of Hearing) assieme alla madre ha cucito e donato speciali mascherine con una placca trasparente che lascia vedere la bocca (fig. 3). Alla luce delle considerazioni appena svolte sulle barriere nella comunicazione emotiva, è plausibile ipotizzare che un uso di queste mascherine potrebbe apportare dei vantaggi anche al personale sanitario. Un’ultima considerazione sull’impatto delle mascherine nella comunicazione emotiva pertiene il loro ruolo nel ricordarci la situazione odierna del contagio11. La maggior parte della ricerca sulle emozioni svolta con modelli animali si basa su un condizionamento dal sapore comportamentistico: uno stimolo di per sé privo di valore emotivo viene presentato ripetutamente in associazione con uno stimolo dotato di valore emotivo. L’essere umano fa anch’egli parte del regno animale, e dunque non sfugge a queste leggi: un po’ 11 Cfr. le considerazioni sulla Fenomenologia della Mascherina svolte da Marco Fasoli: https://www.doppiozero.com/materiali/fenomenologia-della-mascherina 228 Volti Virali come i celebri cani di Pavlov impararono a salivare al suono del campanellino, anche noi abbiamo appreso ad associare la mascherina alla tragica situazione del contagio. Figura 3. Ashely Lawrence, assieme alla madre, mostra le mascherine da lei ideate. Ed è qui che le mascherine rivelano la loro natura di stimoli emotivamente ambivalenti (Larsen et al. 2017): da un lato ricordano a noi e agli altri la situazione tragica dei giorni del contagio, incentivando le nostre reazioni prudenziali di disgusto; mentre dall’altra rassicurano, magari anche troppo. Anche se è troppo presto per dire di più, la ricerca psicologica sulle emozioni potrebbe avere molto da imparare sulle nostre reazioni alle mascherine, e di conseguenza molto da insegnarci per i tempi che verranno. 229 Marco Viola Conclusioni Questa breve trattazione è stata motivata innanzitutto dall’urgenza di razionalizzare alcuni fenomeni di un mondo che evolve rapidamente sotto la spinta della pandemia. Ripercorrendone i contenuti a volo d’uccello: ho introdotto succintamente alcune nozioni scientifiche sulle emozioni, discutendo della loro funzione per la sopravvivenza e il successo evolutivo e del loro ruolo comunicativo, con particolare riferimento all’emozione del disgusto e alle sue manifestazioni nel volto umano. Sullo sfondo di questo breve excursus, ho riflettuto di come la mascherina sanitaria (in quanto estensione tecnologica del sistema immunitario) svolga un ruolo analogo a quello del disgusto (che ne è un’estensione comportamentale), evidenziando il rischio che il senso di protezione della mascherina faccia abbassare la guardia. Infine, ho osservato come la mascherina ostacoli la comunicazione che avviene mediante movimenti facciali, sovrascrivendovi il significato emotivo che essa stessa tenderà a veicolare. Si tratta ovviamente di riflessioni abbozzate e preliminari, scritte senza alcuna pretesa di sistematicità e con la speranza che possano tornare utili nell’indicare e fertilizzare possibili linee di ricerca. Linee di ricerca che, se il mondo cambierà tanto quanto questi giorni lasciano pensare, sarà opportuno che vengano percorse. 230 Volti Virali Riferimenti bibliografici Baggio, G. & Parravicini, A. (2020). Introduzione. 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